John Stuart Mill Biografia, Il pensiero filosofico dell’autore, Opere, Approfondimenti, Aforismi e citazioni i di John Stuart Mill Copyright ABCtribe.com 1. Biografia 2. Il pensiero filosofico dell’autore 2.1 Il Liberalismo di J. S. 3.6 Natura, Dio e religione 3.6.1 Utilità della religione 3.6.2 Che cosa fa la religione per l'individuo? Copyright ABCtribe.com 1 Mill 2.2 La logica 2.3 Sociologia, psicologia e politica 2.3.1 L’etica e la politica 2.3.2 La religione e la schiavitù delle donne 2.3.3 Utilitarismo delle norme 2.3.4 John Stuart Mill: sulla libertà di discussione e di pensiero 2.3.5 Il pensiero politico filosofico di John Stuart Mill 2.4 Le critiche tratte dal pensiero di Mill 2.4.1 Critica all'apriorismo, l'esperienza come fondamento e alla logica 3.6.3 Natura e naturale 3.6.4 Esiste una Provvidenza divina? 4. Approfondimenti 4.1 Il positivismo critico di Mill 4.2 Sul metodo per la conoscenza delle regole di comportamento dell’individuo 4.3 L'economia politica di Stuart Mill 4.4 Saggi su alcune incerte questioni di economia politica 4.4.1 Il Wage-fund 4.5 I Principi di economia politica 4.5.1 Lo stato stazionario dell'economia 4.5.2 La teoria economica di Stuart Mill ed il problema del socialismo 2.4.2 Invalidità del 4.5.3 Che cosa voleva dire sillogismo e critica Marx? all'induzione 4.6 La teoria della libertà 2.4.3 Critica al principio di 4.6.1 I vantaggi della causa ed effetto democrazia 2.4.4 Critica 4.6.2 La tolleranza all'assolutismo determinista 4.6.3 Caratteri generali del positivismo 4.6.4 Natura e limiti del 2.4.5 Contro l'assolutismo potere che la società può sociale esercitare sull'individuo 4.6.5 Contro tutte le 2.5 Mill e la divisione del censure lavoro 4.6.6 Idee sul pluralismo 2.6 Il rapporto tra la educativo deduzione e l'induzione 4.6.7 Perchè lo stato minimo 2.6.1 Sulle orme di Kant 2.6.2 Il recupero della 4.7La Libertà di espressione e il tradizione empirista rispetto dei sentimenti religiosi baconiana 4.7.1 Le Origini della libertà di espressione nel pensiero liberale 3. Opere 4.7.2 La Libertà di espressione 3.1 System of Logic nel’età dell’informazione 3.2 Principi di economia 4.7. 3Critica al modello del politica libero mercato dell’informazione 3.3 On liberty 4.7.4 Considerazioni sulla 3.4 I Saggi sulla religione di vignetta di Maometto John Stuart Mill 4.8 I liberali riformatori 3.5 Su La Natura di John 4.8.1 Il liberalismo Stuart Mill conservatore 3.5.1 Perché si crede che 4.8.2 Il liberalismo come teoria la natura comanda e punisce? della divisione 3.5.2 Un antidoto perfetto da 4.8.3 Il principio della non perfezionare interferenza 3.5.3 Mill contro Comte e 4.8.4 Libertà economiche e Spencer sociali 3.5.4 Una distinzione tra 5. Aforismi e citazioni i di John felicità e soddisfazione Stuart Mill 3.5.5 Giustizia ed utilitarismo 5.1 Saggio sulla libertà, 3.5.6 Diritto alla sicurezza Citazioni dal libro 3.5.7 Giustizia ed opportunità Copyright ABCtribe.com 2 1. Biografia John Stuart Mill (Pentonville, 20 maggio 1806 – Avignone, 8 maggio 1873) è stato un pensatore ed economista britannico. Figlio dello storico e pensatore scozzese James Mill, amico e sostenitore di Jeremy Bentham e amico di David Ricardo e Jean-Baptiste Say, fu educato dal padre in modo molto inflessibile con l'obiettivo esplicito di creare un genio intellettuale dedito alla causa dell'utilitarismo. Mill fu in effetti un bambino grandemente precoce: sin dai tre anni esposto a matematica e storia, a dieci anni leggeva scorrevolmente i classici greci e latini in lingua originale, a tredici analizzò Adam Smith e David Ricardo, capiscuola della nuova scienza dell'economia politica. A quattordici anni risiedette per un anno in Francia, stimando in pari misura le montagne, lo stile di esistenza, gli studi a Montpellier e l'ospitalità parigina di Say. A vent'anni gli sforzi fisici e mentali dello studio lo fecero entrare in depressione, da cui presto riacquistò la salute. Rinunciò a studiare alle Università di Oxford e Cambridge per non soggiogarsi al requisito di venire ordinato nella chiesa anglicana. Seguì al contrario il padre nell'accettare un impiego nella British East India Company, che tenne sino al 1858. Nel 1858 cessò di vivere la moglie Harriet Taylor, che aveva sposato soltanto nel1851 dopo ventuno anni di intima ma casta amicizia (era sposata) e che operò molto sulle idee di Mill riguardo ai diritti delle donne (On Liberty, The Subjection of Women). Fra il 1865 e il 1868 fu rettore della University of St. Andrews, l'università storica della Scozia, e al tempo medesimo rappresentante liberale al Parlamento per il collegio londinese di City e Westminster, suggerendo il diritto di voto alle donne, il sistema elettorale proporzionale e la legalizzazione delle associazioni sindacali e delle cooperative (Considerations on Representative Government). In quegli anni fu altresì padrino di Bertrand Russell. Come pensatore, aderì all'utilitarismo, teoria etica irrobustita da Jeremy Bentham, ma da cui J.S. Mill differì in senso più liberale e meno sostenitore del consequenzialismo. Definito da molti come un liberale classico, la sua collocazione in tale tradizione economica è discussa per il discostarsi di alcune sue posizioni dalla dottrina classica sostenitore del libero mercato. J. S. Mill difatti, riteneva che soltanto le leggi di produzione fossero leggi naturali, e quindi immutabili, mentre riteneva le leggi di distribuzione come una fenomenologia etico - politica, individuate da ragioni sociali e, quindi, modificabili. Di conseguenza, è favorevole alle imposte, quando giustificate da motivi utilitaristi. Per di più Stuart Mill ammette un impiego strumentale del protezionismo, quando questo sia funzionale a consentire ad una "industria bambina" di svilupparsi sino al punto da poter concorrere con le industrie estere, momento in cui le protezioni vanno scostate. 2. Il pensiero filosofico dell’autore 2.1 Il Liberalismo di J. S. Mill Gli avvenimenti che fanno da sfondo al saggio Sulla libertà sono delimitati a pochi anni: l'idea di un lavoro sull’argomento è datato 1854; quella di un libro maturata durante un viaggio in Europa nel 1854-55 quando John Stuart Mill prende coscienza che molti Copyright ABCtribe.com 3 piani di lavoro riformistici europei erano liberticidi e che la forza dell' idea pubblica stava carpendo sempre più la libertà; la stesura occupa gli anni '56-'57 mentre la revisione procede con l'aiuto della moglie Harriet Taylor (cui il saggio è dedicato) sino alla sua morte all'istante precedente l'edizione, che è del 1859. Sulla libertà è certamente un classico del pensiero politico che, come tutti i classici, fa insorgere una serie di riflessioni e di problemi e, al contempo, un forte dibattito critico e discussioni mai sopite. Sin dalla sua edizione - dal 1859 al 1869 ne ha ben quattro – il libro attrae l'attenzione degli esseri umani colte. In questo giorno a distanza di quasi centoquaranta anni l’esegesi milliana ha perso quell'asprezza di toni che la prossimità alle vicende storiche aveva favorito, per riflettere sui grandi temi che l’ elaborato sollecita. Temi molteplici dato che Sulla libertà è uno scritto di filosofia politica, morale, e in parte di sociologia ed altresì perché Mill, con degno di nota anticipo sui tempi, propone un esame lucida, buona parte ancora attualmente attuale, sul ruolo dell’uomo, della società e dello Stato nelle moderne democrazie liberali. A ripresentarcela è Ornella Bellini, studiosa della filosofia inglese del Settecento e dell'Ottocento, che ha premesso al testo una chiara e succosa introduzione. In verità, la riflessione politica di Stuart Mill segna l’avvio del liberalismo verso la democrazia; ma egli, avendo assimilato la lezione di Alexis de Tocqueville, vide con chiarezza i due pericoli a cui la democrazia è esposta. Il primo è di carattere politico e consiste nell'oppressione esercitata sul corpo sociale da una maggioranza dove predominano gli interessi esclusivi di una classe o di pochi agitatori. La “tirannia della maggioranza” agisce attualmente pure negli Stati che hanno leggi liberali o lo fa mediante quelle deliberazioni che, benché votate dal Parlamento, sono lesive della libertà dei singoli e dei gruppi sociali; ma il suo veicolo ordinario è istituito principalmente dall'imposizione sistematica di atti che il potere fa eseguire per mano dei funzionari pubblici. Più ingannevole è la tirannia che la società medesima esercita non tanto con le leggi quanto con la routine, le consuetudini passive, il disorientamento di un'opinione pubblica plagiata da miti e pregiudizi. Da un certo punto di vista, la «tirannia sociale» è sufficientemente più grave di altri generi di sopraffazione politica. “Vi deve pur essere un limite - scriveva Stuart Mill nelle pagine introduttive - alla legittima interferenza dell’opinione comune sull’indipendenza individuale: e trovare tale limite, conservandolo contro ogni usurpazione, è fondamentale al buon andamento delle cose dell' uomini quanto la difesa contro il governo assoluto politico. La questione pratica di come decidere un organico aggiustamento fra l’indipendenza individuale e il controllo sociale è un argomento su cui quasi tutto resta da fare. Necessitano regole di condotta, sia mediante leggi appropriate, sia mediante movimenti di opinione pubblica nei molti campi che non si prestano all’azione delle leggi.”. Contro l'uno o l'a1tro pericolo necessita svolgere efficace azione di contrasto, se si vuol schivare quello spianamento verso il basso, che rende tutti gli individui analogamente mediocri. Alla schiavitù sociale deve contrapporre la libertà morale, la riscoperta da parte del maggior numero di cittadini della sfera intoccabile dell’io. Aperto all'influenza di Claude Henri Saint-Simon, creatore del positivismo in Francia, e per qualche tempo in relazione diretta con Auguste Comte, il filosofo inglese non seguì mai il socialismo dell’uno e alle dottrine politiche, di ben differente indirizzo, dell' altro; cercò, al contrario, a più riprese un punto d’incontro fra il liberalismo e il socialismo, perché la soluzione del problema sociale raggiungesse lo scopo di limitare il più possibile le ingiustizie, senza per questo far naufragare la libertà in un sistema politicamente autoritario. Bisogna tener distinti, per Stuart Mill, il processo che concepisce la ricchezza e quello che la riassegna nel corpo sociale. Il primo non può non tener conto delle leggi economiche, che sono quasi immodificabili; il secondo può Copyright ABCtribe.com 4 essere cambiato dalla volontà politica e morale. Stuart Mill si prefigge la soluzione della questione sociale anche da una serie di rimedi, quali l'elevazione delle classi lavoratrici mediante l’istruzione, la divisione della proprietà terriera, l'emigrazione e il contenimento delle nascite. Egli ha avuto il merito di aver capito che il problema di fondo della democrazia è la difficile intesa fra i valori di giustizia e di libertà. Rimane in ogni modo fermo il principio che l'azione dello Stato è sempre finalizzata alla libertà ed è solamente a difesa dei diritti dell'uomo che si giustifica l’intervento statale, assegnando ad esso nello stesso momento precisi limiti. Con l'onestà intellettuale che lo contraddistingue, Stuart Mill non può apprezzare che la rivoluzione liberale sia delimitata ed inficiata dal privilegio di classe. 2.2 La logica L'opera indispensabile di John Stuart Mill è il Sistema di logica deduttiva e induttiva. La logica per Mill è la "scienza della prova e dell' evidenza". Essa non si occupa delle verità che ci sono note per coscienza istantanea, come le sensazioni corporee, i sentimenti o gli stati mentali, ma riguarda soltanto le conoscenze causate da altre conoscenze "per via di inferenza ", verifica, vale a dire la validità della connessione fra più proposizioni all'interno di un ragionamento. In altre parole, la logica non si preoccupa di investigare la natura delle cose, ma si delimita ad organizzare i dati di esperienza in forma scientifica. Alle spalle delle ricerche logiche di Mill vi è pertanto una reale aderenza ai principi dell'empirismo e del positivismo, La prima operazione della logica è quella della denominazione, vale a dire dell'assegnazione di nomi alle cose ( non già, lockianamente, alle idee). Il linguaggio è uno strumento del pensiero prima tuttora che della comunicazione: perciò ogni indagine logica deve cominciare con un'osservazione del linguaggio. E' in tale quadro che m introduce una famosa ripartizione - ripresa poi, in differente modo, da Frege - fra termini denotativi ( o non connotativi) e termini connotativi. Si ha estensione quando un termine indica unicamente un oggetto, senza riferimento ad alcuna sua proprietà o attributo. Per esempio sono termini denotativi tutti i nomi propri. Quando "Giovanni, Paolo o Pietro", indico unicamente un individuo preciso, senza dare alcuna informazione che lo contraddistingui. Sono invece termini connotativi quelli che individuano una o più proprietà relative ad un soggetto. Tali sono le qualità: quando dico "bianco" o "razionale" indico la qualità che contraddistingue un determinato soggetto. Ma sono termini connotativi altresì i nomi comuni, i quali, oltre a denotare i singoli individui, implicano altresì l'indicazione delle loro qualità: per esempio il termine individuo denota i singoli individui umani, ma connota anche le qualità (razionalità, corporeità, una certa forma esteriore, ecc. ) che appartengono loro in quanto umanità. Tale ripartizione è considerevole non solamente per la classificazione dei nomi, ma pure per quella delle proposizioni che scaturiscono dalla composizione dei nomi. Quando un predicato esprime un concetto che è già connotato dal soggetto, la proposizione che risulta non fornisce nessuna nuova informazione. Per esempio, quando dico che gli esseri umani sono razionali, non amplio la mia conoscenza, dato che la nozione di razionalità è già contenuta in quella di individuo. In tale caso si parla di proposizioni verbali Copyright ABCtribe.com 5 che, similmente ai giudizi analitici di cui parlava Kant, sono indispensabili ma improduttive. Nelle proposizioni reali, al contrario, il predicato esprime una connotazione che non era contenuta nel soggetto e perciò si ha un vero reale, appunto, - allargamento della conoscenza. Ovviamente la distinzione fra la verbalità e la realtà concerne non solamente le singole proposizioni ma pure la loro connessione e pertanto investe il problema dell' inferenza ovvero, nel senso assai ampio che Mill dà a tale termine, del ragionamento. Affinché si abbia una vera inferenza - vale a dire affinché il ragionamento apporti conoscenza- necessita che la proposizione conclusiva sia "contenutisticamente" differente da quella di partenza e non una semplice modificazione verbale di essa. Ma quali sono gli strumenti logici per assicurare ciò? La logica tradizionale caratterizzava due strade: o l'inferenza dal generale al particolare mediante la deduzione e pertanto il sillogismo (inteso come forma indispensabile della deduzione) o l'inferenza dal particolare al generale mediante l'induzione. Mill intende presentare che esiste una terza strada che sta a principio di entrambe le strade tradizionali: l'inferenza avviene sempre dal particolare al particolare. Cominciamo con l'osservazione del sillogismo, adoperando il tradizionale esempio: "Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale". Se viene inteso come dimostrazione di tipo deduttivo, vale a dire se la conclusione "Socrate è mortale" viene ricavata dalle premesse, come il sillogismo pretende, esso implica inevitabilmente una petizione di principio, vale a dire contiene già nelle premesse quello che si deve dimostrare nella conclusione. Difatti nella introduzione maggiore "Tutti gli uomini sono mortali" è già detto che Socrate è mortale, poiché nell'espressione "Tutti gli uomini" è compreso altresì Socrate. Ciò nonostante il sillogismo può presentare qualche valore se non lo si considera solamente un metodo deduttivo. In altre parole, la premessa maggiore tutti gli uomini sono mortali non deve essere pensata il punto di partenza del ragionamento, ma invece il punto di arrivo di una serie di analisi particolari. Dal momento che sperimento che Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, posso pensare che altresì Socrate sia mortale e che tutti gli individui lo siano. In altre parole, la proposizione principale è una formula compendiosa di analisi particolari che è però espressa in termini generali, in questo modo da poter essere applicata pure a particolari non ancora osservati. In questa maniera le proposizioni generali non sono che il momento intermedio di una dimostrazione che va dal particolare al particolare, unendo alla serie dei particolari osservati il particolare cui si applica la conclusione. E, a riprova del fatto che nell'inferenza l’ accesso fondamentale è quello che va dal particolare al particolare e non quello che implica l'universale, Mill osserva che i bambini e gli animali sono in grado di fare inferenze senza passare mediante la enunciazione di proposizioni generali: una volta scottati, essi non si metteranno vicino più alla fiamma, pur senza formalizzare il principio generale secondo cui il fuoco accende. La tesi di Mill per cui qualunque inferenza parte dall'osservazione dei casi caratteristici poggia sull'assunto che qualunque nostra conoscenza ha un'origine empirica. Tutte le nostre generalizzazioni sono solamente formule originate da rassegne di casi particolari, testimoniati dall'esperienza. Le medesime verità della matematica sono realizzate mediante generalizzazioni di questo genere: alla loro base vi sono, in ogni modo, sempre esperienze caratteristici. Copyright ABCtribe.com 6 Gli oggetti della matematica, difatti, non sono diversi da quelli empirici, ma sono i medesimi oggetti empirici pensati facendo astrazione da alcune loro qualità: per esempio il punto geometrico è un punto empirico in cui si estrapola dall'estensione, in questo modo come nella linea si fa astrazione dall'aspetto delle lunghezza, e così via. Dalla critica che Mill conduce al sillogismo - dall'analisi di casi particolari si ricava una proposizione generale che sta a principio di una nuova proposizione particolare - si ricava che l'inferenza si basa non tanto sulla conseguenza, quanto sull'induzione. Adesso il procedimento induttivo che ingrandisce la nostra conoscenza non è mai l'induzione perfetta, vale a dire quella in cui si pensano tutti i casi relativi ad una sicura classe: in questo caso, difatti, non c'è un vero accrescimento di conoscenza e l'operazione conoscitiva, di puro carattere analitico, si diminuisce tuttora una volta a una "trasformazione verbale". Ad esempio, se dico: "Pietro (l'apostolo) era ebreo, Paolo era ebreo, Giovanni era ebreo" e così via, sino ad elencare tutti i dodici apostoli, per concludere "quindi tutti i dodici apostoli erano ebrei" in realtà la conclusione non aggiunge nulla di nuovo alle dichiarazioni sui singoli individui e non è che una riformulazione verbale. Differente è il caso della induzione incompiuta, che Mill chiama secondo la tradizione induzione per enumerazione semplice. In tale circostanza, dall'osservazione di un certo numero di casi particolari si assesta una qualità che è relativa a tutti gli uomini appartenenti a quella classe, altresì a quelli che non sono caduti sotto la mia esperienza. In questo maniera avviene quando si dichiara: "Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, quindi tutti gli uomini sono mortali. " Muovendo da particolare a particolare, io conseguo un'informazione su una qualità dell'intera classe che non mi è tuttora testimoniata dall'esperienza. Ma è proprio tale ampliamento della conoscenza che può rendere problematica la spiegazione della validità dell'induzione. Se si sperimenta soltanto un certo numero di circostanze individuali, come posso essere sicuro che le osservazioni fatte per essi siano validi pure per tutti gli altri casi non verificati? Per secoli gli europei hanno creduto che tutti i cigni fossero bianchi, dato che non avevano mai visto un cigno nero. In altre parole: se si procede sempre da particolare a particolare, che cosa assicura la validità della generalizzazione, vale a dire del passaggio dal particolare al generale? Mill ritiene che sussista un criterio per convalidare tale passaggio e lo ritrova nel principio dell'uniformità della natura, il quale trova a sua volta la sua migliore espressione nella legge di causalità indispensabile. Possiamo allargare alla totalità dei casi di una indicata classe le dichiarazioni fatte in base all'osservazione di un numero limitato di essi dal momento che congetturiamo che la natura sia ordinata da leggi, per cui a una condizione naturale debba inevitabilmente seguire un altro stato similmente determinabile. Copyright ABCtribe.com 7 Ciò nondimeno, è Mill medesimo ad scrutare che tale principio lungi dall'essere indipendente da qualunque induzione è anch'esso il frutto di un'induzione vale a dire di una generalizzazione di casi particolari. Ci troviamo pertanto dinanzi a quella che a molti è sorta una petizione di principio di principio, in quanto l'induzione trova il proprio basamento nel principio dell'uniformità della natura, il quale, a sua volta, si basa su un metodo induttivo. 2.3 Sociologia, psicologia e politica L'uniformità delle leggi della natura ha come conseguenza istantanea la possibilità di prevedere fatti futuri in base a quelli passati. "Noi crediamo" egli redige nel Sistema di logica "che lo stato dell'intero universo, a qualunque attimo sia la conseguenza dello stato di esso all'istante antecedente, di modo che uno che conosca tutti gli agenti che esistono al momento presente, la loro sistemazione nello spazio e tutte le loro proprietà - in altre parole le leggi della loro azione - potrebbe annunciare l'intera storia seguente dell'universo". Accettando del tutto l'assimilazione positivistica delle scienze dell'individuo a quelle della natura Mill allarga il principio delle prevedibilità degli avvenimenti futuri dall'ambito dei fenomeni naturali a quello delle azioni dell' uomini. Conoscendo il carattere dell'uomo e gli specifici moventi che operano in lui, è possibile determinare con certezza quale sarà il suo comportamento futuro. La scienza cui è affidato tale compito di previsione delle azioni dell' uomini, che dovrebbero poter essere determinate con la medesima precisione con cui l'astronomia annuncia i movimenti celesti è la psicologia. La dichiarazione della occorrenza e della conseguente prevedibilità delle azioni future non va tuttavia confusa con l'asserzione della loro fatalità. La necessità delle azioni dell' uomini implica solamente che fra determinate cause e determinate azioni ci sia una connessione costante, la quale, dati i primi, rende possibile immaginare le seconde. La fatalità causerebbe al contrario che alla radice delle azioni umane ci fossero moventi che agissero coercitivamente, costringendo l'individuo ad ubbidire ad una legge a lui estranea. In altre parole Mill ritiene che l'affermazione della occorrenza filosofica delle condotte dell' uomini vale a dire la loro prevedibilità in base a leggi universali, sia del tutto compatibile con quella della libertà dell'uomo. Se la psicologia si occupa della previsione delle azioni individuali la sociologia riguarda la definizione delle regolarità nei comportamenti collettivi e, di conseguenza, la intuizione degli eventi sociali futuri. Da Comte Mill mutua la concezione della scienza sociologica in termini di fisica sociale, e inoltre il concetto di sviluppo come criterio dell'evoluzione della società perfino da lui studiata nel suo aspetto dinamico oltre che in quello storico. Una volta specificata la legge del progresso storico sarà possibile determinare la serie degli eventi futuri, così come nell'algebra è possibile accrescere l'intera serie dei termini in base alla conoscenza del rapporto passante fra certuni di essi. La posizione di Mill differenzia invece chiaramente da quella di Comte per quanto riguarda la concezione dell' economia e della politica, esaminata nei Principi Copyright ABCtribe.com 8 di economia politica. Egli discerne fra le leggi della produzione economica che, come tutti gli altri fatti sociali ubbidiscono al principio della necessità naturale e le leggi della ripartizione che dipendono dalla volontà dell' uomo. Il diritto e il costume possono pertanto cambiare le regole distributive dando impulso ad una più equa allocazione dei beni e delle ricchezze. Mill desidera difatti una serie di riforme che si ispirino al principio utilitaristico del maggior benessere possibile e per il maggior numero di uomini. Fra l'altro egli è sostenitore di una maggiore equiparazione sociale dei sessi, della partecipazione dei lavoratori all'impresa, dell'estensione del diritto di voto, e inoltre della fondazione di cooperative di produzione. L'utilitarismo si sposa in lui con l'altruismo - e in ciò ritorna un’ indicazione comtiano -dal momento che egli ritiene faccia parte della felicità di un singolo la promozione di quella degli altri: aumentare la felicità altrui è difatti una delle maggiori causa del proprio piacere. Se l'esigenza di giustizia permette a Mill di valutare qualche merito del socialismo, l’ identificazione del valore intoccabile della libertà fa di lui un radicale oppositore di tale dottrina. In politica come in economia, Mill è testimoniato su posizioni di liberalismo radicale. Il suo pensiero economico-politico è sempre inteso alla rivalutazione dell'uomo e alla difesa degli spazi di libertà senza i quali nessuna iniziativa singolare può fiorire. Nel Saggio sulla libertà egli colloca alla base dell'ordinamento dello Stato la libertà civile che si discerne in tre risoluzioni: 1) la libertà di coscienza, di pensiero e d'espressione; 2) la libertà di inseguire la felicità secondo il proprio gusto; 3) la libertà di associazione. Di conseguenza, Mill è totalmente contrario a qualunque intervento dello Stato nella vita economica e sociale della nazione. Gli interventi dell' autorità pubblica nella sfera privata possono essere ammesse solamente laddove si tratti di difendere la lesione dei diritti di un individuo da parte degli altri. Il suo liberalismo non gli ostacolò ciò nonostante - come si è appena detto - di nutrire un forte sentimento sociale e di adoperarsi, sia pure su fondo individualistico, per una maggiore collaborazione e solidarietà fra i differenti membri della società. 2.3.1 L’etica e la politica . La logica di Stuart Mill non è fine a se stessa: i primi cinque libri del Sistema di logica sono preparatori al sesto, dedicato alla morale. Stuart Mill sorregge da un lato la libertà dell' uomo e dall’altro l’ opportunità filosofica: la quale contiene che se noi conosciamo “a fondo la persona e se conosciamo tutti i moventi che agiscono su di lui, possiamo predire la sua condotta con la stessa certezza con cui possiamo predire qualsiasi evento fisico”. La scienza della natura dell' uomo consisterà allora nel poter predire la condotta futura di un uomo con la medesima certezza con cui l’astronomia predice i movimenti degli corpi celesti. Questa scienza è la psicologia. Adesso, sulla psicologia e sulle sue leggi si basa quella che Stuart Mill Copyright ABCtribe.com 9 chiama etologia, che non è quella scienza adesso diffusa che concerne la condotta degli animali nel loro ambiente, ma studia le leggi della formazione del carattere. L’etologia corrisponde per questo all’atto dell’educazione nella sua accezione più ampia, sia del carattere individuale e sia del carattere sociale o collettivo. In campo politico, egli ha in comune del socialismo il riconoscimento e la condanna delle ingiustizie sociali, mentre desidera in ogni modo proteggere, col liberalismo e l’utilitarismo, la libertà particolare. L’individuo prende come guida per la sua condotta la propria felicità, vale a dire il piacere e l’assenza del dolore. Ma l’ attitudine dell’uomo verso la propria felicità ha in sé sempre la tendenza verso la felicità altrui. Il progresso dello spirito dell' individuo allarga il sentimento dell’unità che lega un individuo a tutti gli altri. Le parole dell’azione del governo negli affari economici sono richiesti dall’esigenza che vi sia “nell’esistenza umana una roccaforte sacra, sottratta all’intrusione di qualsiasi autorità”. L’intervento di una autorità qualsiasi nel comportamento di un singolo non può essere giustificato se non nella dimensione in cui tale azione è giustificata dalla difesa degli stessi diritti individuali. Il che non gli ostacola in qualunque maniera di difendere tutta una serie di misure (un sistema nazionale di educazione, uno schema nazionale di immigrazione e di colonizzazione, una legge limitativa sui matrimoni ecc.) che dovrebbero avere il fine di assegnare più giustamente la ricchezza o di rendere migliori le condizioni del popolo. 2.3.2 La religione e la schiavitù delle donne Nei saggi postumi rivolti al problema religioso, Stuart Mill pensa che una divinità esista e che la sua esistenza possa essere comprovata dall’argomento finalistico. L’ordine della natura non può che essere stato prodotto da uno spirito enormemente intelligente in vista di un fine. Tale argomentazione persuade Stuart Mill perché è, secondo lui, di carattere induttivo e possiede pertanto la sicurezza di qualunque induzione. Ma quali sono le altre caratteristiche della divinità, sempre procedendo per induzione? Che il creatore del mondo debba avere una importanza e una intelligenza superiore è palese; ma non è similmente manifesto, secondo Stuart Mill, che debba essere dotato di potere grandissimo e di onniscienza. . In altri termini, la concezione della divinità di Stuart Mill è quella di una specie di architetto del mondo. A parte questo, la religione è fonte per l’individuo di profonda contentezza personale e di sentimenti elevati. Sino a quando la vita umana sarà insufficiente a contentare le aspirazioni umane, ci sarà sempre l’aspirazione per le cose più alte e per un conforto più duraturo la quale trova la sua contentezza più ovvia nella religione. Più che ad una concezione metafisica di un Dio molto influente, l’uomo moderno guarda a Cristo, al Dio incarnato, divinizzato dalla cristianità, dall’entusiasmo prima dei discepoli e poi dalle speculazioni della filosofia. C’è una possibilità che Cristo fosse in realtà quello che egli credeva di essere; non però Dio, perché egli non procedette mai tale pretesa (per Stuart Mill), ma un individuo che ebbe da Dio l’incarico del tutto Copyright ABCtribe.com 10 speciale di portare l’umanità alla verità e alla giustizia. Per terminare si cita di John Stuart Mill ancora un’opera, dal titolo “La schiavitù delle donne” (1869), che rivela un individuo intimamente convinto della parità del valore dei sessi. Nella sua Autobiografia, Stuart Mill afferma sinceramente che “le parti più incisive e profonde appartenevano a mia moglie e provenivano dalle idee, ormai comuni ad entrambi, scaturite dalle innumerevoli conversazioni e discussioni su un argomento che occupava un così ampio spazio nelle nostre riflessioni”. Stuart Mill sorregge che la subordinazione delle donne agli uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano. Ci dovrebbe essere al contrario una perfetta uguaglianza, senza potere o vantaggio da parte di un sesso sull'altro. A chi oppone che è naturale che le donne siano sottomesse agli individui, risponde dicendo che è un'idea priva di principio, anche perché, aggiunge con una logica stringente, se si sostiene che la dottrina dell'uguaglianza dei sessi si basa solamente sulla teoria, va ricordato che la dottrina contraria ha anch'essa la stessa base! Il sistema attuale che sottomette il così chiamato “sesso debole” a quello cosiddetto forte è spuntato perché, dagli albori della società umana, ciascuna donna si era trovata in balìa di qualche individuo. Non basta: leggi e sistemi politici hanno mutato un puro e semplice fatto fisico in un diritto legale, infondendovi la sanzione della società. Il matrimonio è il destino che la società conferisce alle donne, l'avvenire al quale si istruiscono e la mèta verso cui tutte dovrebbero mettersi in movimento, tranne quelle troppo poco seducenti per essere scelte da un individuo quali sue compagne. “Mi piacerebbe, dice Stuart Mill, udire qualcuno che enunci apertamente questa dottrina: è necessario per la società che le donne si sposino e facciano figli. Ma non lo farebbero se non vi fossero costrette. Pertanto è necessario obbligarvele”. È pertanto un egoismo istintivo, di cui gli individui si sono serviti per tenerle in soggezione, facendo apparire alle donne la dolcezza, la sottomissione e la remissione di qualunque volontà individuale all'essere umano come un aspetto sostanziale dell'attrattiva sessuale. In conclusione, un essere umano per il solo fatto di essere venuto al mondo maschio al contrario che femmina ha acquisito un diritto di superiorità su ogni componente dell'altra metà della specie. E non giova neanche sostenere che la natura dei due sessi li indirizza a posizioni da una parte di dominio e dall'altra di assoggettamento. Certamente le donne sono differenti dagli uomini, ma differenze fisiche o mentali sono presenti anche nei maschi: non sussistono due persone uguali! “Io nego, continua Stuart Mill, che qualcuno possa conoscere la natura dei due sessi, visto che quella che viene oggi chiamata la natura delle donne è un prodotto altamente artificiale: il risultato di una repressione forzata in alcuni casi, di una stimolazione innaturale in altri”. E si consente anche una battuta: se la situazione più benevolo in cui l'individuo può studiare il carattere di una donna è per forza di cose quella coniugale, allora siamo destinati ad avere una conoscenza del tutto incompleta e superficiale dell'universo femminile, visto che qualunque persona può rendere conto di una donna soltanto! Qual è allora la soluzione? Vivere unitamente come eguali. In fondo, è Copyright ABCtribe.com 11 il medesimo mondo moderno che ce lo chiede: qual è difatti il carattere particolare del nostro tempo? (Si ricorda che il pensatore inglese parlava a metà dell'Ottocento). È che gli esseri umani non vengono al mondo più nel posto che occuperanno tutta la vita, non vi restano incatenati da un vincolo inseparabile, ma sono liberi di utilizzare le loro facoltà, e di sfruttare le circostanze favorevoli che si offrono, per rincorrere il destino che appare loro più desiderabile. Ma se è vero, dovremmo agire di conseguenza e non statuire che nascere femmina anziché maschio, nero invece che bianco, popolano anziché nobile, debba decidere la posizione di una persona per tutta l’ esistenza. C'è però un'altra conseguenza: una perfetta uguaglianza implica altresì l'ammissione delle donne a tutte quelle funzioni ed occupazioni che sinora erano ritenute monopolio del così chiamato “sesso forte”, altrimenti che uguaglianza sarebbe? Tutto ciò non deve fare paura agli uomini: vi sarebbe anzi un beneficio manifesto, che è quello di rendere doppia la massa di capacità mentali per i fini più elevati dell'umanità! In conclusione, se individui e donne lavorassero insieme il genere umano farebbe progressi più in fretta e meglio. La lezione di Stuart Mill credo insomma sia tale: si tratta, in conclusione, di renderci libero da tanti preconcetti reciproci e dalle intolleranze che, nella mentalità corrente, sono tuttora vivi. 2.3.3 Utilitarismo delle norme Condizionato dall’utilitarismo di Jeremy Bentham, Mill è persuaso che, vicino ai piaceri di natura fisica, ce ne siano altri, spirituali e intellettuali: questi, se non altro per il dotto, hanno intensità certamente superiore rispetto ai primi. In questo modo, Mill abbandona la “quantificazione del piacere” (il piacere è misurabile solamente se riferito alla sensibilità) e arriva a sorreggere apertamente la natura qualitativa dei piaceri. Anch’egli, come gli altri utilitaristi, è persuaso che il motore dell’agire umano sia il piacere, inteso però in maniera qualitativa: viene in questo modo a cadere l’accusa di quanti liquidavano l’utilitarismo come mera riproposizione dell’etica epicurea. Su tale scia, Mill discerne attentamente fra “soddisfazione” (della quale si accontentano gli animali) e “felicità”, tipica degli individui e contraddistinta da un senso di realizzazione implicante la soddisfazione di piaceri intellettuali. Mill critica Bentham calunniandolo di non aver considerato i piaceri intrinsecamente, ma sempre solo per le loro conseguenze accidentali. L’introduzione dell’elemento qualitativo fa sì che la Copyright ABCtribe.com 12 matematizzazione dei piaceri fatta da Bentham sia difficilissimo: la conclusione è che la stima dei piaceri qualitativamente intesi sfugge alla calcolabilità e al cognitivismo etico; l’utilitarismo dell’azione di Bentham cede il passo ad un utilitarismo della norma. Quest’ultimo conserva il principio per cui le azioni devono essere stimate in base alle conseguenze, ma nella coscienza che, perché quello sia possibile, si debbano impiegare regole immagazzinate mediante esperienze pregresse. Tale mossa teorica consente a Mill di difendersi dall’accusa tradizionalmente mossa all’utilitarismo, accusa secondo la quale esso sarebbe inapplicabile dato che destinato a restare in un’insuperabile condizione di attesa di verifica delle conclusioni di qualunque azione. Le norme con cui secondo Mill deve operare l’utilitarismo gli consentono di scansare le secche dell’attesa inattiva e, al tempo medesimo, gli procurano criteri operativi diversi all’algebra dei piaceri. Tali norme sono, in definitiva, il risultato dell’esperienza che l’individuo ha realmente fatto a partire dalla preistoria per arrivare sino ad oggi. Con l’utilitarismo delle norme diviene però difficoltoso riconoscere quali siano le azioni positive, nella misura in cui il piano del piacere è passato al piano qualitativo e soggettivo e travolge tutta un’esperienza storica. A tale punto, Mill introduce il senso del dovere come costituente interna all’uomo che lo esorta ad agire in un specificato modo: è difatti il senso del dovere che fa sì che io stimi come positiva un’azione sulla base del patrimonio storico sedimentato nella mia coscienza. Questo senso del dovere non deve essere confuso con l’imperativo categorico kantiano, che tralascia dalle determinazioni storiche e ha un valore totalmente aprioristico: il senso del dovere di cui dichiara Mill ha una sua storia, si basa sull’utile, ha origine da un sentimento poggiante su tutte le esperienze passate traspostesi in dimensione coscienziale. In tale maniera, Mill si sta avvicinando improvvisamente al “sentimento morale” di Hutcheson, secondo cui vi sono azioni che non piacciono istantaneamente al mio sentimento morale e vanno per questo incontro a una condanna morale. 2.3.4 John Stuart Mill: sulla libertà di discussione e di pensiero “Ci sono stati, e potranno esserci, grandi singoli filosofi in una generale atmosfera di servitù mentale. Ma in una simile situazione non c’è mai stato, né mai ci sarà, un popolo mentalmente attivo. Là dove vi è un tacito consenso per cui i principi non devono essere messi in dubbio, là dove la discussione sui problemi più importanti dell’umanità è da ritenersi chiusa, non possiamo sperare di trovare quel livello solitamente alto di attività mentale che ha reso pertanto straordinari alcuni intervalli della storia. In nessun caso, quando la discussione ha evitato argomenti così ampi e importanti da suscitare entusiasmo, l’intelligenza di un popolo è stata stimolata nelle sue radici o le è stato dato quell’impulso che conduce altresì le persone intellettualmente meno dotate a partecipare in qualche maniera alla dignità di essere pensante”. John Stuart Mill redige “Sulla Libertà” nel 1859 e in un capitolo preciso prende in considerazione la problematica della libertà di pensiero, di opinione e di dibattito. Tale lezione s’inserisce in un ambito italiano in cui il rischio di un'assuefazione è molto alto nei confronti della gestione della “Res Publica”. E’ augurabile dice Mill, che sia passato il tempo in cui era indispensabile la difesa della libertà di stampa Copyright ABCtribe.com 13 come una delle garanzie indispensabili del buon andamento della politica. Per prima cosa difatti, bisogna sempre considerare che l’opinione che eventualmente si cerca di tacitare possa essere vera. Pertanto, non consentire che su di essa si discuta, corrisponderebbe a negare a priori la sua verità. In questo modo facendo, si pone l’impossibilità ad ogni altro di stimare. Rifiutare di prestare ascolto ad un’opinione perché sicuri che sia falsa, corrisponde a pensare che la propria convinzione sia una realtà assoluta e quello rappresenta una pretesa di infallibilità. Ma la tendenza generale degli individui è purtroppo quella di considerare in tal maniera il proprio mondo, il quale al contrario è fallibilissimo tanto quanto il singolo uomo. Proporzionalmente alla mancanza di fiducia nel proprio giudizio individuale, ci si fonda di solito con fede implicita, sulla correttezza del mondo in generale. Ma con quest’ultimo si intende la parte di esso con cui si sta in contatto: il partito politico, la setta, la chiesa, la classe sociale. Pertanto il mondo risulta essere tanto vasto quanto il proprio stato o la propria età. Non c’è necessità neppure di tirar fuori una teoria particolare per dimostrare che le epoche non sono più infallibili degli uomini e che solamente il puro caso ha determinato quale mondo sia oggetto della fiducia personale di un individuo. Occorre mettere in risalto in realtà, che la libertà di poter confutare la propria opinione, è la condizione indispensabile per supporre la verità della medesima, in vista dell’azione. Questa, è a giudicare di Mill, l’unica strada per un essere umano di assicurarsi logicamente di essere nel giusto. L’individuo ha una qualità mentale singolare, la capacità di perfezionare i propri errori. Ciò può accadere solamente però mediante la discussione e l’esperienza. La prima è indispensabile perché serve ad indicare come la seconda debba essere intesa. La costante consuetudine a rifinire le proprie opinioni raffrontandole con quelle degli altri, costituisce l’unico fondamento per una giusta fiducia in esse. Le obiezioni e le difficoltà non devono essere evitate. Questa è l’unica strada che consente ad un essere fallibile di conseguire una data certezza. Per cui è assai strano, spiega Mill, quando si osserva che sebbene una materia, una dottrina o dei principi tipici siano necessariamente suscettibili di dubbio e pertanto aperti per natura ad una libera discussione, vengano piuttosto esclusi dalla critica in quanto certi o valutati tali da chi li sostiene. “Nell’epoca presente- un’età che è stata rappresentata come priva di fede, ma terrorizzata dallo scetticismo” , le pretese di un’opinione ad essere mantenuta da attacchi pubblici, non si fondano tanto sulla sua verità, quanto piuttosto sulla sua importanza per la collettività. Pare ci siano, riporta Mill, particolari credenze ritenute pertanto utili o perfino indispensabili al benessere di tutti che è dovere del governo sorreggerle negli stessi termini in cui si difende ogni altro interesse per la società.Tale modo di pensare porta con sé che la giustificazione dei limiti imposti alla discussione divieni una questione non di verità, invece di utilità delle dottrine. Ma è chiaro che il porre in essere l’utilità di una opinione è già materia di discussione e di conseguenza necessitante di dibattito come tutte le altre soluzioni. In tale caso, coloro che sorreggono la non esigenza di un dibattito, non si rendono conto che la pretesa di infallibilità viene soltanto trasferita da un punto all’altro con relativo alleggerimento delle coscienze. Purtroppo,non sono soltanto le menti degli “eretici” a venire maggiormente rovinate dalla messa al bando di qualsiasi analisi speculativa che non si concluda con risultati conformi all’ortodossia: il danno più grande lo ricevono coloro i quali non sono eretici e il cui pieno sviluppo mentale viene in questo modo bloccato. Copyright ABCtribe.com 14 La verità non guadagna nessuna cosa da chi accetta delle opinioni soltanto per togliersi il disturbo di pensare. Inoltre, l’assenza di un dibattito pubblico causa l’inconoscibilità dei fondamenti della materia di cui si sta parlando e finisce che ci si scorda anche del suo medesimo significato. Le parole che la esprimono e la designano non rammentano più immagini mentali e idee. Si provoca piuttosto un male intellettuale quando la carenza di una libera discussione ha lo scopo di lasciare gli individui nell’ignoranza dei principi di un’opinione in esame. Per tutto questo, lasciamo che l’ostilità al progresso sia una pratica e un aspetto da cui trarre lezione, non uno stadio da riesumare. 