John Stuart Mill
Biografia, Il pensiero filosofico dell’autore, Opere, Approfondimenti, Aforismi e
citazioni i di John Stuart Mill
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1. Biografia
2. Il pensiero filosofico
dell’autore
2.1 Il Liberalismo di J. S.
3.6 Natura, Dio e religione
3.6.1 Utilità della religione
3.6.2 Che cosa fa la religione
per l'individuo?
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Mill
2.2 La logica
2.3 Sociologia, psicologia e
politica
2.3.1 L’etica e la politica
2.3.2 La religione e la
schiavitù delle donne 2.3.3 Utilitarismo delle
norme
2.3.4 John Stuart Mill:
sulla libertà di discussione e di
pensiero 2.3.5 Il pensiero politico
filosofico di John Stuart Mill 2.4 Le critiche tratte dal
pensiero di Mill
2.4.1 Critica
all'apriorismo, l'esperienza
come fondamento e alla logica
3.6.3 Natura e naturale
3.6.4 Esiste una Provvidenza
divina?
4. Approfondimenti
4.1 Il positivismo critico di Mill
4.2 Sul metodo per la conoscenza delle regole di
comportamento dell’individuo
4.3 L'economia politica di
Stuart Mill
4.4 Saggi su alcune incerte
questioni di economia politica
4.4.1 Il Wage-fund
4.5 I Principi di economia
politica
4.5.1 Lo stato stazionario
dell'economia
4.5.2 La teoria economica di
Stuart Mill ed il problema del
socialismo
2.4.2 Invalidità del
4.5.3 Che cosa voleva dire
sillogismo e critica
Marx?
all'induzione
4.6 La teoria della libertà
2.4.3 Critica al principio di 4.6.1 I vantaggi della
causa ed effetto democrazia
2.4.4 Critica
4.6.2 La tolleranza
all'assolutismo determinista
4.6.3 Caratteri generali
del positivismo
4.6.4 Natura e limiti del
2.4.5 Contro l'assolutismo potere che la società può
sociale esercitare sull'individuo
4.6.5 Contro tutte le
2.5 Mill e la divisione del
censure lavoro
4.6.6 Idee sul pluralismo
2.6 Il rapporto tra la
educativo deduzione e l'induzione
4.6.7 Perchè lo stato minimo
2.6.1 Sulle orme di Kant
2.6.2 Il recupero della
4.7La Libertà di espressione e il
tradizione empirista
rispetto dei sentimenti religiosi baconiana 4.7.1 Le Origini della libertà di
espressione nel pensiero liberale
3. Opere
4.7.2 La Libertà di espressione
3.1 System of Logic
nel’età dell’informazione
3.2 Principi di economia
4.7. 3Critica al modello del
politica
libero mercato dell’informazione
3.3 On liberty
4.7.4 Considerazioni sulla
3.4 I Saggi sulla religione di vignetta di Maometto
John Stuart Mill
4.8 I liberali riformatori
3.5 Su La Natura di John
4.8.1 Il liberalismo
Stuart Mill
conservatore
3.5.1 Perché si crede che
4.8.2 Il liberalismo come teoria
la natura comanda e punisce? della divisione
3.5.2 Un antidoto perfetto da
4.8.3 Il principio della non
perfezionare
interferenza 3.5.3 Mill contro Comte e
4.8.4 Libertà economiche e
Spencer
sociali
3.5.4 Una distinzione tra
5. Aforismi e citazioni i di John
felicità e soddisfazione
Stuart Mill
3.5.5 Giustizia ed utilitarismo
5.1 Saggio sulla libertà, 3.5.6 Diritto alla sicurezza
Citazioni dal libro 3.5.7 Giustizia ed opportunità Copyright ABCtribe.com
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1. Biografia
John Stuart Mill (Pentonville, 20 maggio 1806 – Avignone, 8 maggio 1873) è stato un pensatore ed economista britannico. Figlio
dello storico e pensatore scozzese James Mill, amico e sostenitore di Jeremy Bentham e amico di David Ricardo e Jean-Baptiste
Say, fu educato dal padre in modo molto inflessibile con l'obiettivo esplicito di creare un genio intellettuale dedito alla causa
dell'utilitarismo. Mill fu in effetti un bambino grandemente precoce: sin dai tre anni esposto a matematica e storia, a dieci anni
leggeva scorrevolmente i classici greci e latini in lingua originale, a tredici analizzò Adam Smith e David Ricardo, capiscuola della
nuova scienza dell'economia politica. A quattordici anni risiedette per un anno in Francia, stimando in pari misura le montagne, lo
stile di esistenza, gli studi a Montpellier e l'ospitalità parigina di Say. A vent'anni gli sforzi fisici e mentali dello studio lo fecero
entrare in depressione, da cui presto riacquistò la salute. Rinunciò a studiare alle Università di Oxford e Cambridge per non
soggiogarsi al requisito di venire ordinato nella chiesa anglicana. Seguì al
contrario il padre nell'accettare un impiego nella British East India
Company, che tenne sino al 1858. Nel 1858 cessò di vivere la
moglie Harriet Taylor, che aveva sposato soltanto nel1851 dopo ventuno
anni di intima ma casta amicizia (era sposata) e che operò molto sulle idee
di Mill riguardo ai diritti delle donne (On Liberty, The Subjection of Women).
Fra il 1865 e il 1868 fu rettore della University of St. Andrews, l'università
storica della Scozia, e al tempo medesimo rappresentante liberale al
Parlamento per il collegio londinese di City e Westminster, suggerendo il
diritto di voto alle donne, il sistema elettorale proporzionale e la
legalizzazione delle associazioni sindacali e delle cooperative
(Considerations on Representative Government). In quegli anni fu altresì padrino di Bertrand Russell. Come pensatore, aderì all'utilitarismo, teoria etica irrobustita da Jeremy
Bentham, ma da cui J.S. Mill differì in senso più liberale e meno sostenitore del consequenzialismo. Definito da molti come
un liberale classico, la sua collocazione in tale tradizione economica è discussa per il discostarsi di alcune sue posizioni dalla
dottrina classica sostenitore del libero mercato. J. S. Mill difatti, riteneva che soltanto le leggi di produzione fossero leggi naturali, e
quindi immutabili, mentre riteneva le leggi di distribuzione come una fenomenologia etico - politica, individuate da ragioni sociali e,
quindi, modificabili. Di conseguenza, è favorevole alle imposte, quando giustificate da motivi utilitaristi. Per di più Stuart Mill
ammette un impiego strumentale del protezionismo, quando questo sia funzionale a consentire ad una "industria bambina" di
svilupparsi sino al punto da poter concorrere con le industrie estere, momento in cui le protezioni vanno scostate.
2. Il pensiero filosofico dell’autore
2.1 Il Liberalismo di J. S. Mill
Gli avvenimenti che fanno da sfondo al saggio Sulla libertà sono delimitati a pochi anni: l'idea di un lavoro sull’argomento è datato
1854; quella di un libro maturata durante un viaggio in Europa nel 1854-55 quando John Stuart Mill prende coscienza che molti
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piani di lavoro riformistici europei erano liberticidi e che la forza dell' idea pubblica stava carpendo sempre più la libertà; la stesura
occupa gli anni '56-'57 mentre la revisione procede con l'aiuto della moglie Harriet Taylor (cui il saggio è dedicato) sino alla sua
morte all'istante precedente l'edizione, che è del 1859. Sulla libertà è certamente un classico del pensiero politico che, come tutti i
classici, fa insorgere una serie di riflessioni e di problemi e, al contempo, un forte dibattito critico e discussioni mai sopite. Sin
dalla sua edizione - dal 1859 al 1869 ne ha ben quattro – il libro attrae l'attenzione degli esseri umani colte. In questo giorno a
distanza di quasi centoquaranta anni l’esegesi milliana ha perso quell'asprezza di toni che la prossimità alle vicende storiche aveva
favorito, per riflettere sui grandi temi che l’ elaborato sollecita. Temi molteplici dato che Sulla libertà è uno scritto di filosofia politica,
morale, e in parte di sociologia ed altresì perché Mill, con degno di nota
anticipo sui tempi, propone un esame lucida, buona parte ancora
attualmente attuale, sul ruolo dell’uomo, della società e dello Stato nelle
moderne democrazie liberali. A ripresentarcela è Ornella Bellini, studiosa
della filosofia inglese del Settecento e dell'Ottocento, che ha premesso al
testo una chiara e succosa introduzione. In verità, la riflessione politica di
Stuart Mill segna l’avvio del liberalismo verso la democrazia; ma egli,
avendo assimilato la lezione di Alexis de Tocqueville, vide con chiarezza i
due pericoli a cui la democrazia è esposta. Il primo è di carattere politico e
consiste nell'oppressione esercitata sul corpo sociale da una maggioranza
dove predominano gli interessi esclusivi di una classe o di pochi agitatori. La “tirannia della maggioranza” agisce attualmente pure negli Stati che hanno leggi liberali o lo fa mediante quelle deliberazioni
che, benché votate dal Parlamento, sono lesive della libertà dei singoli e dei gruppi sociali; ma il suo veicolo ordinario è istituito
principalmente dall'imposizione sistematica di atti che il potere fa eseguire per mano dei funzionari pubblici. Più ingannevole è la
tirannia che la società medesima esercita non tanto con le leggi quanto con la routine, le consuetudini passive, il disorientamento di
un'opinione pubblica plagiata da miti e pregiudizi. Da un certo punto di vista, la «tirannia sociale» è sufficientemente più grave di
altri generi di sopraffazione politica. “Vi deve pur essere un limite - scriveva Stuart Mill nelle pagine introduttive - alla legittima
interferenza dell’opinione comune sull’indipendenza individuale: e trovare tale limite, conservandolo contro ogni usurpazione, è
fondamentale al buon andamento delle cose dell' uomini quanto la difesa contro il governo assoluto politico.
La questione pratica di come decidere un organico aggiustamento fra l’indipendenza individuale e il controllo
sociale è un argomento su cui quasi tutto resta da fare. Necessitano regole di condotta, sia mediante leggi
appropriate, sia mediante movimenti di opinione pubblica nei molti campi che non si prestano all’azione delle
leggi.”. Contro l'uno o l'a1tro pericolo necessita svolgere efficace azione di contrasto, se si vuol schivare
quello spianamento verso il basso, che rende tutti gli individui analogamente mediocri. Alla schiavitù sociale
deve contrapporre la libertà morale, la riscoperta da parte del maggior numero di cittadini della sfera
intoccabile dell’io. Aperto all'influenza di Claude Henri Saint-Simon, creatore del positivismo in Francia, e per
qualche tempo in relazione diretta con Auguste Comte, il filosofo inglese non seguì mai il socialismo dell’uno
e alle dottrine politiche, di ben differente indirizzo, dell' altro; cercò, al contrario, a più riprese un punto
d’incontro fra il liberalismo e il socialismo, perché la soluzione del problema sociale raggiungesse lo scopo di
limitare il più possibile le ingiustizie, senza per questo far naufragare la libertà in un sistema politicamente
autoritario.
Bisogna tener distinti, per Stuart Mill, il processo che
concepisce la ricchezza e quello che la riassegna nel corpo
sociale. Il primo non può non tener conto delle leggi
economiche, che sono quasi immodificabili; il secondo può
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essere cambiato dalla volontà politica e morale. Stuart Mill si prefigge la soluzione della questione sociale
anche da una serie di rimedi, quali l'elevazione delle classi
lavoratrici mediante l’istruzione, la divisione della proprietà
terriera, l'emigrazione e il contenimento delle nascite. Egli ha
avuto il merito di aver capito che il problema di fondo della
democrazia è la difficile intesa fra i valori di giustizia e di
libertà. Rimane in ogni modo fermo il principio che l'azione
dello Stato è sempre finalizzata alla libertà ed è solamente a
difesa dei diritti dell'uomo che si giustifica l’intervento statale,
assegnando ad esso nello stesso momento precisi limiti. Con
l'onestà intellettuale che lo contraddistingue, Stuart Mill non
può apprezzare che la rivoluzione liberale sia delimitata ed
inficiata dal privilegio di classe. 2.2 La logica L'opera indispensabile di John Stuart Mill è il Sistema di logica deduttiva e induttiva. La logica per Mill è la
"scienza della prova e dell' evidenza". Essa non si occupa delle verità che ci sono note per coscienza
istantanea, come le sensazioni corporee, i sentimenti o gli stati mentali, ma riguarda soltanto le conoscenze
causate da altre conoscenze "per via di inferenza ", verifica, vale a dire la validità della connessione fra più
proposizioni all'interno di un ragionamento. In altre parole, la logica non si preoccupa di investigare la natura
delle cose, ma si delimita ad organizzare i dati di esperienza in forma scientifica.
Alle spalle delle ricerche logiche di Mill vi è pertanto una reale aderenza ai principi dell'empirismo e del
positivismo, La prima operazione della logica è quella della denominazione, vale a dire dell'assegnazione di
nomi alle cose ( non già, lockianamente, alle idee). Il linguaggio è uno strumento del pensiero prima tuttora
che della comunicazione: perciò ogni indagine logica deve cominciare con un'osservazione del linguaggio.
E' in tale quadro che m introduce una famosa ripartizione - ripresa poi, in differente modo, da Frege - fra
termini denotativi ( o non connotativi) e termini connotativi. Si ha estensione quando un termine indica
unicamente un oggetto, senza riferimento ad alcuna sua proprietà o attributo. Per esempio sono termini denotativi tutti i nomi propri. Quando "Giovanni, Paolo o Pietro", indico
unicamente un individuo preciso, senza dare alcuna informazione che lo contraddistingui. Sono invece termini connotativi quelli che individuano una o più proprietà relative ad un soggetto. Tali sono
le qualità: quando dico "bianco" o "razionale" indico la qualità che contraddistingue un determinato soggetto.
Ma sono termini connotativi altresì i nomi comuni, i quali, oltre a denotare i singoli individui, implicano altresì
l'indicazione delle loro qualità: per esempio il termine individuo denota i singoli individui umani, ma connota
anche le qualità (razionalità, corporeità, una certa forma esteriore, ecc. ) che appartengono loro in quanto
umanità. Tale ripartizione è considerevole non solamente per la classificazione dei
nomi, ma pure per quella delle proposizioni che scaturiscono dalla
composizione dei nomi. Quando un predicato esprime un concetto che è già
connotato dal soggetto, la proposizione che risulta non fornisce nessuna
nuova informazione. Per esempio, quando dico che gli esseri umani sono
razionali, non amplio la mia conoscenza, dato che la nozione di razionalità è
già contenuta in quella di individuo. In tale caso si parla di proposizioni verbali
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che, similmente ai giudizi analitici di cui parlava Kant, sono indispensabili ma
improduttive. Nelle proposizioni reali, al contrario, il predicato esprime una
connotazione che non era contenuta nel soggetto e perciò si ha un vero reale, appunto, - allargamento della conoscenza. Ovviamente la distinzione fra la verbalità e la realtà concerne non solamente le singole proposizioni ma pure la loro connessione
e pertanto investe il problema dell' inferenza ovvero, nel senso assai ampio che Mill dà a tale termine, del ragionamento. Affinché
si abbia una vera inferenza - vale a dire affinché il ragionamento apporti conoscenza- necessita che la proposizione conclusiva sia
"contenutisticamente" differente da quella di partenza e non una semplice modificazione verbale di essa. Ma quali sono gli
strumenti logici per assicurare ciò? La logica tradizionale caratterizzava due strade: o l'inferenza dal generale al particolare
mediante la deduzione e pertanto il sillogismo (inteso come forma indispensabile della deduzione) o l'inferenza dal particolare al
generale mediante l'induzione. Mill intende presentare che esiste una terza strada che sta a principio di entrambe le strade
tradizionali: l'inferenza avviene sempre dal particolare al particolare. Cominciamo con l'osservazione del sillogismo, adoperando il
tradizionale esempio: "Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale". Se viene inteso come
dimostrazione di tipo deduttivo, vale a dire se la conclusione "Socrate è mortale" viene ricavata dalle premesse, come il sillogismo
pretende, esso implica inevitabilmente una petizione di principio, vale a dire contiene già nelle premesse quello che si deve
dimostrare nella conclusione.
Difatti nella introduzione maggiore "Tutti gli uomini sono mortali" è già detto che Socrate è mortale, poiché
nell'espressione "Tutti gli uomini" è compreso altresì Socrate. Ciò nonostante il sillogismo può presentare
qualche valore se non lo si considera solamente un metodo deduttivo. In altre parole, la premessa maggiore tutti gli uomini sono mortali non deve essere pensata il punto di
partenza del ragionamento, ma invece il punto di arrivo di una serie di analisi particolari. Dal
momento che sperimento che Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, posso pensare che
altresì Socrate sia mortale e che tutti gli individui lo siano. In altre parole, la proposizione principale è una
formula compendiosa di analisi particolari che è però espressa in termini generali, in questo modo da poter
essere applicata pure a particolari non ancora osservati. In questa maniera le proposizioni generali non
sono che il momento intermedio di una dimostrazione che va dal particolare al particolare, unendo alla serie
dei particolari osservati il particolare cui si applica la conclusione. E, a riprova del fatto che nell'inferenza l’
accesso fondamentale è quello che va dal particolare al particolare e non quello che implica l'universale, Mill
osserva che i bambini e gli animali sono in grado di fare inferenze senza passare mediante la enunciazione
di proposizioni generali: una volta scottati, essi non si metteranno vicino più alla fiamma, pur senza
formalizzare il principio generale secondo cui il fuoco accende. La tesi di Mill per cui qualunque inferenza parte
dall'osservazione dei casi caratteristici poggia sull'assunto che
qualunque nostra conoscenza ha un'origine empirica. Tutte le nostre generalizzazioni sono solamente formule
originate da rassegne di casi particolari, testimoniati
dall'esperienza. Le medesime verità della matematica sono
realizzate mediante generalizzazioni di questo genere: alla loro
base vi sono, in ogni modo, sempre esperienze caratteristici. Copyright ABCtribe.com
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Gli oggetti della matematica, difatti, non sono diversi da quelli
empirici, ma sono i medesimi oggetti empirici pensati facendo
astrazione da alcune loro qualità: per esempio il punto
geometrico è un punto empirico in cui si estrapola
dall'estensione, in questo modo come nella linea si fa astrazione
dall'aspetto delle lunghezza, e così via. Dalla critica che Mill conduce al sillogismo - dall'analisi di casi particolari si ricava una proposizione generale
che sta a principio di una nuova proposizione particolare - si ricava che l'inferenza si basa non tanto sulla
conseguenza, quanto sull'induzione. Adesso il procedimento induttivo che ingrandisce la nostra conoscenza
non è mai l'induzione perfetta, vale a dire quella in cui si pensano tutti i casi relativi ad una sicura classe: in
questo caso, difatti, non c'è un vero accrescimento di conoscenza e l'operazione conoscitiva, di puro
carattere analitico, si diminuisce tuttora una volta a una "trasformazione verbale". Ad esempio, se dico:
"Pietro (l'apostolo) era ebreo, Paolo era ebreo, Giovanni era ebreo" e così via, sino ad elencare tutti i dodici
apostoli, per concludere "quindi tutti i dodici apostoli erano ebrei" in realtà la conclusione non aggiunge nulla
di nuovo alle dichiarazioni sui singoli individui e non è che una riformulazione verbale. Differente è il caso
della induzione incompiuta, che Mill chiama secondo la tradizione induzione per enumerazione semplice. In
tale circostanza, dall'osservazione di un certo numero di casi particolari si assesta una qualità che è relativa
a tutti gli uomini appartenenti a quella classe, altresì a quelli che non sono caduti sotto la mia esperienza.
In questo maniera avviene quando si dichiara: "Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, quindi
tutti gli uomini sono mortali. " Muovendo da particolare a particolare, io conseguo un'informazione su una
qualità dell'intera classe che non mi è tuttora testimoniata dall'esperienza. Ma è proprio tale ampliamento
della conoscenza che può rendere problematica la spiegazione della validità dell'induzione. Se si sperimenta
soltanto un certo numero di circostanze individuali, come posso essere sicuro che le osservazioni fatte per
essi siano validi pure per tutti gli altri casi non verificati? Per secoli gli europei hanno creduto che tutti i cigni
fossero bianchi, dato che non avevano mai visto un cigno nero. In altre parole: se si procede sempre da
particolare a particolare, che cosa assicura la validità della generalizzazione, vale a dire del passaggio dal
particolare al generale? Mill ritiene che sussista un criterio per convalidare tale passaggio e lo ritrova nel
principio dell'uniformità della natura, il quale trova a sua volta la sua migliore espressione nella legge di
causalità indispensabile. Possiamo allargare alla totalità dei casi di una indicata classe le
dichiarazioni fatte in base all'osservazione di un numero limitato
di essi dal momento che congetturiamo che la natura sia
ordinata da leggi, per cui a una condizione naturale debba
inevitabilmente seguire un altro stato similmente determinabile.
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Ciò nondimeno, è Mill medesimo ad scrutare che tale principio
lungi dall'essere indipendente da qualunque induzione è
anch'esso il frutto di un'induzione vale a dire di una
generalizzazione di casi particolari. Ci troviamo pertanto dinanzi
a quella che a molti è sorta una petizione di principio di principio,
in quanto l'induzione trova il proprio basamento nel principio
dell'uniformità della natura, il quale, a sua volta, si basa su un
metodo induttivo.
2.3 Sociologia, psicologia e politica
L'uniformità delle leggi della natura ha come conseguenza istantanea la possibilità di prevedere fatti futuri in
base a quelli passati. "Noi crediamo" egli redige nel Sistema di logica "che lo stato dell'intero universo, a
qualunque attimo sia la conseguenza dello stato di esso all'istante antecedente, di modo che uno che
conosca tutti gli agenti che esistono al momento presente, la loro sistemazione nello spazio e tutte le loro
proprietà - in altre parole le leggi della loro azione - potrebbe annunciare l'intera storia seguente
dell'universo". Accettando del tutto l'assimilazione positivistica delle scienze dell'individuo a quelle della
natura Mill allarga il principio delle prevedibilità degli avvenimenti futuri dall'ambito dei fenomeni naturali a
quello delle azioni dell' uomini. Conoscendo il carattere dell'uomo e gli specifici moventi che operano in lui, è
possibile determinare con certezza quale sarà il suo comportamento futuro.
La scienza cui è affidato tale compito di previsione delle azioni dell' uomini, che dovrebbero poter essere
determinate con la medesima precisione con cui l'astronomia annuncia i movimenti celesti è la psicologia. La
dichiarazione della occorrenza e della conseguente prevedibilità delle azioni future non va tuttavia confusa
con l'asserzione della loro fatalità. La necessità delle azioni dell' uomini implica solamente che fra
determinate cause e determinate azioni ci sia una connessione costante, la quale, dati i primi, rende
possibile immaginare le seconde. La fatalità causerebbe al contrario che alla radice delle azioni umane ci
fossero moventi che agissero coercitivamente, costringendo l'individuo ad ubbidire ad una legge a lui
estranea. In altre parole Mill ritiene che l'affermazione della occorrenza filosofica delle condotte dell' uomini
vale a dire la loro prevedibilità in base a leggi universali, sia del tutto compatibile con quella della libertà
dell'uomo. Se la psicologia si occupa della previsione delle azioni individuali la sociologia riguarda la
definizione delle regolarità nei comportamenti collettivi e, di conseguenza, la intuizione degli eventi sociali
futuri. Da Comte Mill mutua la concezione della scienza sociologica in
termini di fisica sociale, e inoltre il concetto di sviluppo come
criterio dell'evoluzione della società perfino da lui studiata nel suo
aspetto dinamico oltre che in quello storico. Una volta specificata
la legge del progresso storico sarà possibile determinare la serie
degli eventi futuri, così come nell'algebra è possibile accrescere
l'intera serie dei termini in base alla conoscenza del rapporto
passante fra certuni di essi. La posizione di Mill differenzia invece
chiaramente da quella di Comte per quanto riguarda la
concezione dell' economia e della politica, esaminata nei Principi
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di economia politica. Egli discerne fra le leggi della produzione economica che, come tutti gli altri fatti sociali ubbidiscono al
principio della necessità naturale e le leggi della ripartizione che dipendono dalla volontà dell' uomo. Il diritto
e il costume possono pertanto cambiare le regole distributive dando impulso ad una più equa allocazione dei
beni e delle ricchezze. Mill desidera difatti una serie di riforme che si ispirino al principio utilitaristico del
maggior benessere possibile e per il maggior numero di uomini. Fra l'altro egli è sostenitore di una maggiore
equiparazione sociale dei sessi, della partecipazione dei lavoratori all'impresa, dell'estensione del diritto di
voto, e inoltre della fondazione di cooperative di produzione. L'utilitarismo si sposa in lui con l'altruismo - e in
ciò ritorna un’ indicazione comtiano -dal momento che egli ritiene faccia parte della felicità di un singolo la
promozione di quella degli altri: aumentare la felicità altrui è difatti una delle maggiori causa del proprio
piacere. Se l'esigenza di giustizia permette a Mill di valutare qualche merito del socialismo, l’ identificazione
del valore intoccabile della libertà fa di lui un radicale oppositore di tale dottrina. In politica come in
economia, Mill è testimoniato su posizioni di liberalismo radicale.
Il suo pensiero economico-politico è sempre inteso alla rivalutazione dell'uomo e alla difesa degli spazi di
libertà senza i quali nessuna iniziativa singolare può fiorire. Nel Saggio sulla libertà egli colloca alla base
dell'ordinamento dello Stato la libertà civile che si discerne in tre risoluzioni: 1) la libertà di coscienza, di
pensiero e d'espressione; 2) la libertà di inseguire la felicità secondo il proprio gusto; 3) la libertà di
associazione. Di conseguenza, Mill è totalmente contrario a qualunque intervento dello Stato nella vita
economica e sociale della nazione. Gli interventi dell' autorità pubblica nella sfera privata possono essere
ammesse solamente laddove si tratti di difendere la lesione dei diritti di un individuo da parte degli altri. Il suo
liberalismo non gli ostacolò ciò nonostante - come si è appena detto - di nutrire un forte sentimento sociale e
di adoperarsi, sia pure su fondo individualistico, per una maggiore collaborazione e solidarietà fra i differenti
membri della società.
2.3.1 L’etica e la politica .
La logica di Stuart Mill non è fine a se stessa: i primi cinque libri
del Sistema di logica sono preparatori al sesto, dedicato alla
morale. Stuart Mill sorregge da un lato la libertà dell' uomo e
dall’altro l’ opportunità filosofica: la quale contiene che se noi
conosciamo “a fondo la persona e se conosciamo tutti i moventi
che agiscono su di lui, possiamo predire la sua condotta con la
stessa certezza con cui possiamo predire qualsiasi evento fisico”.
La scienza della natura dell' uomo consisterà allora nel poter
predire la condotta futura di un uomo con la medesima certezza
con cui l’astronomia predice i movimenti degli corpi celesti.
Questa scienza è la psicologia. Adesso, sulla psicologia e sulle sue leggi si basa quella che Stuart Mill
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chiama etologia, che non è quella scienza adesso diffusa che concerne la condotta degli animali nel loro
ambiente, ma studia le leggi della formazione del carattere. L’etologia corrisponde per questo all’atto
dell’educazione nella sua accezione più ampia, sia del carattere individuale e sia del carattere sociale o
collettivo. In campo politico, egli ha in comune del socialismo il riconoscimento e la condanna delle ingiustizie sociali,
mentre desidera in ogni modo proteggere, col liberalismo e l’utilitarismo, la libertà particolare. L’individuo
prende come guida per la sua condotta la propria felicità, vale a dire il piacere e l’assenza del dolore.
Ma l’ attitudine dell’uomo verso la propria felicità ha in sé sempre la tendenza verso la felicità altrui. Il
progresso dello spirito dell' individuo allarga il sentimento dell’unità che lega un individuo a tutti gli altri. Le
parole dell’azione del governo negli affari economici sono richiesti dall’esigenza che vi sia “nell’esistenza
umana una roccaforte sacra, sottratta all’intrusione di qualsiasi autorità”. L’intervento di una autorità qualsiasi
nel comportamento di un singolo non può essere giustificato se non nella dimensione in cui tale azione è
giustificata dalla difesa degli stessi diritti individuali. Il che non gli ostacola in qualunque maniera di difendere
tutta una serie di misure (un sistema nazionale di educazione, uno schema nazionale di immigrazione e di
colonizzazione, una legge limitativa sui matrimoni ecc.) che dovrebbero avere il fine di assegnare più
giustamente la ricchezza o di rendere migliori le condizioni del popolo. 2.3.2 La religione e la schiavitù delle donne
Nei saggi postumi rivolti al problema religioso, Stuart Mill pensa
che una divinità esista e che la sua esistenza possa essere
comprovata dall’argomento finalistico. L’ordine della natura non
può che essere stato prodotto da uno spirito enormemente
intelligente in vista di un fine. Tale argomentazione persuade
Stuart Mill perché è, secondo lui, di carattere induttivo e possiede
pertanto la sicurezza di qualunque induzione. Ma quali sono le
altre caratteristiche della divinità, sempre procedendo per
induzione? Che il creatore del mondo debba avere una
importanza e una intelligenza superiore è palese; ma non è
similmente manifesto, secondo Stuart Mill, che debba essere
dotato di potere grandissimo e di onniscienza. .
In altri termini, la concezione della divinità di Stuart Mill è quella di una specie di architetto del mondo. A parte
questo, la religione è fonte per l’individuo di profonda contentezza personale e di sentimenti elevati. Sino a
quando la vita umana sarà insufficiente a contentare le aspirazioni umane, ci sarà sempre l’aspirazione per
le cose più alte e per un conforto più duraturo la quale trova la sua contentezza più ovvia nella religione. Più
che ad una concezione metafisica di un Dio molto influente, l’uomo moderno guarda a Cristo, al Dio
incarnato, divinizzato dalla cristianità, dall’entusiasmo prima dei discepoli e poi dalle speculazioni della
filosofia. C’è una possibilità che Cristo fosse in realtà quello che egli credeva di essere; non però Dio, perché
egli non procedette mai tale pretesa (per Stuart Mill), ma un individuo che ebbe da Dio l’incarico del tutto
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speciale di portare l’umanità alla verità e alla giustizia. Per terminare si cita di John Stuart Mill ancora un’opera, dal titolo “La schiavitù delle donne” (1869), che
rivela un individuo intimamente convinto della parità del valore dei sessi. Nella sua Autobiografia, Stuart Mill
afferma sinceramente che “le parti più incisive e profonde appartenevano a mia moglie e provenivano dalle
idee, ormai comuni ad entrambi, scaturite dalle innumerevoli conversazioni e discussioni su un argomento
che occupava un così ampio spazio nelle nostre riflessioni”. Stuart Mill sorregge che la subordinazione delle
donne agli uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano. Ci dovrebbe essere al contrario una
perfetta uguaglianza, senza potere o vantaggio da parte di un sesso sull'altro. A chi oppone che è naturale
che le donne siano sottomesse agli individui, risponde dicendo che è un'idea priva di principio, anche
perché, aggiunge con una logica stringente, se si sostiene che la dottrina dell'uguaglianza dei sessi si basa
solamente sulla teoria, va ricordato che la dottrina contraria ha anch'essa la stessa base!
Il sistema attuale che sottomette il così chiamato “sesso debole” a quello cosiddetto forte è spuntato perché,
dagli albori della società umana, ciascuna donna si era trovata in balìa di qualche individuo. Non basta: leggi
e sistemi politici hanno mutato un puro e semplice fatto fisico in un diritto legale, infondendovi la sanzione
della società.
Il matrimonio è il destino che la società conferisce alle donne,
l'avvenire al quale si istruiscono e la mèta verso cui tutte
dovrebbero mettersi in movimento, tranne quelle troppo poco
seducenti per essere scelte da un individuo quali sue compagne.
“Mi piacerebbe, dice Stuart Mill, udire qualcuno che enunci
apertamente questa dottrina: è necessario per la società che le
donne si sposino e facciano figli. Ma non lo farebbero se non vi
fossero costrette. Pertanto è necessario obbligarvele”. È pertanto
un egoismo istintivo, di cui gli individui si sono serviti per tenerle in
soggezione, facendo apparire alle donne la dolcezza, la
sottomissione e la remissione di qualunque volontà individuale
all'essere umano come un aspetto sostanziale dell'attrattiva
sessuale. In conclusione, un essere umano per il solo fatto di essere venuto al mondo maschio al contrario che
femmina ha acquisito un diritto di superiorità su ogni componente dell'altra metà della specie. E non giova
neanche sostenere che la natura dei due sessi li indirizza a posizioni da una parte di dominio e dall'altra di
assoggettamento. Certamente le donne sono differenti dagli uomini, ma differenze fisiche o mentali sono
presenti anche nei maschi: non sussistono due persone uguali! “Io nego, continua Stuart Mill, che qualcuno
possa conoscere la natura dei due sessi, visto che quella che viene oggi chiamata la natura delle donne è un
prodotto altamente artificiale: il risultato di una repressione forzata in alcuni casi, di una stimolazione
innaturale in altri”. E si consente anche una battuta: se la situazione più benevolo in cui l'individuo può
studiare il carattere di una donna è per forza di cose quella coniugale, allora siamo destinati ad avere una
conoscenza del tutto incompleta e superficiale dell'universo femminile, visto che qualunque persona può
rendere conto di una donna soltanto! Qual è allora la soluzione? Vivere unitamente come eguali. In fondo, è
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il medesimo mondo moderno che ce lo chiede: qual è difatti il carattere particolare del nostro tempo? (Si
ricorda che il pensatore inglese parlava a metà dell'Ottocento).
È che gli esseri umani non vengono al mondo più nel posto che occuperanno tutta la vita, non vi restano
incatenati da un vincolo inseparabile, ma sono liberi di utilizzare le loro facoltà, e di sfruttare le circostanze
favorevoli che si offrono, per rincorrere il destino che appare loro più desiderabile. Ma se è vero, dovremmo
agire di conseguenza e non statuire che nascere femmina anziché maschio, nero invece che bianco,
popolano anziché nobile, debba decidere la posizione di una persona per tutta l’ esistenza. C'è però un'altra
conseguenza: una perfetta uguaglianza implica altresì l'ammissione delle donne a tutte quelle funzioni ed
occupazioni che sinora erano ritenute monopolio del così chiamato “sesso forte”, altrimenti che uguaglianza
sarebbe? Tutto ciò non deve fare paura agli uomini: vi sarebbe anzi un beneficio manifesto, che è quello di
rendere doppia la massa di capacità mentali per i fini più elevati dell'umanità! In conclusione, se individui e
donne lavorassero insieme il genere umano farebbe progressi più in fretta e meglio. La lezione di Stuart Mill
credo insomma sia tale: si tratta, in conclusione, di renderci libero da tanti preconcetti reciproci e dalle
intolleranze che, nella mentalità corrente, sono tuttora vivi. 2.3.3 Utilitarismo delle norme
Condizionato dall’utilitarismo di Jeremy Bentham, Mill è persuaso
che, vicino ai piaceri di natura fisica, ce ne siano altri, spirituali e
intellettuali: questi, se non altro per il dotto, hanno intensità
certamente superiore rispetto ai primi. In questo modo, Mill
abbandona la “quantificazione del piacere” (il piacere è misurabile
solamente se riferito alla sensibilità) e arriva a sorreggere
apertamente la natura qualitativa dei piaceri. Anch’egli, come gli
altri utilitaristi, è persuaso che il motore dell’agire umano sia il
piacere, inteso però in maniera qualitativa: viene in questo modo
a cadere l’accusa di quanti liquidavano l’utilitarismo come mera
riproposizione dell’etica epicurea. Su tale scia, Mill discerne attentamente fra “soddisfazione” (della quale si accontentano gli animali) e
“felicità”, tipica degli individui e contraddistinta da un senso di realizzazione implicante la soddisfazione di
piaceri intellettuali. Mill critica Bentham calunniandolo di non aver considerato i piaceri intrinsecamente, ma
sempre solo per le loro conseguenze accidentali. L’introduzione dell’elemento qualitativo fa sì che la
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matematizzazione dei piaceri fatta da Bentham sia difficilissimo: la conclusione è che la stima dei piaceri
qualitativamente intesi sfugge alla calcolabilità e al cognitivismo etico; l’utilitarismo dell’azione di Bentham
cede il passo ad un utilitarismo della norma. Quest’ultimo conserva il principio per cui le azioni devono
essere stimate in base alle conseguenze, ma nella coscienza che, perché quello sia possibile, si debbano
impiegare regole immagazzinate mediante esperienze pregresse.
Tale mossa teorica consente a Mill di difendersi dall’accusa tradizionalmente mossa all’utilitarismo, accusa secondo la quale esso
sarebbe inapplicabile dato che destinato a restare in un’insuperabile condizione di attesa di verifica delle conclusioni di qualunque
azione. Le norme con cui secondo Mill deve operare l’utilitarismo gli consentono di scansare le secche dell’attesa inattiva e, al
tempo medesimo, gli procurano criteri operativi diversi all’algebra dei piaceri. Tali norme sono, in definitiva, il risultato
dell’esperienza che l’individuo ha realmente fatto a partire dalla preistoria per arrivare sino ad oggi. Con l’utilitarismo delle norme
diviene però difficoltoso riconoscere quali siano le azioni positive, nella misura in cui il piano del piacere è passato al piano
qualitativo e soggettivo e travolge tutta un’esperienza storica. A tale punto, Mill introduce il senso del dovere come costituente interna all’uomo che lo esorta ad agire in un specificato modo: è
difatti il senso del dovere che fa sì che io stimi come positiva un’azione sulla base del patrimonio storico sedimentato nella mia
coscienza. Questo senso del dovere non deve essere confuso con l’imperativo categorico
kantiano, che tralascia dalle determinazioni storiche e ha un valore totalmente
aprioristico: il senso del dovere di cui dichiara Mill ha una sua storia, si basa
sull’utile, ha origine da un sentimento poggiante su tutte le esperienze passate
traspostesi in dimensione coscienziale. In tale maniera, Mill si sta avvicinando
improvvisamente al “sentimento morale” di Hutcheson, secondo cui vi sono
azioni che non piacciono istantaneamente al mio sentimento morale e vanno
per questo incontro a una condanna morale.
2.3.4 John Stuart Mill: sulla libertà di discussione e di pensiero
“Ci sono stati, e potranno esserci, grandi singoli filosofi in una generale atmosfera di servitù mentale. Ma in
una simile situazione non c’è mai stato, né mai ci sarà, un popolo mentalmente attivo. Là dove vi è un tacito
consenso per cui i principi non devono essere messi in dubbio, là dove la discussione sui problemi più
importanti dell’umanità è da ritenersi chiusa, non possiamo sperare di trovare quel livello solitamente alto di
attività mentale che ha reso pertanto straordinari alcuni intervalli della storia. In nessun caso, quando la
discussione ha evitato argomenti così ampi e importanti da suscitare entusiasmo, l’intelligenza di un popolo
è stata stimolata nelle sue radici o le è stato dato quell’impulso che conduce altresì le persone
intellettualmente meno dotate a partecipare in qualche maniera alla dignità di essere pensante”. John Stuart
Mill redige “Sulla Libertà” nel 1859 e in un capitolo preciso prende in considerazione la problematica della
libertà di pensiero, di opinione e di dibattito.
Tale lezione s’inserisce in un ambito italiano in cui il rischio di un'assuefazione è molto alto nei confronti della
gestione della “Res Publica”. E’ augurabile dice Mill, che sia passato il tempo in cui era indispensabile la difesa della libertà di stampa
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come una delle garanzie indispensabili del buon andamento della politica.
Per prima cosa difatti, bisogna sempre considerare che l’opinione che eventualmente si cerca di tacitare
possa essere vera. Pertanto, non consentire che su di essa si discuta, corrisponderebbe a negare a priori la
sua verità. In questo modo facendo, si pone l’impossibilità ad ogni altro di stimare. Rifiutare di prestare
ascolto ad un’opinione perché sicuri che sia falsa, corrisponde a pensare che la propria convinzione sia una
realtà assoluta e quello rappresenta una pretesa di infallibilità. Ma la tendenza generale degli individui è
purtroppo quella di considerare in tal maniera il proprio mondo, il quale al contrario è fallibilissimo tanto
quanto il singolo uomo.
Proporzionalmente alla mancanza di fiducia nel proprio giudizio individuale, ci si fonda di solito con fede
implicita, sulla correttezza del mondo in generale. Ma con quest’ultimo si intende la parte di esso con cui si
sta in contatto: il partito politico, la setta, la chiesa, la classe sociale.
Pertanto il mondo risulta essere tanto vasto quanto il proprio stato o la propria età.
Non c’è necessità neppure di tirar fuori una teoria particolare per
dimostrare che le epoche non sono più infallibili degli uomini e che
solamente il puro caso ha determinato quale mondo sia oggetto
della fiducia personale di un individuo. Occorre mettere in risalto
in realtà, che la libertà di poter confutare la propria opinione, è la
condizione indispensabile per supporre la verità della medesima,
in vista dell’azione. Questa, è a giudicare di Mill, l’unica strada per
un essere umano di assicurarsi logicamente di essere nel giusto.
L’individuo ha una qualità mentale singolare, la capacità di
perfezionare i propri errori. Ciò può accadere solamente però
mediante la discussione e l’esperienza. La prima è indispensabile
perché serve ad indicare come la seconda debba essere intesa.
La costante consuetudine a rifinire le proprie opinioni
raffrontandole con quelle degli altri, costituisce l’unico fondamento
per una giusta fiducia in esse. Le obiezioni e le difficoltà non devono essere evitate. Questa è l’unica strada che consente ad un essere
fallibile di conseguire una data certezza. Per cui è assai strano, spiega Mill, quando si osserva che sebbene
una materia, una dottrina o dei principi tipici siano necessariamente suscettibili di dubbio e pertanto aperti
per natura ad una libera discussione, vengano piuttosto esclusi dalla critica in quanto certi o valutati tali da
chi li sostiene. “Nell’epoca presente- un’età che è stata rappresentata come priva di fede, ma terrorizzata
dallo scetticismo” , le pretese di un’opinione ad essere mantenuta da attacchi pubblici, non si fondano tanto
sulla sua verità, quanto piuttosto sulla sua importanza per la collettività. Pare ci siano, riporta Mill, particolari
credenze ritenute pertanto utili o perfino indispensabili al benessere di tutti che è dovere del governo
sorreggerle negli stessi termini in cui si difende ogni altro interesse per la società.Tale modo di pensare porta
con sé che la giustificazione dei limiti imposti alla discussione divieni una questione non di verità, invece di
utilità delle dottrine. Ma è chiaro che il porre in essere l’utilità di una opinione è già materia di discussione e
di conseguenza necessitante di dibattito come tutte le altre soluzioni.
In tale caso, coloro che sorreggono la non esigenza di un dibattito, non si rendono conto che la pretesa di
infallibilità viene soltanto trasferita da un punto all’altro con relativo alleggerimento delle coscienze.
Purtroppo,non sono soltanto le menti degli “eretici” a venire maggiormente rovinate dalla messa al bando di
qualsiasi analisi speculativa che non si concluda con risultati conformi all’ortodossia: il danno più grande lo
ricevono coloro i quali non sono eretici e il cui pieno sviluppo mentale viene in questo modo bloccato. Copyright ABCtribe.com
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La verità non guadagna nessuna cosa da chi accetta delle opinioni soltanto per togliersi il disturbo di pensare. Inoltre, l’assenza di
un dibattito pubblico causa l’inconoscibilità dei fondamenti della materia di cui si sta parlando e finisce che ci si scorda anche del
suo medesimo significato.
Le parole che la esprimono e la designano non rammentano più immagini mentali e idee.
Si provoca piuttosto un male intellettuale quando la carenza di una libera discussione ha lo scopo di lasciare gli individui
nell’ignoranza dei principi di un’opinione in esame.
Per tutto questo, lasciamo che l’ostilità al progresso sia una pratica e un aspetto da cui trarre lezione, non uno stadio da riesumare.
2.3.5 Il pensiero politico filosofico di John Stuart Mill
Il problema della conciliazione fra liberalismo e democrazia è concepito da Mill
come la immissione per una filosofia politica nuova, che attenta alle ragioni
dell’individuo tenesse ugualmente presenti quelle della collettività. La chiave di
volta non è tanto il pur fondamentale studio della politica e della collettività, ma
la considerazione dell’interesse della rappresentanza politica nella veste di
suffragio universale con sistema proporzionale: difesa della partecipazione
democratica insieme alla libertà dell’uomo e delle minoranze.
Con gli articoli sulla “London& Westminstre Review”, Mill si stacca dal giovanile e radicale benthamismo, facendo fronte al tema della democrazia come sequenziale riforma, attraverso
il consenso del popolo manifestato in proposte discusse dai partiti in un pubblico dibattito Entusiasta agente della rivoluzione di
Luglio (era a Parigi in quei giorni), ma altresì attento ai significati e alla eredità della RF 1989, sorregge il progetto girondino –
sebbene piegato dal giacobinismo e dal bonapartismo – che doveva riprendere vigore coll’ apporto di una middle class, che
avrebbe contribuito al radicamento di tale tendenza parlamentare progressiva.
La libertà, bene ineliminabile ed incedibile, si esprime nella miglior maniera dove le riforme politiche e sociali sono decise da una
maggioranza rappresentativa correttamente elevata quanto politicamente attenta al rispetto dei gruppi minoritari.
Mill aveva in mente una mobilitazione graduale di tutte le componenti della società, al fine di produrre una élite di governo tanto
subordinata al controllo dal basso, quanto capace per le scelte operative.
1) Il sistema di lista non deve annebbiare il ruolo delle minoranze (proporzionalismo).
2) Si deve mettere in moto un processo largo di riforma morale della società che metta fine ai privilegi.
Smontati nel 1832 i borghi putridi, la difesa della libertà dell’uomo diviene un obiettivo concreto, tanto più se
a prendere le gestione del governo è un Reform Party che Mill propone nella rivista come componente da
riorganizzare e rafforzare; fino alla formazione di una classe dirigente colta, e un ulteriore allargamento del
diritto di voto. La visione ciclica della storia è di tipo sansimoniano, ma chiaramente differente nella
conclusione, perché una collettività che si propone si attuare obiettivi impossibili arrischia di cadere nelle
braccia del dispotismo: immaginando una democrazia perfetta, non si erano messi i francesi sotto una
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dittatura militare? Gli interventi di governo devono essere progressivi, e sono le istituzioni di governo a
doverli attuare, nel rispetto delle procedure costituzionali. L’idea di governo indicativo è altresì un’idea
regolativa, la cui radice sta nel Sistema di Logica 1843, scritto di lunga preparazione in cui il riformismo
politico si manifesta per mezzo della persuasione filosofica secondo cui i processi culturali sono soggetti a
lenta maturazione, e sono destinati a concludersi in maniera positiva (progresso generale della società).
Qui è chiara l’influenza della filosofia di Comte (quasi anonimo in
Francia, molto famoso in Uk), con cui Mill immette subito in
contatto epistolare: il positivismo francese, rifatto in chiave
antimetafisica, rincuora Mill al riformismo e alla filosofia
dell’esperienza, non diminuita ad empirismo pratico ma come via
per avere accesso alle scienze e alle regole di comportamento
comuni: per mettere in piedi istituzioni stabili, rappresentative
degli orientamenti politici e dei sentimenti morali. La nuova
filosofia politica doveva del tutto liberarsi dai pregiudizi metafisici
ma se il governo è un’idea regolativa, il padre James considerava
più completamente che esso fosse un cuneo da piantare nel
fianco dell’aristocrazia.
1) L’incremento dei risultati per Mill può avere luogo con la predisposizione di adeguate misure formali di
garanzia contro qualsiasi possibile esuberanza di potere da parte dei legislatori e dei giudici.
2) L’incremento del fattore morale avviene, per come pronunciava Montesquieu, essendo il popolo
particolarmente adatto a scegliere i rappresentanti al contrario che a governarsi da sé.
In astratto, un governo popolare sarebbe senz’altro da preferire, ma dal momento che il popolo non è
capace di gestire direttamente gli affari di stato, è bene affidare tale compito alle individui più istruite e
competenti, le quali incaricheranno la loro responsabilità politica mediante la conquista del mandato
rappresentativo. Gli istituti politici liberal-costituzionali devono essere portatori di un forte fattore educativosociale, come antidoto al dispotismo della maggioranza o in qualunque modo la dominio di capi politici
incompetenti. Le tesi di Tocqueville, che Mill recensì per tutti e due le versioni della Democrazia in America,
aprivano questioni non eludibili, in particolare due:
a) il rigetto del mandato imperativo, dal momento che i deputati godono di una questa fiducia che li rende
per definizione liberi di agire.
b) la possibilità per le minoranze non soltanto di accedere alle assemblee rappresentative, ma di esservi n
queste la pattuglia più avanzata: i migliori componenti per capacità intellettive e qualità morali
convincerebbero il paese a compiere le scelte più giuste il montare della protesta – in Uk anticipata col
Cartismo – impegnava i pensatori politici ad aggiornare la loro concezione di libertà, non solamente in base
al crescere delle condizioni economiche, ma persino in base ad una nuova scienza politica, orientata a
coesistere se non a mescolarsi con una nuova scienza della collettività.
2.4 Le critiche tratte dal pensiero di Mill
2.4.1Critica all'apriorismo, l'esperienza come fondamento e alla logica
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Nella visione filosofica di Stuart Mill è basilare l'idea che il senso autorevole della verità è da ricercare
unicamente nei fatti e nei dati dell'esperienza, essi soli capaci di esprimere la certezza. Da tali considerazioni deriva la critica che Mill rivolge a qualunque forma di conoscenza apriori autonomo dallo sviluppo dei fatti. La conoscenza a-priori è quel tipo di conoscenza che formula teorie a
prescindere dal modo in cui la realtà si mostra (a-priori, prima dell'esperienza). Forme di conoscenza apriori, che eliminano dai loro processi il progresso concreto dei fatti, sono le metafisiche e la religione, le
quali intendono dare del mondo una concezione stabile, fissità che non tiene perciò conto della varietà dei
fenomeni materiali e contingenti che si mostrano nel mondo. Dalla critica all'apriorismo, si passa
inevitabilmente a una critica della logica classica, ovvero alla forma definita di conoscenza a-priori per
eccellenza.
Una critica che Stuart Mill indirizza alla validità della logica classica percorre i sentieri già battuti dal
nominalismo: le parole che individuano un senso universale non si connettono con un essenza concreta
delle cose ma rappresentano solamente il nome con il quale si indica un certo gruppo omogeneo di
cose empiriche e fattuali. Ad esempio, la parola "perfettissimo" non designa l'esistenza
reale di qualche cosa che è perfetto, ma soltanto la qualità delle
cose che presentano "perfettissime" in relazione a indubbie
conoscenze; similmente, la parola "cane" non si riferisce a
un'essenza canina veramente esistente in maniera concreta, ma
è soltanto la parola che designa un certo genere di animali che
mostrano tutti le medesime peculiarità empiriche. La radice della
idea nominalista di Stuart Mill sta nel fatto che un'essenza
comune agli uomini - un universale che abbia esistenza oggettiva
più o meno separata dall'esistenza dell'uomo come tale - si
costituisce come una struttura a priori, che presume di rimanere
immobile nel flusso dell'esperienza e che finisce con l'opporsi alle
valutazioni che gli uomini possono mostrare nell'esperienza, e col
ricondurre queste variazioni al proprio contenuto, dato una volta
per tutte.
Alla luce di questo, anche la forma delle astrazioni logiche non possono avere nessuna validità assoluta che
faccia rapporto a un'essenza assoluta. La frase "tutti gli alberi sono di legno" non indica difatti che tutti gli
alberi sono costituiti da un'essenza lignea esistente al di là del fatto empirico, ma significa che, sulla base
delle analisi compiute dall'essere umano in ragione della sua esperienza, tutti gli alberi si presentano legnosi
dal fatto che l'esperienza afferma una sicura frequenza nel scorgere alberi fatti di legno e non di un altro
materiale. I postulati della logica, ovvero le verità indubbi ed evidenti come il fatto che gli alberi sono fatti di
legno, si basano non su una relazione indispensabile con qualche essenza metafisica (al di là del mondo
dell'esperienza) ma sul processo di universalizzazioni delle analisi empiriche proprio dell'induzione, la quale
da un numero riprodotto di osservazioni identiche, basa la legge che parifica siffatte osservazioni. La logica
non si fonda pertanto, per Stuart Mill, sulla relazione indispensabile con essenza metafisiche, ma sul
rapporto più concreta e possibile di cambiamento che si viene ad istituire con i fatti della effettività empirica.
2.4.2 Invalidità del sillogismo e critica all'induzione
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Congiuntamente alla validità generale della logica viene a decadere pure la validità universale del sillogismo.
Si pigli il sillogismo tipo Tutti gli esseri umani sono mortali [premessa], Socrate è un essere umano [termine
medio], pertanto Socrate è mortale [conclusione].Si è visto come per Stuart Mill alcuna dichiarazione può
poggiare sul valore assoluto di un concetto che manifesta l'universale. La premessa del sillogismo ha in sé
che tutti gli oggetti che appartengono ad una certa classe (gli esseri umani) abbiano per forza una certa
qualità (essere mortali). Ma se i postulati della logica non si basano su verità metafisiche (gli universali) ma
solo sui dati dell'esperienza empirica (la consuetudine ad osservare la mortalità degli individui), si vede come
sia impossibile basare la premessa su un qualunque valore di verità.L'asserzione che "Tutti gli uomini sono
mortali", contiene allora che si sappia già che Socrate sia un mortale, dal momento che egli è un individuo, e
rientra in quell'insieme di studi empirici necessarie a dare forma all'assioma per via induttiva.
In questo modo la premessa in verità non è una premessa, ma è
solamente la conseguenza dell'osservazione ripetuta per cui è
possibile affermare che "Socrate è un mortale perché è
consuetudine osservare che gli esseri umani sono mortali,
consuetudine confermata dal fatto che Socrate muore". Ecco che
Socrate, come mortale, non è risultato della premessa ma un fatto
che va a decidere la verità della premessa medesima. Il processo
di induzione consente di far derivare teorie valide solitamente
dall'osservazione ripetuta di un certo fenomeno. Per esempio,
tutte le fragole sono rosse dato che viene considerato in natura il
fatto ripetuto per cui le fragole mature hanno una colorazione
rossa. Stuart Mill critica la possibilità propria dell'induzione di
essere messaggera di verità assolute. Se la teoria generale derivante dal metodo induttivo si basa sull'osservazione ripetuta di certi fatti concreti ed
empirici, l'induzione non è il passaggio dal particolare al generale, ma soltanto da un particolare
all'altro. Difatti, la conclusione universale che intende provare un comportamento generale su
base statistica limitatamente alla frequenza con la quale un fatto si ripete, non è altro che una semplice
addizione di unici casi presi in analisi. In sostanza, la certezza propria dell'induzione di essere un processo
che va a formare verità generali, viene meno, infatti l'induzione non può escludere che un singolo caso che
va a formare la legge generale invalidi da un momento all'altro la teoria con il suo comportamento contrario a
quello degli altri casi. Ad esempio, se un giorno un oggetto tendesse a cadere dal basso in alto, saremmo
costretti a invalidare la teoria della gravitazione universale, poiché nulla impedisce, potenzialmente, di
osservare tale comportamento ribelle (ciò che lo impedisce è la sola osservazione induttiva della generalità
degli altri casi, ovvero la stessa induzione oggetto di critica).Da rilevare ciò nonostante che l'induzione resta
uno strumento necessario alla scienza per registrare sinteticamente un insieme di analisi omogenee. Ciò
che critica Stuart Mill non è la validità relativa e specificata dell'induzione, ma la sua pretesa di basarsi a
verità assoluta utile per tutti i casi non ancora studiati.
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2.4.3 Critica al principio di causa ed effetto
Nella critica a qualunque forma di teorizzazione aprioristica fa parte anche quella al principio di causa ed
effetto. Se, come visto, nel processo induttivo non possiamo dichiarare con sicurezza che un fatto ripetuto un
sicuro numero di volte vada a formare la legge generale di regolarità, allora nemmeno il principio per cui dati
certi stati, in indicate condizioni, conseguono determinate conseguenze (il principio che dichiara la
congiunzione fra cause ed effetti) può essere valido.
La legge di causalità non è una verità a priori (come per Kant) e nemmeno un istinto dell' uomo (come per
Hume). La legge di causalità è una conclusione di un processo induttivo (come si è visto, privo di validità
aprioristica) che divulga i casi di molti altri processi induttivi inferiori.
In sostanza, noi dichiariamo che tutto ha una causa prendendo come principio dell'affermazione tutte le
innumerabili divulgazioni dei casi formulate per via induttiva. Ma, come si è visto, le generalizzazioni in realtà non possono
essere viste come verità assoluta, ma come attitudine dei singoli
casi ad avvalorare la generalizzazione. Ritorna sempre la critica,
pertanto, per cui l'enumerazione dei singoli casi particolari non
possono in verità ad andare a formare una verità assoluta, dal
momento che i singoli casi non possono spingere a formulare, per
via statistica, una verità che al contrario dovrebbe avere valore
assoluto, per tutti le singole ipotesi ma si è visto come la possibilità
che un singolo caso confuti la legge generale è sempre aperta e
non escludibile.
2.4.4 Critica all'assolutismo determinista del positivismo
Alla luce di quanto detto sino a qui, il pensiero filosofico di Stuart Mill non può che entrare in contrasto con
l'atteggiamento positivista sostenuto da Comte, il quale concepiva la scienza come l'unica disciplina
inevitabilmente deterministica, l’ unica disciplina in grado di determinare i fatti secondo regole assolute e
decisive. Ma il determinismo della verità non possiede quel carattere di assoluta necessità che tuttora gli
viene assegnato da Comte, ma è esso stesso un fatto, che esiste ed è probabile che si perpetui, ma che è
possibile che si modifichi e che venga a cessare.
In sostanza, la possibilità che un'esperienza si ribadisca in maniera assoluta date certi presupposti non può
essere assicurata da alcuna conoscenza certa, dal momento che, come si è visto, le certezze della scienza
si fondano sul meccanismo incompleto dell'induzione, che non potrà mai dichiarare la validità assoluta di un
avvenimento e di un fatto, dal momento che non potrà mai verificare la totalità dei casi, dovendo eliminare
inevitabilmente dal computo quelli che ancora non sono capitati.
Pertanto, alla luce di tale critica all'assolutismo determinista, la scienza non potrà presentarsi come
conoscenza risolutiva basata su assiomi stabili, ma come scienza che conosce il carattere provvisorio e
relativo delle proprie generalizzazioni induttive, e che pertanto, riconoscendo il carattere di tentativo delle
proprie previsioni, riconosce al divenire dell'universo la capacità di scombinare i modelli conoscitivi.
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2.4.5 Contro l'assolutismo sociale
Stuart Mill, proprio come critica l'assolutismo determinista del
positivismo, critica pure qualunque possibile forma di
assolutismo sociale adoperando lo stesso ragionamento.
I comportamenti dell'individuo sono in sostanza prevedibili
soltanto nella dimensione in cui ne facciamo esperienza: la
psicologia e la sociologia, per esempio, potranno immaginare
gli atteggiamenti psicologici e sociali sono in rapporto
all'esperienza raccolta in passato sul comportamento degli
uomini e delle masse, la possibilità però che questi
atteggiamenti, in una determinata condizione, non fissino con
le previsioni, comporta che le discipline debbano adattarsi ai
nuovi fatti. Non è possibile difatti prevedere in modo certo e in
alcuna maniera il comportamento dell'individuo con quella
chiarezza richiesta dai sistemi deterministici. La realtà concreta
dell'essere umano è subordinata a una irriducibile dinamicità,
per cui i motivi che muovono l'individuo ad agire in un certa
maniera non potranno mai essere oggetto di ipotesi
scientifiche assolutamente deterministiche.
Questa verità comporta la negazione da parte di Stuart Mill di qualunque ordinamento sociale e politico che
tenda ad esercitare un controllo assoluto sull'individuo, dal momento che andrebbe contro l'evidenza che
desidera l'individuo soggetto caratteristicamente dinamico e libero da qualsiasi tentativo di riduzione ad una
immobilità. Con ciò, Stuart Mill salva l'originaria natura dell'essere umano, il quale, subordinato al mondo dei
puri accadimenti, è fondamentalmente libero da qualunque legge di fissità della realtà, costituendo una
testimonianza salda del cambiamento possibile e del divenire proprio del mondo.
Stuart Mill dichiara poi, avviando dall'utilitarismo di Bentham, che nel suo agire l'individuo tende a
massimizzare il piacere e ridurre il dolore, ma, a differenza da quanto sorretto da Bentham, non si chiude
entro il puro egoismo, ma è spinto ad aspirare la felicità altrui come costituente potenziale della propria. Lo
sviluppo dell'intera umanità tende a presentare (per via induttiva) che la tendenza nelle collettività è quella di
tenere sempre più presente le ambizioni degli uomini, le società tendono pertanto a un generale sviluppo
delle condizioni di esistenza dell'individuo.
2.5 Mill e la divisione del lavoro
Nei suoi "Principi di economia politica" (Capitolo VIII), John Stuart Mill recupera molti punti dell'osservazione
smithiana sulla divisione del lavoro.
Trova di nuovo posto il corrispondente tra aumento della divisione del lavoro e aumento della produttività, e
vengono ricondotti i motivi che, a seguito della divisione del lavoro, indicano una maggiore efficienza
lavorativa:
1) ampliamento della destrezza di ogni operaio;
2) risparmio di tempo dato che non si deve passare da un lavoro all'altro;
3) ideazione di un gran numero di macchine.
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Riguardo a tali due ultimi punti, Stuart Mill presenta alcune considerazioni critiche su cui è indispensabile
soffermarsi rapidamente.
Per Stuart Mill, Adam Smith ha stimato eccessivamente
l'importanza del risparmio di tempo collegato alla permanenza
nella medesima occupazione, disinteressando l'esistenza di
vantaggi scaturente da un mutamento di attività. "Se una data
specie di lavoro muscolare o intellettuale è diversa da un'altra,
proprio per questa ragione è fino a un certo punto un riposo
dall'altro lavoro; e se non si ottiene subito la massima intensità
nella seconda occupazione, nemmeno la prima occupazione si
sarebbe potuta prolungare indefinitamente senza un certo
rilassamento delle energie. È fatto di comune esperienza che un
mutamento di occupazione dà spesso un sollievo laddove
altrimenti sarebbe necessario un riposo completo; e che un uomo
può lavorare senza fatica molte più ore se alterna le sue
occupazioni, che se si limitasse durante tutto quel tempo ad
un'occupazione sola. Le diverse occupazioni impiegano diversi muscoli o diverse facoltà intellettuali e alcune di queste riposano e
si rinfrancano mentre le altre lavorano. La stessa varietà ha effetto stimolante su quello che, in mancanza di
denominazione più filosofica, si chiama il morale dell'individuo, tanto importante per l'efficienza di ogni lavoro
che non sia puramente meccanico, e non trascurabile neanche per questo". [1848, John Stuart Mill] Nel
ragionamento di Stuart Mill sono presenti spunti propri dei moderni filosofi dell'organizzazione del lavoro.
Tale capacità di passare da un lavoro all'altro in modo produttivo (versatilità e flessibilità) può essere un esito
dell'educazione. "L'abitudine di passare rapidamente da una occupazione ad un'altra può essere acquisita,
come le altre abitudini, con la prima educazione; e una volta acquisita non vi sono le perdite di tempo di cui
parla Adam Smith ad ognuno di quei mutamenti, né la diminuzione di energia o di interesse, ma il lavoratore
si dedica ad ogni ramo della sua occupazione con una freschezza e uno spirito che non potrebbe conservare
se persistesse in una data parte di quel lavoro oltre il tempo cui è abituato". [1848, John Stuart Mill]
Le donne, dice Stuart Mill, "sono dotate (almeno nelle moderne condizioni sociali) di una versatilità di gran
lunga superiore rispetto agli uomini".
"Le donne hanno una pratica costante di passare rapidamente da un'occupazione manuale all'altra, e ancor
più da una operazione mentale all'altra, la qual cosa raramente risulta in uno sforzo supplementare o in una
perdita di tempo". [1848, John Stuart Mill]
Gli uomini al contrario sono più abituati a lavorare in maniera permanente, per un lungo periodo di tempo,
compiendo la medesima operazione o il medesimo tipo di operazioni. Questo non toglie che la versatilità
possa essere una qualità altresì maschile e che "un uomo che ha coltivato l'abitudine di dedicare la propria
attenzione a molti lavori, lungi dall'essere quella persona indolente e pigra descritta da Adam Smith, è di
solito particolarmente vivace e attiva". [1848, John Stuart Mill]
È vero d'altra parte, dice Stuart Mill, che vi sono dei limiti alla versatilità di qualunque individuo e pertanto al
cambio di attività, per cui "una continua varietà (di lavoro) è anche più defatigante di una uniformità
perpetua". [1848, John Stuart Mill]
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Per quanto concerne il terzo vantaggio assegnato da Adam Smith
alla divisione del lavoro, vale a dire l'invenzione delle macchine)
quello è vero ma sino ad un certo punto. Difatti, pure Stuart Mill
ritiene che "le invenzioni tendenti a risparmiare lavoro in un
particolare compito, sono più probabili nei casi in cui i pensieri del
lavoratore sono intensamente indirizzati a quella occupazione e
continuamente esercitati al riguardo". [1848, John Stuart Mill]
Al tempo medesimo, non sempre l'occupazione intensa in una
attività conduce alla messa in luce di scoperte che tendono a
risparmiare lavoro in quella data azione. "Questo dipende molto
più dall'intelligenza generica e dalla attività intellettuale abituale
che dal carattere esclusivo dell'occupazione; e se questa
esclusività è spinta al punto da andare a danno dello sviluppo
dell'intelligenza, da un vantaggio di tal genere vi sarà più da
perdere che da guadagnare". [1848, John Stuart Mill]. Secondo Stuart Mill, il beneficio principale della divisione del lavoro consta nella "più economica
distribuzione del lavoro, attraverso la classificazione dei lavoratori secondo le loro capacità". "Diverse parti
della stessa serie di operazioni richiedono gradi disuguali di capacità e di forza fisica; e coloro che hanno
abilità sufficiente per le operazioni più difficili o forza sufficiente per i lavori più duri, sono utilizzati in maniera
molto più produttiva quando sono impiegati solamente in queste operazioni". "La produzione è al massimo
livello di efficienza quando l'esatta quantità di abilità e di forza, che è richiesta per ogni parte del processo
produttivo, risulta impiegata e nulla più". [1848, John Stuart Mill]. Evidentemente, l'acquisizione continua di
nuove capacità e l'elevazione del grado di istruzione sono destinati a immettere modifiche radicali nella
divisione del lavoro, con la sparizione delle operazioni più semplici e ripetitive, che verranno sempre più
operate dalle macchine.
2.6 Il rapporto tra la deduzione e l'induzione
2.6.1 Sulle orme di Kant
E Mill sulle orme di Kant vuole, in sostanza, conoscere come siano pensabili i giudizi sintetici a priori, ovvero
come sono pensabili i ragionamenti che conducono ad un ampliamento delle conoscenze. Come è pensabile
il ragionamento accrescente "Socrate è uomo, l'uomo è mortale, dunque Socrate è mortale"? In altri termini,
come faccio a sapere che Socrate cesserà di vivere ancor prima di aver sperimentalmente constatato la sua
scomparsa effettiva? E' un ragionamento valido? E se sì, per quale ragione? Mill, da buon empirista, tende a
non credere che siano possibili i giudizi sintetici a priori, poiché essi hanno in sé in qualche maniera la
presenza innata di concetti nella mente: al contrario, qualunque conoscenza (persino quella matematica)
passa mediante l'esperienza; se le cose stanno in questo modo, però, resta da domandarsi come si
possano giustificare proposizioni reali che siano valide ed universali. In altre parole, Mill giunge alla presa di
coscienza che se si accetta la validità del procedimento induttivo (= dal generale al particolare) le possibilità
sono due: la prima consta nell' ammettere che, mediante l'induzione, si giunga a verità generali da cui
ricavarne altre particolari già implicite; in tale caso, la deduzione funziona ma è del tutto inutile. Copyright ABCtribe.com
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Difatti, quando, per esempio, considero i 12 apostoli e dico che
ognuno è ebreo, arrivo all'affermazione universale che i 12
apostoli sono tutti ebrei e da essa potrò dedurre che uno
qualunque dei 12, proprio perché apostolo, è ebreo. Il che è
precisamente logico, ma altresì del tutto inutile: tale deduzione,
difatti, ha carattere tautologico, giacché non dice niente di nuovo
che non fosse già implicito in partenza. E Mill fa osservare che le
deduzioni importanti sono quelle che ingrandiscono la
conoscenza, quelle vale a dire che predicano qualche cosa di
nuovo: ed è questa la seconda possibilità. Quando dico che tutti
gli esseri umani sono mortali e che Socrate, in quanto uomo, è
anch'egli mortale, ingrandisco per davvero la mia conoscenza, dal
momento che dichiaro che Socrate cesserà di vivere ancor prima
che egli sia in effetti morto. Nel caso dei 12 apostoli, si parte da verità peculiari per arrivare a verità generali per poi far ritorno a realtà
particolari; nel secondo caso, contrariamente, si constata empiricamente la mortalità degli individui e per
induzione si riesce a dire che, poiché tutti gli individui presi in esame sono morti, allora tutti gli individui sono
mortali. Quella degli apostoli (che Mill definisce "enumerazione completa" per il fatto che non si è tralasciato
nessun componente), per dirla con Kant, è una verità analitica, sicura ma tautologica; quella di Socrate, al
contrario, (che Mill designa col nome di "enumerazione semplice", poiché non si osservano tutti gli individui
esistenti, ma soltanto una parte di essi) è sintetica, ovvero accresce la conoscenza; nondimeno tale secondo
tipo di induzione, a differenza del primo tipo, crea dei problemi. Difatti, quella degli apostoli è un'induzione
per elencazione completa, dove vale a dire dichiaro che tutti e 12 gli apostoli sono ebrei perché l'ho appurato
empiricamente analizzando ciascuno di essi; con il caso dell'induzione per elencazione semplice (il caso di
Socrate), la situazione muta, visto che si predica la mortalità di Socrate mentre egli è tuttora in vita, il che
corrisponde a dire che si predica un qualche cosa senza averlo verificato empiricamente.
E del resto, nota Mill, effettuare un'enumerazione completa su tutti gli individui per dire che sono tutti (dal
primo all'ultimo) mortali sarebbe infattibile: dovrei difatti analizzare uno ad uno tutti gli uomini del presente,
del passato e del futuro per vedere se sono in effetti morti; e pure fatta siffatta operazione, resterei fuori
dall'enumerazione io che la sto facendo. Comunque, quando ci si trova di fronte ad una infinità di casi (come
per la mortalità degli individui), si è obbligati, nell'impossibilità di osservare uno ad uno i singoli casi, a
ricorrere all'enumerazione semplice: ma che cosa legittima tale esempio di induzione?
Difatti, se l'enumerazione completa si giustifica da sé, quella semplice (fondata su pochi casi) implica la
deduzione per Socrate di quello che si è ipotizzato per altri. Tale procedimento può essere legittimato
soltanto se si ricorre ad una logica di tipo realista, che accetta vale a dire l'esistenza reale degli universali: in
questa situazione, in cui non sussistono soltanto gli individui, ma pure gli universali, si può ricorrere
(nell'esempio della mortalità degli individui) all'universale "umanità", intesa appunto come universale di cui
prendono parte tutti i singoli esseri umani, per cui ognuno può dire di essere umano perché prende parte
all'universale "umanità". Copyright ABCtribe.com
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E l'ammissione degli universali consente di effettuare dichiarazioni
generali: mediante l'esperienza di un numero limitato di casi
(A,B,C), affermava Aristotele, posso cogliere non soltanto i tre
casi presi in considerazione (A,B,C), bensì pure le caratteristiche
inerenti all'essenza universale di individuo. Il caso estremo di tale
procedimento è delineato dalla geometria, in cui una volta fatta la
dimostrazione del teorema di Pitagora per un singolo triangolo
rettangolo, si ha la convinzione che esso sia valido per tutti gli altri
triangoli rettangoli possibili ed immaginabili.
Ne deriva che, in una prospettiva realista che ammette gli universali, si può dire che, mediante una serie di
casi limitati si arriva all'universale, pure se magari i casi esaminati sono pochissimi, cosicché potrò dichiarare
che tutti coloro i quali prendono parte alla forma uomo saranno inevitabilmente mortali, proprio perché tutti gli
esseri umani singoli esaminati sono morti. Il problema consiste però nel fatto che, da Ockham in poi, la logica
realista è stata rimpiazzata da quella nominalista (che non consente l'esistenza degli universali): ciò esclude
la possibilità che da pochi casi si possa giungere ad un'affermazione generale valida generalmente, proprio
perché niente esiste all'infuori dei casi singoli. E, saltato l'universale, salta anche la possibilità di fare il gioco
(lecito nel campo di una logica realistica) per cui passo dalla mortalità di A, B e C alla mortalità
dell'universale individuo e, alla fine, a quella di Socrate.
E nel caso della logica realista, l'universale altro non era se non la intercessione che mi consentiva di
passare dalla mortalità di A, B e C a quella di Socrate, proprio perché accettavo che A, B e C e Socrate
avessero in comune il fatto di prendere parte all'universale "umanità". Come giustifica, pertanto, Mill il
processo di elencazione semplice nel nominalismo? Nella concezione nominalista, egli dice, non sussistono
realtà universali, ma, malgrado ciò, esistono cose che hanno funzioni universali: ed è il caso dei nomi
comuni, per cui quando dico "uomo" non accenno all'universale "uomo", ma a tutti quegli enti dotati di
indicate peculiarità comuni, quali l'avere due gambe, due occhi, una testa, ecc.
Nella definizione di individuo come essere avente due gambe,
due occhi e una testa, attenzione, non fa parte la mortalità:
considerando tre uomini, A, B e C, ci rendiamo conto che tutti e
tre cessano di vivere e per induzione dichiariamo che tutti gli
individui sono mortali; dopo di che, analizziamo Socrate e ci
rendiamo conto che, alla pari di A, B e C, è provvisto di due
gambe, due occhi e una testa, ma è vivo e vegeto: come
possiamo dichiarare che anch'egli è mortale?
Che sia un individuo lo so dal fatto che ha due occhi, due gambe
e una testa e, chiarisce Mill, posso giungere a dire che è mortale
mediante il principio dell'uniformità delle leggi di natura , secondo
cui quando dei singoli casi mostrano continuamente un gruppo di
peculiarità comuni (occhi, gambe, testa) più un altro gruppo (la
mortalità), allora altresì l'ennesimo caso esaminato (Socrate) che
mostrerà il primo gruppo di caratteristiche, avrà altresì il secondo
gruppo.
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Ma allora si torna al passaggio interposto dall'universale, obietterà qualcheduno. E invece no, dice Mill,
poichè al posto dell'universale c'è il principio, il quale implica che la natura non si comporti a caso, ma con
regolarità ( " è una legge che in natura ci siano leggi ", dice Mill), per cui tutti gli individui del passato, oltre ad
avere la testa, le gambe e gli occhi, sono morti e dato che la natura si comporta secondo una certa
regolarità, pure gli esseri umani del futuro provvisti di gambe, occhi e testa saranno pure loro mortali. Si deve
però legittimare questo principio di conformità delle leggi di natura e la risposta di Mill è paradossale: egli
afferma che lo si basa induttivamente, ovvero da quando siamo nati abbiamo sempre esperimentato che la
natura segue una regolarità circoscritta.
Al che si potrebbe ribattere che, in fin dei conti, questo principio altro non è se non un presupposto; già
Hume si chiedeva con perseveranza che cosa facesse sì che ognuno di noi nutra in sè la certezza di vedere
ogni mattina spuntare il sole e rispondeva dicendo che è l'abitudine di vederlo levarsi ogni mattina; ora Mill si
chiede, in forma simile, "che cosa mi garantisce che, visti morire tutti gli uomini finora considerati, anche
Socrate un giorno dovrà morire?" Se Hume dava risposta servendosi dell'abitudine, Mill al contrario si serve
del principio dell'uniformità delle leggi di natura, che a suo avviso non è un mero assunto, bensì è basato
sull'esperienza.
Però egli compie l'errore di fondare induttivamente la verità del principio quando dovrebbe essere questo
principio a permettere l'impiego dell'induzione; si tratta, chiaramente, di un circolo vizioso, visto che Mill
ritorna al principio per legittimare l'induzione e poi basa questo principio sull'induzione medesima! Ma Mill
obietta che si tratta di un'induzione tanto ampia che possiamo considerarla non per enumerazione semplice,
ma per elencazione completa, giacché il numero di esperienza su cui si basa questo principio non le
esaurisce tutte, ma è in ogni modo tanto vasto (si tratta di tutte le esperienze maturate nella storia!) che, se
in teoria fa parte dell'enumerazione semplice, in pratica finisce per appartenere a quella completa. E, come
abbiamo visto nel caso dei 12 apostoli, l'elencazione completa si autolegittima, per cui il principio
dell'uniformità delle leggi di natura non è un postulato e può innalzare l'induzione per enumerazione semplice
senza precisamente appartenere ad essa. Si è pertanto oltrepassato il circolo vizioso e si è fondata
l'induzione per enumerazione semplice sulla base di quella per
enumerazione completa. Certo, in termini intrinsecamente
matematici, sarebbe sbagliato dire che il principio dell'uniformità
delle leggi di natura è per enumerazione completa, dal momento
che, pur essendo assai ampio, non esaurisce tutte le esperienze
possibili; ma ciò nonostante, sul piano pratico (che è quello che
sta a cuore ad un positivista quale è Mill) si può avvicinare e
legittimare l'idea (su cui si basa il sapere dell' uomo) secondo cui
dai casi particolari è lecito realizzare generalizzazioni per poi
tirarne delle conclusioni.
2.6.2 Il recupero della tradizione empirista baconiana
Una volta giustificata l'induzione semplice, spunta il problema di dimostrare quale è il metodo per investigare
la realtà e a questo proposito Mill ripiglia la tradizione empirista inglese di stampo baconiano: proprio
Bacone, difatti, aveva predisposto la teoria delle tre tavole, volta a render praticabile un'induzione che si
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effettuasse mediante un numero relativamente circoscritto di casi. Mill rimane fedele alle tre tavole ma, per
così dire, ne annette una quarta, una specie di nuovo principio che prescrive l'impiego di uno strumento
efficace per indicare la causa di un fenomeno; nel constatare che, in due situazioni pressoché simili, il
fenomeno analizzato si verifica soltanto in una delle due, si deve vale a dire individuare quell'unica diversità
che discerne le due situazioni: tale principio (presente soltanto nella situazione da cui si è verificato il
fenomeno esaminato) sarà appunto la causa dell'avvenimento. Facciamo un esempio concreto: nel
Settecento sparisce per sempre dal mondo occidentale la peste, che tuttavia continua a percuotere quello
orientale; sia l'Oriente sia l'Occidente hanno pressoché i medesimi presupposti (guerre, climi simili, etc), ma
vi è una diversità imprescindibile ed è lo Stato assoluto, presente in Occidente e non in Oriente.
Se ne ricava che è lo Stato assoluto la ragione della sparizione della peste dal mondo occidentale. Dopo di
che, Mill concentra la sua attenzione sulla psicologia , che Comte si era rifiutato di elencare tra le scienze: il
filosofo inglese, invece, assume un comportamento totalmente opposto e non si limita a riconoscere che la
psicologia è una scienza legittima, ma giunge perfino a ravvisare in essa il basamento delle scienze. Tutta la conoscenza umana, difatti, per Mill, si struttura mediante l'acquisizione per via empirica di idee
semplici che si uniscono per via associazionistica (Mill conosceva benissimo le teorie elaborate in merito da
suo padre) mediante norme psichiche.
Ne consegue che la conoscenza dell' uomo non può non passare mediante la psiche e, perciò, la psicologia
eleva a vera e propria scienza iniziatrice delle altre scienze. A tale punto, poi, Mill si pone un annoso
problema su cui da sempre si domanda la filosofia: si tratta del problema della prevedibilità dell'agire dell'
uomo . Come è possibile realizzare le scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia) se l'persona (a
differenza degli altri enti) ha un atteggiamento non rigorosamente ipotizzabile? Le risposte possibili paiono essere due: o si presuppone (sulla
scia di Cartesio, Hobbes e Spinoza) che gli esseri umani siano
macchine del tutto prevedibili e prive di libertà e perciò si accetta
la possibilità di fondare delle scienze dell' uomini davvero severe;
oppure si ammette la libertà umana e, in tale caso, salta la
prevedibilità dell’ atteggiamento e, con essa, la possibilità di
creare delle scienze umane. Mill dà una risposta che si allontana
dalle due appena suggerite: si tratta di una risposta che molto
patisce della lezione positivistica ed è, per molti sensi, semplice e
coerente. Mill non fa altro che fare una ripartizione fra metafisica e
vita quotidiana: se anche confessiamo che l'essere umano (tanto l’
individuo quanto i gruppi), metafisicamente, sia libero, quello non
toglie che egli, nella vita di tutti i giorni, si atteggi con una certa
regolarità e che questa regolarità possa essere espressa sotto
forma di regole. Pertanto, Mill, pur identificando la libertà metafisica all'uomo, riconosce una sicura prevedibilità della
condotta nella vita pratica ed è proprio su ciò che, egli dichiara, diviene possibile apprendere le leggi di
condotta degli uomini (psicologia), della comunità (sociologia), e così via. E Mill è persuaso di dover
adoperare, nell’ambito delle scienze sociali, quello che lui chiama metodo deduttivo concreto , il quale si
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basa sul fatto che le realtà sociali sono le più articolate e sul fatto che su di esse non si possono fare
esperimenti, come al contrario avviene nei laboratori chimici. Nel caso delle scienze sociali, egli afferma, a
fungere da esperimento è la storia medesima: il che indica che, dinanzi all’ interrogativo "che cosa causa
quel determinato fatto sociale?", la prima cosa da fare è formulare un'ipotesi su quale coincidenza di cause
potrebbe averlo determinato; e poi occorrerebbe effettuare la verifica sperimentale, che, nel caso delle
scienze sociali, è infattibile: si deve perciò ripiegare sulla storia, analizzando dove si è verificata storicamente
quella data combinazione di cause e se ha fatto nascere il medesimo evento sociale che stiamo
analizzando. La verifica sperimentale lascia il passo a quella storica.
Accanto alle attente valutazioni logiche, Mill si è pure occupato molto di politica, cercando di predisporre un
movimento radicale che rendesse complice l'ala progressista del partito liberale inglese: egli si fa
ambasciatore di ideali definibili, in senso lato, di "liberalismo radicale". In un'epoca e in uno Stato in cui il
liberalismo aveva alleggerito qualunque punta rivoluzionaria e, anzi, era diventato la struttura portante del
sistema, è significante che il pensatore inglese ne dia una lettura in chiave progressista: egli divide la politica
e l'economia, punendo (da buon liberale) il socialismo, inteso come ingabbiamento del libero corso
dell'economia e disumana collettivizzazione dei mezzi di produzione; se Mill non approva il socialismo, è
però un dato di fatto che il socialismo novecentesco approverà (e farà sue) le teorie politiche di Mill. L'economia, secondo il pensatore inglese, può solo funzionare in
una situazione di libero mercato e, perciò, occorre riconoscere
piena libertà all'economia; ma (e qui sta la novità) altra cosa è la
politica e, in particolare, la distribuzione delle ricchezze: si deve,
afferma Mill, creare una volontà dell' uomo tale da realizzare una
maggiore equità sociale. Da questo ben si intuisce come la
politica e l'economia siano separate: economicamente deve
regnare la massima libertà in maniera che si produca il più
possibile; sul piano politico, però, si deve far sì che si realizzi una
più giusta distribuzione dei beni. Proprio da siffatte considerazioni intravede l' utilitarismo (maggior felicità possibile per il maggior numero
possibile di persone) che informa la filosofia milliana: non soltanto si deve fare una specie di calcolo dei
piaceri, ma all'interno di questo calcolo occorre altresì inserire piaceri di tipo spirituale, fra cui l' altruismo ,
ovvero l'idea che riversare il piacere ad altre persone crei piacere altresì a se stessi. Importante è il fatto che
il liberalismo inglese di ispirazione lockeana aveva perseverato sul principio che si dovesse fare di tutto per
difendere la libertà dell'uomo dalla potenziale autorità statale, servendosi principalmente di strutture della
società civile: l'idea era che l'uomo, lasciato in balia di se stesso, viene sottomesso dallo Stato e perciò deve
essere riparato da queste sopraffazioni mediante organismi medi (le corporazioni, gli ordini, la famiglia, i
partiti, i sindacati, ecc).
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Mill, al contrario, sconvolge la tradizione liberale e scopre che la vera minaccia per la libertà dell'uomo non è
più lo Stato, ma è quella società civile che i liberali classici percepivano come mezzo di difesa: in particolare,
il vero pericolo è delineato dalla pressione sociale verso il conformismo, pressione che tende ad
standardizzare la società intera. La libertà dell'uomo, dice Mill, deve ad ogni costo essere garantita non
soltanto dato che è un principio della morale liberale, ma altresì perché la libertà di non essere tradizionalisti,
oltre ad essere un vantaggio per l'uomo, è pure un bene per la collettività. Una collettività forzata ad essere
omogenea, difatti, non potrebbe sperimentare niente di nuovo e questo danneggerebbe sia ai singoli sia alla
società nel suo complesso. E così lo Stato, non soltanto smette di rappresentare una minaccia per la libertà
degli individui, ma invece ne diviene il garante; è difatti lo Stato che garantisce la libertà contro le pressioni
sociali. Se del resto ci domandiamo da che cosa è garantita la uguaglianza dei sessi al giorno d'oggi non
possiamo certo rispondere che è assicurata dalla società: è lo Stato a garantirla.
Per quel che concerne la religione , la filosofia milliana, talmente
impegnata in campo politico e sociale, recupera la remota idea, di
discendenza platonica, di Dio come puro e semplice artigiano che
si limita a forgiare e ad assestare il mondo. Il Dio di Mill, pertanto,
non è onnipotente, dal momento che si limita ad ordinare un
materiale che non è stato da lui creato: e dalla non-onnipotenza
divina, Mill deduce l'idea secondo la quale Dio ci chiama tutti a
cooperare con lui per rendere più buono il mondo. Del resto, se
Dio fosse onnipotente, non si renderebbe comprensibile perché il
mondo non è perfetto e qualunque nostra azione resterebbe priva
di senso. Tale riflessione religiosa è il compimento generale di
una filosofia indirizzata in tutto e per tutto all'azione utile. 3. Opere 3.1 System of Logic
Nell'opera System of Logic, Sistema della logica deduttiva e induttiva J.S.Mill fa una critica alla logica come
era secondo la tradizione insegnata in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo, proponendo una radicale
riformulazione dei suoi termini e delle sue metodiche d'osservazione.
La logica è «scienza della prova o dell'evidenza», si occupa non tanto delle verità che spuntano
istantaneamente (sensazioni, sentimenti ecc...) piuttosto della conoscenza mediata, effetto di una logica, e
quindi delle connessioni interiori ad esso. La logica, limitandosi ad organizzare i dati dell'esperienza, compie
una prima azione detta denominazione, vale a dire l'attribuzione di nomi alle cose. Mill discerne poi:
termini denotativi, termini che denotano un oggetto senza attinenza alle sue qualità o attributi (i nomi
propri);
termini connotativi, termini che designano la proprietà di un oggetto (attributi e nomi comuni).
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La logica si interessa del linguaggio in quanto mezzo del pensiero. Mill discerne ancora fra proposizioni
verbali, quando il predicato pronuncia un concetto già contenuto nel soggetto e quindi non forniscono nuove
informazioni (gli individui son razionali), e proposizioni reali, quelle in cui il predicato esprime un concetto non
racchiuso nel soggetto. Verbalità e realtà concernono pure il nesso tra proposizioni differenti, pertanto
il ragionamento o inferenza. Perché un ragionamento apporti conoscenza la proposizione definitiva deve
esser contenutisticamente differente da quella di partenza, in altro modo è un puro mutamento verbale. Se
per la logica tradizionale vi erano due classificazioni di induzione:
deduttiva (deduzione), inferenza che va dal generale al particolare,
induttiva (induzione), inferenza che va dal particolare al generale.
Mill ne individua una terza a basamento delle altre: l'inferenza
avviene sempre dal particolare al particolare. Difatti
nel sillogismo la premessa maggiore (ad es. «tutti gli uomini sono
mortali») non è altro che un insieme di osservazioni particolari
espressa in termini generali. Pertanto qualunque nostra
conoscenza parte da un dato empirico e le generalizzazioni sono
soltanto originate da rassegne di casi particolari (anche la
matematica, si parte da oggetti empirici da cui si fa astrazione da
certe loro proprietà). L'inferenza si basa pertanto sull'induzione (e
non la deduzione, vista la critica fatta da Mill al sillogismo).
L'induzione perfetta, in cui si considerano tutti i casi tipici, alla fine
dell'enumerazione non porta però nuova conoscenza.
Se io dico «Paolo è ebreo, Pietro è ebreo, Marco è ebreo ecc...» e in questo modo per tutti gli apostoli, alla
fine concluderò «tutti i dodici apostoli sono ebrei» e ne risulterà una semplice modificazione verbale.
L'induzione imperfetta o induzione per enumerazione semplice permette, dall'osservazione di X casi
particolari, di inferire una qualità estendibile a tutti gli altri individui appartenenti alla medesima classe, anche
a quelli non ancora esperiti. In questo caso c'è ampliamento della conoscenza. La certezza che le
osservazioni compiute siano poi estendibili a tutti non c'è mai, ma J.S.Mill apporta a questo metodo
rifacendosi al principio dell'uniformità della natura e di conseguenza alla legge di causalità necessaria.
Pertanto possiamo generalizzare perché supponiamo che la natura sia ordinata da leggi, altresì se l'ordine
vigente in natura è esso stesso una generalizzazione. L'uniformità della natura ha come conseguenza la
possibilità di prevedere avvenimenti futuri basandosi sull'esperienza passata, tale prevedibilità viene
sviluppata da Mill dalla natura all'ambito dell'agire dell' individuo. Conoscendo il carattere dell'uomo e gli
impulsi da cui è mosso le sue future azioni divengono prevedibili, questo è il presupposto base, non
solamente materia di studio,della psicologia. Se la psicologia si occupa della previsione delle azioni dell'
esseri umani allora la sociologia si occuperà delle azioni collettive e della previsioni degli eventi sociali
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Egli propone un modello di dimostrazione deduttiva, capace di coniugare la verifica e l'osservazione a
posteriori dei fenomeni (fisici ed umani) con il ragionamento a priori su di essi. Mill pertanto non è
un empirista in senso assoluto, cioè non pensa che l'esperienza sia la fonte esclusiva delle nostre
conoscenze, ma ritiene che una conoscenza astratta, solamente teorica, ovvero a priori, sia poco adeguata.
È per lui possibile al contrario integrare teoria ed esperienza, comporre insieme ragionamento ed
osservazione, per non cadere nel dogmatismo razionalistico o nel relativismo empirista (o addirittura
nello scetticismo): nella follia della ragione intangibile o nell'idiotismo della pura esperienza. Nella
meditazione di Stuart Mill, il fulcro di una questa ricerca teorica sull'etica concerne il metodo d'analisi
delle scienze sociali. Venivano in realtà così definite quelle discipline che, a differenza delle scienze della
natura, studiavano i fenomeni sociali, i problemi politici ed economici, la storia ed i congegni della mente
umana.
Per Mill tali discipline, a differenza delle scienze naturali, non
potevano essere interpretate ricorrendo allo schema meccanico
per cui ad una causa coincide sempre un determinato effetto: i fenomeni sociali difatti sono in genere determinati da una
molteplicità di cause che vanno esaminate e studiate, tenendo
presente che la Legge di Causalità è il principio basilare di
spiegazione di tutti i fenomeni naturali. Essa è nota per
esperienza, allorché la mente, mediante un'induzione, comprende
che due fenomeni si associano più volte in maniera tale per cui la
comparsa dell'uno si accompagno a quella dell'altro. Quando una
questa osservazione particolare viene universalizzata, ossia
quando si verifica un numero notevole di volte, possiamo dire che
i due fenomeni sono in una relazione di causa-effetto.
3.2 Principi di economia politica
L'opera più considerevole della formazione milliana sono senza dubbio i Principi di economia politica. Il testo
racchiude in sé gran parte del pensiero liberale dell'autore, facendoci vedere la dottrina politico-sociale in
tutta la sua complessità. Nel tentativo di riprendere il suo pensiero è utile riproporre la metafora che egli
spesso usa nei suoi scritti: l'autore raffronta la collettività ad un mulino ad acqua. Per capire il funzionamento
del mulino, è indispensabile tener presente due principi:
Primo, necessita che ci sia una forza naturale, l'acqua che scorre, in grado di produrre l'energia
indispensabile al funzionamento della macchina. Tale energia,che non può essere creata dall'individuo,
non è controllabile e risponde a leggi naturali del tutto avulse dalle regole dell'etica.
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Secondo, è indispensabile creare un meccanismo in grado di sfruttare la forza della natura per
cambiarla in ricchezza. Il meccanismo deve essere creato tenendo conto delle conoscenze dell' uomini
e delle norme che ordinano il vivere civile. Alla stesso maniera, nella società esistono leggi naturali, come per esempio quelle che regolano la
produzione della ricchezza, che non possono subire contenimenti, ma devono seguire le libertà dei
singoli uomini che ovviamente ricercano il proprio utile e la propria felicità. Ma tutta questa energia
prodotta sarebbe inutile, e in potenza dannosa, se non fosse guidata e modificata da un meccanismo
sociale, determinato secondo le leggi dell'etica, capace di ripartire tale ricchezza in modo da
trasformarla in ricchezza sociale. I Principi di economia politica espongono il problema della divisione
fra la produzione e la distribuzione della ricchezza, mostrandoci una tra le più brillanti proposte sociali
del Mill: la combinazione dell'idea liberale con le idee socialiste sulla distribuzione: se le leggi di
produzione derivano dalla necessità naturale, le leggi della distribuzione dipendono dalla volontà dell'
uomo, e su queste leggi si può agire. Mill auspica difatti che il criterio utilitaristico, ricevuto in eredità dal
maestro Bentham e dal padre, (vale a dire del maggior benessere per
il maggior numero) possa guidare le riforme indispensabili per una più
equa distribuzione della ricchezza. Anche Mill è pertanto persuaso che
l'egoismo possa esser congiunto all'altruismo, siccome la felicità
umana deriva pure dalla felicità dei propri simili e dalla promozione
della medesima.
3.3 On liberty Nel celebre saggio "Sulla libertà" Mill muove dalla preoccupazione di Tocqueville, per cui
la democrazia porterebbe gradualmente ad uniformare le masse, cancellando qualunque originalità
dell'individuo. Egli si schiera pertanto a favore della libertà, sempre e in ogni caso, sostenendo che un uomo
è libero di raggiungere la propria felicità come crede e alcuno può costringerlo a fare qualcosa con la
motivazione che è meglio per lui, ma potrà al massimo suggerirlo; l'unico caso in cui si può interferire sulla
libertà d'azione è quando la libertà di uno causi danno a qualcun altro, solamente ed solamente in questo
caso l'umanità è giustificata ad agire allo scopo di proteggersi. In questo senso lo Stato è giustificato ad
orientare la vita degli individui soltanto quando il atteggiamento di uno di essi può danneggiare gli altri.
Soltanto in questo caso potrebbe essere giustificabile il contenimento della libertà dei cittadini da parte dello
Stato.
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« Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero diritto di far tacere quell'unico
individuo più di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'intera umanità. »
Molto considerevoli sono altresì le argomentazioni con cui Mill sostiene la sua tesi; impedire l'espressione di
un'opinione è sempre e tuttavia un crimine: difatti se l'opinione è giusta, coloro che ne dissentono vengono
privati della verità; ma altresì nel caso in cui essa sia errata, coloro che ne dissentono sarebbe privati di un
beneficio ancora più grande, quello di veder rafforzata la verità stessa per confronto con l'errore.
A fondamento di ciò vi è la persuasione che mentre l'unanimità
non è mai utile, la differenza è piuttosto sempre altamente
auspicabile; questo perché l'individuo, che è di per se relativo,
non può avere sempre verità assolute, e quello che è falso oggi
potrebbe essere vero domani (e viceversa). L'anticonformismo è
pregevole e l'originalità di ogni individuo va sempre valorizzata e
mai resa nullo. Il suo pensiero politico-economico è pertanto
affermato su posizioni di liberalismo radicale, la valorizzazione
dell'uomo e dei suoi spazi di libertà fanno sì che lo Stato si ordini
sulla libertà civile della quale è protettore. L'unica ingerenza
ammissibile da parte dello Stato, affinché si eviti un danno
effettivo a un terzo, concerne la sola sfera della difesa e tutela
delle libertà individuali:
la libertà di coscienza, pensiero ed espressione
la libertà di perseguire la felicità,
la libertà di associazione.
Al medesimo tempo, però, si è visto in Mill anche il promotore del liberalsocialismo; così, per esempio, nelle
analisi di Norberto Bobbio e Nadia Urbinati, in anni recenti, e già in antecedenza in quelle di Ludwig von
Mises (si veda il suo saggio Sozialismus. in cui Mill è definito "il più grande avvocato del socialismo")
e Leonard Trelawny Hobhouse (nel suo Liberalism).
3.4 I Saggi sulla religione di John Stuart Mill
Stampati postumi nel 1874, gli Essays On Religion di J.S. Mill vengono presentati nel 1953 a cura di
Ludovico Geymonat. La presente riedizione (2006) viene proposta nella collana “economica” in una veste
snella e attraente. Ma al di là di motivi assolutamente editoriali o meramente estetici, la domanda più nitida
che può spuntare a un lettore di filosofia è “donde l’esigenza di ripubblicare questi saggi (visto che l’
antecedente edizione risale soltanto al 1987)”.
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Strizzando l’occhio alla collana che accoglie i Saggi sulla religione, vale a dire quella economica, come pure
alle decine di recensioni apparse nell’ultimo anno su quotidiani e riviste italiane, si comprende l’intenzione
dell’Editore di raggiungere un più nutrito insieme di lettori che non siano solo, per l’appunto, i lettori di
filosofia. Scorrendo la nota di Giulio Giorello in quarta di copertina si legge: « Se con la critica milliana Dio
appare come l’alleato del genere umano nella lotta contro il dolore e la morte, l’intero campo del
sovrannaturale viene spostato dalla sfera della Fede a quella della semplice Speranza – nel contesto di uno
“scetticismo” aperto e tollerante, lontano sia dal fideismo oppressivo sia dall’ateismo dogmatico ». Pertanto,
nella parola “tollerante” paiono palesarsi i motivi intrinseci della ripubblicazione di tale testo. Difatti, al di là della spinta continua del genere umano per la
crescita comune, verso il fine comune – che è il ganglio intorno al
quale si condensano le “esperienze” di rispetto, emancipazione,
autodeterminazione, solidarietà, tolleranza – vi sono dei periodi in
cui maggiormente si avverte l’urgenza di una risposta o, se
vogliamo, di una bussola su cui potersi ancora indirizzare. Il
medesimo Geymonat, in una nota alla edizione del 1972 dei
Saggi, osserva: «Sono fermamente convinto che sia molto
opportuno rimettere in circolazione questi Saggi. È fin troppo noto
che – in diretta connessione con la profonda crisi in atto nella
democrazia italiana, e non solo italiana – sta diffondendosi
rapidamente in larghi strati della nostra cultura un clima di sorda
sfiducia nella ragione». Certo siamo lontani dagli anni in cui, principalmente a causa dell’emergenza terrorismo, si assistette a una
involuzione dello Stato italiano con una diminuzione delle libertà costituzionali. Ciò nonostante anche oggi è possibile avvertire un esteso “scompiglio” che accetta i tratti concreti di una
insoddisfazione generica, non misurata, caotica. I problemi politico-istituzionali, quelli economici, quelli
connessi al fenomeno dell’immigrazione, della coesistenza di culture, dei diritti civili, della libertà di
espressione, del lavoro, dell’istruzione, non fanno dormire con serenità alcuno (o pochi). E altresì la Chiesa
non se la passa bene con la decadenza della fede, la diminuzione progressiva delle vocazioni e delle
ordinazioni, l’incidenza sempre più evidente della secolarizzazione, le contraddittorietà interne e le
conflittualità esteriori. È vero, si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che è sempre stato e sempre sarà in
questo modo, che ogni età ha di tali problemi, che in qualunque epoca questi problemi, in un maniera o
nell’altro, vengono superati. Ma è proprio sulle ali di questa attenta valutazione che si innestano i Saggi, e in
genere tutta l’opera, del libertario Mill. Il pensiero e la vita di Mill ci arrivano prima di tutto come un invito a
mantenersi, come dire, un passo più indietro, in un ambiente di sano scetticismo aperto e tollerante, lontani
da qualunque radicamento “a tutti i costi”, lontani da qualunque estremizzazione, pronti ad ascoltare ragioni
altre, perché altresì un solo individuo che avesse un’opinione differente dall’intera umanità sarebbe in pieno
diritto d’essere ascoltato. Ma passiamo a un esame del volume. Copyright ABCtribe.com
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I tre saggi ivi raccolti non formano un’opera organica e furono
divulgati postumi nel 1874 in volume unico. I primi due saggi
vennero scritti fra il 1850 e il 1858 mentre il terzo, che è pure
l’ultima opera di una certa prominenza scritta da Mill (morto nel
1873), fu scritto fra il 1868 e il 1870.Nel primo saggio dal titolo La
Natura, Mill evidenzia la propria attenzione sul significato del
termine “Natura” che può denotare o l’intero insieme delle cose,
con tutte le sue proprietà, oppure come le cose sarebbero a
prescindere dall’intervento dell' uomo. Nel primo di questi sensi, allora, la dottrina che l’individuo dovrebbe seguire la natura è priva di senso perché
tutte le azioni dell’essere umano sono in ubbidienza alle leggi fisiche della natura e l’individuo non potrebbe
fare altrimenti. Il secondo senso in cui il termine viene compreso, vale a dire quello che vede nella natura un
modello a cui l’uomo dovrebbe uniformarsi, è lo stesso irrazionale e perfino immorale per il motivo che il
corso dei fenomeni naturali è pieno di azioni che emergono degne del più alto aborrimento se commesse, a
imitazione, dagli individui. Tutto ciò che nella natura ci dà indicazioni di un ordine rivolto al bene – conclude
Mill – prova che l’autore di tale ordine è provvisto di un potere limitato ed è dovere dell’individuo collaborare
per il bene e, nei limiti delle sue possibilità, modificare il corso della natura perché possa essere giunto un
più alto grado di giustizia e bontà.
Nel saggio sull’Utilità della religione, il secondo del volume, Mill dichiara che la religione è stata utile e ha
esercitato la sua influenza sull’umanità fintantoché i ragionamenti in favore della sua verità non finirono di
essere convincenti. Non già che la fede religiosa non sia di qualche utilità a coloro che in tutta schiettezza
possono dirsi credenti, invece che nella temperie culturale del periodo in cui Mill si trova a scrivere risulta
indispensabile chiedersi se la religione, le prove a sostegno della quale non paiono essere più persuasivi
come un tempo, abbia o meno una sua utilità concreta per l’ indagine della verità e per il benessere
generale. In altri termini l’inglese Mill, da buon pragmatico, pone l’accento sul fatto che in un’età di fede
tiepida la « fede che gli uomini posseggono è determinata assai più dal loro desiderio di credere che non da
alcun apprezzamento razionale di evidenza » . La discussione ammessa da Mill è di carattere utilitaristico, non
morale; quello che egli critica fortemente è la possibilità che la
religione implichi un’applicazione non dovuta di nobili impulsi e di
capacità speculative, vale a dire che la religione possa “assorbire”, a
scapito del progresso dell' uomo, le migliori facoltà umane, quelle che
potrebbero rendere servizi smisurati alla verità. Il terzo saggio, Il Teismo, è separato in cinque parti e in sezioni argomentative in cui si tratta delle prove
dell’esistenza di Dio. Mill prende in considerazione differenti argomenti classici: della causa prima, dell’ordine
finalistico, del consenso generale dell’umanità, della coscienza; pertanto passa a parlare degli attributi divini,
dell’immortalità dell’anima e della scoperta. È significativo rammentare che dei tre saggi, pubblicati in volume
unico soltanto un anno dopo la sua morte, Mill progettò in vita di divulgare soltanto il primo saggio ma non
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prima di aver redatto il terzo.
Il saggio sul teismo pertanto si presenta come una specie di ricerca o dossier a uso personale per
l’approfondimento di alcuni dei più importanti nodi tematici della tematica religiosa.
Mill conclude il saggio dichiarando che l’aspetto razionale di una mente riflessiva dinanzi alle prove addotte
dal teismo, come pure alle prove addotte da qualunque rivelazione, non può che essere quello di uno
scetticismo che si tiene lontano e dalla fede e dall’ateismo, vale a dire di uno scetticismo dovuto alla
insufficienza di prove portate da una parte e dall’altra. Nel saggio sull’Utilità della religione, il secondo del volume, Mill dichiara che la religione è stata utile e ha
esercitato la sua influenza sull’umanità fintantoché i ragionamenti in favore della sua verità non finirono di
essere convincenti. Non già che la fede religiosa non sia di qualche utilità a coloro che in tutta schiettezza
possono dirsi credenti, invece che nella temperie culturale del periodo in cui Mill si trova a scrivere risulta
indispensabile chiedersi se la religione, le prove a sostegno della quale non paiono essere più persuasivi
come un tempo, abbia o meno una sua utilità concreta per l’ indagine della verità e per il benessere
generale. In altri termini l’inglese Mill, da buon pragmatico, pone l’accento sul fatto che in un’età di fede
tiepida la « fede che gli uomini posseggono è determinata assai più dal loro desiderio di credere che non da
alcun apprezzamento razionale di evidenza » .
La discussione ammessa da Mill è di carattere utilitaristico, non
morale; quello che egli critica fortemente è la possibilità che la
religione implichi un’applicazione non dovuta di nobili impulsi e di
capacità speculative, vale a dire che la religione possa “assorbire”,
a scapito del progresso dell' uomo, le migliori facoltà umane, quelle
che potrebbero rendere servizi smisurati alla verità. Il terzo saggio, Il Teismo, è separato in cinque parti e in sezioni
argomentative in cui si tratta delle prove dell’esistenza di Dio. Mill prende in considerazione differenti argomenti classici: della causa prima, dell’ordine finalistico, del
consenso generale dell’umanità, della coscienza; pertanto passa a parlare degli attributi divini,
dell’immortalità dell’anima e della scoperta. È significativo rammentare che dei tre saggi, pubblicati in volume
unico soltanto un anno dopo la sua morte, Mill progettò in vita di divulgare soltanto il primo saggio ma non
prima di aver redatto il terzo.
Il saggio sul teismo pertanto si presenta come una specie di ricerca o dossier a uso personale per
l’approfondimento di alcuni dei più importanti nodi tematici della tematica religiosa.
Mill conclude il saggio dichiarando che l’aspetto razionale di una mente riflessiva dinanzi alle prove addotte
dal teismo, come pure alle prove addotte da qualunque rivelazione, non può che essere quello di uno
scetticismo che si tiene lontano e dalla fede e dall’ateismo, vale a dire di uno scetticismo dovuto alla
insufficienza di prove portate da una parte e dall’altra.
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Il risultato a cui l’esame di Mill conduce, al limite, mantiene aperta la possibilità che sussista una sicura prova
del teismo, « insufficiente però alla sua dimostrazione, prova che raggiunge solo uno dei gradi più bassi di
probabilità ». In conclusione la visione di Mill è quella di un positivista che ha ricevuto in eredità
dall’illuminismo la concezione della centralità e responsabilità dell’individuo come soggetto che ha come
propria missione l’impegno e la lotta per la concretizzazione nel mondo di un ordine razionale, scevro da
oscurantismi, disparità, imposizioni di potere; in conclusione, di un ordine migliore in cui pure Dio fa la sua
parte, in cui uomo e Dio, probabilmente anche non conoscendosi, cooperano senza intralciarsi a vicenda.
3.5 Su La Natura di John Stuart Mill
La Natura è un saggio di filosofia morale. Mill si prospetta di
analizzare «la verità delle teorie che fanno della Natura il banco di
prova del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male o che, in
qualsiasi maniera o misura, conferiscono merito o approvazione al
seguire, imitare e ubbidire la Natura» . L'argomento gli pare
rilevante, dato che l'idea di natura è onnipresente nei discorsi
normativi. Ciò che è naturale è buono, sostengono da secoli gli
esseri umani. Di fatto, osserva l'autore, il loro comportamento è
più dubbio: a volte denunciano indignati ciò che reputano contronatura, altre volte ammirano le conquiste che hanno consentito
all'umanità di sottrarsi ai rigori della sua condizione primitiva,
criticando con ciò medesimo l'ordine spontaneo della natura. Tale osservazione è tutt'ora così valida che non possiamo restare indifferenti al problema posto da Mill, né
alla sua risposta: «L'essere conforme alla Natura non ha alcuna connessione con il giusto o con l'ingiusto».
Mill dà prova che la regola «obbedire alla natura» non può istituire il fondamento della morale. La ragione
che egli ne da è ad un tempo semplice e potente: questo precetto deve essere declinato in quanto privo di
senso. Per rendersene conto basta considerare con attenzione il senso del termine «natura». Esso ha due
fondamentali significati: «o esso denota l'intero sistema delle cose, con l'aggregato di tutte le loro proprietà,
oppure denota le cose come sarebbero, prescindendo dall'intervento umano». Nel primo significato, la
natura non è altro che la verità nel suo insieme, quella realtà di cui le scienze si stancano di comprendere i
meccanismi esprimendone le leggi (fisiche, biologiche), talvolta riunite sotto la definizione di «leggi della
natura».
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Ma se si intende il termine Natura in questo significato, non vi è alcun occorrenza di raccomandare di agire
secondo la Natura, dato che è proprio quello cui nessuno può staccarsi, sia che agisca bene, sia che agisca
male. […] Il ridomandare alle persone di adeguarsi alle leggi della Natura, quando esse non hanno alcun
potere all'infuori di quelli provvisti dalle leggi della Natura, quando è per loro fisicamente impossibile il fare la
minima cosa se non mediante qualche legge della natura, risulta un'assurdità. L'agricoltura biologica, la
coltivazione di OGM, la clonazione, condurre l'automobile, la pesca, l'infibulazione, la opposizione
dell'infibulazione e qualunque altra azione non possono essere valutate in base al loro livello di conformità
con la natura.