2.3.5 Il pensiero politico filosofico di John Stuart Mill Il problema della conciliazione fra liberalismo e democrazia è concepito da Mill come la immissione per una filosofia politica nuova, che attenta alle ragioni dell’individuo tenesse ugualmente presenti quelle della collettività. La chiave di volta non è tanto il pur fondamentale studio della politica e della collettività, ma la considerazione dell’interesse della rappresentanza politica nella veste di suffragio universale con sistema proporzionale: difesa della partecipazione democratica insieme alla libertà dell’uomo e delle minoranze. Con gli articoli sulla “London& Westminstre Review”, Mill si stacca dal giovanile e radicale benthamismo, facendo fronte al tema della democrazia come sequenziale riforma, attraverso il consenso del popolo manifestato in proposte discusse dai partiti in un pubblico dibattito Entusiasta agente della rivoluzione di Luglio (era a Parigi in quei giorni), ma altresì attento ai significati e alla eredità della RF 1989, sorregge il progetto girondino – sebbene piegato dal giacobinismo e dal bonapartismo – che doveva riprendere vigore coll’ apporto di una middle class, che avrebbe contribuito al radicamento di tale tendenza parlamentare progressiva. La libertà, bene ineliminabile ed incedibile, si esprime nella miglior maniera dove le riforme politiche e sociali sono decise da una maggioranza rappresentativa correttamente elevata quanto politicamente attenta al rispetto dei gruppi minoritari. Mill aveva in mente una mobilitazione graduale di tutte le componenti della società, al fine di produrre una élite di governo tanto subordinata al controllo dal basso, quanto capace per le scelte operative. 1) Il sistema di lista non deve annebbiare il ruolo delle minoranze (proporzionalismo). 2) Si deve mettere in moto un processo largo di riforma morale della società che metta fine ai privilegi. Smontati nel 1832 i borghi putridi, la difesa della libertà dell’uomo diviene un obiettivo concreto, tanto più se a prendere le gestione del governo è un Reform Party che Mill propone nella rivista come componente da riorganizzare e rafforzare; fino alla formazione di una classe dirigente colta, e un ulteriore allargamento del diritto di voto. La visione ciclica della storia è di tipo sansimoniano, ma chiaramente differente nella conclusione, perché una collettività che si propone si attuare obiettivi impossibili arrischia di cadere nelle braccia del dispotismo: immaginando una democrazia perfetta, non si erano messi i francesi sotto una Copyright ABCtribe.com 15 dittatura militare? Gli interventi di governo devono essere progressivi, e sono le istituzioni di governo a doverli attuare, nel rispetto delle procedure costituzionali. L’idea di governo indicativo è altresì un’idea regolativa, la cui radice sta nel Sistema di Logica 1843, scritto di lunga preparazione in cui il riformismo politico si manifesta per mezzo della persuasione filosofica secondo cui i processi culturali sono soggetti a lenta maturazione, e sono destinati a concludersi in maniera positiva (progresso generale della società). Qui è chiara l’influenza della filosofia di Comte (quasi anonimo in Francia, molto famoso in Uk), con cui Mill immette subito in contatto epistolare: il positivismo francese, rifatto in chiave antimetafisica, rincuora Mill al riformismo e alla filosofia dell’esperienza, non diminuita ad empirismo pratico ma come via per avere accesso alle scienze e alle regole di comportamento comuni: per mettere in piedi istituzioni stabili, rappresentative degli orientamenti politici e dei sentimenti morali. La nuova filosofia politica doveva del tutto liberarsi dai pregiudizi metafisici ma se il governo è un’idea regolativa, il padre James considerava più completamente che esso fosse un cuneo da piantare nel fianco dell’aristocrazia. 1) L’incremento dei risultati per Mill può avere luogo con la predisposizione di adeguate misure formali di garanzia contro qualsiasi possibile esuberanza di potere da parte dei legislatori e dei giudici. 2) L’incremento del fattore morale avviene, per come pronunciava Montesquieu, essendo il popolo particolarmente adatto a scegliere i rappresentanti al contrario che a governarsi da sé. In astratto, un governo popolare sarebbe senz’altro da preferire, ma dal momento che il popolo non è capace di gestire direttamente gli affari di stato, è bene affidare tale compito alle individui più istruite e competenti, le quali incaricheranno la loro responsabilità politica mediante la conquista del mandato rappresentativo. Gli istituti politici liberal-costituzionali devono essere portatori di un forte fattore educativosociale, come antidoto al dispotismo della maggioranza o in qualunque modo la dominio di capi politici incompetenti. Le tesi di Tocqueville, che Mill recensì per tutti e due le versioni della Democrazia in America, aprivano questioni non eludibili, in particolare due: a) il rigetto del mandato imperativo, dal momento che i deputati godono di una questa fiducia che li rende per definizione liberi di agire. b) la possibilità per le minoranze non soltanto di accedere alle assemblee rappresentative, ma di esservi n queste la pattuglia più avanzata: i migliori componenti per capacità intellettive e qualità morali convincerebbero il paese a compiere le scelte più giuste il montare della protesta – in Uk anticipata col Cartismo – impegnava i pensatori politici ad aggiornare la loro concezione di libertà, non solamente in base al crescere delle condizioni economiche, ma persino in base ad una nuova scienza politica, orientata a coesistere se non a mescolarsi con una nuova scienza della collettività. 2.4 Le critiche tratte dal pensiero di Mill 2.4.1Critica all'apriorismo, l'esperienza come fondamento e alla logica Copyright ABCtribe.com 16 Nella visione filosofica di Stuart Mill è basilare l'idea che il senso autorevole della verità è da ricercare unicamente nei fatti e nei dati dell'esperienza, essi soli capaci di esprimere la certezza. Da tali considerazioni deriva la critica che Mill rivolge a qualunque forma di conoscenza apriori autonomo dallo sviluppo dei fatti. La conoscenza a-priori è quel tipo di conoscenza che formula teorie a prescindere dal modo in cui la realtà si mostra (a-priori, prima dell'esperienza). Forme di conoscenza apriori, che eliminano dai loro processi il progresso concreto dei fatti, sono le metafisiche e la religione, le quali intendono dare del mondo una concezione stabile, fissità che non tiene perciò conto della varietà dei fenomeni materiali e contingenti che si mostrano nel mondo. Dalla critica all'apriorismo, si passa inevitabilmente a una critica della logica classica, ovvero alla forma definita di conoscenza a-priori per eccellenza. Una critica che Stuart Mill indirizza alla validità della logica classica percorre i sentieri già battuti dal nominalismo: le parole che individuano un senso universale non si connettono con un essenza concreta delle cose ma rappresentano solamente il nome con il quale si indica un certo gruppo omogeneo di cose empiriche e fattuali. Ad esempio, la parola "perfettissimo" non designa l'esistenza reale di qualche cosa che è perfetto, ma soltanto la qualità delle cose che presentano "perfettissime" in relazione a indubbie conoscenze; similmente, la parola "cane" non si riferisce a un'essenza canina veramente esistente in maniera concreta, ma è soltanto la parola che designa un certo genere di animali che mostrano tutti le medesime peculiarità empiriche. La radice della idea nominalista di Stuart Mill sta nel fatto che un'essenza comune agli uomini - un universale che abbia esistenza oggettiva più o meno separata dall'esistenza dell'uomo come tale - si costituisce come una struttura a priori, che presume di rimanere immobile nel flusso dell'esperienza e che finisce con l'opporsi alle valutazioni che gli uomini possono mostrare nell'esperienza, e col ricondurre queste variazioni al proprio contenuto, dato una volta per tutte. Alla luce di questo, anche la forma delle astrazioni logiche non possono avere nessuna validità assoluta che faccia rapporto a un'essenza assoluta. La frase "tutti gli alberi sono di legno" non indica difatti che tutti gli alberi sono costituiti da un'essenza lignea esistente al di là del fatto empirico, ma significa che, sulla base delle analisi compiute dall'essere umano in ragione della sua esperienza, tutti gli alberi si presentano legnosi dal fatto che l'esperienza afferma una sicura frequenza nel scorgere alberi fatti di legno e non di un altro materiale. I postulati della logica, ovvero le verità indubbi ed evidenti come il fatto che gli alberi sono fatti di legno, si basano non su una relazione indispensabile con qualche essenza metafisica (al di là del mondo dell'esperienza) ma sul processo di universalizzazioni delle analisi empiriche proprio dell'induzione, la quale da un numero riprodotto di osservazioni identiche, basa la legge che parifica siffatte osservazioni. La logica non si fonda pertanto, per Stuart Mill, sulla relazione indispensabile con essenza metafisiche, ma sul rapporto più concreta e possibile di cambiamento che si viene ad istituire con i fatti della effettività empirica. 2.4.2 Invalidità del sillogismo e critica all'induzione Copyright ABCtribe.com 17 Congiuntamente alla validità generale della logica viene a decadere pure la validità universale del sillogismo. Si pigli il sillogismo tipo Tutti gli esseri umani sono mortali [premessa], Socrate è un essere umano [termine medio], pertanto Socrate è mortale [conclusione].Si è visto come per Stuart Mill alcuna dichiarazione può poggiare sul valore assoluto di un concetto che manifesta l'universale. La premessa del sillogismo ha in sé che tutti gli oggetti che appartengono ad una certa classe (gli esseri umani) abbiano per forza una certa qualità (essere mortali). Ma se i postulati della logica non si basano su verità metafisiche (gli universali) ma solo sui dati dell'esperienza empirica (la consuetudine ad osservare la mortalità degli individui), si vede come sia impossibile basare la premessa su un qualunque valore di verità.L'asserzione che "Tutti gli uomini sono mortali", contiene allora che si sappia già che Socrate sia un mortale, dal momento che egli è un individuo, e rientra in quell'insieme di studi empirici necessarie a dare forma all'assioma per via induttiva. In questo modo la premessa in verità non è una premessa, ma è solamente la conseguenza dell'osservazione ripetuta per cui è possibile affermare che "Socrate è un mortale perché è consuetudine osservare che gli esseri umani sono mortali, consuetudine confermata dal fatto che Socrate muore". Ecco che Socrate, come mortale, non è risultato della premessa ma un fatto che va a decidere la verità della premessa medesima. Il processo di induzione consente di far derivare teorie valide solitamente dall'osservazione ripetuta di un certo fenomeno. Per esempio, tutte le fragole sono rosse dato che viene considerato in natura il fatto ripetuto per cui le fragole mature hanno una colorazione rossa. Stuart Mill critica la possibilità propria dell'induzione di essere messaggera di verità assolute. Se la teoria generale derivante dal metodo induttivo si basa sull'osservazione ripetuta di certi fatti concreti ed empirici, l'induzione non è il passaggio dal particolare al generale, ma soltanto da un particolare all'altro. Difatti, la conclusione universale che intende provare un comportamento generale su base statistica limitatamente alla frequenza con la quale un fatto si ripete, non è altro che una semplice addizione di unici casi presi in analisi. In sostanza, la certezza propria dell'induzione di essere un processo che va a formare verità generali, viene meno, infatti l'induzione non può escludere che un singolo caso che va a formare la legge generale invalidi da un momento all'altro la teoria con il suo comportamento contrario a quello degli altri casi. Ad esempio, se un giorno un oggetto tendesse a cadere dal basso in alto, saremmo costretti a invalidare la teoria della gravitazione universale, poiché nulla impedisce, potenzialmente, di osservare tale comportamento ribelle (ciò che lo impedisce è la sola osservazione induttiva della generalità degli altri casi, ovvero la stessa induzione oggetto di critica).Da rilevare ciò nonostante che l'induzione resta uno strumento necessario alla scienza per registrare sinteticamente un insieme di analisi omogenee. Ciò che critica Stuart Mill non è la validità relativa e specificata dell'induzione, ma la sua pretesa di basarsi a verità assoluta utile per tutti i casi non ancora studiati. Copyright ABCtribe.com 18 2.4.3 Critica al principio di causa ed effetto Nella critica a qualunque forma di teorizzazione aprioristica fa parte anche quella al principio di causa ed effetto. Se, come visto, nel processo induttivo non possiamo dichiarare con sicurezza che un fatto ripetuto un sicuro numero di volte vada a formare la legge generale di regolarità, allora nemmeno il principio per cui dati certi stati, in indicate condizioni, conseguono determinate conseguenze (il principio che dichiara la congiunzione fra cause ed effetti) può essere valido. La legge di causalità non è una verità a priori (come per Kant) e nemmeno un istinto dell' uomo (come per Hume). La legge di causalità è una conclusione di un processo induttivo (come si è visto, privo di validità aprioristica) che divulga i casi di molti altri processi induttivi inferiori. In sostanza, noi dichiariamo che tutto ha una causa prendendo come principio dell'affermazione tutte le innumerabili divulgazioni dei casi formulate per via induttiva. Ma, come si è visto, le generalizzazioni in realtà non possono essere viste come verità assoluta, ma come attitudine dei singoli casi ad avvalorare la generalizzazione. Ritorna sempre la critica, pertanto, per cui l'enumerazione dei singoli casi particolari non possono in verità ad andare a formare una verità assoluta, dal momento che i singoli casi non possono spingere a formulare, per via statistica, una verità che al contrario dovrebbe avere valore assoluto, per tutti le singole ipotesi ma si è visto come la possibilità che un singolo caso confuti la legge generale è sempre aperta e non escludibile. 2.4.4 Critica all'assolutismo determinista del positivismo Alla luce di quanto detto sino a qui, il pensiero filosofico di Stuart Mill non può che entrare in contrasto con l'atteggiamento positivista sostenuto da Comte, il quale concepiva la scienza come l'unica disciplina inevitabilmente deterministica, l’ unica disciplina in grado di determinare i fatti secondo regole assolute e decisive. Ma il determinismo della verità non possiede quel carattere di assoluta necessità che tuttora gli viene assegnato da Comte, ma è esso stesso un fatto, che esiste ed è probabile che si perpetui, ma che è possibile che si modifichi e che venga a cessare. In sostanza, la possibilità che un'esperienza si ribadisca in maniera assoluta date certi presupposti non può essere assicurata da alcuna conoscenza certa, dal momento che, come si è visto, le certezze della scienza si fondano sul meccanismo incompleto dell'induzione, che non potrà mai dichiarare la validità assoluta di un avvenimento e di un fatto, dal momento che non potrà mai verificare la totalità dei casi, dovendo eliminare inevitabilmente dal computo quelli che ancora non sono capitati. Pertanto, alla luce di tale critica all'assolutismo determinista, la scienza non potrà presentarsi come conoscenza risolutiva basata su assiomi stabili, ma come scienza che conosce il carattere provvisorio e relativo delle proprie generalizzazioni induttive, e che pertanto, riconoscendo il carattere di tentativo delle proprie previsioni, riconosce al divenire dell'universo la capacità di scombinare i modelli conoscitivi. Copyright ABCtribe.com 19 2.4.5 Contro l'assolutismo sociale Stuart Mill, proprio come critica l'assolutismo determinista del positivismo, critica pure qualunque possibile forma di assolutismo sociale adoperando lo stesso ragionamento. I comportamenti dell'individuo sono in sostanza prevedibili soltanto nella dimensione in cui ne facciamo esperienza: la psicologia e la sociologia, per esempio, potranno immaginare gli atteggiamenti psicologici e sociali sono in rapporto all'esperienza raccolta in passato sul comportamento degli uomini e delle masse, la possibilità però che questi atteggiamenti, in una determinata condizione, non fissino con le previsioni, comporta che le discipline debbano adattarsi ai nuovi fatti. Non è possibile difatti prevedere in modo certo e in alcuna maniera il comportamento dell'individuo con quella chiarezza richiesta dai sistemi deterministici. La realtà concreta dell'essere umano è subordinata a una irriducibile dinamicità, per cui i motivi che muovono l'individuo ad agire in un certa maniera non potranno mai essere oggetto di ipotesi scientifiche assolutamente deterministiche. Questa verità comporta la negazione da parte di Stuart Mill di qualunque ordinamento sociale e politico che tenda ad esercitare un controllo assoluto sull'individuo, dal momento che andrebbe contro l'evidenza che desidera l'individuo soggetto caratteristicamente dinamico e libero da qualsiasi tentativo di riduzione ad una immobilità. Con ciò, Stuart Mill salva l'originaria natura dell'essere umano, il quale, subordinato al mondo dei puri accadimenti, è fondamentalmente libero da qualunque legge di fissità della realtà, costituendo una testimonianza salda del cambiamento possibile e del divenire proprio del mondo. Stuart Mill dichiara poi, avviando dall'utilitarismo di Bentham, che nel suo agire l'individuo tende a massimizzare il piacere e ridurre il dolore, ma, a differenza da quanto sorretto da Bentham, non si chiude entro il puro egoismo, ma è spinto ad aspirare la felicità altrui come costituente potenziale della propria. Lo sviluppo dell'intera umanità tende a presentare (per via induttiva) che la tendenza nelle collettività è quella di tenere sempre più presente le ambizioni degli uomini, le società tendono pertanto a un generale sviluppo delle condizioni di esistenza dell'individuo. 2.5 Mill e la divisione del lavoro Nei suoi "Principi di economia politica" (Capitolo VIII), John Stuart Mill recupera molti punti dell'osservazione smithiana sulla divisione del lavoro. Trova di nuovo posto il corrispondente tra aumento della divisione del lavoro e aumento della produttività, e vengono ricondotti i motivi che, a seguito della divisione del lavoro, indicano una maggiore efficienza lavorativa: 1) ampliamento della destrezza di ogni operaio; 2) risparmio di tempo dato che non si deve passare da un lavoro all'altro; 3) ideazione di un gran numero di macchine. Copyright ABCtribe.com 20 Riguardo a tali due ultimi punti, Stuart Mill presenta alcune considerazioni critiche su cui è indispensabile soffermarsi rapidamente. Per Stuart Mill, Adam Smith ha stimato eccessivamente l'importanza del risparmio di tempo collegato alla permanenza nella medesima occupazione, disinteressando l'esistenza di vantaggi scaturente da un mutamento di attività. "Se una data specie di lavoro muscolare o intellettuale è diversa da un'altra, proprio per questa ragione è fino a un certo punto un riposo dall'altro lavoro; e se non si ottiene subito la massima intensità nella seconda occupazione, nemmeno la prima occupazione si sarebbe potuta prolungare indefinitamente senza un certo rilassamento delle energie. È fatto di comune esperienza che un mutamento di occupazione dà spesso un sollievo laddove altrimenti sarebbe necessario un riposo completo; e che un uomo può lavorare senza fatica molte più ore se alterna le sue occupazioni, che se si limitasse durante tutto quel tempo ad un'occupazione sola. Le diverse occupazioni impiegano diversi muscoli o diverse facoltà intellettuali e alcune di queste riposano e si rinfrancano mentre le altre lavorano. La stessa varietà ha effetto stimolante su quello che, in mancanza di denominazione più filosofica, si chiama il morale dell'individuo, tanto importante per l'efficienza di ogni lavoro che non sia puramente meccanico, e non trascurabile neanche per questo". [1848, John Stuart Mill] Nel ragionamento di Stuart Mill sono presenti spunti propri dei moderni filosofi dell'organizzazione del lavoro. Tale capacità di passare da un lavoro all'altro in modo produttivo (versatilità e flessibilità) può essere un esito dell'educazione. "L'abitudine di passare rapidamente da una occupazione ad un'altra può essere acquisita, come le altre abitudini, con la prima educazione; e una volta acquisita non vi sono le perdite di tempo di cui parla Adam Smith ad ognuno di quei mutamenti, né la diminuzione di energia o di interesse, ma il lavoratore si dedica ad ogni ramo della sua occupazione con una freschezza e uno spirito che non potrebbe conservare se persistesse in una data parte di quel lavoro oltre il tempo cui è abituato". [1848, John Stuart Mill] Le donne, dice Stuart Mill, "sono dotate (almeno nelle moderne condizioni sociali) di una versatilità di gran lunga superiore rispetto agli uomini". "Le donne hanno una pratica costante di passare rapidamente da un'occupazione manuale all'altra, e ancor più da una operazione mentale all'altra, la qual cosa raramente risulta in uno sforzo supplementare o in una perdita di tempo". [1848, John Stuart Mill] Gli uomini al contrario sono più abituati a lavorare in maniera permanente, per un lungo periodo di tempo, compiendo la medesima operazione o il medesimo tipo di operazioni. Questo non toglie che la versatilità possa essere una qualità altresì maschile e che "un uomo che ha coltivato l'abitudine di dedicare la propria attenzione a molti lavori, lungi dall'essere quella persona indolente e pigra descritta da Adam Smith, è di solito particolarmente vivace e attiva". [1848, John Stuart Mill] È vero d'altra parte, dice Stuart Mill, che vi sono dei limiti alla versatilità di qualunque individuo e pertanto al cambio di attività, per cui "una continua varietà (di lavoro) è anche più defatigante di una uniformità perpetua". [1848, John Stuart Mill] Copyright ABCtribe.com 21 Per quanto concerne il terzo vantaggio assegnato da Adam Smith alla divisione del lavoro, vale a dire l'invenzione delle macchine) quello è vero ma sino ad un certo punto. Difatti, pure Stuart Mill ritiene che "le invenzioni tendenti a risparmiare lavoro in un particolare compito, sono più probabili nei casi in cui i pensieri del lavoratore sono intensamente indirizzati a quella occupazione e continuamente esercitati al riguardo". [1848, John Stuart Mill] Al tempo medesimo, non sempre l'occupazione intensa in una attività conduce alla messa in luce di scoperte che tendono a risparmiare lavoro in quella data azione. "Questo dipende molto più dall'intelligenza generica e dalla attività intellettuale abituale che dal carattere esclusivo dell'occupazione; e se questa esclusività è spinta al punto da andare a danno dello sviluppo dell'intelligenza, da un vantaggio di tal genere vi sarà più da perdere che da guadagnare". [1848, John Stuart Mill]. Secondo Stuart Mill, il beneficio principale della divisione del lavoro consta nella "più economica distribuzione del lavoro, attraverso la classificazione dei lavoratori secondo le loro capacità". "Diverse parti della stessa serie di operazioni richiedono gradi disuguali di capacità e di forza fisica; e coloro che hanno abilità sufficiente per le operazioni più difficili o forza sufficiente per i lavori più duri, sono utilizzati in maniera molto più produttiva quando sono impiegati solamente in queste operazioni". "La produzione è al massimo livello di efficienza quando l'esatta quantità di abilità e di forza, che è richiesta per ogni parte del processo produttivo, risulta impiegata e nulla più". [1848, John Stuart Mill]. Evidentemente, l'acquisizione continua di nuove capacità e l'elevazione del grado di istruzione sono destinati a immettere modifiche radicali nella divisione del lavoro, con la sparizione delle operazioni più semplici e ripetitive, che verranno sempre più operate dalle macchine. 2.6 Il rapporto tra la deduzione e l'induzione 2.6.1 Sulle orme di Kant E Mill sulle orme di Kant vuole, in sostanza, conoscere come siano pensabili i giudizi sintetici a priori, ovvero come sono pensabili i ragionamenti che conducono ad un ampliamento delle conoscenze. Come è pensabile il ragionamento accrescente "Socrate è uomo, l'uomo è mortale, dunque Socrate è mortale"? In altri termini, come faccio a sapere che Socrate cesserà di vivere ancor prima di aver sperimentalmente constatato la sua scomparsa effettiva? E' un ragionamento valido? E se sì, per quale ragione? Mill, da buon empirista, tende a non credere che siano possibili i giudizi sintetici a priori, poiché essi hanno in sé in qualche maniera la presenza innata di concetti nella mente: al contrario, qualunque conoscenza (persino quella matematica) passa mediante l'esperienza; se le cose stanno in questo modo, però, resta da domandarsi come si possano giustificare proposizioni reali che siano valide ed universali. In altre parole, Mill giunge alla presa di coscienza che se si accetta la validità del procedimento induttivo (= dal generale al particolare) le possibilità sono due: la prima consta nell' ammettere che, mediante l'induzione, si giunga a verità generali da cui ricavarne altre particolari già implicite; in tale caso, la deduzione funziona ma è del tutto inutile. Copyright ABCtribe.com 22 Difatti, quando, per esempio, considero i 12 apostoli e dico che ognuno è ebreo, arrivo all'affermazione universale che i 12 apostoli sono tutti ebrei e da essa potrò dedurre che uno qualunque dei 12, proprio perché apostolo, è ebreo. Il che è precisamente logico, ma altresì del tutto inutile: tale deduzione, difatti, ha carattere tautologico, giacché non dice niente di nuovo che non fosse già implicito in partenza. E Mill fa osservare che le deduzioni importanti sono quelle che ingrandiscono la conoscenza, quelle vale a dire che predicano qualche cosa di nuovo: ed è questa la seconda possibilità. Quando dico che tutti gli esseri umani sono mortali e che Socrate, in quanto uomo, è anch'egli mortale, ingrandisco per davvero la mia conoscenza, dal momento che dichiaro che Socrate cesserà di vivere ancor prima che egli sia in effetti morto. Nel caso dei 12 apostoli, si parte da verità peculiari per arrivare a verità generali per poi far ritorno a realtà particolari; nel secondo caso, contrariamente, si constata empiricamente la mortalità degli individui e per induzione si riesce a dire che, poiché tutti gli individui presi in esame sono morti, allora tutti gli individui sono mortali. Quella degli apostoli (che Mill definisce "enumerazione completa" per il fatto che non si è tralasciato nessun componente), per dirla con Kant, è una verità analitica, sicura ma tautologica; quella di Socrate, al contrario, (che Mill designa col nome di "enumerazione semplice", poiché non si osservano tutti gli individui esistenti, ma soltanto una parte di essi) è sintetica, ovvero accresce la conoscenza; nondimeno tale secondo tipo di induzione, a differenza del primo tipo, crea dei problemi. Difatti, quella degli apostoli è un'induzione per elencazione completa, dove vale a dire dichiaro che tutti e 12 gli apostoli sono ebrei perché l'ho appurato empiricamente analizzando ciascuno di essi; con il caso dell'induzione per elencazione semplice (il caso di Socrate), la situazione muta, visto che si predica la mortalità di Socrate mentre egli è tuttora in vita, il che corrisponde a dire che si predica un qualche cosa senza averlo verificato empiricamente. E del resto, nota Mill, effettuare un'enumerazione completa su tutti gli individui per dire che sono tutti (dal primo all'ultimo) mortali sarebbe infattibile: dovrei difatti analizzare uno ad uno tutti gli uomini del presente, del passato e del futuro per vedere se sono in effetti morti; e pure fatta siffatta operazione, resterei fuori dall'enumerazione io che la sto facendo. Comunque, quando ci si trova di fronte ad una infinità di casi (come per la mortalità degli individui), si è obbligati, nell'impossibilità di osservare uno ad uno i singoli casi, a ricorrere all'enumerazione semplice: ma che cosa legittima tale esempio di induzione? Difatti, se l'enumerazione completa si giustifica da sé, quella semplice (fondata su pochi casi) implica la deduzione per Socrate di quello che si è ipotizzato per altri. Tale procedimento può essere legittimato soltanto se si ricorre ad una logica di tipo realista, che accetta vale a dire l'esistenza reale degli universali: in questa situazione, in cui non sussistono soltanto gli individui, ma pure gli universali, si può ricorrere (nell'esempio della mortalità degli individui) all'universale "umanità", intesa appunto come universale di cui prendono parte tutti i singoli esseri umani, per cui ognuno può dire di essere umano perché prende parte all'universale "umanità". Copyright ABCtribe.com 23 E l'ammissione degli universali consente di effettuare dichiarazioni generali: mediante l'esperienza di un numero limitato di casi (A,B,C), affermava Aristotele, posso cogliere non soltanto i tre casi presi in considerazione (A,B,C), bensì pure le caratteristiche inerenti all'essenza universale di individuo. Il caso estremo di tale procedimento è delineato dalla geometria, in cui una volta fatta la dimostrazione del teorema di Pitagora per un singolo triangolo rettangolo, si ha la convinzione che esso sia valido per tutti gli altri triangoli rettangoli possibili ed immaginabili. Ne deriva che, in una prospettiva realista che ammette gli universali, si può dire che, mediante una serie di casi limitati si arriva all'universale, pure se magari i casi esaminati sono pochissimi, cosicché potrò dichiarare che tutti coloro i quali prendono parte alla forma uomo saranno inevitabilmente mortali, proprio perché tutti gli esseri umani singoli esaminati sono morti. Il problema consiste però nel fatto che, da Ockham in poi, la logica realista è stata rimpiazzata da quella nominalista (che non consente l'esistenza degli universali): ciò esclude la possibilità che da pochi casi si possa giungere ad un'affermazione generale valida generalmente, proprio perché niente esiste all'infuori dei casi singoli. E, saltato l'universale, salta anche la possibilità di fare il gioco (lecito nel campo di una logica realistica) per cui passo dalla mortalità di A, B e C alla mortalità dell'universale individuo e, alla fine, a quella di Socrate. E nel caso della logica realista, l'universale altro non era se non la intercessione che mi consentiva di passare dalla mortalità di A, B e C a quella di Socrate, proprio perché accettavo che A, B e C e Socrate avessero in comune il fatto di prendere parte all'universale "umanità". Come giustifica, pertanto, Mill il processo di elencazione semplice nel nominalismo? Nella concezione nominalista, egli dice, non sussistono realtà universali, ma, malgrado ciò, esistono cose che hanno funzioni universali: ed è il caso dei nomi comuni, per cui quando dico "uomo" non accenno all'universale "uomo", ma a tutti quegli enti dotati di indicate peculiarità comuni, quali l'avere due gambe, due occhi, una testa, ecc. Nella definizione di individuo come essere avente due gambe, due occhi e una testa, attenzione, non fa parte la mortalità: considerando tre uomini, A, B e C, ci rendiamo conto che tutti e tre cessano di vivere e per induzione dichiariamo che tutti gli individui sono mortali; dopo di che, analizziamo Socrate e ci rendiamo conto che, alla pari di A, B e C, è provvisto di due gambe, due occhi e una testa, ma è vivo e vegeto: come possiamo dichiarare che anch'egli è mortale? Che sia un individuo lo so dal fatto che ha due occhi, due gambe e una testa e, chiarisce Mill, posso giungere a dire che è mortale mediante il principio dell'uniformità delle leggi di natura , secondo cui quando dei singoli casi mostrano continuamente un gruppo di peculiarità comuni (occhi, gambe, testa) più un altro gruppo (la mortalità), allora altresì l'ennesimo caso esaminato (Socrate) che mostrerà il primo gruppo di caratteristiche, avrà altresì il secondo gruppo. Copyright ABCtribe.com 24 Ma allora si torna al passaggio interposto dall'universale, obietterà qualcheduno. E invece no, dice Mill, poichè al posto dell'universale c'è il principio, il quale implica che la natura non si comporti a caso, ma con regolarità ( " è una legge che in natura ci siano leggi ", dice Mill), per cui tutti gli individui del passato, oltre ad avere la testa, le gambe e gli occhi, sono morti e dato che la natura si comporta secondo una certa regolarità, pure gli esseri umani del futuro provvisti di gambe, occhi e testa saranno pure loro mortali. Si deve però legittimare questo principio di conformità delle leggi di natura e la risposta di Mill è paradossale: egli afferma che lo si basa induttivamente, ovvero da quando siamo nati abbiamo sempre esperimentato che la natura segue una regolarità circoscritta. Al che si potrebbe ribattere che, in fin dei conti, questo principio altro non è se non un presupposto; già Hume si chiedeva con perseveranza che cosa facesse sì che ognuno di noi nutra in sè la certezza di vedere ogni mattina spuntare il sole e rispondeva dicendo che è l'abitudine di vederlo levarsi ogni mattina; ora Mill si chiede, in forma simile, "che cosa mi garantisce che, visti morire tutti gli uomini finora considerati, anche Socrate un giorno dovrà morire?" Se Hume dava risposta servendosi dell'abitudine, Mill al contrario si serve del principio dell'uniformità delle leggi di natura, che a suo avviso non è un mero assunto, bensì è basato sull'esperienza. Però egli compie l'errore di fondare induttivamente la verità del principio quando dovrebbe essere questo principio a permettere l'impiego dell'induzione; si tratta, chiaramente, di un circolo vizioso, visto che Mill ritorna al principio per legittimare l'induzione e poi basa questo principio sull'induzione medesima! Ma Mill obietta che si tratta di un'induzione tanto ampia che possiamo considerarla non per enumerazione semplice, ma per elencazione completa, giacché il numero di esperienza su cui si basa questo principio non le esaurisce tutte, ma è in ogni modo tanto vasto (si tratta di tutte le esperienze maturate nella storia!) che, se in teoria fa parte dell'enumerazione semplice, in pratica finisce per appartenere a quella completa. E, come abbiamo visto nel caso dei 12 apostoli, l'elencazione completa si autolegittima, per cui il principio dell'uniformità delle leggi di natura non è un postulato e può innalzare l'induzione per enumerazione semplice senza precisamente appartenere ad essa. Si è pertanto oltrepassato il circolo vizioso e si è fondata l'induzione per enumerazione semplice sulla base di quella per enumerazione completa. Certo, in termini intrinsecamente matematici, sarebbe sbagliato dire che il principio dell'uniformità delle leggi di natura è per enumerazione completa, dal momento che, pur essendo assai ampio, non esaurisce tutte le esperienze possibili; ma ciò nonostante, sul piano pratico (che è quello che sta a cuore ad un positivista quale è Mill) si può avvicinare e legittimare l'idea (su cui si basa il sapere dell' uomo) secondo cui dai casi particolari è lecito realizzare generalizzazioni per poi tirarne delle conclusioni. 2.6.2 Il recupero della tradizione empirista baconiana Una volta giustificata l'induzione semplice, spunta il problema di dimostrare quale è il metodo per investigare la realtà e a questo proposito Mill ripiglia la tradizione empirista inglese di stampo baconiano: proprio Bacone, difatti, aveva predisposto la teoria delle tre tavole, volta a render praticabile un'induzione che si Copyright ABCtribe.com 25 effettuasse mediante un numero relativamente circoscritto di casi. Mill rimane fedele alle tre tavole ma, per così dire, ne annette una quarta, una specie di nuovo principio che prescrive l'impiego di uno strumento efficace per indicare la causa di un fenomeno; nel constatare che, in due situazioni pressoché simili, il fenomeno analizzato si verifica soltanto in una delle due, si deve vale a dire individuare quell'unica diversità che discerne le due situazioni: tale principio (presente soltanto nella situazione da cui si è verificato il fenomeno esaminato) sarà appunto la causa dell'avvenimento. Facciamo un esempio concreto: nel Settecento sparisce per sempre dal mondo occidentale la peste, che tuttavia continua a percuotere quello orientale; sia l'Oriente sia l'Occidente hanno pressoché i medesimi presupposti (guerre, climi simili, etc), ma vi è una diversità imprescindibile ed è lo Stato assoluto, presente in Occidente e non in Oriente. Se ne ricava che è lo Stato assoluto la ragione della sparizione della peste dal mondo occidentale. Dopo di che, Mill concentra la sua attenzione sulla psicologia , che Comte si era rifiutato di elencare tra le scienze: il filosofo inglese, invece, assume un comportamento totalmente opposto e non si limita a riconoscere che la psicologia è una scienza legittima, ma giunge perfino a ravvisare in essa il basamento delle scienze. Tutta la conoscenza umana, difatti, per Mill, si struttura mediante l'acquisizione per via empirica di idee semplici che si uniscono per via associazionistica (Mill conosceva benissimo le teorie elaborate in merito da suo padre) mediante norme psichiche. Ne consegue che la conoscenza dell' uomo non può non passare mediante la psiche e, perciò, la psicologia eleva a vera e propria scienza iniziatrice delle altre scienze. A tale punto, poi, Mill si pone un annoso problema su cui da sempre si domanda la filosofia: si tratta del problema della prevedibilità dell'agire dell' uomo . Come è possibile realizzare le scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia) se l'persona (a differenza degli altri enti) ha un atteggiamento non rigorosamente ipotizzabile? Le risposte possibili paiono essere due: o si presuppone (sulla scia di Cartesio, Hobbes e Spinoza) che gli esseri umani siano macchine del tutto prevedibili e prive di libertà e perciò si accetta la possibilità di fondare delle scienze dell' uomini davvero severe; oppure si ammette la libertà umana e, in tale caso, salta la prevedibilità dell’ atteggiamento e, con essa, la possibilità di creare delle scienze umane. Mill dà una risposta che si allontana dalle due appena suggerite: si tratta di una risposta che molto patisce della lezione positivistica ed è, per molti sensi, semplice e coerente. Mill non fa altro che fare una ripartizione fra metafisica e vita quotidiana: se anche confessiamo che l'essere umano (tanto l’ individuo quanto i gruppi), metafisicamente, sia libero, quello non toglie che egli, nella vita di tutti i giorni, si atteggi con una certa regolarità e che questa regolarità possa essere espressa sotto forma di regole. Pertanto, Mill, pur identificando la libertà metafisica all'uomo, riconosce una sicura prevedibilità della condotta nella vita pratica ed è proprio su ciò che, egli dichiara, diviene possibile apprendere le leggi di condotta degli uomini (psicologia), della comunità (sociologia), e così via. E Mill è persuaso di dover adoperare, nell’ambito delle scienze sociali, quello che lui chiama metodo deduttivo concreto , il quale si Copyright ABCtribe.com 26 basa sul fatto che le realtà sociali sono le più articolate e sul fatto che su di esse non si possono fare esperimenti, come al contrario avviene nei laboratori chimici. Nel caso delle scienze sociali, egli afferma, a fungere da esperimento è la storia medesima: il che indica che, dinanzi all’ interrogativo "che cosa causa quel determinato fatto sociale?", la prima cosa da fare è formulare un'ipotesi su quale coincidenza di cause potrebbe averlo determinato; e poi occorrerebbe effettuare la verifica sperimentale, che, nel caso delle scienze sociali, è infattibile: si deve perciò ripiegare sulla storia, analizzando dove si è verificata storicamente quella data combinazione di cause e se ha fatto nascere il medesimo evento sociale che stiamo analizzando. La verifica sperimentale lascia il passo a quella storica. Accanto alle attente valutazioni logiche, Mill si è pure occupato molto di politica, cercando di predisporre un movimento radicale che rendesse complice l'ala progressista del partito liberale inglese: egli si fa ambasciatore di ideali definibili, in senso lato, di "liberalismo radicale". In un'epoca e in uno Stato in cui il liberalismo aveva alleggerito qualunque punta rivoluzionaria e, anzi, era diventato la struttura portante del sistema, è significante che il pensatore inglese ne dia una lettura in chiave progressista: egli divide la politica e l'economia, punendo (da buon liberale) il socialismo, inteso come ingabbiamento del libero corso dell'economia e disumana collettivizzazione dei mezzi di produzione; se Mill non approva il socialismo, è però un dato di fatto che il socialismo novecentesco approverà (e farà sue) le teorie politiche di Mill. L'economia, secondo il pensatore inglese, può solo funzionare in una situazione di libero mercato e, perciò, occorre riconoscere piena libertà all'economia; ma (e qui sta la novità) altra cosa è la politica e, in particolare, la distribuzione delle ricchezze: si deve, afferma Mill, creare una volontà dell' uomo tale da realizzare una maggiore equità sociale. Da questo ben si intuisce come la politica e l'economia siano separate: economicamente deve regnare la massima libertà in maniera che si produca il più possibile; sul piano politico, però, si deve far sì che si realizzi una più giusta distribuzione dei beni. Proprio da siffatte considerazioni intravede l' utilitarismo (maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone) che informa la filosofia milliana: non soltanto si deve fare una specie di calcolo dei piaceri, ma all'interno di questo calcolo occorre altresì inserire piaceri di tipo spirituale, fra cui l' altruismo , ovvero l'idea che riversare il piacere ad altre persone crei piacere altresì a se stessi. Importante è il fatto che il liberalismo inglese di ispirazione lockeana aveva perseverato sul principio che si dovesse fare di tutto per difendere la libertà dell'uomo dalla potenziale autorità statale, servendosi principalmente di strutture della società civile: l'idea era che l'uomo, lasciato in balia di se stesso, viene sottomesso dallo Stato e perciò deve essere riparato da queste sopraffazioni mediante organismi medi (le corporazioni, gli ordini, la famiglia, i partiti, i sindacati, ecc). Copyright ABCtribe.com 27 Mill, al contrario, sconvolge la tradizione liberale e scopre che la vera minaccia per la libertà dell'uomo non è più lo Stato, ma è quella società civile che i liberali classici percepivano come mezzo di difesa: in particolare, il vero pericolo è delineato dalla pressione sociale verso il conformismo, pressione che tende ad standardizzare la società intera. La libertà dell'uomo, dice Mill, deve ad ogni costo essere garantita non soltanto dato che è un principio della morale liberale, ma altresì perché la libertà di non essere tradizionalisti, oltre ad essere un vantaggio per l'uomo, è pure un bene per la collettività. Una collettività forzata ad essere omogenea, difatti, non potrebbe sperimentare niente di nuovo e questo danneggerebbe sia ai singoli sia alla società nel suo complesso. E così lo Stato, non soltanto smette di rappresentare una minaccia per la libertà degli individui, ma invece ne diviene il garante; è difatti lo Stato che garantisce la libertà contro le pressioni sociali. Se del resto ci domandiamo da che cosa è garantita la uguaglianza dei sessi al giorno d'oggi non possiamo certo rispondere che è assicurata dalla società: è lo Stato a garantirla. Per quel che concerne la religione , la filosofia milliana, talmente impegnata in campo politico e sociale, recupera la remota idea, di discendenza platonica, di Dio come puro e semplice artigiano che si limita a forgiare e ad assestare il mondo. Il Dio di Mill, pertanto, non è onnipotente, dal momento che si limita ad ordinare un materiale che non è stato da lui creato: e dalla non-onnipotenza divina, Mill deduce l'idea secondo la quale Dio ci chiama tutti a cooperare con lui per rendere più buono il mondo. Del resto, se Dio fosse onnipotente, non si renderebbe comprensibile perché il mondo non è perfetto e qualunque nostra azione resterebbe priva di senso. Tale riflessione religiosa è il compimento generale di una filosofia indirizzata in tutto e per tutto all'azione utile. 