Tutte integralmente fanno parte della natura, nel primo senso del
termine, e vengono realizzate nel totale rispetto delle sue leggi.Si
può invece raccomandare di conoscere la natura. Tale
prescrizione non è inutile dal momento che costituisce una
condizione di efficacia dell'azione. Bisogna conoscere le proprietà
delle cose e le relazioni tra le differenti componenti della realtà
per poter valutare esattamente le conseguenze dei propri atti e
raggiungere i propri fini.
Perciò, se l'inutile precetto di seguire la Natura si mutasse nel precetto di studiare la Natura, di conoscere e
di prestare attenzione alle proprietà delle cose con cui abbiamo a che fare, in quanto tali proprietà siano in
grado di favorire o di impedire un certo scopo, noi saremmo giunti al primo principio di qualunque azione
intelligente, o meglio alla definizione dell'azione intelligente medesima. Ma, aggiunge Mill, il dettame
«conoscere la natura» non ha nessun contenuto morale.
Designare un'azione come giusta è differente dall’ indicarla come intelligente, e coloro che invocano come
guida di una condotta retta l'ubbidienza alla natura, non hanno in effetti in mente nessun principio di
razionalità strumentale. Sapere che è più facile forzare qualcheduno a parlare spezzandogli le dita piuttosto che cantandogli una
ninna-nanna non dice niente sulla legittimità della tortura. In un secondo significato, naturale si oppone ad
artificiale. La natura non designa allora la realtà nel suo insieme, ma soltanto quella parte che di essa esiste
o si produce senza l'intervento dell' uomo. Neanche questa accezione, così come la prima, consente di
fondare un obbligo morale sulla conformità alla natura.
Difatti tutte le azioni umane sono, per definizione, un'ingerenza nello stato naturale delle cose: «Lo scavare,
l'arare, il costruire, il vestirsi, sono dirette trasgressioni dell'ingiunzione di seguire la Natura». Di conseguenza è impossibile fondare l'etica umana sul rispetto
della natura (salvo, forse, considerare il suicidio come unico atto
eticamente accettabile).
Un tale precetto non soltanto è assurdo, ma altresì del tutto contrario
alla nostra concezione del bene. Mill non trova nella natura né una
fonte di felicità, né un'armonia immediata, né l'origine di punizioni utili
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o meritate:
1 La vera verità è che quasi tutte le cose per cui gli individui vengono impiccati o imprigionati quando le
compiono l'uno verso l'altro, sono atti quotidiani della Natura.
2 La natura distrugge senza rimorso quelli dalla cui esistenza dipende il vigore di un intero popolo […], come
stermina coloro la cui morte è per essi un sollievo, o una consacrazione per quelli che ne subiscono la
nociva influenza.
3 L'anarchia ed il regno del Terrore sono oltrepassati in ingiustizia, rovina e morte, dagli uragani o dalle
epidemie.
Non si tratta di sostenere che la natura è sempre cattiva. Quello che si vuole mettere in risalto è che il dolore
dell'agonia, le carestie, le malattie e gli altri cataclismi naturali sono avvertite come dei mali enormi, e che la
riconoscenza degli esseri umani verso tutti i mezzi concepiti per difendersi da essi, provano come nessuno in
effetti usi in modo sistematico il criterio di conformità alla natura come principio dei propri giudizi morali.
Nessuno vuole effettivamente che la natura venga seguita in qualunque suo aspetto, ma «gli uomini non
rinunciano tuttavia volentieri all'idea che almeno qualche parte della Natura debba venir intesa come
esempio o tipo». Il dosaggio di queste due propensioni ubbidisce ad una logica misteriosa, che Mill sospetta
essere priva di basamento razionale:
1. Non è mai stato stabilito da nessuna dottrina accreditata, quali
peculiari sezioni dell'ordine naturale debbano reputarsi intese a
nostra guida ed insegnamento morale; e, di conseguenza, sono
state le predilezioni individuali di qualunque singola persona, o le
adeguatezze del momento a decidere.
2. Il rispetto dell'ordine naturale non può legittimare l'imitazione di
certi aspetti della natura ad esclusione di altri. Ciò nonostante si
fa appello a tale criterio sempre in maniera selettiva. Di
conseguenza, quando qualcheduno invoca un simile argomento
per appoggiare una qualunque norma, il vero chiarimento della
posizione che egli vuole difendere va cercata in altro luogo.
3.5.1 Perché si crede che la natura comanda e punisce? Mill avanza una teoria di spiegazione delle ragioni (storiche, psicologiche) per le quali il precetto «seguire la
natura» esercita una tale attrattiva, e dei presupposti che conferiscono un'apparenza di credibilità ai discorsi
che le sostengono. Fa osservare per esempio che l'ammirazione suscitata dalla complessità e dalla forza dei
fenomeni naturali è un elemento che porta a mescolare un'emozione estetica con un giudizio morale.
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Mostra come la confusione tra descrittivo e prescrittivo si sia mantenuta giocando sui due significati della
parola legge, la quale indica sia una regolarità che un comando. Le «leggi della natura» scoperte dalle
scienze sono, secondo i termini di Mill «delle uniformità di coesistenza e di successione che si osservano nei
fenomeni dell'universo» (ad esempio la legge di gravità).
Niente di ciò che sia posto nel loro ambito di azione può sottrarvisi. Invece le leggi di cui si occupano il diritto
o la morale sono ingiunzioni ad agire in un certa maniera. Si può scegliere di seguirle o meno. La maggior parte dei discorsi che prescrivono agli individui il
rispetto delle leggi di natura è fondata sullo slittamento tra i due
sensi del termine legge, con la conseguenza assurda di lasciar
intendere che vi sia «una stretta relazione, se non addirittura una
identità assoluta, fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere». Infine,
Mill esamina il ruolo svolto dal sentimento religioso.
La coscienza che qualunque cosa l'individuo faccia per migliorare la propria condizione è in quanto tale una
censura e un'opposizione all'ordine istintivo della Natura ha fatto sì che in tutti i tempi i tentativi nuovi e senza
antecedenti di miglioramento fossero generalmente posti sotto un'ombra di sospetto da parte delle religioni;
come se si trattasse di atti in qualunque caso poco riguardosi, e molto quasi certamente offensivi verso gli
esseri potenti (o, quando il politeismo fece posto al monoteismo, verso l'Essere onnipotente) che si
supponevano governare i differenti fenomeni dell'universo, e dalla cui volontà si concepiva dipendere il corso
della Natura. Segue un attacco in piena regola ai tentativi di giustificare le sventure naturali con i vantaggi
che si suppone ne scaturiscano. Certo, i legami di interdipendenza fra i fenomeni sono in questo modo
numerosi che, tra le conseguenze immediate o remote di un qualunque evento, è molto probabile che se ne
trovino sia di buone che di cattive. In ogni modo è non dimostrabile, e forse falso, che il male produca in
genere un bene maggiore. Ipotizziamo che, diversamente dalle apparenze, questi orrori, quando sono commessi dalla Natura,
promuovano degli scopi buoni, tuttavia poiché nessuno crede che noi seguiremmo dei fini buoni se
seguissimo questi esempi, il corso della Natura non può essere per noi un buon esempio da imitare. O è
giusto dire che dovremmo ammazzare perché la Natura assassina, torturare perché la Natura tortura,
rovinare e distruggere perché la Natura fa similmente; oppure non dovremmo considerare per nulla quello
che la Natura fa, ma quello che è bene fare. L'affermazione secondo cui i mali naturali sono in verità degli
enormi benefici deriva per la maggior parte dallo sforzo scoraggiato dei fedeli di liberarsi del paradosso del
male (Come può un Dio di bontà consentire il dispiacere degli innocenti?). Come pure l'ostinazione, contro qualunque evidenza, nel pensare
che la creazione sia sempre buona, essendo impresa di Dio. Se la
decima parte degli impegni che si sono spesi per trovare degli
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accomodamenti benevoli in tutta la natura, fossero stati utilizzati
nel raccogliere le prove per calunniare il carattere del Creatore,
quale vasta messa di argomentazioni si sarebbe trovata
nell'esistenza degli animali meno elevati, separati, salvo rarissime
eccezioni, in divoratori e divorati, preda di migliaia di mali dinanzi
a cui vennero contestate loro le facoltà per difendersi.
3.5.2 Un antidoto perfetto da perfezionare
Il saggio di Mill non si occupa particolarmente degli animali. Dovrebbe però apparire nella cassetta degli
attrezzi di qualunque militante animalista. È un rimedio sorprendente per contrastare le obiezioni che gli
vengono quotidianamente rivolte (magiare carne è naturale, la caccia è naturale). È pure un antidoto che
dovrebbe dare a se medesimo quando è tentato di farsi sedurre dal favore di cui gode la celebrazione della
natura, e dall'idea di trarne un beneficio per gli animali.
Che siano o meno popolari, dei cattivi argomenti rimangono cattivi pretesti.
La dimostrazione che Mill dà della scarsità del precetto di «seguire la natura» è assoluta.
E sebbene ciò l'esperienza prova che contro tutti quelli che usano il termine «naturale» come sinonimo di
«bene», essa non è a sufficienza persuasivo. Costoro non sono in grado di contestarla, ma se ne liberano in modi tanto sconclusionati che non c'è speranza di ricondurli sul
terreno della logica. Quando si controbatte il valore normativo della conformità alla natura, di solito ci si trova dinanzi a riflessioni
quali: «tu ti credi Dio»; «ascolta la natura che è in te e ritroverai l'Armonia con l'Universo»; «l'agricoltura chimica avvelena la Terra
e l'organismo»; o anche: «Se preferisci il cemento e le marmitte di scappamento ai campi ed alle foreste, questo è affar tuo».
Cosa si può rispondere a qualcheduno che, quando gli fate osservare che l'insalata non può servire come rasoio, risponde: «certo,
ma è più buona di una cravatta condita con l'aceto»?
L'argomentazione di Mill non ha mancanze sul piano razionale. Le resistenze che imbatte danno prova che la ragione non basta.
Se una tale gran folla si attacca ad un'idea manifestamente falsa, è senz'altro perché essa appaga dei bisogni psicologici che la
forzano ad ingannarsi. Per combattere il miraggio secondo cui il «rispetto dell'ordine naturale»,
potrebbe munire contenuto e giustificazione alla morale, occorre capire e far
capire ancora meglio le cause che lo determinano: esaminare le paure che tale
miraggio serve ad allontanare e il reticolo serrato di credenze nelle quali si
immette. Una delle ragioni del fascino che esercita il «rispetto della natura» sta
nel fatto che esso pare dare un fondamento oggettivo alla morale (i cui precetti
sarebbero inseriti a chiare lettere nella realtà, o scaturirebbero da un'autorità
infallibile), risolvendo pertanto in modo illusorio un problema di per sé molto
reale e paurosamente articolato. Il metodo migliore di sbarazzarsi di una cattiva soluzione è quello di presentarne una migliore. L'argomentazione maturata da Mill
ne La Natura si fonda tra l'altro sulla denuncia della fallacia naturalistica (naturalistic fallacy). Se fosse possibile eludere l'interdetto
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di Hume, salvare la sua portata critica scorgendo nel contempo un modo di dedurre esattamente quello che deve essere da quello
che è, allora si sarebbe trovato ad un tempo un metodo infallibile per fissare il contenuto dei dettami etici e una giustificazione della
morale che la porrebbe risolutivamente al riparo da qualunque relativismo. Probabilmente si tratta di un'impossibilità logica. Il fatto
che per secoli i pensatori non ne siano arrivati a capo non è affatto confortante.
3.5.3 Mill contro Comte e Spencer Da una serie di articoli comparsi sulla Fortnightly Review Mill ricavò il contenuto per un libretto dal tiolo
AugusteComte and Positivism, che venne pubblicato soltanto nel 1865.
Pertanto: le critiche, e pure gli apprezzamenti, che Mill rivolse al sistema comtiano rievocavano ad un
periodo precedente. Ciò spiega parchè ci occupiamo prima di opere divulgate dopo, e rinviamo ai prossimi
capitoli l'esame degli elaborati Sull'utilitarismo e quelli sulla filosofia di W.Hamilton, divulgate in relazione al
1861-63 e al 1865.
Tornando al System of Logic di Mill, si ha ben chiaro che il primo a dissentire fu lo stesso Comte. Aveva
accolto l'opera molto con freddezza e, forse, non l'aveva neppure letta del tutto, come suo solito. Con
il System, Mill aveva di fatto dichiarata l'indipendenza della logica ( e della psicologia) dalla scienza, e,
quindi, aveva riconosciuto il diritto di pensare liberamente dalle scienze, pure se non ignorandole,
ovviamente.
Per Mill non furono le scienze a basare la logica, ma viceversa la
logica a fondare le scienze. Quando Bertrand Russell si
impegnerà a fondo per provare che la matematica è parte della
logica, terminerà per tentare, controvoglia, di dare ragione a Mill,
pure se Russell non provò mai alcuna propensione per Mill e per
il procedimento induttivo.
Nel Saggio sulla libertà, Mill aveva per di più apertamente
postulato il diritto ed il dovere di dissentire dalla tirannia
dell'opinione regnante, qualsiasi fosse, non in nome di un astratto
ribellismo, ma in nome della medesima ricerca della
verità completa, la quale non può essere in possesso di un solo
individuo, di una sola scienza, o di un solo partito.
O lo può essere solo in situazioni eccezionali, e su argomenti assai limitati. Del resto, perfino per avere un
ritratto veritiero di noi stessi, dobbiamo in qualche maniera ricorrere pure agli altri, agli amici, ad uno
psicologo, o in ogni modo possedere una conoscenza della psicologia per rifletterci in essa. Per Mill il
metodo di conoscenza, la maniera di conoscere, era pertanto una specie di filosofia prima, che era
indiscutibilmente soggettiva ed individuale, pure se, divenendo oggetto di studio, veniva posta ovviamente in
forma oggettiva, come dato contraddistinguente comune agli esseri umani. Come mette in risalto Stefano
Poggi nel volume Il Positivismo, la comunità scientifica, compresa quella tedesca, fu più disposta a ricevere
le idee di Mill, piuttosto che quelle di Comte.
Lo stesso pensatore francese E.Littré, difensore d'ufficio di Comte e critico di Mill, aveva finito con il fissare
con Mill sul carattere sperimentale del processo conoscitivo. Copyright ABCtribe.com
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Ma le riserve ed i disaccordi di Comte al pensiero di Mill rimasero sempre abbastanza impliciti. Ciò desta qualche perplessità, ma esaminando alcuni fatti nella vita privata di Comte, si può probabilmente
arguire che il suo atteggiamento fu dettato da opportunismo.
Comte fu difatti aiutato da Mill in più di una situazione. In particolare gli aveva procurato un sussidio da Grote
e Molesworth, quando Comte era stato escluso dal ruolo di revisore dall'Università di Parigi. Per Robbins,
Mill avviò a prendere le distanze da Comte quando venne a conoscere il suo pensiero sulle donne, originato
dalla frenologia. Da un lato egli le pensava oggetti degni di adorazione, dall'altra le considerava esseri
inferiori e meno intelligenti.
E in tale vicenda giocò un ruolo decisivo Harriet Taylor, che, leggendo le sue lettere, giudicò Comte un
individuo arido. In realtà Mill aveva già preso le distanze da Comte, ben prima, e come abbiamo visto,
proprio in ragione della frenologia e della psicologia. Più obiettivo della moglie, Mill non sconfessò mai i lati
apprezzabili del pensiero comtiano. Scrive Poggi: « Mill
respingeva il giudizio che Spencer aveva espresso nel suo saggio
sulla classificazione delle scienze nel 1864 circa la scarsa
originalità delle concezioni comtiane, ritenute nient'altro che un
aspetto della "eredità comune" del pensiero moderno. Comte affermava Mill - aveva messo in evidenza con grande forza e
persuasività il carattere non assoluto della conoscenza umana. Continuando ad esprimere consenso nei confronti della concezione comtiana dei tre stadi di sviluppo della
conoscenza umana, Mill giudicava in modo favorevole anche l'impostazione data nel Cours alla questione
della classificazione delle scienze. » (cit.)
Secondo Mill, Comte aveva saputo identificare la dinamica della relazione fra lo sviluppo della conoscenza e
la costruzione della dottrina scientifica. Al contrario, Spencer non aveva colto il rapporto fra "scienza astratta"
delle leggi di natura e conoscenza concreta dei fenomeni, e non aveva intravisto che di qualunque legge si
poteva dare una illimitata possibilità di mescolanza con altre leggi. Redige ancora Poggi: « Ora, a giudizio di
Mill, i criteri proposti da Spencer, - che, per esempio, classificava chimica e biologia tra le "scienze concrete"
- introducevano distinzioni assai meno pertinenti di quelle proposte da Comte. A Spencer poteva essere avanzata un'obiezione radicale: egli aveva posto mano ad una classificazione delle
"verità" della conoscenza scientifica sulla base non dell'oggetto di tali verità, ma di irrilevanti differenze "nel
modo in cui veniamo a conoscerle". Se - rilevava Mill - "la legge di inerzia (considerata come una verità
esatta) non è il risultato di una generalizzazione delle nostre percezioni dirette, ma è il risultato di una
inferenza compiuta combinando con i movimenti che vediamo quelli che noi dovremmo vedere se non ci
fossero della cause perturbatrici", ciò forse fa una grande differenza? Nell'un caso e nell'altro la certezza di
avere una verità esatta è la medesima: "ogni legge dinamica viene portata a pieno compimento anche
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quando sembra essere del tutto contestata." Si pensi solo - concludeva Mill - a quante, per esempio, sono le
verità della fisiologia conosciute solo in modo indiretto: ciò non impone tuttavia di farne qualcosa
di astratto nel senso di Spencer, da espungere dunque dal corpo della scienza.»
La dichiara troppo esplicitamente Mill, ma certo è che questo non
può essere il procedimento con il quale si possono ordinare le
scienze, le quali peraltro sono già state regolate dalla storia della
scienza, autonomamente, dagli scienziati e non dai pensatori.
Quello che fa di una scienza una scienza è certamente il suo
oggetto e, per restare ad una che mi è particolarmente consona,
la medicina, è certo che essa in primo luogo ha un oggetto, la
malattia e la salute psicofisica di tutti gli individui umani, ed ha
anche nel tempo, preparato un suo metodo conoscitivo adeguato
ad una conoscenza generale di tutto quello che è comune agli
individui umani, altresì nel senso di eccezioni al comune, ed è
questo che la rende nella stragrande maggioranza dei casi
attendibile.
Ma il problema è che noi non abbiamo mai apertamente a che fare con la scienza medica, ma con dei
medici, degli infermieri, degli ospedali, delle analisi e delle terapie, dei medicinali e del loro effetto su di noi. Il
lato concreto della scienza è questo: la sua applicazione attraverso individui che agiscono in virtù di quel
sapere generale e di come è stato trasposto in applicazione peculiare. Allora è chiaro che la distinzione spenceriana fra scienze astratte e concrete è del tutto discutibile. La
scienza è concreta quando un addetto la applica. La scienza medica è concreta quando esiste un medico
che, apprendendola, la applica.
Era sicuramente vero che Comte aveva eluso e, in ogni modo, molto svalutato il problema delle inferenze
induttive. E il luogo e la sostanza della sottovalutazione stava nel concetto di causalità. Per il pensatore
francese un fatto fisico può essere la causa di un altro solo secondo la legge di successione, e pertanto solo
in tale senso poteva essere oggetto di conoscenza scientifica.
Secondo Mill si davano leggi di successione e leggi di coabitazione. Non soltanto: una cosa sono le leggi di
causazione ed un'altra ancora sono le successioni: il fatto che la notte insegua il giorno, non prova affatto
che il giorno sia cagione della notte.
Mill criticò per di più la rinuncia di Comte a valersi della prova e
pertanto dell'esperimento. Secondo Comte, come mette in risalto
Stefano Poggi, " la strutturazione teorico-sistematica della
conoscenza" era "qualcosa di soggettivamente utile" . Veniva
unicamente incontro all'esigenza umana di "ottemperare ad una
istintiva predilezione per l'ordine e l'armonia."
Mill notò che "in tal modo veniva operato il completo
stravolgimento dei principi essenziali che formano la concezione
positiva della scienza."
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Poggi, per la verità, non pare sia stato in grado di spiegare bene tale tipo di critica. Se si pone la soddisfazione interiore di tale ricerca di armonia a basamento dei nostri giudizi e delle nostre
valutazioni scientifiche, vale a dire della nostra interpretazione dei fatti, poniamo il soggettivo, la nostra
fantasia, il nostro desiderio che le cose stiano in questo modo, in luogo dell'oggettivo rilevamento, che al
contrario porta a dire: le cose stanno così, anche se mi dispiace.
Non si tratta pertanto di una critica di poco conto, di un prominenza ad una svista comtiana, ma di una
osservazione sostanziale che prova quanto Comte avesse una concezione davvero soggettiva e del tutto
personale della scienza, tanto spontanea quanto dogmatica.
Redige poi Poggi:« Certamente - argomentava Mill continuando a discutere la tesi di Comte - la "parte
intellettuale" non è "la parte più potente della nostra natura"; in se stessa, ne è anzi una delle più deboli. La
"parte intellettuale", tuttavia, "guida ed agisce non con la sua sola forza , ma con tutte le forze unite delle
parti della nostra natura che può trascinare dietro di sé." Se è ovvio che "le passioni, nel singolo individuo,
sono una potenza che ha più energia di una pura e semplice convinzione intellettuale", è pure vero che le
"passioni tendono a dividere, non ad unire l'umanità." Le passioni possono cooperare - e non come forze che
"si neutralizzano a vicenda" - soltanto se guidate da una credenza (belief) comune", da un "risvegliarsi della
nostra intelligenza", che in questo modo abbandoni le "aspirazioni animali" e i "desideri più forti e rozzi".» Tali considerazioni di Mill raggiunsero l'apice tuttavia in una critica ad Herbert Spencer che, di fatto, urtò sia
Hume che Adam Smith e la loro dottrina dei sentimenti. Spencer aveva dichiarato che le idee non governano
il mondo, il quale è assoggettato dai sentimenti; le idee sono soltanto una guida. In sostanza Spencer aveva
contestato a Comte il suo esempio di interazione fra idee e sentimenti, e pertanto di un’ unione fra passione
e ragione. Mill difese Comte, sottolineando, che sotto tale profilo non erano state le emozioni, ma i
cambiamenti intellettuali a cambiare e accrescere le più rilevanti conoscenze. Possiamo parlare a tale
proposito di un platonismo milliano, che si mette in evidenza in particolare in tale citazione: « Affermare che
le convinzioni intellettuali degli uomini non determinano la loro condotta è come affermare che la nave è
mossa dal vapore e non dal timoniere. Certamente , il vapore è la potenza motrice; il timoniere, lasciato a se
stesso , non potrebbe fare avanzare la nave d'un pollice, eppure sono la volontà e le conoscenze del
timoniere che decidono in quale direzione la nave muoverà ». Sul fatto che quello sia vero non ci sono dubbi; ma è altrettanto
vero che ci sono illimitati individui umani che, in qualunque epoca
ed in ogni regime sociale e politico, paiono davvero navi senza
timoniere e questo, tutto sommato, rende una qualche ragione
pure a Spencer. Con ciò, per di più, occorrerebbe sempre
ricordare che negli individui migliori c'è sempre una passione
fondamentale, ovvero una tensione alla scoperta che non si può
spiegare soltanto come razionale. E le scoperte non si fanno solo
a tavolino. Bisogna, a volte, anche rischiare, vale a dire sfidare
valorosamente i propri limiti fisici e mentali, vincendo paure del
tutto razionali quali quello di sperimentare un salto nel vuoto con il
paracadute per vedere se è vero che con tale mezzo siamo
capace di rallentare la velocità di caduta.
Negli scritti raccolti sotto il titolo Utilitarismo, pubblicati in origine nel 1863 sulla rivista Frazer's, troviamo una
riproposta della dottrina utilitarista, anche se rivisitata e corretta molto profondamente rispetto all'originaria
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impostazione di Bentham. Questo dottrina viene spesso compendiata con l'affermazione che è eticamente e
correttamente corretta l'azione indirizzata a garantire la felicità per il maggior numero. Naturalmente non tutta la teoria si risolve in questo, ma tale è la formula, più che il principio, ed a questa
formula che si riferisce pure il diritto riconosciuto per il quale ciascuno agisce esattamente se ricerca la sua
felicità personale, cercando di raggiungere il piacere e fuggendo il dolore e la sofferenza. Stuart Mill corresse
tale formula, aggiungendovi considerazioni morali, come dicendo: a patto che non si agisca in maniera
immorale, a patto che la virtù sia pensata come mezzo per la felicità e come desiderabile in sé medesima,
ed ancora: a condizione che si riconosca una diversità fra piaceri bassi e piaceri notevoli, che sono quelli che
danno la felicità.
Come si vede subito, si trattò di considerevoli precisazioni a puntello di una scienza filosofica che altrimenti
sarebbe stata troppo vaga e generica, oltre che oppugnabile a partire da quel vizio di formulazione che
ometteva il dovere, dichiarando soltanto il diritto.
Vi erano dottrine che contestavano la felicità o la giudicavano
impossibile. Si trattava, in sostanza, di chiarire entro quali
condizioni avesse senso parlare di felicità e pure di mostrare
dove, come e quando si erano constatati esempi concreti di
felicità particolare o collettiva. Un problema poteva casomai
consistere in questo: oltre alle ovvie difficoltà naturali, determinate
dalla precarietà della vita dell' uomo, vi erano e vi sono
certamente altri ostacoli di natura sociale, culturale, economica
che ostacolano la felicità.
Non disgiunti da tali, ma esaminabili in modo relativamente indipendente, vi erano da approfondire gli intralci
caratteriali e di temperamento interni agli uomini medesimi. Vano dire che spesso una non riuscita felicità
non ha niente a che vedere con la povertà, la mancanza di salute, il difetto fisico, ma è frutto di una mentalità
sbagliata, di un imperfetto ed unilaterale approccio alla esistenza, di non comprensione di come gira il
mondo dei rapporti sociali e fra i sessi.
Nel caso in cui cercassimo anche questo, il testo milliano potrebbe risultare insoddisfacente.
Certo non fu una guida alla felicità o un manuale di materialismo. Potremmo considerarlo, al massimo,
l'espressione di un esistenzialismo facilitato e liberato da considerazioni intellettualistiche e libresche, oppure
contaminate dall'irrazionalismo di stampo kierkegaardiano, o dell'assoluta non-volontà di vivere difesa da
Schopenhauer, scrittori che Mill, peraltro, mostrò di ignorare, e che probabilmente conobbe soltanto
mediante i loro seguaci inglesi. Mirassimo ad ottenere un qualche stimolo alla investigazione filosofica, gli
spunti non mancherebbero, pure se tale lavoro non fu improntato ad una ricerca indifferente ed aperta a
qualunque risultato, ma risolutamente orientato a difendere la dottrina utilitaristica dagli attacchi ed a
renderla più ammissibile. Siffatta preparazione compromise la valutazione che Mill diede di Kant ed il lettore obiettivo potrebbe perfino
rimanere contrariato dalla saccenza con cui Mill liquidò la riflessione kantiana su giustizia e moralità, senza
peraltro provare di conoscerla approfonditamente. Sotto tale aspetto si può affermare che l'interesse
maggiore di tali scritti concerne l'indagine sulla relazione fra utilitarismo e giustizia che si trova esposta al V
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capitolo. Qui Mill cercò di provare che il principio di giustizia morale, qualche cosa di sostanziale, che è altra
cosa da quello di giustizia giuridica, spesso solamente formale, non è un principio a sé stante, vivente di per
sé nella natura umana, ma il derivato dell'approccio utilitaristico alla esistenza. Mill voleva dire che era la
ricerca della felicità a portare ad imbattersi con il problema dell'ingiustizia, e pertanto a esprimere
rivendicazioni in nome di più giustizia, e non la giustizia ad essere il principio della dottrina etica. In tale senso le tesi milliane rappresentarono una sfida ai principi
della teoria morale kantiana, la quale era di tipo razionale e non
empirico - induttiva. Nella seconda parte
della Fondazione della metafisica dei costumi Kant aveva redatto:
«Non si potrebbe immaginare nulla di peggio per la moralità che
la pretesa di ricavarla da esempi. Infatti ogni esempio del genere
deve esso stesso esser precedentemente giudicato alla luce dei
principi della moralità per stabilire se è degno di servire da
esempio autentico, cioè da modello; in nessun caso può quindi
fornire per primo il concetto di moralità. Perfino il santo del Vangelo dev'essere paragonato col nostro ideale di perfezione morale prima di essere
riconosciuto come tale; infatti egli dice di se stesso: "Perchè mi dite buono, (me che voi vedete)? Nessuno è
buono (il prototipo del bene) eccetto il solo Dio (che voi non vedete)." Ma da dove prendiamo il concetto di
Dio come Sommo Bene? Unicamente dall'idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale,
connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera. In sede morale non c'è posto per l'imitazione, e
gli esempi non servono che da incoraggiamento, cioè a togliere ogni dubbio sulla attendibilità di ciò che la
legge comanda, a rendere intuibile ciò che la regola pratica esprime in modo più generale, ma non è
ammissibile che sia posto in disparte il loro vero originale, che si trova nella ragione, e che ci si regoli su
esempi.» (Fondazione della metafisica dei costumi )
In pratica, ribadì Kant, per giudicare un atteggiamento come morale, la ragione deve aver postulato in
precedenza cosa è morale, e deve aver pertanto fissato a priori la massima sulla quale regolare il giudizio.
A questo si può contestare che il ragionamento empirico, dopo esser giunto a comprendere che è meglio
vietare alcuni atteggiamenti ai fini di una coesistenza pacifica che garantisca benessere e felicità, scopre alla
fine, con un insight, vale a dire una inaspettata illuminazione della ragione, che l'insieme dei divieti che ha
prodotto, in verità può essere compendiato in una formula, e questa formula è efficace in quanto da essa si
possono agevolmente ipotizzare giudizi. A Kant si potrebbe insomma opporre che la ragione non lavora mai
su nessuna cosa, ma a posteriori di esperienze significanti. Essa le può superare, ma sarebbe assurdo
dichiarare che le ignora. Tale fu la posizione di Mill, e sotto questo profilo non pare sia confutabile. La
problematizzazione del concetto di giustizia morale inserito da Mill, ciò nonostante, non solo dimostrò che la
parola può assumere significati rischiosamente differenti e persino di tipo equivoco, ma anche che un certo
numero di questioni di giustizia non si risolve trovando il principio o l'idea, principio od idea che
semplicemente non sussiste in natura, ma solamente trovando l'accordo su cosa conviene reciprocamente. Si darebbe allora ingiustizia nel vero senso della parola qualora
l'accordo venisse violato da un solo lato da una parte, e non in
altro modo rinegoziato sulla base della nuova situazione. Ciò non
fu contributo di poco conto nella storia della filosofia, ma questo
apporto rimase viziato dalla mancata individuazione dei meriti di
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Kant, il quale aveva in ogni modo espresso in termini davvero
lampanti quella che è una formula viva e non morta sia della
giustizia che dell’ equo agire. Se in Kant fu ovvio che si deve
rifiutare ad un po' di felicità, e pertanto ad ogni compromesso
morale, per un dovere assoluto verso la giustizia, in Mill
comunque, non fu nello stesso modo palese che si deve
rinunciare ad un po' di giustizia per un po' di felicità. Non fu questo il senso del lavoro milliano e si errerebbe a presentarlo in questo modo. Il vero scopo di Mill
era quello di fare vedere che la giustizia non è una mummia, un duro cumulo di norme bacchettone, ma un
principio vivo per i vivi, e che si imbattono problemi veri di giustizia soltanto se si vive. Che ci sia riuscito?
Questo è il punto: le osservazioni critiche pro - Kant non sono contro Mill e neanche contro il metodo
induttivo, che del resto si preferisce sinceramente a quello deduttivo quando ci si avventura in territori nei
quali la matematica e l'esattezza scientifica possono ben poco. Il problema è che Mill non è sembrato
convincente, e sembra abbia del tutto sbagliato indirizzo criticando Kant come se fosse il maggiore critico
della giustizia rigida e mummificata.
Formalmente, vi era, quindi, prima di Mill, una dottrina utilitaristica che si adattava sia agli egoisti che agli
altruisti e sicuramente interpretava tanto la larga esigenza di discolpare e rimpolpare di contenuti l'edonismo
borghese, quanto la causa di quelli che ambivano ad una condizione di vita superiore, quanto, per
concludere, la causa di coloro che altruisticamente basavano la propria aspirazione alla felicità come
trattazione del compito di consentire all'insieme degli esseri umani un po' di felicità e di benessere. Data tale
epidemia utilitaristica, avrebbero dovuto restare immuni al contagio stesso gli sfigati di tutte le classi sociali e
quei caratteri melanconici con i quali non funziona neppure la soluzione finale presentata dal Qoheletbiblico:
visto che tutto è vanità, non resta che mettersi a tavola e fare baldoria con gli amici.
In verità Mill confesserà in una lettera che, a suo avviso, la
dottrina utilitaristica era avuta in comune da un'infima minoranza
nella stessa Inghilterra, e che lo sport prediletto all'epoca era
quella di presentarla sotto una visione deturpante. Ma questa è in
fondo la sorte di tutte le dottrine, che si può fare? La correttezza
appartiene, tuttavia, agli storici della filosofia, ma non pare una
qualità diffusa fra i pensatori medesimi intesi come partigiani di
una dottrina. Del resto, il medesimo Mill venne meno alla regola
del fair play rispetto a Kant. La domanda ovvia che ci si potrebbe
porre è che cosa sia divenuto l'utilitarismo dopo i rifacimenti di
Mill.
3.5.4 Una distinzione tra felicità e soddisfazione Copyright ABCtribe.com
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Mill introdusse tale distinzione per provare che l'utilitarismo riconosce che vi sono piaceri elevati e piaceri
bassi, e questi procurano soltanto un godimento intenso e pronto, ma poi sfumano, mentre quelli elevati
(letture, arti ecc...) non soltanto perdurano, ma sono anche utili, vale a dire accrescono la cultura e la
coscienza di un individuo e il livello civile di una comunità. Tale distinzione è sicuramente rilevante perché dichiara una definizione di felicità trascurata da Bentham,
attento soltanto, per così dire, agli aspetti quantitativi. Mill mostrò tale differenza nell'ambito di una dimostrazione condotta sul tema delle intenzioni e dei progetti
umani, affermando, in risposta a possibili opposizioni: « L'obiezione che verrà fatta non è che il desiderio in
ultimo esame possa avere la più remota possibilità di indirizzarsi ad altro che al piacere e all'eliminazione
della sofferenza, ma invece che il volere non è la medesima cosa che il piacere; che una persona di provata
virtù, anzi una persona qualunque che presenti a se stessa progetti ben determinati, porta a termine questi
suoi progetti senza pensare al piacere raggiunto al momento di concepirli o che si aspetta al momento
quando saranno messi in atto. E persiste ad agire in conformità con essi pure qualora questo piacere sia
molto diminuito, sia a causa di modificazioni nel suo carattere, sia per l'indebolirsi della sua sensibilità
ricettiva, o altresì qualora quel piacere sia più equilibrato dalle sofferenze che la continuazione dei progetti
potrebbero arrecargli.
Tutto questo si ammette pienamente, e si è dichiarato altrove
tanto sinceramente e tanto perentoriamente quanto chiunque
altro. La volontà, in quanto fenomeno attivo, è cosa differente dal
desiderio, che è uno stato di sensibilità passiva, e benché in
origine origini da esso, può in seguito prender radice e staccarsi
dal tronco madre; a questo punto che nel caso di uno scopo
abituale, piuttosto di volere una cosa perché la desideriamo,
sovente la desideriamo soltanto perché la desideriamo.
Ciò ciò nonostante non è che un esempio di quel comune fenomeno che è la forza dell'abitudine, e non è
limitato al caso delle azioni virtuose.» (daUtilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile
con l'utilità). Ma dopo tale concessione, Mill fu abbastanza risoluto nel dare prova che il desiderio determina
la volontà e non c'è altra maniera per ottenere volontà che svegliare il desiderio, in particolare la voglia di
essere felici: « prendiamo ora in considerazione non più la persona che ha una salda volontà di agire
correttamente, ma colui la cui volontà virtuosa è tuttora debole, tale da poter piegarsi alla tentazione e sulla
quale non si può fare completo affidamento. Come la si potrà irrobustire? Come si potrà imprimere o
svegliare la volontà di essere virtuosi là dove essa esiste con una forza non sufficiente? Solamente se si fa
sì che la persona desideri la virtù - facendole spuntare la virtù in una luce gradevole o l'assenza della virtù in
una luce spiacevole.»
Mill mise in evidenza il carattere morale dell'utilitarismo, come s'è visto, dichiarando che la ricerca della
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felicità non esclude la virtù, ma anzi la incoraggia. Pur escludendo che l’ indagine della virtù sia qualche cosa
di differente da un mezzo per arrivare alla felicità, e che perciò gli individui non bramino altro che la felicità
medesima, si può dire che Mill gradì la virtù come indispensabile ingrediente della felicità. Su questo piano il
ragionamento di Mill non fu a prima vista ineccepibile, pure perché, subito dopo affermò che, secondo
l'utilitarismo, la virtù è auspicabile in sé medesima, senza altro fine che la virtù medesima. Che è come
accettare che la virtù potrebbe non provvedere alla felicità. Ovviamente, anche in tale caso sarebbero
possibili opposizioni infinite, non ultima quella che la virtù, anche se non viene premiata, schiva una bella
serie di dolori e difficoltà di tipo interiore, il che è sicuramente una delle condizioni importantissimi per la
felicità. Si può, però, per Mill, essere appagati e non- virtuosi, quindi soltanto appagati, sazi, ma non felici.
E ciò spiega moltissime cose, non ultimo il fatto che la
maggioranza degli individui mescola la soddisfazione con la felicità,
ed è ciò che conduce ad affermazioni ai limiti dell'assurdo quali
quella che la felicità è difficilissimo dal lato dei poveri che non
potranno mai concedersi quei piaceri, o che è facilissima dall'altro
lato, al punto che sarebbe sufficiente essere ricchi, buongustai,
sessualmente dotati, intelligentissimi, bellissimi ecc... per essere
pure felici.
Tutto starebbe , allora, a intendere cosa sia la felicità, ed a dire ben
chiaro che si tratta di felicità in senso terreno.
Inutile affermare che l'impresa era ed è in ogni modo sovrumana perché qualsiasi definizione si possa dare
di essa, rischia di escludere in ogni modo qualche ingrediente pensato essenziale da alcuni. Non si può
affermare che essa consista nella rinuncia ad qualunque soddisfazione, per esempio. Si tratterebbe,
casomai, di capire quali soddisfazioni procurano l'indispensabile alla felicità. Fra queste, indubbiamente, in
un temperamento nobile, le compiacenze impersonali, le conquiste sociali o quelle della scienza, il progresso
dell'istruzione, i progressi della medicina hanno un valore maggiore che in un temperamento meno nobile,
attento soltanto alle soddisfazioni intese come possesso e come uso di beni. Mill parlò di amore per il
denaro, per il potere e per la gloria come una specie di alternanza all'amore per la virtù, ma tese a
minimizzare questo possibile conflitto, quando al contrario esso è sempre stato all'origine di qualsiasi ritiro
dal mondo della gloria, del potere e del denaro perché è sovente parso impossibile raggiungere l'uno e l'altra
con strumenti onesti. Vale la pena di rendere la citazione intera: « E di conseguenza la norma utilitarista, mentre tollera ed
approva quegli altri desideri acquisiti [denaro, potere, gloria], fino al punto oltre il quale, invece di
promuovere la felicità generale, le nuocerebbero, prescrive e richiede invece che si coltivi l'amore della virtù
fino al punto di massima intensità, in quanto è determinante per la felicità generale più di qualsiasi altra
cosa.» (da Utilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile con l'utilità). Come Bentham, Mill
riconobbe che la sanzione procurava la prova della esattezza o meno di un'azione. Ma in Bentham la
sanzione esteriore aveva un ruolo pressoché esclusivo, e perciò era rilevante che la collettività fosse più
giusta e le leggi, opportunamente riformate, fossero applicate, mentre per Mill la sanzione interiore, ovvero
l'avere una coscienza in pace, aveva un rilievo maggiore e valeva in ogni modo in qualunque situazione. Ma,
sulla scorta di queste considerazioni, Mill tentò ugualmente di provare che la sanzione interiore non derivava
dal carattere innato dell'umanità, o di almeno certi esemplari di esseri umani, in grado di stabilire a priori,
cosa fosse buono o non buono, ma propendeva duramente per dare tutta la responsabilità della moralità e
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del senso intrinseco di approvazione e biasimo all'educazione.
Tale atteggiamento fu certamente democratico, e di sinistra (anzi
è proprio uno dei siti più comuni del pensiero di sinistra), ma si
capisce precisamente che non può essere pure del tutto
ammissibile, perché si potrebbero fare milioni di esempi di singoli
bene educati e poi in ogni modo caduti nell'immoralità, nel crimine
o pure informe di lotta politica del tutto contrari con i principi della
convivenza civile. Indipendentemente dal grado di giustizia di uno
stato, per di più, per Mill era determinante la tirannia della
maggioranza, vale a dire della mediocrità, ed era perciò
sufficientemente illusorio credere che la pubblica opinione
sanzionasse positivamente atteggiamenti corretti e prudenti, o
provocatori, o unicamente ribelli all'ipocrisia.
In quest'ottica l'utilitarismo doveva per forza di cose avere in comune l'idea che la virtù fosse insegnabile,
pure se ciò rappresentava un problema, e che fosse parte integrante dell'insegnamento anche l'educazione
a godere la vita ed a pervenire alla felicità. A questo fine Mill non esitò ad arruolare Socrate fra le file degli
utilitaristi, riferendo il dialogo platonico Protagora, e diede somma rilevanza ad una rivalutazione
dell'epicureismo, inserito dallo stoicismo e da "alcuni elementi della morale cristiana." Quest'idea fu
presentata "di corsa", senza alcuno sforzo per presentare i possibili nessi fra le varie scuole. Inoltre Mill
ignorò o finse di ignorare che uno dei massimi insegnamenti epicurei consisteva nel detto: "Vivi nascosto",
che non sembra del tutto fedele con il precetto di agire apertamente per la massima felicità possibile per il
maggior numero, insegnamento che non può non sboccare in un onere politico o sociale, no profit, tanto per
capirci. L'utilitarismo non esclude il sacrificio di sè per altruismo. Mill ricacciò risolutamente tale critica
all'etica utilitarista, considerata come borghese, condotta sia da destra, vale a dire dai malinconici come
Coleridge e Carlyle dei bei tempi andati ed in generale dai romantici, ma pure da sinistra nel nome del
socialismo, il quale reclama non uno, ma due sacrifici di sé.
Prima come propagandista sostenitore che spende la propria esistenza ed i propri averi per la causa, e poi
come singolo superiore che rinuncia ai propri meritati guadagni per dichiarare il principio dell'uguaglianza, o
dell'appiattimento retributivo, che dir si voglia. L'utilitarismo non è una dottrina senza Dio. Mill contrappose a
questa deformante critica degli antiutilitaristi romantici l'obiezione che Dio non poteva aver creato l'individuo
per poi farlo vivere infelice. Chi dice questo, in sostanza, coltiva un assai miserabile concetto di Dio.
Beh...questo è un pensiero certamente nobile, ed è, a mio avviso, il punto più alto di tutta la riflessione
milliana. Tant'è vero che è su tale pensiero che si svilupperanno gli scritti teologici di Mill su Dio e la religione,
pubblicati postumi. Ma in verità le basi dell'utilitarismo furono schiettamente laiche, pure se in Stuart Mill non
presero mai una colorazione antireligiosa, semmai antidogmatica.
C'è chi ha visto in tale posizione di Mill un'influenza della
medesima teologia inglese, protestante ed anglicana, del XVIII
secolo. Posto che la dottrina puritana era agli antipodi di tale
teologia ottimistica e tollerante, e pertanto più vicina ai talebani,
sicuramente, che ad Erasmo da Rotterdam, si può permettere tale
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influenza teologica senza comunque esagerarla. Se proprio si
volessero trovare dei padri a Stuart Mill, non fosse stato
sufficiente quello carnale, sarebbe meglio cercarli fra i pensatori
inglesi Locke, Bacone e tra i deisti.
3.5.5 Giustizia ed utilitarismo
Secondo i più feroci critici dell'utilitarismo il concetto di giustizia in senso morale e non legale sarebbe
la pietra d'inciampo, lo scoglio contro il quale l'intera dottrina utilitaristica avrebbe dovuto o dovrebbe
affondare. All'utilitarismo, per Mill, era indispensabile provare che non è la giustizia il principio universale, sul
quale si regola tutto il resto, ma casomai è l'approccio utilitaristico medesimo a fungere da criterio per la
morale e per la giustizia. La teoria finale di Mill, come vedremo, è che l'Opportuno ed il Giusto sono da un
lato cose differenti, ma dall'altro la medesima cosa, e che se un'azione è effettivamente giusta, dev'essere
pure conveniente.
Mill spese molti passi, nel capitolo V, per provare tale derivazione del concetto di giustizia e moralità in
polemica con Kant e con la scuola definita intuitivo - razionale, in pratica la scuola che faceva della giustizia
il principio della morale e derivava qualunque precetto morale dal postulato kantiano-cristiano di non pensare
mai l'essere umano soltanto come mezzo, ma sempre come fine. Il problema è che pare dubbio che un approccio solamente utilitaristico possa portare alla stessa
dichiarazione kantiana, la quale rimane, e rimarrà per sempre, nei secoli dei secoli, la massima capace di
descrivere la moralità ed il criterio di qualunque giustizia.
La riflessione kantiana potrebbe essere il risultato di un ragionamento utilitarista se, e soltanto se, essa
fosse stata generata da una considerazione di tale tipo: io sarò felice quando non vi saranno più persone
sulla terra che sfrutteranno altri uomini ritenendoli soltanto come bestie da soma, o come carne da macello
per qualche guerra. Si tratta, di un sentimento di umanità universale più che di un ragionamento, di una
specie particolarissima di intenerimento che è poi alla base di qualunque ragionamento corretto.
Forse siamo in molti ad averlo ritenuto, ma alcuno, poi si è
sentito utilitarista o si è gettato sui libri di Bentham per
divorarli. Tutti, invece, abbiamo guardato a Kant come la vera
luce dell'illuminismo, all'uomo che pur svolgendo difficili e testardi
ragionamenti da pensatore, seppe sempre dire con naturalità ed
umiltà le cose più belle e più vere sulla coesistenza umana.
E' singolare che Mill non abbia sentito la occorrenza di citare
questa massima, di farne la bandiera medesima del
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suo utilitarismo a patto che. Al contrario si occupò della massima
che deriva da questa, ovvero quella che afferma: «Agisci in modo
tale - scrisse Kant - che la regola secondo la quale agisci possa
essere adottata come legge da tutti gli esseri razionali.» Il che
vuol dire: agisci in maniera esemplare. Fai sì che il tuo esempio sia da lezione di equità, prudenza, coraggio a singoli che si trovino in situazioni
simili. Mill si limitò, nel commentare tale frase, ad una critica negativa. Notò che quando Kant "comincia a
dedurre da siffatto precetto uno qualunque degli effettivi doveri morali, egli fallisce in maniera quasi grottesca
nel tentativo di dimostrare che vi sarebbe una incoerenza, una impossibilità logica (senza parlare di una
impossibilità fisica), se tutti gli esseri razionali volessero accogliere le regole di condotta più immoralmente
corrotti. Tutto quello che egli riesce a provare è che gli effetti di una simile adozione universale sarebbero tali
che alcuno vorrebbe prediligere di sottoporvisi." ( passo tratto da Utilitarismo - cap. I- Osservazioni
generali). Secondo Mill, insomma, fu poco, quello che piuttosto secondo me fu molto: l'affermazione ben
ponderata che è impossibile che pure nelle circostanze più critiche e desolanti non si palesi una inversione di
tendenza. Ma sarebbe sbagliato scordare che in più punti il bersaglio di Mill pare piuttosto essere il concetto
romantico della giustizia, spesso mostrato come un sentimento ed un istinto congenito, un istinto speciale ed
una sorta di garanzia sulla bontà del prodotto essere umano. Non a caso Mill inaugurò il capitolo con un
riferimento chiaro: « Uno degli ostacoli maggiori all'accettazione della dottrina secondo la quale l'Utilità e la
Felicità sono il criterio del moralmente giusto e del non moralmente giusto, è nato, in ogni epoca del
pensiero, dall'idea della giustizia.
La potenza del sentimento e l'apparente limpidezza della percezione che questa parola richiama, con una
rapidità ed una sicurezza che rassomigliano all'istinto, sono reputate alla maggioranza dei filosofi indicative di
una qualità che è inerente alle cose; è parso che mostrassero che il Giusto deve esistere in Natura come
qualche cosa di assoluto, distinto approssimativamente da tutte le varie forme dell'Opportuno, e discordante
in teoria a quest'ultimo, sebbene sia in verità, così come viene comunemente riconosciuto, sempre collegato
a lungo andare con esso.
Nel caso di tale sentimento morale, così come per tutti gli altri, non vi è legame necessario fra la questione
della sua origine e quella della sua forza vincolante. Il fatto che un sentimento sia ispirato in noi dalla Natura
non legittima per forza tutte le sue sollecitazioni. Può darsi che il sentimento della giustizia sia un istinto
speciale, ma che pur tuttavia richieda di essere esaminato da una ragione superiore. Se abbiamo degli istinti
intellettuali che ci inducono a giudicare in un certo maniera particolare, così come abbiamo istinti animali che
ci spingono ad agire in un maniera particolare, i primi non sono per forza più infallibili nella loro sfera di
quanto non lo siano i secondi nella loro; e può succedere che giudizi erronei siano suggeriti dagli uni, così
come azioni sbagliate lo sono da quegli altri». Da queste poche righe è evidente che Mill fu più impensierito di
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distinguersi dai romantici che dai razionalisti. Inutile dire che si
sarebbe separato molto meglio se avesse criticato tale deriva
irrazionale e mistica del romanticismo come mancata
comprensione del principio che basa la moralità kantiana, il quale
non è per nessuna cosa infinito ed indicibile, ma è stato detto,
perciò risultò finito, dicibile ed indiscutibile. Ma, seguendo Mill
nell'evoluzione del suo esposizione, il primo approdo è che la
giustizia viene ad essere un concetto del tutto relativo al punto di
vista di che ne parla. Quello, più che a Socrate, porterebbe dritto
a Protagora, ed alla sua famosa comunicazione che l'uomo
(singolo) è la misura di tutte le cose. Più che un Mill socratico od
epicureo, avremmo pertanto, in prima battuta, un Mill sofista. Può
essere? In verità no. Mill era davvero molto preoccupato dal problema della genesi e della fondazione del concetto di giustizia. Ne
fanno fede differenti passaggi quale per esempio il seguente: «Ai fini di tale ricerca, è rilevante dal punto di
vista pratico esaminare se il sentimento stesso della giustizia o dell'ingiustizia sia un sentimento sui generis,
in questo modo come lo sono le sensazioni del colore o del gusto, oppure sia un sentimento causato che si
forma mediante una concomitanza di altri sentimenti. Ed è tanto più essenziale analizzare tale fatto, in
quanto, benché si sia in generale disposti a concedere che concretamente le prescrizioni della Giustizia
collimano con una parte del settore dall'Opportuno Generale, ciò nonostante, dato che il sentimento mentale
soggettivo della Giustizia è differente da quel sentimento che è collegato in generale con il semplice
opportuno, e dato che le sue sollecitazioni, eccetto, che nei casi estremi di quest'ultimo, hanno un carattere
molto più imperativo, è difficile vedere nella giustizia unicamente un tipo particolare o un aspetto dell'utile
generale, e si conclude perciò che la superiorità della sua forza vincolante richieda che l'origine ne sia
interamente diverso». In pratica necessitava far luce sul carattere distintivo della giustizia e dell'ingiustizia.
Ma accettare questo, significava ammettere che necessitava andare oltre il parere individuale e provare a
determinare una concezione di giustizia che fosse condivisibile ed ammissibile dalla maggioranza degli
esseri razionali. Il metodo non poteva perciò essere quello di far primeggiare una tesi in forma retorica, ma di
raggiungere, se non la verità, qualche cosa di più prossimo ad essa attraverso il confronto di varie messe a
fuoco. Ecco che Mill ricorse, allora, ad una ricerca sdoppiata, o per meglio dire, duplice. Da un lato domandò
la ricerca nella direzione di provare che tutto quello che viene catalogato come giusto od ingiusto possieda
sempre attributi comuni, anche uno solo, e che pertanto il nostro giudizio si fondi su tale esame che
determina in modo empirico - statistico cosa ricorra sempre in un dato di giustizia o di ingiustizia. Come si vede siamo ad una riproposizione del metodo del System
of Logic. Dall'altro ammise pure di provare ad indagare quanto vi
fosse di inesplicabile, e perciò di mistico, nel sentimento ( e non
del concetto, ma per forza di cose, anche nel concetto) di
giustizia. Redasse Mill: «Se troviamo che la prima ipotesi è quella
giusta, nel risolvere questa questione, avremo risolto, con ciò
stesso, anche il problema principale, mentre, se troviamo invece
che la seconda ipotesi è corretta, dovremo allora cercare un altro
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tipo di indagine». Invitando il lettore interessato ai finissimi
ragionamenti di Stuart Mill a leggersi il testo per conto suo, mi
limito alla prima conclusione rilevante che incontriamo. « Per
ricapitolare: l'idea della giustizia presuppone due cose, una regola
di condotta ed un sentimento che sanzioni questa regola. Bisogna supporre che la prima cosa sia comune a tutto il genere umano e che la sua intenzione sia il bene di
questo. La seconda cosa (il sentimento) è il desiderio che una punizione venga inflitta a coloro che
contravvengono questa regola. Vi è implicita inoltre l'idea che sia vittima di quella trasgressione una
determinata persona, i cui diritti (per servirsi dell'espressione appropriata a quella situazione) siano stati
infranti da quella trasgressione». Ciò detto Mill analizza il concetto di diritto, avviando col affermare che: «
Quando dichiariamo che qualche cosa è il diritto di un certo individuo, intendiamo dire che costui ha ragione
di aspettarsi che la comunità difendi il suo possesso di quel diritto, sia con la forza della legge, che mediante
quella dell'educazione e dell'opinione. Se ha delle ragioni sufficienti, per qualsiasi rispetto, di aspettarsi che
la collettività gliene garantisca il possesso, diciamo allora che ha diritto a questo. Se desideriamo provare
che una data cosa non gli appartiene di diritto, riteniamo che questo sia provato non appena venga accettato
che la collettività non dovrebbe prendere delle misure per assicurargliene il possesso e dovrebbe piuttosto
lasciarlo al caso o ai suoi propri sforzi. In questo modo, si dice che una persona ha diritto a quello che
guadagna in una condizione di concorrenza leale nella sua professione, dato che la società non dovrebbe
consentire a nessun altro di ostacolarlo nel guadagnare in quel precisato modo tutto quello che riesce a
trarre profitto. Ma non ha diritto a trecento sterline l'anno, benché possa succedergli di guadagnarle in effetti,
dato che non si può richiedere alla collettività che provveda a che egli guadagni quella somma. Al contrario,
se egli possiede diecimila sterline in titoli del 3%, egli ha diritto a trecento sterline l'anno, dato che la
comunità ha assunto l'obbligo di garantirgli un'entrata di tale entità.»