3. Opere 3.1 System of Logic Nell'opera System of Logic, Sistema della logica deduttiva e induttiva J.S.Mill fa una critica alla logica come era secondo la tradizione insegnata in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo, proponendo una radicale riformulazione dei suoi termini e delle sue metodiche d'osservazione. La logica è «scienza della prova o dell'evidenza», si occupa non tanto delle verità che spuntano istantaneamente (sensazioni, sentimenti ecc...) piuttosto della conoscenza mediata, effetto di una logica, e quindi delle connessioni interiori ad esso. La logica, limitandosi ad organizzare i dati dell'esperienza, compie una prima azione detta denominazione, vale a dire l'attribuzione di nomi alle cose. Mill discerne poi: termini denotativi, termini che denotano un oggetto senza attinenza alle sue qualità o attributi (i nomi propri); termini connotativi, termini che designano la proprietà di un oggetto (attributi e nomi comuni). Copyright ABCtribe.com 28 La logica si interessa del linguaggio in quanto mezzo del pensiero. Mill discerne ancora fra proposizioni verbali, quando il predicato pronuncia un concetto già contenuto nel soggetto e quindi non forniscono nuove informazioni (gli individui son razionali), e proposizioni reali, quelle in cui il predicato esprime un concetto non racchiuso nel soggetto. Verbalità e realtà concernono pure il nesso tra proposizioni differenti, pertanto il ragionamento o inferenza. Perché un ragionamento apporti conoscenza la proposizione definitiva deve esser contenutisticamente differente da quella di partenza, in altro modo è un puro mutamento verbale. Se per la logica tradizionale vi erano due classificazioni di induzione: deduttiva (deduzione), inferenza che va dal generale al particolare, induttiva (induzione), inferenza che va dal particolare al generale. Mill ne individua una terza a basamento delle altre: l'inferenza avviene sempre dal particolare al particolare. Difatti nel sillogismo la premessa maggiore (ad es. «tutti gli uomini sono mortali») non è altro che un insieme di osservazioni particolari espressa in termini generali. Pertanto qualunque nostra conoscenza parte da un dato empirico e le generalizzazioni sono soltanto originate da rassegne di casi particolari (anche la matematica, si parte da oggetti empirici da cui si fa astrazione da certe loro proprietà). L'inferenza si basa pertanto sull'induzione (e non la deduzione, vista la critica fatta da Mill al sillogismo). L'induzione perfetta, in cui si considerano tutti i casi tipici, alla fine dell'enumerazione non porta però nuova conoscenza. Se io dico «Paolo è ebreo, Pietro è ebreo, Marco è ebreo ecc...» e in questo modo per tutti gli apostoli, alla fine concluderò «tutti i dodici apostoli sono ebrei» e ne risulterà una semplice modificazione verbale. L'induzione imperfetta o induzione per enumerazione semplice permette, dall'osservazione di X casi particolari, di inferire una qualità estendibile a tutti gli altri individui appartenenti alla medesima classe, anche a quelli non ancora esperiti. In questo caso c'è ampliamento della conoscenza. La certezza che le osservazioni compiute siano poi estendibili a tutti non c'è mai, ma J.S.Mill apporta a questo metodo rifacendosi al principio dell'uniformità della natura e di conseguenza alla legge di causalità necessaria. Pertanto possiamo generalizzare perché supponiamo che la natura sia ordinata da leggi, altresì se l'ordine vigente in natura è esso stesso una generalizzazione. L'uniformità della natura ha come conseguenza la possibilità di prevedere avvenimenti futuri basandosi sull'esperienza passata, tale prevedibilità viene sviluppata da Mill dalla natura all'ambito dell'agire dell' individuo. Conoscendo il carattere dell'uomo e gli impulsi da cui è mosso le sue future azioni divengono prevedibili, questo è il presupposto base, non solamente materia di studio,della psicologia. Se la psicologia si occupa della previsione delle azioni dell' esseri umani allora la sociologia si occuperà delle azioni collettive e della previsioni degli eventi sociali futuri. Copyright ABCtribe.com 29 Egli propone un modello di dimostrazione deduttiva, capace di coniugare la verifica e l'osservazione a posteriori dei fenomeni (fisici ed umani) con il ragionamento a priori su di essi. Mill pertanto non è un empirista in senso assoluto, cioè non pensa che l'esperienza sia la fonte esclusiva delle nostre conoscenze, ma ritiene che una conoscenza astratta, solamente teorica, ovvero a priori, sia poco adeguata. È per lui possibile al contrario integrare teoria ed esperienza, comporre insieme ragionamento ed osservazione, per non cadere nel dogmatismo razionalistico o nel relativismo empirista (o addirittura nello scetticismo): nella follia della ragione intangibile o nell'idiotismo della pura esperienza. Nella meditazione di Stuart Mill, il fulcro di una questa ricerca teorica sull'etica concerne il metodo d'analisi delle scienze sociali. Venivano in realtà così definite quelle discipline che, a differenza delle scienze della natura, studiavano i fenomeni sociali, i problemi politici ed economici, la storia ed i congegni della mente umana. Per Mill tali discipline, a differenza delle scienze naturali, non potevano essere interpretate ricorrendo allo schema meccanico per cui ad una causa coincide sempre un determinato effetto: i fenomeni sociali difatti sono in genere determinati da una molteplicità di cause che vanno esaminate e studiate, tenendo presente che la Legge di Causalità è il principio basilare di spiegazione di tutti i fenomeni naturali. Essa è nota per esperienza, allorché la mente, mediante un'induzione, comprende che due fenomeni si associano più volte in maniera tale per cui la comparsa dell'uno si accompagno a quella dell'altro. Quando una questa osservazione particolare viene universalizzata, ossia quando si verifica un numero notevole di volte, possiamo dire che i due fenomeni sono in una relazione di causa-effetto. 3.2 Principi di economia politica L'opera più considerevole della formazione milliana sono senza dubbio i Principi di economia politica. Il testo racchiude in sé gran parte del pensiero liberale dell'autore, facendoci vedere la dottrina politico-sociale in tutta la sua complessità. Nel tentativo di riprendere il suo pensiero è utile riproporre la metafora che egli spesso usa nei suoi scritti: l'autore raffronta la collettività ad un mulino ad acqua. Per capire il funzionamento del mulino, è indispensabile tener presente due principi: Primo, necessita che ci sia una forza naturale, l'acqua che scorre, in grado di produrre l'energia indispensabile al funzionamento della macchina. Tale energia,che non può essere creata dall'individuo, non è controllabile e risponde a leggi naturali del tutto avulse dalle regole dell'etica. Copyright ABCtribe.com 30 Secondo, è indispensabile creare un meccanismo in grado di sfruttare la forza della natura per cambiarla in ricchezza. Il meccanismo deve essere creato tenendo conto delle conoscenze dell' uomini e delle norme che ordinano il vivere civile. Alla stesso maniera, nella società esistono leggi naturali, come per esempio quelle che regolano la produzione della ricchezza, che non possono subire contenimenti, ma devono seguire le libertà dei singoli uomini che ovviamente ricercano il proprio utile e la propria felicità. Ma tutta questa energia prodotta sarebbe inutile, e in potenza dannosa, se non fosse guidata e modificata da un meccanismo sociale, determinato secondo le leggi dell'etica, capace di ripartire tale ricchezza in modo da trasformarla in ricchezza sociale. I Principi di economia politica espongono il problema della divisione fra la produzione e la distribuzione della ricchezza, mostrandoci una tra le più brillanti proposte sociali del Mill: la combinazione dell'idea liberale con le idee socialiste sulla distribuzione: se le leggi di produzione derivano dalla necessità naturale, le leggi della distribuzione dipendono dalla volontà dell' uomo, e su queste leggi si può agire. Mill auspica difatti che il criterio utilitaristico, ricevuto in eredità dal maestro Bentham e dal padre, (vale a dire del maggior benessere per il maggior numero) possa guidare le riforme indispensabili per una più equa distribuzione della ricchezza. Anche Mill è pertanto persuaso che l'egoismo possa esser congiunto all'altruismo, siccome la felicità umana deriva pure dalla felicità dei propri simili e dalla promozione della medesima. 3.3 On liberty Nel celebre saggio "Sulla libertà" Mill muove dalla preoccupazione di Tocqueville, per cui la democrazia porterebbe gradualmente ad uniformare le masse, cancellando qualunque originalità dell'individuo. Egli si schiera pertanto a favore della libertà, sempre e in ogni caso, sostenendo che un uomo è libero di raggiungere la propria felicità come crede e alcuno può costringerlo a fare qualcosa con la motivazione che è meglio per lui, ma potrà al massimo suggerirlo; l'unico caso in cui si può interferire sulla libertà d'azione è quando la libertà di uno causi danno a qualcun altro, solamente ed solamente in questo caso l'umanità è giustificata ad agire allo scopo di proteggersi. In questo senso lo Stato è giustificato ad orientare la vita degli individui soltanto quando il atteggiamento di uno di essi può danneggiare gli altri. Soltanto in questo caso potrebbe essere giustificabile il contenimento della libertà dei cittadini da parte dello Stato. Copyright ABCtribe.com 31 « Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero diritto di far tacere quell'unico individuo più di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'intera umanità. » Molto considerevoli sono altresì le argomentazioni con cui Mill sostiene la sua tesi; impedire l'espressione di un'opinione è sempre e tuttavia un crimine: difatti se l'opinione è giusta, coloro che ne dissentono vengono privati della verità; ma altresì nel caso in cui essa sia errata, coloro che ne dissentono sarebbe privati di un beneficio ancora più grande, quello di veder rafforzata la verità stessa per confronto con l'errore. A fondamento di ciò vi è la persuasione che mentre l'unanimità non è mai utile, la differenza è piuttosto sempre altamente auspicabile; questo perché l'individuo, che è di per se relativo, non può avere sempre verità assolute, e quello che è falso oggi potrebbe essere vero domani (e viceversa). L'anticonformismo è pregevole e l'originalità di ogni individuo va sempre valorizzata e mai resa nullo. Il suo pensiero politico-economico è pertanto affermato su posizioni di liberalismo radicale, la valorizzazione dell'uomo e dei suoi spazi di libertà fanno sì che lo Stato si ordini sulla libertà civile della quale è protettore. L'unica ingerenza ammissibile da parte dello Stato, affinché si eviti un danno effettivo a un terzo, concerne la sola sfera della difesa e tutela delle libertà individuali: la libertà di coscienza, pensiero ed espressione la libertà di perseguire la felicità, la libertà di associazione. Al medesimo tempo, però, si è visto in Mill anche il promotore del liberalsocialismo; così, per esempio, nelle analisi di Norberto Bobbio e Nadia Urbinati, in anni recenti, e già in antecedenza in quelle di Ludwig von Mises (si veda il suo saggio Sozialismus. in cui Mill è definito "il più grande avvocato del socialismo") e Leonard Trelawny Hobhouse (nel suo Liberalism). 3.4 I Saggi sulla religione di John Stuart Mill Stampati postumi nel 1874, gli Essays On Religion di J.S. Mill vengono presentati nel 1953 a cura di Ludovico Geymonat. La presente riedizione (2006) viene proposta nella collana “economica” in una veste snella e attraente. Ma al di là di motivi assolutamente editoriali o meramente estetici, la domanda più nitida che può spuntare a un lettore di filosofia è “donde l’esigenza di ripubblicare questi saggi (visto che l’ antecedente edizione risale soltanto al 1987)”. Copyright ABCtribe.com 32 Strizzando l’occhio alla collana che accoglie i Saggi sulla religione, vale a dire quella economica, come pure alle decine di recensioni apparse nell’ultimo anno su quotidiani e riviste italiane, si comprende l’intenzione dell’Editore di raggiungere un più nutrito insieme di lettori che non siano solo, per l’appunto, i lettori di filosofia. Scorrendo la nota di Giulio Giorello in quarta di copertina si legge: « Se con la critica milliana Dio appare come l’alleato del genere umano nella lotta contro il dolore e la morte, l’intero campo del sovrannaturale viene spostato dalla sfera della Fede a quella della semplice Speranza – nel contesto di uno “scetticismo” aperto e tollerante, lontano sia dal fideismo oppressivo sia dall’ateismo dogmatico ». Pertanto, nella parola “tollerante” paiono palesarsi i motivi intrinseci della ripubblicazione di tale testo. Difatti, al di là della spinta continua del genere umano per la crescita comune, verso il fine comune – che è il ganglio intorno al quale si condensano le “esperienze” di rispetto, emancipazione, autodeterminazione, solidarietà, tolleranza – vi sono dei periodi in cui maggiormente si avverte l’urgenza di una risposta o, se vogliamo, di una bussola su cui potersi ancora indirizzare. Il medesimo Geymonat, in una nota alla edizione del 1972 dei Saggi, osserva: «Sono fermamente convinto che sia molto opportuno rimettere in circolazione questi Saggi. È fin troppo noto che – in diretta connessione con la profonda crisi in atto nella democrazia italiana, e non solo italiana – sta diffondendosi rapidamente in larghi strati della nostra cultura un clima di sorda sfiducia nella ragione». Certo siamo lontani dagli anni in cui, principalmente a causa dell’emergenza terrorismo, si assistette a una involuzione dello Stato italiano con una diminuzione delle libertà costituzionali. Ciò nonostante anche oggi è possibile avvertire un esteso “scompiglio” che accetta i tratti concreti di una insoddisfazione generica, non misurata, caotica. I problemi politico-istituzionali, quelli economici, quelli connessi al fenomeno dell’immigrazione, della coesistenza di culture, dei diritti civili, della libertà di espressione, del lavoro, dell’istruzione, non fanno dormire con serenità alcuno (o pochi). E altresì la Chiesa non se la passa bene con la decadenza della fede, la diminuzione progressiva delle vocazioni e delle ordinazioni, l’incidenza sempre più evidente della secolarizzazione, le contraddittorietà interne e le conflittualità esteriori. È vero, si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che è sempre stato e sempre sarà in questo modo, che ogni età ha di tali problemi, che in qualunque epoca questi problemi, in un maniera o nell’altro, vengono superati. Ma è proprio sulle ali di questa attenta valutazione che si innestano i Saggi, e in genere tutta l’opera, del libertario Mill. Il pensiero e la vita di Mill ci arrivano prima di tutto come un invito a mantenersi, come dire, un passo più indietro, in un ambiente di sano scetticismo aperto e tollerante, lontani da qualunque radicamento “a tutti i costi”, lontani da qualunque estremizzazione, pronti ad ascoltare ragioni altre, perché altresì un solo individuo che avesse un’opinione differente dall’intera umanità sarebbe in pieno diritto d’essere ascoltato. Ma passiamo a un esame del volume. Copyright ABCtribe.com 33 I tre saggi ivi raccolti non formano un’opera organica e furono divulgati postumi nel 1874 in volume unico. I primi due saggi vennero scritti fra il 1850 e il 1858 mentre il terzo, che è pure l’ultima opera di una certa prominenza scritta da Mill (morto nel 1873), fu scritto fra il 1868 e il 1870.Nel primo saggio dal titolo La Natura, Mill evidenzia la propria attenzione sul significato del termine “Natura” che può denotare o l’intero insieme delle cose, con tutte le sue proprietà, oppure come le cose sarebbero a prescindere dall’intervento dell' uomo. Nel primo di questi sensi, allora, la dottrina che l’individuo dovrebbe seguire la natura è priva di senso perché tutte le azioni dell’essere umano sono in ubbidienza alle leggi fisiche della natura e l’individuo non potrebbe fare altrimenti. Il secondo senso in cui il termine viene compreso, vale a dire quello che vede nella natura un modello a cui l’uomo dovrebbe uniformarsi, è lo stesso irrazionale e perfino immorale per il motivo che il corso dei fenomeni naturali è pieno di azioni che emergono degne del più alto aborrimento se commesse, a imitazione, dagli individui. Tutto ciò che nella natura ci dà indicazioni di un ordine rivolto al bene – conclude Mill – prova che l’autore di tale ordine è provvisto di un potere limitato ed è dovere dell’individuo collaborare per il bene e, nei limiti delle sue possibilità, modificare il corso della natura perché possa essere giunto un più alto grado di giustizia e bontà. Nel saggio sull’Utilità della religione, il secondo del volume, Mill dichiara che la religione è stata utile e ha esercitato la sua influenza sull’umanità fintantoché i ragionamenti in favore della sua verità non finirono di essere convincenti. Non già che la fede religiosa non sia di qualche utilità a coloro che in tutta schiettezza possono dirsi credenti, invece che nella temperie culturale del periodo in cui Mill si trova a scrivere risulta indispensabile chiedersi se la religione, le prove a sostegno della quale non paiono essere più persuasivi come un tempo, abbia o meno una sua utilità concreta per l’ indagine della verità e per il benessere generale. In altri termini l’inglese Mill, da buon pragmatico, pone l’accento sul fatto che in un’età di fede tiepida la « fede che gli uomini posseggono è determinata assai più dal loro desiderio di credere che non da alcun apprezzamento razionale di evidenza » . La discussione ammessa da Mill è di carattere utilitaristico, non morale; quello che egli critica fortemente è la possibilità che la religione implichi un’applicazione non dovuta di nobili impulsi e di capacità speculative, vale a dire che la religione possa “assorbire”, a scapito del progresso dell' uomo, le migliori facoltà umane, quelle che potrebbero rendere servizi smisurati alla verità. Il terzo saggio, Il Teismo, è separato in cinque parti e in sezioni argomentative in cui si tratta delle prove dell’esistenza di Dio. Mill prende in considerazione differenti argomenti classici: della causa prima, dell’ordine finalistico, del consenso generale dell’umanità, della coscienza; pertanto passa a parlare degli attributi divini, dell’immortalità dell’anima e della scoperta. È significativo rammentare che dei tre saggi, pubblicati in volume unico soltanto un anno dopo la sua morte, Mill progettò in vita di divulgare soltanto il primo saggio ma non Copyright ABCtribe.com 34 prima di aver redatto il terzo. Il saggio sul teismo pertanto si presenta come una specie di ricerca o dossier a uso personale per l’approfondimento di alcuni dei più importanti nodi tematici della tematica religiosa. Mill conclude il saggio dichiarando che l’aspetto razionale di una mente riflessiva dinanzi alle prove addotte dal teismo, come pure alle prove addotte da qualunque rivelazione, non può che essere quello di uno scetticismo che si tiene lontano e dalla fede e dall’ateismo, vale a dire di uno scetticismo dovuto alla insufficienza di prove portate da una parte e dall’altra. Nel saggio sull’Utilità della religione, il secondo del volume, Mill dichiara che la religione è stata utile e ha esercitato la sua influenza sull’umanità fintantoché i ragionamenti in favore della sua verità non finirono di essere convincenti. Non già che la fede religiosa non sia di qualche utilità a coloro che in tutta schiettezza possono dirsi credenti, invece che nella temperie culturale del periodo in cui Mill si trova a scrivere risulta indispensabile chiedersi se la religione, le prove a sostegno della quale non paiono essere più persuasivi come un tempo, abbia o meno una sua utilità concreta per l’ indagine della verità e per il benessere generale. In altri termini l’inglese Mill, da buon pragmatico, pone l’accento sul fatto che in un’età di fede tiepida la « fede che gli uomini posseggono è determinata assai più dal loro desiderio di credere che non da alcun apprezzamento razionale di evidenza » . La discussione ammessa da Mill è di carattere utilitaristico, non morale; quello che egli critica fortemente è la possibilità che la religione implichi un’applicazione non dovuta di nobili impulsi e di capacità speculative, vale a dire che la religione possa “assorbire”, a scapito del progresso dell' uomo, le migliori facoltà umane, quelle che potrebbero rendere servizi smisurati alla verità. Il terzo saggio, Il Teismo, è separato in cinque parti e in sezioni argomentative in cui si tratta delle prove dell’esistenza di Dio. Mill prende in considerazione differenti argomenti classici: della causa prima, dell’ordine finalistico, del consenso generale dell’umanità, della coscienza; pertanto passa a parlare degli attributi divini, dell’immortalità dell’anima e della scoperta. È significativo rammentare che dei tre saggi, pubblicati in volume unico soltanto un anno dopo la sua morte, Mill progettò in vita di divulgare soltanto il primo saggio ma non prima di aver redatto il terzo. Il saggio sul teismo pertanto si presenta come una specie di ricerca o dossier a uso personale per l’approfondimento di alcuni dei più importanti nodi tematici della tematica religiosa. Mill conclude il saggio dichiarando che l’aspetto razionale di una mente riflessiva dinanzi alle prove addotte dal teismo, come pure alle prove addotte da qualunque rivelazione, non può che essere quello di uno scetticismo che si tiene lontano e dalla fede e dall’ateismo, vale a dire di uno scetticismo dovuto alla insufficienza di prove portate da una parte e dall’altra. Copyright ABCtribe.com 35 Il risultato a cui l’esame di Mill conduce, al limite, mantiene aperta la possibilità che sussista una sicura prova del teismo, « insufficiente però alla sua dimostrazione, prova che raggiunge solo uno dei gradi più bassi di probabilità ». In conclusione la visione di Mill è quella di un positivista che ha ricevuto in eredità dall’illuminismo la concezione della centralità e responsabilità dell’individuo come soggetto che ha come propria missione l’impegno e la lotta per la concretizzazione nel mondo di un ordine razionale, scevro da oscurantismi, disparità, imposizioni di potere; in conclusione, di un ordine migliore in cui pure Dio fa la sua parte, in cui uomo e Dio, probabilmente anche non conoscendosi, cooperano senza intralciarsi a vicenda. 3.5 Su La Natura di John Stuart Mill La Natura è un saggio di filosofia morale. Mill si prospetta di analizzare «la verità delle teorie che fanno della Natura il banco di prova del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male o che, in qualsiasi maniera o misura, conferiscono merito o approvazione al seguire, imitare e ubbidire la Natura» . L'argomento gli pare rilevante, dato che l'idea di natura è onnipresente nei discorsi normativi. Ciò che è naturale è buono, sostengono da secoli gli esseri umani. Di fatto, osserva l'autore, il loro comportamento è più dubbio: a volte denunciano indignati ciò che reputano contronatura, altre volte ammirano le conquiste che hanno consentito all'umanità di sottrarsi ai rigori della sua condizione primitiva, criticando con ciò medesimo l'ordine spontaneo della natura. Tale osservazione è tutt'ora così valida che non possiamo restare indifferenti al problema posto da Mill, né alla sua risposta: «L'essere conforme alla Natura non ha alcuna connessione con il giusto o con l'ingiusto». Mill dà prova che la regola «obbedire alla natura» non può istituire il fondamento della morale. La ragione che egli ne da è ad un tempo semplice e potente: questo precetto deve essere declinato in quanto privo di senso. Per rendersene conto basta considerare con attenzione il senso del termine «natura». Esso ha due fondamentali significati: «o esso denota l'intero sistema delle cose, con l'aggregato di tutte le loro proprietà, oppure denota le cose come sarebbero, prescindendo dall'intervento umano». Nel primo significato, la natura non è altro che la verità nel suo insieme, quella realtà di cui le scienze si stancano di comprendere i meccanismi esprimendone le leggi (fisiche, biologiche), talvolta riunite sotto la definizione di «leggi della natura». Copyright ABCtribe.com 36 Ma se si intende il termine Natura in questo significato, non vi è alcun occorrenza di raccomandare di agire secondo la Natura, dato che è proprio quello cui nessuno può staccarsi, sia che agisca bene, sia che agisca male. […] Il ridomandare alle persone di adeguarsi alle leggi della Natura, quando esse non hanno alcun potere all'infuori di quelli provvisti dalle leggi della Natura, quando è per loro fisicamente impossibile il fare la minima cosa se non mediante qualche legge della natura, risulta un'assurdità. L'agricoltura biologica, la coltivazione di OGM, la clonazione, condurre l'automobile, la pesca, l'infibulazione, la opposizione dell'infibulazione e qualunque altra azione non possono essere valutate in base al loro livello di conformità con la natura. Tutte integralmente fanno parte della natura, nel primo senso del termine, e vengono realizzate nel totale rispetto delle sue leggi.Si può invece raccomandare di conoscere la natura. Tale prescrizione non è inutile dal momento che costituisce una condizione di efficacia dell'azione. Bisogna conoscere le proprietà delle cose e le relazioni tra le differenti componenti della realtà per poter valutare esattamente le conseguenze dei propri atti e raggiungere i propri fini. Perciò, se l'inutile precetto di seguire la Natura si mutasse nel precetto di studiare la Natura, di conoscere e di prestare attenzione alle proprietà delle cose con cui abbiamo a che fare, in quanto tali proprietà siano in grado di favorire o di impedire un certo scopo, noi saremmo giunti al primo principio di qualunque azione intelligente, o meglio alla definizione dell'azione intelligente medesima. Ma, aggiunge Mill, il dettame «conoscere la natura» non ha nessun contenuto morale. Designare un'azione come giusta è differente dall’ indicarla come intelligente, e coloro che invocano come guida di una condotta retta l'ubbidienza alla natura, non hanno in effetti in mente nessun principio di razionalità strumentale. Sapere che è più facile forzare qualcheduno a parlare spezzandogli le dita piuttosto che cantandogli una ninna-nanna non dice niente sulla legittimità della tortura. In un secondo significato, naturale si oppone ad artificiale. La natura non designa allora la realtà nel suo insieme, ma soltanto quella parte che di essa esiste o si produce senza l'intervento dell' uomo. Neanche questa accezione, così come la prima, consente di fondare un obbligo morale sulla conformità alla natura. Difatti tutte le azioni umane sono, per definizione, un'ingerenza nello stato naturale delle cose: «Lo scavare, l'arare, il costruire, il vestirsi, sono dirette trasgressioni dell'ingiunzione di seguire la Natura». Di conseguenza è impossibile fondare l'etica umana sul rispetto della natura (salvo, forse, considerare il suicidio come unico atto eticamente accettabile). Un tale precetto non soltanto è assurdo, ma altresì del tutto contrario alla nostra concezione del bene. Mill non trova nella natura né una fonte di felicità, né un'armonia immediata, né l'origine di punizioni utili Copyright ABCtribe.com 37 o meritate: 1 La vera verità è che quasi tutte le cose per cui gli individui vengono impiccati o imprigionati quando le compiono l'uno verso l'altro, sono atti quotidiani della Natura. 2 La natura distrugge senza rimorso quelli dalla cui esistenza dipende il vigore di un intero popolo […], come stermina coloro la cui morte è per essi un sollievo, o una consacrazione per quelli che ne subiscono la nociva influenza. 3 L'anarchia ed il regno del Terrore sono oltrepassati in ingiustizia, rovina e morte, dagli uragani o dalle epidemie. Non si tratta di sostenere che la natura è sempre cattiva. Quello che si vuole mettere in risalto è che il dolore dell'agonia, le carestie, le malattie e gli altri cataclismi naturali sono avvertite come dei mali enormi, e che la riconoscenza degli esseri umani verso tutti i mezzi concepiti per difendersi da essi, provano come nessuno in effetti usi in modo sistematico il criterio di conformità alla natura come principio dei propri giudizi morali. Nessuno vuole effettivamente che la natura venga seguita in qualunque suo aspetto, ma «gli uomini non rinunciano tuttavia volentieri all'idea che almeno qualche parte della Natura debba venir intesa come esempio o tipo». Il dosaggio di queste due propensioni ubbidisce ad una logica misteriosa, che Mill sospetta essere priva di basamento razionale: 1. Non è mai stato stabilito da nessuna dottrina accreditata, quali peculiari sezioni dell'ordine naturale debbano reputarsi intese a nostra guida ed insegnamento morale; e, di conseguenza, sono state le predilezioni individuali di qualunque singola persona, o le adeguatezze del momento a decidere. 2. Il rispetto dell'ordine naturale non può legittimare l'imitazione di certi aspetti della natura ad esclusione di altri. Ciò nonostante si fa appello a tale criterio sempre in maniera selettiva. Di conseguenza, quando qualcheduno invoca un simile argomento per appoggiare una qualunque norma, il vero chiarimento della posizione che egli vuole difendere va cercata in altro luogo. 3.5.1 Perché si crede che la natura comanda e punisce? Mill avanza una teoria di spiegazione delle ragioni (storiche, psicologiche) per le quali il precetto «seguire la natura» esercita una tale attrattiva, e dei presupposti che conferiscono un'apparenza di credibilità ai discorsi che le sostengono. Fa osservare per esempio che l'ammirazione suscitata dalla complessità e dalla forza dei fenomeni naturali è un elemento che porta a mescolare un'emozione estetica con un giudizio morale. Copyright ABCtribe.com 38 Mostra come la confusione tra descrittivo e prescrittivo si sia mantenuta giocando sui due significati della parola legge, la quale indica sia una regolarità che un comando. Le «leggi della natura» scoperte dalle scienze sono, secondo i termini di Mill «delle uniformità di coesistenza e di successione che si osservano nei fenomeni dell'universo» (ad esempio la legge di gravità). Niente di ciò che sia posto nel loro ambito di azione può sottrarvisi. Invece le leggi di cui si occupano il diritto o la morale sono ingiunzioni ad agire in un certa maniera. Si può scegliere di seguirle o meno. La maggior parte dei discorsi che prescrivono agli individui il rispetto delle leggi di natura è fondata sullo slittamento tra i due sensi del termine legge, con la conseguenza assurda di lasciar intendere che vi sia «una stretta relazione, se non addirittura una identità assoluta, fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere». Infine, Mill esamina il ruolo svolto dal sentimento religioso. La coscienza che qualunque cosa l'individuo faccia per migliorare la propria condizione è in quanto tale una censura e un'opposizione all'ordine istintivo della Natura ha fatto sì che in tutti i tempi i tentativi nuovi e senza antecedenti di miglioramento fossero generalmente posti sotto un'ombra di sospetto da parte delle religioni; come se si trattasse di atti in qualunque caso poco riguardosi, e molto quasi certamente offensivi verso gli esseri potenti (o, quando il politeismo fece posto al monoteismo, verso l'Essere onnipotente) che si supponevano governare i differenti fenomeni dell'universo, e dalla cui volontà si concepiva dipendere il corso della Natura. Segue un attacco in piena regola ai tentativi di giustificare le sventure naturali con i vantaggi che si suppone ne scaturiscano. Certo, i legami di interdipendenza fra i fenomeni sono in questo modo numerosi che, tra le conseguenze immediate o remote di un qualunque evento, è molto probabile che se ne trovino sia di buone che di cattive. In ogni modo è non dimostrabile, e forse falso, che il male produca in genere un bene maggiore. Ipotizziamo che, diversamente dalle apparenze, questi orrori, quando sono commessi dalla Natura, promuovano degli scopi buoni, tuttavia poiché nessuno crede che noi seguiremmo dei fini buoni se seguissimo questi esempi, il corso della Natura non può essere per noi un buon esempio da imitare. O è giusto dire che dovremmo ammazzare perché la Natura assassina, torturare perché la Natura tortura, rovinare e distruggere perché la Natura fa similmente; oppure non dovremmo considerare per nulla quello che la Natura fa, ma quello che è bene fare. L'affermazione secondo cui i mali naturali sono in verità degli enormi benefici deriva per la maggior parte dallo sforzo scoraggiato dei fedeli di liberarsi del paradosso del male (Come può un Dio di bontà consentire il dispiacere degli innocenti?). Come pure l'ostinazione, contro qualunque evidenza, nel pensare che la creazione sia sempre buona, essendo impresa di Dio. Se la decima parte degli impegni che si sono spesi per trovare degli Copyright ABCtribe.com 39 accomodamenti benevoli in tutta la natura, fossero stati utilizzati nel raccogliere le prove per calunniare il carattere del Creatore, quale vasta messa di argomentazioni si sarebbe trovata nell'esistenza degli animali meno elevati, separati, salvo rarissime eccezioni, in divoratori e divorati, preda di migliaia di mali dinanzi a cui vennero contestate loro le facoltà per difendersi. 3.5.2 Un antidoto perfetto da perfezionare Il saggio di Mill non si occupa particolarmente degli animali. Dovrebbe però apparire nella cassetta degli attrezzi di qualunque militante animalista. È un rimedio sorprendente per contrastare le obiezioni che gli vengono quotidianamente rivolte (magiare carne è naturale, la caccia è naturale). È pure un antidoto che dovrebbe dare a se medesimo quando è tentato di farsi sedurre dal favore di cui gode la celebrazione della natura, e dall'idea di trarne un beneficio per gli animali. Che siano o meno popolari, dei cattivi argomenti rimangono cattivi pretesti. La dimostrazione che Mill dà della scarsità del precetto di «seguire la natura» è assoluta. E sebbene ciò l'esperienza prova che contro tutti quelli che usano il termine «naturale» come sinonimo di «bene», essa non è a sufficienza persuasivo. Costoro non sono in grado di contestarla, ma se ne liberano in modi tanto sconclusionati che non c'è speranza di ricondurli sul terreno della logica. Quando si controbatte il valore normativo della conformità alla natura, di solito ci si trova dinanzi a riflessioni quali: «tu ti credi Dio»; «ascolta la natura che è in te e ritroverai l'Armonia con l'Universo»; «l'agricoltura chimica avvelena la Terra e l'organismo»; o anche: «Se preferisci il cemento e le marmitte di scappamento ai campi ed alle foreste, questo è affar tuo». Cosa si può rispondere a qualcheduno che, quando gli fate osservare che l'insalata non può servire come rasoio, risponde: «certo, ma è più buona di una cravatta condita con l'aceto»? L'argomentazione di Mill non ha mancanze sul piano razionale. Le resistenze che imbatte danno prova che la ragione non basta. Se una tale gran folla si attacca ad un'idea manifestamente falsa, è senz'altro perché essa appaga dei bisogni psicologici che la forzano ad ingannarsi. Per combattere il miraggio secondo cui il «rispetto dell'ordine naturale», potrebbe munire contenuto e giustificazione alla morale, occorre capire e far capire ancora meglio le cause che lo determinano: esaminare le paure che tale miraggio serve ad allontanare e il reticolo serrato di credenze nelle quali si immette. Una delle ragioni del fascino che esercita il «rispetto della natura» sta nel fatto che esso pare dare un fondamento oggettivo alla morale (i cui precetti sarebbero inseriti a chiare lettere nella realtà, o scaturirebbero da un'autorità infallibile), risolvendo pertanto in modo illusorio un problema di per sé molto reale e paurosamente articolato. Il metodo migliore di sbarazzarsi di una cattiva soluzione è quello di presentarne una migliore. L'argomentazione maturata da Mill ne La Natura si fonda tra l'altro sulla denuncia della fallacia naturalistica (naturalistic fallacy). Se fosse possibile eludere l'interdetto Copyright ABCtribe.com 40 di Hume, salvare la sua portata critica scorgendo nel contempo un modo di dedurre esattamente quello che deve essere da quello che è, allora si sarebbe trovato ad un tempo un metodo infallibile per fissare il contenuto dei dettami etici e una giustificazione della morale che la porrebbe risolutivamente al riparo da qualunque relativismo. Probabilmente si tratta di un'impossibilità logica. Il fatto che per secoli i pensatori non ne siano arrivati a capo non è affatto confortante. 3.5.3 Mill contro Comte e Spencer Da una serie di articoli comparsi sulla Fortnightly Review Mill ricavò il contenuto per un libretto dal tiolo AugusteComte and Positivism, che venne pubblicato soltanto nel 1865. Pertanto: le critiche, e pure gli apprezzamenti, che Mill rivolse al sistema comtiano rievocavano ad un periodo precedente. Ciò spiega parchè ci occupiamo prima di opere divulgate dopo, e rinviamo ai prossimi capitoli l'esame degli elaborati Sull'utilitarismo e quelli sulla filosofia di W.Hamilton, divulgate in relazione al 1861-63 e al 1865. Tornando al System of Logic di Mill, si ha ben chiaro che il primo a dissentire fu lo stesso Comte. Aveva accolto l'opera molto con freddezza e, forse, non l'aveva neppure letta del tutto, come suo solito. Con il System, Mill aveva di fatto dichiarata l'indipendenza della logica ( e della psicologia) dalla scienza, e, quindi, aveva riconosciuto il diritto di pensare liberamente dalle scienze, pure se non ignorandole, ovviamente. Per Mill non furono le scienze a basare la logica, ma viceversa la logica a fondare le scienze. Quando Bertrand Russell si impegnerà a fondo per provare che la matematica è parte della logica, terminerà per tentare, controvoglia, di dare ragione a Mill, pure se Russell non provò mai alcuna propensione per Mill e per il procedimento induttivo. Nel Saggio sulla libertà, Mill aveva per di più apertamente postulato il diritto ed il dovere di dissentire dalla tirannia dell'opinione regnante, qualsiasi fosse, non in nome di un astratto ribellismo, ma in nome della medesima ricerca della verità completa, la quale non può essere in possesso di un solo individuo, di una sola scienza, o di un solo partito. O lo può essere solo in situazioni eccezionali, e su argomenti assai limitati. Del resto, perfino per avere un ritratto veritiero di noi stessi, dobbiamo in qualche maniera ricorrere pure agli altri, agli amici, ad uno psicologo, o in ogni modo possedere una conoscenza della psicologia per rifletterci in essa. Per Mill il metodo di conoscenza, la maniera di conoscere, era pertanto una specie di filosofia prima, che era indiscutibilmente soggettiva ed individuale, pure se, divenendo oggetto di studio, veniva posta ovviamente in forma oggettiva, come dato contraddistinguente comune agli esseri umani. Come mette in risalto Stefano Poggi nel volume Il Positivismo, la comunità scientifica, compresa quella tedesca, fu più disposta a ricevere le idee di Mill, piuttosto che quelle di Comte. Lo stesso pensatore francese E.Littré, difensore d'ufficio di Comte e critico di Mill, aveva finito con il fissare con Mill sul carattere sperimentale del processo conoscitivo. Copyright ABCtribe.com 41 Ma le riserve ed i disaccordi di Comte al pensiero di Mill rimasero sempre abbastanza impliciti. Ciò desta qualche perplessità, ma esaminando alcuni fatti nella vita privata di Comte, si può probabilmente arguire che il suo atteggiamento fu dettato da opportunismo. Comte fu difatti aiutato da Mill in più di una situazione. In particolare gli aveva procurato un sussidio da Grote e Molesworth, quando Comte era stato escluso dal ruolo di revisore dall'Università di Parigi. Per Robbins, Mill avviò a prendere le distanze da Comte quando venne a conoscere il suo pensiero sulle donne, originato dalla frenologia. Da un lato egli le pensava oggetti degni di adorazione, dall'altra le considerava esseri inferiori e meno intelligenti. E in tale vicenda giocò un ruolo decisivo Harriet Taylor, che, leggendo le sue lettere, giudicò Comte un individuo arido. In realtà Mill aveva già preso le distanze da Comte, ben prima, e come abbiamo visto, proprio in ragione della frenologia e della psicologia. Più obiettivo della moglie, Mill non sconfessò mai i lati apprezzabili del pensiero comtiano. Scrive Poggi: « Mill respingeva il giudizio che Spencer aveva espresso nel suo saggio sulla classificazione delle scienze nel 1864 circa la scarsa originalità delle concezioni comtiane, ritenute nient'altro che un aspetto della "eredità comune" del pensiero moderno. Comte affermava Mill - aveva messo in evidenza con grande forza e persuasività il carattere non assoluto della conoscenza umana. Continuando ad esprimere consenso nei confronti della concezione comtiana dei tre stadi di sviluppo della conoscenza umana, Mill giudicava in modo favorevole anche l'impostazione data nel Cours alla questione della classificazione delle scienze. » (cit.) Secondo Mill, Comte aveva saputo identificare la dinamica della relazione fra lo sviluppo della conoscenza e la costruzione della dottrina scientifica. Al contrario, Spencer non aveva colto il rapporto fra "scienza astratta" delle leggi di natura e conoscenza concreta dei fenomeni, e non aveva intravisto che di qualunque legge si poteva dare una illimitata possibilità di mescolanza con altre leggi. Redige ancora Poggi: « Ora, a giudizio di Mill, i criteri proposti da Spencer, - che, per esempio, classificava chimica e biologia tra le "scienze concrete" - introducevano distinzioni assai meno pertinenti di quelle proposte da Comte. A Spencer poteva essere avanzata un'obiezione radicale: egli aveva posto mano ad una classificazione delle "verità" della conoscenza scientifica sulla base non dell'oggetto di tali verità, ma di irrilevanti differenze "nel modo in cui veniamo a conoscerle". Se - rilevava Mill - "la legge di inerzia (considerata come una verità esatta) non è il risultato di una generalizzazione delle nostre percezioni dirette, ma è il risultato di una inferenza compiuta combinando con i movimenti che vediamo quelli che noi dovremmo vedere se non ci fossero della cause perturbatrici", ciò forse fa una grande differenza? Nell'un caso e nell'altro la certezza di avere una verità esatta è la medesima: "ogni legge dinamica viene portata a pieno compimento anche Copyright ABCtribe.com 42 quando sembra essere del tutto contestata." Si pensi solo - concludeva Mill - a quante, per esempio, sono le verità della fisiologia conosciute solo in modo indiretto: ciò non impone tuttavia di farne qualcosa di astratto nel senso di Spencer, da espungere dunque dal corpo della scienza.» La dichiara troppo esplicitamente Mill, ma certo è che questo non può essere il procedimento con il quale si possono ordinare le scienze, le quali peraltro sono già state regolate dalla storia della scienza, autonomamente, dagli scienziati e non dai pensatori. Quello che fa di una scienza una scienza è certamente il suo oggetto e, per restare ad una che mi è particolarmente consona, la medicina, è certo che essa in primo luogo ha un oggetto, la malattia e la salute psicofisica di tutti gli individui umani, ed ha anche nel tempo, preparato un suo metodo conoscitivo adeguato ad una conoscenza generale di tutto quello che è comune agli individui umani, altresì nel senso di eccezioni al comune, ed è questo che la rende nella stragrande maggioranza dei casi attendibile. Ma il problema è che noi non abbiamo mai apertamente a che fare con la scienza medica, ma con dei medici, degli infermieri, degli ospedali, delle analisi e delle terapie, dei medicinali e del loro effetto su di noi. Il lato concreto della scienza è questo: la sua applicazione attraverso individui che agiscono in virtù di quel sapere generale e di come è stato trasposto in applicazione peculiare. Allora è chiaro che la distinzione spenceriana fra scienze astratte e concrete è del tutto discutibile. La scienza è concreta quando un addetto la applica. La scienza medica è concreta quando esiste un medico che, apprendendola, la applica. Era sicuramente vero che Comte aveva eluso e, in ogni modo, molto svalutato il problema delle inferenze induttive. E il luogo e la sostanza della sottovalutazione stava nel concetto di causalità. Per il pensatore francese un fatto fisico può essere la causa di un altro solo secondo la legge di successione, e pertanto solo in tale senso poteva essere oggetto di conoscenza scientifica. Secondo Mill si davano leggi di successione e leggi di coabitazione. Non soltanto: una cosa sono le leggi di causazione ed un'altra ancora sono le successioni: il fatto che la notte insegua il giorno, non prova affatto che il giorno sia cagione della notte. Mill criticò per di più la rinuncia di Comte a valersi della prova e pertanto dell'esperimento. Secondo Comte, come mette in risalto Stefano Poggi, " la strutturazione teorico-sistematica della conoscenza" era "qualcosa di soggettivamente utile" . Veniva unicamente incontro all'esigenza umana di "ottemperare ad una istintiva predilezione per l'ordine e l'armonia." Mill notò che "in tal modo veniva operato il completo stravolgimento dei principi essenziali che formano la concezione positiva della scienza." Copyright ABCtribe.com 43 Poggi, per la verità, non pare sia stato in grado di spiegare bene tale tipo di critica. Se si pone la soddisfazione interiore di tale ricerca di armonia a basamento dei nostri giudizi e delle nostre valutazioni scientifiche, vale a dire della nostra interpretazione dei fatti, poniamo il soggettivo, la nostra fantasia, il nostro desiderio che le cose stiano in questo modo, in luogo dell'oggettivo rilevamento, che al contrario porta a dire: le cose stanno così, anche se mi dispiace. Non si tratta pertanto di una critica di poco conto, di un prominenza ad una svista comtiana, ma di una osservazione sostanziale che prova quanto Comte avesse una concezione davvero soggettiva e del tutto personale della scienza, tanto spontanea quanto dogmatica. Redige poi Poggi:« Certamente - argomentava Mill continuando a discutere la tesi di Comte - la "parte intellettuale" non è "la parte più potente della nostra natura"; in se stessa, ne è anzi una delle più deboli. La "parte intellettuale", tuttavia, "guida ed agisce non con la sua sola forza , ma con tutte le forze unite delle parti della nostra natura che può trascinare dietro di sé." Se è ovvio che "le passioni, nel singolo individuo, sono una potenza che ha più energia di una pura e semplice convinzione intellettuale", è pure vero che le "passioni tendono a dividere, non ad unire l'umanità." Le passioni possono cooperare - e non come forze che "si neutralizzano a vicenda" - soltanto se guidate da una credenza (belief) comune", da un "risvegliarsi della nostra intelligenza", che in questo modo abbandoni le "aspirazioni animali" e i "desideri più forti e rozzi".» Tali considerazioni di Mill raggiunsero l'apice tuttavia in una critica ad Herbert Spencer che, di fatto, urtò sia Hume che Adam Smith e la loro dottrina dei sentimenti. Spencer aveva dichiarato che le idee non governano il mondo, il quale è assoggettato dai sentimenti; le idee sono soltanto una guida. In sostanza Spencer aveva contestato a Comte il suo esempio di interazione fra idee e sentimenti, e pertanto di un’ unione fra passione e ragione. Mill difese Comte, sottolineando, che sotto tale profilo non erano state le emozioni, ma i cambiamenti intellettuali a cambiare e accrescere le più rilevanti conoscenze. Possiamo parlare a tale proposito di un platonismo milliano, che si mette in evidenza in particolare in tale citazione: « Affermare che le convinzioni intellettuali degli uomini non determinano la loro condotta è come affermare che la nave è mossa dal vapore e non dal timoniere. Certamente , il vapore è la potenza motrice; il timoniere, lasciato a se stesso , non potrebbe fare avanzare la nave d'un pollice, eppure sono la volontà e le conoscenze del timoniere che decidono in quale direzione la nave muoverà ». Sul fatto che quello sia vero non ci sono dubbi; ma è altrettanto vero che ci sono illimitati individui umani che, in qualunque epoca ed in ogni regime sociale e politico, paiono davvero navi senza timoniere e questo, tutto sommato, rende una qualche ragione pure a Spencer. Con ciò, per di più, occorrerebbe sempre ricordare che negli individui migliori c'è sempre una passione fondamentale, ovvero una tensione alla scoperta che non si può spiegare soltanto come razionale. E le scoperte non si fanno solo a tavolino. Bisogna, a volte, anche rischiare, vale a dire sfidare valorosamente i propri limiti fisici e mentali, vincendo paure del tutto razionali quali quello di sperimentare un salto nel vuoto con il paracadute per vedere se è vero che con tale mezzo siamo capace di rallentare la velocità di caduta. Negli scritti raccolti sotto il titolo Utilitarismo, pubblicati in origine nel 1863 sulla rivista Frazer's, troviamo una riproposta della dottrina utilitarista, anche se rivisitata e corretta molto profondamente rispetto all'originaria Copyright ABCtribe.com 44 impostazione di Bentham. Questo dottrina viene spesso compendiata con l'affermazione che è eticamente e correttamente corretta l'azione indirizzata a garantire la felicità per il maggior numero. Naturalmente non tutta la teoria si risolve in questo, ma tale è la formula, più che il principio, ed a questa formula che si riferisce pure il diritto riconosciuto per il quale ciascuno agisce esattamente se ricerca la sua felicità personale, cercando di raggiungere il piacere e fuggendo il dolore e la sofferenza. Stuart Mill corresse tale formula, aggiungendovi considerazioni morali, come dicendo: a patto che non si agisca in maniera immorale, a patto che la virtù sia pensata come mezzo per la felicità e come desiderabile in sé medesima, ed ancora: a condizione che si riconosca una diversità fra piaceri bassi e piaceri notevoli, che sono quelli che danno la felicità. Come si vede subito, si trattò di considerevoli precisazioni a puntello di una scienza filosofica che altrimenti sarebbe stata troppo vaga e generica, oltre che oppugnabile a partire da quel vizio di formulazione che ometteva il dovere, dichiarando soltanto il diritto. Vi erano dottrine che contestavano la felicità o la giudicavano impossibile. Si trattava, in sostanza, di chiarire entro quali condizioni avesse senso parlare di felicità e pure di mostrare dove, come e quando si erano constatati esempi concreti di felicità particolare o collettiva. Un problema poteva casomai consistere in questo: oltre alle ovvie difficoltà naturali, determinate dalla precarietà della vita dell' uomo, vi erano e vi sono certamente altri ostacoli di natura sociale, culturale, economica che ostacolano la felicità. Non disgiunti da tali, ma esaminabili in modo relativamente indipendente, vi erano da approfondire gli intralci caratteriali e di temperamento interni agli uomini medesimi. Vano dire che spesso una non riuscita felicità non ha niente a che vedere con la povertà, la mancanza di salute, il difetto fisico, ma è frutto di una mentalità sbagliata, di un imperfetto ed unilaterale approccio alla esistenza, di non comprensione di come gira il mondo dei rapporti sociali e fra i sessi. Nel caso in cui cercassimo anche questo, il testo milliano potrebbe risultare insoddisfacente. Certo non fu una guida alla felicità o un manuale di materialismo. Potremmo considerarlo, al massimo, l'espressione di un esistenzialismo facilitato e liberato da considerazioni intellettualistiche e libresche, oppure contaminate dall'irrazionalismo di stampo kierkegaardiano, o dell'assoluta non-volontà di vivere difesa da Schopenhauer, scrittori che Mill, peraltro, mostrò di ignorare, e che probabilmente conobbe soltanto mediante i loro seguaci inglesi. Mirassimo ad ottenere un qualche stimolo alla investigazione filosofica, gli spunti non mancherebbero, pure se tale lavoro non fu improntato ad una ricerca indifferente ed aperta a qualunque risultato, ma risolutamente orientato a difendere la dottrina utilitaristica dagli attacchi ed a renderla più ammissibile. Siffatta preparazione compromise la valutazione che Mill diede di Kant ed il lettore obiettivo potrebbe perfino rimanere contrariato dalla saccenza con cui Mill liquidò la riflessione kantiana su giustizia e moralità, senza peraltro provare di conoscerla approfonditamente. Sotto tale aspetto si può affermare che l'interesse maggiore di tali scritti concerne l'indagine sulla relazione fra utilitarismo e giustizia che si trova esposta al V Copyright ABCtribe.com 45 capitolo. Qui Mill cercò di provare che il principio di giustizia morale, qualche cosa di sostanziale, che è altra cosa da quello di giustizia giuridica, spesso solamente formale, non è un principio a sé stante, vivente di per sé nella natura umana, ma il derivato dell'approccio utilitaristico alla esistenza. Mill voleva dire che era la ricerca della felicità a portare ad imbattersi con il problema dell'ingiustizia, e pertanto a esprimere rivendicazioni in nome di più giustizia, e non la giustizia ad essere il principio della dottrina etica. In tale senso le tesi milliane rappresentarono una sfida ai principi della teoria morale kantiana, la quale era di tipo razionale e non empirico - induttiva. Nella seconda parte della Fondazione della metafisica dei costumi Kant aveva redatto: «Non si potrebbe immaginare nulla di peggio per la moralità che la pretesa di ricavarla da esempi. Infatti ogni esempio del genere deve esso stesso esser precedentemente giudicato alla luce dei principi della moralità per stabilire se è degno di servire da esempio autentico, cioè da modello; in nessun caso può quindi fornire per primo il concetto di moralità. Perfino il santo del Vangelo dev'essere paragonato col nostro ideale di perfezione morale prima di essere riconosciuto come tale; infatti egli dice di se stesso: "Perchè mi dite buono, (me che voi vedete)? Nessuno è buono (il prototipo del bene) eccetto il solo Dio (che voi non vedete)." Ma da dove prendiamo il concetto di Dio come Sommo Bene? Unicamente dall'idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera. In sede morale non c'è posto per l'imitazione, e gli esempi non servono che da incoraggiamento, cioè a togliere ogni dubbio sulla attendibilità di ciò che la legge comanda, a rendere intuibile ciò che la regola pratica esprime in modo più generale, ma non è ammissibile che sia posto in disparte il loro vero originale, che si trova nella ragione, e che ci si regoli su esempi.» (Fondazione della metafisica dei costumi ) In pratica, ribadì Kant, per giudicare un atteggiamento come morale, la ragione deve aver postulato in precedenza cosa è morale, e deve aver pertanto fissato a priori la massima sulla quale regolare il giudizio. A questo si può contestare che il ragionamento empirico, dopo esser giunto a comprendere che è meglio vietare alcuni atteggiamenti ai fini di una coesistenza pacifica che garantisca benessere e felicità, scopre alla fine, con un insight, vale a dire una inaspettata illuminazione della ragione, che l'insieme dei divieti che ha prodotto, in verità può essere compendiato in una formula, e questa formula è efficace in quanto da essa si possono agevolmente ipotizzare giudizi. A Kant si potrebbe insomma opporre che la ragione non lavora mai su nessuna cosa, ma a posteriori di esperienze significanti. Essa le può superare, ma sarebbe assurdo dichiarare che le ignora. Tale fu la posizione di Mill, e sotto questo profilo non pare sia confutabile. La problematizzazione del concetto di giustizia morale inserito da Mill, ciò nonostante, non solo dimostrò che la parola può assumere significati rischiosamente differenti e persino di tipo equivoco, ma anche che un certo numero di questioni di giustizia non si risolve trovando il principio o l'idea, principio od idea che semplicemente non sussiste in natura, ma solamente trovando l'accordo su cosa conviene reciprocamente. Si darebbe allora ingiustizia nel vero senso della parola qualora l'accordo venisse violato da un solo lato da una parte, e non in altro modo rinegoziato sulla base della nuova situazione. Ciò non fu contributo di poco conto nella storia della filosofia, ma questo apporto rimase viziato dalla mancata individuazione dei meriti di Copyright ABCtribe.com 46 Kant, il quale aveva in ogni modo espresso in termini davvero lampanti quella che è una formula viva e non morta sia della giustizia che dell’ equo agire. Se in Kant fu ovvio che si deve rifiutare ad un po' di felicità, e pertanto ad ogni compromesso morale, per un dovere assoluto verso la giustizia, in Mill comunque, non fu nello stesso modo palese che si deve rinunciare ad un po' di giustizia per un po' di felicità. Non fu questo il senso del lavoro milliano e si errerebbe a presentarlo in questo modo. Il vero scopo di Mill era quello di fare vedere che la giustizia non è una mummia, un duro cumulo di norme bacchettone, ma un principio vivo per i vivi, e che si imbattono problemi veri di giustizia soltanto se si vive. Che ci sia riuscito? Questo è il punto: le osservazioni critiche pro - Kant non sono contro Mill e neanche contro il metodo induttivo, che del resto si preferisce sinceramente a quello deduttivo quando ci si avventura in territori nei quali la matematica e l'esattezza scientifica possono ben poco. Il problema è che Mill non è sembrato convincente, e sembra abbia del tutto sbagliato indirizzo criticando Kant come se fosse il maggiore critico della giustizia rigida e mummificata. Formalmente, vi era, quindi, prima di Mill, una dottrina utilitaristica che si adattava sia agli egoisti che agli altruisti e sicuramente interpretava tanto la larga esigenza di discolpare e rimpolpare di contenuti l'edonismo borghese, quanto la causa di quelli che ambivano ad una condizione di vita superiore, quanto, per concludere, la causa di coloro che altruisticamente basavano la propria aspirazione alla felicità come trattazione del compito di consentire all'insieme degli esseri umani un po' di felicità e di benessere. Data tale epidemia utilitaristica, avrebbero dovuto restare immuni al contagio stesso gli sfigati di tutte le classi sociali e quei caratteri melanconici con i quali non funziona neppure la soluzione finale presentata dal Qoheletbiblico: visto che tutto è vanità, non resta che mettersi a tavola e fare baldoria con gli amici. In verità Mill confesserà in una lettera che, a suo avviso, la dottrina utilitaristica era avuta in comune da un'infima minoranza nella stessa Inghilterra, e che lo sport prediletto all'epoca era quella di presentarla sotto una visione deturpante. Ma questa è in fondo la sorte di tutte le dottrine, che si può fare? La correttezza appartiene, tuttavia, agli storici della filosofia, ma non pare una qualità diffusa fra i pensatori medesimi intesi come partigiani di una dottrina. Del resto, il medesimo Mill venne meno alla regola del fair play rispetto a Kant. La domanda ovvia che ci si potrebbe porre è che cosa sia divenuto l'utilitarismo dopo i rifacimenti di Mill. 3.5.4 Una distinzione tra felicità e soddisfazione Copyright ABCtribe.com 47 Mill introdusse tale distinzione per provare che l'utilitarismo riconosce che vi sono piaceri elevati e piaceri bassi, e questi procurano soltanto un godimento intenso e pronto, ma poi sfumano, mentre quelli elevati (letture, arti ecc...) non soltanto perdurano, ma sono anche utili, vale a dire accrescono la cultura e la coscienza di un individuo e il livello civile di una comunità. Tale distinzione è sicuramente rilevante perché dichiara una definizione di felicità trascurata da Bentham, attento soltanto, per così dire, agli aspetti quantitativi. Mill mostrò tale differenza nell'ambito di una dimostrazione condotta sul tema delle intenzioni e dei progetti umani, affermando, in risposta a possibili opposizioni: « L'obiezione che verrà fatta non è che il desiderio in ultimo esame possa avere la più remota possibilità di indirizzarsi ad altro che al piacere e all'eliminazione della sofferenza, ma invece che il volere non è la medesima cosa che il piacere; che una persona di provata virtù, anzi una persona qualunque che presenti a se stessa progetti ben determinati, porta a termine questi suoi progetti senza pensare al piacere raggiunto al momento di concepirli o che si aspetta al momento quando saranno messi in atto. E persiste ad agire in conformità con essi pure qualora questo piacere sia molto diminuito, sia a causa di modificazioni nel suo carattere, sia per l'indebolirsi della sua sensibilità ricettiva, o altresì qualora quel piacere sia più equilibrato dalle sofferenze che la continuazione dei progetti potrebbero arrecargli. Tutto questo si ammette pienamente, e si è dichiarato altrove tanto sinceramente e tanto perentoriamente quanto chiunque altro. La volontà, in quanto fenomeno attivo, è cosa differente dal desiderio, che è uno stato di sensibilità passiva, e benché in origine origini da esso, può in seguito prender radice e staccarsi dal tronco madre; a questo punto che nel caso di uno scopo abituale, piuttosto di volere una cosa perché la desideriamo, sovente la desideriamo soltanto perché la desideriamo. Ciò ciò nonostante non è che un esempio di quel comune fenomeno che è la forza dell'abitudine, e non è limitato al caso delle azioni virtuose.» (daUtilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile con l'utilità). Ma dopo tale concessione, Mill fu abbastanza risoluto nel dare prova che il desiderio determina la volontà e non c'è altra maniera per ottenere volontà che svegliare il desiderio, in particolare la voglia di essere felici: « prendiamo ora in considerazione non più la persona che ha una salda volontà di agire correttamente, ma colui la cui volontà virtuosa è tuttora debole, tale da poter piegarsi alla tentazione e sulla quale non si può fare completo affidamento. Come la si potrà irrobustire? Come si potrà imprimere o svegliare la volontà di essere virtuosi là dove essa esiste con una forza non sufficiente? Solamente se si fa sì che la persona desideri la virtù - facendole spuntare la virtù in una luce gradevole o l'assenza della virtù in una luce spiacevole.» Mill mise in evidenza il carattere morale dell'utilitarismo, come s'è visto, dichiarando che la ricerca della Copyright ABCtribe.com 48 felicità non esclude la virtù, ma anzi la incoraggia. Pur escludendo che l’ indagine della virtù sia qualche cosa di differente da un mezzo per arrivare alla felicità, e che perciò gli individui non bramino altro che la felicità medesima, si può dire che Mill gradì la virtù come indispensabile ingrediente della felicità. Su questo piano il ragionamento di Mill non fu a prima vista ineccepibile, pure perché, subito dopo affermò che, secondo l'utilitarismo, la virtù è auspicabile in sé medesima, senza altro fine che la virtù medesima. Che è come accettare che la virtù potrebbe non provvedere alla felicità. Ovviamente, anche in tale caso sarebbero possibili opposizioni infinite, non ultima quella che la virtù, anche se non viene premiata, schiva una bella serie di dolori e difficoltà di tipo interiore, il che è sicuramente una delle condizioni importantissimi per la felicità. Si può, però, per Mill, essere appagati e non- virtuosi, quindi soltanto appagati, sazi, ma non felici. E ciò spiega moltissime cose, non ultimo il fatto che la maggioranza degli individui mescola la soddisfazione con la felicità, ed è ciò che conduce ad affermazioni ai limiti dell'assurdo quali quella che la felicità è difficilissimo dal lato dei poveri che non potranno mai concedersi quei piaceri, o che è facilissima dall'altro lato, al punto che sarebbe sufficiente essere ricchi, buongustai, sessualmente dotati, intelligentissimi, bellissimi ecc... per essere pure felici. Tutto starebbe , allora, a intendere cosa sia la felicità, ed a dire ben chiaro che si tratta di felicità in senso terreno. Inutile affermare che l'impresa era ed è in ogni modo sovrumana perché qualsiasi definizione si possa dare di essa, rischia di escludere in ogni modo qualche ingrediente pensato essenziale da alcuni. Non si può affermare che essa consista nella rinuncia ad qualunque soddisfazione, per esempio. Si tratterebbe, casomai, di capire quali soddisfazioni procurano l'indispensabile alla felicità. Fra queste, indubbiamente, in un temperamento nobile, le compiacenze impersonali, le conquiste sociali o quelle della scienza, il progresso dell'istruzione, i progressi della medicina hanno un valore maggiore che in un temperamento meno nobile, attento soltanto alle soddisfazioni intese come possesso e come uso di beni. Mill parlò di amore per il denaro, per il potere e per la gloria come una specie di alternanza all'amore per la virtù, ma tese a minimizzare questo possibile conflitto, quando al contrario esso è sempre stato all'origine di qualsiasi ritiro dal mondo della gloria, del potere e del denaro perché è sovente parso impossibile raggiungere l'uno e l'altra con strumenti onesti. Vale la pena di rendere la citazione intera: « E di conseguenza la norma utilitarista, mentre tollera ed approva quegli altri desideri acquisiti [denaro, potere, gloria], fino al punto oltre il quale, invece di promuovere la felicità generale, le nuocerebbero, prescrive e richiede invece che si coltivi l'amore della virtù fino al punto di massima intensità, in quanto è determinante per la felicità generale più di qualsiasi altra cosa.» (da Utilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile con l'utilità). Come Bentham, Mill riconobbe che la sanzione procurava la prova della esattezza o meno di un'azione. Ma in Bentham la sanzione esteriore aveva un ruolo pressoché esclusivo, e perciò era rilevante che la collettività fosse più giusta e le leggi, opportunamente riformate, fossero applicate, mentre per Mill la sanzione interiore, ovvero l'avere una coscienza in pace, aveva un rilievo maggiore e valeva in ogni modo in qualunque situazione. Ma, sulla scorta di queste considerazioni, Mill tentò ugualmente di provare che la sanzione interiore non derivava dal carattere innato dell'umanità, o di almeno certi esemplari di esseri umani, in grado di stabilire a priori, cosa fosse buono o non buono, ma propendeva duramente per dare tutta la responsabilità della moralità e Copyright ABCtribe.com 49 del senso intrinseco di approvazione e biasimo all'educazione. Tale atteggiamento fu certamente democratico, e di sinistra (anzi è proprio uno dei siti più comuni del pensiero di sinistra), ma si capisce precisamente che non può essere pure del tutto ammissibile, perché si potrebbero fare milioni di esempi di singoli bene educati e poi in ogni modo caduti nell'immoralità, nel crimine o pure informe di lotta politica del tutto contrari con i principi della convivenza civile. Indipendentemente dal grado di giustizia di uno stato, per di più, per Mill era determinante la tirannia della maggioranza, vale a dire della mediocrità, ed era perciò sufficientemente illusorio credere che la pubblica opinione sanzionasse positivamente atteggiamenti corretti e prudenti, o provocatori, o unicamente ribelli all'ipocrisia. In quest'ottica l'utilitarismo doveva per forza di cose avere in comune l'idea che la virtù fosse insegnabile, pure se ciò rappresentava un problema, e che fosse parte integrante dell'insegnamento anche l'educazione a godere la vita ed a pervenire alla felicità. A questo fine Mill non esitò ad arruolare Socrate fra le file degli utilitaristi, riferendo il dialogo platonico Protagora, e diede somma rilevanza ad una rivalutazione dell'epicureismo, inserito dallo stoicismo e da "alcuni elementi della morale cristiana." Quest'idea fu presentata "di corsa", senza alcuno sforzo per presentare i possibili nessi fra le varie scuole. Inoltre Mill ignorò o finse di ignorare che uno dei massimi insegnamenti epicurei consisteva nel detto: "Vivi nascosto", che non sembra del tutto fedele con il precetto di agire apertamente per la massima felicità possibile per il maggior numero, insegnamento che non può non sboccare in un onere politico o sociale, no profit, tanto per capirci. L'utilitarismo non esclude il sacrificio di sè per altruismo. Mill ricacciò risolutamente tale critica all'etica utilitarista, considerata come borghese, condotta sia da destra, vale a dire dai malinconici come Coleridge e Carlyle dei bei tempi andati ed in generale dai romantici, ma pure da sinistra nel nome del socialismo, il quale reclama non uno, ma due sacrifici di sé. Prima come propagandista sostenitore che spende la propria esistenza ed i propri averi per la causa, e poi come singolo superiore che rinuncia ai propri meritati guadagni per dichiarare il principio dell'uguaglianza, o dell'appiattimento retributivo, che dir si voglia. L'utilitarismo non è una dottrina senza Dio. Mill contrappose a questa deformante critica degli antiutilitaristi romantici l'obiezione che Dio non poteva aver creato l'individuo per poi farlo vivere infelice. Chi dice questo, in sostanza, coltiva un assai miserabile concetto di Dio. Beh...questo è un pensiero certamente nobile, ed è, a mio avviso, il punto più alto di tutta la riflessione milliana. Tant'è vero che è su tale pensiero che si svilupperanno gli scritti teologici di Mill su Dio e la religione, pubblicati postumi. Ma in verità le basi dell'utilitarismo furono schiettamente laiche, pure se in Stuart Mill non presero mai una colorazione antireligiosa, semmai antidogmatica. C'è chi ha visto in tale posizione di Mill un'influenza della medesima teologia inglese, protestante ed anglicana, del XVIII secolo. Posto che la dottrina puritana era agli antipodi di tale teologia ottimistica e tollerante, e pertanto più vicina ai talebani, sicuramente, che ad Erasmo da Rotterdam, si può permettere tale Copyright ABCtribe.com 50 influenza teologica senza comunque esagerarla. Se proprio si volessero trovare dei padri a Stuart Mill, non fosse stato sufficiente quello carnale, sarebbe meglio cercarli fra i pensatori inglesi Locke, Bacone e tra i deisti. 3.5.5 Giustizia ed utilitarismo Secondo i più feroci critici dell'utilitarismo il concetto di giustizia in senso morale e non legale sarebbe la pietra d'inciampo, lo scoglio contro il quale l'intera dottrina utilitaristica avrebbe dovuto o dovrebbe affondare. All'utilitarismo, per Mill, era indispensabile provare che non è la giustizia il principio universale, sul quale si regola tutto il resto, ma casomai è l'approccio utilitaristico medesimo a fungere da criterio per la morale e per la giustizia. La teoria finale di Mill, come vedremo, è che l'Opportuno ed il Giusto sono da un lato cose differenti, ma dall'altro la medesima cosa, e che se un'azione è effettivamente giusta, dev'essere pure conveniente. Mill spese molti passi, nel capitolo V, per provare tale derivazione del concetto di giustizia e moralità in polemica con Kant e con la scuola definita intuitivo - razionale, in pratica la scuola che faceva della giustizia il principio della morale e derivava qualunque precetto morale dal postulato kantiano-cristiano di non pensare mai l'essere umano soltanto come mezzo, ma sempre come fine. Il problema è che pare dubbio che un approccio solamente utilitaristico possa portare alla stessa dichiarazione kantiana, la quale rimane, e rimarrà per sempre, nei secoli dei secoli, la massima capace di descrivere la moralità ed il criterio di qualunque giustizia. La riflessione kantiana potrebbe essere il risultato di un ragionamento utilitarista se, e soltanto se, essa fosse stata generata da una considerazione di tale tipo: io sarò felice quando non vi saranno più persone sulla terra che sfrutteranno altri uomini ritenendoli soltanto come bestie da soma, o come carne da macello per qualche guerra. Si tratta, di un sentimento di umanità universale più che di un ragionamento, di una specie particolarissima di intenerimento che è poi alla base di qualunque ragionamento corretto. Forse siamo in molti ad averlo ritenuto, ma alcuno, poi si è sentito utilitarista o si è gettato sui libri di Bentham per divorarli. Tutti, invece, abbiamo guardato a Kant come la vera luce dell'illuminismo, all'uomo che pur svolgendo difficili e testardi ragionamenti da pensatore, seppe sempre dire con naturalità ed umiltà le cose più belle e più vere sulla coesistenza umana. E' singolare che Mill non abbia sentito la occorrenza di citare questa massima, di farne la bandiera medesima del Copyright ABCtribe.com 51 suo utilitarismo a patto che. Al contrario si occupò della massima che deriva da questa, ovvero quella che afferma: «Agisci in modo tale - scrisse Kant - che la regola secondo la quale agisci possa essere adottata come legge da tutti gli esseri razionali.» Il che vuol dire: agisci in maniera esemplare. Fai sì che il tuo esempio sia da lezione di equità, prudenza, coraggio a singoli che si trovino in situazioni simili. Mill si limitò, nel commentare tale frase, ad una critica negativa. Notò che quando Kant "comincia a dedurre da siffatto precetto uno qualunque degli effettivi doveri morali, egli fallisce in maniera quasi grottesca nel tentativo di dimostrare che vi sarebbe una incoerenza, una impossibilità logica (senza parlare di una impossibilità fisica), se tutti gli esseri razionali volessero accogliere le regole di condotta più immoralmente corrotti. Tutto quello che egli riesce a provare è che gli effetti di una simile adozione universale sarebbero tali che alcuno vorrebbe prediligere di sottoporvisi." ( passo tratto da Utilitarismo - cap. I- Osservazioni generali). Secondo Mill, insomma, fu poco, quello che piuttosto secondo me fu molto: l'affermazione ben ponderata che è impossibile che pure nelle circostanze più critiche e desolanti non si palesi una inversione di tendenza. Ma sarebbe sbagliato scordare che in più punti il bersaglio di Mill pare piuttosto essere il concetto romantico della giustizia, spesso mostrato come un sentimento ed un istinto congenito, un istinto speciale ed una sorta di garanzia sulla bontà del prodotto essere umano. Non a caso Mill inaugurò il capitolo con un riferimento chiaro: « Uno degli ostacoli maggiori all'accettazione della dottrina secondo la quale l'Utilità e la Felicità sono il criterio del moralmente giusto e del non moralmente giusto, è nato, in ogni epoca del pensiero, dall'idea della giustizia. La potenza del sentimento e l'apparente limpidezza della percezione che questa parola richiama, con una rapidità ed una sicurezza che rassomigliano all'istinto, sono reputate alla maggioranza dei filosofi indicative di una qualità che è inerente alle cose; è parso che mostrassero che il Giusto deve esistere in Natura come qualche cosa di assoluto, distinto approssimativamente da tutte le varie forme dell'Opportuno, e discordante in teoria a quest'ultimo, sebbene sia in verità, così come viene comunemente riconosciuto, sempre collegato a lungo andare con esso. Nel caso di tale sentimento morale, così come per tutti gli altri, non vi è legame necessario fra la questione della sua origine e quella della sua forza vincolante. Il fatto che un sentimento sia ispirato in noi dalla Natura non legittima per forza tutte le sue sollecitazioni. Può darsi che il sentimento della giustizia sia un istinto speciale, ma che pur tuttavia richieda di essere esaminato da una ragione superiore. Se abbiamo degli istinti intellettuali che ci inducono a giudicare in un certo maniera particolare, così come abbiamo istinti animali che ci spingono ad agire in un maniera particolare, i primi non sono per forza più infallibili nella loro sfera di quanto non lo siano i secondi nella loro; e può succedere che giudizi erronei siano suggeriti dagli uni, così come azioni sbagliate lo sono da quegli altri». Da queste poche righe è evidente che Mill fu più impensierito di Copyright ABCtribe.com 52 distinguersi dai romantici che dai razionalisti. Inutile dire che si sarebbe separato molto meglio se avesse criticato tale deriva irrazionale e mistica del romanticismo come mancata comprensione del principio che basa la moralità kantiana, il quale non è per nessuna cosa infinito ed indicibile, ma è stato detto, perciò risultò finito, dicibile ed indiscutibile. Ma, seguendo Mill nell'evoluzione del suo esposizione, il primo approdo è che la giustizia viene ad essere un concetto del tutto relativo al punto di vista di che ne parla. Quello, più che a Socrate, porterebbe dritto a Protagora, ed alla sua famosa comunicazione che l'uomo (singolo) è la misura di tutte le cose. Più che un Mill socratico od epicureo, avremmo pertanto, in prima battuta, un Mill sofista. Può essere? In verità no. Mill era davvero molto preoccupato dal problema della genesi e della fondazione del concetto di giustizia. Ne fanno fede differenti passaggi quale per esempio il seguente: «Ai fini di tale ricerca, è rilevante dal punto di vista pratico esaminare se il sentimento stesso della giustizia o dell'ingiustizia sia un sentimento sui generis, in questo modo come lo sono le sensazioni del colore o del gusto, oppure sia un sentimento causato che si forma mediante una concomitanza di altri sentimenti. Ed è tanto più essenziale analizzare tale fatto, in quanto, benché si sia in generale disposti a concedere che concretamente le prescrizioni della Giustizia collimano con una parte del settore dall'Opportuno Generale, ciò nonostante, dato che il sentimento mentale soggettivo della Giustizia è differente da quel sentimento che è collegato in generale con il semplice opportuno, e dato che le sue sollecitazioni, eccetto, che nei casi estremi di quest'ultimo, hanno un carattere molto più imperativo, è difficile vedere nella giustizia unicamente un tipo particolare o un aspetto dell'utile generale, e si conclude perciò che la superiorità della sua forza vincolante richieda che l'origine ne sia interamente diverso». In pratica necessitava far luce sul carattere distintivo della giustizia e dell'ingiustizia. Ma accettare questo, significava ammettere che necessitava andare oltre il parere individuale e provare a determinare una concezione di giustizia che fosse condivisibile ed ammissibile dalla maggioranza degli esseri razionali. Il metodo non poteva perciò essere quello di far primeggiare una tesi in forma retorica, ma di raggiungere, se non la verità, qualche cosa di più prossimo ad essa attraverso il confronto di varie messe a fuoco. Ecco che Mill ricorse, allora, ad una ricerca sdoppiata, o per meglio dire, duplice. Da un lato domandò la ricerca nella direzione di provare che tutto quello che viene catalogato come giusto od ingiusto possieda sempre attributi comuni, anche uno solo, e che pertanto il nostro giudizio si fondi su tale esame che determina in modo empirico - statistico cosa ricorra sempre in un dato di giustizia o di ingiustizia. Come si vede siamo ad una riproposizione del metodo del System of Logic. Dall'altro ammise pure di provare ad indagare quanto vi fosse di inesplicabile, e perciò di mistico, nel sentimento ( e non del concetto, ma per forza di cose, anche nel concetto) di giustizia. Redasse Mill: «Se troviamo che la prima ipotesi è quella giusta, nel risolvere questa questione, avremo risolto, con ciò stesso, anche il problema principale, mentre, se troviamo invece che la seconda ipotesi è corretta, dovremo allora cercare un altro Copyright ABCtribe.com 53 tipo di indagine». Invitando il lettore interessato ai finissimi ragionamenti di Stuart Mill a leggersi il testo per conto suo, mi limito alla prima conclusione rilevante che incontriamo. « Per ricapitolare: l'idea della giustizia presuppone due cose, una regola di condotta ed un sentimento che sanzioni questa regola. Bisogna supporre che la prima cosa sia comune a tutto il genere umano e che la sua intenzione sia il bene di questo. La seconda cosa (il sentimento) è il desiderio che una punizione venga inflitta a coloro che contravvengono questa regola. Vi è implicita inoltre l'idea che sia vittima di quella trasgressione una determinata persona, i cui diritti (per servirsi dell'espressione appropriata a quella situazione) siano stati infranti da quella trasgressione». Ciò detto Mill analizza il concetto di diritto, avviando col affermare che: « Quando dichiariamo che qualche cosa è il diritto di un certo individuo, intendiamo dire che costui ha ragione di aspettarsi che la comunità difendi il suo possesso di quel diritto, sia con la forza della legge, che mediante quella dell'educazione e dell'opinione. Se ha delle ragioni sufficienti, per qualsiasi rispetto, di aspettarsi che la collettività gliene garantisca il possesso, diciamo allora che ha diritto a questo. Se desideriamo provare che una data cosa non gli appartiene di diritto, riteniamo che questo sia provato non appena venga accettato che la collettività non dovrebbe prendere delle misure per assicurargliene il possesso e dovrebbe piuttosto lasciarlo al caso o ai suoi propri sforzi. In questo modo, si dice che una persona ha diritto a quello che guadagna in una condizione di concorrenza leale nella sua professione, dato che la società non dovrebbe consentire a nessun altro di ostacolarlo nel guadagnare in quel precisato modo tutto quello che riesce a trarre profitto. Ma non ha diritto a trecento sterline l'anno, benché possa succedergli di guadagnarle in effetti, dato che non si può richiedere alla collettività che provveda a che egli guadagni quella somma. Al contrario, se egli possiede diecimila sterline in titoli del 3%, egli ha diritto a trecento sterline l'anno, dato che la comunità ha assunto l'obbligo di garantirgli un'entrata di tale entità.» 3.5.6 Diritto alla sicurezza Adesso Mill venne a dichiarare il diritto alla sicurezza e la certezza del diritto come costituenti basilari del concetto di giustizia sociale. « Avere un diritto, pertanto, così come l'intendo io, vuol dire avere qualche cosa il cui possesso da parte mia la comunità dovrebbe difendere. Se l'obiettore continua a chiedere perché dovrebbe farlo, non gli posso dare altra ragione se non l'utilità generale. Se tale espressione non sembra che tramandi la sensazione esatta della forza dell'obbligazione o non pare render ragione del vigore speciale di questa sensazione, ciò è dovuto al fatto che entra nella composizione di questo sentimento non solamente un costituente razionale , ma anche un elemento animale, la sete di vendetta; e tale sete deriva la sua intensità in tale maniera come la giustificazione morale, dal tipo insolitamente importante ed impressionante di utilità che è in gioco. L'interesse di cui si tratta è l'intervento per la sicurezza, che è il più vitale di tutti gli interessi, come ciascuno può ben farne Copyright ABCtribe.com 54 esperienza nei propri cuori. Quasi tutti gli altri benefici di tale mondo, se sono necessari ad un singolo non lo sono ad un'altra, e molti di essi, se necessario, si può agevolmente astenersi, o li si può sostituire con qualcos'altro; ma della sicurezza, nessun essere umano può, nel modo più assoluto fare a meno; da ciò dipendiamo per proteggerci dal male e per dare il loro pieno valore a tutti i beni presi uno per volta o presi insieme, al di là del momento fuggitivo, poiché nessuna cosa eccetto il piacere dell'istante potrebbe avere un valore qualsiasi per noi, se potessimo all'istante seguente venire spogliati di qualunque cosa da qualsiasi persona si trovasse ad essere più forte di noi. Orbene questa, che è, subito dopo il nutrimento fisico, la più fondamentale fra tutte le cose indispensabili, non può essere ottenuta a meno che non sia di continuo esercitato quel meccanismo che ce la assicura.» In siffatto contesto Mill prende decisamente partito per lo stato minimo, la cui esistenza è giustificata dalla occorrenza di sicurezza e questo stesso occorrenza trova origine nella accertamento che molti singoli non sono corretti, ma rubano, vorrebbero assassinare, e se non vi fosse una forza dell'ordine, ci ridurrebbero con piacere in schiavitù. Ma all'origine di questo c'è solamente la mancanza di educazione? Vedremo più avanti che Mill si trattiene dal rispondere, ed a proposito della libertà del volere si mantiene su filo di indeterminatezza, più che di dubbio autentico. Gli ultimi paragrafi di questo ragionamento sulla giustizia sono i più tonici. Mill dà inizio con l'evidenziare che se la giustizia fosse in effetti quel principio assoluto ed sicuro di cui parlano gli antiutilitaristi, "allora è difficile intendere dato che quell'oracolo interno sia così ambiguo e perché cose tanto numerose sorgano adesso giuste e ora non giuste, a seconda della luce in cui le si osserva." Detto questo è chiaro che manca in Mill una considerazione accessoria basilare: si possono dare differenti opinioni su cosa sia giusto in fissate circostanze, ma occorrerebbe distinguere fra queste stesse opinioni quelle indifferenti da quelle interessate. Che l'autore di un delitto abbia la sua personale opinione e sia contro la pena di morte è importante e degno di attenzione in quanto rispecchia il suo pensiero di individuo, ma non è importante che egli sia contro il suo ergastolo in quanto riflette il suo pensiero di colpevole. Divagazione off topics? Non tanto. Mill fu molto bravo ad esternare in astratto le molte opinioni sulla giustizia, ma lo fu molto meno nell'evidenziare che la battaglia delle convinzioni, in moltissimi casi, è solo la prosecuzione della guerra di ciascheduno contro gli altri condotta con altri mezzi. E' questo il limite di tutte le democrazie, ed è singolare che si sia spesso abbandonato che in democrazia la maniera più efficace e connessa di conseguire consensi non sta nell'esprimere le proprie lungimiranti opinioni, ma quello di dare ascolto alla piazza, di sondari gli umori e poi farli propri, in una media che cerchi di non deludere la maggioranza in alcuna delle questioni basilari. La tirannia della mediocrità, segnalata da Mill in On Liberty, può divenire una tirannia degli ingiusti e dei peggiori, un trionfo degli istinti più bassi. Quello non è un ragionamento contro la democrazia, che è madre delle ingiustizie né più e né meno che l'oligarchia o la dittatura, ma contro l'impiego strumentale che alcuni ne fanno, e gli abusi che concede.Le idee di Mill furono esemplarmente compendiate in tale passaggio che merita una citazione per intero: « Non soltanto i differenti popoli e i differenti Copyright ABCtribe.com 55 individui hanno idee differenti sulla giustizia, ma addirittura nella mente dello stesso identico singolo la giustizia non è una regola, un principio od una massima, piuttosto molte di queste, e tali che non collimano sempre nelle loro prescrizioni, e questa persona nello scegliere fra loro è guidata o da un criterio estraneo, o dalle sue predilezioni personali. Per esempio, c'è chi dichiara che è ingiusto punire qualcheduno per dare un esempio agli altri: che una punizione è giusta soltanto quando si intende fare il bene di colui che la subisce. Altri dichiarano fedelmente il contrario e sostengono che non è altro che dispotismo ed ingiustizia il voler infliggere una pena per il loro bene persone che hanno l'età della ragione, poiché se la questione riguarda unicamente il bene di costoro, alcuno ha il diritto di esercitare un controllo sul loro modo di giudicare quel bene; mentre al contrario essi possono venire esattamente puniti per schivare un danno agli altri, poiché questo costituisce un legittimo utilizzo del diritto all'autodifesa. Owen poi afferma che il fatto medesimo di punire è ingiusto; dato che il criminale non ha fatto da sé il proprio carattere; sono la sua educazione e le condizioni esistenti attorno a lui che lo hanno reso criminale, e di questo egli non è responsabile. Tutte queste opinioni sono molto plausibili; e fintanto che il problema in discussione è unicamente quello della giustizia, senza scendere ai principi che giacciono alla base della giustizia e istituiscono la fonte della sua autorità, non riesco a vedere come si potrebbe confutare nessuno di tali ragionamenti. Dal momento che in verità ciascuna delle tre tesi è basata su regole di giustizia che sono riconosciute come vere.» Qui Mill prova, a mio avviso, tutta l'ignoranza della sua specie ( homo utilitarians) nei confronti del pensiero kantiano ( e cristiano). Se accettiamo che non si può considerare l'individuo, qualunque individuo, soltanto come un mezzo, se ammettiamo che occorre rispettare il prossimo come sé stessi, la tesi della punizione esemplare non soltanto è confutabile, ma non è ammissibile in una cultura che si vanta di essere cristiana. La giustizia non accetta che si compia un'ingiustizia condannando qualcheduno ad una pena ammirevole, nemmeno per salvarne molti altri. La giustizia richiede che si usi sempre una clemenza corrispondente alle circostanze ed ai metodi della realizzazione del reato, fatte salve le misure di certezza alla quali ha diritto la società. Altresì l'affermazione che la tesi oweniana abbia un qualche principio è comprensibilmente confutabile. L'individuo che si indirizza al crimine può essere privo di senso morale alla stessa maniera di quelli che non compiono i crimini, ma avrebbero tanto desiderio di farlo. Ma certo non è al corrente che la legge prevede la pena e quindi è precisamente consapevole che ammazzando o rubando egli rischia di essere scoperto e condannato. Allora, visto che di questo è conscio e responsabile, la teoria oweniana, che Mill condivise come al solito a metà, non è in alcun caso sopportabile perché confonde il non avere una coscienza morale con il non avere una conoscenza elementare delle leggi, che viceversa tutti, anche i più rozzi e brutali fra i delinquenti, possiedono.Scrive ancora Mill, sfiorando a mio avviso un punto molto basso della sua carriera di pensatore: « Per difendersi dalla Copyright ABCtribe.com 56 terza delle tre tesi ci si è inventati la così chiamata libertà del volere; vedendo con la mente che non si poteva giustificare la punizione di un individuo la cui volontà fosse in condizioni detestabili, a meno di non congetturare che fosse caduta in quello stato senza l'influenza di condizioni antecedenti.» Non credo che l'espressione "ci si è inventati la cosiddetta libertà del volere" sia accettabile. Sino alla comparizione della teoria della grazia di credere di San Paolo e del servo arbitrio di Agostino, si è sempre pensato che l'individuo, per quanto in balia delle bizzarrie della sorte, degli dei o del caso, fosse libero di determinare e capace di scegliere se commettere o meno dei reati. Sussiste una libertà del volere contrastante al servo arbitrio da quando Lutero radicalizzò completamente il concetto della non libertà dell'individuo e della sua totale connessione da Dio. Ma, autonomamente dal fatto che si possa o meno accettare tale dottrina, resta che essa potrebbe avere un valore soltanto relativamente al significato morale. A prescindere dal fatto che attribuire a Dio la volontà di volerci cattivi non mi sembra conforme ad un'idea di Dio come Padre, l'unica possibile da Cristo in poi, rimane che indubbiamente ci sono individui sprovvisti di senso morale, pure se non commettono reati abitualmente. Non commettiamo il male o perché abbiamo un senso morale, o perché abbiamo paura della giustizia umana; perciò, proprio nel timore ed pure nella più elementare conoscenza delle leggi, siamo sempre liberi di decidere se compiere il male oppure no, consci del rischio che potremmo correre. In qualunque comunità civile, pure quella in modo peggiore amministrata, altresì quella finita in mano a qualche mafia, non ci si può consentire di agire in senso contrario alle leggi dell' uomini, a meno che non si disponga di qualche particolare difesa dell'autorità mafiosa. Per tale ragione la teoria del servo arbitrio potrebbe avere un senso soltanto limitatamente a cosa fermenta nel cuore degli individui, ma non ha alcun senso rispetto a quello che in realtà fanno, e del quale sono, in generale, responsabili a tutti gli effetti. Sia un assassinio per legittima difesa che un assassinio per difendere qualcun altro da un assalto in atto, azioni che si compiono sotto una stato di pressante necessità, sono in tutti i casi azioni libere, azioni che è soltanto perché siamo capaci di intendere, valutare e volere, siamo altresì capaci di compiere. Lasciamo fuori dal discorso solo gli psicotici, per i quali la percezione della realtà se n'è andato del tutto. 