3.5.6 Diritto alla sicurezza Adesso Mill venne a dichiarare il diritto alla sicurezza e la certezza del diritto come costituenti basilari del
concetto di giustizia sociale. « Avere un diritto, pertanto, così come l'intendo io, vuol dire avere qualche cosa
il cui possesso da parte mia la comunità dovrebbe difendere.
Se l'obiettore continua a chiedere perché dovrebbe farlo, non gli posso dare altra ragione se non l'utilità
generale. Se tale espressione non sembra che tramandi la sensazione esatta della forza dell'obbligazione o
non pare render ragione del vigore speciale di questa sensazione, ciò è dovuto al fatto che entra nella
composizione di questo sentimento non solamente un costituente razionale , ma anche un elemento
animale, la sete di vendetta; e tale sete deriva la sua intensità in tale maniera come la giustificazione morale,
dal tipo insolitamente importante ed impressionante di utilità che è in gioco. L'interesse di cui si tratta è l'intervento per la sicurezza, che è il
più vitale di tutti gli interessi, come ciascuno può ben farne
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esperienza nei propri cuori. Quasi tutti gli altri benefici di tale
mondo, se sono necessari ad un singolo non lo sono ad un'altra,
e molti di essi, se necessario, si può agevolmente astenersi, o li si
può sostituire con qualcos'altro; ma della sicurezza, nessun
essere umano può, nel modo più assoluto fare a meno; da ciò
dipendiamo per proteggerci dal male e per dare il loro pieno
valore a tutti i beni presi uno per volta o presi insieme, al di là del
momento fuggitivo, poiché nessuna cosa eccetto il piacere
dell'istante potrebbe avere un valore qualsiasi per noi, se
potessimo all'istante seguente venire spogliati di qualunque cosa
da qualsiasi persona si trovasse ad essere più forte di noi.
Orbene questa, che è, subito dopo il nutrimento fisico, la più fondamentale fra tutte le cose indispensabili,
non può essere ottenuta a meno che non sia di continuo esercitato quel meccanismo che ce la assicura.» In
siffatto contesto Mill prende decisamente partito per lo stato minimo, la cui esistenza è giustificata dalla
occorrenza di sicurezza e questo stesso occorrenza trova origine nella accertamento che molti singoli non
sono corretti, ma rubano, vorrebbero assassinare, e se non vi fosse una forza dell'ordine, ci ridurrebbero con
piacere in schiavitù. Ma all'origine di questo c'è solamente la mancanza di educazione? Vedremo più avanti
che Mill si trattiene dal rispondere, ed a proposito della libertà del volere si mantiene su filo di
indeterminatezza, più che di dubbio autentico. Gli ultimi paragrafi di questo ragionamento sulla giustizia sono
i più tonici. Mill dà inizio con l'evidenziare che se la giustizia fosse in effetti quel principio assoluto ed sicuro di
cui parlano gli antiutilitaristi, "allora è difficile intendere dato che quell'oracolo interno sia così ambiguo e
perché cose tanto numerose sorgano adesso giuste e ora non giuste, a seconda della luce in cui le si
osserva."
Detto questo è chiaro che manca in Mill una considerazione accessoria basilare: si possono dare differenti
opinioni su cosa sia giusto in fissate circostanze, ma occorrerebbe distinguere fra queste stesse opinioni
quelle indifferenti da quelle interessate. Che l'autore di un delitto abbia la sua personale opinione e sia contro
la pena di morte è importante e degno di attenzione in quanto rispecchia il suo pensiero di individuo, ma non
è importante che egli sia contro il suo ergastolo in quanto riflette il suo pensiero di colpevole. Divagazione off
topics? Non tanto. Mill fu molto bravo ad esternare in astratto le molte opinioni sulla giustizia, ma lo fu molto
meno nell'evidenziare che la battaglia delle convinzioni, in moltissimi casi, è solo la prosecuzione della
guerra di ciascheduno contro gli altri condotta con altri mezzi. E' questo il limite di tutte le democrazie, ed è
singolare che si sia spesso abbandonato che in democrazia la maniera più efficace e connessa di
conseguire consensi non sta nell'esprimere le proprie lungimiranti opinioni, ma quello di dare ascolto alla
piazza, di sondari gli umori e poi farli propri, in una media che cerchi di non deludere la maggioranza in
alcuna delle questioni basilari. La tirannia della mediocrità, segnalata da Mill in On Liberty, può
divenire una tirannia degli ingiusti e dei peggiori, un trionfo degli
istinti più bassi. Quello non è un ragionamento contro la
democrazia, che è madre delle ingiustizie né più e né meno che
l'oligarchia o la dittatura, ma contro l'impiego strumentale che
alcuni ne fanno, e gli abusi che concede.Le idee di Mill furono
esemplarmente compendiate in tale passaggio che merita una
citazione per intero: « Non soltanto i differenti popoli e i differenti
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individui hanno idee differenti sulla giustizia, ma addirittura nella
mente dello stesso identico singolo la giustizia non è una regola,
un principio od una massima, piuttosto molte di queste, e tali che
non collimano sempre nelle loro prescrizioni, e questa persona
nello scegliere fra loro è guidata o da un criterio estraneo, o dalle
sue predilezioni personali.
Per esempio, c'è chi dichiara che è ingiusto punire qualcheduno per dare un esempio agli altri: che una
punizione è giusta soltanto quando si intende fare il bene di colui che la subisce. Altri dichiarano fedelmente
il contrario e sostengono che non è altro che dispotismo ed ingiustizia il voler infliggere una pena per il loro
bene persone che hanno l'età della ragione, poiché se la questione riguarda unicamente il bene di costoro,
alcuno ha il diritto di esercitare un controllo sul loro modo di giudicare quel bene; mentre al contrario essi
possono venire esattamente puniti per schivare un danno agli altri, poiché questo costituisce un legittimo
utilizzo del diritto all'autodifesa. Owen poi afferma che il fatto medesimo di punire è ingiusto; dato che il
criminale non ha fatto da sé il proprio carattere; sono la sua educazione e le condizioni esistenti attorno a lui
che lo hanno reso criminale, e di questo egli non è responsabile. Tutte queste opinioni sono molto plausibili;
e fintanto che il problema in discussione è unicamente quello della giustizia, senza scendere ai principi che
giacciono alla base della giustizia e istituiscono la fonte della sua autorità, non riesco a vedere come si
potrebbe confutare nessuno di tali ragionamenti. Dal momento che in verità ciascuna delle tre tesi è basata
su regole di giustizia che sono riconosciute come vere.»
Qui Mill prova, a mio avviso, tutta l'ignoranza della sua specie ( homo utilitarians) nei confronti del pensiero
kantiano ( e cristiano). Se accettiamo che non si può considerare l'individuo, qualunque individuo, soltanto
come un mezzo, se ammettiamo che occorre rispettare il prossimo come sé stessi, la tesi della punizione
esemplare non soltanto è confutabile, ma non è ammissibile in una cultura che si vanta di essere cristiana. La giustizia non accetta che si compia un'ingiustizia condannando qualcheduno ad una pena ammirevole,
nemmeno per salvarne molti altri.
La giustizia richiede che si usi sempre una clemenza corrispondente alle circostanze ed ai metodi della
realizzazione del reato, fatte salve le misure di certezza alla quali ha diritto la società.
Altresì l'affermazione che la tesi oweniana abbia un qualche principio è comprensibilmente confutabile.
L'individuo che si indirizza al crimine può essere privo di senso morale alla stessa maniera di quelli che non
compiono i crimini, ma avrebbero tanto desiderio di farlo. Ma certo non è al corrente che la legge prevede la
pena e quindi è precisamente consapevole che ammazzando o rubando egli rischia di essere scoperto e
condannato. Allora, visto che di questo è conscio e responsabile, la teoria
oweniana, che Mill condivise come al solito a metà, non è in alcun
caso sopportabile perché confonde il non avere una coscienza
morale con il non avere una conoscenza elementare delle leggi,
che viceversa tutti, anche i più rozzi e brutali fra i delinquenti,
possiedono.Scrive ancora Mill, sfiorando a mio avviso un punto
molto basso della sua carriera di pensatore: « Per difendersi dalla
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terza delle tre tesi ci si è inventati la così chiamata libertà del
volere; vedendo con la mente che non si poteva giustificare la
punizione di un individuo la cui volontà fosse in condizioni
detestabili, a meno di non congetturare che fosse caduta in quello
stato senza l'influenza di condizioni antecedenti.» Non credo che
l'espressione "ci si è inventati la cosiddetta libertà del volere" sia
accettabile. Sino alla comparizione della teoria della grazia di credere di San Paolo e del servo arbitrio di Agostino, si è
sempre pensato che l'individuo, per quanto in balia delle bizzarrie della sorte, degli dei o del caso, fosse
libero di determinare e capace di scegliere se commettere o meno dei reati. Sussiste una libertà del
volere contrastante al servo arbitrio da quando Lutero radicalizzò completamente il concetto della non libertà
dell'individuo e della sua totale connessione da Dio. Ma, autonomamente dal fatto che si possa o meno
accettare tale dottrina, resta che essa potrebbe avere un valore soltanto relativamente al significato morale.
A prescindere dal fatto che attribuire a Dio la volontà di volerci cattivi non mi sembra conforme ad un'idea di
Dio come Padre, l'unica possibile da Cristo in poi, rimane che indubbiamente ci sono individui sprovvisti di
senso morale, pure se non commettono reati abitualmente. Non commettiamo il male o perché abbiamo un
senso morale, o perché abbiamo paura della giustizia umana; perciò, proprio nel timore ed pure nella più
elementare conoscenza delle leggi, siamo sempre liberi di decidere se compiere il male oppure no, consci
del rischio che potremmo correre. In qualunque comunità civile, pure quella in modo peggiore amministrata,
altresì quella finita in mano a qualche mafia, non ci si può consentire di agire in senso contrario alle leggi dell'
uomini, a meno che non si disponga di qualche particolare difesa dell'autorità mafiosa.
Per tale ragione la teoria del servo arbitrio potrebbe avere un senso soltanto limitatamente a cosa fermenta
nel cuore degli individui, ma non ha alcun senso rispetto a quello che in realtà fanno, e del quale sono, in
generale, responsabili a tutti gli effetti. Sia un assassinio per legittima difesa che un assassinio per difendere
qualcun altro da un assalto in atto, azioni che si compiono sotto una stato di pressante necessità, sono in
tutti i casi azioni libere, azioni che è soltanto perché siamo capaci di intendere, valutare e volere, siamo
altresì capaci di compiere. Lasciamo fuori dal discorso solo gli psicotici, per i quali la percezione della realtà
se n'è andato del tutto.
3.5.7 Giustizia ed opportunità. Le conclusioni alle quali, in ogni modo, giunse Stuart Mill sono in
parte accettabili nel senso che, anche dopo Kant, tanto i pensatori
quanto l'umanità nel suo insieme sono capaci di comprendere che
accanto ad una brevissima serie di massime in grado di
riassumere cosa sia la giustizia in tutte le condizioni (Kant), si da
anche la possibilità di assumere nuovi criteri di giustizia adeguati
al caso, alle circostanze storiche, economiche e politiche. Mill
perseverò, a ragione, sul fatto che la collettività dovrebbe ripagare
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il bene con il bene ed il male con il male, ma scorda che
limitandosi a questo, potrebbero formarsi fazioni in lotta che,
adottando tale principio, non farebbero altro che allungare
all'infinito la spirale di una falsa giustizia astiosa. Quello è particolarmente palese sul piano dei conflitti internazionali dove lo spirito di rappresaglia adottato da
Israele contro gli attentati terroristici, per quanto possa parere ufficialmente giusto (ma quante volte ha
colpito innocenti?) è in ogni modo chiaramente sconveniente ed inefficace perché non porta alla pace, non
libera tale situazione assurda, ma concepisce solo ulteriore violenza.
L'idea che da tale lotta si possa uscire vincitori con la totale demolizione dell'altra parte è semplicemente
assurda. In altri termini: necessiterebbe allora che chi si immagina più civile e superiore, lo provasse altresì,
schivando per primo di ripagare il male con il male, ma ricompensando una volta tanto il male con una
proposta di accordo, ovvero facendo assegnazioni decisive alle parti più razionali in lotta. E' su tale piano
che la lex talionis sfoggia la corda (anche perché mai applicata perfettamente, ma sempre sistematicamente
violata con violenze contro innocenti) ed è su siffatto piano che idee politiche opportune, ed anche
effettivamente giuste, nel senso di quell'agire esemplare appellato da Kant, potrebbero avere esito positivo.
Ancora una volta, proprio nelle considerazioni finali, Mill, nel tentativo di fare vedere quanto l'opportuno di
agire altruisticamente possa a volte primeggiare sulla giustizia, intesa invero come qualche cosa di troppo
rigido e imponente e non come una voce viva, saggia e chiarificatore, finì per cadere in una colossale
incoerenza. Egli redasse: «....sebbene possano darsi casi nei quali un altro dovere sociale è talmente
rilevante da far tacere le prescrizioni di qualunque massima generale della giustizia. Così, per salvare una
vita umana, potrà essere non soltanto permesso, ma dovuto rubare o prendere con la forza il cibo
indispensabile o la medicina, oppure sequestrare l'unico medico qualificato e obbligarlo a compiere le sue
funzioni. In questi avvenimenti fortuiti, dato che non chiamiamo giustizia quello che non è virtù, proferiamo in
generale non che la giustizia deve far posto a qualche altro principio morale, ma invece che quello che è
giusto nelle circostanze normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, ma anziché che quello
che è giusto nei casi normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, in quel peculiare caso. Mediante siffatto confortevole arrangiamento linguistico, viene
mantenuto alla giustizia quel carattere di incontestabilità e ci viene
risparmiata la necessità di dover dire che possono esistere
ingiustizie lodevoli.» Sarcasmo del tutto fuori luogo perché è
chiaro che, se una delle prescrizioni della giustizia mostrate da
Kant è di agire in modo da essere di esempio, di essere legge per
tutti gli esseri razionali, l'azione limite sostenuta da Mill si può
ritenere giusta, oltre che appropriata, giusta ovviamente in
relazione al senso morale e non a criteri unicamente estetici e
formali di giustizia. E poi, per quale ragione sequestrare il medico,
quanto sarebbe sufficiente domandargli di venire ?
3.6 Natura, Dio e religione
Sotto il titolo Essays on Religion vennero ripresi e divulgati postumi, a cura della figliastra Helen Taylor, tre
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saggi intitolati rispettivamente Natura, Utilità della religione e Teismo. Si tratta di saggi di valore diseguale e
dato che il più rilevante, oltre che ampio, è il terzo. I primi due Essays erano stati composti in un periodo
compreso tra il 1850 ed il 1858; Teismo nel periodo prontamente antecedente la morte. Se i primi due saggi
non vennero divulgati in precedenza fu perchè Mill nutrì nei loro confronti qualche dubbio. Il problema è
delicato per differenti ragioni. Il saggio sulla Natura, se da un lato veniva comprensibilmente a preannunciare
ai temi di On liberty, dall'altro esprimeva considerazioni tanto negative sugli istinti e la naturalità
dell'individuo, che sembrava entrare in contraddizione con le medesime teorie sulla libertà, fra le quali era
chiaro che il libero progresso individuale implica inevitabilmente un accrescimento degli istinti migliori e
peggiori.
Molto giudiziosamente Mill decise di mirare alla libertà e tenere in archivio le sue più che lecite riserve sulla
bontà naturale dell'individuo e sulla tranquillità della natura. Una seconda causa dei dubbi di Mill può essere
determinata nel fatto che nel 1850 era stato divulgato il lavoro di Herbert Spencer dal titolo Social Statics:
or, the Conditions Essential to Human Happiness Specified, and the First of Them Developed. Tale
elaborato poneva all'ordine del giorno questioni come l'evoluzione biologica e umana non esplicitamente
fatte fronte da Mill e che in ogni modo abbisognavano di un ulteriore approfondimento: le riflessioni milliane
sulla natura dell' uomo, in prima battuta, sorgevano oltremisura statiche rispetto alla dinamica evolutiva
storico-biologica propugnata da Spencer. Nel secondo saggio, Utilità della religione, apparivano
dichiarazioni piuttosto impegnative sui possibili caratteri di Dio, in un quadro che non ne respingeva
l'esistenza, ma il potere grandissimo. Ludovico Geymonat propose tali scritti, da lui medesimo tradotti, nel '53
e pose l'attenzione sul fatto che Mill, finissimo logico, aveva segnalato l'impossibilità che Dio fosse ad un
tempo senza fine buono ed illimitatamente potente. Fosse insieme l'uno e l'altro, il mondo non esisterebbe
così. Parlando di potere limitato di Dio, un Dio valutato pasticcione nel
momento creativo, certamente buono, ma incapace nei confronti del
male, in effetti a Mill non passò nemmeno per la testa di ritenere che
Dio medesimo potrebbe aver deciso di non intervenire più nella vita
degli esseri umani, se non su espressa preghiera, e in ogni modo
non in maniera da limitare in maniera greve la libertà, l'autonomia e il
destino degli altri esseri umani. Secondo gli stessi testi della storia
sacra, Dio si circoscrisse a qualche miracolo, inteso come
guarigione, ed ad una serie di educazioni non sempre facilmente
accessibili perché fondati sul principio che chi non segue i precetti
divini, verrà reso cieco e sordo in misura crescente a ogni stimolo
intellettuale. E sui figli ricadranno le colpe dei padri. Unica eccezione, voce fuori del coro, quella del veggente Ezechiele. Adesso questo è certamente lo scoglio contro il quale confligge ogni razionalità quanto affronta l'analisi delle
genesi della religione cristiana sui testi sacri. In continuità con le profezie di Isaia, Gesù parlò soltanto in
parabole alle grandi masse, perché esse potevano intendere e vedere senza realmente comprendere, del
tutto vittime delle colpe dei padri.
Il Dio buono che rende ciechi e sordi gli individui volontariamente non è ammissibile dal pensatore e neppure
dal teologo più scaltrito; ci voleva e ci vuole una interpretazione di siffatta volontà cattiva di Dio come base
medesima di qualunque ulteriore ragionamento. Altrimenti non rimarrebbe altra strada che acconciarsi a
credere, rinunciando a ragionare, o ragionare, astenendo a credere, in una eterna lacerazione senza
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speranza. Inutile sognare di trovare una risposta in siffatti saggi di Mill. Essi restano al di sotto del problema.
Sussistevano in proposito sia la Teodicea di Leibniz, una vera e propria tutela di Dio dinanzi ai tribunali dell'
uomini che lo accusavano di essere autore del male e della sofferenza, e l'argomento kantiano, ricondotto
nella Critica della Ragion pratica, secondo cui se Dio fosse visibile, se, per intenderci, spuntasse ogni giorno
come il sole, l'individuo non sarebbe del tutto libero e la sua stessa moralità, che è uno dei fini della
Creazione, resterebbe privo del tutto valore perché l'essere umano agirebbe sotto la oppressione del timore
della punizione e non per libera ed equilibrata scelta.
In altri termini: il dubbio sull'esistenza di Dio può essere proficuo perché è soltanto in siffatto dubbio che
l'individuo è libero di scegliere radicalmente e perfino in relativa autonomia, e quindi risultare a tutto tondo
come una continuazione di Dio con altri mezzi.
Il bello è che Mill, pur facendo una strada del tutto differente, a mio giudizio erronea nelle premesse, arrivò
approssimativamente alla medesima conclusione: la ragione umana è il frutto di una conquista fatta giorno
per giorno. Sbaglia completamente chi dichiara che Dio vorrebbe da noi obbedienza, fede ed istinto, non
ragione, dato che questa, a ragion veduta, è una ubicazione che porta al fanatismo religioso e non alla
crescita dell'individuo. Pur tuttavia, non si sfugge all'impressione che Mill, contestando l'onnipotenza divina,
di fatto venne a rimandare il manicheismo, vale a dire la dottrina che dichiara che fin dall’ avvio vi è lotta fra
Bene e Male, e che queste forze hanno forza praticamente pari. Geymonat redasse che non è vero. "Nulla infatti è più lontano dal
Mill che la mentalità metafisica del manicheismo, niente gli disgusta
maggiormente che un qualunque tentativo di deificazione del male.
Non ha senso per lui parlare di due principi assoluti dell'essere. "
Difatti Mill parlò di due forze in campo, introdotte nel mondo. Ma
non è per questo che il discorso muta: di fatto si veniva a
riconoscere che esiste un terreno del Male e che il suo potere
d'attrazione è pari a quello esercitato dal Bene.
I mali non vengono individuati, invocati per nome e cognome, un po' come se tutti i diavoli fossero Lucifero e
come se il male fisico non avesse un suo statuto del tutto indipendente dai satanassi e fosse quasi
riconducibile alle leggi di natura.
Secondo Mill c'è il Male. Poco interesserebbe poi, che il significato di Male avesse, ovviamente, in Mill, un
senso del tutto differente da quello dei manichei. E' chiaro che per Mill il Male è il fideismo irrazionale e
fanatico, l'oscurantismo; il Bene è la Ragione, la scienza, l’ evoluzione, la maniera di vivere civile, la Libertà.
Anche Mill, pertanto tentò una teodicea, vale a dire una difesa di Dio. Ma è evidente che egli ricorse all'unico
argomento inconciliabile con il monoteismo, ovvero il non potere grandissimo di Dio e l'esistenza di esseri,
signorie e potenze di uguale dignità.
3.6.1 Utilità della religione
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Visto che abbiamo trattato subito del centro del dilemma, tanto vale continuare nell'esame completo del
secondo saggio. Mill prese il via dalla domanda, già presentata in altra forma a Comte nelle sue lettere, circa
l'utilità di analizzare la religione in nome della verità, qualsiasi essa fosse, rischiando così di partecipare ad
una possibile infelicità degli esseri umani che della medesima religione avrebbero vitale necessità. La
questione assume una forte tinta di tragedia individuale: « E' una situazione molto triste per uno spirito
coscienzioso e colto, l'essere attirato in direzioni contrarie dai due più nobili oggetti di ricerca: la verità ed il
benessere generale. Un simile conflitto deve necessariamente produrre una crescente freddezza verso l'uno
o l'altro di tale oggetti, e più probabilmente verso tutti e due.
Molti di coloro che potrebbero rendere servizi immensi tanto alla
verità che all'umanità si credono di poter servire l'una senza
danno per l'altra, sono o interamente paralizzati, o indotti a
limitare i propri sforzi a questioni di secondaria rilevanza dal
timore che ogni effettiva libertà di pensiero, o qualsiasi
considerevole consolidamento o ampliamento delle facoltà
speculative dell'umanità nel suo insieme, levando loro la fede,
potrebbe risultare il modo più sicuro per rendere gli individui
viziosi e disgraziati. »
Deprecando lo sperpero di energie imbevuto dal tentativo, giudicato ormai vano, di puntellare le credenze
religiose con argomenti di qualunque tipo, Mill risolse di fare fronte alla questione in questo modo: « Non
basta dichiarare che non può esservi conflitto tra verità e utilità, e che se la religione è ingannatrice, dal suo
rifiuto non può che venire un bene. Difatti, nonostante la conoscenza di una qualunque verità positiva costituisce un'utile acquisizione, non si
può affermare la medesima cosa, senza riserva, della verità negativa. Allorquando l'unica verità accertabile è
che nessuna cosa può venire conosciuto, non veniamo in possesso, attraverso questa conoscenza, di alcun
fatto nuovo dal quale farci condurre; e tutt'al più restiamo solamente scossi nella nostra fiducia in qualche
antecedente segno indicatore che, sebbene improprio, poteva ciò nonostante essere rivolto nella medesima
direzione delle migliori indicazioni in nostro possesso, e, se più visibile e più facile a leggersi, poteva tenerci
sulla retta strada, quando non avessimo scorto le altre.»
Messo in prosa corrente tale piegamento del pensiero milliano vuol dire: se abbattiamo l'idolo e la chiesa che
lo contiene non abbiamo più niente che ci accompagni. E' meglio o è peggio? Ignorando Mill, che la falsità
della religione è indicata dalla credenza che Dio governi il mondo dell' uomo, rappresenti autorità ed altri
simili sciocchezze, è evidente l'imbarazzo del filosofo. Ma se la questione fosse stata posta in maniera
differente, ovvero a partire dal principio che Dio non governa il mondo umano nemmeno nelle teocrazie,
anziché mai in quelle, una tale faccenda non aveva alcuna ragione di sussistere. Chi non sarebbe, allora,
pronto a lottare siffatta falsa credenza, ovvero che un dio cattivo come nessun individuo mai fu capace di
esserlo, governi il mondo e produca lager nazisti, regimi teocratici, ed incentivi guerre sante, inquisizioni,
conversioni indotte con la spada alla gola come ai tempi del magno Carlo, sovrano dei Franchi? Una somigliante impostazione del tutto sbagliata perché incapace
di cogliere il dubbio vero, vale a dire in cosa consti la falsità della
religione, non poteva che portare ad una serie di affermazioni
sbagliate. Difatti, il fine del saggio, per Mill, era: «Ci proponiamo
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di cercare se la fede in una religione, ritenuta come una mera
persuasione, non considerando dalla questione della sua verità,
sia davvero fondamentale al benessere temporale dell'umanità;
se l'utilità della fede sia intrinseca e universale oppure locale o
temporale, ed in un certo senso accidentale; e per di più, se i
benefici che esso procura non possano venir conseguiti in altro
modo, senza le notevolissime intromissioni di male, da cui, anche
nelle forme migliori di fede, quei favori vengono diminuiti.» Inutile dire che messa in questo modo la questione non ha senso. Al contrario, scoprendo la menzogna
religiosa, vale a dire l'assurda visione che Dio governi la società civile sempre, si salva Dio da giudizi stupidi,
lo si rende chiaro ed evidente, e poi ciascuno è libero di crederci o non crederci, visto che, in fondo, la
dissomiglianza è minima: molto trae origine da noi. Noi diamo i nomi agli animali ed alle cose. Noi scopriamo
le leggi scientifiche che dominano la natura e l’ esistenza, noi optiamo fra la giustizia e l'ingiustizia. Date tali
presupposti, temevo anche peggio, ma in effetti Mill ebbe uno scatto ed abbiamo una serie di considerazioni
più razionali ed oltre modo importanti.
3.6.2 Che cosa fa la religione per l'individuo?
Mill accettò che la religione insegna precetti di giustizia e carità, ma contestò che siffatti medesimi precetti
non fossero in altro modo insegnabili da una morale che oggi potremmo chiamare laica: "alla religione viene
accreditata tutta l'influenza nelle faccende umane che appartiene invece a qualunque codice solitamente
accolto per la guida ed il governo della vita umana."
« La religione sembra così potente perché tale infinito potere è al suo servizio.»
Quello che appare chiaro a Mill, è che l'autorità svolga un ruolo decisivo nella formazione culturale degli
uomini. Gli esseri umani sono più disposti a credere a chi è unanimemente apprezzato che a chi è negletto.
Per tale ragione la religione è autorevole; comunque gli effetti positivi dell'educazione religiosa data nei primi
anni, non devono la loro efficacia alla religione, ma al fatto di essere impartiti nei primi anni. La pregiata
indicazione agostiniana per la quale essa imbatterebbe un qualche cosa di congenito in noi stessi non è
presa in considerazione. Anzi, proseguì Mill, la forza della religione sta proprio nel fatto che
essa imbatte il consenso esterno e si serve del senso comune e
dell'opinione pubblica per dare forza alle sue capacità convincenti
o dissuadenti. L'approvazione o la disapprovazione pubblica sono
decisivi per le nostre scelte ed i nostri atteggiamenti. "Il timore
della vergogna, il terrore di avere una cattiva considerazione, o di
essere antipatico e detestato, sono le forme semplici e dirette
della sua forza di allontanamento."Le conseguenze negative
scaturenti dal biasimo sociale implicherebbero, per di più,
l'esclusione dalla società e dagli "infiniti buoni uffici che gli esseri
umani si rendono l'un l'altro", culminando nella impossibilità di
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avere successo nella esistenza. Per questo qualunque ambizione degna di questo nome "è subordinata alla pubblica opinione, salvo che in
tempi di sregolata violenza militare." Ed è per questo che i fini dell'ambizione sociale o personale si possono
conseguire solamente grazie alla buona opinione su noi medesimi che sappiamo suscitare negli altri. Ma
questa, in fondo, non sarebbe altro che il regno dell’ asserzione falsa e dell'ipocrisia, cosa che Mill non dice
espressamente, ma fa intendere. Difatti - concluse Mill - « L'involontaria importanza dell'autorità sulle menti
comuni è tale, che gli individui debbono essere di uno stampo fuori dell'ordinario per essere all'altezza di
sentirsi nel giusto quando il mondo, vale a dire il loro mondo, le considera in torto; né vi è, per la maggiore
parte degli individui, una dimostrazione più efficace della loro virtù o del loro talento, del fatto che la
generalità delle persone mostri di credere in esso.» La conclusione di Mill sulla religione è pertanto
inoppugnabile: « La religione è stata potente non per sua intrinseca forza ma perché essa ha avuto nelle sue
mani questo ulteriore e più efficace potere. »
Domandandosi sul ruolo avuto dalla religione nella formazione morale degli individui, annotò con
perspicacia:« Senza dubbio, la convinzione, impostasi a poco a poco a tutti fuorché ai molti ignoranti, che le
punizioni divine non erano da aspettarsi con sicurezza in forma temporale, ha molto partecipato alla caduta
delle vecchie religioni, e alla generale scelta di una religione la quale, pur senza escludere in maniera
assoluta sovrapposizioni della Divina Provvidenza nella vita terrena per punire i cattivi e premiare i buoni,
trasportava il momento principale della ricompensa divina in un mondo soprannaturale. Ma i compensi ed i
castighi rinviati a tanto intervallo di tempo, e non visti mai dall'occhio umano, erano mal calcolati, altresì se
illimitati ed eterni, per avere sulle menti ordinarie un effetto molto potente contro le forti seduzioni. La loro
distanza da sola riduce miracolosamente la loro efficacia, proprio su quegli spiriti che più necessitano del
freno della punizione.
Una causa di debolezza ancora maggiore è istituita dall'incertezza
che è loro propria: infatti i premi ed i castighi conferiti dopo la
scomparsa, vengono conferiti non in base a particolari azioni,
bensì in base all'esame dell'intera esistenza dell’ essere umano, e
questa sarà facilmente indotta a convincersi di avere commesso
soltanto dei peccatucci, e che alla fine la bilancia potrà ancora
pendere a suo favore. Tutte le religioni positive partecipano a tale
autoinganno.
Le religioni deteriori insegnano che la vendetta divina può essere
calmata attraverso offerte ed umiliazioni; quelle migliori, per non
portare i peccatori alla disperazione, insistono tanto sulla
misericordia divina, che quasi alcuno è costretto a considerarsi
definitivamente condannato. L'unico pregio di questi castighi, la
loro lampante potenza, che potrebbe parere appositamente
studiata per renderli efficaci, risulta al contrario un presupposto
per cui nessuno (salvo qualche ipocondriaco) può in effetti
credere di essere seriamente in pericolo di venire percosso.
Pure il peggior delinquente, qualsiasi sia il delitto che ha avuto la facoltà di commettere, qualunque sia il
male che ha inflitto in questa esistenza, stenta a credere di poter meritare un'eterna violenza. Di
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conseguenza gli autori religiosi e i missionari non si stancano di lamentare che i motivi religiosi hanno
scarsissimo effetto sulla vita e condotta degli individui, anche se i terribili castighi che preannunciano. »Ma
tale incubo dell'inferno non fu per Mill che il lato "più volgare" dell'utilità religiosa. Secondo il parere dei
teologi più aperti, " la parte migliore dell'umanità ha necessariamente necessità della religione per il
miglioramento del proprio carattere, anche se la correzione dei peggiori potrebbe forse compiersi senza il
suo sostegno." La religione - proseguì Mill - ancora secondo questi teologi, serve ad insegnare, se non a
prescrivere la morale sociale; "tutti i maggiori pensatori, che non si sono ispirati ad essa, si fermarono nei
loro voli più sublimi, al di sotto della morale cristiana, e quella medesima morale inferiore che essi possono
avere sopraggiunto ...non riuscirono mai a farla assumere dalla massa comune dei loro conterranei. "Qui
Mill riconobbe che " vi è molto di vero" nell'idea che dichiara che gli individui accettarono le regole e le leggi
soltanto in quanto presentate come un volere della divinità. " I popoli antichi hanno spesso, se non sempre,
accolsero la loro morale, le loro leggi, le loro credenze razionali, e persino le arti pratiche...come una
scoperta avuta dalle potenze superiori, e alcuna altra via li avrebbe agevolmente indotti ad accoglierle."
Inoltre, aggiunse che: « Anche indipendentemente dalle speranze e timori personali, l'involontaria deferenza
provata da quelle menti rozze verso un potere superiore al loro e la tendenza a supporre che gli esseri dotati
di potere soprannaturale fossero pure dotati di conoscenza e saggezza sovrumana facevano sì che essi
desiderassero disinteressatamente conformare la propria condotta secondo le supposte preferenze di questi
esseri potenti, e non adottassero alcuna nuova pratica senza la loro autorizzazione che poteva essere data
spontaneamente, o sollecitata ed ottenuta.Ma proprio perchè gli uomini, quando erano ancora selvaggi, non
avrebbero accettato delle verità morali o scientifiche se non le avessero credute rivelazione sovrannaturale,
si deve forse dedurre che essi rinuncerebbero ora piuttosto alle verità morali che alle scientifiche solo perchè
non credono che esse abbiano un'origine più alta dei cuori di uomini nobili e saggi? Non sono forse le verità
morali abbastanza forti nella loro specifica evidenza, per lo meno tanto da continuare a meritare che gli
uomini abbiano sempre fede in esse? Ammetto che alcuni dei precetti di Cristo come vengono esposti
nel Vangelo - ben più elevati delle dottrine di Paolo che
costituiscono la base del Cristianesimo ordinario - portino alcune
specie di bontà morali ad un livello ben più alto di quello mai
prima raggiunto, sebbene una parte dei precetti ritenuti peculiari
del Cristianesimo si trovino nelle Meditazioni di Marco Aurelio, che
non abbiamo motivo di credere siano state in alcun modo
influenzate dal Cristianesimo.»
Ma, ancora per Mill, assegnando al soprannaturale le massime della moralità, " si causa un male effettivo."
L'origine divina della legge " le consacra nel loro complesso" ed "impedisce" che le regole "vengano discusse
o criticate."
« Cosicché, se tra le dottrine morali accogliere come facenti parte della religione, ve ne sono di imperfette, o
perché sbagliate sin da principio, o perché non rigorosamente limitate o controllate nella loro espressione,
oppure ancora perché, pur essendo un tempo irreprensibili, non si rivelano più adatte ai cambiamenti
riscontratesi nelle relazioni umane (ed è mia ferma convinzione che nella cosiddetta morale cristiana si
trovino esempi di tutti questi casi) queste dottrine imperfette sono considerate similmente impegnative per la
coscienza quanto i dettami più nobili, più duraturi e più universali di Cristo. Ogniqualvolta la moralità è
supposta essere di origine soprannaturale, essa diventa stereotipata, proprio come la legge del Corano lo è
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per i suoi fedeli.»
Un argomento fra i più importanti è quello che espone i presupposti per i quali l'individuo cerca il
soprannaturale: « E' inutile premere più oltre la storia naturale della religione, non proponendoci qui di
interpretare come essa nasca negli spiriti più grezzi, bensì come persista fra gli spiriti colti. Si troverà - io
ritengo - un chiarimento sufficiente di quanto ora detto nella limitatezza dei confini delle conoscenze certe
dell'individuo, cui si contrappone la sua sete illimitata di conoscenza. L'esistenza umana è attorniata di
misteri, la regione assai delimitata della nostra esperienza non è che una piccola isola circondata da un mare
infinito, e questo spaventa i nostri sentimenti e stimola la nostra fantasia a causa della sua vastità ed
oscurità.
Per rendere ancora più intimo il mistero, il campo della esistenza
terrena non risulta solamente un'isola sperduta in uno spazio
infinito, ma altresì in un tempo illimitato. Il passato ed il futuro
sono parimenti oscuri per noi: non sappiamo né l'origine di tutto
quello che è, né il suo fato finale.
Se proviamo un profondo interessamento nel sapere che esistono
nello spazio infinità di mondi ad una distanza incommensurabile, e
per le nostre facoltà perfino inconcepibile; se siamo desiderosi di
scoprire quel poco che possiamo attorno a tali mondi, e se non
potendo mai sapere ciò che essi sono, siamo insaziabili nello
speculare su ciò che possono essere; non rappresenta forse per
noi una questione del più profondo interessamento l'apprendere,
od altresì il congetturare, donde provenga questo mondo più
vicino che noi risiediamo, quali cagioni od agenti lo abbiano fatto
come è, e da quali poteri dipenda il suo futuro?
Chi non anelerebbe conoscere questa più appassionatamente di qualsiasi altra possibile conoscenza, finché
vi è la minima speranza di giungerla? Che cosa non si sarebbe pronti a dare, per una qualsiasi notizia
attendibile derivante da quella inspiegabile regione, per un qualunque sguardo anche furtivo, che ci ponga di
intravedere una minima luce attraverso le sue tenebre, e specialmente, alla fine, per una qualunque teoria
credibile, che ci rappresenti il mondo governato da un ascendente benigno e non già da uno ostile? Non
essendo però in grado di entrare in questa regione fuorché con l'immaginazione, assistita da similitudini
plausibili ma inconcludenti causate dall'azione e dall'intenzione dell'individuo, l'immaginazione è libera di
riempire il vuoto con le fantasie che più le consentono: sollevate e sublimi se l'immaginazione è nobile,
basse e meschine se al contrario è abbietta.»
Le ultime pagine di Mill portano a considerazioni invece negative sulla vita eterna e la salvezza dell'anima.
Innanzi tutto egli considerò che sono gli infelici e gli incontentabili della esistenza ad aver bisogno della
speranza in un'esistenza soprannaturale. I "felici" ne avrebbero molto meno bisogno. Le religioni che
rincuorano tale speranza non fanno altro che alimentare l'egoismo di molti, i quali si comportano bene, per
Mill, soltanto perchè convinti del premio, di evitare l'inferno ed andare in paradiso. Ciò, per Mill, è di ostacolo
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ad una vera presa di coscienza e pertanto ad una maturazione negli individui di un vero senso della
esistenza, la quale è un bene di per sè e non una sorta di viaggio verso il paradiso o l'inferno. L'uomo maturo dovrebbe pertanto trovare nella vita stessa ragioni
a sufficienza per sfamarsi di qualunque esperienza degna, ed, in
altre parole, raggiungere la felicità terrena. Tale è la premessa
fondamentale per acconciarsi alla morte in una visione del tutto
vetero-testamentaria: coricarsi coi propri avi sazi di vita e di anni e
riposare per l'eternità, alla medesima maniera dei patriarchi, i
quali non avevano alcuna fede nell'esistenza dell'al di là. A tali
considerazioni si uniscono valutazioni sulla superiorità della
dottrina buddhista la quale non considera affatto come premio
una possibile metempsicosi, vale a dire una resurrezione della
carne, ma semmai soltanto un passo ulteriore per giungere alla
definitiva ed agognata estinzione nel niente. In pratica Mill accusò in questo modo di infantilismo la religione occidentale nel suo insieme, islamismo
compreso, ed, in conclusione, salvò soltanto l'antica concezione greco - omerica dell'Ade come regno delle
ombre nel quale Achille, ad esempio, aveva ammesso di preferire d'essere vivo sulla terra, pure come
l'ultimo degli individui, piuttosto che il primo nel regno dei morti. Data siffatta prospettiva è visibile che
converrebbe davvero tornare ad essere come bambini per entrare nel regno dei cieli, invece che finire maturi
ma vecchi in un desiderio di totale annichilimento.
Non so se si tratti soltanto di gusti e preferenze scandite dalla nostra condizione individuale, ma uccidere la
speranza di una esistenza migliore, senza nulla togliere alla realtà che stiamo vivendo, sembra apertamente
una sciocca pretesa filosofica, tant'è vero che il buddhismo fu in origine una filosofia e non una religione. Il
problema è che né la filosofia, né la religione, né la scienza, nè qualsivoglia guru super illuminato, possono
renderci uno straccio di prova dell'esistenza dell'al di là. Ed perfino quei libriccini che riportano le
sconvolgenti e fantasiose esperienze di uomini entrati in coma e poi risvegliati, non hanno altro valore che
quello di un abbaglio. La sopravvivenza dell'anima, o se si vuole, dell'io, un io senza memoria, senza sensi,
senz'altra risorsa che il proprio partecipare all'essenza divina dell'intelletto attivo, è tuttavia
una possibilità che non possiamo eliminare. 3.6.3 Natura e naturale
Nel primo saggio Mill aveva inserito alcune considerazioni sull'utilizzo improprio dei
termini natura e naturale ricorrenti in alcune correnti filosofiche, a prendere il via dallo stoicismo e
dall'epicureismo dell'antichità, vale a dire in dottrine sorte "in un'epoca di debolezza del pensiero e
dell'intelletto." Mill si rattristò del fatto che Platone non avesse intitolato un dialogo al vero significato
di Natura, ricordando "che le epoche susseguenti devono tanta parte di quella qualsiasi chiarezza
intellettuale raggiunta" proprio ai discorsi platonici.
« Se l'idea denotata da questa parole - redasse Mill - fosse stata sottomessa alla sua analisi rigorosa, e se i
soliti luoghi comuni nei quali essa compare fossero stati subordinati al controllo della sua potente dialettica, i
subentranti non si sarebbero precipitati, come subito fecero, in una maniera di pensare e di ragionare la cui
pietra angolare era costituita proprio dall'uso sbagliato di essa; errore dal quale egli fu uno per volta
immune.» Copyright ABCtribe.com
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Il metodo platonico - per Mill - era consistito nel cercare l'universale
nel particolare; di qui il primo interrogativo "ovvio" che ci si
potrebbe fare: che cosa significa natura di un determinato oggetto?
« Si intende ovviamente l'insieme o l'aggregato dei suoi poteri o
proprietà, i modi in cui agisce sulle altre cose (contando fra queste i
sensi dell'osservatore) e i modi nelle quali le altre cose agiscono su
di esso, cui occorre aggiungere, nel caso di un essere senziente, la
sua propria capacità di sentire o di essere cosciente. La Natura di
una cosa vuol dire tutto ciò, significa la sua intera capacità di
generare i fenomeni...»
Di conseguenza - secondo Mill - "come la natura di una cosa qualsiasi è l'aggregato dei suoi poteri o
proprietà, così la Natura in astratto è l'aggregato dei poteri e delle proprietà di tutte le cose..."
« La parola Natura, in questa sua più semplice accezione, è dunque un nome collettivo per indicare tutti i
fatti, effettivi o possibili, oppure per esprimerci in forma più precisa, è un nome per il modo, in parte a noi
conosciuto ed in parte no, con cui hanno luogo tutte le cose.»
Si da però un altro senso, che viene compreso quando Natura si oppone ad Arte, o tecnica. Per Mill l'arte
sarebbe similmente naturale quanto qualunque altro fenomeno perché essa non dispone di poteri suoi
propri.
E' soltanto un impiego dei poteri e delle proprietà della Natura svolto dall'individuo. "Una nave sta a galla per
la stessa legge del peso specifico e dell'equilibrio che fanno galleggiare un albero sradicato dal vento..." In
sostanza - concluse Mill - l'arte e la tecnica non sono che rifacimenti intelligenti della natura e delle sue leggi.
Su tale piano, perciò, il detto naturam sequi, avrebbe più senso espresso come conosci la natura. Ma scrutò Mill - il naturam sequi diventò altresì principio della filosofia morale, "per molte delle più ammirate
scuole di filosofia".
« Presso gli antichi, specie nel periodo di decadenza del pensiero e dell'intelletto, ciò fu il banco di prova a
cui si riconducevano tutte le dottrine etiche. Gli Stoici e gli Epicurei, pur incompatibili nel resto dei rispettivi
sistemi, erano uniformi nel considerarsi obbligati a provare che le rispettive massime di condotta
riproducevano i dettami della natura.
Sotto la loro influenza i giuristi romani, quando provarono ad
elevare la giurisprudenza a sistema, diedero avvio alla propria
esposizione con un certo Jus naturale, "quod natura omnia
animalia docuit", come Giustiniano afferma nelle Istituzioni, e
poiché i moderni autori di sistematica hanno generalmente preso
a modello, non solamente il diritto, ma per la filosofia morale, i
giuristi romani, sono stati numerosissimi i trattati sul così
chiamato Diritto naturale, e i riferimento ad esso ritenute come
regole supreme e modello hanno permeato la letteratura.»
Nei primi secoli del cristianesimo, ciò nonostante, ( e già con San Paolo, aggiungo io) Mill osservò che i
filosofi cristiani ritennero spesso l'individuo come malvagio di natura.
Solamente in seguito "Le dottrine del Cristianesimo si sono in tutte le epoche aggiustate largamente alla
filosofia in quel momento dominante, e il Cristianesimo dei nostri giorni ha preso una parte considerevole del
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proprio colore e sapore dal deismo sentimentale."
Qui Mill diede inizio a speculare su due modi di dire particolari come la natura ingiunge ed agire contro
natura, cominciando con l'osservare che è pressoché ineludibile l'associazione che viene fatta fra la
parola legge in senso etico e morale e la parola natura. « Nessuna cosa è associata più comunemente alla
parola Natura che la parola Legge; e quest'ultima ha due separati significati; nell'uno essa denota qualche
porzione definitiva di ciò che è, nell'altro di ciò che dovrebbe essere. Quando parliamo della legge di gravità, delle tre leggi del moto ecc... ecco le porzioni del ciò che è. Quando
parliamo invece della legge penale, delle leggi civiche, della legge dell'onore, della legge della verità, della
legge della giustizia; tutte queste sono parti di quello che dovrebbe essere, o supposizioni, sentimenti,
comandi di qualcheduno attorno a quello che dovrebbe essere. »
Ancora: « Il richiedere agli individui di conformarsi alle leggi della Natura, quando è per loro fisicamente
impossibile il fare la minima cosa se non mediante qualche legge della Natura, risulta un'assurdità. Ciò che
bisogna dir loro, piuttosto, è quale particolare legge della Natura essi dovranno seguire in un specificato
caso.
Per esempio, quando una persona sta oltrepassando un fiume
su di una passerella stretta senza balaustra, farà bene a regolare i
suoi movimenti secondo le leggi dell'equilibrio e dei corpi in moto,
anziché conformarsi solamente alla legge di gravità, e cadere nel
fiume. Eppure, per quanto sia ozioso incitare la gente a fare
quello che non possono evitare, e per quanto sia assurdo il
prescrivere come essere umano di buona condotta ciò che si
mette d'accordo altrettanto bene con la condotta cattiva: si può
tuttavia edificare una norma razionale di condotta partendo dalla
relazione che la condotta dovrebbe avere con le leggi della Natura
nella più grande accezione del termine.
L'individuo ovviamente ubbidisce alle leggi della Natura, o in altre parole, alla proprietà delle cose, ma egli
non si fa ineluttabilmente guidare da esse. »
Qui Mill trae una prima conclusione rilevante: se gli individui fossero capaci di prestare attenzione alle
proprietà degli enti fisici, in quanto capaci, esse, di ostacolare o favorire un certo scopo, "noi saremmo
arrivati al primo principio di qualunque azione intelligente, o meglio, alla definizione dell'azione intelligente
stessa." Ma la massima dell'ubbidienza alla Natura viene ritenuta non come indicazione "prudenziale", ma
come un precetto etico, ed anzi "da coloro che paralno di jus naturae, come legge adatta a venir governata
da tribunali ed a venir resa esecutiva da sanzioni." Commentò Mill: « Un'azione giusta deve significare
qualche cosa di più e differente che non un'azione semplicemente intelligente: oppure nessun precetto oltre
quest'ultimo può venire collegato con la parola Natura nel suo senso più ampio e filosofico.»
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A tale punto Mill cominciò ad analizzare il senso di natura sotto l'aspetto di quello che avviene senza
intervento umano. Si chiese: "E' forse, nella Natura in questo modo intesa, lo svolgimento spontaneo delle
cose lasciate a sé medesime, la regola da seguire per provare di adattare le cose al nostro utilizzo?" In tale
senso la massima di seguire la natura " è manifestatamente assurda e autocontraddittoria." « Difatti, mentre
l'azione dell' uomo non può fare a meno di conformarsi alla Natura (nel pieno significato del termine), il vero
fine e l'oggetto dell'azione, è proprio di alterare e di perfezionare la Natura (nel secondo senso).Se lo
svolgimento naturale delle cose fosse precisamente giusto e soddisfacente, l'agire in forma qualsiasi
sarebbe un'intromissione gratuita, che, non potendo rendere le cose migliori, le dovrebbe rendere peggiori.
Oppure, una qualsiasi azione potrebbe essere scusata soltanto
quando fosse in diretta ubbidienza agli istinti, dato che questi
potrebbero forse venir ritenuti parte dell'ordine spontaneo della
Natura; ma il fare una qualunque cosa con un fine e una
premeditazione sarebbe una violazione di tale ordine perfetto. Se
l'artificiale non è migliore del naturale, quale fine hanno tutte le
arti della vita? Lo scavare, l'arare, il costruire, il vestirsi, sono
dirette inosservanze dell'intimazione di seguire la Natura.» E' da
osservare che con tale dichiarazione Mill, sembrò venire a
contraddire quanto aveva affermato, sia pure in altro senso,
nei Principi di Economia politica, ovvero che la maniera di
produzione era "naturale", oltre che indispensabile, mentre era la
ripartizione della ricchezza ad essere soggetta ad istituzioni dell'
uomini.
Sia quel che sia, sorge chiaro che il piglio di questo scritto era di carattere sinceramente positivista ed
aveva pure come bersaglio l'imprecisione e la vaghezza delle filosofie etiche e morali facilone e deboli di
intelletto, proprio quelle filosofie, come l'epicureismo e lo stoicismo, che Mill aveva preso come esempio per
il suo Utilitarianism.
Se su questo piano delle analogie linguistiche la contraddizione milliana è chiaro, però, forse non lo è sul
piano semantico, perché una volta presi nei loro possibili sensi tutte le possibilità che potrebbe indicare la
parola Natura, è chiaro che essa è qualche cosa di così generale e generico, che in realtà potremmo ben
dire che anche la ragione e l'intelletto dell' uomo sono qualche cosa che esiste in natura e non al di fuori di
essa. Non c'è un soltanto animale vivente, uno solo tipo di patata o di verme, o di cardo o di virus, che sia fuori
della natura o contro natura. E neppure gli esseri umani, con le loro qualità spirituali più sviluppate possono
dirsi fuori, o al di sopra della natura. Ciò che possono fare è appunto pensarla, ragionare su di essa,
studiarla, possibilmente con la precisione e la passione che contraddistingue il naturalista, come Darwin, per
esempio, o come Lamarck e Spallanzani. In quest'ottica è chiaro che Mill fece bene a mostrare il conto a
tutti quei pensatori e pensatori all'ingrosso che o fondavano tutto il loro possibile insegnamento sul naturam
sequi, o al contrario, lo basavano sulla spiritualità superiore contrastante alla natura e negante il carattere
naturale dell'individuo, il suo essere in ogni modo un essere naturale e non un robocop facitore di bene.
L'amica natura, la fedele compagna, la rara consigliera, rivela con Mill tutto il suo vero carattere di malvagia
matrigna, di nascosto pericolo, di insidia continua. "La natura è assassina" - redasse Mill - " col più altezzoso
dispregio in questo modo della pietà come della giustizia, colpendo con i suoi strali tanto gli esseri migliori e
più titolati quanto i più meschini e peggiori; vengono colpiti coloro che sono impegnati nelle opere più nobili e
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meritorie, spesso proprio come diretta deduzione delle azioni più nobili, e si potrebbe quasi ritenere che
fosse una condanna." E qui scattò un ragionamento davvero importante: « Ipotizziamo
che, contrariamente alle apparenze, questi orrori, quando sono
perpetrati dalla Natura, danno impulso a dei fini buoni, tuttavia
poiché nessuno crede che noi cercheremmo di raggiungere dei
fini buoni se seguissimo dei suddetti esempi, il corso della Natura
non può essere per noi un buon modello da riprodurre. O è giusto
dire che dovremmo uccidere perché la Natura uccide, brutalizzare
perché la Natura tortura, abbattere o devastare perché la Natura
fa similmente; oppure non dovremmo considerare per niente
quello che la Natura fa, ma quello che è bene fare. Se sussiste
una reductio ad absurdum, questa è sicuramente una. »
La legge di natura per Mill è molto simile alla famosa minaccia lanciata da Cristo: " A chi ha sarà dato, a chi
non ha, sarà tolto pure quello che ha". Facendo ruotare, ciò nonostante, l'interpretazione della stessa in una
chiave del tutto nuova, Mill ne ottenne un senso del tutto differente, e davvero vicino alla corretta
spiegazione cristiana: "il bene genera il bene, il male il male". Chi non comprende il bene, chi non ha in sé la
cultura ed i mezzi per intendere il bene, resterà privo anche di quel poco giudizio e qualità che possiede. In
questa linea di ragionamento è notevole tale attacco ai difensori dei così chiamati mali necessari, oltre ai
quali potremmo pure leggere i nomi di Leibniz e di Kant. « Tale categoria molto elogiata di autori, che è
costituita dagli scrittori di teologia naturale, ha smarrito, oserei dire, del tutto la via, e non ha colto l'unica
linea di argomenti che avrebbe reso accettabili le sue speculazioni e ognuno sia capace di accorgersi se due
proposizioni si contestino l’un l'altra. Essi hanno consumato le risorse della sofistica al fine di provare che tutte le sofferenze esistono nel mondo
per impedirne di maggiori - esiste ad esempio la miseria per il timore che debba esservi miseria -la quale
teoria, se mai fosse stata ben sostenuta, potrebbe solamente riuscire a spiegare e giustificare gli scritti di
esseri limitati, costretti a faticare in condizioni liberi dalla propria volontà; ma non può applicarsi ad un
Creatore possibile onnipotente, il quale se si sottomette ad una supposta necessità, è però egli stesso che
crea la occorrenza cui si sottomette. Se il costruttore del mondo può tutto quello che vuole, egli vuole la
miseria e non c'è maniera di sfuggire a questa conclusione. I più coerenti fra coloro che si sono ritenuti
qualificati a "difendere i modi di agire di Dio verso gli uomini" si sforzarono di evitare l'alternativa anzidetta
rafforzando i loro cuori, e contestando che la miseria sia un male. La bontà di Dio, essi dicono, non consta
nel volere la felicità delle proprie creature, invece la loro virtù; e l'universo, se non è felice, è però giusto.
E ancora: « L'unica teoria rettamente ammissibile della Creazione
è quella per cui il Principio del Bene non può soggiogare d'un
tratto ed in maniera completa i poteri del male, sia fisici che
morali, non può collocare gli individui in un mondo esente dalla
occorrenza di una lotta incessante contro le potenze malefiche, o
renderli vittoriosi in questa battaglia, ma può e lo fa in verità,
renderli capaci di portare la lotta con vigore e con successo
gradualmente crescente. Di tutte le soluzioni religiose dell'ordine della Natura, questa sola non è incompatibile né con sé medesima,
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né con i fatti di cui essa sente di render conto.» Qui sembra evidente che il positivista ha perduto a sua volta
la via in quanto non vide che la miseria è una conseguenza dell'ingiustizia sociale e non ha niente a che fare,
con la carestia, che è una calamità naturale dovuta a fattori che in ogni modo l'individuo ha imparato ad
individuare ed a controllare nel tempo. La solfa è sempre la medesima: perché imputare a Dio tutte le
sventure del mondo quando esse hanno sempre un'origine molto più precisa ed istantanea? Perché si
avverte troppo, sempre e in ogni maniera della nefasta dottrina che non si muove foglia che Dio non voglia.