3.5.7 Giustizia ed opportunità. Le conclusioni alle quali, in ogni modo, giunse Stuart Mill sono in parte accettabili nel senso che, anche dopo Kant, tanto i pensatori quanto l'umanità nel suo insieme sono capaci di comprendere che accanto ad una brevissima serie di massime in grado di riassumere cosa sia la giustizia in tutte le condizioni (Kant), si da anche la possibilità di assumere nuovi criteri di giustizia adeguati al caso, alle circostanze storiche, economiche e politiche. Mill perseverò, a ragione, sul fatto che la collettività dovrebbe ripagare Copyright ABCtribe.com 57 il bene con il bene ed il male con il male, ma scorda che limitandosi a questo, potrebbero formarsi fazioni in lotta che, adottando tale principio, non farebbero altro che allungare all'infinito la spirale di una falsa giustizia astiosa. Quello è particolarmente palese sul piano dei conflitti internazionali dove lo spirito di rappresaglia adottato da Israele contro gli attentati terroristici, per quanto possa parere ufficialmente giusto (ma quante volte ha colpito innocenti?) è in ogni modo chiaramente sconveniente ed inefficace perché non porta alla pace, non libera tale situazione assurda, ma concepisce solo ulteriore violenza. L'idea che da tale lotta si possa uscire vincitori con la totale demolizione dell'altra parte è semplicemente assurda. In altri termini: necessiterebbe allora che chi si immagina più civile e superiore, lo provasse altresì, schivando per primo di ripagare il male con il male, ma ricompensando una volta tanto il male con una proposta di accordo, ovvero facendo assegnazioni decisive alle parti più razionali in lotta. E' su tale piano che la lex talionis sfoggia la corda (anche perché mai applicata perfettamente, ma sempre sistematicamente violata con violenze contro innocenti) ed è su siffatto piano che idee politiche opportune, ed anche effettivamente giuste, nel senso di quell'agire esemplare appellato da Kant, potrebbero avere esito positivo. Ancora una volta, proprio nelle considerazioni finali, Mill, nel tentativo di fare vedere quanto l'opportuno di agire altruisticamente possa a volte primeggiare sulla giustizia, intesa invero come qualche cosa di troppo rigido e imponente e non come una voce viva, saggia e chiarificatore, finì per cadere in una colossale incoerenza. Egli redasse: «....sebbene possano darsi casi nei quali un altro dovere sociale è talmente rilevante da far tacere le prescrizioni di qualunque massima generale della giustizia. Così, per salvare una vita umana, potrà essere non soltanto permesso, ma dovuto rubare o prendere con la forza il cibo indispensabile o la medicina, oppure sequestrare l'unico medico qualificato e obbligarlo a compiere le sue funzioni. In questi avvenimenti fortuiti, dato che non chiamiamo giustizia quello che non è virtù, proferiamo in generale non che la giustizia deve far posto a qualche altro principio morale, ma invece che quello che è giusto nelle circostanze normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, ma anziché che quello che è giusto nei casi normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, in quel peculiare caso. Mediante siffatto confortevole arrangiamento linguistico, viene mantenuto alla giustizia quel carattere di incontestabilità e ci viene risparmiata la necessità di dover dire che possono esistere ingiustizie lodevoli.» Sarcasmo del tutto fuori luogo perché è chiaro che, se una delle prescrizioni della giustizia mostrate da Kant è di agire in modo da essere di esempio, di essere legge per tutti gli esseri razionali, l'azione limite sostenuta da Mill si può ritenere giusta, oltre che appropriata, giusta ovviamente in relazione al senso morale e non a criteri unicamente estetici e formali di giustizia. E poi, per quale ragione sequestrare il medico, quanto sarebbe sufficiente domandargli di venire ? 3.6 Natura, Dio e religione Sotto il titolo Essays on Religion vennero ripresi e divulgati postumi, a cura della figliastra Helen Taylor, tre Copyright ABCtribe.com 58 saggi intitolati rispettivamente Natura, Utilità della religione e Teismo. Si tratta di saggi di valore diseguale e dato che il più rilevante, oltre che ampio, è il terzo. I primi due Essays erano stati composti in un periodo compreso tra il 1850 ed il 1858; Teismo nel periodo prontamente antecedente la morte. Se i primi due saggi non vennero divulgati in precedenza fu perchè Mill nutrì nei loro confronti qualche dubbio. Il problema è delicato per differenti ragioni. Il saggio sulla Natura, se da un lato veniva comprensibilmente a preannunciare ai temi di On liberty, dall'altro esprimeva considerazioni tanto negative sugli istinti e la naturalità dell'individuo, che sembrava entrare in contraddizione con le medesime teorie sulla libertà, fra le quali era chiaro che il libero progresso individuale implica inevitabilmente un accrescimento degli istinti migliori e peggiori. Molto giudiziosamente Mill decise di mirare alla libertà e tenere in archivio le sue più che lecite riserve sulla bontà naturale dell'individuo e sulla tranquillità della natura. Una seconda causa dei dubbi di Mill può essere determinata nel fatto che nel 1850 era stato divulgato il lavoro di Herbert Spencer dal titolo Social Statics: or, the Conditions Essential to Human Happiness Specified, and the First of Them Developed. Tale elaborato poneva all'ordine del giorno questioni come l'evoluzione biologica e umana non esplicitamente fatte fronte da Mill e che in ogni modo abbisognavano di un ulteriore approfondimento: le riflessioni milliane sulla natura dell' uomo, in prima battuta, sorgevano oltremisura statiche rispetto alla dinamica evolutiva storico-biologica propugnata da Spencer. Nel secondo saggio, Utilità della religione, apparivano dichiarazioni piuttosto impegnative sui possibili caratteri di Dio, in un quadro che non ne respingeva l'esistenza, ma il potere grandissimo. Ludovico Geymonat propose tali scritti, da lui medesimo tradotti, nel '53 e pose l'attenzione sul fatto che Mill, finissimo logico, aveva segnalato l'impossibilità che Dio fosse ad un tempo senza fine buono ed illimitatamente potente. Fosse insieme l'uno e l'altro, il mondo non esisterebbe così. Parlando di potere limitato di Dio, un Dio valutato pasticcione nel momento creativo, certamente buono, ma incapace nei confronti del male, in effetti a Mill non passò nemmeno per la testa di ritenere che Dio medesimo potrebbe aver deciso di non intervenire più nella vita degli esseri umani, se non su espressa preghiera, e in ogni modo non in maniera da limitare in maniera greve la libertà, l'autonomia e il destino degli altri esseri umani. Secondo gli stessi testi della storia sacra, Dio si circoscrisse a qualche miracolo, inteso come guarigione, ed ad una serie di educazioni non sempre facilmente accessibili perché fondati sul principio che chi non segue i precetti divini, verrà reso cieco e sordo in misura crescente a ogni stimolo intellettuale. E sui figli ricadranno le colpe dei padri. Unica eccezione, voce fuori del coro, quella del veggente Ezechiele. Adesso questo è certamente lo scoglio contro il quale confligge ogni razionalità quanto affronta l'analisi delle genesi della religione cristiana sui testi sacri. In continuità con le profezie di Isaia, Gesù parlò soltanto in parabole alle grandi masse, perché esse potevano intendere e vedere senza realmente comprendere, del tutto vittime delle colpe dei padri. Il Dio buono che rende ciechi e sordi gli individui volontariamente non è ammissibile dal pensatore e neppure dal teologo più scaltrito; ci voleva e ci vuole una interpretazione di siffatta volontà cattiva di Dio come base medesima di qualunque ulteriore ragionamento. Altrimenti non rimarrebbe altra strada che acconciarsi a credere, rinunciando a ragionare, o ragionare, astenendo a credere, in una eterna lacerazione senza Copyright ABCtribe.com 59 speranza. Inutile sognare di trovare una risposta in siffatti saggi di Mill. Essi restano al di sotto del problema. Sussistevano in proposito sia la Teodicea di Leibniz, una vera e propria tutela di Dio dinanzi ai tribunali dell' uomini che lo accusavano di essere autore del male e della sofferenza, e l'argomento kantiano, ricondotto nella Critica della Ragion pratica, secondo cui se Dio fosse visibile, se, per intenderci, spuntasse ogni giorno come il sole, l'individuo non sarebbe del tutto libero e la sua stessa moralità, che è uno dei fini della Creazione, resterebbe privo del tutto valore perché l'essere umano agirebbe sotto la oppressione del timore della punizione e non per libera ed equilibrata scelta. In altri termini: il dubbio sull'esistenza di Dio può essere proficuo perché è soltanto in siffatto dubbio che l'individuo è libero di scegliere radicalmente e perfino in relativa autonomia, e quindi risultare a tutto tondo come una continuazione di Dio con altri mezzi. Il bello è che Mill, pur facendo una strada del tutto differente, a mio giudizio erronea nelle premesse, arrivò approssimativamente alla medesima conclusione: la ragione umana è il frutto di una conquista fatta giorno per giorno. Sbaglia completamente chi dichiara che Dio vorrebbe da noi obbedienza, fede ed istinto, non ragione, dato che questa, a ragion veduta, è una ubicazione che porta al fanatismo religioso e non alla crescita dell'individuo. Pur tuttavia, non si sfugge all'impressione che Mill, contestando l'onnipotenza divina, di fatto venne a rimandare il manicheismo, vale a dire la dottrina che dichiara che fin dall’ avvio vi è lotta fra Bene e Male, e che queste forze hanno forza praticamente pari. Geymonat redasse che non è vero. "Nulla infatti è più lontano dal Mill che la mentalità metafisica del manicheismo, niente gli disgusta maggiormente che un qualunque tentativo di deificazione del male. Non ha senso per lui parlare di due principi assoluti dell'essere. " Difatti Mill parlò di due forze in campo, introdotte nel mondo. Ma non è per questo che il discorso muta: di fatto si veniva a riconoscere che esiste un terreno del Male e che il suo potere d'attrazione è pari a quello esercitato dal Bene. I mali non vengono individuati, invocati per nome e cognome, un po' come se tutti i diavoli fossero Lucifero e come se il male fisico non avesse un suo statuto del tutto indipendente dai satanassi e fosse quasi riconducibile alle leggi di natura. Secondo Mill c'è il Male. Poco interesserebbe poi, che il significato di Male avesse, ovviamente, in Mill, un senso del tutto differente da quello dei manichei. E' chiaro che per Mill il Male è il fideismo irrazionale e fanatico, l'oscurantismo; il Bene è la Ragione, la scienza, l’ evoluzione, la maniera di vivere civile, la Libertà. Anche Mill, pertanto tentò una teodicea, vale a dire una difesa di Dio. Ma è evidente che egli ricorse all'unico argomento inconciliabile con il monoteismo, ovvero il non potere grandissimo di Dio e l'esistenza di esseri, signorie e potenze di uguale dignità. 3.6.1 Utilità della religione Copyright ABCtribe.com 60 Visto che abbiamo trattato subito del centro del dilemma, tanto vale continuare nell'esame completo del secondo saggio. Mill prese il via dalla domanda, già presentata in altra forma a Comte nelle sue lettere, circa l'utilità di analizzare la religione in nome della verità, qualsiasi essa fosse, rischiando così di partecipare ad una possibile infelicità degli esseri umani che della medesima religione avrebbero vitale necessità. La questione assume una forte tinta di tragedia individuale: « E' una situazione molto triste per uno spirito coscienzioso e colto, l'essere attirato in direzioni contrarie dai due più nobili oggetti di ricerca: la verità ed il benessere generale. Un simile conflitto deve necessariamente produrre una crescente freddezza verso l'uno o l'altro di tale oggetti, e più probabilmente verso tutti e due. Molti di coloro che potrebbero rendere servizi immensi tanto alla verità che all'umanità si credono di poter servire l'una senza danno per l'altra, sono o interamente paralizzati, o indotti a limitare i propri sforzi a questioni di secondaria rilevanza dal timore che ogni effettiva libertà di pensiero, o qualsiasi considerevole consolidamento o ampliamento delle facoltà speculative dell'umanità nel suo insieme, levando loro la fede, potrebbe risultare il modo più sicuro per rendere gli individui viziosi e disgraziati. » Deprecando lo sperpero di energie imbevuto dal tentativo, giudicato ormai vano, di puntellare le credenze religiose con argomenti di qualunque tipo, Mill risolse di fare fronte alla questione in questo modo: « Non basta dichiarare che non può esservi conflitto tra verità e utilità, e che se la religione è ingannatrice, dal suo rifiuto non può che venire un bene. Difatti, nonostante la conoscenza di una qualunque verità positiva costituisce un'utile acquisizione, non si può affermare la medesima cosa, senza riserva, della verità negativa. Allorquando l'unica verità accertabile è che nessuna cosa può venire conosciuto, non veniamo in possesso, attraverso questa conoscenza, di alcun fatto nuovo dal quale farci condurre; e tutt'al più restiamo solamente scossi nella nostra fiducia in qualche antecedente segno indicatore che, sebbene improprio, poteva ciò nonostante essere rivolto nella medesima direzione delle migliori indicazioni in nostro possesso, e, se più visibile e più facile a leggersi, poteva tenerci sulla retta strada, quando non avessimo scorto le altre.» Messo in prosa corrente tale piegamento del pensiero milliano vuol dire: se abbattiamo l'idolo e la chiesa che lo contiene non abbiamo più niente che ci accompagni. E' meglio o è peggio? Ignorando Mill, che la falsità della religione è indicata dalla credenza che Dio governi il mondo dell' uomo, rappresenti autorità ed altri simili sciocchezze, è evidente l'imbarazzo del filosofo. Ma se la questione fosse stata posta in maniera differente, ovvero a partire dal principio che Dio non governa il mondo umano nemmeno nelle teocrazie, anziché mai in quelle, una tale faccenda non aveva alcuna ragione di sussistere. Chi non sarebbe, allora, pronto a lottare siffatta falsa credenza, ovvero che un dio cattivo come nessun individuo mai fu capace di esserlo, governi il mondo e produca lager nazisti, regimi teocratici, ed incentivi guerre sante, inquisizioni, conversioni indotte con la spada alla gola come ai tempi del magno Carlo, sovrano dei Franchi? Una somigliante impostazione del tutto sbagliata perché incapace di cogliere il dubbio vero, vale a dire in cosa consti la falsità della religione, non poteva che portare ad una serie di affermazioni sbagliate. Difatti, il fine del saggio, per Mill, era: «Ci proponiamo Copyright ABCtribe.com 61 di cercare se la fede in una religione, ritenuta come una mera persuasione, non considerando dalla questione della sua verità, sia davvero fondamentale al benessere temporale dell'umanità; se l'utilità della fede sia intrinseca e universale oppure locale o temporale, ed in un certo senso accidentale; e per di più, se i benefici che esso procura non possano venir conseguiti in altro modo, senza le notevolissime intromissioni di male, da cui, anche nelle forme migliori di fede, quei favori vengono diminuiti.» Inutile dire che messa in questo modo la questione non ha senso. Al contrario, scoprendo la menzogna religiosa, vale a dire l'assurda visione che Dio governi la società civile sempre, si salva Dio da giudizi stupidi, lo si rende chiaro ed evidente, e poi ciascuno è libero di crederci o non crederci, visto che, in fondo, la dissomiglianza è minima: molto trae origine da noi. Noi diamo i nomi agli animali ed alle cose. Noi scopriamo le leggi scientifiche che dominano la natura e l’ esistenza, noi optiamo fra la giustizia e l'ingiustizia. Date tali presupposti, temevo anche peggio, ma in effetti Mill ebbe uno scatto ed abbiamo una serie di considerazioni più razionali ed oltre modo importanti. 3.6.2 Che cosa fa la religione per l'individuo? Mill accettò che la religione insegna precetti di giustizia e carità, ma contestò che siffatti medesimi precetti non fossero in altro modo insegnabili da una morale che oggi potremmo chiamare laica: "alla religione viene accreditata tutta l'influenza nelle faccende umane che appartiene invece a qualunque codice solitamente accolto per la guida ed il governo della vita umana." « La religione sembra così potente perché tale infinito potere è al suo servizio.» Quello che appare chiaro a Mill, è che l'autorità svolga un ruolo decisivo nella formazione culturale degli uomini. Gli esseri umani sono più disposti a credere a chi è unanimemente apprezzato che a chi è negletto. Per tale ragione la religione è autorevole; comunque gli effetti positivi dell'educazione religiosa data nei primi anni, non devono la loro efficacia alla religione, ma al fatto di essere impartiti nei primi anni. La pregiata indicazione agostiniana per la quale essa imbatterebbe un qualche cosa di congenito in noi stessi non è presa in considerazione. Anzi, proseguì Mill, la forza della religione sta proprio nel fatto che essa imbatte il consenso esterno e si serve del senso comune e dell'opinione pubblica per dare forza alle sue capacità convincenti o dissuadenti. L'approvazione o la disapprovazione pubblica sono decisivi per le nostre scelte ed i nostri atteggiamenti. "Il timore della vergogna, il terrore di avere una cattiva considerazione, o di essere antipatico e detestato, sono le forme semplici e dirette della sua forza di allontanamento."Le conseguenze negative scaturenti dal biasimo sociale implicherebbero, per di più, l'esclusione dalla società e dagli "infiniti buoni uffici che gli esseri umani si rendono l'un l'altro", culminando nella impossibilità di Copyright ABCtribe.com 62 avere successo nella esistenza. Per questo qualunque ambizione degna di questo nome "è subordinata alla pubblica opinione, salvo che in tempi di sregolata violenza militare." Ed è per questo che i fini dell'ambizione sociale o personale si possono conseguire solamente grazie alla buona opinione su noi medesimi che sappiamo suscitare negli altri. Ma questa, in fondo, non sarebbe altro che il regno dell’ asserzione falsa e dell'ipocrisia, cosa che Mill non dice espressamente, ma fa intendere. Difatti - concluse Mill - « L'involontaria importanza dell'autorità sulle menti comuni è tale, che gli individui debbono essere di uno stampo fuori dell'ordinario per essere all'altezza di sentirsi nel giusto quando il mondo, vale a dire il loro mondo, le considera in torto; né vi è, per la maggiore parte degli individui, una dimostrazione più efficace della loro virtù o del loro talento, del fatto che la generalità delle persone mostri di credere in esso.» La conclusione di Mill sulla religione è pertanto inoppugnabile: « La religione è stata potente non per sua intrinseca forza ma perché essa ha avuto nelle sue mani questo ulteriore e più efficace potere. » Domandandosi sul ruolo avuto dalla religione nella formazione morale degli individui, annotò con perspicacia:« Senza dubbio, la convinzione, impostasi a poco a poco a tutti fuorché ai molti ignoranti, che le punizioni divine non erano da aspettarsi con sicurezza in forma temporale, ha molto partecipato alla caduta delle vecchie religioni, e alla generale scelta di una religione la quale, pur senza escludere in maniera assoluta sovrapposizioni della Divina Provvidenza nella vita terrena per punire i cattivi e premiare i buoni, trasportava il momento principale della ricompensa divina in un mondo soprannaturale. Ma i compensi ed i castighi rinviati a tanto intervallo di tempo, e non visti mai dall'occhio umano, erano mal calcolati, altresì se illimitati ed eterni, per avere sulle menti ordinarie un effetto molto potente contro le forti seduzioni. La loro distanza da sola riduce miracolosamente la loro efficacia, proprio su quegli spiriti che più necessitano del freno della punizione. Una causa di debolezza ancora maggiore è istituita dall'incertezza che è loro propria: infatti i premi ed i castighi conferiti dopo la scomparsa, vengono conferiti non in base a particolari azioni, bensì in base all'esame dell'intera esistenza dell’ essere umano, e questa sarà facilmente indotta a convincersi di avere commesso soltanto dei peccatucci, e che alla fine la bilancia potrà ancora pendere a suo favore. Tutte le religioni positive partecipano a tale autoinganno. Le religioni deteriori insegnano che la vendetta divina può essere calmata attraverso offerte ed umiliazioni; quelle migliori, per non portare i peccatori alla disperazione, insistono tanto sulla misericordia divina, che quasi alcuno è costretto a considerarsi definitivamente condannato. L'unico pregio di questi castighi, la loro lampante potenza, che potrebbe parere appositamente studiata per renderli efficaci, risulta al contrario un presupposto per cui nessuno (salvo qualche ipocondriaco) può in effetti credere di essere seriamente in pericolo di venire percosso. Pure il peggior delinquente, qualsiasi sia il delitto che ha avuto la facoltà di commettere, qualunque sia il male che ha inflitto in questa esistenza, stenta a credere di poter meritare un'eterna violenza. Di Copyright ABCtribe.com 63 conseguenza gli autori religiosi e i missionari non si stancano di lamentare che i motivi religiosi hanno scarsissimo effetto sulla vita e condotta degli individui, anche se i terribili castighi che preannunciano. »Ma tale incubo dell'inferno non fu per Mill che il lato "più volgare" dell'utilità religiosa. Secondo il parere dei teologi più aperti, " la parte migliore dell'umanità ha necessariamente necessità della religione per il miglioramento del proprio carattere, anche se la correzione dei peggiori potrebbe forse compiersi senza il suo sostegno." La religione - proseguì Mill - ancora secondo questi teologi, serve ad insegnare, se non a prescrivere la morale sociale; "tutti i maggiori pensatori, che non si sono ispirati ad essa, si fermarono nei loro voli più sublimi, al di sotto della morale cristiana, e quella medesima morale inferiore che essi possono avere sopraggiunto ...non riuscirono mai a farla assumere dalla massa comune dei loro conterranei. "Qui Mill riconobbe che " vi è molto di vero" nell'idea che dichiara che gli individui accettarono le regole e le leggi soltanto in quanto presentate come un volere della divinità. " I popoli antichi hanno spesso, se non sempre, accolsero la loro morale, le loro leggi, le loro credenze razionali, e persino le arti pratiche...come una scoperta avuta dalle potenze superiori, e alcuna altra via li avrebbe agevolmente indotti ad accoglierle." Inoltre, aggiunse che: « Anche indipendentemente dalle speranze e timori personali, l'involontaria deferenza provata da quelle menti rozze verso un potere superiore al loro e la tendenza a supporre che gli esseri dotati di potere soprannaturale fossero pure dotati di conoscenza e saggezza sovrumana facevano sì che essi desiderassero disinteressatamente conformare la propria condotta secondo le supposte preferenze di questi esseri potenti, e non adottassero alcuna nuova pratica senza la loro autorizzazione che poteva essere data spontaneamente, o sollecitata ed ottenuta.Ma proprio perchè gli uomini, quando erano ancora selvaggi, non avrebbero accettato delle verità morali o scientifiche se non le avessero credute rivelazione sovrannaturale, si deve forse dedurre che essi rinuncerebbero ora piuttosto alle verità morali che alle scientifiche solo perchè non credono che esse abbiano un'origine più alta dei cuori di uomini nobili e saggi? Non sono forse le verità morali abbastanza forti nella loro specifica evidenza, per lo meno tanto da continuare a meritare che gli uomini abbiano sempre fede in esse? Ammetto che alcuni dei precetti di Cristo come vengono esposti nel Vangelo - ben più elevati delle dottrine di Paolo che costituiscono la base del Cristianesimo ordinario - portino alcune specie di bontà morali ad un livello ben più alto di quello mai prima raggiunto, sebbene una parte dei precetti ritenuti peculiari del Cristianesimo si trovino nelle Meditazioni di Marco Aurelio, che non abbiamo motivo di credere siano state in alcun modo influenzate dal Cristianesimo.» Ma, ancora per Mill, assegnando al soprannaturale le massime della moralità, " si causa un male effettivo." L'origine divina della legge " le consacra nel loro complesso" ed "impedisce" che le regole "vengano discusse o criticate." « Cosicché, se tra le dottrine morali accogliere come facenti parte della religione, ve ne sono di imperfette, o perché sbagliate sin da principio, o perché non rigorosamente limitate o controllate nella loro espressione, oppure ancora perché, pur essendo un tempo irreprensibili, non si rivelano più adatte ai cambiamenti riscontratesi nelle relazioni umane (ed è mia ferma convinzione che nella cosiddetta morale cristiana si trovino esempi di tutti questi casi) queste dottrine imperfette sono considerate similmente impegnative per la coscienza quanto i dettami più nobili, più duraturi e più universali di Cristo. Ogniqualvolta la moralità è supposta essere di origine soprannaturale, essa diventa stereotipata, proprio come la legge del Corano lo è Copyright ABCtribe.com 64 per i suoi fedeli.» Un argomento fra i più importanti è quello che espone i presupposti per i quali l'individuo cerca il soprannaturale: « E' inutile premere più oltre la storia naturale della religione, non proponendoci qui di interpretare come essa nasca negli spiriti più grezzi, bensì come persista fra gli spiriti colti. Si troverà - io ritengo - un chiarimento sufficiente di quanto ora detto nella limitatezza dei confini delle conoscenze certe dell'individuo, cui si contrappone la sua sete illimitata di conoscenza. L'esistenza umana è attorniata di misteri, la regione assai delimitata della nostra esperienza non è che una piccola isola circondata da un mare infinito, e questo spaventa i nostri sentimenti e stimola la nostra fantasia a causa della sua vastità ed oscurità. Per rendere ancora più intimo il mistero, il campo della esistenza terrena non risulta solamente un'isola sperduta in uno spazio infinito, ma altresì in un tempo illimitato. Il passato ed il futuro sono parimenti oscuri per noi: non sappiamo né l'origine di tutto quello che è, né il suo fato finale. Se proviamo un profondo interessamento nel sapere che esistono nello spazio infinità di mondi ad una distanza incommensurabile, e per le nostre facoltà perfino inconcepibile; se siamo desiderosi di scoprire quel poco che possiamo attorno a tali mondi, e se non potendo mai sapere ciò che essi sono, siamo insaziabili nello speculare su ciò che possono essere; non rappresenta forse per noi una questione del più profondo interessamento l'apprendere, od altresì il congetturare, donde provenga questo mondo più vicino che noi risiediamo, quali cagioni od agenti lo abbiano fatto come è, e da quali poteri dipenda il suo futuro? Chi non anelerebbe conoscere questa più appassionatamente di qualsiasi altra possibile conoscenza, finché vi è la minima speranza di giungerla? Che cosa non si sarebbe pronti a dare, per una qualsiasi notizia attendibile derivante da quella inspiegabile regione, per un qualunque sguardo anche furtivo, che ci ponga di intravedere una minima luce attraverso le sue tenebre, e specialmente, alla fine, per una qualunque teoria credibile, che ci rappresenti il mondo governato da un ascendente benigno e non già da uno ostile? Non essendo però in grado di entrare in questa regione fuorché con l'immaginazione, assistita da similitudini plausibili ma inconcludenti causate dall'azione e dall'intenzione dell'individuo, l'immaginazione è libera di riempire il vuoto con le fantasie che più le consentono: sollevate e sublimi se l'immaginazione è nobile, basse e meschine se al contrario è abbietta.» Le ultime pagine di Mill portano a considerazioni invece negative sulla vita eterna e la salvezza dell'anima. Innanzi tutto egli considerò che sono gli infelici e gli incontentabili della esistenza ad aver bisogno della speranza in un'esistenza soprannaturale. I "felici" ne avrebbero molto meno bisogno. Le religioni che rincuorano tale speranza non fanno altro che alimentare l'egoismo di molti, i quali si comportano bene, per Mill, soltanto perchè convinti del premio, di evitare l'inferno ed andare in paradiso. Ciò, per Mill, è di ostacolo Copyright ABCtribe.com 65 ad una vera presa di coscienza e pertanto ad una maturazione negli individui di un vero senso della esistenza, la quale è un bene di per sè e non una sorta di viaggio verso il paradiso o l'inferno. L'uomo maturo dovrebbe pertanto trovare nella vita stessa ragioni a sufficienza per sfamarsi di qualunque esperienza degna, ed, in altre parole, raggiungere la felicità terrena. Tale è la premessa fondamentale per acconciarsi alla morte in una visione del tutto vetero-testamentaria: coricarsi coi propri avi sazi di vita e di anni e riposare per l'eternità, alla medesima maniera dei patriarchi, i quali non avevano alcuna fede nell'esistenza dell'al di là. A tali considerazioni si uniscono valutazioni sulla superiorità della dottrina buddhista la quale non considera affatto come premio una possibile metempsicosi, vale a dire una resurrezione della carne, ma semmai soltanto un passo ulteriore per giungere alla definitiva ed agognata estinzione nel niente. In pratica Mill accusò in questo modo di infantilismo la religione occidentale nel suo insieme, islamismo compreso, ed, in conclusione, salvò soltanto l'antica concezione greco - omerica dell'Ade come regno delle ombre nel quale Achille, ad esempio, aveva ammesso di preferire d'essere vivo sulla terra, pure come l'ultimo degli individui, piuttosto che il primo nel regno dei morti. Data siffatta prospettiva è visibile che converrebbe davvero tornare ad essere come bambini per entrare nel regno dei cieli, invece che finire maturi ma vecchi in un desiderio di totale annichilimento. Non so se si tratti soltanto di gusti e preferenze scandite dalla nostra condizione individuale, ma uccidere la speranza di una esistenza migliore, senza nulla togliere alla realtà che stiamo vivendo, sembra apertamente una sciocca pretesa filosofica, tant'è vero che il buddhismo fu in origine una filosofia e non una religione. Il problema è che né la filosofia, né la religione, né la scienza, nè qualsivoglia guru super illuminato, possono renderci uno straccio di prova dell'esistenza dell'al di là. Ed perfino quei libriccini che riportano le sconvolgenti e fantasiose esperienze di uomini entrati in coma e poi risvegliati, non hanno altro valore che quello di un abbaglio. La sopravvivenza dell'anima, o se si vuole, dell'io, un io senza memoria, senza sensi, senz'altra risorsa che il proprio partecipare all'essenza divina dell'intelletto attivo, è tuttavia una possibilità che non possiamo eliminare. 3.6.3 Natura e naturale Nel primo saggio Mill aveva inserito alcune considerazioni sull'utilizzo improprio dei termini natura e naturale ricorrenti in alcune correnti filosofiche, a prendere il via dallo stoicismo e dall'epicureismo dell'antichità, vale a dire in dottrine sorte "in un'epoca di debolezza del pensiero e dell'intelletto." Mill si rattristò del fatto che Platone non avesse intitolato un dialogo al vero significato di Natura, ricordando "che le epoche susseguenti devono tanta parte di quella qualsiasi chiarezza intellettuale raggiunta" proprio ai discorsi platonici. « Se l'idea denotata da questa parole - redasse Mill - fosse stata sottomessa alla sua analisi rigorosa, e se i soliti luoghi comuni nei quali essa compare fossero stati subordinati al controllo della sua potente dialettica, i subentranti non si sarebbero precipitati, come subito fecero, in una maniera di pensare e di ragionare la cui pietra angolare era costituita proprio dall'uso sbagliato di essa; errore dal quale egli fu uno per volta immune.» Copyright ABCtribe.com 66 Il metodo platonico - per Mill - era consistito nel cercare l'universale nel particolare; di qui il primo interrogativo "ovvio" che ci si potrebbe fare: che cosa significa natura di un determinato oggetto? « Si intende ovviamente l'insieme o l'aggregato dei suoi poteri o proprietà, i modi in cui agisce sulle altre cose (contando fra queste i sensi dell'osservatore) e i modi nelle quali le altre cose agiscono su di esso, cui occorre aggiungere, nel caso di un essere senziente, la sua propria capacità di sentire o di essere cosciente. La Natura di una cosa vuol dire tutto ciò, significa la sua intera capacità di generare i fenomeni...» Di conseguenza - secondo Mill - "come la natura di una cosa qualsiasi è l'aggregato dei suoi poteri o proprietà, così la Natura in astratto è l'aggregato dei poteri e delle proprietà di tutte le cose..." « La parola Natura, in questa sua più semplice accezione, è dunque un nome collettivo per indicare tutti i fatti, effettivi o possibili, oppure per esprimerci in forma più precisa, è un nome per il modo, in parte a noi conosciuto ed in parte no, con cui hanno luogo tutte le cose.» Si da però un altro senso, che viene compreso quando Natura si oppone ad Arte, o tecnica. Per Mill l'arte sarebbe similmente naturale quanto qualunque altro fenomeno perché essa non dispone di poteri suoi propri. E' soltanto un impiego dei poteri e delle proprietà della Natura svolto dall'individuo. "Una nave sta a galla per la stessa legge del peso specifico e dell'equilibrio che fanno galleggiare un albero sradicato dal vento..." In sostanza - concluse Mill - l'arte e la tecnica non sono che rifacimenti intelligenti della natura e delle sue leggi. Su tale piano, perciò, il detto naturam sequi, avrebbe più senso espresso come conosci la natura. Ma scrutò Mill - il naturam sequi diventò altresì principio della filosofia morale, "per molte delle più ammirate scuole di filosofia". « Presso gli antichi, specie nel periodo di decadenza del pensiero e dell'intelletto, ciò fu il banco di prova a cui si riconducevano tutte le dottrine etiche. Gli Stoici e gli Epicurei, pur incompatibili nel resto dei rispettivi sistemi, erano uniformi nel considerarsi obbligati a provare che le rispettive massime di condotta riproducevano i dettami della natura. Sotto la loro influenza i giuristi romani, quando provarono ad elevare la giurisprudenza a sistema, diedero avvio alla propria esposizione con un certo Jus naturale, "quod natura omnia animalia docuit", come Giustiniano afferma nelle Istituzioni, e poiché i moderni autori di sistematica hanno generalmente preso a modello, non solamente il diritto, ma per la filosofia morale, i giuristi romani, sono stati numerosissimi i trattati sul così chiamato Diritto naturale, e i riferimento ad esso ritenute come regole supreme e modello hanno permeato la letteratura.» Nei primi secoli del cristianesimo, ciò nonostante, ( e già con San Paolo, aggiungo io) Mill osservò che i filosofi cristiani ritennero spesso l'individuo come malvagio di natura. Solamente in seguito "Le dottrine del Cristianesimo si sono in tutte le epoche aggiustate largamente alla filosofia in quel momento dominante, e il Cristianesimo dei nostri giorni ha preso una parte considerevole del Copyright ABCtribe.com 67 proprio colore e sapore dal deismo sentimentale." Qui Mill diede inizio a speculare su due modi di dire particolari come la natura ingiunge ed agire contro natura, cominciando con l'osservare che è pressoché ineludibile l'associazione che viene fatta fra la parola legge in senso etico e morale e la parola natura. « Nessuna cosa è associata più comunemente alla parola Natura che la parola Legge; e quest'ultima ha due separati significati; nell'uno essa denota qualche porzione definitiva di ciò che è, nell'altro di ciò che dovrebbe essere. Quando parliamo della legge di gravità, delle tre leggi del moto ecc... ecco le porzioni del ciò che è. Quando parliamo invece della legge penale, delle leggi civiche, della legge dell'onore, della legge della verità, della legge della giustizia; tutte queste sono parti di quello che dovrebbe essere, o supposizioni, sentimenti, comandi di qualcheduno attorno a quello che dovrebbe essere. » Ancora: « Il richiedere agli individui di conformarsi alle leggi della Natura, quando è per loro fisicamente impossibile il fare la minima cosa se non mediante qualche legge della Natura, risulta un'assurdità. Ciò che bisogna dir loro, piuttosto, è quale particolare legge della Natura essi dovranno seguire in un specificato caso. Per esempio, quando una persona sta oltrepassando un fiume su di una passerella stretta senza balaustra, farà bene a regolare i suoi movimenti secondo le leggi dell'equilibrio e dei corpi in moto, anziché conformarsi solamente alla legge di gravità, e cadere nel fiume. Eppure, per quanto sia ozioso incitare la gente a fare quello che non possono evitare, e per quanto sia assurdo il prescrivere come essere umano di buona condotta ciò che si mette d'accordo altrettanto bene con la condotta cattiva: si può tuttavia edificare una norma razionale di condotta partendo dalla relazione che la condotta dovrebbe avere con le leggi della Natura nella più grande accezione del termine. L'individuo ovviamente ubbidisce alle leggi della Natura, o in altre parole, alla proprietà delle cose, ma egli non si fa ineluttabilmente guidare da esse. » Qui Mill trae una prima conclusione rilevante: se gli individui fossero capaci di prestare attenzione alle proprietà degli enti fisici, in quanto capaci, esse, di ostacolare o favorire un certo scopo, "noi saremmo arrivati al primo principio di qualunque azione intelligente, o meglio, alla definizione dell'azione intelligente stessa." Ma la massima dell'ubbidienza alla Natura viene ritenuta non come indicazione "prudenziale", ma come un precetto etico, ed anzi "da coloro che paralno di jus naturae, come legge adatta a venir governata da tribunali ed a venir resa esecutiva da sanzioni." Commentò Mill: « Un'azione giusta deve significare qualche cosa di più e differente che non un'azione semplicemente intelligente: oppure nessun precetto oltre quest'ultimo può venire collegato con la parola Natura nel suo senso più ampio e filosofico.» Copyright ABCtribe.com 68 A tale punto Mill cominciò ad analizzare il senso di natura sotto l'aspetto di quello che avviene senza intervento umano. Si chiese: "E' forse, nella Natura in questo modo intesa, lo svolgimento spontaneo delle cose lasciate a sé medesime, la regola da seguire per provare di adattare le cose al nostro utilizzo?" In tale senso la massima di seguire la natura " è manifestatamente assurda e autocontraddittoria." « Difatti, mentre l'azione dell' uomo non può fare a meno di conformarsi alla Natura (nel pieno significato del termine), il vero fine e l'oggetto dell'azione, è proprio di alterare e di perfezionare la Natura (nel secondo senso).Se lo svolgimento naturale delle cose fosse precisamente giusto e soddisfacente, l'agire in forma qualsiasi sarebbe un'intromissione gratuita, che, non potendo rendere le cose migliori, le dovrebbe rendere peggiori. Oppure, una qualsiasi azione potrebbe essere scusata soltanto quando fosse in diretta ubbidienza agli istinti, dato che questi potrebbero forse venir ritenuti parte dell'ordine spontaneo della Natura; ma il fare una qualunque cosa con un fine e una premeditazione sarebbe una violazione di tale ordine perfetto. Se l'artificiale non è migliore del naturale, quale fine hanno tutte le arti della vita? Lo scavare, l'arare, il costruire, il vestirsi, sono dirette inosservanze dell'intimazione di seguire la Natura.» E' da osservare che con tale dichiarazione Mill, sembrò venire a contraddire quanto aveva affermato, sia pure in altro senso, nei Principi di Economia politica, ovvero che la maniera di produzione era "naturale", oltre che indispensabile, mentre era la ripartizione della ricchezza ad essere soggetta ad istituzioni dell' uomini. Sia quel che sia, sorge chiaro che il piglio di questo scritto era di carattere sinceramente positivista ed aveva pure come bersaglio l'imprecisione e la vaghezza delle filosofie etiche e morali facilone e deboli di intelletto, proprio quelle filosofie, come l'epicureismo e lo stoicismo, che Mill aveva preso come esempio per il suo Utilitarianism. Se su questo piano delle analogie linguistiche la contraddizione milliana è chiaro, però, forse non lo è sul piano semantico, perché una volta presi nei loro possibili sensi tutte le possibilità che potrebbe indicare la parola Natura, è chiaro che essa è qualche cosa di così generale e generico, che in realtà potremmo ben dire che anche la ragione e l'intelletto dell' uomo sono qualche cosa che esiste in natura e non al di fuori di essa. Non c'è un soltanto animale vivente, uno solo tipo di patata o di verme, o di cardo o di virus, che sia fuori della natura o contro natura. E neppure gli esseri umani, con le loro qualità spirituali più sviluppate possono dirsi fuori, o al di sopra della natura. Ciò che possono fare è appunto pensarla, ragionare su di essa, studiarla, possibilmente con la precisione e la passione che contraddistingue il naturalista, come Darwin, per esempio, o come Lamarck e Spallanzani. In quest'ottica è chiaro che Mill fece bene a mostrare il conto a tutti quei pensatori e pensatori all'ingrosso che o fondavano tutto il loro possibile insegnamento sul naturam sequi, o al contrario, lo basavano sulla spiritualità superiore contrastante alla natura e negante il carattere naturale dell'individuo, il suo essere in ogni modo un essere naturale e non un robocop facitore di bene. L'amica natura, la fedele compagna, la rara consigliera, rivela con Mill tutto il suo vero carattere di malvagia matrigna, di nascosto pericolo, di insidia continua. "La natura è assassina" - redasse Mill - " col più altezzoso dispregio in questo modo della pietà come della giustizia, colpendo con i suoi strali tanto gli esseri migliori e più titolati quanto i più meschini e peggiori; vengono colpiti coloro che sono impegnati nelle opere più nobili e Copyright ABCtribe.com 69 meritorie, spesso proprio come diretta deduzione delle azioni più nobili, e si potrebbe quasi ritenere che fosse una condanna." E qui scattò un ragionamento davvero importante: « Ipotizziamo che, contrariamente alle apparenze, questi orrori, quando sono perpetrati dalla Natura, danno impulso a dei fini buoni, tuttavia poiché nessuno crede che noi cercheremmo di raggiungere dei fini buoni se seguissimo dei suddetti esempi, il corso della Natura non può essere per noi un buon modello da riprodurre. O è giusto dire che dovremmo uccidere perché la Natura uccide, brutalizzare perché la Natura tortura, abbattere o devastare perché la Natura fa similmente; oppure non dovremmo considerare per niente quello che la Natura fa, ma quello che è bene fare. Se sussiste una reductio ad absurdum, questa è sicuramente una. » La legge di natura per Mill è molto simile alla famosa minaccia lanciata da Cristo: " A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto pure quello che ha". Facendo ruotare, ciò nonostante, l'interpretazione della stessa in una chiave del tutto nuova, Mill ne ottenne un senso del tutto differente, e davvero vicino alla corretta spiegazione cristiana: "il bene genera il bene, il male il male". Chi non comprende il bene, chi non ha in sé la cultura ed i mezzi per intendere il bene, resterà privo anche di quel poco giudizio e qualità che possiede. In questa linea di ragionamento è notevole tale attacco ai difensori dei così chiamati mali necessari, oltre ai quali potremmo pure leggere i nomi di Leibniz e di Kant. « Tale categoria molto elogiata di autori, che è costituita dagli scrittori di teologia naturale, ha smarrito, oserei dire, del tutto la via, e non ha colto l'unica linea di argomenti che avrebbe reso accettabili le sue speculazioni e ognuno sia capace di accorgersi se due proposizioni si contestino l’un l'altra. Essi hanno consumato le risorse della sofistica al fine di provare che tutte le sofferenze esistono nel mondo per impedirne di maggiori - esiste ad esempio la miseria per il timore che debba esservi miseria -la quale teoria, se mai fosse stata ben sostenuta, potrebbe solamente riuscire a spiegare e giustificare gli scritti di esseri limitati, costretti a faticare in condizioni liberi dalla propria volontà; ma non può applicarsi ad un Creatore possibile onnipotente, il quale se si sottomette ad una supposta necessità, è però egli stesso che crea la occorrenza cui si sottomette. Se il costruttore del mondo può tutto quello che vuole, egli vuole la miseria e non c'è maniera di sfuggire a questa conclusione. I più coerenti fra coloro che si sono ritenuti qualificati a "difendere i modi di agire di Dio verso gli uomini" si sforzarono di evitare l'alternativa anzidetta rafforzando i loro cuori, e contestando che la miseria sia un male. La bontà di Dio, essi dicono, non consta nel volere la felicità delle proprie creature, invece la loro virtù; e l'universo, se non è felice, è però giusto. E ancora: « L'unica teoria rettamente ammissibile della Creazione è quella per cui il Principio del Bene non può soggiogare d'un tratto ed in maniera completa i poteri del male, sia fisici che morali, non può collocare gli individui in un mondo esente dalla occorrenza di una lotta incessante contro le potenze malefiche, o renderli vittoriosi in questa battaglia, ma può e lo fa in verità, renderli capaci di portare la lotta con vigore e con successo gradualmente crescente. Di tutte le soluzioni religiose dell'ordine della Natura, questa sola non è incompatibile né con sé medesima, Copyright ABCtribe.com 70 né con i fatti di cui essa sente di render conto.» Qui sembra evidente che il positivista ha perduto a sua volta la via in quanto non vide che la miseria è una conseguenza dell'ingiustizia sociale e non ha niente a che fare, con la carestia, che è una calamità naturale dovuta a fattori che in ogni modo l'individuo ha imparato ad individuare ed a controllare nel tempo. La solfa è sempre la medesima: perché imputare a Dio tutte le sventure del mondo quando esse hanno sempre un'origine molto più precisa ed istantanea? Perché si avverte troppo, sempre e in ogni maniera della nefasta dottrina che non si muove foglia che Dio non voglia. 3.6.4 Esiste una Provvidenza divina? La teologia migliore, quella dei ragionatori e non dei fideisti, senza ammettere granché alla mitologia ed alle fantasie, ha messo in evidenza che essa si nutre di speranza, di preghiera e di comportamenti onesti. Anche nelle situazioni peggiori l'uomo potrebbe cavarsela grazie ad una linea di avvenimenti fortunati ed alla simpatia che riesce ad istillare non perché ipocrita ed affettato, ma perché schietto. La Provvidenza è la deduzione più diretta del nostro essere ed agire nella selva delle relazioni umane. La passione che riusciamo a provocare per la nostra causa è una diretta conseguenza di quello abbiamo seminato in precedenza. Ma dopo i lager nazisti dichiarare che qualunque persona invoca il nome di Dio sarà salvato è sicuramente una bestemmia contro l'umanità, prima ancora che contro Dio, e credo lo fosse anche prima. E' inconcepibile che non vi sia stato un solo ebreo che non abbia invocato il nome di Dio prima di accedere ai forni. Eppure è morto allo stesso modo fra le più atroci torture. E' impensabile che un solo bambino afghano o palestinese non chiami il nome di Dio sotto un bombardamento, eppure muore analogamente. La prima salvezza che vogliamo è questo modo di vivere qui E se ci viene tolta questa vita qui e noi non urliamo la nostra disperazione e la nostra rabbia, è evidente che siamo rincretiniti. Il fine della vita non è la morte, e neanche la morte eroica. Si è martiri non per vocazione o per incomprensibile decreto di Dio, ma perché esistono dei torturatori, dei malvagi che godono ad infliggere afflizioni, dei persecutori persuasi che noi siamo male in quanto razza, in quanto portatori di idee, di comportamenti saggi, in quanto ci ripudiamo di portare bandiere e pennacchi o di prostrarci davanti alla maestà di qualsiasi idolo. Esistono martiri in quanto vi sono dei teologi persuasi che la ragione sia rivale di Dio e della fede , e semini malvagità. Credo ci sia una bella disuguaglianza fra uno spettacolo di pugilato, che a me fa piuttosto schifo, peraltro, e lo spettacolo di un essere umano legato al palo, trapassato da frecce o destinato al pasto dei leoni. L'elemento della sportività salva, per così dire il pugilato, e chi lo fissa per gustare l'abilità e la forza. Il martirio, come la tortura sono tutt'altro, sono godere della scomparsa altrui, che è l'esatto contrario del godere del piacere fisico e mentale altrui. In questo starebbe probabilmente il segreto non solo dell'altruismo generale, ma dello stesso altruismo Copyright ABCtribe.com 71 sociale e politico. Nella tortura e nello spettacolo violento l'essere umano vittima è ridotto a mezzo, cessa di essere un fine. L'individuo morale non può avere alcuna complicità con tale genere di singoli che gode del male , nel quale rientra per certi aspetti il pedofilo, o il tifoso ultra che invoglia al fallo che spacca le ginocchia. Ma pure l'illuso che si avvale di prostitute o l'illusa che si avvale di gigolò non può sottrarsi a questo autogiudizio, sebbene cerchi pervicacemente di trovare relazioni umane laddove è assai difficile trovarli, anche se, come prova Cristo, è proprio fra le anime perse ed i peccatori, che i giusti trovano udienza più infiammante ed infervorata. Ma l'essere equo e l'andare a prostitute sembra essere proprio una contraddizione di termini: chi considera l'altro soltanto come un mezzo per il proprio piacere, cade in una spregevole condizione. Mill condusse una severa analisi della Provvidenza. Egli dichiarò prima di tutto come "vi sia un'assurdità radicale in tutti gli sforzi di scoprire, nei dettagli, quali siano i segni della Provvidenza e realizzarli. Coloro che sulla base di segnali particolari discutono che la Provvidenza intende questo o quello, o credono che il Creatore possa fare tutto quello che vuole, oppure credono che non lo possa. Se si accetta la prima ipotesi - e vale a dire che la Provvidenza ha per suo intendimento tutto quello che accade, e il fatto che una cosa succeda dimostra che la Provvidenza l'aveva già tra i suoi fini. Se è così, tutto quello che un essere umano può fare, è prestabilito dalla Provvidenza e rappresenta l'adempimento dei suoi disegni. Se ammettiamo al contrario, secondo la teoria più religiosa, che la provvidenza non abbia per proposito tutto quello che accade, ma soltanto ciò che è bene, allora l'uomo ha davvero in suo potere di sostenere, con azioni intenzionali, gli intendimenti della Provvidenza; in tal caso però egli può apprendere tali intenzioni solo considerando ciò che mira a promuovere il bene generale, e non quello per cui l'individuo sente un'inclinazione naturale. Dovendo infatti il potere divino, in base a quanto detto, derivare limitato da ostacoli imperscrutabili ma insormontabili, chi ci assicura che l'individuo potrebbe esser stato creato senza ambizioni che non saranno mai appagati, né mai potranno esserlo? Può darsi che le inclinazioni di cui l'individuo è stato dotato, come qualsiasi altra delle disposizioni che scrutiamo nella Natura, siano l'espressione non già del potere divino, ma soltanto delle pastoie che ostacolano la sua libera azione, e che il trarre suggerimenti da tali inclinazioni per la guida della nostra condotta indichi credere nella trappola tesa dal nemico.» Qui Mill fu molto abile nel rammentare che la teologia più religiosa è, in fondo quella più vicina, all'idea di Dio come Sommo Bene, e ciò per il suo tipico manicheismo; ma è certamente vero il contrario, non perchè sia sempre vero che la consapevolezza viene dall'esterno, ma dato che, in fondo, è vero che storicamente gli apporti che sostennero i religiosi ad emanciparsi dalla pochezza delle loro idee su Dio, vennero principalmente da eminenti pensatori laici, od ai limiti dell'eresia come Tommaso d'Aquino, o perfino da pensatori islamici come Avicenna od Averroè. Un punto importante del saggio è l'analisi degli istinti naturali dell'individuo, che Mill svolge con accuratezza scrivendo:« Per quanto riguarda la peculiare ipotesi, che tutti gli impulsi naturali, tutte le inclinazioni sufficientemente universali e sufficientemente spontanee da poter essere ritenuti istinti, debbono esistere per un fine buono, e debbono solamente venir regolate ma non represse, essa è ovviamente un'ipotesi vera per la maggioranza degli impulsi, poiché la specie umana non avrebbe potuto continuare a sussistere se la Copyright ABCtribe.com 72 maggior parte delle sue attitudini non fosse stata diretta verso un oggetto od utile per la sua conservazione. Ciò nonostante a meno che gli istinti possano essere ridotti ad un numero in effetti piccolo, si deve concedere che noi abbiamo altresì degli istinti cattivi, rispetto ai quali dovrebbe realizzare un fine dell'educazione non semplicemente il regolarli, bensì di estirparli, o meglio (il che può esser fatto anche per istinto) di farli cessare di vivere per denutrizione.Coloro che sono propensi a moltiplicare il numero degli istinti, implicano di solito tra essi quello che chiamano istinto della demolizione: un istinto che fa annientare per amore della distruzione. Non si arriva a concepire alcuna ragione valida per mantenere quell'istinto, come neppure quell'altra inclinazione che, se non è proprio un istinto, gli è però molto somigliante: quello che viene l'istinto del dominio: il piacere vale a dire di esercitare il dispotismo, di conservare altri esseri in stato di soggezione rispetto alla nostra volontà. L'individuo che ricava piacere dal mero esercizio dell'autorità, omettendo dallo scopo per il quale essa va adoperata, è l'ultima persona al mondo nelle cui mani si affiderebbe volentieri questa autorità. E ancora, esistono individui spietati di carattere, o come si dice, ovviamente spietati: esse provano un reale piacere nell'infliggere o nel vedere inflitto un dolore. Questo genere di crudeltà non indica semplice carenza di cuore, mancanza di pietà o rimorsi; essa è una cosa positiva, una specie peculiare di eccitazione della voluttà.» Su tali premesse, Mill, ancora una volta attaccò i protettori del naturam sequi. « Se si vogliono scorgere dei caratteri di uno speciale disegno della creazione, una delle cose che più balzano evidenti come parti di siffatto disegno, è che una grande percentuale di tutti gli animali dovrebbero passare la propria esistenza nel tormentare e divorare gli altri animali. Essi difatti sono stati generosamente attrezzati di strumenti adatti a tale scopo; i loro istinti più forti ve li conducono, e molti di essi paiono costruiti in maniera da non essere in grado di sostentarsi con alcun altro cibo. Se la decima parte degli sforzi spesi per trovare delle sistemazioni benevoli in tutta la natura, fossero stati impiegati nel raccattare le prove per calunniare il carattere del Creatore, quale vasta messe di discorsi si sarebbe trovata nell'esistenza di animali inferiori, separati, salvo rarissime eccezioni, in divoratori e divorati, preda di migliaia di mali dinanzi a cui vennero contestate loro le facoltà per proteggersi! Se non siamo tenuti a credere che la creazione sia attività di un demonio, è dato che non dobbiamo di necessità ipotizzare che essa sia l'attività di un Essere di potenza illimitata. » 4. Approfondimenti 4.1 Il positivismo critico di Mill . John Stuart Mill coglie l’eredità dell’utilitarismo di Bentham, ma la estende in una forma di positivismo critico, fornendola di una logica sotto molte forme originale e di un risultato politico liberaldemocratico. La logica di Mill è una metodica della scienza: Mill non considera la logica come una costruzione solamente formale, né come un’arte del dibattito, ma come un criterio per giudicare il valore di qualsiasi ricerca, vale a dire per controllarne la esattezza argomentativa in maniera da stabilirne la Copyright ABCtribe.com 73 scientificità. La prima parte della logica consta in un’osservazione del linguaggio, vale a dire dei termini, che vengono compresi come segni di cose o di fatti individuali (non sono segni delle nostre idee), e delle proposizioni, che sono intese come segni di rapporti (coesistenza, successione, esistenza, causazione e somiglianza) fra cose, o fatti, sempre singolari.In tale parte viene presentata l’importante ripartizione tra termini denotativi e termini connotativi. Infatti, sono termini denotativi quelli che indicano la persona (es. i nomi propri, Cesare, Mario...) o invece tutti i singoli compresi in una classe contraddistinguendoli attraverso una singola nota (es. i nomi comuni e gli aggettivi: uomo, mortale...). Sono termini connotativi: quelli che descrivono una peculiarità della classe denotata attraverso una nota aggiuntiva, che la mette in relazione ad altro (es: animale razionale connota la categoria "uomo"). Mill fa osservare che un medesimo termine può essere denotativo e connotativo: es.: "bianco" denota gli oggetti aderenti alla classe dei bianchi, come la neve, la carta, la spuma del mare, ma al tempo medesimo li connota ponendoli in rapporto alla bianchezza. Mill fa osservare che non occorre confondere una connotazione per una denotazione, vale a dire non occorre credere che una peculiarità propria di una classe di uomini sia un’essenza reale, universale, diversa dagli individui stessi. Questa confusione sta alla base della logica scolastica: essa ritiene che il sillogismo sia un’inferenza da una asserzione generale (vale a dire valida per un’ essenza), ad una proposizione particolare (cioè valida per un singolo). Es. di struttura del sillogismo della logica scolastica: preambolo maggiore del sillogismo: tutti gli individui sono mortali (essa viene accolta come vera); premessa minore: Wellington è un uomo (colloca un individuo all’interno della classe che è soggetto della prefazione maggiore; conclusione: Wellington è mortale (nella conclusione spunta che tutto quello che si può dichiarare della classe maggiore si può affermare altresì di quello che è accluso in essa). Mill critica il sillogismo, facendo notare: 1 - è essenziale essere certi della conclusione (nel nostro es., Wellington è mortale) per potere accogliere come vera la prefazione maggiore (nel nostro es. : tutti gli uomini sono mortali). 2 - se non si conosce la conclusione, non è lecito neanche dichiarare la maggiore. 3 - Dato che il sillogismo serve per assoggettare a prova la conclusione, ne deriva che - o è un procedimento inutile (se sono al corrente della conclusione), - o è un procedimento illegittimo (se non sono al corrente della conclusione). La differenza fra Mill e i logici medievali sta nel fatto che Mill pensa che la premessa maggiore una "classe" di singoli, mentre i logici medievali, quando dichiaravano che "tutti gli uomini sono mortali". Secondo Mill "ogni inferenza è da particolare a particolare", dato che le proposizioni universali non sono altro che il frutto di divulgazioni di proposizioni particolari. Alla base di tale posizione logica sta il supposto che tutte le nostre conoscenze sono conoscenze di accadimenti particolari, vale a dire sono conoscenze empiriche: in questo consiste il positivismo di Mill. Alla base di qualsiasi inferenza poi c’è l’induzione: essa consta nel passare da proposizioni particolari, che Copyright ABCtribe.com 74 riguardano casi osservati, a proposizioni più generali, le quali dichiarano che una proprietà dei casi osservati può valere altresì per i casi non ancora osservati. La validità dell’induzione è assicurata dal "principio di uniformità della natura", esso consta nella legge in base alla quale gli uomini che appartengono ad una indicata classe si comportano alla stessa maniera. Il principio di uniformità della natura, oltre a comprovare l’induzione, consente a Mill di elaborare una teoria del principio di causalità: "la nozione di causa, scrive Mill, è la base dell’intera induzione, e per causa di un fenomeno si deve comprendere l’antecedente di cui esso è immutabilmente e illimitatamente il conseguente". Si noti bene che le cause di cui si occupa Mill "non sono cause efficienti, ma fisiche": questo indica che il fondamento dell’invarianza e dell’incondizionalità si basa soltanto sull’osservazione dell’esperienza. Quali sono pertanto i metodi in base ai quali, possiamo scoprire quale sia l’ origine dei fenomeni? Mill ha stabilito quattro metodi: 1 - il metodo delle "concordanze": "se due o più casi del fenomeno in tema hanno una sola circostanza in comune, questa condizione è causa o effetto del fenomeno dato". Es.:si dia il caso di persone avvelenate, che in precedenza si siano nutrite di latte, possiamo assestare che la causa dell’avvelenamento sia stata il latte. Il metodo delle "differenze": "se un caso in cui si provi il fenomeno in questione ed un caso in cui non si provi hanno in comune tutte le condizioni tranne una, la quale compare soltanto nella prima circostanza, tale circostanza è l’effetto o la causa o una parte fondamentale della causa del fenomeno". Es.: si dia un caso di trasmissione di febbre gialla. Una corsia d’ospedale che aveva ricevuto malati di febbre gialla venne suddivisa in due settori da una zanzariera. In un settore vennero lasciate andare in giro le zanzare che avevano contagiato i malati. Nei due settori andarono a dormire dei volontari. Ne conseguì che, a parità di ogni situazione di contagio, rimasero contagiati soltanto i volontari del settore in cui giravano le zanzare. Quest’unica circostanza diversa consentì di individuare nelle zanzare la causa del contagio. - Il metodo dei "residui": "se si levano da un fenomeno le parti che, in base ad antecedenti induzioni, si sanno che sono gli effetti di dati precedenti, la parte restante sarà l’effetto dell’anteriore residuo". Es.: quando in astronomia si analizzarono i perturbamenti dell’orbita del pianeta Urano, gran parte di tali fenomeni era addossato a cause conosciute. Per le perturbazioni residue si è dovuto fare ricorso ad una causa ancora sconosciuta: la presenza di un altro pianeta: Nettuno - Il criterio delle "variazioni concomitanti": "se un fenomeno varia in una data forma ogni volta che un altro fenomeno varia in qualche caratteristica forma, esso è o causa o effetto di quel fenomeno". Es.: se, mutando la composizione dei fertilizzanti di un terreno, viene mutata altresì la qualità e la quantità del raccolto in quel terreno, allora la cagione di queste modifiche è da ricercarsi nei fertilizzanti. Come si vede Mill cerca di dare con la sua dottrina del principio di causalità un principio epistemologico all’utilizzo che le scienze naturali facevano del concetto di causa. Il procedimento delle scienze morali. 4.2 Sul metodo per la conoscenza delle regole di comportamento dell’individuo Copyright ABCtribe.com 75 Sempre in System of Logic, Mill sorregge che il metodo che si segue per l’ apprendimento delle leggi naturali, deve essere seguito pure per la comprensione delle leggi che disciplinano il comportamento dell' uomo, sia nelle manifestazioni individuali sia in quelle sociali: oggetto delle così chiamate "scienze morali. Esse sono: a) - per quanto concerne lo studio del comportamento dell’uomo:- la psicologia: che studia le leggi di avvicendamento dei fatti mentali, vale a dire le leggi dell’associazione. - l’etologia: (dal greco ethos = carattere) che studia le leggi delle volizioni e delle azioni dell' uomini. b) - per quanto concerne lo studio dell’ atteggiamento dei gruppi di singoli, la scienza che se ne occupa è: - la sociologia: essa accosta all’intera collettività le leggi scoperte dalla psicologia e dall’etologia per l’individuo. Si osservi come la posizione di Mill a tale proposito rientri nel positivismo: egli si richiama a Comte, pure se lo critica. Mill stima il Cours de philosophie positive di Comte, ma critica il Système de politique positive a causa della concezione della vita sociale e politica in esso contenuta, poiché dogmatica e illiberale. Approfondimenti: - previsione e libertà. - rigetto del "metodo chimico" - rigetto del "metodo geometrico". Mill si occupa di economia in Principles of Political Economy del 1848. Recupera le ricerche cominciate dagli economisti inglesi, che lo hanno preceduto, vale a dire Smith e Ricardo e cerca di dare una soluzione al problema del rapporto fra accrescimento della popolazione e distribuzione delle ricchezze differente da quella proposta da Malthus. Mill discerne fra le leggi di produzione dei beni, che ritiene siano fissi e le leggi di ripartizione dei beni, che sono modificabili dall’individuo. In particolare pensa che occorre essere attenti alle necessità delle classi più indigenti, come vogliono i socialisti, ma senza arrivare all’abolizione della proprietà privata. Per Mill, i lavoratori potranno perfezionare le loro condizioni solamente con il loro impegno, dato che nella società le classi sociali pensano a fare i propri interessi. La via per migliorare non è però quella della rivoluzione, ma quella della cooperazione con le altre classi. Nel saggio On Liberty del 1859, Mill ritiene che alla base delle relazioni sociali deve essere posta la libertà civile: vale a dire la libertà del singolo individuo dai provvedimenti del potere politico, la quale non deve essere delimitata per nessun altra ragione che non sia la occorrenza di impedire, o di anticipare, un danno ad altri. essa consiste: 1 - libertà di coscienza, di pensiero e di parola; 2 - libertà dei gusti, vale a dire di perseguire la propria felicità nella forma che si preferisce; 3 - libertà di associazione. Nel saggio Considerations on Rapresentative Government del 1861, Mill ritiene che la migliore costituzione possibile nella società industriale attuale sia la democrazia rappresentativa, in cui la sovranità sia assegnata nell’intero corpo sociale e ognuno sia chiamato, periodicamente, ad esercitarla mediante il suffragio. Il suffragio deve essere esteso altresì alle donne. In Utilitarism, composto tra il 1861 1 il 1863, Mill riprende il principio dell’utilitarismo benthamiano: è moralmente valida qualunque azione che segua la maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile. Ma suggerisce di integrare il calcolo quantitativo dei piaceri, sostenuto da Bentham, con un calcolo altresì qualitativo, che vale a dire tenga conto di aspetti come la loro nobiltà e la Copyright ABCtribe.com 76 loro elevatezza spirituale. E’ in tal maniera convinto che la propria etica venga a coincidere con quella evangelica, dato che si basa come questa sulla "regola d’oro" di non fare agli altri quello che non si vuole sia fatto a se medesimi. Circa l’esistenza di Dio, Mill è persuaso che non si possa provare, ma che è utile per la condotta morale degli individui. 4.3 L'economia politica di Stuart Mill La sociologia di Mill non poteva che sboccare in una riflessione sui principi della società umana, ovvero il lavoro, la produzione, la ripartizione dei beni e lo scambio. Questa era, in fondo, la vera scienza della collettività nella tradizione filosofica inglese. Per questo è bene cominciare dalla definizione che Stuart Mill fece dell'economia politica, nell'ultimo dei cinque saggi spuntati nel 1844 con il titolo Saggi su alcune incerte questioni di economia politica. L'economia politica, come disciplina peculiare, non si occupa del "comportamento generale dell'uomo nella società", ma considera l'uomo soltanto come singolo che aspira a possedere ricchezze e che ha la capacità di vagliare quali mezzi adottare per raggiungere i suoi fini. L'economista compie pertanto un'astrazione: considera l'individuo soltanto come impegnato al conseguimento della ricchezza ed accantona qualunque altra passione o movente umani. Ciò non implica che vi siano esperti di economia che considerino gli individui solamente come produttori e mercanti. Il restringimento tematico serve a mettere in evidenza il metodo con cui la scienza deve operare; e gli studi di economia politica devono essere orientati ad investigare su quali sarebbero le azioni umane prodotte dal desiderio di arricchimento, se non fossero impedite e traviate da altri desideri, da altri problemi, o da altre condizioni. Lo stesso Mill, ciò nonostante, non si conformò del tutto a tali principi di purezza della scienza, al dire il vero egli fu molto più corretto di altri, discernendo sempre analisi economica e simpatie politico-sociali, e pertanto non piegando l'esame economica a semplici interessi di classe o di bottega. Come economista fu pure stimato, al punto che i suoi scritti diventarono una sorta di manuale. Ma il suo prestigio fu presto offuscato dalla rivoluzione della scuola marginalista da un lato, e dal successo incontrato dalla scuola marxista dall'altro, specie dopo il 1870. Pur seguendo Comte, sino ad un certo punto, sul campo della sociologia, non si può dire che vi sia una perfetto introduzione delle tesi milliane in economia con la sociologia, e con quella comtiana in particolare. La teoria, abbastanza diffusa, che l'economia politica di Mill non sia stata nientaltro che un complemento od una ramificazione della sociologia comtiana è pertanto sbagliata. Sotto tale profilo, invece, possiamo dire che Mill, come poi Marx, vide con una certa nitidezza che l'ossatura medesima della società è l'attività produttiva e che la società è sia possibile che indispensabile in quanto gli uomini producono e scambiano i loro prodotti, e di tale stesso lavoro hanno bisogno Copyright ABCtribe.com 77 per soddisfare i loro bisogni fondamentali. I Saggi su alcune incerte questioni di economia politica, opera del 1844, e i Principi di economia politica del 1848, compendiano, rivedono e incrementano i risultati raggiunti da Smith, Malthus e Ricardo, e unitamente aggiornano le idee di Bentham e del padre, James Mill. Condivido l'idea di Eric Roll secondo la quale Mill inserì gran parte delle proprie meditazioni in una condivisione delle posizioni di Malthus circa la esigenza di contenere lo sviluppo demografico. Su questa base possiamo dire, nondimeno, che Mill non fu mai così persuaso, come lo fu Malthus, che esso sarebbe venuto mediante un ritegno morale e pertanto una maturazione dei singoli. Tuttavia, Mill comprese che la povertà non si sarebbe potuta vincere senza una limitazione delle nascite da parte delle classi più povere. Certo, non disse mai che era necessario collocare il controllo demografico. Sebbene il disfattismo, per Mill non c'erano soluzioni forti, ma solo soluzioni date dalla crescita culturale. Anche per Stuart Mill è del tutto naturale che l'individuo lavori sulla base di una giustificazione egoistica al guadagno. Il processo di produzione, altresì quando viene ad organizzarsi nella forma della manifattura, risponde ad una naturale tendenza dell'individuo all'attività, che non si limita alla produzione essenziale ed indispensabile, alla soddisfazione di necessità primari, ma tende a espandersi. E nella forma moderna del capitalismo industriale questa tendenza viene riorganizzata, ma non viene snaturata. Sotto un profilo generale, i problemi dell'ingiustizia sociale possono, per Stuart Mill, essere affrontati intromettendo unicamente nel campo della distribuzione dei profitti, ovvero aumentando i salari e diminuendo il guadagno degli imprenditori. Questo perché, secondo Mill, la distribuzione non insegue leggi naturali, ma istituzioni, ovvero abitudini, leggi, regolamenti e rapporti di forza che in esse si manifestano. L'idea di questa distinzione non fu di Mill; egli la trasse da Nassau Senior, un economista molto importante, pure se collocabile su una posizione politica più conservatrice. Tale posizione non ebbe propriamente un seguito immediato, sia perché nelle file del movimento operaio prevalse la corrente marxista, che criticò la separazione fra produzione e distribuzione come ingenua ed ideologica, e sia perché gli studiosi di economia non erano ovviamente interessati a istigare movimenti di opposizione alla distribuzione capitalistica dei profitti. Ma sul piano della definizione di profitto e salari, come vedremo, il medesimo Mill, fu tanto brillante per un lato, quanto vago per un altro, e poi girovago. La sua teorizzazione del wage-fund, ovvero dell'esistenza di un fondo-salari come parte del capitale fisso iniziale che il capitalista precorre (e pertanto non ricava dai profitti scaturente dalla vendita), poteva e può essere usata in senso sia reazionario, sia progressivo, sia per arrivare a compromessi e contratti più equi. Quando Mill si rese conto che l'impiego predominante era di stampo reazionario, giunse e a ritrattarla e la sua autocritica destò sensazione. Ma, col senno di poi, sono di persona convinto che sia come astrazione teorica, sia come considerazione pratica anticipata all'inizio di qualsiasi impresa artigianale o industriale, il wage-fund sia una categoria metodologica utile. Copyright ABCtribe.com 78 Perfino nell'economia familiare non si fanno preventivi senza una previsione pessimistica di spesa. Non si capisce perché, allora, questo medesimo procedimento non debba essere adottato in scala più grande. Per comprendere l'importanza del pensiero di Mill nello sviluppo del pensiero economico, oltre che filosofico, necessita partire da una querelle in apparenza piuttosto sterile, ovvero, se Mill sia definibile come l'ultimo dei classici, o già come una transizione ai moderni, e pertanto come un precursore. La questione verte in particolare sul dilemma del valore. Per i classici, e ancor più per Ricardo che per il medesimo Adam Smith, il valore di scambio di una merce è indicato dal lavoro umano incorporato in essa. I moderni rinvieranno la loro attenzione sulla merce in quanto valore d'utilizzo e diranno, in sostanza, che il prezzo di una merce è determinato, non dal lavoro incorporato, ma dalla sua utilità, o dalla sua scarsità, pertanto dalla domanda. Per la verità, con tale ripartizione fra classici e moderni, si dimentica che sia Say che Senior avevano già criticato la dottrina del valore di Ricardo, considerata parziale ed insufficiente. La posizione più giusta, ovviamente, è quella che tiene conto di tutti e due i fattori, non perché lo dico io, ma perché la realtà è che il prezzo finale di una merce, che viaggia dal produttore e termina sullo scaffale del distributore, è il frutto di una decisione, e quel che conta sono i principi sui quali si è preso il provvedimento. Inutile dire che il produttore che dimentica il valore del suo lavoro, o dei suoi dipendenti, metterà a rischio perdite se, per differenti motivi, fosse costretto a vendere sotto il livello della spesa per il lavoro, le materie prime, il consumo dei macchinari e così via. quadro, Mill fu, forse molto meno considerevole come classico di quel che si è spesso pensato, e quasi certamente più importante come innovatore. Smith, per esempio, aveva commesso un grossolano errore nella stima del lavoro improduttivo, relegando tutti i servizi in siffatta categoria. Secondo Smith era produttiva solo la creazione di beni. Non erano fruttuosi i sovrani, i principi, i militari, i servitori domestici, gli spazzini, gli attori, i ballerini, e così via. Eppure, lo stesso Smith, aveva corretto i fisiocratici, per i quali l'unico lavoro fruttifero era quello agricolo. Mill ebbe buon gioco nel correggere Smith, e nel fare vedere che la produzione di un servizio è in ogni modo un lavoro produttivo, o necessario alla produzione. E che, altresì quando non è indispensabile alla produzione, costituisce in ogni modo un arricchimento della vita. La musica non è soltanto un lusso che ci si può permettere, ma un elemento di qualità della vita medesima, che contribuisce alla felicità del maggior numero. Questo semplice esempio mostra che il contributo di Mill alla stima del lavoro di qualunque genere è già moderno perché sfonda i parametri oltre i quali i classici, deviati dalla classificazione di Smith, non erano riusciti ad andare. Ma anche sul piano dell'esame delle crisi di sovrapproduzione, come vedremo fra breve, Mill, confutando la legge di Say, finì con l'anticipare ampiamente un pezzo considerevole della teoria generale keynesiana, secondo cui l'aumento di reddito non produce un incremento dei consumi. I Principi del '48 furono concepiti con l'ambizione di aggiornare e rivedere l'insieme delle impostazioni date da Adam Smith alla luce dei problemi che nel frattempo si erano presentati. Molti studiosi, per lo più economisti, vedono fra gli Essays e i Principles un tipo di contraddizione nel pensiero di Mill, in quanto, mentre i primi sono scienza economica pura e semplice, i secondi contengono importanti considerazioni di Copyright ABCtribe.com 79 filosofia sociale giudicati incompatibili con la scienza economica. Probabilmente qualche problema esiste, ed è dovuto al fatto che Mill modificò, non tanto il contenuto dei suoi pensieri, sempre linearmente severo, quanto quello del punto di vista. Un conto è trattare la questione sotto un profilo intimamente economico, di convenienza, di profitto, di legislazione sul commercio e così via; un conto è aprire la mente a considerazioni sulla giustizia del sistema, su quello che significa il lavoro, su come una collettività può organizzarsi per tutelarsi dai rischi insiti nel liberismo selvaggio, oppure nel collettivismo indotto. 4.4 Saggi su alcune incerte questioni di economia politica Negli Essays on Some Unsettled Questions Of Political Economy, suddiviso in cinque saggi, Mill analizzò una serie di questioni, fra le quali, una, posta da un economista, il colonnello Robert Torrens (The Budget: On Commercial and Colonial Policy, London 1844) assai attivo sul fronte dell'esame dei più immediati problemi della crescita industriale e del commercio. Secondo Lionel Robbins ( Breve storia dell'economia - Ponte alle grazie - Milano, 2001) "Vale assolutamente la pena di leggerlo [Mill] ..." Il primo saggio, intitolato Sulle leggi di scambio tra le nazioni, esaminò il commercio internazionale sotto l'aspetto dell’ adeguatezza di un sistema, anche unilaterale, di libero commercio. Pur dichiarandosi contrario, in linea di principio, al protezionismo, e pertanto ad un sistema di dazi e gabelle sull'importazione delle merci dall'estero, dovendo misurarsi con i problemi sollevati da Torrens circa i rischi, per l'Inghilterra, scaturente da una unilaterale apertura alle importazioni, Mill affermò che in determinate circostanze, era possibile applicare imposte sulle importazioni al fine di aumentare le entrate dello stato. Rispetto alle impostazioni di Smith, del tutto contrario a qualunque limitazione delle importazioni, ci fu inStuart Mill un cedimento di tipo pragmatico. Adam Smith aveva ritenuto assurdo sostenere una produzione interna dinanzi alla possibilità di comprare la medesima merce, a minor prezzo, all'estero. Il secondo saggio, Sull'influenza dei consumi sulla produzione, conteneva considerazioni ed approfondimenti molto rilevanti sul problema dell'equilibrio economico generale e sulle crisi di eccesso della produzione. Tra l'altro era stato scritto, o quanto meno abbozzato, già negli anni trenta, pertanto con molto anticipo sulla data di divulgazione. Robbins considera:« Qui egli supera la logica sterile della legge di Say e dimostra come un arresto della spesa possa produrre un'apparenza di sovrabbondanza generale. Riconosce che l'andamento dell'economia è esposto alle variazioni di prosperità e depressione, così che la questione generale ad acquistare e la generale riluttanza a comperare si succedono a brevi intervalli.» (Robbins - idem) Per comprendere tale punto occorre sapere che dice la legge di Say: essa affermava che lo scambio era scambio di prodotti contro prodotti e che la produzione e l'offerta di più di una merce creava automaticamente una domanda supplementare delle altre merci con cui essa avrebbe dovuto scambiarsi. Di Copyright ABCtribe.com 80 conseguenza, potevano darsi casi particolari di surplus, temporaneamente in eccesso, ma non poteva esserci sovrapproduzione generale. L'idea di Stuart Mill è che l'offerta è al medesimo tempo domanda e la domanda è pari tempo un'offerta. Quello ha che fare con il baratto primordiale, ma il commercio moderno non è altro che un modo più pratico di risolvere il baratto. Grazie al denaro, difatti, non c'è alcuna necessità di trovare chi, avendo quello che ci interessa, è parimenti interessato alla nostra merce. "Ora, dichiara Mill, quando due persone barattano, ognuna di esse è al tempo medesimo venditore e compratore. Non si può vendere senza comprare." Ma con la intercessione monetaria le cose sono più complesse: «Se tuttavia, prendiamo in considerazione l'utilizzo di moneta, tali dichiarazioni cessano di essere totalmente vere [...] L'effetto dell'impiego della moneta [...] è che questa rende possibile dividere quest'unico atto di interscambio in due atti o operazioni separate [...] Sebbene colui che vende, in realtà vende solamente per acquistare, ciò nonostante non necessita di acquistare al medesimo momento in cui vende, e pertanto non necessariamente si aggiunge all'immediata domanda di un bene quando si aggiunge all'offerta di un altro.