3.6.4 Esiste una Provvidenza divina?
La teologia migliore, quella dei ragionatori e non dei fideisti, senza ammettere granché alla mitologia ed alle
fantasie, ha messo in evidenza che essa si nutre di speranza, di preghiera e di comportamenti onesti. Anche
nelle situazioni peggiori l'uomo potrebbe cavarsela grazie ad una linea di avvenimenti fortunati ed alla
simpatia che riesce ad istillare non perché ipocrita ed affettato, ma perché schietto. La Provvidenza è la
deduzione più diretta del nostro essere ed agire nella selva delle relazioni umane. La passione che riusciamo
a provocare per la nostra causa è una diretta conseguenza di quello abbiamo seminato in precedenza. Ma
dopo i lager nazisti dichiarare che qualunque persona invoca il nome di Dio sarà salvato è sicuramente una
bestemmia contro l'umanità, prima ancora che contro Dio, e credo lo fosse anche prima. E' inconcepibile che non vi sia stato un solo ebreo che non abbia
invocato il nome di Dio prima di accedere ai forni. Eppure è morto
allo stesso modo fra le più atroci torture. E' impensabile che un
solo bambino afghano o palestinese non chiami il nome di Dio
sotto un bombardamento, eppure muore analogamente. La prima
salvezza che vogliamo è questo modo di vivere qui E se ci viene
tolta questa vita qui e noi non urliamo la nostra disperazione e la
nostra rabbia, è evidente che siamo rincretiniti. Il fine della vita
non è la morte, e neanche la morte eroica. Si è martiri non per vocazione o per incomprensibile decreto di Dio, ma perché esistono dei torturatori, dei
malvagi che godono ad infliggere afflizioni, dei persecutori persuasi che noi siamo male in quanto razza, in
quanto portatori di idee, di comportamenti saggi, in quanto ci ripudiamo di portare bandiere e pennacchi o di
prostrarci davanti alla maestà di qualsiasi idolo. Esistono martiri in quanto vi sono dei teologi persuasi che la
ragione sia rivale di Dio e della fede , e semini malvagità. Credo ci sia una bella disuguaglianza fra uno
spettacolo di pugilato, che a me fa piuttosto schifo, peraltro, e lo spettacolo di un essere umano legato al
palo, trapassato da frecce o destinato al pasto dei leoni. L'elemento della sportività salva, per così dire il
pugilato, e chi lo fissa per gustare l'abilità e la forza. Il martirio, come la tortura sono tutt'altro, sono godere
della scomparsa altrui, che è l'esatto contrario del godere del piacere fisico e mentale altrui. In questo starebbe probabilmente il segreto non solo dell'altruismo generale, ma dello stesso altruismo
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sociale e politico. Nella tortura e nello spettacolo violento l'essere umano vittima è ridotto a mezzo, cessa di
essere un fine. L'individuo morale non può avere alcuna complicità con tale genere di singoli che gode del
male , nel quale rientra per certi aspetti il pedofilo, o il tifoso ultra che invoglia al fallo che spacca le
ginocchia. Ma pure l'illuso che si avvale di prostitute o l'illusa che si avvale di gigolò non può sottrarsi a
questo autogiudizio, sebbene cerchi pervicacemente di trovare relazioni umane laddove è assai difficile
trovarli, anche se, come prova Cristo, è proprio fra le anime perse ed i peccatori, che i giusti trovano udienza
più infiammante ed infervorata.
Ma l'essere equo e l'andare a prostitute sembra essere proprio
una contraddizione di termini: chi considera l'altro soltanto come
un mezzo per il proprio piacere, cade in una spregevole
condizione.
Mill condusse una severa analisi della Provvidenza. Egli dichiarò
prima di tutto come "vi sia un'assurdità radicale in tutti gli sforzi
di scoprire, nei dettagli, quali siano i segni della Provvidenza e
realizzarli. Coloro che sulla base di segnali particolari discutono
che la Provvidenza intende questo o quello, o credono che il
Creatore possa fare tutto quello che vuole, oppure credono che
non lo possa. Se si accetta la prima ipotesi - e vale a dire che la
Provvidenza ha per suo intendimento tutto quello che accade, e
il fatto che una cosa succeda dimostra che la Provvidenza
l'aveva già tra i suoi fini.
Se è così, tutto quello che un essere umano può fare, è prestabilito dalla Provvidenza e rappresenta
l'adempimento dei suoi disegni. Se ammettiamo al contrario, secondo la teoria più religiosa, che la
provvidenza non abbia per proposito tutto quello che accade, ma soltanto ciò che è bene, allora l'uomo ha
davvero in suo potere di sostenere, con azioni intenzionali, gli intendimenti della Provvidenza; in tal caso
però egli può apprendere tali intenzioni solo considerando ciò che mira a promuovere il bene generale, e non
quello per cui l'individuo sente un'inclinazione naturale. Dovendo infatti il potere divino, in base a quanto
detto, derivare limitato da ostacoli imperscrutabili ma insormontabili, chi ci assicura che l'individuo potrebbe
esser stato creato senza ambizioni che non saranno mai appagati, né mai potranno esserlo? Può darsi che
le inclinazioni di cui l'individuo è stato dotato, come qualsiasi altra delle disposizioni che scrutiamo nella
Natura, siano l'espressione non già del potere divino, ma soltanto delle pastoie che ostacolano la sua libera
azione, e che il trarre suggerimenti da tali inclinazioni per la guida della nostra condotta indichi credere nella
trappola tesa dal nemico.»
Qui Mill fu molto abile nel rammentare che la teologia più religiosa è, in fondo quella più vicina, all'idea di Dio
come Sommo Bene, e ciò per il suo tipico manicheismo; ma è certamente vero il contrario, non perchè sia
sempre vero che la consapevolezza viene dall'esterno, ma dato che, in fondo, è vero che storicamente gli
apporti che sostennero i religiosi ad emanciparsi dalla pochezza delle loro idee su Dio, vennero
principalmente da eminenti pensatori laici, od ai limiti dell'eresia come Tommaso d'Aquino, o perfino da
pensatori islamici come Avicenna od Averroè.
Un punto importante del saggio è l'analisi degli istinti naturali dell'individuo, che Mill svolge con accuratezza
scrivendo:« Per quanto riguarda la peculiare ipotesi, che tutti gli impulsi naturali, tutte le inclinazioni
sufficientemente universali e sufficientemente spontanee da poter essere ritenuti istinti, debbono esistere per
un fine buono, e debbono solamente venir regolate ma non represse, essa è ovviamente un'ipotesi vera per
la maggioranza degli impulsi, poiché la specie umana non avrebbe potuto continuare a sussistere se la
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maggior parte delle sue attitudini non fosse stata diretta verso un oggetto od utile per la sua conservazione. Ciò nonostante a meno che gli istinti possano essere ridotti ad un
numero in effetti piccolo, si deve concedere che noi abbiamo
altresì degli istinti cattivi, rispetto ai quali dovrebbe realizzare un
fine dell'educazione non semplicemente il regolarli, bensì di
estirparli, o meglio (il che può esser fatto anche per istinto) di farli
cessare di vivere per denutrizione.Coloro che sono propensi a
moltiplicare il numero degli istinti, implicano di solito tra essi quello
che chiamano istinto della demolizione: un istinto che fa
annientare per amore della distruzione.
Non si arriva a concepire alcuna ragione valida per mantenere quell'istinto, come neppure quell'altra
inclinazione che, se non è proprio un istinto, gli è però molto somigliante: quello che viene l'istinto del
dominio: il piacere vale a dire di esercitare il dispotismo, di conservare altri esseri in stato di soggezione
rispetto alla nostra volontà. L'individuo che ricava piacere dal mero esercizio dell'autorità, omettendo dallo
scopo per il quale essa va adoperata, è l'ultima persona al mondo nelle cui mani si affiderebbe volentieri
questa autorità. E ancora, esistono individui spietati di carattere, o come si dice, ovviamente spietati: esse
provano un reale piacere nell'infliggere o nel vedere inflitto un dolore. Questo genere di crudeltà non indica
semplice carenza di cuore, mancanza di pietà o rimorsi; essa è una cosa positiva, una specie peculiare di
eccitazione della voluttà.» Su tali premesse, Mill, ancora una volta attaccò i protettori del naturam sequi. « Se si vogliono scorgere dei
caratteri di uno speciale disegno della creazione, una delle cose che più balzano evidenti come parti di
siffatto disegno, è che una grande percentuale di tutti gli animali dovrebbero passare la propria esistenza nel
tormentare e divorare gli altri animali.
Essi difatti sono stati generosamente attrezzati di strumenti adatti a tale scopo; i loro istinti più forti ve li
conducono, e molti di essi paiono costruiti in maniera da non essere in grado di sostentarsi con alcun altro
cibo. Se la decima parte degli sforzi spesi per trovare delle sistemazioni benevoli in tutta la natura, fossero
stati impiegati nel raccattare le prove per calunniare il carattere del Creatore, quale vasta messe di discorsi
si sarebbe trovata nell'esistenza di animali inferiori, separati, salvo rarissime eccezioni, in divoratori e
divorati, preda di migliaia di mali dinanzi a cui vennero contestate loro le facoltà per proteggersi! Se non
siamo tenuti a credere che la creazione sia attività di un demonio, è dato che non dobbiamo di necessità
ipotizzare che essa sia l'attività di un Essere di potenza illimitata. »
4. Approfondimenti
4.1 Il positivismo critico di Mill .
John Stuart Mill coglie l’eredità dell’utilitarismo di Bentham, ma la
estende in una forma di
positivismo critico, fornendola di una logica sotto molte forme originale
e di un risultato politico liberaldemocratico. La logica di Mill è una
metodica della scienza: Mill non considera la logica come una
costruzione solamente formale, né come un’arte del dibattito, ma
come un criterio per giudicare il valore di qualsiasi ricerca, vale a dire
per controllarne la esattezza argomentativa in maniera da stabilirne la
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scientificità. La prima parte della logica consta in un’osservazione del linguaggio, vale a dire dei termini, che vengono
compresi come segni di cose o di fatti individuali (non sono segni delle nostre idee), e delle proposizioni, che
sono intese come segni di rapporti (coesistenza, successione, esistenza, causazione e somiglianza) fra
cose, o fatti, sempre singolari.In tale parte viene presentata l’importante ripartizione tra termini denotativi e
termini connotativi. Infatti, sono termini denotativi quelli che indicano la persona (es. i nomi propri, Cesare, Mario...) o invece tutti
i singoli compresi in una classe contraddistinguendoli attraverso una singola nota (es. i nomi comuni e gli
aggettivi: uomo, mortale...). Sono termini connotativi: quelli che descrivono una peculiarità della classe
denotata attraverso una nota aggiuntiva, che la mette in relazione ad altro (es: animale razionale connota la
categoria "uomo").
Mill fa osservare che un medesimo termine può essere denotativo e connotativo: es.: "bianco" denota gli
oggetti aderenti alla classe dei bianchi, come la neve, la carta, la spuma del mare, ma al tempo medesimo li
connota ponendoli in rapporto alla bianchezza.
Mill fa osservare che non occorre confondere una connotazione per una denotazione, vale a dire non
occorre credere che una peculiarità propria di una classe di uomini sia un’essenza reale, universale, diversa
dagli individui stessi. Questa confusione sta alla base della logica scolastica: essa ritiene che il sillogismo sia
un’inferenza da una asserzione generale (vale a dire valida per un’ essenza), ad una proposizione
particolare (cioè valida per un singolo). Es. di struttura del sillogismo della logica scolastica: preambolo
maggiore del sillogismo: tutti gli individui sono mortali (essa viene accolta come vera); premessa minore:
Wellington è un uomo (colloca un individuo all’interno della classe che è soggetto della prefazione maggiore;
conclusione: Wellington è mortale (nella conclusione spunta che tutto quello che si può dichiarare della
classe maggiore si può affermare altresì di quello che è accluso in essa).
Mill critica il sillogismo, facendo notare:
1 - è essenziale essere certi della conclusione (nel nostro es.,
Wellington è mortale) per potere accogliere come vera la
prefazione maggiore (nel nostro es. : tutti gli uomini sono mortali).
2 - se non si conosce la conclusione, non è lecito neanche
dichiarare la maggiore.
3 - Dato che il sillogismo serve per assoggettare a prova la
conclusione, ne deriva che
- o è un procedimento inutile (se sono al corrente della
conclusione),
- o è un procedimento illegittimo (se non sono al corrente della
conclusione).
La differenza fra Mill e i logici medievali sta nel fatto che Mill pensa che la premessa maggiore una "classe"
di singoli, mentre i logici medievali, quando dichiaravano che "tutti gli uomini sono mortali". Secondo Mill
"ogni inferenza è da particolare a particolare", dato che le proposizioni universali non sono altro che il frutto di
divulgazioni di proposizioni particolari. Alla base di tale posizione logica sta il supposto che tutte le nostre
conoscenze sono conoscenze di accadimenti particolari, vale a dire sono conoscenze empiriche: in questo
consiste il positivismo di Mill.
Alla base di qualsiasi inferenza poi c’è l’induzione: essa consta nel passare da proposizioni particolari, che
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riguardano casi osservati, a proposizioni più generali, le quali dichiarano che una proprietà dei casi osservati
può valere altresì per i casi non ancora osservati. La validità dell’induzione è assicurata dal "principio di
uniformità della natura", esso consta nella legge in base alla quale gli uomini che appartengono ad una
indicata classe si comportano alla stessa maniera.
Il principio di uniformità della natura, oltre a comprovare l’induzione, consente a Mill di elaborare una teoria
del principio di causalità: "la nozione di causa, scrive Mill, è la base dell’intera induzione, e per causa di un
fenomeno si deve comprendere l’antecedente di cui esso è immutabilmente e illimitatamente il
conseguente". Si noti bene che le cause di cui si occupa Mill "non sono cause efficienti, ma fisiche": questo
indica che il fondamento dell’invarianza e dell’incondizionalità si basa soltanto sull’osservazione
dell’esperienza. Quali sono pertanto i metodi in base ai quali, possiamo scoprire quale sia l’ origine dei
fenomeni? Mill ha stabilito quattro metodi:
1 - il metodo delle "concordanze": "se due o più casi del fenomeno in tema hanno una sola
circostanza in comune, questa condizione è causa o effetto del fenomeno dato". Es.:si dia il caso di
persone avvelenate, che in precedenza si siano nutrite di latte, possiamo assestare che la causa
dell’avvelenamento sia stata il latte. Il metodo delle "differenze": "se un caso in cui si provi il
fenomeno in questione ed un caso in cui non si provi hanno in comune tutte le condizioni tranne
una, la quale compare soltanto nella prima circostanza, tale circostanza è l’effetto o la causa o una parte
fondamentale della causa del fenomeno". Es.: si dia un caso di trasmissione di febbre gialla. Una corsia d’ospedale che aveva ricevuto malati di febbre gialla
venne suddivisa in due settori da una zanzariera. In un settore
vennero lasciate andare in giro le zanzare che avevano
contagiato i malati. Nei due settori andarono a dormire dei
volontari. Ne conseguì che, a parità di ogni situazione di contagio,
rimasero contagiati soltanto i volontari del settore in cui giravano
le zanzare. Quest’unica circostanza diversa consentì di
individuare nelle zanzare la causa del contagio. - Il metodo dei "residui": "se si levano da un fenomeno le parti che, in base ad antecedenti induzioni, si
sanno che sono gli effetti di dati precedenti, la parte restante sarà l’effetto dell’anteriore residuo". Es.:
quando in astronomia si analizzarono i perturbamenti dell’orbita del pianeta Urano, gran parte di tali
fenomeni era addossato a cause conosciute. Per le perturbazioni residue si è dovuto fare ricorso ad una
causa ancora sconosciuta: la presenza di un altro pianeta: Nettuno - Il criterio delle "variazioni concomitanti":
"se un fenomeno varia in una data forma ogni volta che un altro fenomeno varia in qualche caratteristica
forma, esso è o causa o effetto di quel fenomeno". Es.: se, mutando la composizione dei fertilizzanti di un
terreno, viene mutata altresì la qualità e la quantità del raccolto in quel terreno, allora la cagione di queste
modifiche è da ricercarsi nei fertilizzanti. Come si vede Mill cerca di dare con la sua dottrina del principio di
causalità un principio epistemologico all’utilizzo che le scienze naturali facevano del concetto di causa. Il
procedimento delle scienze morali. 4.2 Sul metodo per la conoscenza delle regole di comportamento dell’individuo
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Sempre in System of Logic, Mill sorregge che il metodo che si segue per l’ apprendimento delle leggi
naturali, deve essere seguito pure per la comprensione delle leggi che disciplinano il comportamento dell'
uomo, sia nelle manifestazioni individuali sia in quelle sociali: oggetto delle così chiamate "scienze morali.
Esse sono:
a) - per quanto concerne lo studio del comportamento dell’uomo:- la psicologia: che studia le
leggi di avvicendamento dei fatti mentali, vale a dire le leggi dell’associazione.
- l’etologia: (dal greco ethos = carattere) che studia le leggi delle volizioni e delle azioni dell' uomini.
b) - per quanto concerne lo studio dell’ atteggiamento dei gruppi di singoli, la scienza che se ne occupa è:
- la sociologia: essa accosta all’intera collettività le leggi scoperte dalla psicologia e dall’etologia per
l’individuo. Si osservi come la posizione di Mill a tale proposito rientri nel positivismo: egli si
richiama a Comte, pure se lo critica. Mill stima il Cours de philosophie positive di Comte, ma
critica il Système de politique positive a causa della concezione della vita sociale e politica in esso
contenuta, poiché dogmatica e illiberale. Approfondimenti: - previsione e libertà.
- rigetto del "metodo chimico"
- rigetto del "metodo geometrico".
Mill si occupa di economia in Principles of Political Economy del
1848. Recupera le ricerche cominciate dagli economisti inglesi, che
lo hanno preceduto, vale a dire Smith e Ricardo e cerca di dare una
soluzione al problema del rapporto fra accrescimento della
popolazione e distribuzione delle ricchezze differente da quella
proposta da Malthus. Mill discerne fra le leggi di produzione dei
beni, che ritiene siano fissi e le leggi di ripartizione dei beni, che
sono modificabili dall’individuo. In particolare pensa che occorre
essere attenti alle necessità delle classi più indigenti, come
vogliono i socialisti, ma senza arrivare all’abolizione della proprietà
privata. Per Mill, i lavoratori potranno perfezionare le loro condizioni solamente con il loro impegno, dato che nella
società le classi sociali pensano a fare i propri interessi. La via per migliorare non è però quella della
rivoluzione, ma quella della cooperazione con le altre classi. Nel saggio On Liberty del 1859, Mill ritiene che
alla base delle relazioni sociali deve essere posta la libertà civile: vale a dire la libertà del singolo individuo
dai provvedimenti del potere politico, la quale non deve essere delimitata per nessun altra ragione che non
sia la occorrenza di impedire, o di anticipare, un danno ad altri. essa consiste:
1 - libertà di coscienza, di pensiero e di parola;
2 - libertà dei gusti, vale a dire di perseguire la propria felicità nella forma che si preferisce;
3 - libertà di associazione.
Nel saggio Considerations on Rapresentative Government del 1861, Mill ritiene che la migliore
costituzione possibile nella società industriale attuale sia la democrazia rappresentativa, in cui la
sovranità sia assegnata nell’intero corpo sociale e ognuno sia chiamato, periodicamente, ad
esercitarla mediante il suffragio. Il suffragio deve essere esteso altresì alle donne.
In Utilitarism, composto tra il 1861 1 il 1863, Mill riprende il principio dell’utilitarismo
benthamiano: è moralmente valida qualunque azione che segua la maggiore felicità possibile per il
maggior numero possibile. Ma suggerisce di integrare il calcolo quantitativo dei piaceri, sostenuto da
Bentham, con un calcolo altresì qualitativo, che vale a dire tenga conto di aspetti come la loro nobiltà e la
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loro elevatezza spirituale.
E’ in tal maniera convinto che la propria etica venga a coincidere con
quella evangelica, dato che si basa come questa sulla "regola d’oro" di
non fare agli altri quello che non si vuole sia fatto a se medesimi. Circa
l’esistenza di Dio, Mill è persuaso che non si possa provare, ma che è
utile per la condotta morale degli individui.
4.3 L'economia politica di Stuart Mill
La sociologia di Mill non poteva che sboccare in una riflessione sui principi della società umana, ovvero il
lavoro, la produzione, la ripartizione dei beni e lo scambio. Questa era, in fondo, la vera scienza della
collettività nella tradizione filosofica inglese. Per questo è bene cominciare dalla definizione che Stuart Mill
fece dell'economia politica, nell'ultimo dei cinque saggi spuntati nel 1844 con il titolo Saggi su alcune incerte
questioni di economia politica. L'economia politica, come disciplina peculiare, non si occupa del
"comportamento generale dell'uomo nella società", ma considera l'uomo soltanto come singolo che aspira a
possedere ricchezze e che ha la capacità di vagliare quali mezzi adottare per raggiungere i suoi fini.
L'economista compie pertanto un'astrazione: considera l'individuo soltanto come impegnato al
conseguimento della ricchezza ed accantona qualunque altra passione o movente umani. Ciò non implica
che vi siano esperti di economia che considerino gli individui solamente come produttori e mercanti.
Il restringimento tematico serve a mettere in evidenza il metodo con cui la scienza deve operare; e gli studi
di economia politica devono essere orientati ad investigare su quali sarebbero le azioni umane prodotte dal
desiderio di arricchimento, se non fossero impedite e traviate da altri desideri, da altri problemi, o da altre
condizioni. Lo stesso Mill, ciò nonostante, non si conformò del tutto a tali principi di purezza della scienza, al
dire il vero egli fu molto più corretto di altri, discernendo sempre analisi economica e simpatie politico-sociali,
e pertanto non piegando l'esame economica a semplici interessi di classe o di bottega. Come economista fu
pure stimato, al punto che i suoi scritti diventarono una sorta di manuale. Ma il suo prestigio fu presto
offuscato dalla rivoluzione della scuola marginalista da un lato, e dal successo incontrato dalla scuola
marxista dall'altro, specie dopo il 1870.
Pur seguendo Comte, sino ad un certo punto, sul campo della
sociologia, non si può dire che vi sia una perfetto introduzione
delle tesi milliane in economia con la sociologia, e con quella
comtiana in particolare. La teoria, abbastanza diffusa, che
l'economia politica di Mill non sia stata nientaltro che un
complemento od una ramificazione della sociologia comtiana è
pertanto sbagliata. Sotto tale profilo, invece, possiamo dire che
Mill, come poi Marx, vide con una certa nitidezza che l'ossatura
medesima della società è l'attività produttiva e che la società è sia
possibile che indispensabile in quanto gli uomini producono e
scambiano i loro prodotti, e di tale stesso lavoro hanno bisogno
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per soddisfare i loro bisogni fondamentali. I Saggi su alcune incerte questioni di economia politica, opera del 1844, e i Principi di economia politica del
1848, compendiano, rivedono e incrementano i risultati raggiunti da Smith, Malthus e Ricardo, e unitamente
aggiornano le idee di Bentham e del padre, James Mill. Condivido l'idea di Eric Roll secondo la quale Mill
inserì gran parte delle proprie meditazioni in una condivisione delle posizioni di Malthus circa la esigenza di
contenere lo sviluppo demografico. Su questa base possiamo dire, nondimeno, che Mill non fu mai così
persuaso, come lo fu Malthus, che esso sarebbe venuto mediante un ritegno morale e pertanto una
maturazione dei singoli. Tuttavia, Mill comprese che la povertà non si sarebbe potuta vincere senza una
limitazione delle nascite da parte delle classi più povere. Certo, non disse mai che era necessario collocare il
controllo demografico. Sebbene il disfattismo, per Mill non c'erano soluzioni forti, ma solo soluzioni date dalla
crescita culturale. Anche per Stuart Mill è del tutto naturale che l'individuo lavori sulla base di una
giustificazione egoistica al guadagno. Il processo di produzione, altresì quando viene ad organizzarsi nella
forma della manifattura, risponde ad una naturale tendenza dell'individuo all'attività, che non si limita alla
produzione essenziale ed indispensabile, alla soddisfazione di necessità primari, ma tende a espandersi. E
nella forma moderna del capitalismo industriale questa tendenza viene riorganizzata, ma non viene
snaturata. Sotto un profilo generale, i problemi dell'ingiustizia sociale possono, per Stuart Mill, essere affrontati
intromettendo unicamente nel campo della distribuzione dei profitti, ovvero aumentando i salari e diminuendo
il guadagno degli imprenditori.
Questo perché, secondo Mill, la distribuzione non insegue leggi naturali, ma istituzioni, ovvero abitudini,
leggi, regolamenti e rapporti di forza che in esse si manifestano.
L'idea di questa distinzione non fu di Mill; egli la trasse da Nassau Senior, un economista molto importante,
pure se collocabile su una posizione politica più conservatrice.
Tale posizione non ebbe propriamente un seguito immediato, sia perché nelle file del movimento operaio
prevalse la corrente marxista, che criticò la separazione fra produzione e distribuzione come ingenua ed
ideologica, e sia perché gli studiosi di economia non erano ovviamente interessati a istigare movimenti di
opposizione alla distribuzione capitalistica dei profitti.
Ma sul piano della definizione di profitto e salari, come vedremo, il
medesimo Mill, fu tanto brillante per un lato, quanto vago per un
altro, e poi girovago. La sua teorizzazione del wage-fund, ovvero
dell'esistenza di un fondo-salari come parte del capitale
fisso iniziale che il capitalista precorre (e pertanto non ricava dai
profitti scaturente dalla vendita), poteva e può essere usata in
senso sia reazionario, sia progressivo, sia per arrivare a
compromessi e contratti più equi. Quando Mill si
rese conto che l'impiego predominante era di stampo reazionario,
giunse e a ritrattarla e la sua autocritica destò sensazione. Ma, col
senno di poi, sono di persona convinto che sia come astrazione
teorica, sia come considerazione pratica anticipata all'inizio di
qualsiasi impresa artigianale o industriale, il wage-fund sia una
categoria metodologica utile.
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Perfino nell'economia familiare non si fanno preventivi senza una previsione pessimistica di spesa. Non si
capisce perché, allora, questo medesimo procedimento non debba essere adottato in scala più grande. Per
comprendere l'importanza del pensiero di Mill nello sviluppo del pensiero economico, oltre che filosofico,
necessita partire da una querelle in apparenza piuttosto sterile, ovvero, se Mill sia definibile come l'ultimo dei
classici, o già come una transizione ai moderni, e pertanto come un precursore. La questione verte in
particolare sul dilemma del valore. Per i classici, e ancor più per Ricardo che per il medesimo Adam Smith,
il valore di scambio di una merce è indicato dal lavoro umano incorporato in essa. I moderni rinvieranno la
loro attenzione sulla merce in quanto valore d'utilizzo e diranno, in sostanza, che il prezzo di una merce è
determinato, non dal lavoro incorporato, ma dalla sua utilità, o dalla sua scarsità, pertanto dalla domanda. Per la verità, con tale ripartizione fra classici e moderni, si dimentica che sia Say che Senior avevano già
criticato la dottrina del valore di Ricardo, considerata parziale ed insufficiente. La posizione più giusta, ovviamente, è quella che tiene conto di tutti e due i fattori, non perché lo dico io, ma
perché la realtà è che il prezzo finale di una merce, che viaggia dal produttore e termina sullo scaffale del
distributore, è il frutto di una decisione, e quel che conta sono i principi sui quali si è preso il provvedimento.
Inutile dire che il produttore che dimentica il valore del suo lavoro, o dei suoi dipendenti, metterà a rischio
perdite se, per differenti motivi, fosse costretto a vendere sotto il livello della spesa per il lavoro, le materie
prime, il consumo dei macchinari e così via. quadro, Mill fu, forse molto meno considerevole come classico di
quel che si è spesso pensato, e quasi certamente più importante come innovatore. Smith, per esempio,
aveva commesso un grossolano errore nella stima del lavoro improduttivo, relegando tutti i servizi in siffatta
categoria. Secondo Smith era produttiva solo la creazione di beni. Non erano fruttuosi i sovrani, i principi, i
militari, i servitori domestici, gli spazzini, gli attori, i ballerini, e così via. Eppure, lo stesso Smith, aveva
corretto i fisiocratici, per i quali l'unico lavoro fruttifero era quello agricolo.
Mill ebbe buon gioco nel correggere Smith, e nel fare vedere che la
produzione di un servizio è in ogni modo un lavoro produttivo,
o necessario alla produzione. E che, altresì quando non è
indispensabile alla produzione, costituisce in ogni modo un
arricchimento della vita. La musica non è soltanto un lusso che ci
si può permettere, ma un elemento di qualità della vita medesima,
che contribuisce alla felicità del maggior numero. Questo semplice
esempio mostra che il contributo di Mill alla stima del lavoro di
qualunque genere è già moderno perché sfonda i parametri oltre i
quali i classici, deviati dalla classificazione di Smith, non erano
riusciti ad andare. Ma anche sul piano dell'esame delle crisi di
sovrapproduzione, come vedremo fra breve, Mill, confutando la
legge di Say, finì con l'anticipare ampiamente un pezzo
considerevole della teoria generale keynesiana, secondo cui
l'aumento di reddito non produce un incremento dei consumi.
I Principi del '48 furono concepiti con l'ambizione di aggiornare e rivedere l'insieme delle impostazioni date da
Adam Smith alla luce dei problemi che nel frattempo si erano presentati. Molti studiosi, per lo più
economisti, vedono fra gli Essays e i Principles un tipo di contraddizione nel pensiero di Mill, in quanto,
mentre i primi sono scienza economica pura e semplice, i secondi contengono importanti considerazioni di
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filosofia sociale giudicati incompatibili con la scienza economica. Probabilmente qualche problema esiste, ed
è dovuto al fatto che Mill modificò, non tanto il contenuto dei suoi pensieri, sempre linearmente severo,
quanto quello del punto di vista. Un conto è trattare la questione sotto un profilo intimamente economico, di
convenienza, di profitto, di legislazione sul commercio e così via; un conto è aprire la mente a considerazioni
sulla giustizia del sistema, su quello che significa il lavoro, su come una collettività può organizzarsi per
tutelarsi dai rischi insiti nel liberismo selvaggio, oppure nel collettivismo indotto.
4.4 Saggi su alcune incerte questioni di economia politica
Negli Essays on Some Unsettled Questions Of Political Economy, suddiviso in cinque saggi, Mill analizzò
una serie di questioni, fra le quali, una, posta da un economista, il colonnello Robert Torrens (The Budget:
On Commercial and Colonial Policy, London 1844) assai attivo sul fronte dell'esame dei più immediati
problemi della crescita industriale e del commercio.
Secondo Lionel Robbins ( Breve storia dell'economia - Ponte alle grazie - Milano, 2001) "Vale
assolutamente la pena di leggerlo [Mill] ..." Il primo saggio, intitolato Sulle leggi di scambio tra le nazioni,
esaminò il commercio internazionale sotto l'aspetto dell’ adeguatezza di un sistema, anche unilaterale, di
libero commercio. Pur dichiarandosi contrario, in linea di principio, al protezionismo, e
pertanto ad un sistema di dazi e gabelle sull'importazione delle
merci dall'estero, dovendo misurarsi con i problemi sollevati da
Torrens circa i rischi, per l'Inghilterra, scaturente da una unilaterale
apertura alle importazioni, Mill affermò che in determinate
circostanze, era possibile applicare imposte sulle importazioni al
fine di aumentare le entrate dello stato. Rispetto alle impostazioni di
Smith, del tutto contrario a qualunque limitazione delle importazioni,
ci fu inStuart Mill un cedimento di tipo pragmatico. Adam Smith
aveva ritenuto assurdo sostenere una produzione interna dinanzi
alla possibilità di comprare la medesima merce, a minor prezzo,
all'estero. Il secondo saggio, Sull'influenza dei consumi sulla produzione, conteneva considerazioni ed approfondimenti
molto rilevanti sul problema dell'equilibrio economico generale e sulle crisi di eccesso della produzione. Tra
l'altro era stato scritto, o quanto meno abbozzato, già negli anni trenta, pertanto con molto anticipo sulla data
di divulgazione.
Robbins considera:« Qui egli supera la logica sterile della legge di Say e dimostra come un arresto della
spesa possa produrre un'apparenza di sovrabbondanza generale. Riconosce che l'andamento dell'economia
è esposto alle variazioni di prosperità e depressione, così che la questione generale ad acquistare e la
generale riluttanza a comperare si succedono a brevi intervalli.» (Robbins - idem)
Per comprendere tale punto occorre sapere che dice la legge di Say: essa affermava che lo scambio era
scambio di prodotti contro prodotti e che la produzione e l'offerta di più di una merce creava
automaticamente una domanda supplementare delle altre merci con cui essa avrebbe dovuto scambiarsi. Di
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conseguenza, potevano darsi casi particolari di surplus, temporaneamente in eccesso, ma non poteva
esserci sovrapproduzione generale. L'idea di Stuart Mill è che l'offerta è al medesimo tempo domanda e la
domanda è pari tempo un'offerta. Quello ha che fare con il baratto primordiale, ma il commercio moderno
non è altro che un modo più pratico di risolvere il baratto. Grazie al denaro, difatti, non c'è alcuna necessità
di trovare chi, avendo quello che ci interessa, è parimenti interessato alla nostra merce. "Ora, dichiara Mill,
quando due persone barattano, ognuna di esse è al tempo medesimo venditore e compratore. Non si può
vendere senza comprare." Ma con la intercessione monetaria le cose sono più complesse:
«Se tuttavia, prendiamo in considerazione l'utilizzo di moneta, tali
dichiarazioni cessano di essere totalmente vere [...] L'effetto
dell'impiego della moneta [...] è che questa rende possibile
dividere quest'unico atto di interscambio in due atti o operazioni
separate [...] Sebbene colui che vende, in realtà vende solamente
per acquistare, ciò nonostante non necessita di acquistare al
medesimo momento in cui vende, e pertanto non
necessariamente si aggiunge all'immediata domanda di un bene
quando si aggiunge all'offerta di un altro.[...] Ci potrebbe pertanto
essere [...] una generale pendenza a vendere con il minor ritardo
possibile, accompagnata da una altrettanto generale inclinazione
a rallentare il più possibile tutti gli acquisti. »
Nella spiegazione degli squilibri, secondo Mill si davano sempre due periodi: nella prima la gente preferisce
le cose al denaro. Questo porta ad un ampliamento degli acquisti che, in sistema di convertibilità della
moneta, determina una crisi finanziaria, la quale causa l'imposizione di limitazioni sui tassi bancari. La
seconda fase si esprime pertanto come una domanda di denaro e non di cose, la quale si sviluppa come una
concezione di risparmio forzato, e conduce alla eccedenza di cose, e non di denaro circolante. Tale teoria
della crisi frequente, od anche, se vogliamo, durevole, del modo di fabbricazione capitalistico e della sua
anarchia di fondo, muove, com'è logico, dalla considerazione che c'è una razionalità del consumatore. Questi
preferisce non acquistare quando manca di denaro, onde scansare di indebitarsi e pagare alti tassi di
interesse. Tutte le considerazioni contrarie a tale spiegazione devono per forza di cose fare appello a fattori similmente
reali quali l'irrazionalità del consumatore, ovvero il suo reale bisogno.
Ciò, in effetti, pare il punto debole della spiegazione che Mill diede dell'alternanza di crisi e sviluppo in
regime di persistente squilibrio. In Italia questa spiegazione si scontrerebbe con una realtà nella quale il
boom economico negli anni '60 fu possibile soltanto grazie all'indebitamento ed agli acquisti " a rate", seguito
da un periodo di inflazione galoppante e di spaccature nella spesa pubblica. Lo stato regalava assistenza,
educando male le masse a dare il giusto valore ai servizi sociali, ma i signori economisti scordano spesso e
volentieri che senza tale distorsione non si sarebbero comprate le seicento e le televisioni a rate, e quindi
non ci sarebbe stato boom.
Il punto forte di quella politica sostenuta e sovvenzionata dai governi
( con soldi che non c'erano, quindi rubando al futuro) era la stabilità
dei posti di lavoro (è molto difficile che si ricorra a prestiti e che
questi vengano elargiti se manca la garanzia di un posto di lavoro
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fisso), condizione che oggi pare mancare e che viene a
ridimensionare tutte gli esami dei profeti del nuovo boom, a meno di
un trionfo dell'irrazionalità del consumatore. Il terzo saggio è una
speculazione Sulle parole produttivo ed improduttivo che spesso
viene snobbato, ma che in verità assume una certa rilevanza nel
quadro di una teoria politica dello stato moderno. Com'è noto, Adam Smith aveva classificato come improduttivi l'esercito, l'amministrazione dello stato, gli
uffici pubblici, i lavori domestici ecc...ovvero una serie di servizi ritenuti sostanziali ed indispensabili che non
producevano ricchezza, ma la impregnavano. Per capire di che si tratta necessita considerare che, durante
il XVIII secolo lo sviluppo degli stati unitari non aveva seguito la stessa via. Mentre nell'Europa continentale
si era via venuto affermando un modello burocratico accentrato sempre più complesso, in Inghilterra era
prevalso un esempio statale più leggero e pertanto più sopportabile dai contribuenti. In esso il principio
dell'autogoverno delle comunità, alla base integrato dalla figura istituzionale del giudice di pace, giocava un
ruolo importantissimo. Dunque il peso del lavoro cosiddetto improduttivo era minore in Inghilterra che in altro
luogo. Ma quello non aveva garantito, di per sé, il formarsi di una coscienza sociale e politica
della necessità dello stato, sia parimenti minimo.
Tale saggio di Mill sembra rilevante perché mette in evidenza quanto sia sbagliato considerare i lavori
produttivi e quelli improduttivi alla luce di categorie rigide e poco saggi. Sia i servizi basilari (sicurezza e
magistratura, salute, scuola e formazione) che i servizi culturali (biblioteche, teatri, cinema, editoria libraria e
musicale ecc...), sia la ricerca scientifica, di per sé non sono denaro gettato al vento, pure se poi, ovviamente
si tratta di distinguere tra ciò che coopera indirettamente allo sviluppo sociale e civile e ciò che appaga
soltanto la libidine di qualche intellettuale. Ma si tratta di un tema a tal punto delicato, che spunta
assurdo cercare di fissare dei criteri. Questo lo fanno già i privati. Il discorso sulla indagine scientifica ci
porterebbe troppo distante, ma è evidente che il privato è interessato ad una ricerca istantaneamente
risolvibile in business, e pertanto l'intervento pubblico è decisivo per una ricerca disinteressata, a condizione
che il pubblico sia indipendente e non "oliato" dal privato, come spesso succede. C'era ancora chi si lagnava delle tasse e dell'infecondità della loro spesa in generale, e non riguardo a
particolari situazioni di spreco come adesso in Italia, dove manteniamo una classe di burocrati pubblici e
manager privati di voracità senza pari. Mill svolse un'acuta dissertazione sull'impiego dei termini, mostrando
ragionevoli considerazioni su lavori come quello del poliziotto o del magistrato, che non soltanto difendono
dalla distruzione la produzione e la proprietà ma, garantendo la sicurezza, concorrono indirettamente ad
incentivare la medesima produzione. Alla fine, Mill esemplifica un caso persino banale, quello del
musicista. Il lavoro del musicista è di per sé improduttivo, ma non lo è certo quello del fabbricatore di
strumenti musicali. Ciò nonostante il lavoro del musicista è parte fondamentale della
ricchezza e del benessere di una nazione, come del resto, nelle
famiglie abbienti, il possesso di un pianoforte, è segno
del benessere di quella particolare famiglia. Che si lavori anche per
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acquistare un pianoforte non sembra discutibile. « I seguenti redasse Stuart Mill - sono da ritenere sempre produttivi: lavoro o
spesa, il cui obiettivo diretto o fondato (erect) sia la creazione di
materiali prodotti utili o gradevoli all'umanità. Lavoro o spesa il cui
obiettivo fondato sia sorreggere l'individuo o altri esseri animati con
facoltà e qualità utili o piacevoli all'umanità. Lavoro o spesa, che
non avendo per proprio oggetto diretto la creazione di materiali
fisicamente o mentalmente, ciò nonostante tendono implicitamente
a promuovere l'uno o l'altro di questi fini e sono utilizzati o investiti
soltanto per quel proposito.» Il quarto scritto è intitolato Sui profitti e sull'interesse. E' particolarmente rilevante altresì perché i medesimi
punti Mill tornò molti anni dopo, autocriticandosi ed autocorreggendosi. E secondo molti, non fece bene a
correggersi. Redige Lionel Robbins: «Smith meditava che i profitti fossero determinati dalla domanda e
dall'offerta e che, nel lungo periodo, per via di tale processo competitivo l'accumulazione di capitale
conducesse ad una caduta dei profitti. Ricardo lo mise in discussione. In definitiva la sua opposizione era: se
c'è un’ estensione proporzionale di capitale e lavoro, perché mai dovrebbe esserci una caduta del saggio di
profitto, tenuto conto del fatto che la domanda per beni scarsi è all'incirca insaziabile? Dev'essere qualcosa
che ha a che fare con i rendimenti decrescenti, pensò Ricardo.» (Robbins - idem) Ricardo dichiarò che i
profitti erano un resto, ovvero quanto rimaneva dopo il pagamento dei salari sul guadagno conseguito dalla
vendita. Ciò però implicava che il profitto non veniva soltanto a dipendere
dal salario, ma pure dal guadagno, perché in una semplice
operazione aritmetica di sottrazione il risultato varia non soltanto
se muta il sottraendo, ma pure se si cambia il minuendo. E allora,
anche il salario sarebbe dovuto dipendere da tale dinamica reale,
mentre nella verità esso si faceva vedere quasi sempre come
quota fissa.Tutto quello spinse Mill a pensare come reale,
almeno sul piano contabile, l'esistenza di un wage-fund, fondosalari, da considerare come preventivo di spesa, ed pure uno dei
pochi punti teoricamente fermi in una realtà molto dinamica ed
incerta. In breve: Mill allargò a tutta la collettività il concetto che i salari complessivi vengono dal fondo di capitale
reperibile come somma di tutti i capitali particolari adoperati in imprese. Il salario individuale è il risultato di
una suddivisione fra il totale sociale del fondo salari e il totale della popolazione che ambisce ad
un'occupazione, o che è già conquistata. Di qui l'asserzione che i salari sono pagati dal capitale (considerato
come anticipatore di salari). Il capitale è rispetto ai salari, la loro limitazione, da un lato, la loro garanzia di
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esistenza dall'altro.
Maurice Dobb nota in proposito che tale teoria: «...è assai vicina alla concezione, per molti implicita
nell'economia classica, secondo cui l'industria (e perciò pure la popolazione) è limitata dal capitale; dall'altro
lato, essa si riavvicina alla controversa teoria milliana secondo la quale "la domanda di merci non è domanda
di lavoro" (ossia è soltanto il reddito investito, come anticipo di salari al lavoro a produrre occupazione).»
Molti anni più tardi, anche dopo la reiterazione della teoria del fondo-salari nei Principi, Mill si renderà
personaggio principale di una clamorosa e pubblica autocritica a seguito della divulgazione del libro di W.T.
Thornton Sul lavoro.
Nella recensione al libro di Thornton del maggio 1869, divulgata nella Fortnightly Review Mill scrisse: « Non
esiste una legge di natura che ostacoli ai salari di crescere sino al punto di assorbire non soltanto i fondi che
egli [l'imprenditore] ha inteso destinare alla continuazione della sua attività, ma altresì tutto quello che egli
riserva per le sue spese private al di là della semplice sussistenza. Il limite reale all'aumento dei salari è la
considerazione pratica del fatto che tale aumento può portarlo alla rovina; o costringerlo a lasciare la sua
attività, non già il limite del fondo-salari.» 4.4.1 Il Wage-fund
Vi sono due punti del sistema del wage-fund che devono essere
attenzionati, non tanto per quello che egli redasse nei lavori che
abbiamo considerato, quanto per quello che Mill teorizzò in merito
ad un possibile socialismo economico, dopo il 1869: a) Mill non accolse che la quota salari fosse recintata da catene
naturali e barriere inaccessibili. Vi era un margine per
l'ingrandimento dei salari senza che, si badi, il rapporto
capitalistico di produzione risultasse alterato. Si potevano dare,
unicamente, salari più alti e profitti più bassi.
b) Il processo di formazione e sviluppo delle abilità lavorative, vale
a dire l'istruzione dell'operaio, era a tutti gli effetti un
lavoro produttivo e poteva pertanto essere ritenuto un valore da
incorporare nel salario, od pure una forma sociale di salario, da
assegnare con la gratuità del sistema scolastico.
E' da osservare che il medesimo Marx, nel Capitale, riconobbe a Mill il merito di queste annotazioni. Lo
criticò al contrario bruscamente per l'adesione alle posizioni di Nassau. W. Senior, un economista che aveva
affermato "solennemente" che la distinzione fra lavoro e capitale andava superata con quella tra lavoro
ed astinenza!!! In realtà l'adesione di Mill alle posizioni di Senior, erano molto meno entusiastiche di quanto
ipotizzò Marx. Mill si era difatti limitato a considerare che parte del capitale ha origine dal risparmio. I
moderni hanno preferito sostituire il termine astinenza con quello di differimento (del piacere). Certo è che se
si richiedesse di spiegare l'origine del capitale solo e soprattutto con il risparmio e il rinvio, si cadrebbe nel
ridicolo.
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C'è però da considerare che il termine astinenza non era stato adoperato da Senior soltanto nel senso di
risparmio. Per Senior l'astinenza era sinonimo di lavoro del capitalista, ovvero tempo dedicato all'impegno e
non al divertimento. Nei Principi Mill accetterà, senza innovazioni sostanziali, il punto di vista di Senior
principalmente in ordine al problema dei costi. Per Eric Roll, nondimeno, l'analisi di Mill sui costi risultò non
compatto: « A volte egli parla di lavoro e astinenza nei termini di una teoria soggettiva del costo reale; vale a
dire li impiega per dimostrare l'effettiva quantità di sforzi e di astinenza materializzati nel prodotto. Ma più
spesso egli definisce il costo in termini di remunerazione corrisposta ai lavoratori e a coloro che forniscono il
capitale. Naturalmente quello significa fare fronte il problema dall'angolo visuale dell'imprenditore e Mill,
sebbene tutte le sue esitazioni, sembra aver dato un grande impulso a tale metodo di analisi del costo. La sua confusione diviene particolarmente evidente quando include
le differenze permanenti nei livelli dei salari e nei profitti come
fattori che coincindono sul valore. Egli vide che questi si verificano
in realtà e che essi hanno qualche influenza sul prezzo di mercato.
Ma non comprese che quello contrastava con il concetto soggettivo
di costo reale, dal momento che chiaramente tali differenze nella
remunerazione non potevano avere alcuna connessione con la
quantità relativa di sforzi e di astinenze che esse causavano. »
Alla luce di quanto sappiamo adesso sul reale andazzo delle faccende economiche, rimane un piccolo
mistero da chiarire: perché, quando i profitti vengono divisi in maniera più equa, ed i salari si alzano, viene a
generarsi inflazione, e pertanto tendenza al deprezzamento della moneta, e quando i profitti restano in poche
mani, si ha piuttosto stabilità monetaria?
Ovviamente ci sono più risposte, e non è detto che ve ne sia una adeguata a tutte le condizioni; attualmente
una semplice modificazione del costo del petrolio ha effetti drammatici sul costo dei trasporti e dell'energia in
generale; però, come non possiamo escludere che dietro alla spinta inflazionistica vi sia un accrescimento
dei prezzi determinato dal tentativo di una compensazione e di un recupero delle somme perdute dai
capitalisti, non possiamo neanche escludere il fatto che i lavoratori in possesso di più denaro, si gettino
irragionevolmente sul mercato per acquistare qualunque cosa. Quello dovrebbe generare benessere, ed
invece genera inflazione.
. Una cosa è sicura: il peggior nemico dei poveri e dei salariati in generale è in ogni modo l'inflazione stessa,
vale a dire una situazione nella quale il valore dei soldi è sempre minore, giorno dopo giorno. Il vero
interesse dei lavoratori coincide quindi con politiche economiche che tengano sempre sotto controllo la
febbre inflazionistica. In pratica: le politiche keynesiane non tornano realmente a vantaggio dei lavoratori,
perché mirano a ribassare i salari reali, fermo restando che i lavoratori sono per principio fermamente
contrari ad una diminuzione del salario monetario (nominale), non considerando mai a sufficienza che la
moneta come unità di misura non è ferma come il metro, o la bottiglia da un litro, ma fluttua, ed adesso vale
più e domani può valere meno.
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Per non lasciare il discorso incompleto, credo sia utile esaminare
pure il percorso analitico che condusse Mill alla primitiva
enunciazione del wage-fund. Come già evidenziato, Ricardo
sostenne che il profitto derivava dal salario, anzi, era il resto
rimasto dopo il pagamento degli stessi. Per Mill "questa era la forma più perfetta in cui la legge dei profitti
sia mai stata formulata" e la "base della vera teoria dei profitti." Mill riconobbe che il principio espresso da Ricardo (i profitti non
possono accrescere, a meno che i salari non scendano), era
corretto. Ma a condizione che per basso salario si comprendesse non soltanto il salario prodotto con minore quantità
di lavoro, ma pure il salario prodotto a minor costo, calcolato unitariamente con il lavoro ed il profitto passati.
In pratica Mill parlò del saggio del profitto, anziché del profitto, introdusse vale a dire una variante temporale
rispetto alla quale misurare il profitto medesimo: non più un ciclo produttivo semplice fondato su capitale
fisso anticipato per materia prima e salari - produzione - vendita - profitto, ma una media del profitto
calcolato su più periodi semplici, senza soluzione di continuità. Redige Maurice Dobb: «L'emendamento di
Mill mette in risalto, in maniera sostanzialmente corretto, che, ove si introduca il capitale fisso, questo
rapporto risulta inferiore, ceteribus paribus, quanto maggiore è la proporzione del capitale fisso rispetto al
capitale circolante, e quanto e più lungo è il periodo di tempo in cui le spese di produzione, o il lavoro,
devono essere segnalate: un punto questo, che Ricardo non menziona mai chiaramente (anzi, sembra
addirittura ignorarlo), probabilmente perché non gli interessa troppo analizzare il profitto in rapporto al
capitale complessivo.
Formalmente la variazione milliana può essere considerata analoga alla critica che Marx muove a Ricardo di
aver ignorato il cosiddetto "capitale costante", come fattore per la determinazione del saggio di profitto, e di
avere identificato il profitto con il plusvalore. » In quest'ottica spunta evidente che, per Mill, resta
determinante che nel ciclo economico capitalistico vi sia un capitale fisso iniziale implicante il wage-fund. Il
principio dell'impresa è il capitale fisso iniziale. Del quinto saggio, dal titolo Sulla definizione di economia
politica; e sul metodo di investigazione suo proprio, abbiamo già parlato in apertura. Giulia Bruzzone ne ha
ultimamente prodotto una traduzione che è disponibile cliccando qui. Del resto, a chi volesse approfondire,
sarebbe utile dare un'occhiata anche a Say, il quale fu molto interessato al problema metodologico e
pertanto fare un raffronto fra il metodo di Mill e quello di Say.
4.5 I Principi di economia politica
E' chiaro fin dall'inizio che l'intento dell'autore è di pervenire, alla
fine, sulla base stessa dei principi di economia, ad alcune
applicazioni non artificiose, capace di rendere migliore le
condizioni sociali. Ma visto che l'esame dei principi è condotta
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seconda categorie economiche e non secondo utopie politiche, il
ragionamento sulle applicazioni sociali non altera il momento
dell'esame. Non fu un caso, pertanto che i Principi di Stuart Mill
diventarono per lungo tempo, in Inghilterra, una specie di vangelo
sia per i liberali radicali che per gli economisti puri. La sua validità fu negata da Jevons, che si oppose a Mill pure sui problemi di logica e di filosofia della
scienza, e nell'ultimo quarto di secolo i Principi di Mill furono offuscati dalle nuove dottrine economiche. Per
un certo periodo fu poi rivolta a Mill la critica di una scarsa singolarità. Ma se si pensa al soltanto fatto che
seppe cogliere un grave errore nella dottrina ricardiana della rendita, nella quale si sosteneva che essa non
fa parte dei costi di produzione, si ottiene un'idea del tutto differente. In effetti ci si dovrebbe sempre
chiedere da dove vengono i soldi quando c'è un guadagno di qualunque tipo, ed è evidente che la rendita è
sostenuta dalla produzione, e pertanto è un costo di produzione, tanto quanto lo è adesso il costo della
pubblicità, la quale vive di rendita di posizione, altresì se poi utilizza il lavoro "creativo" di decine di
fabbricatori di spot, designers e così via.
Il primo saggio si intitola Preliminary Remarks e non consiste di una premessa, ma di un vero e proprio
ragionamento storico sul senso e sul significato di ricchezza. Mill inizia con una critica della teoria
mercantilistica, la quale non fu soltanto un fatto storico, superata poi da teorie più moderne, ma era ai tempi
di Mill, e forse lo è nuovamente, il senso comune dell'economia politica, in altre parole la convinzione
assoluta che la ricchezza sia istituita dall'oro, dall'argento e dal denaro. Scriveva difatti Stuart Mill: «It has so
happened with doctrine that money is synonymous with wealth.»Già Aristotele aveva provato a criticare il
mercantilismo del suo tempo, da lui definito crematistica, riportando come esempio la leggenda di re Mida:
avendo questi conseguito il potere di trasformare tutto quello che toccava con le mani in oro, terminò col
morire di fame. Ma nonostante tale illustre antecedente il mercantilismo prima
ancora che una teoria economica fu sempre un credo sparso al
punto da sembrare naturale in qualunque società. Cominciò ad
affermarsi come teoria vera e propria agli inizi stessi del
capitalismo mercantile, e uno dei suoi massimi teorici era stato
Thomas Mun (1571-1641), individualità nonostante lucida ed
aperta, perfettamente allineata alla logica dell'espansione
commerciale. Mill, pur conducendo un'osservazione storica, non fece una vera e propria storia del mercantilismo, non citò
neanche Mun o Aristotele; si limitò a criticarne l'idea ispiratrice, mettendo in evidenza cosa veniva postulato:
il possesso di un bene particolare è un possesso circoscritto; il possesso del denaro, o dell'oro,
è potere d'acquisto tendenzialmente senza limiti. Redigeva Mill: « The greatest part of the utility of wealth,
beyond a very moderate quantity, is not the indulgences it procures, but the reserved power which its
possessors holds in his hands of attaining purposes generally; and this power no other kind of wealth confers
so immediately or so certainly as money.» Nell'esame di Mill, quello non riguarda soltanto
gli individui, ma altresì i governi e le amministrazioni. Pure i governi vedono la ricchezza come denaro e
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osservano con favore alle esportazioni perché esse riportano in patria oro e denaro. Lo svantaggio con cui si guarda alle importazioni è dovuto al fatto che esse riducono le riserve di danaro e di
oro depositato o circolante in patria. Lungi dal prendere tali considerazioni come una critica di costume,
dovremmo alquanto prenderle come uno dei tanti principi esplicativi, una vera e propria legge della fisiologia
sociale, la quale sarà valida sin tanto che il senso comune della gente condividerà, spesso senza rendersi
conto, i principi di fondo della teoria mercantilistica. Su questo piano Mill non si cura tanto di scoprire
il perché la gente comune desidera avere oro o denaro, quanto di fare vedere come accade. L'analisi di Mill
è particolarmente penetrante rispetto al transito da un regime di vita pastorizio e nomade a forme stabili di
agricoltura e di proprietà della terra. L'esame di tale fase procede dal così chiamata maniera asiatico,
culminante con la creazione di monarchie ed eserciti, sino alla constatazione di un differente progresso nel
nord Europa prima della conquista romana.