[...] Ci potrebbe pertanto essere [...] una generale pendenza a vendere con il minor ritardo possibile, accompagnata da una altrettanto generale inclinazione a rallentare il più possibile tutti gli acquisti. » Nella spiegazione degli squilibri, secondo Mill si davano sempre due periodi: nella prima la gente preferisce le cose al denaro. Questo porta ad un ampliamento degli acquisti che, in sistema di convertibilità della moneta, determina una crisi finanziaria, la quale causa l'imposizione di limitazioni sui tassi bancari. La seconda fase si esprime pertanto come una domanda di denaro e non di cose, la quale si sviluppa come una concezione di risparmio forzato, e conduce alla eccedenza di cose, e non di denaro circolante. Tale teoria della crisi frequente, od anche, se vogliamo, durevole, del modo di fabbricazione capitalistico e della sua anarchia di fondo, muove, com'è logico, dalla considerazione che c'è una razionalità del consumatore. Questi preferisce non acquistare quando manca di denaro, onde scansare di indebitarsi e pagare alti tassi di interesse. Tutte le considerazioni contrarie a tale spiegazione devono per forza di cose fare appello a fattori similmente reali quali l'irrazionalità del consumatore, ovvero il suo reale bisogno. Ciò, in effetti, pare il punto debole della spiegazione che Mill diede dell'alternanza di crisi e sviluppo in regime di persistente squilibrio. In Italia questa spiegazione si scontrerebbe con una realtà nella quale il boom economico negli anni '60 fu possibile soltanto grazie all'indebitamento ed agli acquisti " a rate", seguito da un periodo di inflazione galoppante e di spaccature nella spesa pubblica. Lo stato regalava assistenza, educando male le masse a dare il giusto valore ai servizi sociali, ma i signori economisti scordano spesso e volentieri che senza tale distorsione non si sarebbero comprate le seicento e le televisioni a rate, e quindi non ci sarebbe stato boom. Il punto forte di quella politica sostenuta e sovvenzionata dai governi ( con soldi che non c'erano, quindi rubando al futuro) era la stabilità dei posti di lavoro (è molto difficile che si ricorra a prestiti e che questi vengano elargiti se manca la garanzia di un posto di lavoro Copyright ABCtribe.com 81 fisso), condizione che oggi pare mancare e che viene a ridimensionare tutte gli esami dei profeti del nuovo boom, a meno di un trionfo dell'irrazionalità del consumatore. Il terzo saggio è una speculazione Sulle parole produttivo ed improduttivo che spesso viene snobbato, ma che in verità assume una certa rilevanza nel quadro di una teoria politica dello stato moderno. Com'è noto, Adam Smith aveva classificato come improduttivi l'esercito, l'amministrazione dello stato, gli uffici pubblici, i lavori domestici ecc...ovvero una serie di servizi ritenuti sostanziali ed indispensabili che non producevano ricchezza, ma la impregnavano. Per capire di che si tratta necessita considerare che, durante il XVIII secolo lo sviluppo degli stati unitari non aveva seguito la stessa via. Mentre nell'Europa continentale si era via venuto affermando un modello burocratico accentrato sempre più complesso, in Inghilterra era prevalso un esempio statale più leggero e pertanto più sopportabile dai contribuenti. In esso il principio dell'autogoverno delle comunità, alla base integrato dalla figura istituzionale del giudice di pace, giocava un ruolo importantissimo. Dunque il peso del lavoro cosiddetto improduttivo era minore in Inghilterra che in altro luogo. Ma quello non aveva garantito, di per sé, il formarsi di una coscienza sociale e politica della necessità dello stato, sia parimenti minimo. Tale saggio di Mill sembra rilevante perché mette in evidenza quanto sia sbagliato considerare i lavori produttivi e quelli improduttivi alla luce di categorie rigide e poco saggi. Sia i servizi basilari (sicurezza e magistratura, salute, scuola e formazione) che i servizi culturali (biblioteche, teatri, cinema, editoria libraria e musicale ecc...), sia la ricerca scientifica, di per sé non sono denaro gettato al vento, pure se poi, ovviamente si tratta di distinguere tra ciò che coopera indirettamente allo sviluppo sociale e civile e ciò che appaga soltanto la libidine di qualche intellettuale. Ma si tratta di un tema a tal punto delicato, che spunta assurdo cercare di fissare dei criteri. Questo lo fanno già i privati. Il discorso sulla indagine scientifica ci porterebbe troppo distante, ma è evidente che il privato è interessato ad una ricerca istantaneamente risolvibile in business, e pertanto l'intervento pubblico è decisivo per una ricerca disinteressata, a condizione che il pubblico sia indipendente e non "oliato" dal privato, come spesso succede. C'era ancora chi si lagnava delle tasse e dell'infecondità della loro spesa in generale, e non riguardo a particolari situazioni di spreco come adesso in Italia, dove manteniamo una classe di burocrati pubblici e manager privati di voracità senza pari. Mill svolse un'acuta dissertazione sull'impiego dei termini, mostrando ragionevoli considerazioni su lavori come quello del poliziotto o del magistrato, che non soltanto difendono dalla distruzione la produzione e la proprietà ma, garantendo la sicurezza, concorrono indirettamente ad incentivare la medesima produzione. Alla fine, Mill esemplifica un caso persino banale, quello del musicista. Il lavoro del musicista è di per sé improduttivo, ma non lo è certo quello del fabbricatore di strumenti musicali. Ciò nonostante il lavoro del musicista è parte fondamentale della ricchezza e del benessere di una nazione, come del resto, nelle famiglie abbienti, il possesso di un pianoforte, è segno del benessere di quella particolare famiglia. Che si lavori anche per Copyright ABCtribe.com 82 acquistare un pianoforte non sembra discutibile. « I seguenti redasse Stuart Mill - sono da ritenere sempre produttivi: lavoro o spesa, il cui obiettivo diretto o fondato (erect) sia la creazione di materiali prodotti utili o gradevoli all'umanità. Lavoro o spesa il cui obiettivo fondato sia sorreggere l'individuo o altri esseri animati con facoltà e qualità utili o piacevoli all'umanità. Lavoro o spesa, che non avendo per proprio oggetto diretto la creazione di materiali fisicamente o mentalmente, ciò nonostante tendono implicitamente a promuovere l'uno o l'altro di questi fini e sono utilizzati o investiti soltanto per quel proposito.» Il quarto scritto è intitolato Sui profitti e sull'interesse. E' particolarmente rilevante altresì perché i medesimi punti Mill tornò molti anni dopo, autocriticandosi ed autocorreggendosi. E secondo molti, non fece bene a correggersi. Redige Lionel Robbins: «Smith meditava che i profitti fossero determinati dalla domanda e dall'offerta e che, nel lungo periodo, per via di tale processo competitivo l'accumulazione di capitale conducesse ad una caduta dei profitti. Ricardo lo mise in discussione. In definitiva la sua opposizione era: se c'è un’ estensione proporzionale di capitale e lavoro, perché mai dovrebbe esserci una caduta del saggio di profitto, tenuto conto del fatto che la domanda per beni scarsi è all'incirca insaziabile? Dev'essere qualcosa che ha a che fare con i rendimenti decrescenti, pensò Ricardo.» (Robbins - idem) Ricardo dichiarò che i profitti erano un resto, ovvero quanto rimaneva dopo il pagamento dei salari sul guadagno conseguito dalla vendita. Ciò però implicava che il profitto non veniva soltanto a dipendere dal salario, ma pure dal guadagno, perché in una semplice operazione aritmetica di sottrazione il risultato varia non soltanto se muta il sottraendo, ma pure se si cambia il minuendo. E allora, anche il salario sarebbe dovuto dipendere da tale dinamica reale, mentre nella verità esso si faceva vedere quasi sempre come quota fissa.Tutto quello spinse Mill a pensare come reale, almeno sul piano contabile, l'esistenza di un wage-fund, fondosalari, da considerare come preventivo di spesa, ed pure uno dei pochi punti teoricamente fermi in una realtà molto dinamica ed incerta. In breve: Mill allargò a tutta la collettività il concetto che i salari complessivi vengono dal fondo di capitale reperibile come somma di tutti i capitali particolari adoperati in imprese. Il salario individuale è il risultato di una suddivisione fra il totale sociale del fondo salari e il totale della popolazione che ambisce ad un'occupazione, o che è già conquistata. Di qui l'asserzione che i salari sono pagati dal capitale (considerato come anticipatore di salari). Il capitale è rispetto ai salari, la loro limitazione, da un lato, la loro garanzia di Copyright ABCtribe.com 83 esistenza dall'altro. Maurice Dobb nota in proposito che tale teoria: «...è assai vicina alla concezione, per molti implicita nell'economia classica, secondo cui l'industria (e perciò pure la popolazione) è limitata dal capitale; dall'altro lato, essa si riavvicina alla controversa teoria milliana secondo la quale "la domanda di merci non è domanda di lavoro" (ossia è soltanto il reddito investito, come anticipo di salari al lavoro a produrre occupazione).» Molti anni più tardi, anche dopo la reiterazione della teoria del fondo-salari nei Principi, Mill si renderà personaggio principale di una clamorosa e pubblica autocritica a seguito della divulgazione del libro di W.T. Thornton Sul lavoro. Nella recensione al libro di Thornton del maggio 1869, divulgata nella Fortnightly Review Mill scrisse: « Non esiste una legge di natura che ostacoli ai salari di crescere sino al punto di assorbire non soltanto i fondi che egli [l'imprenditore] ha inteso destinare alla continuazione della sua attività, ma altresì tutto quello che egli riserva per le sue spese private al di là della semplice sussistenza. Il limite reale all'aumento dei salari è la considerazione pratica del fatto che tale aumento può portarlo alla rovina; o costringerlo a lasciare la sua attività, non già il limite del fondo-salari.» 4.4.1 Il Wage-fund Vi sono due punti del sistema del wage-fund che devono essere attenzionati, non tanto per quello che egli redasse nei lavori che abbiamo considerato, quanto per quello che Mill teorizzò in merito ad un possibile socialismo economico, dopo il 1869: a) Mill non accolse che la quota salari fosse recintata da catene naturali e barriere inaccessibili. Vi era un margine per l'ingrandimento dei salari senza che, si badi, il rapporto capitalistico di produzione risultasse alterato. Si potevano dare, unicamente, salari più alti e profitti più bassi. b) Il processo di formazione e sviluppo delle abilità lavorative, vale a dire l'istruzione dell'operaio, era a tutti gli effetti un lavoro produttivo e poteva pertanto essere ritenuto un valore da incorporare nel salario, od pure una forma sociale di salario, da assegnare con la gratuità del sistema scolastico. E' da osservare che il medesimo Marx, nel Capitale, riconobbe a Mill il merito di queste annotazioni. Lo criticò al contrario bruscamente per l'adesione alle posizioni di Nassau. W. Senior, un economista che aveva affermato "solennemente" che la distinzione fra lavoro e capitale andava superata con quella tra lavoro ed astinenza!!! In realtà l'adesione di Mill alle posizioni di Senior, erano molto meno entusiastiche di quanto ipotizzò Marx. Mill si era difatti limitato a considerare che parte del capitale ha origine dal risparmio. I moderni hanno preferito sostituire il termine astinenza con quello di differimento (del piacere). Certo è che se si richiedesse di spiegare l'origine del capitale solo e soprattutto con il risparmio e il rinvio, si cadrebbe nel ridicolo. Copyright ABCtribe.com 84 C'è però da considerare che il termine astinenza non era stato adoperato da Senior soltanto nel senso di risparmio. Per Senior l'astinenza era sinonimo di lavoro del capitalista, ovvero tempo dedicato all'impegno e non al divertimento. Nei Principi Mill accetterà, senza innovazioni sostanziali, il punto di vista di Senior principalmente in ordine al problema dei costi. Per Eric Roll, nondimeno, l'analisi di Mill sui costi risultò non compatto: « A volte egli parla di lavoro e astinenza nei termini di una teoria soggettiva del costo reale; vale a dire li impiega per dimostrare l'effettiva quantità di sforzi e di astinenza materializzati nel prodotto. Ma più spesso egli definisce il costo in termini di remunerazione corrisposta ai lavoratori e a coloro che forniscono il capitale. Naturalmente quello significa fare fronte il problema dall'angolo visuale dell'imprenditore e Mill, sebbene tutte le sue esitazioni, sembra aver dato un grande impulso a tale metodo di analisi del costo. La sua confusione diviene particolarmente evidente quando include le differenze permanenti nei livelli dei salari e nei profitti come fattori che coincindono sul valore. Egli vide che questi si verificano in realtà e che essi hanno qualche influenza sul prezzo di mercato. Ma non comprese che quello contrastava con il concetto soggettivo di costo reale, dal momento che chiaramente tali differenze nella remunerazione non potevano avere alcuna connessione con la quantità relativa di sforzi e di astinenze che esse causavano. » Alla luce di quanto sappiamo adesso sul reale andazzo delle faccende economiche, rimane un piccolo mistero da chiarire: perché, quando i profitti vengono divisi in maniera più equa, ed i salari si alzano, viene a generarsi inflazione, e pertanto tendenza al deprezzamento della moneta, e quando i profitti restano in poche mani, si ha piuttosto stabilità monetaria? Ovviamente ci sono più risposte, e non è detto che ve ne sia una adeguata a tutte le condizioni; attualmente una semplice modificazione del costo del petrolio ha effetti drammatici sul costo dei trasporti e dell'energia in generale; però, come non possiamo escludere che dietro alla spinta inflazionistica vi sia un accrescimento dei prezzi determinato dal tentativo di una compensazione e di un recupero delle somme perdute dai capitalisti, non possiamo neanche escludere il fatto che i lavoratori in possesso di più denaro, si gettino irragionevolmente sul mercato per acquistare qualunque cosa. Quello dovrebbe generare benessere, ed invece genera inflazione. . Una cosa è sicura: il peggior nemico dei poveri e dei salariati in generale è in ogni modo l'inflazione stessa, vale a dire una situazione nella quale il valore dei soldi è sempre minore, giorno dopo giorno. Il vero interesse dei lavoratori coincide quindi con politiche economiche che tengano sempre sotto controllo la febbre inflazionistica. In pratica: le politiche keynesiane non tornano realmente a vantaggio dei lavoratori, perché mirano a ribassare i salari reali, fermo restando che i lavoratori sono per principio fermamente contrari ad una diminuzione del salario monetario (nominale), non considerando mai a sufficienza che la moneta come unità di misura non è ferma come il metro, o la bottiglia da un litro, ma fluttua, ed adesso vale più e domani può valere meno. Copyright ABCtribe.com 85 Per non lasciare il discorso incompleto, credo sia utile esaminare pure il percorso analitico che condusse Mill alla primitiva enunciazione del wage-fund. Come già evidenziato, Ricardo sostenne che il profitto derivava dal salario, anzi, era il resto rimasto dopo il pagamento degli stessi. Per Mill "questa era la forma più perfetta in cui la legge dei profitti sia mai stata formulata" e la "base della vera teoria dei profitti." Mill riconobbe che il principio espresso da Ricardo (i profitti non possono accrescere, a meno che i salari non scendano), era corretto. Ma a condizione che per basso salario si comprendesse non soltanto il salario prodotto con minore quantità di lavoro, ma pure il salario prodotto a minor costo, calcolato unitariamente con il lavoro ed il profitto passati. In pratica Mill parlò del saggio del profitto, anziché del profitto, introdusse vale a dire una variante temporale rispetto alla quale misurare il profitto medesimo: non più un ciclo produttivo semplice fondato su capitale fisso anticipato per materia prima e salari - produzione - vendita - profitto, ma una media del profitto calcolato su più periodi semplici, senza soluzione di continuità. Redige Maurice Dobb: «L'emendamento di Mill mette in risalto, in maniera sostanzialmente corretto, che, ove si introduca il capitale fisso, questo rapporto risulta inferiore, ceteribus paribus, quanto maggiore è la proporzione del capitale fisso rispetto al capitale circolante, e quanto e più lungo è il periodo di tempo in cui le spese di produzione, o il lavoro, devono essere segnalate: un punto questo, che Ricardo non menziona mai chiaramente (anzi, sembra addirittura ignorarlo), probabilmente perché non gli interessa troppo analizzare il profitto in rapporto al capitale complessivo. Formalmente la variazione milliana può essere considerata analoga alla critica che Marx muove a Ricardo di aver ignorato il cosiddetto "capitale costante", come fattore per la determinazione del saggio di profitto, e di avere identificato il profitto con il plusvalore. » In quest'ottica spunta evidente che, per Mill, resta determinante che nel ciclo economico capitalistico vi sia un capitale fisso iniziale implicante il wage-fund. Il principio dell'impresa è il capitale fisso iniziale. Del quinto saggio, dal titolo Sulla definizione di economia politica; e sul metodo di investigazione suo proprio, abbiamo già parlato in apertura. Giulia Bruzzone ne ha ultimamente prodotto una traduzione che è disponibile cliccando qui. Del resto, a chi volesse approfondire, sarebbe utile dare un'occhiata anche a Say, il quale fu molto interessato al problema metodologico e pertanto fare un raffronto fra il metodo di Mill e quello di Say. 4.5 I Principi di economia politica E' chiaro fin dall'inizio che l'intento dell'autore è di pervenire, alla fine, sulla base stessa dei principi di economia, ad alcune applicazioni non artificiose, capace di rendere migliore le condizioni sociali. Ma visto che l'esame dei principi è condotta Copyright ABCtribe.com 86 seconda categorie economiche e non secondo utopie politiche, il ragionamento sulle applicazioni sociali non altera il momento dell'esame. Non fu un caso, pertanto che i Principi di Stuart Mill diventarono per lungo tempo, in Inghilterra, una specie di vangelo sia per i liberali radicali che per gli economisti puri. La sua validità fu negata da Jevons, che si oppose a Mill pure sui problemi di logica e di filosofia della scienza, e nell'ultimo quarto di secolo i Principi di Mill furono offuscati dalle nuove dottrine economiche. Per un certo periodo fu poi rivolta a Mill la critica di una scarsa singolarità. Ma se si pensa al soltanto fatto che seppe cogliere un grave errore nella dottrina ricardiana della rendita, nella quale si sosteneva che essa non fa parte dei costi di produzione, si ottiene un'idea del tutto differente. In effetti ci si dovrebbe sempre chiedere da dove vengono i soldi quando c'è un guadagno di qualunque tipo, ed è evidente che la rendita è sostenuta dalla produzione, e pertanto è un costo di produzione, tanto quanto lo è adesso il costo della pubblicità, la quale vive di rendita di posizione, altresì se poi utilizza il lavoro "creativo" di decine di fabbricatori di spot, designers e così via. Il primo saggio si intitola Preliminary Remarks e non consiste di una premessa, ma di un vero e proprio ragionamento storico sul senso e sul significato di ricchezza. Mill inizia con una critica della teoria mercantilistica, la quale non fu soltanto un fatto storico, superata poi da teorie più moderne, ma era ai tempi di Mill, e forse lo è nuovamente, il senso comune dell'economia politica, in altre parole la convinzione assoluta che la ricchezza sia istituita dall'oro, dall'argento e dal denaro. Scriveva difatti Stuart Mill: «It has so happened with doctrine that money is synonymous with wealth.»Già Aristotele aveva provato a criticare il mercantilismo del suo tempo, da lui definito crematistica, riportando come esempio la leggenda di re Mida: avendo questi conseguito il potere di trasformare tutto quello che toccava con le mani in oro, terminò col morire di fame. Ma nonostante tale illustre antecedente il mercantilismo prima ancora che una teoria economica fu sempre un credo sparso al punto da sembrare naturale in qualunque società. Cominciò ad affermarsi come teoria vera e propria agli inizi stessi del capitalismo mercantile, e uno dei suoi massimi teorici era stato Thomas Mun (1571-1641), individualità nonostante lucida ed aperta, perfettamente allineata alla logica dell'espansione commerciale. Mill, pur conducendo un'osservazione storica, non fece una vera e propria storia del mercantilismo, non citò neanche Mun o Aristotele; si limitò a criticarne l'idea ispiratrice, mettendo in evidenza cosa veniva postulato: il possesso di un bene particolare è un possesso circoscritto; il possesso del denaro, o dell'oro, è potere d'acquisto tendenzialmente senza limiti. Redigeva Mill: « The greatest part of the utility of wealth, beyond a very moderate quantity, is not the indulgences it procures, but the reserved power which its possessors holds in his hands of attaining purposes generally; and this power no other kind of wealth confers so immediately or so certainly as money.» Nell'esame di Mill, quello non riguarda soltanto gli individui, ma altresì i governi e le amministrazioni. Pure i governi vedono la ricchezza come denaro e Copyright ABCtribe.com 87 osservano con favore alle esportazioni perché esse riportano in patria oro e denaro. Lo svantaggio con cui si guarda alle importazioni è dovuto al fatto che esse riducono le riserve di danaro e di oro depositato o circolante in patria. Lungi dal prendere tali considerazioni come una critica di costume, dovremmo alquanto prenderle come uno dei tanti principi esplicativi, una vera e propria legge della fisiologia sociale, la quale sarà valida sin tanto che il senso comune della gente condividerà, spesso senza rendersi conto, i principi di fondo della teoria mercantilistica. Su questo piano Mill non si cura tanto di scoprire il perché la gente comune desidera avere oro o denaro, quanto di fare vedere come accade. L'analisi di Mill è particolarmente penetrante rispetto al transito da un regime di vita pastorizio e nomade a forme stabili di agricoltura e di proprietà della terra. L'esame di tale fase procede dal così chiamata maniera asiatico, culminante con la creazione di monarchie ed eserciti, sino alla constatazione di un differente progresso nel nord Europa prima della conquista romana. Egli dà rilevanza al fatto che in un primo tempo la terra sfruttata da colture agricole non offriva altro che prodotti adeguati ai soli coltivatori, e che l'agricoltura richiedeva una percentuale di lavoro molto più alta di quella richiesta dalla pastorizia. Con tutto ciò, col tempo, l'agricoltura venne ad offrire un'eccedenza di prodotto. Mill descrive come tale prodotto venisse subito sequestrato dal sistema monarchico, o mediante tasse imposte con la forza e miranti a conservare una casta di guerrieri e burocrati, o mediante la convinzione realizzata dalle credenze religiose. In verità fra agricoltori e guerrieri dominanti si era instaurato una specie di baratto. La casta militare proteggeva i contadini dalla rapina dei briganti e principalmente dalle invasioni dei popoli vicini. Potremmo arguire che pure fra agricoltori e sacerdoti ( e maghi) era stata stabilita una sorta di alleanza: grazie alla loro intercessione, le divinità concedevano protezione in cambio di piccoli sacrifici, che divenivano sempre più grandi non perché gli dei si facessero più esosi, ma perché ampliava l'avidità dei sacerdoti. Nell'insieme il testo è invitante perché smaschera le vere ragioni della istituzione degli stati, dei sistemi militaristici e delle istituzioni religiose nell'antichità. Nell'insieme risulta chiaro che l'opera fu pianificata sulla base di due principi comtiani, statica e dinamica, ovvero anatomia e fisiologia della produzione e del mercato, con la produzione in funzione del mercato. Gli economisti puri, ed in genere, quelli di destra unitamente ai marxisti, furono sempre molto critici nei confronti della ripartizione milliana fra produzione e distribuzione, ma essa spunta quantomeno plausibile. Se difatti la produzione, fondata sulla suddivisione del lavoro, ha un che di oggettivo, nel senso che non si possono generare cose in modo sostanzialmente diverso da come vengono prodotte, vale a dire o nei campi o in fabbrica, lavorando con macchine, e mirando a realizzare qualche cosa di durevole, di utile e di vendibile, la distribuzione, come riconosce pure Lionel Robbins, potrebbe seguire differenti linee istituzionali. Scrive Mill:« The laws and conditions of the production of wealth partake of the character of physical truths. There is nothing optional or arbitrary in them.» Copyright ABCtribe.com 88 « Persino quello che una persona ha prodotto con la sua fatica individuale - continua Mill - senza l'assistenza di alcuno, non può essere considerato suo senza il permesso della società. Non solamente la società glie lo potrebbe togliere, ma altri singoli potrebbero e vorrebbero sottrarglielo, se soltanto la società rimanesse passiva; e se non ci fossero ulteriori sovrapposizioni, o non fossero impiegate e pagate persone con il proposito di ostacolare che egli venga infastidito nei suoi possedimenti, questo potrebbe succedere. La distribuzione della ricchezza dipende pertanto dalle leggi e dai costumi della collettività. Le cui regole sono definite dalle opinioni e dai sentimenti della parte dominante , e sono molto differenti in molte età e paesi differenti; e potrebbero essere ancora più differenti se l'umanità lo volesse. Le opinioni e i sentimenti dell'umanità, senza dubbio, non sono oggetto di scelta. Essi sono la conseguenza delle leggi indispensabili della natura, abbinate con lo stato della conoscenza esistente e dell'esperienza, e con le reali condizioni delle istituzioni sociali, la cultura e la morale.» (idem - chapter one) «L'umanità è capace di una lontana coscienza collettiva (public spirit) - continua Mill - maggiore di quanto il tempo presente sia assuefatto a supporre possibile. La storia testimonia con successo di come gli esseri umani possono essere trascinati a sentire il pubblico interessamento come il proprio.E nessun terreno potrebbe essere più bendisposto alla crescita di un simile sentimento che un'associazione comunista, di maniera che tutta l'ambizione, le attività fisiche e mentali, che sono ora esercitate nella ricerca di divisi interessi egoistici, potrebbero richiedere un'altra sfera di sviluppo, e potrebbero per natura trovarlo nella ricerca di generali benefici per la collettività. La stessa causa, in questo modo spesso assegnata alla spiegazione della devozione dei preti o dei monaci cattolici agli interessi del loro ordine religioso - che non ha altro interesse - vorrebbe, sotto il comunismo, incollare i cittadini alla comunità.» Mill prosegue, dichiarando che il comunismo non era in realtà attuale nella coscienza della gente, ma quello non escludeva che avrebbe potuto esserlo in futuro. In generale egli si affermò sempre contrario a soluzioni imposte con la forza e mise in ogni modo il problema della libertà individuale al di sopra di ogni altro valore. Mill era benevolo alla proprietà contadina e credeva che ciò avesse in sè una sorta di magia capace di trasformare la sabbia in terreno fertile. Ma tale visione era forse più dettata da motivi romantici che da reali stime sulla sostenibilità economica della piccola proprietà. Per quanto concerne l'organizzazione industriale, Mill alimentò una visione del futuro nella quale, per gradi, l'impresa capitalistica si sarebbe cambiata in impresa cooperativa. Tutto il suo socialismo stava nella predilezione per un sistema di produzione basato sulla cooperazione anziché sulla costrizione e la gerarchia. 4.5.1 Lo stato stazionario dell'economia Mill immaginò che presto o tardi l'incremento della ricchezza sarebbe interrotto e che l'economia sarebbe entrata in una fase stazionaria, da non capirsi come ristagno, ma come equilibrio. Questo perché i miglioramenti tecnici e scientifici, la legge dei corrispettivi decrescenti, l'accumulo del capitale e la concorrenza avrebbero determinato una compressione dei profitti. Una volta impedito un progresso eccessivo della popolazione, si sarebbero altresì determinate condizioni favorevoli al cambiamento favorevole delle condizioni dei lavoratori. Mill osservò con un certo freddo compiacimento a questa condizione di felice equilibrio, senza considerare Copyright ABCtribe.com 89 che lo sviluppo avrebbe presto posto nuovi ed ancora più grandi problemi. Ci furono dispute per le spoglie del pensiero economico-politico di Stuart Mill. I socialisti fabiani lo volevano socialista e i liberali collettivisti lo volevano liberale. In verità, se mi è consentito un giudizio personale, Mill non fu né l'uno né l'altro, o fu, anche, tutt'e due. Il problema della libertà individuale restò sempre prioritario, non svendibile in nessun caso per qualcos’altro. Fu contro il collettivismo appiattito ed imposto, propugnato dai socialisti e dai comunisti utopistici del continente, ma raccontò più volte di essere disgustato dall'individualismo esasperato. Conservò sempre un’ indubbia stima delle idee di Robert Owen, ma non ne fu mai veramente persuaso, e presumo che fu molto meno attirato da quelle di Fourier. Non conobbe direttamente le teorie di Marx, o in ogni modo le ignorò pubblicamente. Fu prudentemente favorevole alla proprietà statale di alcuni servizi pubblici, e dibattute i termini giuridici della nazionalizzazione delle ferrovie, provando simpatia per tale accorgimento. « In fatto di tassazione - redige Lionel Robbins - lo si potrebbe considerare al tempo medesimo un reazionario e per altri versi un radicale. Per quanto concerne l'imposta sul reddito, era decisamente contrario alla tassazione progressiva, tranne che nella misura in cui la progressione è l’ effetto di un limite minimo di esenzione. Come sapete, il limite minimo di esenzione implica un certo grado di progressione, ma non è quello che riteniamo come imposizione fiscale graduale, che Mill vedeva come penalizzante degli imprenditori rispetto a quelli che preferivano non dedicarsi all'attività imprenditoriale. Per quanto concerne le successioni ereditarie, era parecchio più radicale di quanto nessun governo fosse mai stato fino ad allora. Era a favore dell'imposizione di un limite assoluto di denaro che un individuo poteva ereditare: qualche centinaio di migliaia di sterline in tutto. » In Mill il pensiero morale occupa la sfera economica e il pensiero economico e politico occupa la sfera della morale. Tutto quello, ovviamente, non può piacere né agli economisti che han venduto l'anima al denaro, e neanche ai moralisti, che han venduto l'individuo ad impossibili principi di perfezione. E neanche ai marxisti più ortodossi, che hanno sempre visto come il fumo negli occhi la commistione fra morale ed economia politica, se l'oggetto di dibattito è l'economia politica, ovvero la realtà dello scheletro che regge tutta la vita sociale. Engels, nell'Antidühring, fu particolarmente aggressivo su tale punto, ma la sua riduzione di tutto l'uomo al suo interesse, in verità finì con l'ignorare le sue medesime dichiarazioni di fondo: il comunismo diede inizio a realizzarsi nella coscienza di alcuni imprenditori illuminati, come Robert Owen, del quale Engels canta le lodi. Certo non poteva nascere nelle masse operaie. Ed egli medesimo fu un imprenditore. Copyright ABCtribe.com 90 E' innegabile che il comunismo venne al mondo come figlio della morale e della commistione realistica fra economia politica e morale. Se è impossibile fissare un rapporto diretto fra Mill ed il marxismo, che non è mai venuto alla luce ( e questo è per me un piccolo mistero), non è ciò nonostante impossibile raffrontare le idee di Mill e quelle di Marx, tanto più che esse si accrebbero in un periodo storico comune a tutti e due. Marx, al contrario, si occupò in misura importante del pensiero di Stuart Mill e, prima ancora, considerò Gli elementi di economia politica di James Mill come un rilevante documento della storia dell'economia. Credo sia utile riepilogare rapidamente il giudizio di Marx su Stuart Mill, sia perché rende giustizia alla posizione di Mill, almeno in parte, sia perché verifica che Marx non era affatto quel fazioso che viene oggi pitturato. 4.5.2 La teoria economica di Stuart Mill ed il problema del socialismo E' opinione abbastanza estesa che Stuart Mill iniziò ad essere semisocialista dopo il fatale incontro con Harriet Taylor, nel 1830. Quasi certamente è vero, nel senso che tale donna, essendo molto intelligente ed pure molto sensibile ai problemi umani, lo costrinse a misurarsi in maniera non unicamente freddo e teorico con problemi umanitari. Ma non dobbiamo confondere l'ispirazione con la enunciazione esplicita di una preferenza e il disegno teorico conseguente. Maurice Dobb, storico dell'economia di orientamento marxista, redige: « L'influsso della Taylor su quest'opera [I Principi di economia politica] (che, osserva Leslie Stephen, "divenne popolare come nessun'altra in tale campo dopo la Ricchezza delle nazioni) è così significante che pare opportuno dedicargli qualche parola, sia persino per inciso. Come dice Mill medesimo, l'influsso della Taylor conferisce al suo libro quella tendenza generale per cui esso si discerne da tutti gli antecedenti trattati di economia politica, una tendenza che consiste soprattutto nel fissare la giusta distinzione fra le leggi della produzione della ricchezza, che sono reali leggi di natura, dipendenti dalle proprietà degli oggetti, e le forme della distribuzione che, soggette a certe condizioni, dipendono dalla volontà umana." Altri economisti, afferma Mill, confondono le due cose "sotto la comune definizione di leggi economiche...disadatti di essere abolite o cambiate dall'azione umana." In altre parole la ripartizione del reddito è per Mill il prodotto di istituzioni sociali mutabili vale a dire un fatto "istituzionale" e storicamente relativo, non "naturale" o universale. Una dichiarazione in questo modo esplicita riproduce senza dubbio un progresso nei confronti dei precursori di Mill, nonché delle posteriori teorie dell'"imputazione". Non per caso Marx ha esaminato che "sarebbe estrema ingiustizia metterli (persone come J.S. Mill) in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell'"economia volgare", pure se, beninteso, affermazioni come quella citata erano per Marx indicazioni ancora inadeguate del nesso fra la ripartizione e i rapporti sociali di riproduzione.» Questa ripartizione non fu contestata soltanto da Marx, ma principalmente da quelli che potremmo definire economisti di destra. Per cause diverse, ovviamente, e del tutto contrastanti a quelle di Marx, ma con pretesti fondamentalmente simili. Rimane che proporre una differente distribuzione della ricchezza scaturente dai profitti, è socialismo soltanto sino ad un certo punto. La caratteristica fondamentale della collettività, anche operando una differente distribuzione dei profitti, sarebbe rimasta la concorrenza fra produttori ( e venditori) in un regime di libero mercato, a base capitalistica, vale a dire con molto denaro alle spalle all'inizio di qualsiasi attività. Copyright ABCtribe.com 91 Tale soluzione per il socialismo lasciava intatta quella che era ritenuta la "naturale" tendenza a produrre di più e meglio, vale a dire la "competizione" fra esseri umani. Non credo sia il caso fissare quanto vi sia di naturale nella "competizione". L'antropologia paragonata dimostra che vi sono state e vi sono tuttora collettività poco competitive e, visto il loro grado di sviluppo, non credo abbia molto senso contestare la loro vicinanza alla natura. Però è un fatto che la competizione sia una componente innata nel periodo dell'infanzia e dei giochi presente in moltissime società umane, alla stessa maniera della solidarietà e dei vincoli di sangue. Basta poco per stimolarla e, forse non serve neanche stimolarla. Ma, se è indubbio che non sempre la competitività si indirizza a produrre di più per acquisire ricchezza, diventa similmente esplicito che, senza competizione, le società stagnano, non si ripetono, crepano prima del tempo. La pianificazione socialista, proprio nel momento in cui pareva esaltare il massimo possibile della razionalità, ovvero la collaborazione di tutti al conseguimento del bene di tutti, falliva perchè comportava la frustrazione dei talenti delle individualità virtualmente più creative, e generava insoddisfazione perché schiacciava verso il basso l'uguaglianza economica, e non ricompensava secondo meriti. Anzi, sovente, ricompensava secondo principi mafiosi, come nell'Urss ai tempi di Breznev. Non è scritto da nessuna parte che la programmazione debba pure contestare l'esercizio delle libertà individuali, ma è certo che nel totalitarismo reale del comunismo di stato del Novecento, paradossalmente più acuto ai tempi di Breznev e della nomenklatura che a quelli di Stalin, si possano leggere non soltanto fattori ideologici, ma pure esigenze obiettive di tenuta del sistema. Un sistema ordinato, rigorosamente come una macchina, o come un organismo vivente, non può permettersi guasti, o disfunzioni, o malattie. Ecco perché, in definitiva, una programmazione totale rischia sempre di portare all'eliminazione di tutte le voci di critica e di opposizione ed a forme di totalitarismo. Ciò può essere agevolmente verificato quando facciamo un programma noi medesimi e tentiamo di pianificare il suo sviluppo. Ogni opposizione viene vista come un ostacolo, persino un sabotaggio, alla nostra volontà. Tutto ci infastidisce, tendiamo ad assolutizzare la nostra meta a dispetto di tutte le circostanze e rischiamo agevolmente di perdere il rispetto per l'autonomia e la libertà degli altri. Per di più, un sistema elefantiaco di pianificazione porta certamente alla burocratizzazione, pertanto al rallentamento, allo scoraggiamento di qualunque iniziativa individuale, altresì la più disinteressata. In un sistema progettato, fatalmente, si viene ad instaurare una mentalità nella quale è permesso soltanto quello che è chiaramente autorizzato, ed è vietato o impresentabile, tutto quello che non lo è. Il problema, se tale fatto può costituire "problema", è che Mill risultò alla fine semi in tutto: fu semisocialista, semiliberale e semipositivista. Rispetto a Bentham ed a suo padre fu semiutilitarista. Certo: Mill non fu mai un semirivoluzionario; non lo fu per nessuna cosa. Qualunque innovazione, anche la più avanzata, doveva avvenire nel quadro istituzionale dato, ed in modo pacifico. Come fosse possibile, per Mill, introdurre elementi di socialismo senza causare scossoni devastanti, lo abbiamo già visto: il problema era nelle mani Copyright ABCtribe.com 92 dei lavoratori medesimi e la via era quella delle cooperative di produzione, da un lato, e il progresso delle Unions sindacali dall'altro. La storia prese un'altra direzione perché in Inghilterra si fecero principalmente cooperative commerciali, e occorrerà andare sul continente per vedere spuntare qualche tentativo di cooperative di produzione. Furono esperimenti che persero via d'importanza, sia perché la forza economica del sistema delle imprese terminò con lo stritolare le deboli strutture cooperative, sia perché la direzione del movimento operaio passò, principalmente dopo il 1870, nelle mani di marxisti ortodossi, persino più marxisti di Marx, e in ogni modo poco inclini ad aumentare esperimenti di socialismo applicato a comunità produttive. Per sicuri aspetti fu presente in Mill pure una terza via, quella dell'associazione del lavoratore all'impresa. Fu quella meno conosciuta e meno seguita, pure perché presentava e presenta sempre il rischio dell'incertezza. In tale schema Mill prefigurava come possibile l’ attenta valutazione del lavoratore come socio senza capitale, o con quote minime. La sua retribuzione, allora, non veniva più quantificata come salario, ma come parte del profitto prodotto, ed era pertanto a tutti i titoli una separazione dell'utile. In tale quadro sarebbero venute a cadere molte delle consecutive critiche all'organizzazione capitalistica della società e della produzione basate sull'alienazione del lavoro e sull'estraneità del lavoratore alla produzione. Interessati come i padroni, e persino più di loro, all'accrescimento della produzione e della redditività, i lavoratori stessi avrebbero messo in atto atteggiamenti finalizzati al miglioramento del lavoro, per il loro stesso profitto. A questo proposito vi sono, col senno di poi, differenti principi che giocano del tutto a sfavore di questa teoria. Il primo ed il più manifesto è che il ciclo produttivo si svolge in condizioni dinamiche e che il cambiamento tecnologico spinge certamente alla riduzione di mano d'opera. Ci si troverebbe pertanto dinanzi non all'equivalente di un licenziamento, ma al problema dell'eliminazione di un socio. Il secondo principio di difficoltà è che i medesimi lavoratori sono stati e sono restii ad avere in comune l'incertezza: meglio un salario minimo, ma certo, che un profitto superiore incerto. Il terzo è che le organizzazioni sindacali hanno ragione di sussistere se i lavoratori sono contrapposti all'impresa e pertanto possono rivendicare diritti, riduzione d'orario e salari più alti. Cessano di avere tale funzione se i profitti d'impresa vengono equamente divisi fra soci con capitale e soci senza capitale. Ed è per questo che sono fondamentalmente poco aperte a queste sperimentazioni. Il quarto è che molte volte la proposta di trasformare il salario in una rimunerazione ottenuta divedendo i profitti, era poco meno che un imbroglio volto a conseguire una riduzione dei salari medesimi. A memoria d'uomo questa proposta è stata avanzata spesso in fasi di recessione e difficoltà, e, forse, quasi mai in periodi di sviluppo ed alti profitti. La difficoltà di collocare Stuart Mill in una corrente di pensiero pertinente depone a suo favore: essere socialista con riserva, Copyright ABCtribe.com 93 liberale con riserva, positivista con riserva, è vergognosa solamente per chi crede sia valida la pena di spendere tutta l’ esistenza a cantare le lodi dell'idea, invece che a verificare sino a che punto essa sia vera in pratica. Il numero e la qualità delle riserve che egli avanzò rispetto a tutte le dottrine catalogate, prova solo che egli si fece via consapevole che non c'è teoria che fosse di per sé perfetta. Ognuna implicava controindicazioni e deduzioni negative, accanto a vantaggi. Si trattava quindi di decidere quale fosse la più favorevole, e per chi, in un determinato momento. E pure, audacemente, di seguirne simultaneamente più d'una, inventando soluzioni pratiche che accogliessero geniali sintesi di tutte o di qualcuna. Mill fu un versatile, ma non un indeciso, casomai una persona sempre consapevole delle conseguenze di qualunque affermazione filosofica o politica. Ma nella difesa della libertà individuale e di pensiero fu indubbiamente compatto dall'inizio alla fine: senza libertà il socialismo non è preferibile al capitalismo in nessun luogo ed in alcuno tempo, pure se è perfettamente visibile che il capitalismo in sè è una restrizione della libertà, in quanto forza tutti quelli che vivono in povertà entro confini sempre più inaccettabili. Abbiamo già visto che Marx analizzò la suddivisione fra sfera della produzione e quella della ripartizione. Nel Capitale redasse: tale suddivisione ... « si fonda sulla confusione e sulla individuazione del processo sociale, con il processo lavorativo semplice, che deve compiere anche un individuo affettatamente isolato, senza alcun aiuto sociale. In quanto il processo lavorativo è solamente un processo fra l'individuo e la natura, i suoi elementi semplici rimangono identici in tutte le forme dell'evoluzione sociale. Ma qualunque determinata forma storica di siffatto processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è giunto un certo livello di maturità, la forma storica determinata vien lasciata cadere e cede il posto a un'altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale decadenza quando guadagnano in estensione e in profondità la contraddizione e il contrasto fra i rapporti di ripartizione, e quindi pure la forma storica determinata dai rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttive e sviluppo dei loro fattori, dall'altro. Succede allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della fabbricazione e la sua forma sociale. » 4.5.3 Che cosa voleva dire Marx? Copyright ABCtribe.com 94 Marx confutò a Mill, come persino a Ricardo ed a tutti gli economisti inglesi, la mancata individuazione del carattere storico e pertanto transitorio del capitalismo. Secondo Marx il capitalismo non era naturale, ma storico nel suo insieme. Secondo Marx storia naturale e storia dell'individuo non erano la stessa cosa. Ciò è particolarmente manifesto nel primo capitolo di Per la critica dell'economia politica, dove a proposito della naturalità della produzione, egli parla di robinsonate da XVIII secolo. Mettendo in prosa corrente il testo marxiano, si ha che non si può mutare distribuzione del profitto senza modificare e la forma di produzione e il distributore, e poiché il distributore è il proprietario dei mezzi di produzione, della fabbrica, dei macchinari ecc..., occorre che la proprietà degli stessi passi ad altri. Ma attenzione, perché non scrive "stato", scrive "produttori", anzi, termina col lasciare tutto nel vago. Il conflitto, che è reale e naturale (naturale sia per Marx che per gli economisti inglesi), confinato da Mill nell'ambito della distribuzione dei profitti come smisurata ed iniqua differenza fra profitto del capitalista e salario dell'operaio, che si potrebbe altresì scrivere come salario del capitalista e profitto dell'operaio, venne riportato indietro da Marx al modo di produzione, anzi all'indissolubile legame fra produzione delle merci e distribuzione del profitto. Marx continuò sulla forma, anzi la formazione storico-sociale del capitalismo, come una cosa di essenzialmente differente da tutte le formazioni storiche sociali antecedenti. E se consideriamo la sostanza delle cose e dei rapporti, abbiamo che nel periodo feudale il proprietario della terra metteva al lavoro dei servi della gleba o degli operai agricoli e che essi godevano del minimo, mentre egli si impadroniva del massimo, in cambio di una semplice protezione armata ed in virtù di una giustificazione "divina" (teologica) all'ordine sociale reperibile. Nel regime capitalistico, tale relazione basata sull'iniquità muta nella forma, mentre nella sostanza, da un lato muta, e dall'altro rimane intatto, vale a dire conserva molto di quanto si pronunciava in precedenza. In apparenza, per Marx, sulla traccia degli economisti classici, fra capitalista e operaio avviene uno scambio: salario in sostituzione di lavoro e lavoro in sostituzione di salario. La prima realtà che spunta è che tale scambio è disuguale. Già i cosiddetti socialisti ricardiani, Hodgskin e W. Thompson in particolare, avevano assegnato a contraccambi ineguali il profitto del capitale, ma Marx andò oltre: dichiarò che "il plusvalore non si spiega con lo scambio". Nei Grundrisse si legge: « Nell'insieme dell'attuale società borghese, questo diminuire a prezzi, la loro circolazione ecc., si mostrano come il processo di superficie, sotto il quale però, nel profondo, si svolgono ben altri processi, nei quali quest'apparente parificazione e libertà degli uomini scompaiono. Infine non si vede che già nella semplice determinazione del valore di scambio e del denaro è contenuta in forma nascosta l'antitesi fra salario e capitale ecc.» Copyright ABCtribe.com 95 Non è questa la sede per approfondire il pensiero di Marx, ma una spiegazione sul problema specifico dello scambio fra salario e lavoro sorge indispensabile, per esplicitare che Mill non fu così miope come credette, poi, la scolastica marxista. Quello che Marx interpretò come mistero da svelare e portare alla luce, vale a dire la differenza, era al contrario molto visibile. Ciò che andava spiegata