Egli dà rilevanza al fatto che in un primo tempo la terra sfruttata da
colture agricole non offriva altro che prodotti adeguati ai soli
coltivatori, e che l'agricoltura richiedeva una percentuale di lavoro
molto più alta di quella richiesta dalla pastorizia. Con tutto ciò, col
tempo, l'agricoltura venne ad offrire un'eccedenza di prodotto. Mill
descrive come tale prodotto venisse subito sequestrato dal sistema
monarchico, o mediante tasse imposte con la forza e miranti a
conservare una casta di guerrieri e burocrati, o mediante la
convinzione realizzata dalle credenze religiose. In verità fra
agricoltori e guerrieri dominanti si era instaurato una specie di
baratto. La casta militare proteggeva i contadini dalla rapina dei briganti e principalmente dalle invasioni dei popoli
vicini. Potremmo arguire che pure fra agricoltori e sacerdoti ( e maghi) era stata stabilita una sorta di
alleanza: grazie alla loro intercessione, le divinità concedevano protezione in cambio di piccoli sacrifici, che
divenivano sempre più grandi non perché gli dei si facessero più esosi, ma perché ampliava l'avidità dei
sacerdoti. Nell'insieme il testo è invitante perché smaschera le vere ragioni della istituzione degli stati, dei
sistemi militaristici e delle istituzioni religiose nell'antichità. Nell'insieme risulta chiaro che l'opera fu pianificata
sulla base di due principi comtiani, statica e dinamica, ovvero anatomia e fisiologia della produzione e del
mercato, con la produzione in funzione del mercato. Gli economisti puri, ed in genere, quelli
di destra unitamente ai marxisti, furono sempre molto critici nei confronti della ripartizione milliana fra
produzione e distribuzione, ma essa spunta quantomeno plausibile. Se difatti la produzione, fondata sulla
suddivisione del lavoro, ha un che di oggettivo, nel senso che non si possono generare cose in modo
sostanzialmente diverso da come vengono prodotte, vale a dire o nei campi o in fabbrica, lavorando con
macchine, e mirando a realizzare qualche cosa di durevole, di utile e di vendibile, la distribuzione, come
riconosce pure Lionel Robbins, potrebbe seguire differenti linee istituzionali. Scrive Mill:« The laws and
conditions of the production of wealth partake of the character of physical truths. There is nothing optional or
arbitrary in them.» Copyright ABCtribe.com
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« Persino quello che una persona ha prodotto con la sua fatica individuale - continua Mill - senza l'assistenza
di alcuno, non può essere considerato suo senza il permesso della società.
Non solamente la società glie lo potrebbe togliere, ma altri singoli potrebbero e vorrebbero sottrarglielo, se
soltanto la società rimanesse passiva; e se non ci fossero ulteriori sovrapposizioni, o non fossero impiegate e
pagate persone con il proposito di ostacolare che egli venga infastidito nei suoi possedimenti, questo
potrebbe succedere. La distribuzione della ricchezza dipende pertanto dalle leggi e dai costumi della
collettività. Le cui regole sono definite dalle opinioni e dai sentimenti della parte dominante , e sono molto
differenti in molte età e paesi differenti; e potrebbero essere ancora più differenti se l'umanità lo volesse. Le
opinioni e i sentimenti dell'umanità, senza dubbio, non sono oggetto di scelta. Essi sono la conseguenza delle leggi indispensabili della natura,
abbinate con lo stato della conoscenza esistente e dell'esperienza,
e con le reali condizioni delle istituzioni sociali, la cultura e la
morale.» (idem - chapter one) «L'umanità è capace di una lontana
coscienza collettiva (public spirit) - continua Mill - maggiore di
quanto il tempo presente sia assuefatto a supporre possibile. La
storia testimonia con successo di come gli esseri umani possono
essere trascinati a sentire il pubblico interessamento come il
proprio.E nessun terreno potrebbe essere più bendisposto alla
crescita di un simile sentimento che un'associazione comunista, di
maniera che tutta l'ambizione, le attività fisiche e mentali, che sono
ora esercitate nella ricerca di divisi interessi egoistici, potrebbero
richiedere un'altra sfera di sviluppo, e potrebbero per natura
trovarlo nella ricerca di generali benefici per la collettività.
La stessa causa, in questo modo spesso assegnata alla spiegazione della devozione dei preti o dei monaci
cattolici agli interessi del loro ordine religioso - che non ha altro interesse - vorrebbe, sotto il comunismo,
incollare i cittadini alla comunità.» Mill prosegue, dichiarando che il comunismo non era in realtà attuale nella
coscienza della gente, ma quello non escludeva che avrebbe potuto esserlo in futuro. In generale egli si
affermò sempre contrario a soluzioni imposte con la forza e mise in ogni modo il problema della libertà
individuale al di sopra di ogni altro valore. Mill era benevolo alla proprietà contadina e credeva che ciò
avesse in sè una sorta di magia capace di trasformare la sabbia in terreno fertile. Ma tale visione era forse
più dettata da motivi romantici che da reali stime sulla sostenibilità economica della piccola proprietà. Per
quanto concerne l'organizzazione industriale, Mill alimentò una visione del futuro nella quale, per gradi,
l'impresa capitalistica si sarebbe cambiata in impresa cooperativa. Tutto il suo socialismo stava nella
predilezione per un sistema di produzione basato sulla cooperazione anziché sulla costrizione e la gerarchia.
4.5.1 Lo stato stazionario dell'economia
Mill immaginò che presto o tardi l'incremento della ricchezza sarebbe interrotto e che l'economia sarebbe
entrata in una fase stazionaria, da non capirsi come ristagno, ma come equilibrio. Questo perché i miglioramenti tecnici e scientifici, la legge dei corrispettivi decrescenti, l'accumulo del
capitale e la concorrenza avrebbero determinato una compressione dei profitti. Una volta impedito un progresso eccessivo della popolazione, si sarebbero altresì determinate condizioni
favorevoli al cambiamento favorevole delle condizioni dei lavoratori.
Mill osservò con un certo freddo compiacimento a questa condizione di felice equilibrio, senza considerare
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che lo sviluppo avrebbe presto posto nuovi ed ancora più grandi problemi. Ci furono dispute per le spoglie del pensiero economico-politico di
Stuart Mill. I socialisti fabiani lo volevano socialista e i liberali
collettivisti lo volevano liberale. In verità, se mi è consentito un
giudizio personale, Mill non fu né l'uno né l'altro, o fu, anche, tutt'e
due. Il problema della libertà individuale restò sempre prioritario,
non svendibile in nessun caso per qualcos’altro. Fu contro il
collettivismo appiattito ed imposto, propugnato dai socialisti e dai
comunisti utopistici del continente, ma raccontò più volte di
essere disgustato dall'individualismo esasperato. Conservò sempre un’ indubbia stima delle idee di Robert Owen, ma non ne fu mai veramente persuaso, e
presumo che fu molto meno attirato da quelle di Fourier. Non conobbe direttamente le teorie di Marx, o in
ogni modo le ignorò pubblicamente. Fu prudentemente favorevole alla proprietà statale di alcuni servizi
pubblici, e dibattute i termini giuridici della nazionalizzazione delle ferrovie, provando simpatia per tale
accorgimento. « In fatto di tassazione - redige Lionel Robbins - lo si potrebbe considerare al tempo
medesimo un reazionario e per altri versi un radicale. Per quanto concerne l'imposta sul reddito, era
decisamente contrario alla tassazione progressiva, tranne che nella misura in cui la progressione è l’ effetto
di un limite minimo di esenzione. Come sapete, il limite minimo di esenzione implica un certo grado di progressione, ma non è quello che
riteniamo come imposizione fiscale graduale, che Mill vedeva come penalizzante degli imprenditori rispetto a
quelli che preferivano non dedicarsi all'attività imprenditoriale. Per quanto concerne le successioni ereditarie,
era parecchio più radicale di quanto nessun governo fosse mai stato fino ad allora. Era a favore
dell'imposizione di un limite assoluto di denaro che un individuo poteva ereditare: qualche centinaio di
migliaia di sterline in tutto. »
In Mill il pensiero morale occupa la sfera economica e il pensiero economico e politico occupa la sfera della
morale. Tutto quello, ovviamente, non può piacere né agli economisti che han venduto l'anima al denaro, e
neanche ai moralisti, che han venduto l'individuo ad impossibili principi di perfezione. E neanche ai marxisti più ortodossi, che hanno sempre visto come
il fumo negli occhi la commistione fra morale ed economia politica,
se l'oggetto di dibattito è l'economia politica, ovvero la realtà dello
scheletro che regge tutta la vita sociale. Engels, nell'Antidühring, fu
particolarmente aggressivo su tale punto, ma la sua riduzione di
tutto l'uomo al suo interesse, in verità finì con l'ignorare le sue
medesime dichiarazioni di fondo: il comunismo diede inizio a
realizzarsi nella coscienza di alcuni imprenditori illuminati, come
Robert Owen, del quale Engels canta le lodi. Certo non poteva
nascere nelle masse operaie. Ed egli medesimo fu un
imprenditore. Copyright ABCtribe.com
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E' innegabile che il comunismo venne al mondo come figlio della morale e della commistione realistica fra
economia politica e morale. Se è impossibile fissare un rapporto diretto fra Mill ed il marxismo, che non è mai
venuto alla luce ( e questo è per me un piccolo mistero), non è ciò nonostante impossibile raffrontare le idee
di Mill e quelle di Marx, tanto più che esse si accrebbero in un periodo storico comune a tutti e due. Marx,
al contrario, si occupò in misura importante del pensiero di Stuart Mill e, prima ancora, considerò Gli
elementi di economia politica di James Mill come un rilevante documento della storia dell'economia. Credo
sia utile riepilogare rapidamente il giudizio di Marx su Stuart Mill, sia perché rende giustizia alla posizione di
Mill, almeno in parte, sia perché verifica che Marx non era affatto quel fazioso che viene oggi pitturato.
4.5.2 La teoria economica di Stuart Mill ed il problema del socialismo
E' opinione abbastanza estesa che Stuart Mill iniziò ad essere semisocialista dopo il fatale incontro con
Harriet Taylor, nel 1830. Quasi certamente è vero, nel senso che tale donna, essendo molto intelligente ed
pure molto sensibile ai problemi umani, lo costrinse a misurarsi in maniera non unicamente freddo e teorico
con problemi umanitari. Ma non dobbiamo confondere l'ispirazione con la enunciazione esplicita di una
preferenza e il disegno teorico conseguente. Maurice Dobb, storico dell'economia di orientamento marxista,
redige: « L'influsso della Taylor su quest'opera [I Principi di economia politica] (che, osserva Leslie Stephen,
"divenne popolare come nessun'altra in tale campo dopo la Ricchezza delle nazioni) è così significante che
pare opportuno dedicargli qualche parola, sia persino per inciso. Come dice Mill medesimo, l'influsso della Taylor conferisce al suo
libro quella tendenza generale per cui esso si discerne da tutti gli
antecedenti trattati di economia politica, una tendenza che
consiste soprattutto nel fissare la giusta distinzione fra le leggi
della produzione della ricchezza, che sono reali leggi di natura,
dipendenti dalle proprietà degli oggetti, e le forme della
distribuzione che, soggette a certe condizioni, dipendono dalla
volontà umana." Altri economisti, afferma Mill, confondono le due
cose "sotto la comune definizione di leggi economiche...disadatti
di essere abolite o cambiate dall'azione umana."
In altre parole la ripartizione del reddito è per Mill il prodotto di istituzioni sociali mutabili vale a dire un fatto
"istituzionale" e storicamente relativo, non "naturale" o universale. Una dichiarazione in questo modo
esplicita riproduce senza dubbio un progresso nei confronti dei precursori di Mill, nonché delle posteriori
teorie dell'"imputazione". Non per caso Marx ha esaminato che "sarebbe estrema ingiustizia metterli
(persone come J.S. Mill) in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell'"economia volgare", pure se,
beninteso, affermazioni come quella citata erano per Marx indicazioni ancora inadeguate del nesso fra la
ripartizione e i rapporti sociali di riproduzione.» Questa ripartizione non fu contestata soltanto da Marx, ma
principalmente da quelli che potremmo definire economisti di destra. Per cause diverse, ovviamente, e del
tutto contrastanti a quelle di Marx, ma con pretesti fondamentalmente simili. Rimane che proporre una
differente distribuzione della ricchezza scaturente dai profitti, è socialismo soltanto sino ad un certo punto. La
caratteristica fondamentale della collettività, anche operando una differente distribuzione dei profitti, sarebbe
rimasta la concorrenza fra produttori ( e venditori) in un regime di libero mercato, a base capitalistica, vale a
dire con molto denaro alle spalle all'inizio di qualsiasi attività.
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Tale soluzione per il socialismo lasciava intatta quella che era ritenuta la "naturale" tendenza a produrre di
più e meglio, vale a dire la "competizione" fra esseri umani. Non credo sia il caso fissare quanto vi sia di naturale nella "competizione". L'antropologia paragonata
dimostra che vi sono state e vi sono tuttora collettività poco competitive e, visto il loro grado di sviluppo, non
credo abbia molto senso contestare la loro vicinanza alla natura. Però è un fatto che la competizione sia una componente innata nel periodo dell'infanzia e dei giochi presente
in moltissime società umane, alla stessa maniera della solidarietà e dei vincoli di sangue. Basta poco per
stimolarla e, forse non serve neanche stimolarla. Ma, se è indubbio che non sempre la competitività si
indirizza a produrre di più per acquisire ricchezza, diventa similmente esplicito che, senza competizione, le
società stagnano, non si ripetono, crepano prima del tempo. La pianificazione socialista, proprio nel momento in cui pareva
esaltare il massimo possibile della razionalità, ovvero la
collaborazione di tutti al conseguimento del bene di tutti, falliva
perchè comportava la frustrazione dei talenti delle individualità
virtualmente più creative, e generava insoddisfazione perché
schiacciava verso il basso l'uguaglianza economica, e non
ricompensava secondo meriti. Anzi, sovente, ricompensava
secondo principi mafiosi, come nell'Urss ai tempi di Breznev. Non è
scritto da nessuna parte che la programmazione debba pure
contestare l'esercizio delle libertà individuali, ma è certo che nel
totalitarismo reale del comunismo di stato del Novecento,
paradossalmente più acuto ai tempi di Breznev e della
nomenklatura che a quelli di Stalin, si possano leggere non soltanto
fattori ideologici, ma pure esigenze obiettive di tenuta del sistema. Un sistema ordinato, rigorosamente come una macchina, o come un organismo vivente, non può permettersi
guasti, o disfunzioni, o malattie. Ecco perché, in definitiva, una programmazione totale rischia sempre di
portare all'eliminazione di tutte le voci di critica e di opposizione ed a forme di totalitarismo. Ciò può essere
agevolmente verificato quando facciamo un programma noi medesimi e tentiamo di pianificare il suo
sviluppo. Ogni opposizione viene vista come un ostacolo, persino un sabotaggio, alla nostra volontà. Tutto ci
infastidisce, tendiamo ad assolutizzare la nostra meta a dispetto di tutte le circostanze e rischiamo
agevolmente di perdere il rispetto per l'autonomia e la libertà degli altri. Per di più, un sistema elefantiaco di
pianificazione porta certamente alla burocratizzazione, pertanto al rallentamento, allo scoraggiamento di
qualunque iniziativa individuale, altresì la più disinteressata. In un sistema progettato, fatalmente, si viene ad
instaurare una mentalità nella quale è permesso soltanto quello che è chiaramente autorizzato, ed è vietato o
impresentabile, tutto quello che non lo è.
Il problema, se tale fatto può costituire "problema", è che Mill risultò alla fine semi in tutto: fu semisocialista,
semiliberale e semipositivista. Rispetto a Bentham ed a suo padre fu semiutilitarista. Certo: Mill non fu mai
un semirivoluzionario; non lo fu per nessuna cosa. Qualunque innovazione, anche la più avanzata, doveva
avvenire nel quadro istituzionale dato, ed in modo pacifico. Come fosse possibile, per Mill, introdurre
elementi di socialismo senza causare scossoni devastanti, lo abbiamo già visto: il problema era nelle mani
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dei lavoratori medesimi e la via era quella delle cooperative di produzione, da un lato, e il progresso delle
Unions sindacali dall'altro. La storia prese un'altra direzione perché in Inghilterra si fecero principalmente
cooperative commerciali, e occorrerà andare sul continente per vedere spuntare qualche tentativo di
cooperative di produzione. Furono esperimenti che persero via d'importanza, sia perché la
forza economica del sistema delle imprese terminò con lo stritolare
le deboli strutture cooperative, sia perché la direzione del
movimento operaio passò, principalmente dopo il 1870, nelle mani
di marxisti ortodossi, persino più marxisti di Marx, e in ogni modo
poco inclini ad aumentare esperimenti di socialismo applicato a
comunità produttive. Per sicuri aspetti fu presente in Mill pure una
terza via, quella dell'associazione del lavoratore all'impresa. Fu
quella meno conosciuta e meno seguita, pure perché presentava e
presenta sempre il rischio dell'incertezza. In tale schema Mill
prefigurava come possibile l’ attenta valutazione del lavoratore
come socio senza capitale, o con quote minime.
La sua retribuzione, allora, non veniva più quantificata come salario, ma come parte del profitto prodotto, ed
era pertanto a tutti i titoli una separazione dell'utile. In tale quadro sarebbero venute a cadere molte delle
consecutive critiche all'organizzazione capitalistica della società e della produzione basate sull'alienazione
del lavoro e sull'estraneità del lavoratore alla produzione. Interessati come i padroni, e persino più di loro,
all'accrescimento della produzione e della redditività, i lavoratori stessi avrebbero messo in atto
atteggiamenti finalizzati al miglioramento del lavoro, per il loro stesso profitto. A questo proposito vi sono,
col senno di poi, differenti principi che giocano del tutto a sfavore di questa teoria. Il primo ed il più manifesto
è che il ciclo produttivo si svolge in condizioni dinamiche e che il cambiamento tecnologico spinge
certamente alla riduzione di mano d'opera. Ci si troverebbe pertanto dinanzi non all'equivalente di un
licenziamento, ma al problema dell'eliminazione di un socio. Il secondo principio di difficoltà è che i medesimi lavoratori sono stati e sono restii ad avere in comune
l'incertezza: meglio un salario minimo, ma certo, che un profitto superiore incerto. Il terzo è che le
organizzazioni sindacali hanno ragione di sussistere se i lavoratori sono contrapposti all'impresa e pertanto
possono rivendicare diritti, riduzione d'orario e salari più alti. Cessano di avere tale funzione se i profitti
d'impresa vengono equamente divisi fra soci con capitale e soci senza capitale. Ed è per questo che sono
fondamentalmente poco aperte a queste sperimentazioni. Il quarto è che molte volte la proposta di
trasformare il salario in una rimunerazione ottenuta divedendo i profitti, era poco meno che un imbroglio volto
a conseguire una riduzione dei salari medesimi. A memoria d'uomo questa proposta è stata avanzata spesso
in fasi di recessione e difficoltà, e, forse, quasi mai in periodi di sviluppo ed alti profitti.
La difficoltà di collocare Stuart Mill in una corrente di pensiero
pertinente depone a suo favore: essere socialista con riserva,
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liberale con riserva, positivista con riserva, è vergognosa
solamente per chi crede sia valida la pena di spendere tutta l’
esistenza a cantare le lodi dell'idea, invece che a verificare sino a
che punto essa sia vera in pratica. Il numero e la qualità delle
riserve che egli avanzò rispetto a tutte le dottrine catalogate, prova
solo che egli si fece via consapevole che non c'è teoria che fosse di
per sé perfetta.
Ognuna implicava controindicazioni e deduzioni negative, accanto a vantaggi. Si trattava quindi di decidere
quale fosse la più favorevole, e per chi, in un determinato momento. E pure, audacemente, di seguirne
simultaneamente più d'una, inventando soluzioni pratiche che accogliessero geniali sintesi di tutte o di
qualcuna. Mill fu un versatile, ma non un indeciso, casomai una persona sempre consapevole delle
conseguenze di qualunque affermazione filosofica o politica. Ma nella difesa della libertà individuale e di
pensiero fu indubbiamente compatto dall'inizio alla fine: senza libertà il socialismo non è preferibile al
capitalismo in nessun luogo ed in alcuno tempo, pure se è perfettamente visibile che il capitalismo in sè è
una restrizione della libertà, in quanto forza tutti quelli che vivono in povertà entro confini sempre più
inaccettabili. Abbiamo già visto che Marx analizzò la suddivisione fra sfera della produzione e quella della ripartizione. Nel
Capitale redasse: tale suddivisione ... « si fonda sulla confusione e sulla individuazione del processo sociale,
con il processo lavorativo semplice, che deve compiere anche un individuo affettatamente isolato, senza
alcun aiuto sociale. In quanto il processo lavorativo è solamente un processo fra l'individuo e la natura, i suoi
elementi semplici rimangono identici in tutte le forme dell'evoluzione sociale. Ma qualunque determinata
forma storica di siffatto processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è giunto un certo livello di maturità, la forma storica
determinata vien lasciata cadere e cede il posto a un'altra più
elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale
decadenza quando guadagnano in estensione e in profondità la
contraddizione e il contrasto fra i rapporti di ripartizione, e quindi
pure la forma storica determinata dai rapporti di produzione ad
essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità
produttive e sviluppo dei loro fattori, dall'altro. Succede allora un
conflitto fra lo sviluppo materiale della fabbricazione e la sua
forma sociale. »
4.5.3 Che cosa voleva dire Marx? Copyright ABCtribe.com
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Marx confutò a Mill, come persino a Ricardo ed a tutti gli economisti inglesi, la mancata individuazione del
carattere storico e pertanto transitorio del capitalismo. Secondo Marx il capitalismo non era naturale, ma
storico nel suo insieme. Secondo Marx storia naturale e storia dell'individuo non erano la stessa cosa. Ciò è
particolarmente manifesto nel primo capitolo di Per la critica dell'economia politica, dove a proposito della
naturalità della produzione, egli parla di robinsonate da XVIII secolo.
Mettendo in prosa corrente il testo marxiano, si ha che non si può mutare distribuzione del profitto senza
modificare e la forma di produzione e il distributore, e poiché il distributore è il proprietario dei mezzi di
produzione, della fabbrica, dei macchinari ecc..., occorre che la proprietà degli stessi passi ad altri. Ma
attenzione, perché non scrive "stato", scrive "produttori", anzi, termina col lasciare tutto nel vago. Il conflitto,
che è reale e naturale (naturale sia per Marx che per gli economisti inglesi), confinato da Mill nell'ambito della
distribuzione dei profitti come smisurata ed iniqua differenza fra profitto del capitalista e salario dell'operaio,
che si potrebbe altresì scrivere come salario del capitalista e profitto dell'operaio, venne riportato indietro da
Marx al modo di produzione, anzi all'indissolubile legame fra produzione delle merci e distribuzione del
profitto. Marx continuò sulla forma, anzi la formazione storico-sociale del capitalismo, come una cosa di
essenzialmente differente da tutte le formazioni storiche sociali antecedenti.
E se consideriamo la sostanza delle cose e dei rapporti, abbiamo
che nel periodo feudale il proprietario della terra metteva al lavoro
dei servi della gleba o degli operai agricoli e che essi godevano
del minimo, mentre egli si impadroniva del massimo, in cambio di
una semplice protezione armata ed in virtù di una giustificazione
"divina" (teologica) all'ordine sociale reperibile. Nel regime
capitalistico, tale relazione basata sull'iniquità muta nella forma,
mentre nella sostanza, da un lato muta, e dall'altro rimane intatto,
vale a dire conserva molto di quanto si pronunciava in
precedenza.
In apparenza, per Marx, sulla traccia degli economisti classici, fra capitalista e operaio avviene uno scambio:
salario in sostituzione di lavoro e lavoro in sostituzione di salario. La prima realtà che spunta è che tale
scambio è disuguale. Già i cosiddetti socialisti ricardiani, Hodgskin e W. Thompson in particolare, avevano assegnato a
contraccambi ineguali il profitto del capitale, ma Marx andò oltre: dichiarò che "il plusvalore non si spiega con
lo scambio". Nei Grundrisse si legge: « Nell'insieme dell'attuale società borghese, questo diminuire a prezzi,
la loro circolazione ecc., si mostrano come il processo di superficie, sotto il quale però, nel profondo, si
svolgono ben altri processi, nei quali quest'apparente parificazione e libertà degli uomini scompaiono.
Infine non si vede che già nella semplice determinazione del valore di scambio e del denaro è contenuta in
forma nascosta l'antitesi fra salario e capitale ecc.»
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Non è questa la sede per approfondire il pensiero di Marx, ma una spiegazione sul problema specifico dello
scambio fra salario e lavoro sorge indispensabile, per esplicitare che Mill non fu così miope come credette,
poi, la scolastica marxista. Quello che Marx interpretò come mistero da svelare e portare alla luce, vale a dire
la differenza, era al contrario molto visibile. Ciò che andava spiegata era la ragione della medesima. Esisteva un saggio di sfruttamento del lavoro
umano, ma dire che corrispondeva al plusvalore, come pensava Marx, vale a dire alle ore di lavoro in più che
l'operaio forniva gratis al capitalista, era come asserire che in sede di ripartizione dei profitti tale plus-lavoro
non veniva individuato.
In sostanza: sia Mill che Marx fecero la medesima analisi, e qui ha
davvero poca importanza la querelle intorno al problema del valore ed
alla non scientificità del plusvalore. Se si sta a Mill, il problema è la
quantità dei profitti, vale a dire una categoria per niente astratta, anzi,
concretissima. Com'è possibile che l'utile netto di una impresa sia così
alto, ed i salari reali (o monetari; per ora trascuriamo tale differenza)
siano così bassi? La differenza fra Marx e Mill sta nella terapia. Mill fu per una soluzione che non modificasse i rapporti di proprietà, chiese soltano giustizia; Marx fu per una
espropriazione degli espropriatori, e qui, francamente, su questa cura da cavallo, non si può che lasciare la
parola alla storia del comunismo reale, sempre rammentando, in ogni modo, che la rivoluzione russa fu una
smentita di Marx e non una dimostrazione. Secondo Marx la Russia era il paese meno adatto ad una
rivoluzione socialista. Almeno su ciò ebbe ragione, altro che chiedere scusa ai proletari di tutto il mondo. La
ripartizione di Mill fra sfera della produzione e sfera della distribuzione fu ripresa dal pensatore tedesco
Dühring, in qualche misura assimilabile al tardo positivismo tedesco, e fu criticata invece bruscamente
da Engels nell'AntiDühring. Il problema è che Dühring espose tesi e concetti di storia dell'economia politica totalmente erronei non solo agli occhi di un
marxista, ma a quelli di un qualsiasi economista. E qui Engels, indignato e rallegrato al medesimo tempo per
le naiserie (sciocchezze) di Dühring, si fece prendere la mano dalla polemica, perdendo una rilevante occasione per dire qualche
cosa di nuovo. Trascrivo il passo di Engels: « E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a ritenere la ricchezza dai due punti di
vista fondamentali della produzione e della distribuzione; ricchezza come dominio su cose, ricchezza di produzione, lato buono;
ricchezza come dominio su persone, ricchezza di distribuzione, quale finora esiste, lato cattivo; aboliamolo!
Applicato alle condizioni odierne quello vuol dire: la maniera di produzione
capitalistico è buono e può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico
non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si giunge scrivendo
di economia senza neanche avere un concetto del nesso fra produzione e
ripartizione. ».Alla luce di quanto affermato sinora, tale critica di Engels a
Dühring, non arrecò alcun contributo alla ricerca di risoluzioni al problema di una
maggiore giustizia economica, ma servì solo a reiterare in modo dogmatico un
confronto fra proletari e capitalisti che, comunque, non causò alcun giovamento
istantaneo e mediato alle condizioni dei lavoratori nell'Europa centrale ed
occidentale. Storicamente sono stati i sindacati, le forze riformiste, il movimento cooperativo, e per la verità, il partito comunista italiano, specie
sotto la direzione di Berlinguer, a prendere l'eredità riformista ed a proporsi una trasformazione democratica e socialista senza
scosse rivoluzionarie. Ciò senza scordare che altresì nel Pci eccelse storicamente una visione statalista dell'economia e una
valutazione eccessiva dei concetti di programmazione e pianificazione. Ma biasimare a dei comunisti di non essere stati
sufficientemente liberali è come rinfacciare ai liberali di non essere stati sufficientemente socialisti.
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Come vedremo, Mill ebbe, anche su questo terreno, certe intuizioni felici nel saggio On Liberty. Fino a
quando - dichiara Mill - un partito non sarà sufficientemente maturo da esprimere insieme una visione sia
progressista che conservatrice, è bene che sia fedele alla sua illuminazione di fondo.
Il contributo di Mill ad una teoria realistica del socialismo, non si circoscrisse alla felice intuizione del fatto
che per giungere ad un semisocialismo, non necessita una rivoluzione politica, ma solo una crescita culturale
dei lavoratori e la loro organizzazione in sindacati o collettività. Da un lato c'è il riconoscimento che la buona
volontà dei singoli addetti economici è indispensabile: non si fa un buon sindacalismo se si assumono
soltanto logiche rivendicative e si confutano, per partito preso, tutte le strategie aziendali. Il lavoratore ha
tutto da ricavare se l'impresa per la quale fatica è prospera, e tutto da restare privo se l'impresa va in malora.
Il medesimo diritto di sciopero si scontra, pertanto, su questo limite invalicabile: il danno causato al
capitalista non può essere mortale. Pure perché la decurtazione consequenziale allo sciopero di un
giorno può essere mortale per l'operaio se non altro quanto lo
potrà essere per il capitalista dopo dieci giorni di sciopero.
Dall'altro lato, c'è un modello della teoria dello stato che è
principalmente in negativo, vale a dire un ridimensionamento del
ruolo del medesimo, sia in senso dirigistico ed interventista (lo
stato come organizzatore delle attività economiche e soggetto di
una sua presenza attiva con proprie imprese), sia in senso
legislativo e ideologico. Tali posizioni vennero a raggiungere
l'apice nel saggio On Liberty, una delle opere più rilevanti di tutta
la storia del pensiero dell' uomo.
4.6 La teoria della libertà Il saggio On Liberty fu diffuso nel 1858 e Stuart Mill credeva decisamente che sarebbe divenuto il suo lavoro
più popolare e stimato. I fatti gli diedero ragione, almeno limitatamente al mondo di lingua inglese. Le cose
andarono un po' differentemente negli altri paesi, specie in quelli latini. Nella Storia della Filosofia di Nicola
Abbagnano, per esempio, non esiste un paragrafo che riprenda il libro a grandi linee. Altresì in Germania il
libro ebbe poca fortuna, sebbene alcune opere di Mill fossero state tradotte e sparse da scienziati quali
Justus von Liebig. E ciò è singolare perché, se ci fu un filosofo che ebbe una profonda influenza su Mill
proprio sulla idea del libero sviluppo dell'individuo, questi fu il tedesco Wilhelm von Humboldt. Il problema è
che neanche von Humboldt fu particolarmente popolare nella cultura tedesca, sebbene nella medesima
Berlino Est, l'università più rilevante portasse il suo nome.
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L‘ esame del fronte comune di von Hayek, che socialisti e reazionari tedeschi alzarono unitamente, e non
certo intenzionalmente, contro il pensiero libertario ed individualistico inglese, appare abbastanza lucida
ed argomentata, pure se adoperata nell'ambito di un ragionamento tendente a provare che il
nazionalscialismo aveva genesi socialista, e sogna non bisogna dimenticare che il socialismo, aveva, a sua
volta, principi liberali. Ma come sarebbe stupido imputare ai fondatori del pensiero liberale la nascita del
socialismo, e si pensa che sia altrettanto stupido imputare a socialisti come Saint - Simon o Fourier, o
l'inglese Hodgkins, la nascita del nazismo. Del resto è palese che, se nel pensiero socialista
sussistono anche tratti totalitari, nel pensiero liberale sussistono anche tratti superindividualistici regressivi,
che guidano, vale a dire, all'affermazione del diritto del più forte, del più astuto e del più brutale. Ed è indubbio che le idee razziste del nazismo in ordine alla razza
ariana poggino rigorosamente su questo: il diritto del più forte a
liberarsi delle impurità razziali ed etiche del più debole, di quello
che "inquina" la società civile. Ma sarebbe sensato attribuire ai
liberisti la paternità del nazismo? Inoltre, a mio avviso, non è
corretto assorbire la dottrina milliana della libertà ad una filosofia
dell'individualismo, contrastante a quelle della coscienza sociale e
della responsabilità. In questo modo facendo si perde di vista uno degli argomenti forti di Stuart Mill, ovvero che la libertà dei
moderni abbisogna di una società e che, per esercitare completamente la libertà, occorre una coscienza
larga della società. Le medesime argomentazioni di von Hayek poggiano, del resto, su una un'esperienza
storica ed una indicata concezione della società. Quella che Mill presentò in poche pagine fu una teoria dei
diritti dell'individuo, cruciale in una serie di pretese del tutto ragionevoli. Sicuramente è incompatibile con
qualunque forma di società totalitaria; ma risulta pure incompatibile con qualunque società a tal punto libera
da potersi riclassificare come selvaggia, ovvero una società nella quale a governare sono un'altra volta i più
forti od i più astuti. Il presupposto fondamentale, la condizione indispensabile allo sviluppo della libertà, anche secondo Mill, è
l'esistenza di una società civile avanzata, regolata da uno stato, minimo, di diritto. E questo, certamente, riporta alla qualità dei cittadini, non soltanto individui portatori di diritti, ma pure di
doveri civici. La qualità di uno stato è, a lungo andare, precisata dalla qualità dei suoi cittadini. Lungi
dall'essere una semplice esaltazione della libertà di opinione e di espressione, la teoria milliana mostra sino
a che punto la libertà sia necessaria quanto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, ma pure, quanto
spesso, ci occorra che la libertà degli altri sia delimitata, onde impedire che, pigliandosi troppe libertà,
interferiscano con difficoltà nella nostra vita. On Liberty non fu, pertanto, un manifesto a senso unico, invece
un lavoro problematico; per tale ragione molti principi espressi
dovrebbero essere alla base delle costituzioni politiche più
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progredite. Tali ragioni sarebbero sufficienti a fare di On liberty è
uno dei dieci libri di natura filosofica che bisogna leggere pure se
non si vuole diventare filosofi. Altri ragioni sono che lo scritto
brulica di considerazioni "intelligenti" che procurano differenti
stimoli e che io non posso riportare in toto pena una sorta di
clonazione del libro medesimo. La libera circolazione delle idee mostra indubbi vantaggi ma, implica rischi. Uno di questi è che si venga ad
istituire un regime della mediocrità, quella tirannia della maggioranza e del conformismo già messi in
evidenza da Tocqueville. Nietzsche avrà, in fondo, buon gioco nel dichiarare tutte gli appiattimenti della
mediocrità in nome di eroi sovrumani anticonformisti, antisocialisti ed antiliberali. Mill, molto più razionale e
meno nevrotico di Nietzsche, indicò pure il terreno fecondo nel quale il germe della mediocrità trova
l'ambiente ideale per svilupparsi. Gli individui che non pensano abbisognano di qualcuno che pensi per loro e
lo trovano tra chi gli è più simile, chi sa meglio interpretare, in maniera demagogica, il loro stato d'animo
redige: « E novità ancora maggiore, oggi, le masse non ricevono più le loro opinioni dalle gerarchie
ecclesiastiche e statali, da capi visibili o dai libri. Chi pensa per loro conto sono uomini molto simili a loro, che li arringano o parlano a loro norma, sull'impulso
del momento, attraverso i giornali. Non mi sto lamentando. Non affermo che il basso livello intellettuale
dell'umanità consentirebbe, in generale, qualcosa di meglio. Ma ciò non toglie che il governo della mediocrità
sia un governo mediocre.» (On Liberty - capitolo III). Ciò pare essere il destino della democrazia, ma dopo
le prove disgustosi date dalle teorie opposte, non ci resta che tenerci stretta la libertà civile suggerita da Mill.
Ma non senza aver prima pensato pure i vantaggi di una corretta dialettica democratica.
4.6.1 I vantaggi della democrazia Afferma Mill che: «Anche in politica è quasi un luogo comune che
un partito dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o
delle riforme sono entrambi elementi necessari di una vita politica
sana, fino a quando uno dei due non avrà così ampliato la sua
visione delle cose da diventare partito ugualmente d'ordine e di
progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò che
va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro
utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga misura l'opposizione
dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione.
Se le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e all'uguaglianza, alla cooperazione
e alla competizione, al lusso e alla frugalità, alla socialità e all'individualità, alla libertà ed alla disciplina, e a
tutte le altre opposizioni intrinseche alla vita quotidiana, non vengono espresse con uguale libertà e fatte
rispettare con uguale talento ed energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi ricevano un
trattamento equo: la bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi problemi pratici della
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vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione degli opposti, a tal punto che pochissime
menti sono abbastanza vaste ed imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo parzialmente
corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna
delle grandi questioni aperte che ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non solo
a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in
minoranza. Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di
ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta.» (On Liberty - capitolo II - Della libertà di pensiero e
discussione).
4.6.2 La tolleranza
Il punto più fecondo di On liberty sta nel superamento del vecchio concetto di tolleranza. Prima di Mill, e
forse con l'eccezione di Pierre Bayle, Locke e Voltaire, la tolleranza era soprattutto concepita come
una sopportazione. Di fatto non veniva alcun vantaggio dal tollerare le idee giudicate sbagliate od eretiche.
In alcuni casi, anzi, era necessario combatterle, se non censurarle, per evitare i pericoli connessi alla loro
diffusione. John Locke, che pure con gli scritti sulla tolleranza della maturità aveva affermato il diritto alla
libertà religiosa, aveva, tuttavia, detto che l'ateismo era intollerabile, con ciò limitando gravemente il concetto
stesso di tolleranza all'espressione delle proprie credenze, delle quali solo alcune permesse. Per Mill la
tolleranza divenne, al contrario, un elemento indispensabile alla crescita intellettuale ed alla stessa vitalità del
pensiero.
Pure se l'individuo fosse pervenuto alla verità , e non v'era dubbio,
per Mill, che su alcuni campi, per esempio le verità matematiche,
questo fosse già successo, la sistematica rinuncia a confrontarsi
con gli errori veri e probabili di vecchi e nuovi punti di vista,
avrebbe condotto ad un esaurimento unilaterale e dogmatico , ad una caduta di tensione che avrebbe implicato una perdita
di vitalità sociale. Quello che vale per collettività, vale altresì per il
singolo. L'individuo ha tutto da guadagnare a mettersi in
opposizione alle proprie idee e alzare contro di esse tutte le
obiezioni possibili, considerando principalmente i fatti. E ciò,
secondo Mill, non solo tornerebbe utile nelle discussioni, ma
potrebbe e dovrebbe agevolare a mettere a fuoco parti di verità
che le nostre impostazioni unilaterali non sono state capaci di
mettere in evidenza.
« Abbiamo quindi riconosciuto la necessità - dice Mill -, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui
dipende ogni altra forma di benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro
distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può,
per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili. In
secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte
di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai l'intera verità, è
soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In
terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non
si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei
suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi
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fondamenti razionali. Non solo, ma quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire,
e perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà
un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro ed un ostacolo allo
sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall'esperienza
personale.» (cap. II - Della libertà di pensiero e discussione).
4.6.3 Caratteri generali
Fin dalla prime righe dell'introduzione del Saggio sulla libertà Stuart Mill dichiara che l'oggetto della
trattazione non è la libertà del volere, ma la libertà civile, vale a dire la libertà di poter fare, di poter credere e
non credere, e poter manifestare la propria opinione. Questo, non solamente implica per Mill uno sviluppo
della libertà, ma diventa fattore di dinamica sociale, di crescita civile e di accrescimento delle intelligenze
individuali. La vera agiatezza di un popolo è la sua intelligenza ed il suo senso critico, la sua "varietà di
caratteri". La parola pluralismo non era di moda ai tempi di Mill e perciò non ricorre nel testo; però potremmo
dire che Stuart Mill fu il teorico del pluralismo, vale a dire dell'idea che opinioni differenti e anche contrastanti,
purché manifestate in forma corretta e civile (ma anche a costo di qualche irriverenza e di grandi polemiche),
siano un principio positivo, uno stimolo e non una mescolanza od una complicazione.
Mill fu pertanto il primo critico lucido e consapevole dell’ esempio
totalitario e, col senno di poi, potremmo dire che egli comprese la
diversità fra una semplice dittatura che vieta la democrazia e nega
i diritti civili, ma non ordina quale tipo di mutande uno deve
mettersi addosso, ed una oppressione ideologica che, al contrario,
pretende di controllare la vita di tutti ordinando qualunque
comportamento, qualunque gusto, ogni pensiero e così via. Ancora
col senno di poi, potremmo osservare che una tirannia totalitaria
non ha necessità di una forma di governo dittatoriale per
realizzarsi: la democrazia, pure se non le è del tutto congeniale,
non le è neppure del tutto sfavorevole, ed il possesso dei media, il
monopolio della cultura, il sistema di istruzione e altro tuttora,
possono concorrere in dimensione ancora più efficace che una
brutale dittatura ad innalzare conformismo e mancanza di senso
critico. Il fine del saggio di Mill "è formulare un principio molto semplice": « Il principio è che l'umanità è giustificata,
individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di
proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una
comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico
o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è
meglio per lui, perché lo renderà felice; perché, nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono
buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o punirlo in alcun
modo nel caso si comporti diversamente.» (On liberty - Introduzione) E continua:« Il solo aspetto della
propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto
che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su sé stesso, sulla sua mente e sul suo
corpo, l'individuo è sovrano. Copyright ABCtribe.com
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E' forse superfluo aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà.
» (idem) Indubbiamente si tratta di una formulazione rilevante, principalmente alla luce del fatto storico che
siamo storicamente nel pieno progresso dell'imperialismo e del colonialismo, e che l'Europa, pur ancora
sentitamente divisa da rivalità nazionali, stava operando la conquista del mondo e la sua globalizzazione,
prescrivendo il proprio modello di progresso, la propria cultura, la propria religione a tutti i popoli del pianeta.
E spesso soltanto i lati peggiori di queste. L'idea di Mill è che se una credenza od uno stile di vita sono migliori, non hanno alcuna necessità di essere
imposti. Gli individui in condizione di deliberare autonomamente sulla propria esistenza opteranno per il
meglio.
Tuttavia, è qui siamo dinanzi a problemi che si sono in realtà posti
e si pongono tuttora: che fare di fronte ad un regime sociale che
pratica sacrifici umani, l’ antropofagia o la soppressione delle
vedove incenerendole sul rogo? L'imperialismo inglese si è spesso
trovato dinanzi a problemi di siffatta natura. Tuttora in alcune zone
dell'India continua a vivere il culto della dea Kalì e non è un mistero
che essa reclami sacrifici di sangue, perfino di bambini e giovani
caste. Nei paesi dell'integralismo islamico, specie in Iran e in
Afghanistan, i libri sono vietati, le donne devono mettere lo chador
e la espansione di idee religiose o filosofiche diverse da quelle
degli imam e dei talebani è molto oppressa. Possiamo considerare
tali signori come esseri umani non in possesso delle loro facoltà, e
pertanto sentirci in diritto di esonerarli?
Oppure si pensa che la dottrina della non interferenza negli affari interni di uno stato, peraltro costantemente
sconosciuta quando sono coinvolti dollari, business, oppure interessi giudicati vitali come la sicurezza, debba
primeggiare sul principio della sacralità della vita umana e sul diritto alla libertà? Mill fece fronte al problema
scansando un attacco frontale e circondandosi a considerazioni, tuttavia acute, sui Mormoni.Il problema è
dato dalla poligamia. «L'aspetto della cultura mormone che in maggior misura provoca avversione e scatena
un'insolita intolleranza religiosa è il consenso di praticare la poligamia, che, pure se consentita a musulmani,
indù e cinesi, pare provocare un'implacabile animosità se praticata da persone che parlano inglese e si
affermano una specie di cristiani. Quest'istituzione mormone, di certo non rappresenta un'espressione del
principio della libertà, anzi, lo viola direttamente, dal momento che non fa che ribadire le catene di una metà
della comunità e liberare l'altra dalla scambievolezza dell'impegno nei suoi confronti.
Eppure va rammentato che le donne coinvolte in tale tipo di rapporto - che possono esserne considerate la
parte lesa - l'accetta altrettanto volontariamente che qualunque altra forma di matrimonio: e questo, per
quanto sia sorprendente, trova spiegazione nelle opinioni e nelle usanze comuni che, insegnando alle donne
che il matrimonio è la sola cosa che conti, fanno sì che molte preferiscano essere una moglie insieme a
parecchie altre piuttosto di non esserlo del tutto.» (On liberty - IV) Dinanzi alla proposta di fare opera di
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civilizzazione fra i Mormoni, Mill afferma: « ... ma non mi risulta che una comunità abbia il diritto di
costringere un'altra ad essere civilizzata. Purché le vittime di una legge iniqua non invochino l'aiuto di altre
comunità, non possono ammettere che persone del tutto estranee intervengano ed esigano che si ponga fine
a una situazione, di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti, perché da scandalo a gente lontana
migliaia di miglia e senza alcun titolo o motivo per interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno voglia...» (On liberty - IV) La
conclusione di Mill è tuttavia incisiva sotto un altro aspetto: le
crociate vengono spesso fatte per paura che certe pratiche
inferiori tornino nelle civiltà dette superiori, e che le barbarie
possano tornare.Al riguardo Mill dice: « Una civiltà che può
soccombere in questo modo al nemico che ha già battuto in
precedenza deve essere prima arrivata a un tale punto di
degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati né
chiunque altro hanno la capacità, o la voglia di difenderla.
Se le cose stanno così, prima una tale civiltà riceve l'ordine di andarsene meglio è: può solo continuare a
peggiorare (come accadde all'Impero d'Occidente) finché dei barbari vigorosi non la distruggano e la
rigenerino. » (idem) Una delle cause della degenerazione sta quasi certamente nel rammollimento degli
animi e nell'eccesso di prosperità, ma pure dalla mancanza di vitalità; solo particolari individui, dotati di genio
ed eccentricità, per Mill, possono portare rilevanti contributi per rinnovare gli stili di vita. Ma la tirannia della
mediocrità è spesso atrocemente contraria alle innovazioni, ed è ciò che porta alla distruzione.
In estrema sintesi il saggio di Mill dichiara le tre libertà civili indispensabili:
1) libertà di coscienza, pensiero e parola 2) libertà dei gusti, ovvero perseguire le soddisfazioni dei propri desideri come si preferisce
3) la libertà di associazione
La seconda è molto importante, dato che Mill credeva nella differenza fra individui, e non credeva accettabile
che una società ordini di essere vegetariani o vieti la carne di maiale. Fu pertanto antiproibizionista antelitteram in un clima culturale come quello anglosassone, spesso propenso a strafare sul piano del
proibizionismo per il bene dell’ essere umano.
Dal momento che tali limitazioni alla libertà furono di natura puritana, la polemica contro questa tradizione
assai viva nel mondo anglosassone, pare per tanti aspetti estranea, ma ha la sua rilevanza. Nella sua forma estrema la dottrina puritana voleva vietare le feste,
le danze, i luoghi di ritrovo, il teatro e neanche fra i cattolici si vide
qualche cosa del genere. L'unico limite posto al proprio appagamento, è quello di non ledere
il diritto altrui. Ciò indica, per intenderci, che se la pedofilia è un
crimine, perché fa violenza ai bambini, l'omosessualità è il diritto di
una minoranza, pure se estremo, e vietarla o opprimerla è un
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delitto a sua volta.
La difesa della libertà di associazione mette in evidenza in ogni
caso che Mill non fa dell'individualismo fine a sé stesso, del tutto
estetico.
In altri scritti essa è rivendicata con una maggior messe di argomenti, specie in ordine alla questione del
miglioramento delle condizioni dei lavoratori e pertanto al diritto di questi di organizzarsi in sindacati. Ma in
generale si avverte il disagio di Mill quando è costretto a misurarsi con il principio del laissez faire portato alle
estreme conseguenze. Era contro la sua natura imporre qualche cosa dall'alto o dall'esterno, ma era
similmente consapevole del fatto che in alcuni casi è indispensabile farlo. Nei Principi egli aveva scritto a
chiare lettere che la riduzione dell'orario di lavoro da dieci a nove ore avrebbe dovuto essere imposta per
legge, essendo improbabile che i lavoratori potessero imporla con l'azione sindacale. Tutto questo può
sorgere contraddittorio, ma in fondo non lo è affatto. Fissati i principi, ci si trova spesso a dover considerare
le eccezioni, i casi estremi nei quali quei principi non valgono più, perché, se valessero, ne andrebbe di
mezzo qualche cosa di più vitale. Certo, non si deve uccidere, ma diviene lecito farlo o per difendere se
stessi, oppure qualcun altro.Ovviamente il più alto grado di libertà espone l'individuo al rischio di non essere
capace di badare a se stesso e quindi di essere veramente responsabile di se medesimo. Ciò, volenti o
nolenti, impone un confronto con culture laiche e religiose che contestano all'individuo il libero arbitrio e lo
descrivono come un balocco in balia delle proprie passioni e del destino.
Non si ritengono accettabili, soprattutto per il fatto che ignorano che la tradizione filosofica greca aveva già
dichiarato, attraverso Socrate, che era possibile ragionare sul bene dell'individuo, e che una volta conosciuto
il bene, era altresì possibile allontanarsi dal male; ma è evidente che esse contengano un minimo di verità,
quel tanto che basta a ritenere che vi sono individui, ancor oggi, su questo pianeta, e sono tantissimi, che
non dispongono affatto di libero arbitrio, perché sono, innanzi tutto, ignoranti, immaturi ed imbelli. E soltanto
in parte è colpa loro. Ovviamente è in queste dottrine che si cela il germe del totalitarismo, ovvero l'idea
insana che tutti gli individui abbiano bisogno di essere guidati passo a passo e in qualsiasi cosa da illuminati,
i quali sono l'espressione della grazia e della provvidenza divina. E' la filosofia dei militaristi americani degli
ideologi sovietici, delle decine di guru indiani che vengono a spiegarci com'è fatto il mondo, di tanti pontefici
di santa madre chiesa, i quali, sicuramente, mai posero un limite alle loro letture ( e fecero bene), ma
ritenendo l'insieme dei fedeli come un popolo di immaturi, non si fecero scrupolo di vietare determinati libri, e
di sentirsi autorizzati a donare speciali licenze per poter leggere le opere più coraggiosi. Si badi che al riguardo Mill fu sempre molto bilanciato e prudente:
ha diritto alla libertà una persona matura, perciò almeno
maggiorenne. Il problema tuttora irrisolto è come si diventa
davvero maggiorenni, se stando alla larga dal brutto e dal
pessimo del mondo, e in ogni modo combattendo
quotidianamente con il desiderio represso, oppure,
se provandolo a spese proprie, facendo qualche malvagia e
punitiva esperienza. Nel sesto capitolo del Sistema di logica Mill
aveva anche fatto fronte al problema della libertà del volere,
centrando il discorso su come un uomo possa modificare il
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proprio grado di indipendenza dal mondo, levandosi dal
meccanicismo degli stati psicologici ed ai condizionamenti
culturali ed ambientali. Ovviamente, va inteso che il discorso sulla
libertà civile è una prosecuzione di quel discorso sull'autonomia
del soggetto dalle proprie passioni. Al proposito c'è un passaggio notevole anche nel Saggio sulla libertà: «In una certa misura si ammette che
che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima disposizione ad ammettere che anche i nostri
desideri e impulsi sono di nostra competenza, o che avere impulsi propri, forti o deboli che siano, possa
costituire altro che un pericolo od una tentazione. E tuttavia desideri ed impulsi sono parte di un perfetto
essere umano altrettanto quanto le sue convinzioni e le restrizioni cui è sottoposto; e gli impulsi vigorosi sono
pericolosi solo in una situazione di squilibrio, quando un gruppo di intenzioni e tendenze si sviluppa e si
rafforza mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano deboli e inattive. Non è perché i
loro desideri sono vigorosi che gli uomini agiscono male; è perché le loro coscienze sono deboli.» (On
Liberty - cap. III)Nel IV capitolo di On liberty, intitolato Dei limiti all'autorità della società sull'individuo, Mill
comincia a trattare la questione partendo dal dovere, cioè l'insieme dei debiti che l'individuo ha contratto nei
confronti della società. E ciò non è un caso: il senso del dovere è una delle prove che siamo maturati e quindi responsabili di noi
stessi. Scrive: « Anche se la società non si basa su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per
dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la sua protezione deve ripagare il beneficio, e il fatto di vivere
in società rende indispensabile che ciascuno sia obbligato ad osservare una certa linea di condotta nei
confronti degli altri. Questa condotta consiste, in primo luogo, nel non danneggiare gli
interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita
disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere
considerati diritti; e secondo, nel sostenere la propria parte (da
determinarsi in base a principi equi) di fatiche e sacrifici necessari
per difendere la società o i suoi membri da danni e molestie. La
società ha diritto di far valere a tutti i costi queste condizioni nei
confronti di coloro che tentano di non adempiervi.» (On liberty - IV)
Ovviamente chi non adempie a quelli che sono i doveri elementari
merita sanzioni negative.
Ma anche la società e lo stato che esagerino i doveri sono da biasimare. « Gli atti di un individuo possono
arrecare danno ad altri o non tenere in giusta considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di
violare alcuno dei loro diritti costituiti. In siffatto caso il colpevole può essere legittimamente condannato
dall'opinione, ma non dalla legge. Non appena qualunque aspetto della condotta di un individuo diviene
pregiudiziale degli interessi altrui, ricade sotto la giurisdizione della società, e ci si può chiedere se tale
interferenza giovi o meno al benessere generale. Ma questa questione non si pone in alcun maniera quando
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la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi, o implica quelli di altre persone consenzienti
(tutti essendo maggiorenni e dotati di normali facoltà mentali). In tali casi, vi dovrebbe essere piena libertà,
legale e sociale, di porre in essere l'atto e subirne le conseguenze. »( Idem)
E qui Mill si sente in obbligo di definire che tale sua posizione non è certo ispirata ad una specie di egoistica
indifferenza.
« Al contrario - scrive - gli sforzi disinteressati per il bene altrui non vanno diminuiti, ma grandemente
aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può persuadere gli uomini a compiere il proprio bene senza far
uso di sferze e flagelli, letterali o metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso se stessi:
per importanza sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali. Tocca all'educazione coltivarle entrambe:
ma anche l'educazione opera con la convinzione e la persuasione oltre che con la costrizione, e solo
mediante le prime due, finito il periodo educativo, dovrebbero essere insegnate le virtù verso sè stessi.»
(Idem)
Su tale punto si discorda da Stuart Mill: le virtù verso se stessi, il codice di selfcontrol, sono alla base del
sistema educativo. Se un ragazzo non impara prima ad amare se medesimo ed a mettere la propria salute e
la propria integrità prima di ogni altra cosa, non potrà mai, non dico imparare, ma neppure imparare ad
imparare.
4.6.4 Natura e limiti del potere che la società può esercitare sull'individuo
La questione indispensabile secondo Mill consiste nello stabilire
che la libertà civile o sociale è determinata dalla natura e i limiti del
potere che la società può esercitare sull'individuo.
« Questione raramente enunciata - scrive -, e quasi mai discussa in
termini generali, ma la cui presenza latente influisce a fondo sulle
polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si
paleserà ben come il problema fondamentale del futuro. E' così
poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l'umanità quasi sin dai
tempi più remoti; ma allo stadio di progresso cui sono ora giunti i
settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di
condizioni nuove e richiede di essere trattata in modo diverso e più
fondamentale. » (On Liberty - Introduction)
Analizzata la storia antica e considerato che il problema della libertà fu innanzi tutto un problema di difesa
dalla tirannia di un tiranno vorace, "il re degli avvoltoi", doveroso a tenere a bada gli altri avvoltoi, Mill afferma
che " a un certo punto del progresso umano, gli individui cessarono di pensare che i governanti dovessero
per forza essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i
vari magistrati dello Stato prendessero in concessione l'esercizio del potere..." « Gradualmente, questa
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nuova richiesta di governo temporaneo ed elettivo divenne l'obiettivo principale dell'azione dei partiti popolari
ovunque essi esistessero, sostituendosi in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei
governanti. Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti, alcuni
cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza alla limitazione del potere in quanto tale,
limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un'arma contro quei governanti i cui interessi si
contrapponessero abitualmente a quelli popolari.» (idem)
Solo dinanzi alla realtà della rivoluzione francese, per Mill, ci si rese conto che espressioni come
"autogoverno" o "potere del popolo su se stesso" non esprimevano il vero stato delle cose in quanto il
cosiddetto autogoverno non era il governo di ciascuno su sé stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno.
Questo ha portato al riconoscimento che sussiste una tirannia della maggioranza e che esso è uno dei mali
da cui la collettività deve guardarsi. « Come altre tirannie, quella della maggioranza fu in un primo momento e volgarmente lo è ancora - considerata, e temuta, principalmente in quanto conseguenza delle azioni delle
pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive compresero che, quando la società medesima è il tiranno - la
società nel suo complesso, sui singoli uomini che la compongono -, il suo esercizio della tirannia non si limita
agli atti che può terminare per mano per mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri ordini: e se gli ordini
che emana sono sbagliati, o in ogni modo concernono campi in
cui non dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale più
potente di molti tipi di oppressione politica, poiché, anche se
solitamente non viene fatta rispettare con pene similmente
severe, lascia meno vie di scampo, penetrando più in profondità
nel modo di vivere quotidiana e rendendo schiava l'anima stessa.
Quindi la protezione del magistrato non è sufficiente: è necessario
pure proteggersi dalla dittatura dell'opinione e del sentimento
predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme
di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e
consuetudini a chi dissente, a impedire lo sviluppo - e a prevenire,
se possibile, la formazione - di qualunque individualità
discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo
esempio. Vi è un limite alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo, e
difenderlo contro qualsiasi abuso, è similmente indispensabile alla buona conduzione delle cose umane
quanto la protezione del dispotismo politico. » Stuart Mill vide pertanto lucidamente il pericolo del
conformismo non soltanto come una tendenza all'uniformità da parte delle masse, ma come un manifestarsi
di crescente intolleranza da parte della società e delle masse nei confronti di qualunque forma di dissenso,
non soltanto politico, ma pure etico, sul piano delle scelte di vita. « Vi è un limite - scrive - alla legittima
interferenza dell'opinione collettiva sull'esperienza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è
altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo
politico.» Tutto ciò pone dei problemi inediti. Vi è la occorrenza di imporre regole in terreni che non si
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prestano a legislazione.
Nello studio delle tradizioni e delle consuetudini delle differenti civiltà si vede quanto queste medesime
consuetudini contratte siano divenute regole ovvie e autogiustificantesi al punto da parere naturali. Ma nota Mill - l'illusione universale della naturalità degli stili di vita è solamente un modello della magica
influenza della consuetudine. Essa non è solamente una seconda natura, "ma sovente viene scambiata per
la prima". « L'efficacia della consuetudine nel prevenire ogni dubbio sulle norme di condotta che gli uomini si
impongono a vicenda è tanto più completa perché l'argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente
considerato necessario fornire spiegazioni, né a gli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere, e a
ciò sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti filosofi, che in questioni di tale natura i loro
sentimenti siano meglio delle ragioni e le rendano inutili. Il principio pratico che forma le loro opinioni sulle
regole della condotta umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno dovrebbe essere prescritto
di agire come piacerebbe a lui e coloro con cui simpatizza.
E' vero che nessuno ammette a se stesso che il suo criterio di
giudizio è il suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di
condotta, che non sia confortata da ragioni, può solo essere
considerata una preferenza individuale; e se le ragioni addotte
sono semplicemente un appello a una simile preferenza condivisa
da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti invece che uno.»
(idem)La gente vuole che il figlio di uno schiavo continui a fare lo
schiavo, che la figlia del benestante concluda un buon
matrimonio, e che il figlio del medico continui la professione
paterna. Qui è chiaro che indica il desiderio dei benpensanti e la tirannia della maggioranza. Da sempre uno dei
luoghi più comuni del pensiero della tirannia della maggioranza è che ognuno debba stare al suo posto, in
particolare la canaglia plebea. Mill è particolarmente penetrante su tale punto: gli individui anelano che la
condotta etica degli altri, di ciascuno degli altri, sia consona alla propria visione del mondo a prescindere da
quello che ciascuno degli altri è realmente e potrebbe essere capace di fare. Qual è la causa? « Talvolta è la
ragione - afferma Mill - tal altra i pregiudizi o le superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle
antisociali, l'invidia o la gelosia, l'arroganza o il disprezzo; ma principalmente i desideri o le paure per se
medesimi - gli interessi personali, legittimi o illegittimi. Ovunque vi sia una classe dominante, la morale del
paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di
classe. L'etica delle relazioni fra Spartani ed Iloti, fra piantatori e negri, fra principi e sudditi, fra nobili e roturiers, fra
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uomini e donne è stata per la maggior parte creata da tali interessi e sentimenti di classe, e i sentimenti in
questo modo originati oppongono a loro volta sulla morale dei componenti della classe dominante nei loro
rapporti reciproci. Dove, d'altra parte, una classe non sia più predominante, o il suo predominio sia
impopolare, i sentimenti morali predominanti sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione per
la sua superiorità.» (idem) Il servilismo degli individui verso i loro "signori temporali", od anche dei loro dei, ha concorso in egual
misura a determinare norme di condotta prescritte dalla legge e dall'opinione predominante. Mill non lo fa
coincidere con l'ipocrisia ma con un sentimento di orrore genuino che ha condotto a dare alle fiamme maghi
ed eretici.
I sentimenti più che i principi razionali, le simpatie e le antipatie,
hanno avuto un grande peso nell'affermazione della morale
sociale. Secondo Mill si era dinanzi ad un fatto storico curioso:
quelli il cui pensiero era più evoluto rispetto al proprio tempo,
"hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di
cose" prediligendo provare di "modificare i sentimenti degli uomini
rispetto alle questioni particolari su cui essi stessi erano degli
eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici in generale
per difendere la libertà". Ma questo, ovviamente ha una
spiegazione: fra l'eretico e l'ortodosso esiste
una continuità totalitaria ed è molto probabile che l'eretico
trionfante sveli ben presto il suo vero carattere di ortodosso
fanatico, convinto di detenere tutta la verità. Scrive difatti Mill:«
Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si definiva
Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di
quest'ultima a consentire diversità di opinione religiosa.
Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria,
ed ciascuna chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze alla conservazione del terreno che
in quel momento occupava, le minoranze, consce di non avere alcuna possibilità di divenire maggioranze,
dovettero inevitabilmente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire.» (idem)
Nella difesa sistematica del diritto d'opinione Mill giunge ad affermare: « L'opinione che i mercanti di grano
sono degli affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe essere molestata se
viene semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione se viene
proferita di fronte ad una folla eccitata riunitasi davanti alla casa di un mercante di grano.» Tale
considerazione è apprezzabile perché in sostanza dice che una società matura, ovvero costituita da una
maggioranza di cittadini maturi, può permettersi non soltanto un dissenso maturo e fondato, ma pure
manifestazioni di immaturità, purché non degenerino in minaccia e violenza. Esprimere tolleranza per
l'immaturità politica, pertanto per azioni di propaganda politica aventi come oggetto il terrorismo o azioni di
massa violente, è proprio il massimo delle aperture possibili.
4.6.5 Contro tutte le censure
Un tipo di censura ricorrente consta nello sminuire il contributo dato dai presunti avversari di una religione o
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di una dottrina politica o filosofica alla elaborazione della propria teoria o del proprio credo. Non è un mistero
che il marxismo sia stato, per esempio, il risultato di una commistione fra hegelismo tedesco, socialismo
francese e economia politica inglese, che oltrepassò, o pretese di superare, i diversi punti di vista in una
sintesi superiore. Ma l'esempio più eclatante di eclettismo nella storia è il medesimo cristianesimo, il quale
fu il prodotto di una commistione, fra l'ebraismo e la filosofia ellenistica, e la forma particolare che essa aveva
assunto in Giudea ed in Galilea poco prima di Cristo, vale a dire il fariseismo. Stuart Mill redasse pagine
indimenticabili contro la pretesa di una parte della verità a essere considerata la verità intera. « Se i cristiani
- scrisse Mill - vogliono insegnare ai pagani a essere equi verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso
il paganesimo. Non giova alla verità il tentativo di nascondere il fatto, conosciuto a qualunque persona abbia
una minima conoscenza della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali più
nobili e validi è dovuta non soltanto a individui che non conoscevano la fede cristiana, ma a individui che la
conoscevano e la respingevano.
Non pretendo che l'esercizio più incondizionato della libertà di
esprimere tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali del
settarismo religioso o filosofico. Qualunque verità propugnata da
uomini di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata e
perfino applicata come se al mondo non ne esistesse un'altra, o in
ogni modo non ne esistesse nessuna che possa limitarla a
precisarla. La più libera discussione non cura la tendenza di tutte
le opinioni a divenire settarie, e anzi, spesso la acuisce e la
esacerba; la verità che si sarebbe dovuta vedere ma non si è vista
viene declinata tanto più aggressivamente perché è asserita da
persone considerate oppositori.
Ma non è tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul testimone più calmo e indifferente che questo
contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il male più temibile non è il prepotente contrasto fra parti
differenti della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è forzata ad ascoltare le
due opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in
pregiudizi, e la stessa verità cessa di avere effetto perchè l'esagerazione la rende falsa.» (cap. II - Della
libertà di pensiero e discussione). Secondo Mill, Calvino operò un ulteriore aggravamento della dottrina
cristiana, formatasi nei primi cinque secoli della storia della chiesa, e non diretta emissione dello "schema del
Maestro", in senso dogmatico e teocratico. Secondo Calvino, "la grande colpa è l'autonomia della volontà." «
Tutto il bene di cui è capace l'umanità si riassume nell'obbedienza. -redasse Mill - Non c'è scelta; si deve
agire in un certo modo, e non in altro modo: "Tutto ciò che non è dovere è peccato." Poiché la natura dell'
uomo è completamente corrotta, nessuno è redento fino a quando la sua non viene uccisa.
Per chi crede in tale teoria dell'esistenza, schiacciare ed rimuovere tutte le facoltà, capacità e sensibilità
umane non è un male: la sola capacità di cui l'individuo ha necessità è quella di arrendersi alla volontà di Dio;
e se usa qualunque sua facoltà per un fine che non sia l'attuazione più efficace di tale presunta volontà,
meglio sarebbe che non l'avesse. Tale è la teoria del Calvinismo; essa è condivisa da molti in una
formulazione più moderata, consistente in un'interpretazione meno ascetica del supposto volere divino,
secondo cui gli individui dovrebbero appagare alcune loro inclinazioni, naturalmente non nel modo che
preferiscono ma nell'obbedienza, vale a dire in una maniera prescritto dall'autorità e pertanto, per occorrenza
del caso, identico per tutti. Al momento esiste, sotto forme insidiose di tale genere, una forte tendenza
disponibile a tale ristretta visione dell'esistenza, e al genere di personalità tormentata e piena di pregiudizi da
essa favorita.
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Senza dubbio molti considerano in tutta sincerità che degli
individui così bloccati e rimpiccioliti siano quello che il loro
Creatore intendeva che fossero, rigorosamente come molti altri
pensano che gli alberi siano molto più belli potati, o modellati in
forma di animali, che in questo modo come la natura li ha fatti. »
(On Liberty - cap. III - Dell'individualità come elemento del bene
comune)
A tale punto Mill ha uno scatto del pensiero proprio profondo. «
Avendo detto che l'individualità collima con lo sviluppo, e che solo
la sua coltivazione produce, o può produrre, esseri umani
compiutamente sviluppati, potrei concludere qui; poiché la
maggiore e più precisa lode che si possa fare di uno stato di cose
è dire che sostiene gli individui a realizzarsi al meglio delle loro
possibilità; e affermare che glielo blocca o li ostacola è la
peggiore condanna.
Ciò nonostante non vi è dubbio che queste considerazioni non basteranno a convincere quelli che più hanno
necessità di esserlo; e quindi è essenziale provare che lo sviluppo di alcuni ha una certa utilità anche per chi
non si sviluppa - mostrare cioè a coloro che non anelano la libertà e non se ne servirebbero che possono
essere ricompensati in maniera a loro comprensibile se consentono ad altri di farne utilizzo indisturbati.
Innanzi tutto loro che avrebbero forse la opportunità di imparare qualche cosa dagli altri. Nessuno contesterà
che nella vita l'originalità è preziosa. C'è sempre necessità di gente che non solo scopra verità nuove e
mostri che quelle di una volta erano delle verità non lo sono più, ma pure inizi attività nuove e dia prova di
atteggiamento più illuminato e di maggiore sensibilità e razionalità di vita.» (On Liberty - cap. III
-Dell'individualità come elemento del bene comune). Che, in fondo, è come dichiarare: rivedetevi la parabola
dei talenti. Gesù Cristo medesimo insegnò a svilupparsi, ad investire le proprie facoltà, non a occultarle sotto
un mucchio di credenze popolari religiose e di presunte incapacità a combinare qualche cosa senza fare dei
rotti. Ovvero: disubbidire ai teocrati per liberamente ubbidire a Cristo.
4.6.6 Idee sul pluralismo educativo
Nel capitolo finale di On Liberty, Stuart Mill si pronuncia apertamente per un sistema scolastico nel quale lo
stato non dirige l'istruzione, ma l'asseconda. Ciò non può piacere a chi creda che la scuola statale sia in
grado di raggiungere di per sé una sorta di equilibrio e di perfezione imparziale grazie ai programmi ed alla
scelta ultraselettiva degli insegnanti. L'idea stessa che possa esistere una scienza dell'educazione gioca
come argomento sostanzioso in questa direzione. Ma allo stato dei fatti il polverone polemico su scuola
pubblica e scuola privata in Italia si gioca su altri motivi. In primo luogo il diritto dei cattolici di avere una
scuola confessionale, ed in secondo luogo, il diritto di tutti gli altri cittadini di non volerne sapere di pagare
con le proprie tasse, scuole confessionali o private di alcun tipo.
Io stesso non sarei molto contento se sapessi che una parte del
mio contributo fiscale andasse al finanziamento di scuole
cattoliche, anche se sarei persino disposto a dare un contributo
personale sostanzioso all'unica scuola cattolica che mi piacerebbe
più di quella statale, ovvero una scuola elementare ispirata ai
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principi di Don Milani.Di fronte ad uno scontro di interessi così
evidente, temo che le argomentazioni di Mill a favore di un sistema
di scuole private abbiano scarsa possibilità di essere prese in
considerazione in modo obiettivo.
Mill, innanzi tutto, prende le mosse da un ragionamento inoppugnabile, ovvero che è diritto del padre di dare
un'educazione al figlio, ma è anche suo dovere. Annota tuttavia che è molto improbabile che, al tempo in cui
scriveva, "quasi nessuno", in Inghilterra, avrebbe tollerato che si dicesse che "il padre fosse obbligato a
compierlo". Scrive Mill: « Invece di essere tenuto a compiere qualsiasi sforzo o sacrificio per assicurare una
educazione a suo figlio, può scegliere se accettarla o meno quando viene fornita gratis! Non si ammette
ancora che far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo
procurargli alimento per il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, è un crimine morale, sia contro la
sfortunata prole che contro la società; né che se non si adempie a quest'obbligo, dovrebbe adempiervi lo
Stato nella misura del possibile a spese del genitore. (Requiem per il laissez -faire assoluto: il genitore non
ha il diritto di tenere i propri figli nell'ignoranza.)
Se venisse finalmente riconosciuto il dovere di attuare l'istruzione universale, avrebbero fine le controversie su che cosa e come, lo
Stato dovrebbe insegnare, che attualmente trasformano la questione in un semplice terreno di scontro tra sette e partiti, in cui il
tempo e gli sforzi che dovrebbero essere impegnati nell'educazione sono sprecati a litigare su di essa. Se il governo si decidesse
a esigere che ogni bambino riceva una buona educazione, potrebbe evitarsi il disturbo di fornirla: potrebbe lasciare ai genitori il
compito di trovare l'educazione dove e come preferiscono, e limitarsi a pagare le tasse scolastiche di quelli che sono
completamente privi di mezzi. Le obiezioni che vengono giustamente mosse all'educazione di Stato, non si applicano alla proposta
che lo Stato renda obbligatoria l'istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla; che è una questione del tutto diversa.» (idem) «
Un'educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello
gradito al potere dominante - sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la maggioranza dei contemporanei - quanto più è efficace e
ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quella del corpo.
Un'educazione istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un
esperimento in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo
che contribuisca a mantenere un certo livello qualitativo generale.» (idem) Devo
dire che le argomentazioni di Mill paiono, col senno di poi, un pochetto fragili,
visto che sembra una costante il verificarsi tra le generazioni di un
atteggiamento anticonformista, qualsiasi sia lo spirito dominante. Tanto per fare
un esempio, Stalin fu educato in un seminario!
In realtà è certo vero che l'ambiente e la cultura condizionano in modo decisivo la formazione delle idee di un individuo, ma non è
affatto detto in quale direzione lo condizioneranno. Una scuola clericale produrrà inevitabilmente dei ribelli alla chiesa ed una
scuola statalista produrrà sicuramente dei ribelli all'invasività dello stato, tanto più pericolosi degli altri, in quanto perfetti conoscitori
del sistema che combattono. Sotto questo profilo, pertanto, solo chi crede, come i comportamentisti, che il maestro è in grado di
clonarsi nel discepolo, e di fare di questo quello che vuole, può pensare che il tipo di scuola non ottenga, spesso, anche se non
sempre, esattamente l'effetto contrario a quello voluto. In sostanza: si ha l'impressione che questa posizione di Stuart Mill
sull'istruzione finisca col negare una delle tesi che stanno alla base della sua filosofia, ovvero che l'individuo aspiri in generale a
maturare, a disporre completamente di sè stesso, e alla libertà.
Se così fosse, qualunque sia il tipo di istruzione ricevuta, egli non avrebbe pace finchè non avesse letto i libri
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del "nemico" e scoperto i punti deboli delle proprie idee, o di quelle che è stato costretto ad accettare. Certo,
non tutti gli individui sono così, ma i migliori sono così. Bisogna davvero avere una scarsissima
considerazione dell'intelligenza umana per credere che una qualsiasi scuola, una qualsiasi dottrina
conculcata, possa bloccare, per sempre, lo sviluppo di tutti gli individui e non solo di qualcuno. 4.6.7 Perché lo stato minimo
A differenza di Marx, che vagheggiò l'estinzione dello stato dopo un difficile percorso di ritorno alla solidarietà
fra gli individui caratterizzato da una mai ben precisata "dittatura del proletariato", Mill si limitò a prendere
atto di tutti i benefici che sarebbero venuti ai singoli ed alla società, se lo stato fosse diventato meno
invasivo. E su ciò presentò una serie di ragionamenti che ancor oggi conservano una identica validità. Mill
ritenne che se una determinata azione può essere condotta sia da singoli privati che da agenti o funzionari
statali, sarebbe meglio fare ricorso a privati, in quanto l'interesse personale mette efficienza a tutto il
meccanismo. Non indicò alle controindicazioni, quali la possibilità di speculazioni e l'instaurarsi di monopoli,
o di consensi fra differenti operatori che portano di fatto ad un regime monopolistico, come nel terreno delle
assicurazioni o del petrolio attualmente; ma noi lo dobbiamo considerare.
Se non si scompone il cartello assicurativo, se non si torna alla
concorrenza, sarebbe davvero suicida dare ai privati l'assistenza e
la previdenza, pure se io sono dell'idea che occorre sottrarre allo
stato per lo meno la previdenza sociale dei lavoratori, e che
necessiterebbe uno sforzo diretto di questi per gestire in modo
autonomo i propri fondi pensione. Lo stato non può utilizzare i fondi
pensione dei lavoratori per fare assistenza ai poveri. Questa è
un'attività che deve essere a carico di tutti i cittadini. La seconda
opposizione di Mill all'ingerenza statale è meramente geniale: se ci
troviamo sempre la pappa fatta dallo stato, non miglioreremo mai
sul piano della responsabilità civile.
Pertanto, anche se è vero che in un primo tempo un funzionario statale può essere più efficiente di un
privato cittadino, alla lunga tale specializzazione porta con se il danno fondamentale di cittadini
disinteressati, o che sanno soltanto lamentarsi, ma che sono inetti o impediti a prendere iniziative. Mill dice
che "questo specifico addestramento, aspetto pratico della loro educazione politica di uomini liberi, che li fa
uscire dalla ristretta cerchia dell'individualismo individuale e familiare e li abitua a comprendere gli interessi
comuni e a organizzare iniziative comuni", ... li porterà ad "ispirare la propria condotta a fini che li unificano
invece di isolarli l'uno dall'altro." Qui c'è un po' troppo ottimismo, ma la direzione è quella equa.
Il sistema della protezione civile inaugurato in Italia dopo le calamità è soltato un esempio delle moltissime
applicazioni delle idee di Mill. Vi è la convinzione dell’importanza a estendere il servizio civile a circoscritte
funzioni di polizia urbana e di quartiere. « La terza e più valida ragione per limitare l'interferenza dello Stato è
la grande sciagura costituita da un'inutile estensione del suo potere. » (idem) Questo impedisce agli uomini
di essere attivi, li rende parassiti del governo. Si verificherebbe una tendenza dei migliori talenti e delle
migliori intelligenze ad accedere nei ranghi della burocrazia statale, e ciò implicherebbe, come nella Russia
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zarista, il costituirsi di una burocrazia elefantiaca e paralizzante, per sempre totalitaria, espressione di quel
motto che riassume l'essenza medesima di tutte le amministrazioni: tutto quello che non è espressamente
autorizzato, è vietato; l'esatto contrario di quel che dovrebbe essere: potete fare tutto quello che non è
vietato, e che è stato vietato per ragioni ovvi a chi sa riflettere.
Mill ha soltanto in parte colto la verità, perché in verità il regime
delle burocrazie esclude che i migliori possano salire di livello, a
meno che non siano i migliori tra i raccomandati, o tra i
portaborse. Ma, di per se l'esame è analogamente corretta. Di qui
le indimenticabili parole che chiudono On Liberty: «...uno Stato
che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti
più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con
dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente
grandi, e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla
fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che,
per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire. »
(idem)
4.7 La Libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti
religiosi
Adesso si desidera riflettere sulla libertà di espressione come uno dei valori
indispensabili della società democratica. Non è facile formulare una definizione della libertà in
senso assoluto essendo questo valore ridimensionato dall’esistenza di altri valori fondamentali della
democrazia come la parità fra i cittadini e, in particolare, la medesima libertà di questi ultimi.
Vedere la libertà di espressione come un semplice concorso nel mercato delle idee non può essere
riconosciuto nella società attuale, dove l’impiego di potenti mezzi di comunicazione può favorire la
soffocazione delle voci dissidenti o alternative di alcune minoranze in mezzo al “rumore democratico”. La
libertà di espressione non va vista in senso meramente quantitativo, come aumento del numero di voci, ma
soprattutto qualitativo. Garantire la libertà di espressione deve voler dire, vale a dire, facilitare la pluralità di
opinioni, per contribuire a garantire la sopravvivenza e l’espressione delle diversità culturali. A partire da tale
idea, desideriamo esporre i differenti argomenti intorno ai quali ha preso corpo il dibattimento sulla libertà di
espressione e rivedere il suo concetto sullo sfondo di una collettività mediatica che possa difendere l’idea di
pluralità ed eguaglianza. Pertanto, la prima tattica per mitigare la pretesa di libertà è quella di considerare i
valori dell’altro, le sue credenze e i suoi modi di vita in maniera tale da facilitare quel pluralismo
indispensabile in qualsiasi democrazia. La libertà di espressione ci servirà come mezzo critico per verificare
se l’attività informativa nella nostra collettività risponda unicamente ad un criterio di mercato o, al contrario,
appaghi l’obiettivo di rafforzare il dibattito delle idee.
4.7.1. Le Origini della libertà di espressione nel pensiero liberale
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Nella lotta per il conseguimento della libertà di espressione nella società Occidentale, sono stati
Molte le dimostrazioni di cui differenti autori (Milton, Locke, Tocqueville, Voltaire, Constante, Jefferson e tanti
altri) si sono serviti. Andremo ad evidenziare in breve le loro tesi a favore della libertà di espressione,
raccogliendole in tre argomenti fondamentali. John Stuart Mill cita quest’argomento della verità mediante una
tesi molto suggestivo: presupporre che un’opinione sia assolutamente vera equivarrebbe ad dichiarare che
detta opinione sia esatta. Mill sostiene che non esiste alcuna ragione per ostacolare l’espressione delle
opinioni e che limitarle sarebbe soltanto una ostentazione dell’arroganza fondata sulla possibile infallibilità
dell’opinione comune predominante. Si mostra del tutto contrario a riconoscere il diritto del popolo a
esercitare tale coercizione, sia per se stesso, sia per il suo governo, a sfavore degli spazi di libertà privata
dell’uomo, a meno che quest’ultimo con le sue decisioni non danneggi gli interessi di terze persone.
Il carattere dispotico dell’esercizio democratico poco liberale, è
esposto da Mill in maniera illuminate nel passo successivo: “Se
tutta l’umanità, meno una persona, fosse della medesima
opinione e se tale persona fosse di opinione contraria, l’umanità
sarebbe iniqua se gli impedisse di parlare, così come egli stesso
lo sarebbe se, avendo sufficientemente potere, lo ostacolasse
all’umanità. Se fosse l’opinione una “proprietà privata” avrebbe
valore solo per chi la esprime; se ad ostacolare la sua diffusione
fosse unicamente un pregiudizio particolare, sarebbe diverso che
il pregiudizio colpisse poche o molte persone. Però ostacolare
l’espressione di un’opinione è particolarmente biasimevole perché
significa commettere un furto ai danni della razza dell' uomo,
tanto verso la discendenza quanto verso la generazione attuale, a
danno tanto di quelli che respingono tale opinione quanto di
coloro che la corroborano.
Se l’opinione è vera gli si dà l’opportunità di mutare l’errore; se è errata, si perde quello che è un beneficio
non meno rilevante: la più chiara comprensione e impressione che rende viva la verità è prodotta dalla
collisione con l’errore”. L’intolleranza può ostacolare l’espressione dei sentimenti più nobili della persona.
Solo quando si rispetta l’altro, acclusi i suoi possibili equivoci, si possono garantire le condizioni capaci di
ottenere una verità che si trova sparpagliata; ed ancora, si deve assicurare il rispetto dei cambiamenti, sia
per rivalutare le convinzioni che abbiamo, sia per rettificarle se ci trovassimo in errore. Per tale ragione,
nell’ambito della convivenza, l’unica verità che possiamo dichiarare è la differenza di qualunque individuo
nella propria unicità, e la necessità di un terreno favorevole ad un suo sviluppo intellettuale. Mill spiega
mediante degli esempi come l’infallibilità della verità non è altro che un miopismo culturale: “il mondo, per
ogni individuo, viene a collimare con la parte di esso con cui è in contatto: la sua patria, la sua setta, la sua
chiesa, la sua classe sociale; a parallelo, si potrebbe definire liberale e di ampie vedute l’individuo per cui il
mondo è rappresentato dalla sua età o dal suo paese” Ricorda, per di più, che “le epoche non sono più
infallibili degli individui” (ibid).
Per tale ragione, continua Mill, “non possiamo mai essere sicuri che le opinioni che cerchiamo di soffocare
siano false, e se lo fossero soffocarle sarebbe comunque un male”. L’uomo è padrone di pensare,
pronunciarsi e agire come crede indispensabile per il suo sviluppo personale. La libertà dell’uomo è una
condizione indispensabile al progresso sociale. È sempre più utile accogliere la libertà con i suoi possibili
errori anziché commettere l’errore di contestare la libertà, indispensabile per favorire la critica sociale e il
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fiorire di personalità straordinarie che facciano grandi invenzioni per l’umanità: il genio. “Chi può calcolare
quello che il mondo smarrisce nella gran quantità di intelligenze promettenti, unite a caratteri timidi, che non
hanno il coraggio seguire cammini mentali audaci, tortuosi e indipendenti, per la paura di cadere in qualche
cosa che potrebbe essere considerato irreligioso o immorale?” (...) “Nessuno può essere un gran filosofo
senza riconoscere che il suo primo dovere come tale consta nel seguire la sua intelligenza, qualunque siano
le conclusioni cui lo condurrà. (...) Possono essere sussistiti e potranno esistere ancora grandi filosofi in
un’atmosfera di schiavitù mentale. Però non è mai stato dato, e mai si darà in tale condizione, un popolo
mentalmente vivo” .
Avere facoltà di scelta è quello che distingue l’individuo dal resto
delle creature. La scelta ricerca un esercizio della ragione ed è
possibile soltanto se esiste una pluralità di idee e alternanze. Se
l’individuo non avesse la libertà di pensare, esprimersi e agire, la
sua vita sarebbe simile a quella di un automa, programmato
soltanto per ripetere cose che altri fissano. Conviene prestare
maggiore attenzione, è palese nei regimi democratici, perché la
voce della minoranza non venga asfissiata e la libertà individuale
semplicemente sfruttata in quanto si tende ad assimilare la
reazione contraria della maggioranza, come dichiara Mill con
ingegno: “La società può esercitare, ed esercita, i propri diritti; (...)
ed esercita una tirannia sociale formidabile superiore a molte
oppressioni politiche (...); per questo, non basta la protezione dalla
tirannia del magistrato.
Si ha bisogno anche della protezione dalla tirannia delle opinioni e dei sentimenti generalmente condivisi...”.
La democrazia, per di più, con le sue dottrine di legittimazione del potere, dovrebbe tutelare una serie di
valori che ne qualificano l’esercizio fondato sul rispetto della libertà e dell’uguaglianza fra cittadini. Se
facesse il contrario la democrazia non sarebbe altro che una tirannide della maggioranza che trasforma la
pressione sociale in legge, senza domandarsi in che maniera garantire il pari diritto di chi non ha in comune i
criteri della maggioranza. Il terzo argomento a favore della libertà di espressione fa perno sul fatto che è un
valore edificante della società democratica. La libertà pubblica costituisce il sistema circolare che apporta il
flusso informativo indispensabile per esercitare un controllo delle istituzioni sociali e politiche. Senza libertà
di espressione non è possibile l’esercizio politico dei cittadini come richiesta regolarizzante il potere.
Siffatto argomento sarebbe la deduzione logica dei due punti precedenti. L’eliminazione di una verità
assoluta e il passaggio a una società plurale è, pertanto, l’unica strada praticabile che risponde alla difformità
delle idee e delle pratiche dei singoli, in una collettività aperta e plurale. La libertà di espressione si trasforma
nella pietra angolare del sistema democratico come una libertà che permette l’esercizio coevo di tutte le altre
libertà fondamentali.Questa posizione mette in risalto il carattere istituzionale e oggettivo della libertà come
condizione del modello medesimo di convivenza sociale. Come dimostrava Tocqueville, il quale avvertì che
la libertà di stampa era fondamentale per le idee d’uguaglianza della società democratica: “la sovranità
popolare e la libertà di stampa sono due cose intrinsecamente correlate”. Con proprietà, considera che la
libertà di espressione è più auspicabile per “i mali che evita, che per quel che di buono realizza”. E tali mali
non sono altro che la insufficienza di partecipazione dei cittadini e la consequenziale eliminazione dei loro
interessi dalla decisione pubblica; quello che lui chiama:”dispotismo morbido”. Copyright ABCtribe.com
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La libertà di stampa è il controllo sparso e continuo sulle intenzioni
del potere politico. La libertà di espressione, oltre che un diritto
particolare, è un pilastro fondamentale alla base del sistema
democratico. Senza libertà di espressione non esiste democrazia.
La libertà è l’ossigeno che permette alla società di rinnovare la sua
visione del mondo con le proprie peculiarità storiche e sociali, che
esigono nuovi equilibri e che incoraggiano una maggiore
uguaglianza e pluralità grazie alla liberta d’espressione medesima.
A seguire, conseguiremo una serie di critiche a tale paradigma
dell’informazione, critiche all’ esempio del libero mercato delle idee,
alla libertà di comunicazione e al liberalismo classico.
4.7.2. La Libertà di espressione nel’età dell’informazione Abbiamo appena finito di esaminare i tre argomenti classici a sostegno della libertà di
espressione. Le loro ragioni sono ancora adesso d’attualità, la loro forza si mette in evidenza quando nuovi
esempi di “verità” culturale hanno origine nella visione etnocentrica, quando l’individuo vede il suo sviluppo
molto delimitato da altre forme di censura originata dal Mercato o quando la libertà di espressione è nelle
mani di poteri economici e politici che accostano i mezzi di comunicazione. Pertanto, conviene ripensare a
cosa indica libertà di espressione nel nuovo quadro della società dell’ informazione. Oggigiorno non si
discute la libertà dell’uomo di manifestare le sueopinioni o preferenze, ma casomai la possibilità che queste
possano essere conosciute dai destinatari. Che cos’è la libertà di espressione? Che cosa dicono i media?
Cosa consentono di dire? Di sicuro, si può pensare semplicisticamente che la libertà di espressione coincida
col mero esercizio materiale del dire quello che si pensa. Ma chi sono quelli che lo intendono? Il pubblico
ha la possibilità di conoscere apertamente i soggetti del dissenso? Non è assurdo lasciare che qualcheduno
arrivi a sgolarsi per competere con potenti megafoni sociali? Ed ancora di più è credibile che i media
enfatizzino tale maniera di “urlare” la propria opinione come un modo per screditare le sue ragioni. Però
prima dovremmo domandarci: hanno la possibilità di esporre le proprie posizioni? Come va definita la libertà
di espressione per dare efficacia al disaccordo nella società dell’informazione?
In siffatto paragrafo si vuole illustrare come il metodo seguito da quelli che progettano i
media rispetta soltanto in apparenza l’impianto effettivo della libertà di espressione negli stessi
mezzi di comunicazione. In contrasto con tale concetto sociologico dell’informazione, proponiamo una serie
di esigenze normative che si orientano agli argomenti classici che abbiamo commentato prima. Ci
concediamo una breve analisi sul modello di informazione nella società attuale. Oltre al controllo economico
e alla manipolazione politica, la principale caratteristica dell’informazione della nostra società è lo spettacolo.
Però lo spettacolo non è gratuito, né risponde soltanto alla ragione economica di trasformare tutta
l’informazione in un prodotto d’intrattenimento, ma è altresì una forma di ideologia. L’effetto anestetico
dell’attività informativa viene prodotto mediante il riciclaggio della realtà nella logica dello spettacolo. Guy
Debord nella sua ingegnosa opera “Commentario sulla Società dello Spettacolo” scrive testualmente “Chi
guarda sempre per vedere la continuazione non realizzerà mai nulla”. Lo spettacolo si rappresenta come una nuova ideologia del
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mondo che si adegua alle disparità. Perfino la discussione
riguardo lo spettacolo, che Debord definirà come la discussione
“su quello che fanno i padroni del mondo”, è preparata dallo
spettacolo medesimo.Trasformandosi in questo modo in uno
strumento del discorso di potere, di fatto amministra sotto le sue
direttive i suoi progetti, che emergono come decisioni già prese
che si lasciano osservare di buon grado dai cittadini, come se il
solo fatto di conoscerle indicasse prendervi parte.
L’illusione della cittadinanza è quella di credere che vi sia un
dibattito che precede la presa di posizione medesima, quando in
verità avviene il contrario.
I padroni del mondo sono quelli che, oltre a prendere decisioni, guidano l’informazione
in forma spettacolare a tal punto da giustificare la narrazione filmica della realtà.
Gli individui, pur non capendo quello che succede, si considerano liberi in quanto credono di
essere informati. Li si lascia conversare su quello che pensano sia la realtà, da cui risulta che le medesime
paure e le aspettative che sgorgano dal discorso informativo divengono la realtà effettiva sulla quale agisce il
potere per offrirsi come salvatore. Debord lo chiarisce bene quando afferma: “Lo spettacolo organizza con
destrezza l’ignoranza di ciò che succede e, immediatamente dopo, l’oblio di ciò che, malgrado tutto, è
riuscito a far conoscere”. Si consegue in questo modo una nuova forma di autorità – invisibile – sino ad
adesso inedita, la cui efficacia è radicata nel controllo dello scenario in cui l’agire di ogni attore sociale
acquisisce una dimensione simbolica e pubblica: i mezzi di comunicazione. Tutto quello che accade dietro di
loro (ossia, la verità vera e propria) non esisterà per il popolo, anche se tale dovesse essere più ingiusta e
declinante degli argomenti dello spettacolo. Per siffatta ragione, la censura, nel senso classico del termine,
non c’è più. Ci sono, ad oggi, altri modi più efficaci di occultamento della realtà esercitati mediante la libertà
“democratica” dell’informazione: sono i mezzi di comunicazione che prediligono quali immagini della realtà
mostrare, facendole passare come le uniche realtà disponibili; è attorno a queste ultime che si formerà
l’opinione pubblica. La forma dello spettacolo si è cambiata nel contenuto essenziale, nella nuova ideologia.
In un importante passaggio, Debord rappresenta le facoltà di questa nuova autorità dello spettacolo: “(…)
l’autorità dello spettacolo può contestare quello che vuole, una volta, tre volte, e dire che non tornerà a
parlare di siffatta cosa e poi parlare di altro; sa che non si espone più a nessun’altra replica, né sul suo
terreno, né su nessun altro.
Di conseguenza non vi è più un’agorà, una comunità generale,
neppure una comunità ristretta o un caffè per i lavoratori di
un’unica impresa; nessun luogo dove il dibattito sulle verità che
concernono quelli che stanno lì, possono liberarsi in maniera
duratura dalla pressante presenza del discorso mediatico e della
forza organizzatrice indispensabile a svilupparlo”. Il risultato non
sarebbe altro che una versione moderna del “panem et circenses”
romano, con l’unica differenza che il gusto del pubblico sarebbe
più sofisticato. Copyright ABCtribe.com
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Almeno, si è conseguito che venga appagata la occorrenza informativa del cittadino, anche se questi, in
verità, non è informato. Per finire: si definisce un nuovo modello della realtà che si identifica con quello di cui
tutti parlano e che tutti “teleconoscono”, senza captare che questa opinione non è altro che l’eco della voce
dei media. Neanche la menzogna è più indispensabile, dal momento che vi è una forma più elegante
d’informare: lo spettacolo. Come nell’opera di Orwell, “1984”, dove il ministro della verità ha come obiettivo
togliere tutto quello che non desta interesse al potere e perfezionare la storia per spiegarla in funzione dei
propri interessi.
4.7. 3 Critica al modello del libero mercato dell’informazione
Il dibattito pubblico delle idee, obiettivo fondamentale della libertà di espressione, non viene
salvaguardato se le distinte posizioni che si discutono non hanno la eventualità di una partecipazione
proporzionata, o almeno minima. Il difetto partecipativo non reca danno soltanto quelli che hanno qualche
cosa da dire, ma tutti i cittadini perché privati della possibilità di ascoltare punti di vista e opinioni differenti. La
mancanza di misure positive per assicurare una maggiore uguaglianza comunicativa causa un
restringimento della libertà di espressione del pubblico.
La grande differenza fra la società liberale e la società democratica, rispetto al diritto
all’informazione, è che questa non viene pensata più come il semplice diritto individuale di
esprimere le proprie idee, ma si considera un’istituzione fondamentale che ha il compito di far giungere alla
cittadinanza un’informazione vera e pluralistica. Perciò, il diritto del pubblico è prioritario rispetto al diritto degli
emittenti. I media hanno la responsabilità di assicurare questi valori
fondamentali della democrazia mediante le attività. La libertà di
espressione non vuol dire, pertanto, vedere facce differenti, ma
conoscere e rispettare idee che consentono ai cittadini di vivere in
una società in cui l’opinione pubblica sia eterogenea. Solo
stabilendo regole del gioco ben definite nell’esercizio della libertà
di espressione, può esistere una società regolarmente informata. Il
medesimo Mill, cosciente del rischio che la democrazia pregiudichi
la libertà delle minoranze, ha fissato una serie di condizioni che
regolano il dibattito pubblico per garantire la libertà di
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espressione. In primo luogo, scansare la condanna delle parti implicate nel dibattito, in particolare di quelle minoranze alla
cui partecipazione la maggioranza presta poca attenzione. A suo avviso, la peggior offesa che si può
commettere consiste nello stigmatizzare quelli che sostengono delle opinioni contrarie come individui
immorali e nell’errore. Quelli che sostengono opinioni non popolari sono esposti a calunnia dagli avversari
perché, di solito, sono pochi e di scarsa influenza, e nessuno, a parte loro medesimi, ha interesse a che si
faccia giustizia; però quelli che attaccano l’opinione comune predominante non possono servirsi di
quest’arma senza compromettere la propria certezza, e se osassero farlo non farebbero altro che screditare
la propria causa. Tali forme di dominazione della maggioranza si esercitano mediante nuovi strumenti di
controllo dell’l’uomo: l’opinione e i costumi, lacci invisibili che portano a quella che è stata denominata “la
spirale del silenzio”.
Con tale similitudine si vuole far notare come chi è vittima della stigmatizzazione pubblica prediliga
rinunciare a, o almeno nascondere le sue difformità, per assicurarsi una maggiore integrazione sociale. Le
persone temono l’isolamento per ragioni pragmatiche, dal momento che l’essere stigmatizzati
condizionerebbe negativamente tanto la concretizzazione dei loro progetti, quanto il loro relazionarsi nella
società. In secondo luogo, non si ammette l’insulto, in nessun tipo d’argomento, perché può influire
emotivamente sulla ricezione del dibattito delle idee. È un’arguzia della maggioranza per esprimere il suo
potere sociale e discriminare i dissidenti con apprezzamenti che indeboliscono le ragioni dei loro argomenti.
L’insulto smisurato impiegato da parte dell’opinione predominante scoraggia il popolo dal prendere in
considerazione tanto le opinioni contrarie, quanto coloro che le esprimono”. Infine, difendere un’idea non indica che qualsiasi critica le venga rivolta
vada intesa come un attacco personale. Un’inclinazione liberale deve
favorire la critica. È ammissibile pure un’attitudine scettica rispetto alle
tesi contrarie, però si deve schivare di “sminuire” o pregiudicare
l’immagine degli altri, per non compromettere la loro posizione nella
società. A suo parere dev’essere condannata l’opinione di tutti quelli nella cui requisitoria si manifesta la malafede, la
malignità, il fanatismo o l’intolleranza, ma perché si riconoscono tali vizi nella presa di posizione, e non
soltanto perché l’opinione è contraria alla nostra; e deve riconoscersi pure il merito di chi, qualsiasi sia
l’opinione che sostenga, ha la calma di vedere e l’onestà di riconoscere quelli che sono i suoi rivali e le loro
opinioni, senza calcare troppo la mano su ciò che può essere, per loro, fonte di discredito, né nascondendo
quello che possa, al contrario, andare a loro favore.
La libertà di espressione, o almeno quello che aspira ad occupare lo spazio pubblico, deve
manifestarsi con un senso di responsabilità per gli effetti che potrebbe causare sui vari gruppi
sociali. Ci riferiamo soprattutto ai suoi effetti simbolici, quelli di cui si nutrono le persone
con tendenza all’identificazione e principalmente a quelli che ricostruiscono il loro senso d’appartenenza o
meno a una comunità.
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In tale senso, una società che criminalizza una religione, al di là di altre limitazioni di detta religione con la
quale possiamo trovarci in dissonanza, non pare essere in contrasto con il senso della libertà di espressione.
La libertà di espressione accetta ed esige la critica, ma la critica non può avere come obiettivo sbilanciare la
medesima comunicazione fra gli interlocutori. La comunicazione ha effetti sulla realtà degli individui e una
comunicazione vessatoria implica la preclusione di alcune opportunità. In tale senso, i discorsi a favore di
una determinata immagine convenzionale della donna come essere inferiore o ausiliare dell’individuo,
potrebbero essere considerati un esercizio immaginabile della libertà di espressione, ma siamo tutti
d’accordo sul fatto che compromettono la libertà delle donne nell’ottenere i loro scopi sociali. La soluzione classica al problema della libertà di espressione
risiede nell’ elargire più libertà, ma ciò non risulta pertinente in un
ambiente in cui le opportunità comunicative sono indicate dalla
presenza di forti catalizzatori dell’opinione pubblica. Soltanto se
esiste uguaglianza comunicativa fra i distinti esponenti il discorso
sociale si può dotare di contenuto il pluralismo, pensato come
valore normativo. Da una prospettiva democratica, un disequilibrio
informativo o, per meglio dire, una libertà la cui forza sprezza o
distorce altre libertà, rimane un pregiudizio enorme per la
medesima libertà di espressione vista come un valore
critico.Come abbiamo già visto, John Stuart Mill percepì come tale
disegno di democrazia avrebbe potuto convertirsi in una nuova
forma di democrazia sociale dell’uomo, se non se ne fosse
rispettata l’opinione personale e culturale. Per questa ragione crediamo che una delle chiavi etiche per rappresentare un esempio di “libertà di
espressione democratica” affondi le sue radici nel rispetto delle differenze. Rispetto delle differenze non
indica indifferenza, ma una propensione al riconoscimento delle posizioni differenti per ampliare lo spettro
delle opinioni nel dibattito pubblico. È indispensabile una maggiore uguaglianza comunicativa. Si devono
conoscere prima di tutto le opinioni di coloro i quali sono oggetto di discussione e conoscere le loro realtà in
modo più ampio rispetto alla semplice percezione che ci offrono i media solo sottoforma di spettacolo. Si
deve intendere la libertà come un esercizio critico del costume sociale, delle idee dominanti, dell’esercizio
del potere, ma si deve pure fare in maniera che la libertà come tale non sia il fine ultimo. Con tale proposito anche la libertà deve essere criticata e la critica spunta dai valori di chi
è stato chiamato ad esercitare la critica con l’obiettivo di favorire l’uguaglianza di tutti e una convivenza plurale nel rispetto delle differenze. Senza scelta, non esiste né progresso, ne autorealizzazione.
In campo politico ci vuole pluralità di stili di vita e di opinioni per alimentare il dibattito, perché senza dibattito
non c’è democrazia. Per questo, benché quantitativamente le voci dei dissidenti siano minoritarie, in un
progetto normativo, non sociologico, della libertà di espressione, queste dovrebbero acquistare priorità. Se la
democrazia non assume tale imperativo etico, e viene intesa come una nuova forma di legittimazione del
potere, allora l’unico risultato che si conseguirà sarà quello di aver cambiato ilmodo di scegliere i governanti,
senza aver in effetti reso le persone più libere.
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E il nuovo capo, percepisce Mill, può essere tutta la società, però
non per questo può risultare meno dispotico. Questa situazione
conduce a quella che potremmo qualificare come una deflazione
dellademocrazia: al carattere aperto dell’ andamento seguito per
prendere le decisioni non corrisponde l stessa apertura sul piano
intellettuale, aspetto, questo, certamente decisivo per
intensificareautenticamente la libertà sociale. Rammenta Mill che la
tutela delle idee della società non è altro che una specie di
addomesticazione degli interessi di quelli che hanno il potere.
Per finire, Mill ci offre un principio adatto che deve essere tenuto presente in una definizione critica del
concetto di libertà di espressione. L’idea chiave può, forse, essere compendiata con una delle più belle frasi
della sua opera:“Quando si incontrano persone che rappresentano un’eccezione nell’apparente unanimità
del mondo su qualsivoglia argomento, sebbene il mondo sia sicuro, è sempre probabile che i dissidenti
abbiano qualcosa da dire meritevole di essere ascoltato e che la verità ci perderebbe nel caso rimanessero
in silenzio”.
La risposta di Mill, sebbene importante, è, ovviamente, limitata al concetto di libertà negativa che
contraddistingue il pensiero liberale, nel senso che l’uomo può esprimersi e agire nei suoi interessi senza
essere osteggiato dal potere politico. In siffatta sede dobbiamo, piuttosto, richiamare l’attenzione sul fatto
che un tale concetto di libertà di tutti gli uomini non garantisce lo stesso livello libertà per tutti nella loro
realtà; può, anzi, essere un chiaro presupposto per la differenza dei cittadini. Pertanto, ci vuole un concetto
di libertà politica positiva che consideri la libertà personale non solo come un punto di partenza per
l’espressione e realizzazione delle possibilità di ciascuno, ma anche come un punto d’arrivo per
l’autorealizzazione, senz’altro differente nei valori dei singoli e nel modo di perseguirli. L’uguaglianza è la
garanzia della diversità, perché dobbiamo essere tutti indistintamente coscienti del fatto che siamo differenti
e che possiamo avere punti di vista differenti (uomo, donna, ceti sociali, fedi religiose e, nella società odierna
in particolare, diversità etniche).
Come è stato osservato da Owen Fiss nel suo magnifico libro
“L’ironia della libertà di
espressione”, lo spirito individualista del concetto liberale risulta
insufficiente a rispondere alle esigenze di libertà di espressione
nella società mediatica. L’essenza di tutte tali domande è la
seguente: “Perché gli interessi di coloro che esprimono le loro
opinioni devono prevalere sugli interessi degli altri che non
prendono parte alla discussione, o su quelli di chi ascolta, nel caso
in cui ci sia un conflitto di interessi tra di loro?”.
Da questo punto di vista, lo Stato non può più agire da semplice spettatore nel mercato delle
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idee, ma deve intervenire per poter assicurare l’uguaglianza come un valore che rischierebbe,
altrimenti, di essere pregiudicato da una libertà sproporzionata oppure insufficiente. Quindi, lo stato ha il dovere di intendere la libertà come un valore unitamente all’uguaglianza; in caso
contrario si rischierebbe che la libertà di quelli che sono diversi sia condizionata oppure eliminata.
L’informazione ha il valore di un’istituzione fondata sul pluralismo sociale. I diritti dei cittadini sono prioritari rispetto a quelli di quelli che vogliono fare della loro libertà una forma di
dominazione sociale. Lo stato non deve considerarsi nemico della libertà, ma suo garante: il suo principale
dovere dovrebbe essere quello di regolare la comunicazione in maniera da renderla non solo un esercizio di
libertà, ma anche d’uguaglianza di tutti gli uomini.
Da questa prospettiva, lo stato dovrebbe portare avanti iniziative positive della libertà anche
nel caso in cui gli ostacoli vengano dalla libertà degli attori privati che possono ostacolare il
pluralismo delle idee. Lo stato ha la funzione di vigilare sull’esercizio della libertà allo scopo di
incoraggiare una libertà che rispetti i diritti di tutti cittadini.
Si può dire che due imperativi scaturiscono dal concetto critico della libertà di espressione:
1. l’imperativo della dissidenza comunicativa;
2. l’imperativo dell’uguaglianza comunicativa.
Un concetto odierno della libertà di espressione dovrebbe tener conto di entrambe, perché
la democrazia informativa come spettacolo e mercato delle idee, riesce a passare sopra a questi
imperativi della libertà. Da tale prospettiva, vogliamo riflettere sulla libertà di espressione considerata in
rapporto ai sentimenti religiosi. In particolare, valuteremo la pubblicazione della vignetta di Maometto
spuntata su differenti giornali europei.
4.7.4 Considerazioni sulla vignetta di Maometto
Varie sono le analisi che dobbiamo fare sulla libertà di
espressione in rapporto alle
caricatura sorse sul quotidiano danese Jyllands-Posten (J-P) e in
un secondo momento rifatte da altri quotidiani europei. Crediamo
di poter dichiarare che la libertà di espressione non debba avere
nessun limite religioso. Il fatto che le persone possano
manifestare le proprie credenze senza incorrere in un atto empio
è stato una conquista della nostra cultura occidentale. La libertà di espressione difende addirittura le critiche più estreme che si possono fare alle idee religiose e al
dominio che il potere richiede di esercitare sui popoli per suo tramite.
In tale senso, quella per l’ottenimento della libertà di espressione è una battaglia che dovranno condurre a
termine i paesi islamici per cominciare quel processo di secolarizzazione in cui la libertà di professione
religiosa e di pensiero siano autorizzate e in cui possano coesistere nelle rispettive comunità, in modo
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pacifico, credenti e dissidenti religiosi. In verità, si deve contribuire a intensificare il dibattito in contesti sociali
autoritari e conseguire che i giornalisti che lavorano in tali contesti si sentano riparati dalla comunità
internazionale.
D’altra parte, non pensiamo che rientri fra i limiti alla libertà di espressione l’impossibilità di riprodurre la
realtà sociale con umorismo o spirito critico. La critica tollera certi voli dell’immaginazione che riproducono in
maniera canzonatoria i limiti della realtà, producendo occasionalmente un sentimento d’impotenza enorme.
Tali peculiarità assumono maggior rilievo quando sono espresse mediante i mezzi di comunicazione, i quali
possono, con un’ unica caricatura, rappresentare apertamente certi sentimenti presenti nell’opinione
pubblica. Partendo da tali premesse, sembra comprensibile che anche certi aspetti della vita religiosa delle
persone possano diventare oggetto di commenti o critiche ed essere trasformati, perché no, in caricature e
colti graficamente per rendere la critica più evidente. Perciò, raggiungendo la libertà di espressione il suo
apice quando adoperata dai mezzi di comunicazione, questi ultimi vengono ad assumere una rilevante
funzione sociale e raddoppiano la loro libertà di esercitare la critica in tutti i suoi aspetti e su qualunque realtà
sociale attiri l’opinione pubblica. La libertà di espressione, tuttavia, non deve renderci vittime di
pregiudizi di qualunque sorta, ma ci deve consentire di continuare
ad analizzare con occhio critico la realtà. La libertà deve essere
onesta con se medesima e raffrontarsi con i dubbi che
scaturiscono dalla natura dei problemi su cui si riflette, invece che
lasciare da una parte i pregiudizi che potrebbero scaturire dal
raffronto fra differenti punti di vista dottrinali su un indicato
argomento.Adesso, detto ciò, non pare si possa ammettere che la
libertà di espressione sia un diritto illimitato e che qualunque
esercizio di essa sia scusato per il semplice fatto di essere il
risultato dell’espressione. L’obiettivo fondamentale della libertà di espressione, come abbiamo visto prima, è difendere idee, offrire
argomenti che consentano di intendere la effettività in nuovi modi, criticare quelle idee che paiono ingiuste;
ma non la si può adoperare come arma contro le credenze di altre persone che si vedono gratuitamente
marchiate socialmente da immagini che le declassano. Siamo dell’avviso che le idee religiose hanno un
certo status che le difende da un esercizio gratuito e sensazionalista della libertà di espressione che causa
soltanto il predominio delle credenze della maggioranza su quelle della minoranza. Alcuno mette in dubbio
che si possa disapprovare la religione come si può criticare la politica.
È una pratica sana che perfino i credenti dovrebbero esercitare per scansare di mescolare credenze o
pratiche che li influenzano o che possono essere totalmente infondate. Comunque, esiste un senso in cui, a
nostro parere, non è accettabile criticare la religione, ossia quando lo si fa con l’intento di stigmatizzare
quella comunità di persone che hanno fatto di essa un punto di riferimento per la propria identità. Occorre
fare molta attenzione, al fine di scansare che la critica possa recare danno il senso di identità di quelle
persone che si riconoscono come tali mediante la religione. In tal caso staremmo minacciando il senso di
dignità di quelle persone che hanno diritto di non vedere messo in dubbio il loro onore soltanto per il fatto di
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appartenere a una indicata collettività sociale. In tale senso, pare sbagliato riprodurre determinati simboli
rappresentativi di certe collettività religiose soltanto per deriderle sul piano sociale. È forse ammissibile che qualcheduno possa farlo sul piano
individuale, però è del tutto illogico che coloro che dovrebbero essere
socialmente dalla parte della libertà di espressione intesa come
sistema di valori della collettività democratica (che acclude
uguaglianza, rispetto e pluralismo) adoperino la libertà come un modo
per pronunciarsi sulla fede di persone che formano parte della nostra
collettività.
Con tale tipo di pratica, piuttosto di contribuire al rispetto, si esorta alla provocazione e al
disprezzo e si istigano sentimenti di xenofobia, contrapposti all’idea di tolleranza e pluralismo, valori tali ultimi
che dovrebbero andare di pari passo con un regolare esercizio della libertà di espressione. Pertanto, in una
democrazia la libertà di espressione si assicura soprattutto a salvaguardia della medesima democrazia,
come si fa per il dibattito aperto che di per sé rende possibile la democrazia. Si conviene con il commento
della professoressa Gemma Martin relativamente a quanto ha scritto nel suo articolo dal titolo “L’Europa e il
mondo mussulmano”, presentato sul quotidiano El Pais, dove individua che il pericolo della pubblicazione
delle vignette di Maometto è quello di rafforzare i sentimenti islamofobici esistenti negli stati europei.
Rendiamo di seguito le suoe interpretazioni: “quello che ha convertito in un gran polverone indesiderato la
pubblicazione del giornale danese JP è il carattere anti-islamico e l’incitazione all’odio che inevitabilmente
sarebbe derivata dalla rappresentazione del fondatore dell’Islam come un terrorista
.
La natura del messaggio è evidente: se il fondatore di questa comunità è un terrorista, tutti i suoi membri lo
sono.Si trasmette in questo modo un messaggio rischioso che stigmatizza e umilia una parte molto
importante dell’umanità. Da tale punto in poi l’ argomento non è più religioso, ma diventa politica, perché
riguarda qualche cosa di fortemente detestabile come il razzismo e la xenofobia. Considerato come valore
assoluto e privato di qualunque senso di responsabilità, l’esercizio della libertà di espressione si
trasformerebbe in un abuso di tale privilegio”.
La libertà di pubblicazione dev’essere concepita come un esercizio di libertà al fine di conseguire una
maggiore uguaglianza, premessa per una libertà ancora maggiore. In nessun caso si può adoperare tale
libertà per permettere ai più forti di danneggiare i più deboli. La democrazia legittima il potere mediante il
consenso e la partecipazione, e deve combattere continuamente l’abuso di potere, sia esso di un governo
prepotente (o della sua voce mediatica), o di una maggioranza o potere tirannico che incutano timore alla
minoranza. La libertà di espressione è il mezzo col quale fare fronte a tali abusi.
L’idea è riconoscere ai singoli il diritto di dire la verità a chi detiene il
potere, o per lo meno di parlare con questi senza la preoccupazione
della censura, a prescindere dalla verità o meno di quello che hanno
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da dire. Pertanto, se tale è il proposito della libertà di espressione, è
normale chiedersi quale campo del dibattito politico e sociale si
pretende ricalcare con una vignetta in cui Maometto èraffigurato con
una bomba sotto la “chilaba”.
Che potere politico-economico della società danesesi voleva criticare con tale preconcetto del musulmano
come terrorista? Ci troviamo di fronte a un esercizio della libertà che pregiudica disinteressatamente una
cultura religiosa, più che una religione. È chiaro che tale forma di iniziativa nel contesto di una società
occidentale comporta lastigmatizzazione della minoranza marginale dei musulmani che si sentono, in questo
modo, discriminati per il solo fatto di convenire ad una determinata cultura, e non per la religione confessata.
Non è un atto responsabile di esercizio della libertà, perché non dà il controllo del potere, né accresce alcun
dibattito, ma è un semplice colpo ad effetto per disonorare la volontà di una delle parti di essere socialmente
individuata.
Non si è trattato, pertanto, di un dibattito sulla libertà di espressione, ma anziché
sull’immagine che la stampa europea è sistemata ad offrire ai cittadini spettanti ad una collettività sociale. Da tale punto di vista, la diffusione della caricatura da parte degli altri mezzi di comunicazione europei quale
gesto di solidarietà, continua ad essere una difesa sbagliata dell’esercizio sbagliato di una libertà di
espressione mal interpretata, intesa, cioè, come il diritto a far preponderare l’immagine di una maggioranza
su una minoranza, altresì quando quest’immagine risulta essere offensiva e pregiudica gli altri intenti
intrinseci nella libertà di espressione vista in senso democratico. È nostra convinzione che quando una delle
istituzioni basilari della comunità democratica, com’è la libertà di stampa, non svolge in modo responsabile le
sue funzioni, sia opportuno che il potere politico rifletta sentitamente su quel congiunto di valori che
dovrebbero essere alla base della coabitazione sociale.
In tale senso, senza incorrere in espressioni di censura, è
consentito allo Stato di
mostrarsi in accordo o in dissonanza con certi atti che, pur
essendo legittimi dal punto di vista legale, emergono “infelici”
rispetto ad altri obiettivi politici e sociali causati dall’insieme degli
atteggiamenti etici dei cittadini. Considerare che tutto quello che va
approvato o disapprovato derivi dalla legge, vuol dire diminuire la
convivenza ad un esempio di intolleranza legale inammissibile.
L’azione dei media è più rilevante di quella della legge perché dalla
prima, di fatto, dipende la effettività delle persone al di là del
semplice riconoscimento del soggetto come possessore di diritti e
doveri. Tutti abbiamo la medesima libertà, ma abbiamo una differente responsabilità nell’esercitarla, a seconda dei
risultati che può avere sui cittadini. Gli insulti individuali, gli scherzi di cattivo gusto non possono essere
adoperati dalla stampa come semplice esercizio di libertà, a meno che non si consideri la libertà di
espressione come un mero atto di stravaganza o non la si intenda come l’insieme delle evenienze bizzarre
cui può dar vita il genio di coloro che rappresentano la parte più anomala e ignorante della società. Tali
riflessioni, nondimeno, non hanno in nessun caso come fine ultimo quello di giustificare le reazioni prepotenti
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occorse in certi paesi musulmani, in cui i cittadini sono stati agevolmente usati, come se esprimessero un
odio anti-occidentale che trascende l’episodio stesso delle caricature. Conflitti internazionali come l’occupazione della Palestina da parte di Israele o la guerra in Iraq, hanno
prodotto nelle popolazioni di tali paesi un sentimento di disprezzo impotenza che ha riacceso in loro il
sentimento di identità religiosa. Per tale ragione crediamo che l’ atteggiamento indifferente dei media che
hanno pubblicato le caricature di Maometto, non avrebbe dovuto generare altro effetto che quello di
richiamare l’attenzione perché esito di una pratica poco consigliabile dal punto di vista etico, principalmente
tenendo conto del contesto storico in cui si è prodotto.
Occorrerebbe interpretare la reazione a posteriori di alcuni governi musulmani, che hanno
fomentato il fuoco dell’odio verso l’occidente acceso dalle caricature, come qualche cosa scaturito da ragioni
politici più che religiosi. Piuttosto che segnalare l’offesa per aver rappresentato la figura
del profeta in una religione iconoclasta, si doveva far leva sul sentimento di identità mettendo in
luce il sarcasmo e il disprezzo che l’occidente nutre per la cultura musulmana.
In tale modo si sarebbe ottenuta, ipocritamente però
efficacemente, una maggiore unione della comunità che avrebbe
appagato qualunque dissidenza esistente all’interno di quelle
società. Mettere in evidenza i rischi della libertà appellandosi ai
sentimenti religiosi come al referente più profondo in teoria
condiviso da quella società teocratica è una strategia di
dominazione antica.
La opposizione violenta dell’atto blasfemo si converte così in una
scusante cieca e brutale dell’esercizio religioso, che si antepone a
valori molto più sacri come la stessa vita umana. Va, pertanto,
ben guidata la critica a queste caricature di cattivo gusto che
vanno intendete come una mancanza di deontologia,
necessariamente da scansare in futuro.
Tuttavia, l’intolleranza di certe collettività che cambiano in provocazione naturale una qualsiasi
manifestazione di dissidenza, può soltanto dimostrare che la religione si è tramutata in uno strumento di lotta
politica. Alla luce di tali riflessioni, dovrebbe esser chiaro come un esercizio civile della libertà di espressione
supponga la responsabilità dell’essere consapevoli del momento in cui si dice qualche cosa e del modo in
cui quello che si dice possa condizionare coloro che potrebbero essere oggetto del dispregio di terze
persone. In tale senso, pare che la revisione della storia di un concetto cardine come quello della libertà di
espressione nella tradizione occidentale, possa cooperare a far capire la logica protesta della collettività
musulmana nei paesi europei, marchiata per l’orrore di certi atti estremi e per l’immagine distorta dei suoi
topici culturali. Alla medesimo maniera si denuncia l’utilizzo a scopi politici di tali episodi da parte di governi
rigorosi che approfittando di tale incidente soffocano ancora di più, se possibile, qualunque dissidenza
sociale. Per concludere, va purtroppo rammentato che i medesimi mezzi di comunicazione chedovrebbero
mantenere un comportamento sereno in tali circostanze, sfruttano la medesima provocazione per generare
una nuova edizione di spettacolo mediatico. Copyright ABCtribe.com
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Le ragioni della reazione rimangono in secondo piano e se ne mette ancora una volta in evidenza soltanto il
carattere violento, scatenando quasi certamente la vergogna pure di quei musulmani che considerano la
propria fede conciliabile con la libertà di espressione, e che capiscono, al contempo, che il rispetto è una
faccenda fondamentale alla base di qualunque convivenza in una società multiculturale. Un’occhiata alla
libertà di espressione come principio della democrazia eviterebbe il prendersi certe licenze in nome di tale
libertà recando in questo modo offesa e pregiudizio a chi è alla medesimo maniera parte di tale società
democratica.
4.8 I liberali riformatori
La formula del liberalismo riformatore interessa passionalmente,
tuttavia, come tale, la definizione “liberale riformatore” non
soddisfa troppo sul piano teorico. Entrambe le parole, “liberalismo”
e “riformatore” mi sono care, ma messe congiuntamente
rammentano che possa esistere un liberalismo immobilistico, o
perfino reazionario. Certamente è vero che vi sono immobilisti,
conservatori e reazionari, che si sono definiti o si definiscono
“liberali”. Ma il liberalismo come tale, associato a questi aggettivi,
dà luogo ad un ossimoro: parlare di liberalismo immobilista, e tanto
più di liberalismo tradizionalista, probabilmente altresì di
liberalismo conservatore, denota vale a dire esprimere quella che
più classicamente si definisce una incoerenza in termini.
Non si afferma questo per reclamare una patente di progressismo, ma altresì per rendere giustizia ad
alcuni effettivi liberali che a buona ragione abbiamo pensato dei conservatori. Si parla per esempio di
Giovanni Francesco Malagodi, obiettivo per tanti anni delle critiche della sinistra liberale, sotto molti profili
Malagodi poteva essere visto, e si considerava lui stesso, un tradizionalista, ma in fondo lo era più per una
specie di istintiva incertezza di certe versioni del progressismo ufficiale, in particolare quella del comunismo
di allora, che per scelta ideale. Presentava difatti delle spaccature che, per un'avventura psicologica e
storica, si sono presentate durante gli anni della sua vecchiaia e che davano prova di come l'individuo
guardasse in avanti e non indietro, e con una sicura capacità di indagine.
4.8.1 Il liberalismo conservatore
Se “liberalismo conservatore” è un ossimoro, la formula di cui si parla, che è il “liberalismo riformatore”, è una
ridondanza, dal momento che il liberalismo è riformatore per definizione, nel senso che è una dottrina che,
quanto meno, si sistema il compito di interpretare una realtà che avanza e non retrocede. Il liberalismo in
ogni modo la interpreta, e molto spesso l’ accelera.
Si può parlare, invece che di liberalismo riformatore, di liberalismo sociale: formula anch’essa dubbia, che
uso qui solamente a scopo discorsivo, per segnalare quegli equivoci che sgorgano da una fonte
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fondamentale, l’equivoco degli equivoci, e vale a dire che il liberalismo sia la teoria dell'individualismo
asociale. Il liberalismo è una dottrina politica, al contempo descrittiva e normativa, che prende come punto di
riferimento l'uomo perché nasce dalla rivoluzione umanistica, quella rivoluzione che pone l'individuo al centro
dell'universo. In filosofia politica il liberalismo fu pertanto, come si adopera dire, l’espressione di una
rivoluzione copernicana, ma non è la dottrina dell'individualismo asociale, dell'individualismo anomico,
dell'individualismo egoistico.
E’ la teoria politica che pone l'uomo, le sua libertà, la sua capacità
di discernimento, di scelta e di autorealizzazione, al centro
dell’esplorazione e, sul piano filosofico e sociologico, descrive la
società come composta di uomini interagenti con libertà, non di
atomi isolati e racchiusi in se stessi, ciascuno nel proprio
microcosmo. È una dottrina politica che riconosce e valuta
positivamente il conflitto sociale – Einaudi non parlava
probabilmente di “bellezza della lotta”? – e tuttavia propone di
risolverlo mediante mezzi che tutti i liberali, salvo nei casi estremi
della lotta contro il tiranno, ritengano debbano essere non-violenti
e rispettosi di leggi liberamente e in modo democratico scelte.
Questa pertanto non è la dottrina dell'individualismo asociale, ma semplicemente una teoria che individua e
descrive la società in un certa maniera. Rievocando due classici della sociologia, fra loro molto diversi, da un
lato Émile Durkheim, per cui la società era “un tutto organico”, e dall’altro Herbert Spencer, per cui la società
era “un tutto discreto”, possiamo dire che i liberali vedono la società, appunto, come un tutto discreto e non
come un tutto organico. In fondo, potremmo aggiungere, non la vedono neanche come un tutt’uno, in quanto
la vedono nelle sue molteplici fattezze e sfaccettature, come un insieme di individui differenti che lottano,
competono, cercano pure di preponderare gli uni sugli altri. .
Ma nel momento in cui questo desiderio di prevalenza, comunissimo tra gli individui, sfocia nell'esaltazione
della forza, nella proclamazione del diritto del più forte, vale a dire del diritto di prevalere in virtù della forza
stessa, siamo fuori dalla teoria liberale, perché il liberalismo è fin dalle sue origini teoria della liberazione
dell’individuo dai vincoli ingiustificati, quei vincoli che qualcuno, esercitando la forza (o l’inganno) imponga a
tutti gli altri. Il primo individuo che il liberalismo realmente limita, non a caso, è il più forte di tutti: il re. È stata
diligentemente la teoria liberale, nei suoi prodromi e poi, principalmente, attraverso i secoli che si sono
succeduti dal Seicento in avanti, a mettere in discussione tale concezione verticistica della società –
pensiamo alla teoria del diritto divino dei re – e a mettere in discussione l'autorità massima. Da allora
qualunque autorità è diventata più fragile, esposta alle demitizzazioni della dottrina liberale.
Non ho bisogno di ricordare che il capostipite della teoria liberale
coeva, sebbene prima di lui vi siano rilevanti predecessori, è John
Locke. Locke, vorrei mettere in risalto, non è l'unico teorico del
contratto sociale. Lo è altresì Thomas Hobbes, che teorizza un
doppio contratto sociale, prima un pactum unionis e poi un
pactum subiectionis, come maniera per uscire da una condizione
primitiva che egli rappresentava come di guerra generale, omnium
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contra omnes.
Per dar vita a una società occorreva, per Hobbes, consegnare il
potere ad un sovrano “assoluto” dato che ab-solutus, padrone di
fare la legge e di disfarla, non vincolato pertanto a rispettarla. Il
sovrano hobbesiano è il garante di una pace sociale non in altro
modo ottenibile che mediante una forte compressione delle libertà
individuali. Anche siffatta è una dottrina politica rivoluzionaria
rispetto a quella che giustifica il potere regio come emissione e
riflesso dell’autorità divina, dato che pur sempre dichiara che
l’autorità politica riceve un’investitura popolare, dal basso. Ciò
nonostante è una teoria contrattualista illiberale.
La dottrina contrattualista liberale è quella di Locke, un autore che sopraggiunge a individuare, prima di tutto,
una serie di libertà individuali corrispondenti ad una condizione originaria che l'autore descrive non come
stato di guerra, ma come stato di pace. Uno stato di godimento effettivo, sia pure imperfetto e soggetto a
rischi, di libertà e di correlativi “diritti” che sono “innati” perché congeniti all’essere umano. Fra tali libertà ve
ne sono alcune che a molti fanno paura pure oggi: la libertà di opporsi a chi detiene il potere, entro certi limiti
il diritto di resistervi, quello di emigrare. Si tratta di riconoscimenti rilevanti perché contengono in sé il
nocciolo del pensiero liberale, ossia la constatazione che qualsiasi potere, nel momento in cui si
istituzionalizza, tende a raggrumarsi intorno a chi lo esercita, a trasformarsi in arbitrio, a perpetuarsi altresì al
di fuori delle regole a cui deve il suo punto di partenza, per cui è fondamentale che vi sia la libertà di
contrapporvi.
4.8.2 Il liberalismo come teoria della divisione
Il liberalismo è pertanto la dottrina della divisione, anzi della frantumazione del potere, non della
concentrazione del potere, e Locke è il punto di partenza di tutto questo. Che cos'è il contratto sociale nella
versione liberale? L'interazione politica è vista dalla dottrina liberale come prodotto di una contrattazione
permanente tra esseri liberi, capaci di obbligarsi reciprocamente, ma non autorizzati da una qualche autorità
superiore a prevalere sia nel momento della realizzazione sia nel momento dell'esecuzione del contratto, per
parlare da giuristi. Il contratto politico dei liberali non è un contratto per adesione. I giuristi presenti sanno
bene che si voglia dire: non è un contratto come quello che fanno sottoscrivere la Telecom, o le compagnie
di assicurazioni, o le banche, per cui dobbiamo per forza sottoscrivere e accogliere esplicitamente in un
modulo prestampato una moltitudine di clausole che rendono nulli di fatto il potere negoziale del contraente
più debole. Quelle clausole che nelle polizze assicurative sono redatte in corpo
invisibile, grigio su grigio o giallo su giallo, e che, alla fine, vi
rendono conosciuto che il danno che avete in effetti subito non è
coperto dal contratto che avete sottoscritto e pertanto non verrà
risarcito. Il contratto liberale non è questo tipo di contratto, vale a
dire non è imposto da un monopolista, o da un cartello di
oligopolisti, che possiede il 100% del potere contrattuale, ad un
antagonista che non ne ha alcuno.
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Il contratto liberale è un contratto tra uomini liberi. Insisto sul contratto perché è la sintesi della società
liberale: nella concezione ideale le clausole di tale contratto dovrebbero tutte essere frutto di un’interazione
tra individui capaci di contrapporsi a vicenda su un piano di uguaglianza, cioè occupando uguali spazi di
libertà contrattuale. Il contratto difatti è altresì un conflitto, nel quale i contraenti cercano di massimizzare il
proprio profitto, la propria quota di libertà, a danno dell'altro. Entro certi limiti si deve ammettere che tale
accada. Ma vi devono essere appunto dei limiti prefissati, e prefissati legalmente, sia alle disparità iniziali, sia
a quelle finali.
Il liberalismo è pertanto una visione della vita sociale e politica che contesta, desidera, propone il massimo di
libertà di tutti i stipulanti. E’ un classico bellissimo, di un liberale moderato – un liberale inglese più vicino a
Edmund Burke che a John Stuart Mill – che osserva come le società “progressive”, a diversità di quelle
“stazionarie”, si modifichino da una condizione sociale basata sullo status ad una condizione sociale fondata
appunto sul contratto, da una struttura in cui le posizioni sociali sono ascritte alla nascita di ciascun singolo,
ereditate come possono essere la società di caste indù o la società medievale, ad una struttura in cui le
posizioni sociali sono scelte, contrattate e impadronite in un libero confronto. Contratto pertanto, e conflitto.
La dottrina liberale è una dottrina conflittuale come lo è quella
marxista, con la sola indispensabile differenza che i marxisti
caratterizzano una fine, uno sbocco verso una perfetta collettività
integrata, cosa questa alla quale i liberali non hanno mai creduto,
nel loro fondamentale scetticismo sulla natura umana. I liberali
hanno sempre pensato che il conflitto sia permanente, una specie
di motore immobile indirizzato a perpetuarsi per sempre, in
qualunque età. Una società perfettamente inserita, una “Città del sole”, non rientra nelle visioni liberali. Ma il liberalismo,
come riconosce il conflitto e proclama la necessità di non spegnerlo, in questo modo altresì teorizza, e
propone la necessità, che il conflitto stesso sia controllato e “trattato” secondo una metodica non violenta.
Pertanto, per poter contrattare liberamente, gli uomini devono essere liberi dai vincoli preventivi, vale a dire
non subire imposizioni, né da parte delle loro avversari, né da parte di un terzo, com'è il governo, che aiuti le
controparti medesime. Secondo il liberalismo il terzo, vale a dire il governo inteso in senso lato come autorità
politica, deve essere neutrale: metto in risalto, neutrale, non assente.
4.8.3 Il principio della non interferenza
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Quando si proclama il principio della non interferenza dei pubblici poteri, si compie un'operazione che può
anche avere le sue giustificazioni. Ma quando si proclama ad esempio l’ideale dello stato minimo, di cui
Robert Nozick è stato il massimo portavoce, sino a quasi a sconfinare nell'"anarchismo" liberale (da cui si
distanzia con alcune sottigliezze) si compie un'operazione di grande pericolosità. Lo Stato deve essere
neutro, non minimo, per una ragione indispensabile che è ben visibile nell’esame di quel settore in cui i
liberali sono maestri e che rappresenta uno dei nuclei fondamentali della loro dottrina sociale. Vale a dire
l’economia del mercato. In economia il liberalismo è la teoria della concorrenza. Questo occorre ricordarlo:
secondo il liberalismo il mercato deve essere libero e, se non è libero, come diceva proprio Malagodi, deve
essere reso libero e poi mantenuto tale. Ma per rendere e mantenere libero un mercato necessitano delle
regole; di fatto un mercato anomico, ossia senza regole, decade. L'idea di una politica liberale monopolista in
nome della libertà di mercato è l’ossimoro, la incoerenza in termini più vistosa che si possa immaginare. La concorrenza è l'esatto contrario del monopolio. Se per rendere
e tenere libero il mercato necessitano delle regole, necessita
anche un'autorità che le riconosca, le proclami e le faccia
rispettare, certo senza soffocare, senza esagerare. Abbiamo un
esempio vistoso sotto gli occhi. La Comunità Europea dichiara la
libertà del mercato, il mercato competitivo come sua filosofia
fondamentale. Il principio su cui essa si fonda è quello delle quattro
libertà di circolazione: “merci, servizi, capitali e persone”. La sua
politica di salvaguardia dei principi di libertà del mercato è
comprensibile, ma raggiunge dei punti ossessivi. Si è giunti a disciplinare tutto, ogni più piccolo segmento dell’attività economica, in una maniera così
minuzioso che alla fine diviene soffocante. Ma quel tanto di regole sostanziali che impediscono la
composizione di gruppi monopolistici, siano essi palesi oppure non palesi, occultati dietro i trusts e i patti di
sindacato, è coessenziale con il liberalismo. Un sistema economico cessa di essere liberale quando decade
verso la struttura monopolistica. Se gli uomini devono poter contrattare con libertà, essendone garantiti dal
governo che essi stessi contrattualmente scelgono, lo mette in risalto ancora, devono entrare nella relazione
contrattuale in condizioni di uguaglianza vicendevole. Qui va detto che si è sempre distinto fra eguaglianza
formale ed eguaglianza sostanziale. Non so quanto abbia senso tale opposizione: un'uguaglianza che esista soltanto ufficialmente sulla carta
rischia di essere la giustificazione retorica dell'oppressione. Non c'è occorrenza di disturbare Carlo Marx;
basta ricordare che lo stesso nostro progenitore, Luigi Einaudi, ha portato sotto questo profilo una serie di
osservazioni rilevanti, ad esempio nel campo del lavoro.
Tale problema dell'uguaglianza mi impone di compiere alcune precisazioni, ancora una volta, sul rapporto
fra libertà e uguaglianza. Sono precisazioni alle quali io sono legato altresì perché mi è capitato di insistervi
molte volte e in possibilità differenti, altresì nel quadro di un’ormai antica discussione che ebbi la ventura di
portare con Ralf Dahrendorf quasi vent’anni fa.
È assolutamente vero che libertà e corrispondenza sono due termini differenti. Come disse Dahrendorf in
quella vecchia intervista, e come ha riprodotto tante volte Bobbio, il liberalismo è stato sempre inteso come
la bandiera della libertà, mentre il socialismo è stato per molto tempo assunto come la bandiera dell'identità. Copyright ABCtribe.com
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Non scordiamo però che il liberalismo ha sempre detto, con
molto fondamento, che il metodo della libertà è anche quello che
permette di conseguire il massimo dell'uguaglianza possibile. Il
marxismo ha detto, o cercato di dire, la cosa contraria: solo una
condizione di uguaglianza consente di conseguire, alla fine di
una più o meno lunga serie storica, la totale libertà individuale. È
stata questo esempio per dimostrare come, in fondo, tutti e due i
grandi corpi di teorie politiche umanistiche degli ultimi secoli,
vale a dire il liberalismo e il socialismo (la democrazia è bensì
una terza e distinta teoria, che però concerne non la totalità delle
relazioni umane ma solamente i metodi di gestione della cosa
pubblica) hanno preso a cuore tanto la libertà quanto
l'uguaglianza, magari sbagliando, imbattendo in aporie,
abbandonandosi ad illusioni, cozzando contro le dure ripetizioni
della storia come si vuol dire. Invero, libertà e corrispondenza sono bensì due concetti differenti, ma sono uno il riflesso dell'altro per una
ragione visibile: che, come riconosceva Immanuel Kant, e dopo di lui Stuart Mill e molti altri artefici dietro i
quali mi posso tranquillamente nascondere, quando non si parla di libertà di coscienza, di pensiero, di
espressione, ma si parla di libertà sociale, della libertà che regola le relazioni interattivi fra gli individui,
necessariamente la mia libertà collide con la libertà del mio vicino. Nel momento in cui devo contrattare con il
mio vicino l'unica maniera ragionevole, e ragionevolmente morale, di gestire il rapporto consiste nel
tracciare un’ideale linea mediana fra noi due, e tale è la linea dell'uguaglianza.
4.8.4 Libertà economiche e sociali
Quando parliamo di libertà economiche e sociali, l'uguaglianza è pertanto nient’altro che il riflesso sociale
della libertà. Dicevo che liberalismo e socialismo si sono presi a cuore i due concetti da posizione opposte; i
liberali ritengono che la massima eguaglianza possibile sia conseguibile mediante la libertà, il socialismo, in
particolare il marxismo, ha predicato al contrario l'utopia di una libertà assoluta mediante l'assoluta
uguaglianza: un’uguaglianza che non è mai stata raggiunta perché quello che, purtroppo, le dottrine
socialiste hanno ignorato per tanto tempo è stato uno dei più grandi principi liberali, che il potere tende a
continuare se medesimo e se lo si concentra, come dicevo poco fa, si fissa nelle mani di un'élite che poi
diviene improbabilmente scalzabile.
Anche quella liberale, la massima eguaglianza possibile mediante
la libertà, è una utopia, ma lo è in senso debole, un ideale degno
di essere perseguito altresì se non è realizzabile nella sua
integrità. Quella marxista al contrario è stata una utopia in senso
forte, l’ideale di una collettività perfetta, un modello molto
pericoloso secondo il pensiero liberale perché passibile di offrire
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forti argomenti a favore di un oppressore. Non c’è necessità di
ricordare le dure critiche di Karl Popper ai teorici delle utopie forti
e della società “chiuse”. Cambiano la collettività, la tecnologia, la
cultura, l'economia, e principalmente mutano le persone, i loro
progetti, i loro ideali, le loro utopie. Il liberalismo è la teoria non solo del contratto sociale in sé, ma è altresì la teoria del contratto sociale
permanente: vale a dire non si contratta una volta sola, ma si continua a negoziare.
Questo lo ha detto assai bene anni or sono, in Italia, un autore che pure viene da un’educazione prossima al
marxismo, Salvatore Veca, il quale, mentre veniva sparso nel nostro paese il pensiero di John Rawls con la
traduzione di A Theory of Justice, se ne è fatto un po' l'interprete e ha messo in rilievo come vi sia una
indispensabile inerenza tra il concetto di conflitto e il concetto di contratto, come ho detto poco fa. Adesso,
se è durevole il conflitto è fermo anche il contratto.
Occorre essere sempre disposti e pronti a contrattare e ricontrattare; non per niente i liberali sono gli
sostenitori della società aperta, di una società che consente di cambiare, riprendersi,
automodificarsi, riscattarsi, rimettersi in gioco. Mi viene in mente un conosciuto libro di Lawrence Friedman (che non va confuso con Milton), giurista e
professore a Stanford: The Republic of Choice, apparso nel 1990. Il liberalismo vede la società come un
terreno di preferenze permanenti. Friedman osserva che la società liberale ottocentesca era, sotto molti
profili, meno aperta e pronta alle scelte di quanto non sia la collettività di adesso; la famiglia era patriarcale e
pervadeva, assorbendole, tutte le decisioni individuali, il divorzio era quasi generalmente vietato, l'attività
economica era più severamente disciplinata di quanto non sia oggi, esisteva il carcere per debiti (talvolta
viene da rimpiangerlo di fronte a certe impossibilità di pagare programmate a scopo truffaldino). Oggi più che
mai il contratto liberale è un contratto permanente, e tale ordinatamente è un punto dolente delle forze
conservatrici che si annunciano “liberali”, le quali si fermano a quel campo di scelte che è stato teorizzato e
vissuto prima, quando la società era differente. Un liberalismo che non voglia mutare cessa di essere
liberale. C'è da chiederselo, per natura: cambiamenti progressivi o
"progressisti"? E c’è altresì da chiedersi, più in generale, esiste
davvero il “progresso”? Non lo so. Dahrendorf rammentava anni or
sono che gli ultimi a parlare saggiamente di progresso, nell'ambito
delle scienze sociali, sono stati Morris Ginsberg, l'allievo di
Leonard Trelawney Hobhouse, e Richard Henry Tawney. In verità
da 40-50 anni nessuno ne parla più. Si diffida di un concetto che è
apparso scientificamente deviante e politicamente pericoloso. Ma
ancora una volta, come per l’utopia, occorre discernere tra
progresso in senso debole e progresso in senso forte. Quello che i
liberali rifiutano è l’idea di un progresso inevitabile,
unilineare, determinato e deterministico, l’idea della fine della
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storia.
Hegel, che aveva tale idea, non è un filosofo liberale; in Marx ci sono forti fermenti liberali, come
riconosceva Benedetto Croce, ma non è sicuro liberale, non tanto perché teorizzi la lotta di classe, quanto
abbastanza perché individua un esito stabilito e invariabile, per cui tutto quello che fuoriesce da quel binario
– che per i liberali è un binario verso l'infinito ed è al contrario per lui un binario verso il finito – è come tale
da condannare. In siffatto senso forte non ci si può proclamare progressisti, né si può parlare di progresso. In
verità la società ci mette dinanzi continuamente altresì le debolezze dei nostri tradizionali concetti di
evoluzione: chi 25 o 30 anni fa, nell'ambiente della sinistra liberale alla quale appartengo, avrebbe messo
saggiamente in discussione il principio dello Stato del benessere? Credo che sino alla guerra del Kippur del settembre 1973 – in quegli anni facevo politica liberale a livello
europeo – non ci fosse un soltanto liberale di destra o di sinistra in tutta Europa, tranne alcune patetiche
frange ultraliberiste, che mettesse in discussione l'idea del Welfare State. E poi, come spesso succede nella
storia umana, nell’arco di pochissimi giorni, mentre il prezzo del petrolio aumentava a dismisura e ci siamo
trovati in mano dopo pochi mesi i micro-assegni da 50 e 100 lire che ricordavano le “Am-lire”
dell’occupazione militare post-bellica, in una condizione in cui i pochi risparmi degli italiani si sono
volatilizzati, ci siamo accorti che lo Stato del benessere – forse – costava troppo rispetto alle possibilità delle
nostre economie. La capacità di autocriticarsi – che come dice bene Valerio Zanone nel suo L’età liberale,
vale a dire di ripensare criticamente alle proprie posizioni, è il tratto distintivo principale del liberalismo – ha
portato ad esempio Ralf Dahrendorf, che era stato uno dei personaggi principali della svolta a sinistra del
Partito liberale tedesco in tempi di welfare, a denunciare con forte anticipo sui tempi i limiti di questa formula
politica, in quanto moltiplicatrice di attese destinate ad essere appagate con un vertiginoso aumento della
spesa pubblica e dell’inflazione, o ad essere disingannate. Questo, Dahrendorf lo diceva parecchi anni prima di Niklas
Luhmann, il pensatore conservatore che negli anni ottanta è stato
eletto a maître à penser pure dalla sinistra italiana. Come fare
fronte oggi un problema del genere adottando un concetto debole
e liberale di progresso? Possiamo pensare di tornare a una
collettività non protettiva o saremo richiesti chiaramente di
estendere la protezione sociale su una scala che trascenda i limiti
dei paesi sviluppati? Poco fa ho parlato delle varie libertà di
movimento che sono all'origine della Comunità Europea, che ne
costituiscono, come dire, la costituzione materiale, vale a dire
merci, servizi, capitali e persone. Il mondo, non solo la Comunità Europea, ha a questo punto sperimentato il più ampio livello mai raggiunto
nella storia della libertà di movimento di merci, servizi e capitali. Il movimento delle persone al contrario non
è stato tanto protetto come i suoi tre confratelli. Se nei paesi dell'Occidente rischiamo di soffrire una crisi
economica che si traduce in disoccupazione endemica, questo accade altresì perché la concorrenza
nell'ambito del mercato del lavoro da parte dei paesi in via d sviluppo è fortissima e può essere tale da non
lasciarci strade di scampo, proprio perché il movimento delle persone in larga misura è fortemente
controllato. La suddivisione del mondo secondo quel modello che abbiamo ricevuto in eredità sin dalla fine
del ‘600, il modello del mondo diviso in una serie di stati sovrani, e che è stata superata e trascesa da una
serie di movimenti liberi che passano ben sopra gli stati, in verità è quella che ancora regge il mercato del
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lavoro mondiale.
Le imprese vanno a cercare la manodopera là dove costa meno, dove non è sindacalizzata, quello che pone
problemi di concorrenza fortissima ai paesi, come i nostri, in cui al contrario la manodopera costa ed è
sindacalizzata. È tale adesso la sintesi del problema, che 20 anni fa fu visto come problema della crisi del
Welfare State. Come lo devono fare fronte ai liberali?
Questo è un quesito che mi pongo, e vi pongo. Perché non ho la risposta: forse ce l'hanno i più giovani
perché hanno più fantasia costruttiva, mentre noi probabilmente possiamo dare un apporto analitico, più che
un contributo propositivo. Al momento si parla molto del concetto di cittadinanza, uno dei problemi
indispensabili su cui la scienza discute da alcuni anni: ci si chiede se il concetto di cittadinanza debba essere
riformulato come concetto transnazionale, uscendo dalla logica nazionalistica alla quale lo si è sempre
portato indietro. l problema del diritto al lavoro e della protezione del lavoro,
pertanto delle garanzie di welfare a livello mondiale, è al centro
dell’agenda della società incostante di adesso. Non possiamo
mancare di rispondere ai quesiti che ne derivano. In questo
momento, io ho fatto questo esempio dello stato del benessere
solamente per dire che non occorre avere paura di misurarsi con
il cambiamento, altresì se il mutamento pone dei problemi ai quali
non siamo pronti, ai quali non possiamo rispondere con formule
tradizionali. Il livello della discussione politica in questo paese è corso giù in modo così vertiginoso negli ultimi anni da far
sì che qualunque persona parli in maniera più evoluta rispetto alla media, che si esprime per slogan urlati e
spesso per insulti, per ciò medesimo non abbia successo. Ho anche notato però che c'è una sottile paratia
che pur sempre mi suddivide da Zanone. Il liberalismo è Locke, e sicuramente Kant, e altresì Tocqueville: si pensa oggi al problema della
transnazionalità alla luce dello scritto di Kant per un progetto di pace perenne.
Però il liberalismo sono altresì Beccaria e i fratelli Verri, e il garantismo processuale speso per gli imputati
deboli, oltre che per quelli forti, come si tende a fare nel nostro tempo in Italia.
E in Inghilterra Bentham e tutta la corrente utilitarista e principalmente Stuart Mill (autori che appaiono di
riflesso nel libro) e, voglio mettere in risalto, Henrietta Mill, all’origine del femminismo. Si è osservato con
qualche amarezza che Mill appare nel libro quasi casualmente, altresì se la simpatia che il libro stesso mi
ispira non potrebbe per tale ragione indurre a indirizzare all’autore le critiche dedicato al volumetto di Giorgio
Rebuffa. In una recensione che il liberalismo di Rebuffa, il quale giunge pure lui da un'educazione marxista,
pare si sia fermato alle libertà civili di Locke: ma dopo le libertà civili ci sono state le libertà politiche, le libertà
sociali, le altre tappe del movimento dei diritti umani. Siamo arrivati alla “quinta generazione” di tali diritti e
Mill è, nell’Ottocento, la figura centrale di un movimento liberale che ha capito e teorizzato, accanto ai diritti
civili e politici, altresì i diritti sociali di cui Thomas Marshall avrebbe parlato un secolo dopo. Copyright ABCtribe.com
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II Mill liberale puro, che contesta il principio della libertà e della
non sovrapposizione nella sfera di ciascuno e dichiara che non si
può imporre a qualcuno una concezione della felicità. Ma vicino al
Mill del saggio sulla libertà vi è il Mill che riconosce la libertà del
prossimo, vi è il Mill che critica le successioni mortis causa in
maniera più aspra di quanto non abbia fatto lo stesso marxismo,
dando vita ad una corrente che ha ritrovato in Italia due grandi
interpreti con Eugenio Rignano e il medesimo Luigi Einaudi. Certo, ci sono mille maniere per evadere le imposte di successione, ma il principio fondamentale, per cui non
è accettabile che la libertà di una generazione divienga privilegio della seconda generazione e più ancora
della terza in virtù dell'accumulazione di potere e di ricchezza, tale è il principio di John Stuart Mill. È
opinione diffusa che il liberalismo è altresì quella speciale corrente di socialismo che in Inghilterra è andato
sotto il nome di socialismo fabiano e, vicino ad esso, tutta quella grande corrente di sinistra liberale e di
social liberalism che è ubicata in effetti sotterranea e raramente viene riscoperta. Liberale è sicuramente
Hobhouse, altresì se un po’ troppo passionale in alcune sue analisi. E Carlo Cattaneo e certamente Benedetto Croce, come sappiamo tutti, ma altresì Max Weber, di cui Zanone
parla principalmente per l' “ascetismo capitalistico” de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ma
Weber è pure altro, è la ripartizione dei compiti dello scienziato da quelli del politico e soprattutto l’autore
di Economia e società, colui che ha riformulato e rifondato la sociologia assumendo per base l’azione
volontaria degli individui, da interpretare nel suo “senso” e da chiarire nella sua ampia eziologia, e
precedendo di 30 o 40 anni la sociologia interpretativa.
Weber è un autore che ha saputo meravigliosamente collocarsi su una ubicazione intermedia equilibrata tra
la tradizione tedesca di liberalismo nazionalista e quella similmente tedesca, ma non meno viva, di
liberalismo libertario. Di sicuro è liberale Einaudi, il maestro di tutti noi, e lo è pure Gobetti, ma lo sono altresì
Carlo Rosselli, e Guido Calogero, e sicuramente Hans Kelsen che con grande piacere ho trovato nel libro di
Zanone, e con lui per natura Bobbio e la Arendt e Dahrendorf, ma altresì Jo Grimond, quella grande
personalità che fu il leader del liberalismo radicale inglese negli anni Cinquanta e Sessanta, il teorico del
“riallineamento della sinistra” su basi liberali; e certo John Rawls, ma altresì e principalmente Bertrand
Russell e, in Francia, quel grande epistemologo che è Raymond Boudon. Alcuni di questi, ripeto, sono stati
rinvenuti casualmente o meno occasionalmente nel libro di Zanone, ma non si reperita la nettezza auspicata,
quel filone che confluisce in quella che comunemente viene chiamata “ critica liberale”. 5. Aforismi e citazioni i di John Stuart Mill
Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo. (da Autobiografia)
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È meglio essere un uomo malcontento che un maiale soddisfatto, essere Socrate infelice piuttosto che
un imbecille contento, e se l'imbecille e il maiale sono d'altro avviso ciò dipende dal fatto che vedono
solo un lato della questione. (da L'Utilitarismo)
Il senso del governo rappresentativo è che tutto il popolo o una numerosa parte di esso eserciti, tramite
deputati periodicamente eletti, il potere di controllo ultimo che in ogni costituzione deve trovare il suo
soggetto. Deve possedere tale potere nella sua pienezza. Deve essere padrone, a suo piacimento, di
tutte le funzioni del governo. (da Considerazioni sul governo rappresentativo, p. 82)
La costante abitudine a correggere e a completare la propria opinione confrontandola con quelle degli
altri, non solo non causa dubbi o esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile
di una corretta fiducia in essa. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia
che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. (citato in Giovanni Boniolo et alii,
Filosofia della scienza, a cura di Corrado Sinigaglia, Cortina, Milano 2002)
La distribuzione di cariche amministrative il piú estensivamente possibile nella massa popolare
costituisce, per il nostro autore, il solo mezzo per renderla atta a un'efficiente partecipazione alla
direzione della cosa pubblica. [...] Comunque possano essere strutturate altre costituzioni, il carattere
di un popolo sarà, ne siamo persuasi, essenzialmente volgare e servile, ove lo spirito pubblico non
venga coltivato grazie a una partecipazione estensiva dei piú agli affari del governo. (da Sulla
«Democrazia in America», pp. 111-3)
La società ha pieno titolo di abrogare o alterare qualsiasi particolare diritto di proprietà che in base ad
adeguata riflessione reputi ostare al bene pubblico. E certamente il terribile atto di accusa che, come
abbiamo visto in un capitolo precedente, i socialisti sono stati in grado di montare contro l'attuale ordine
economico della società richiede piena considerazione di tutti i mezzi attraverso i quali l'istituzione della
proprietà privata possa essere fatta funzionare in maniera più proficua per quella ampia porzione della
società che attualmente beneficia in minima parte dei suoi diretti vantaggi. (citato in Paul Ginsborg, La
democrazia che non c'è, Einaudi, 2006, p. 150)
Ma la virtù vera degli esseri umani è quella di saper vivere insieme come degli uguali; di non
pretendere altro per sé, tranne ciò che concedono con pari liberalità a tutti gli altri; di considerare
qualsiasi posizione di comando come una necessità eccezionale, e in ogni caso temporanea; e di
preferire, ogni qual volta sia possibile, un tipo di associazione di individui che consenta alternanza e
reciprocità nel guidare ed essere guidati. (da L'asservimento delle donne, in La libertà, L'utilitarismo,
L'asservimento delle donne, p. 397)
Quanto è vero che innaturale in genere significa solo inconsueto e che tutto ciò che è usuale appare
naturale. (da L'asservimento delle donne, in La libertà, L'utilitarismo, L'asservimento delle donne, p.
348)
Se per opporci aspettiamo che la vita sia ridotta quasi completamente a un unico tipo uniforme,
qualsiasi deviazione da quel tipo verrà considerata empia, immorale, e addirittura mostruosa e contro
natura. Gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si
sono disabituati a vederla. (da La libertà, in La libertà, L'utilitarismo, L'asservimento delle donne, p.
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Trovandosi tutti più o meno sul medesimo piano per quanto riguarda le condizioni economiche, e
similmente dal punto di vista dell'intelligenza e del sapere, l'unica autorità che ispira una involontaria
deferenza è quella del numero. [...] "La fede nell'opinione pubblica", dice Tocqueville, "diventa in quelle
contrade una specie di religione, e la maggioranza è il suo profeta". (da Sulla «Democrazia in
America», pp. 128-9)
Chi conosce solo la propria visione del caso ne sa poco.
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Chiunque riceve la protezione della società le è debitore per il beneficio ricevuto.
La felicità non è un fine da perseguire avidamente, ma un fiore da cogliere sulla strada del dovere.
La guerra è una cosa brutta, ma non la cosa più brutta. Molto peggiore è lo stato decadente e
degradato della morale e del sentimento patriottico che porta a pensare che non ci sia nulla per cui
valga la pena di fare la guerra. Colui che non ha niente per cui sia disposto a uccidere, niente che sia
più importante della propria sicurezza personale, è un misero essere che non ha altra possibilità di
essere libero se non quella di diventarlo o di restarlo grazie agli sforzi di uomini migliori di lui.
La libertà dell'individuo deve essere limitata solo fino a questo punto: che egli non deve rendersi una
seccatura per gli altri.
La fatale tendenza dell'umanità di smettere di pensare alle cose quando non sono più dubbie è la
causa della metà dei suoi errori.
La libertà consiste nel fare ciò che si desidera.
La maggior parte dei componenti il sesso maschile non riesce a tollerare l'idea di vivere con qualcuno
alla propria altezza.
Non esiste la certezza assoluta, ma c'è abbastanza sicurezza per gli scopi della vita umana.
Tutte le cose buone che esistono sono il frutto dell'originalità.
5.1 Saggio sulla libertà, Citazioni dal libro
Quindi, la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi
dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come
norme di condotta, con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a
ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione di qualsiasi individualità discordante,
e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. (1981, p. 27)
Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate
da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi
sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai
suoi sentimenti di superiorità di classe. (1981, p. 29)
Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva Chiesa Universale erano in
generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a permettere differenze di opinione religiosa. Ma,
quando si spense la vampata del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria,
e ogni chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze al mantenimento del terreno che in
quel momento occupava, le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare
maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso
di dissentire. Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i diritti
dell'individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati rivendicati su un'ampia base di principio, e
la pretesa da parte della società di esercitate la propria autorità sui dissenzienti è stata apertamente
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contestata. (1981, p. 30)
Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari, purché il fine sia il
loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio,
non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di
migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. (1981, p. 33)
Ciascuno è l'unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale. (1981, p.
36)
L'inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri, come norme di
condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata da alcuni dei migliori e dei
peggiori sentimenti inerenti all'umana natura, che quasi sempre è frenata soltanto dalla mancanza di
poere; e poiché quest'ultimo non è in diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che, se non si
riesce a erigere una solida barriera di convinzioni morali contro di esso, nella situazione attuale del
mondo il male si estenda. (1981, p. 37-8)
Mentre ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono cautelarsi dalla propria fallibilità, o
ammettere la supposizione che una qualsiasi opinioni di cui si sentano del tutto certi possa essere un
esempio di quell'errore di cui si riconoscono soggetti. (1981, p. 41)
Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi cosí certi della sua
verità come lo sono. Le nostre convinzioni piú giustificate non riposano su altra salvaguardia che un
invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. (1981, p. 45)
È sentimentalismo inutile pensare che la verità semplicemente in quanto tale abbia un qualche potere
intrinseco, negato all'errore, di prevalere contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno piú zelo per
la verità di quanto non ne abbiano spesso per l'errore, e un'adeguata applicazione di sanzioni legali o
anche soltanto sociali riuscirà in generale ad arrestare la diffusione di entrambi. Il reale vantaggio della
verità è che quando un'opinione è vera la si può soffocare una, due, molte volte, ma nel corso del
tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno, finché non riapparirà in circostanze che le
permetteranno di sfuggire alla persecuzione fino a quando si sarà sufficientemente consolidata da
resistere a tutti i successivi sforzi di sopprimerla. (1981, pp. 53-4)
[...] l'asserzione di opinioni bollate dalla società è in Inghilterra molto meno comune di quanto in molti
altri paesi non lo sia l'ammissione di idee per cui si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo
coloro che la condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione è in questo
campo altrettanto efficace che la legge: non vi è differenza tra imprigionare un uomo e impedirgli di
guadagnarsi da vivere. (1981, p. 57)
Chi può calcolare quanto perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti ma uniti a caratteri
deboli che non osano sviluppare alcuna linea di pensiero audace, vigorosa, indipendente, per timore di
ritrovarsi con qualcosa che potrebbe venire considerato irreligioso o immorale? (1981, p. 59)
In ogni campo in cui è possibile una differenza di opinioni, la verità dipende dall'individuazione
dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti. Anche nella filosofia naturale, è sempre possibile
fornire un'altra spiegazione degli stessi fatti; una teoria geocentrica invece di quella eliocentrica; il
flogisto invece dell'ossigeno [...]. (1981, p. 62)
Questa disciplina è cosí essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se
una verità fondamentale non trova oppositori, è indispensabile inventarli e munirli dei piú validi
argomenti che il piú astuto avvocato del diavolo riesce ad inventare. (1981, p. 63)
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[...] fatale la tendenza degli uomini a smettere di pensare a una questione quando non è piú dubbia [...]
è la causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo ha giustamente parlato del "profondo
sonno dogmatico indotto da un'opinione definitiva". [...] se vi sono persone che negano un'opinione
generalmente accettata, o che lo farebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero,
ringraziamole. (1981, pp. 69-72)
[...] tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la multilateralità, l'eccezione; quindi anche
nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità generalmente tramonta al sorgere di un'altra.
Persino il progresso, che dovrebbe assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una
verità parziale e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che il nuovo
frammento di verità è piú richiesto, piú adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce. (1981,
p. 73)
Credo che se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle di derivazione
esclusivamente cristiana debbano coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non
costituisca un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo intellettuale
umano gli interessi della verità esigono la presenza di opinioni diverse. (1981, p. 78)
La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia
esattamente il lavoro assegnato, ma un albero, che ha bisogno di crescere e di svilupparsi in ogni
direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una persona vivente. (1981, p. 88)
[...] è utile che [...] vi siano differenti esperimenti di vita [...] e che la validità di modi di vivere diversi sia
verificata nella pratica quando lo si voglia [...] che vi sia la piú ampia libertà di svolgere ogni attività
inconsueta affinché col tempo emergano chiaramente quelle che meritano di diventare consuetudini.
(1981, pp. 85, 97)
L'originalità è l'unica cosa di cui coloro che originali non sono non possono comprendere l'utilità. Non
vedono a che cosa gli serva: e come potrebbero? Se lo potessero, non si tratterebbe più di originalità.
(1981, p. 95)
Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei
mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà
può allearsi localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la libertà è l'unico
fattore infallibile e permanente di progresso, poiché fa sí che i potenziali centri indipendenti di
irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui. (1981, p. 101)
L'Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme. (1981, p.
104)
Assumersi questa responsabilità – dare una vita che può essere una sciagura o una fortuna –, senza
che l'essere che riceve la vita abbia almeno le normali probabilità di condurre un'esistenza
desiderabile, è un delitto contro di lui. (1981, p. 144)
Se vogliamo avere dei funzionari abili e efficienti – soprattutto capaci di generare innovazioni e disposti
a accettarle –, se non vogliamo che la nostra burocrazia degeneri in una pedantocrazia, l'entità
burocratica non deve inglobare tutte le occupazioni che formano e sviluppano le facoltà necessarie al
governo degli uomini. (1981, p. 150)
[...] la massima disseminazione di potere che non vada a scapito dell'efficienza, e la massima
centralizzazione, e diffusione dal centro, dell'informazione. (1981, p. 151)
I mali cominciano quando il governo, invece di far appello ai poteri dei singoli e delle associazioni, si
sostituisce ad essi; quando invece di informare, consigliare, e talvolta denunciare, impone dei vincoli,
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ordina loro di tenersi in disparte e agisce in loro vece. [...] A lungo termine, il valore di uno Stato è il
valore degli individui che lo compongono [...] uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano
essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini
non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato
alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per fare funzionare meglio la
macchina, ha preferito bandire. (1981, p. 153)
Non possiamo mai essere certi che l'opinione che tentiamo di soffocare sia falsa; e se ne fossimo certi,
soffocarla sarebbe ancora un male.
La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante.
Quella che viene chiamata l'opinione pubblica non è sempre l'opinione del medesimo tipo di pubblico.
Il valore di uno stato, a lungo andare, è il valore dei singoli che lo compongono.
Piú penso al progetto di un volume sulla Libertà, piú mi convinco che sarà letto e farà sensazione.
(citato in F. A. Hayek, J.S. Mill and H. Taylor. Their friendship and subsequent marriage, Routlédge and
Kegan Paul, London, 1951, p1981, p. 222-3; ripreso in 1981, p. 7)
La Libertà probabilmente sopravviverà piú a lungo di qualsiasi altro mio scritto. [...] Ciò perché l'unione
della sua [di Harriet Taylor] mente con la mia ha fatto di quel saggio una specie di manuale filosofico su
una singola verità cui i cambiamenti verificantesi progressivamente nella società moderna tendono a
dare un rilievo sempre più forte: vale a dire l'importanza per l'uomo e la società si una larga varietà di
caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e
contrastanti. (da Autobiografia, a cura di F. Restaino, Laterza, Bari, 1976; 1981, p. 197)
La «rivoluzione copernicana» per la sinistra consiste allora precisamente nel superamento del «dogma
dei sistemi centrati» e nel riconoscimento del sistema sociale come un sistema di interazioni tra gruppi
(o individui) con «funzioni di utilità» diverse (e usualmente in conflitto), tra cui nessuna rappresenta gli
interessi universali dell'intera umanità. Problema della sinistra in quanto forza di governo diventa allora
quella di «incollare» tali funzioni di utilità individuali (o di gruppo) in una funzione di scelta sociale che
massimizzi l'utilità media, soggetta al solo vincolo di compatibilità con il principio di von Humboldt.
Problema della sinistra in quanto forza di opposizione diventa invece quello di rappresentare
politicamente un'opportuna media delle funzioni di utilità di una parte sociale: quella dei più
svantaggiati. (Giorello, Mondadori, la prefazione, 1981, p. 21).
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