era la ragione della medesima. Esisteva un saggio di sfruttamento del lavoro umano, ma dire che corrispondeva al plusvalore, come pensava Marx, vale a dire alle ore di lavoro in più che l'operaio forniva gratis al capitalista, era come asserire che in sede di ripartizione dei profitti tale plus-lavoro non veniva individuato. In sostanza: sia Mill che Marx fecero la medesima analisi, e qui ha davvero poca importanza la querelle intorno al problema del valore ed alla non scientificità del plusvalore. Se si sta a Mill, il problema è la quantità dei profitti, vale a dire una categoria per niente astratta, anzi, concretissima. Com'è possibile che l'utile netto di una impresa sia così alto, ed i salari reali (o monetari; per ora trascuriamo tale differenza) siano così bassi? La differenza fra Marx e Mill sta nella terapia. Mill fu per una soluzione che non modificasse i rapporti di proprietà, chiese soltano giustizia; Marx fu per una espropriazione degli espropriatori, e qui, francamente, su questa cura da cavallo, non si può che lasciare la parola alla storia del comunismo reale, sempre rammentando, in ogni modo, che la rivoluzione russa fu una smentita di Marx e non una dimostrazione. Secondo Marx la Russia era il paese meno adatto ad una rivoluzione socialista. Almeno su ciò ebbe ragione, altro che chiedere scusa ai proletari di tutto il mondo. La ripartizione di Mill fra sfera della produzione e sfera della distribuzione fu ripresa dal pensatore tedesco Dühring, in qualche misura assimilabile al tardo positivismo tedesco, e fu criticata invece bruscamente da Engels nell'AntiDühring. Il problema è che Dühring espose tesi e concetti di storia dell'economia politica totalmente erronei non solo agli occhi di un marxista, ma a quelli di un qualsiasi economista. E qui Engels, indignato e rallegrato al medesimo tempo per le naiserie (sciocchezze) di Dühring, si fece prendere la mano dalla polemica, perdendo una rilevante occasione per dire qualche cosa di nuovo. Trascrivo il passo di Engels: « E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a ritenere la ricchezza dai due punti di vista fondamentali della produzione e della distribuzione; ricchezza come dominio su cose, ricchezza di produzione, lato buono; ricchezza come dominio su persone, ricchezza di distribuzione, quale finora esiste, lato cattivo; aboliamolo! Applicato alle condizioni odierne quello vuol dire: la maniera di produzione capitalistico è buono e può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si giunge scrivendo di economia senza neanche avere un concetto del nesso fra produzione e ripartizione. ».Alla luce di quanto affermato sinora, tale critica di Engels a Dühring, non arrecò alcun contributo alla ricerca di risoluzioni al problema di una maggiore giustizia economica, ma servì solo a reiterare in modo dogmatico un confronto fra proletari e capitalisti che, comunque, non causò alcun giovamento istantaneo e mediato alle condizioni dei lavoratori nell'Europa centrale ed occidentale. Storicamente sono stati i sindacati, le forze riformiste, il movimento cooperativo, e per la verità, il partito comunista italiano, specie sotto la direzione di Berlinguer, a prendere l'eredità riformista ed a proporsi una trasformazione democratica e socialista senza scosse rivoluzionarie. Ciò senza scordare che altresì nel Pci eccelse storicamente una visione statalista dell'economia e una valutazione eccessiva dei concetti di programmazione e pianificazione. Ma biasimare a dei comunisti di non essere stati sufficientemente liberali è come rinfacciare ai liberali di non essere stati sufficientemente socialisti. Copyright ABCtribe.com 96 Come vedremo, Mill ebbe, anche su questo terreno, certe intuizioni felici nel saggio On Liberty. Fino a quando - dichiara Mill - un partito non sarà sufficientemente maturo da esprimere insieme una visione sia progressista che conservatrice, è bene che sia fedele alla sua illuminazione di fondo. Il contributo di Mill ad una teoria realistica del socialismo, non si circoscrisse alla felice intuizione del fatto che per giungere ad un semisocialismo, non necessita una rivoluzione politica, ma solo una crescita culturale dei lavoratori e la loro organizzazione in sindacati o collettività. Da un lato c'è il riconoscimento che la buona volontà dei singoli addetti economici è indispensabile: non si fa un buon sindacalismo se si assumono soltanto logiche rivendicative e si confutano, per partito preso, tutte le strategie aziendali. Il lavoratore ha tutto da ricavare se l'impresa per la quale fatica è prospera, e tutto da restare privo se l'impresa va in malora. Il medesimo diritto di sciopero si scontra, pertanto, su questo limite invalicabile: il danno causato al capitalista non può essere mortale. Pure perché la decurtazione consequenziale allo sciopero di un giorno può essere mortale per l'operaio se non altro quanto lo potrà essere per il capitalista dopo dieci giorni di sciopero. Dall'altro lato, c'è un modello della teoria dello stato che è principalmente in negativo, vale a dire un ridimensionamento del ruolo del medesimo, sia in senso dirigistico ed interventista (lo stato come organizzatore delle attività economiche e soggetto di una sua presenza attiva con proprie imprese), sia in senso legislativo e ideologico. Tali posizioni vennero a raggiungere l'apice nel saggio On Liberty, una delle opere più rilevanti di tutta la storia del pensiero dell' uomo. 4.6 La teoria della libertà Il saggio On Liberty fu diffuso nel 1858 e Stuart Mill credeva decisamente che sarebbe divenuto il suo lavoro più popolare e stimato. I fatti gli diedero ragione, almeno limitatamente al mondo di lingua inglese. Le cose andarono un po' differentemente negli altri paesi, specie in quelli latini. Nella Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano, per esempio, non esiste un paragrafo che riprenda il libro a grandi linee. Altresì in Germania il libro ebbe poca fortuna, sebbene alcune opere di Mill fossero state tradotte e sparse da scienziati quali Justus von Liebig. E ciò è singolare perché, se ci fu un filosofo che ebbe una profonda influenza su Mill proprio sulla idea del libero sviluppo dell'individuo, questi fu il tedesco Wilhelm von Humboldt. Il problema è che neanche von Humboldt fu particolarmente popolare nella cultura tedesca, sebbene nella medesima Berlino Est, l'università più rilevante portasse il suo nome. Copyright ABCtribe.com 97 L‘ esame del fronte comune di von Hayek, che socialisti e reazionari tedeschi alzarono unitamente, e non certo intenzionalmente, contro il pensiero libertario ed individualistico inglese, appare abbastanza lucida ed argomentata, pure se adoperata nell'ambito di un ragionamento tendente a provare che il nazionalscialismo aveva genesi socialista, e sogna non bisogna dimenticare che il socialismo, aveva, a sua volta, principi liberali. Ma come sarebbe stupido imputare ai fondatori del pensiero liberale la nascita del socialismo, e si pensa che sia altrettanto stupido imputare a socialisti come Saint - Simon o Fourier, o l'inglese Hodgkins, la nascita del nazismo. Del resto è palese che, se nel pensiero socialista sussistono anche tratti totalitari, nel pensiero liberale sussistono anche tratti superindividualistici regressivi, che guidano, vale a dire, all'affermazione del diritto del più forte, del più astuto e del più brutale. Ed è indubbio che le idee razziste del nazismo in ordine alla razza ariana poggino rigorosamente su questo: il diritto del più forte a liberarsi delle impurità razziali ed etiche del più debole, di quello che "inquina" la società civile. Ma sarebbe sensato attribuire ai liberisti la paternità del nazismo? Inoltre, a mio avviso, non è corretto assorbire la dottrina milliana della libertà ad una filosofia dell'individualismo, contrastante a quelle della coscienza sociale e della responsabilità. In questo modo facendo si perde di vista uno degli argomenti forti di Stuart Mill, ovvero che la libertà dei moderni abbisogna di una società e che, per esercitare completamente la libertà, occorre una coscienza larga della società. Le medesime argomentazioni di von Hayek poggiano, del resto, su una un'esperienza storica ed una indicata concezione della società. Quella che Mill presentò in poche pagine fu una teoria dei diritti dell'individuo, cruciale in una serie di pretese del tutto ragionevoli. Sicuramente è incompatibile con qualunque forma di società totalitaria; ma risulta pure incompatibile con qualunque società a tal punto libera da potersi riclassificare come selvaggia, ovvero una società nella quale a governare sono un'altra volta i più forti od i più astuti. Il presupposto fondamentale, la condizione indispensabile allo sviluppo della libertà, anche secondo Mill, è l'esistenza di una società civile avanzata, regolata da uno stato, minimo, di diritto. E questo, certamente, riporta alla qualità dei cittadini, non soltanto individui portatori di diritti, ma pure di doveri civici. La qualità di uno stato è, a lungo andare, precisata dalla qualità dei suoi cittadini. Lungi dall'essere una semplice esaltazione della libertà di opinione e di espressione, la teoria milliana mostra sino a che punto la libertà sia necessaria quanto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, ma pure, quanto spesso, ci occorra che la libertà degli altri sia delimitata, onde impedire che, pigliandosi troppe libertà, interferiscano con difficoltà nella nostra vita. On Liberty non fu, pertanto, un manifesto a senso unico, invece un lavoro problematico; per tale ragione molti principi espressi dovrebbero essere alla base delle costituzioni politiche più Copyright ABCtribe.com 98 progredite. Tali ragioni sarebbero sufficienti a fare di On liberty è uno dei dieci libri di natura filosofica che bisogna leggere pure se non si vuole diventare filosofi. Altri ragioni sono che lo scritto brulica di considerazioni "intelligenti" che procurano differenti stimoli e che io non posso riportare in toto pena una sorta di clonazione del libro medesimo. La libera circolazione delle idee mostra indubbi vantaggi ma, implica rischi. Uno di questi è che si venga ad istituire un regime della mediocrità, quella tirannia della maggioranza e del conformismo già messi in evidenza da Tocqueville. Nietzsche avrà, in fondo, buon gioco nel dichiarare tutte gli appiattimenti della mediocrità in nome di eroi sovrumani anticonformisti, antisocialisti ed antiliberali. Mill, molto più razionale e meno nevrotico di Nietzsche, indicò pure il terreno fecondo nel quale il germe della mediocrità trova l'ambiente ideale per svilupparsi. Gli individui che non pensano abbisognano di qualcuno che pensi per loro e lo trovano tra chi gli è più simile, chi sa meglio interpretare, in maniera demagogica, il loro stato d'animo redige: « E novità ancora maggiore, oggi, le masse non ricevono più le loro opinioni dalle gerarchie ecclesiastiche e statali, da capi visibili o dai libri. Chi pensa per loro conto sono uomini molto simili a loro, che li arringano o parlano a loro norma, sull'impulso del momento, attraverso i giornali. Non mi sto lamentando. Non affermo che il basso livello intellettuale dell'umanità consentirebbe, in generale, qualcosa di meglio. Ma ciò non toglie che il governo della mediocrità sia un governo mediocre.» (On Liberty - capitolo III). Ciò pare essere il destino della democrazia, ma dopo le prove disgustosi date dalle teorie opposte, non ci resta che tenerci stretta la libertà civile suggerita da Mill. Ma non senza aver prima pensato pure i vantaggi di una corretta dialettica democratica. 4.6.1 I vantaggi della democrazia Afferma Mill che: «Anche in politica è quasi un luogo comune che un partito dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme sono entrambi elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei due non avrà così ampliato la sua visione delle cose da diventare partito ugualmente d'ordine e di progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò che va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga misura l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione. Se le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e all'uguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla frugalità, alla socialità e all'individualità, alla libertà ed alla disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche alla vita quotidiana, non vengono espresse con uguale libertà e fatte rispettare con uguale talento ed energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi ricevano un trattamento equo: la bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi problemi pratici della Copyright ABCtribe.com 99 vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione degli opposti, a tal punto che pochissime menti sono abbastanza vaste ed imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza. Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta.» (On Liberty - capitolo II - Della libertà di pensiero e discussione). 4.6.2 La tolleranza Il punto più fecondo di On liberty sta nel superamento del vecchio concetto di tolleranza. Prima di Mill, e forse con l'eccezione di Pierre Bayle, Locke e Voltaire, la tolleranza era soprattutto concepita come una sopportazione. Di fatto non veniva alcun vantaggio dal tollerare le idee giudicate sbagliate od eretiche. In alcuni casi, anzi, era necessario combatterle, se non censurarle, per evitare i pericoli connessi alla loro diffusione. John Locke, che pure con gli scritti sulla tolleranza della maturità aveva affermato il diritto alla libertà religiosa, aveva, tuttavia, detto che l'ateismo era intollerabile, con ciò limitando gravemente il concetto stesso di tolleranza all'espressione delle proprie credenze, delle quali solo alcune permesse. Per Mill la tolleranza divenne, al contrario, un elemento indispensabile alla crescita intellettuale ed alla stessa vitalità del pensiero. Pure se l'individuo fosse pervenuto alla verità , e non v'era dubbio, per Mill, che su alcuni campi, per esempio le verità matematiche, questo fosse già successo, la sistematica rinuncia a confrontarsi con gli errori veri e probabili di vecchi e nuovi punti di vista, avrebbe condotto ad un esaurimento unilaterale e dogmatico , ad una caduta di tensione che avrebbe implicato una perdita di vitalità sociale. Quello che vale per collettività, vale altresì per il singolo. L'individuo ha tutto da guadagnare a mettersi in opposizione alle proprie idee e alzare contro di esse tutte le obiezioni possibili, considerando principalmente i fatti. E ciò, secondo Mill, non solo tornerebbe utile nelle discussioni, ma potrebbe e dovrebbe agevolare a mettere a fuoco parti di verità che le nostre impostazioni unilaterali non sono state capaci di mettere in evidenza. « Abbiamo quindi riconosciuto la necessità - dice Mill -, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai l'intera verità, è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi Copyright ABCtribe.com 100 fondamenti razionali. Non solo, ma quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire, e perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro ed un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale.» (cap. II - Della libertà di pensiero e discussione). 4.6.3 Caratteri generali Fin dalla prime righe dell'introduzione del Saggio sulla libertà Stuart Mill dichiara che l'oggetto della trattazione non è la libertà del volere, ma la libertà civile, vale a dire la libertà di poter fare, di poter credere e non credere, e poter manifestare la propria opinione. Questo, non solamente implica per Mill uno sviluppo della libertà, ma diventa fattore di dinamica sociale, di crescita civile e di accrescimento delle intelligenze individuali. La vera agiatezza di un popolo è la sua intelligenza ed il suo senso critico, la sua "varietà di caratteri". La parola pluralismo non era di moda ai tempi di Mill e perciò non ricorre nel testo; però potremmo dire che Stuart Mill fu il teorico del pluralismo, vale a dire dell'idea che opinioni differenti e anche contrastanti, purché manifestate in forma corretta e civile (ma anche a costo di qualche irriverenza e di grandi polemiche), siano un principio positivo, uno stimolo e non una mescolanza od una complicazione. Mill fu pertanto il primo critico lucido e consapevole dell’ esempio totalitario e, col senno di poi, potremmo dire che egli comprese la diversità fra una semplice dittatura che vieta la democrazia e nega i diritti civili, ma non ordina quale tipo di mutande uno deve mettersi addosso, ed una oppressione ideologica che, al contrario, pretende di controllare la vita di tutti ordinando qualunque comportamento, qualunque gusto, ogni pensiero e così via. Ancora col senno di poi, potremmo osservare che una tirannia totalitaria non ha necessità di una forma di governo dittatoriale per realizzarsi: la democrazia, pure se non le è del tutto congeniale, non le è neppure del tutto sfavorevole, ed il possesso dei media, il monopolio della cultura, il sistema di istruzione e altro tuttora, possono concorrere in dimensione ancora più efficace che una brutale dittatura ad innalzare conformismo e mancanza di senso critico. Il fine del saggio di Mill "è formulare un principio molto semplice": « Il principio è che l'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà felice; perché, nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente.» (On liberty - Introduzione) E continua:« Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su sé stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano. Copyright ABCtribe.com 101 E' forse superfluo aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà. » (idem) Indubbiamente si tratta di una formulazione rilevante, principalmente alla luce del fatto storico che siamo storicamente nel pieno progresso dell'imperialismo e del colonialismo, e che l'Europa, pur ancora sentitamente divisa da rivalità nazionali, stava operando la conquista del mondo e la sua globalizzazione, prescrivendo il proprio modello di progresso, la propria cultura, la propria religione a tutti i popoli del pianeta. E spesso soltanto i lati peggiori di queste. L'idea di Mill è che se una credenza od uno stile di vita sono migliori, non hanno alcuna necessità di essere imposti. Gli individui in condizione di deliberare autonomamente sulla propria esistenza opteranno per il meglio. Tuttavia, è qui siamo dinanzi a problemi che si sono in realtà posti e si pongono tuttora: che fare di fronte ad un regime sociale che pratica sacrifici umani, l’ antropofagia o la soppressione delle vedove incenerendole sul rogo? L'imperialismo inglese si è spesso trovato dinanzi a problemi di siffatta natura. Tuttora in alcune zone dell'India continua a vivere il culto della dea Kalì e non è un mistero che essa reclami sacrifici di sangue, perfino di bambini e giovani caste. Nei paesi dell'integralismo islamico, specie in Iran e in Afghanistan, i libri sono vietati, le donne devono mettere lo chador e la espansione di idee religiose o filosofiche diverse da quelle degli imam e dei talebani è molto oppressa. Possiamo considerare tali signori come esseri umani non in possesso delle loro facoltà, e pertanto sentirci in diritto di esonerarli? Oppure si pensa che la dottrina della non interferenza negli affari interni di uno stato, peraltro costantemente sconosciuta quando sono coinvolti dollari, business, oppure interessi giudicati vitali come la sicurezza, debba primeggiare sul principio della sacralità della vita umana e sul diritto alla libertà? Mill fece fronte al problema scansando un attacco frontale e circondandosi a considerazioni, tuttavia acute, sui Mormoni.Il problema è dato dalla poligamia. «L'aspetto della cultura mormone che in maggior misura provoca avversione e scatena un'insolita intolleranza religiosa è il consenso di praticare la poligamia, che, pure se consentita a musulmani, indù e cinesi, pare provocare un'implacabile animosità se praticata da persone che parlano inglese e si affermano una specie di cristiani. Quest'istituzione mormone, di certo non rappresenta un'espressione del principio della libertà, anzi, lo viola direttamente, dal momento che non fa che ribadire le catene di una metà della comunità e liberare l'altra dalla scambievolezza dell'impegno nei suoi confronti. Eppure va rammentato che le donne coinvolte in tale tipo di rapporto - che possono esserne considerate la parte lesa - l'accetta altrettanto volontariamente che qualunque altra forma di matrimonio: e questo, per quanto sia sorprendente, trova spiegazione nelle opinioni e nelle usanze comuni che, insegnando alle donne che il matrimonio è la sola cosa che conti, fanno sì che molte preferiscano essere una moglie insieme a parecchie altre piuttosto di non esserlo del tutto.» (On liberty - IV) Dinanzi alla proposta di fare opera di Copyright ABCtribe.com 102 civilizzazione fra i Mormoni, Mill afferma: « ... ma non mi risulta che una comunità abbia il diritto di costringere un'altra ad essere civilizzata. Purché le vittime di una legge iniqua non invochino l'aiuto di altre comunità, non possono ammettere che persone del tutto estranee intervengano ed esigano che si ponga fine a una situazione, di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti, perché da scandalo a gente lontana migliaia di miglia e senza alcun titolo o motivo per interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno voglia...» (On liberty - IV) La conclusione di Mill è tuttavia incisiva sotto un altro aspetto: le crociate vengono spesso fatte per paura che certe pratiche inferiori tornino nelle civiltà dette superiori, e che le barbarie possano tornare.Al riguardo Mill dice: « Una civiltà che può soccombere in questo modo al nemico che ha già battuto in precedenza deve essere prima arrivata a un tale punto di degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati né chiunque altro hanno la capacità, o la voglia di difenderla. Se le cose stanno così, prima una tale civiltà riceve l'ordine di andarsene meglio è: può solo continuare a peggiorare (come accadde all'Impero d'Occidente) finché dei barbari vigorosi non la distruggano e la rigenerino. » (idem) Una delle cause della degenerazione sta quasi certamente nel rammollimento degli animi e nell'eccesso di prosperità, ma pure dalla mancanza di vitalità; solo particolari individui, dotati di genio ed eccentricità, per Mill, possono portare rilevanti contributi per rinnovare gli stili di vita. Ma la tirannia della mediocrità è spesso atrocemente contraria alle innovazioni, ed è ciò che porta alla distruzione. In estrema sintesi il saggio di Mill dichiara le tre libertà civili indispensabili: 1) libertà di coscienza, pensiero e parola 2) libertà dei gusti, ovvero perseguire le soddisfazioni dei propri desideri come si preferisce 3) la libertà di associazione La seconda è molto importante, dato che Mill credeva nella differenza fra individui, e non credeva accettabile che una società ordini di essere vegetariani o vieti la carne di maiale. Fu pertanto antiproibizionista antelitteram in un clima culturale come quello anglosassone, spesso propenso a strafare sul piano del proibizionismo per il bene dell’ essere umano. Dal momento che tali limitazioni alla libertà furono di natura puritana, la polemica contro questa tradizione assai viva nel mondo anglosassone, pare per tanti aspetti estranea, ma ha la sua rilevanza. Nella sua forma estrema la dottrina puritana voleva vietare le feste, le danze, i luoghi di ritrovo, il teatro e neanche fra i cattolici si vide qualche cosa del genere. L'unico limite posto al proprio appagamento, è quello di non ledere il diritto altrui. Ciò indica, per intenderci, che se la pedofilia è un crimine, perché fa violenza ai bambini, l'omosessualità è il diritto di una minoranza, pure se estremo, e vietarla o opprimerla è un Copyright ABCtribe.com 103 delitto a sua volta. La difesa della libertà di associazione mette in evidenza in ogni caso che Mill non fa dell'individualismo fine a sé stesso, del tutto estetico. In altri scritti essa è rivendicata con una maggior messe di argomenti, specie in ordine alla questione del miglioramento delle condizioni dei lavoratori e pertanto al diritto di questi di organizzarsi in sindacati. Ma in generale si avverte il disagio di Mill quando è costretto a misurarsi con il principio del laissez faire portato alle estreme conseguenze. Era contro la sua natura imporre qualche cosa dall'alto o dall'esterno, ma era similmente consapevole del fatto che in alcuni casi è indispensabile farlo. Nei Principi egli aveva scritto a chiare lettere che la riduzione dell'orario di lavoro da dieci a nove ore avrebbe dovuto essere imposta per legge, essendo improbabile che i lavoratori potessero imporla con l'azione sindacale. Tutto questo può sorgere contraddittorio, ma in fondo non lo è affatto. Fissati i principi, ci si trova spesso a dover considerare le eccezioni, i casi estremi nei quali quei principi non valgono più, perché, se valessero, ne andrebbe di mezzo qualche cosa di più vitale. Certo, non si deve uccidere, ma diviene lecito farlo o per difendere se stessi, oppure qualcun altro.Ovviamente il più alto grado di libertà espone l'individuo al rischio di non essere capace di badare a se stesso e quindi di essere veramente responsabile di se medesimo. Ciò, volenti o nolenti, impone un confronto con culture laiche e religiose che contestano all'individuo il libero arbitrio e lo descrivono come un balocco in balia delle proprie passioni e del destino. Non si ritengono accettabili, soprattutto per il fatto che ignorano che la tradizione filosofica greca aveva già dichiarato, attraverso Socrate, che era possibile ragionare sul bene dell'individuo, e che una volta conosciuto il bene, era altresì possibile allontanarsi dal male; ma è evidente che esse contengano un minimo di verità, quel tanto che basta a ritenere che vi sono individui, ancor oggi, su questo pianeta, e sono tantissimi, che non dispongono affatto di libero arbitrio, perché sono, innanzi tutto, ignoranti, immaturi ed imbelli. E soltanto in parte è colpa loro. Ovviamente è in queste dottrine che si cela il germe del totalitarismo, ovvero l'idea insana che tutti gli individui abbiano bisogno di essere guidati passo a passo e in qualsiasi cosa da illuminati, i quali sono l'espressione della grazia e della provvidenza divina. E' la filosofia dei militaristi americani degli ideologi sovietici, delle decine di guru indiani che vengono a spiegarci com'è fatto il mondo, di tanti pontefici di santa madre chiesa, i quali, sicuramente, mai posero un limite alle loro letture ( e fecero bene), ma ritenendo l'insieme dei fedeli come un popolo di immaturi, non si fecero scrupolo di vietare determinati libri, e di sentirsi autorizzati a donare speciali licenze per poter leggere le opere più coraggiosi. Si badi che al riguardo Mill fu sempre molto bilanciato e prudente: ha diritto alla libertà una persona matura, perciò almeno maggiorenne. Il problema tuttora irrisolto è come si diventa davvero maggiorenni, se stando alla larga dal brutto e dal pessimo del mondo, e in ogni modo combattendo quotidianamente con il desiderio represso, oppure, se provandolo a spese proprie, facendo qualche malvagia e punitiva esperienza. Nel sesto capitolo del Sistema di logica Mill aveva anche fatto fronte al problema della libertà del volere, centrando il discorso su come un uomo possa modificare il Copyright ABCtribe.com 104 proprio grado di indipendenza dal mondo, levandosi dal meccanicismo degli stati psicologici ed ai condizionamenti culturali ed ambientali. Ovviamente, va inteso che il discorso sulla libertà civile è una prosecuzione di quel discorso sull'autonomia del soggetto dalle proprie passioni. Al proposito c'è un passaggio notevole anche nel Saggio sulla libertà: «In una certa misura si ammette che che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima disposizione ad ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di nostra competenza, o che avere impulsi propri, forti o deboli che siano, possa costituire altro che un pericolo od una tentazione. E tuttavia desideri ed impulsi sono parte di un perfetto essere umano altrettanto quanto le sue convinzioni e le restrizioni cui è sottoposto; e gli impulsi vigorosi sono pericolosi solo in una situazione di squilibrio, quando un gruppo di intenzioni e tendenze si sviluppa e si rafforza mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano deboli e inattive. Non è perché i loro desideri sono vigorosi che gli uomini agiscono male; è perché le loro coscienze sono deboli.» (On Liberty - cap. III)Nel IV capitolo di On liberty, intitolato Dei limiti all'autorità della società sull'individuo, Mill comincia a trattare la questione partendo dal dovere, cioè l'insieme dei debiti che l'individuo ha contratto nei confronti della società. E ciò non è un caso: il senso del dovere è una delle prove che siamo maturati e quindi responsabili di noi stessi. Scrive: « Anche se la società non si basa su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la sua protezione deve ripagare il beneficio, e il fatto di vivere in società rende indispensabile che ciascuno sia obbligato ad osservare una certa linea di condotta nei confronti degli altri. Questa condotta consiste, in primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e secondo, nel sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche e sacrifici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni e molestie. La società ha diritto di far valere a tutti i costi queste condizioni nei confronti di coloro che tentano di non adempiervi.» (On liberty - IV) Ovviamente chi non adempie a quelli che sono i doveri elementari merita sanzioni negative. Ma anche la società e lo stato che esagerino i doveri sono da biasimare. « Gli atti di un individuo possono arrecare danno ad altri o non tenere in giusta considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di violare alcuno dei loro diritti costituiti. In siffatto caso il colpevole può essere legittimamente condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non appena qualunque aspetto della condotta di un individuo diviene pregiudiziale degli interessi altrui, ricade sotto la giurisdizione della società, e ci si può chiedere se tale interferenza giovi o meno al benessere generale. Ma questa questione non si pone in alcun maniera quando Copyright ABCtribe.com 105 la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi, o implica quelli di altre persone consenzienti (tutti essendo maggiorenni e dotati di normali facoltà mentali). In tali casi, vi dovrebbe essere piena libertà, legale e sociale, di porre in essere l'atto e subirne le conseguenze. »( Idem) E qui Mill si sente in obbligo di definire che tale sua posizione non è certo ispirata ad una specie di egoistica indifferenza. « Al contrario - scrive - gli sforzi disinteressati per il bene altrui non vanno diminuiti, ma grandemente aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può persuadere gli uomini a compiere il proprio bene senza far uso di sferze e flagelli, letterali o metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso se stessi: per importanza sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali. Tocca all'educazione coltivarle entrambe: ma anche l'educazione opera con la convinzione e la persuasione oltre che con la costrizione, e solo mediante le prime due, finito il periodo educativo, dovrebbero essere insegnate le virtù verso sè stessi.» (Idem) Su tale punto si discorda da Stuart Mill: le virtù verso se stessi, il codice di selfcontrol, sono alla base del sistema educativo. Se un ragazzo non impara prima ad amare se medesimo ed a mettere la propria salute e la propria integrità prima di ogni altra cosa, non potrà mai, non dico imparare, ma neppure imparare ad imparare. 4.6.4 Natura e limiti del potere che la società può esercitare sull'individuo La questione indispensabile secondo Mill consiste nello stabilire che la libertà civile o sociale è determinata dalla natura e i limiti del potere che la società può esercitare sull'individuo. « Questione raramente enunciata - scrive -, e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce a fondo sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben come il problema fondamentale del futuro. E' così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l'umanità quasi sin dai tempi più remoti; ma allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di essere trattata in modo diverso e più fondamentale. » (On Liberty - Introduction) Analizzata la storia antica e considerato che il problema della libertà fu innanzi tutto un problema di difesa dalla tirannia di un tiranno vorace, "il re degli avvoltoi", doveroso a tenere a bada gli altri avvoltoi, Mill afferma che " a un certo punto del progresso umano, gli individui cessarono di pensare che i governanti dovessero per forza essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato prendessero in concessione l'esercizio del potere..." « Gradualmente, questa Copyright ABCtribe.com 106 nuova richiesta di governo temporaneo ed elettivo divenne l'obiettivo principale dell'azione dei partiti popolari ovunque essi esistessero, sostituendosi in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei governanti. Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti, alcuni cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza alla limitazione del potere in quanto tale, limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un'arma contro quei governanti i cui interessi si contrapponessero abitualmente a quelli popolari.» (idem) Solo dinanzi alla realtà della rivoluzione francese, per Mill, ci si rese conto che espressioni come "autogoverno" o "potere del popolo su se stesso" non esprimevano il vero stato delle cose in quanto il cosiddetto autogoverno non era il governo di ciascuno su sé stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno. Questo ha portato al riconoscimento che sussiste una tirannia della maggioranza e che esso è uno dei mali da cui la collettività deve guardarsi. « Come altre tirannie, quella della maggioranza fu in un primo momento e volgarmente lo è ancora - considerata, e temuta, principalmente in quanto conseguenza delle azioni delle pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive compresero che, quando la società medesima è il tiranno - la società nel suo complesso, sui singoli uomini che la compongono -, il suo esercizio della tirannia non si limita agli atti che può terminare per mano per mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri ordini: e se gli ordini che emana sono sbagliati, o in ogni modo concernono campi in cui non dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale più potente di molti tipi di oppressione politica, poiché, anche se solitamente non viene fatta rispettare con pene similmente severe, lascia meno vie di scampo, penetrando più in profondità nel modo di vivere quotidiana e rendendo schiava l'anima stessa. Quindi la protezione del magistrato non è sufficiente: è necessario pure proteggersi dalla dittatura dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e consuetudini a chi dissente, a impedire lo sviluppo - e a prevenire, se possibile, la formazione - di qualunque individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo esempio. Vi è un limite alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro qualsiasi abuso, è similmente indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione del dispotismo politico. » Stuart Mill vide pertanto lucidamente il pericolo del conformismo non soltanto come una tendenza all'uniformità da parte delle masse, ma come un manifestarsi di crescente intolleranza da parte della società e delle masse nei confronti di qualunque forma di dissenso, non soltanto politico, ma pure etico, sul piano delle scelte di vita. « Vi è un limite - scrive - alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'esperienza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico.» Tutto ciò pone dei problemi inediti. Vi è la occorrenza di imporre regole in terreni che non si Copyright ABCtribe.com 107 prestano a legislazione. Nello studio delle tradizioni e delle consuetudini delle differenti civiltà si vede quanto queste medesime consuetudini contratte siano divenute regole ovvie e autogiustificantesi al punto da parere naturali. Ma nota Mill - l'illusione universale della naturalità degli stili di vita è solamente un modello della magica influenza della consuetudine. Essa non è solamente una seconda natura, "ma sovente viene scambiata per la prima". « L'efficacia della consuetudine nel prevenire ogni dubbio sulle norme di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è tanto più completa perché l'argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente considerato necessario fornire spiegazioni, né a gli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere, e a ciò sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti filosofi, che in questioni di tale natura i loro sentimenti siano meglio delle ragioni e le rendano inutili. Il principio pratico che forma le loro opinioni sulle regole della condotta umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno dovrebbe essere prescritto di agire come piacerebbe a lui e coloro con cui simpatizza. E' vero che nessuno ammette a se stesso che il suo criterio di giudizio è il suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di condotta, che non sia confortata da ragioni, può solo essere considerata una preferenza individuale; e se le ragioni addotte sono semplicemente un appello a una simile preferenza condivisa da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti invece che uno.» (idem)La gente vuole che il figlio di uno schiavo continui a fare lo schiavo, che la figlia del benestante concluda un buon matrimonio, e che il figlio del medico continui la professione paterna. Qui è chiaro che indica il desiderio dei benpensanti e la tirannia della maggioranza. Da sempre uno dei luoghi più comuni del pensiero della tirannia della maggioranza è che ognuno debba stare al suo posto, in particolare la canaglia plebea. Mill è particolarmente penetrante su tale punto: gli individui anelano che la condotta etica degli altri, di ciascuno degli altri, sia consona alla propria visione del mondo a prescindere da quello che ciascuno degli altri è realmente e potrebbe essere capace di fare. Qual è la causa? « Talvolta è la ragione - afferma Mill - tal altra i pregiudizi o le superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle antisociali, l'invidia o la gelosia, l'arroganza o il disprezzo; ma principalmente i desideri o le paure per se medesimi - gli interessi personali, legittimi o illegittimi. Ovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. L'etica delle relazioni fra Spartani ed Iloti, fra piantatori e negri, fra principi e sudditi, fra nobili e roturiers, fra Copyright ABCtribe.com 108 uomini e donne è stata per la maggior parte creata da tali interessi e sentimenti di classe, e i sentimenti in questo modo originati oppongono a loro volta sulla morale dei componenti della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove, d'altra parte, una classe non sia più predominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti morali predominanti sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione per la sua superiorità.» (idem) Il servilismo degli individui verso i loro "signori temporali", od anche dei loro dei, ha concorso in egual misura a determinare norme di condotta prescritte dalla legge e dall'opinione predominante. Mill non lo fa coincidere con l'ipocrisia ma con un sentimento di orrore genuino che ha condotto a dare alle fiamme maghi ed eretici. I sentimenti più che i principi razionali, le simpatie e le antipatie, hanno avuto un grande peso nell'affermazione della morale sociale. Secondo Mill si era dinanzi ad un fatto storico curioso: quelli il cui pensiero era più evoluto rispetto al proprio tempo, "hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose" prediligendo provare di "modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà". Ma questo, ovviamente ha una spiegazione: fra l'eretico e l'ortodosso esiste una continuità totalitaria ed è molto probabile che l'eretico trionfante sveli ben presto il suo vero carattere di ortodosso fanatico, convinto di detenere tutta la verità. Scrive difatti Mill:« Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si definiva Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a consentire diversità di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria, ed ciascuna chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze alla conservazione del terreno che in quel momento occupava, le minoranze, consce di non avere alcuna possibilità di divenire maggioranze, dovettero inevitabilmente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire.» (idem) Nella difesa sistematica del diritto d'opinione Mill giunge ad affermare: « L'opinione che i mercanti di grano sono degli affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe essere molestata se viene semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione se viene proferita di fronte ad una folla eccitata riunitasi davanti alla casa di un mercante di grano.» Tale considerazione è apprezzabile perché in sostanza dice che una società matura, ovvero costituita da una maggioranza di cittadini maturi, può permettersi non soltanto un dissenso maturo e fondato, ma pure manifestazioni di immaturità, purché non degenerino in minaccia e violenza. Esprimere tolleranza per l'immaturità politica, pertanto per azioni di propaganda politica aventi come oggetto il terrorismo o azioni di massa violente, è proprio il massimo delle aperture possibili. 4.6.5 Contro tutte le censure Un tipo di censura ricorrente consta nello sminuire il contributo dato dai presunti avversari di una religione o Copyright ABCtribe.com 109 di una dottrina politica o filosofica alla elaborazione della propria teoria o del proprio credo. Non è un mistero che il marxismo sia stato, per esempio, il risultato di una commistione fra hegelismo tedesco, socialismo francese e economia politica inglese, che oltrepassò, o pretese di superare, i diversi punti di vista in una sintesi superiore. Ma l'esempio più eclatante di eclettismo nella storia è il medesimo cristianesimo, il quale fu il prodotto di una commistione, fra l'ebraismo e la filosofia ellenistica, e la forma particolare che essa aveva assunto in Giudea ed in Galilea poco prima di Cristo, vale a dire il fariseismo. Stuart Mill redasse pagine indimenticabili contro la pretesa di una parte della verità a essere considerata la verità intera. « Se i cristiani - scrisse Mill - vogliono insegnare ai pagani a essere equi verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso il paganesimo. Non giova alla verità il tentativo di nascondere il fatto, conosciuto a qualunque persona abbia una minima conoscenza della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali più nobili e validi è dovuta non soltanto a individui che non conoscevano la fede cristiana, ma a individui che la conoscevano e la respingevano. Non pretendo che l'esercizio più incondizionato della libertà di esprimere tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali del settarismo religioso o filosofico. Qualunque verità propugnata da uomini di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata e perfino applicata come se al mondo non ne esistesse un'altra, o in ogni modo non ne esistesse nessuna che possa limitarla a precisarla. La più libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni a divenire settarie, e anzi, spesso la acuisce e la esacerba; la verità che si sarebbe dovuta vedere ma non si è vista viene declinata tanto più aggressivamente perché è asserita da persone considerate oppositori. Ma non è tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul testimone più calmo e indifferente che questo contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il male più temibile non è il prepotente contrasto fra parti differenti della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è forzata ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la stessa verità cessa di avere effetto perchè l'esagerazione la rende falsa.» (cap. II - Della libertà di pensiero e discussione). Secondo Mill, Calvino operò un ulteriore aggravamento della dottrina cristiana, formatasi nei primi cinque secoli della storia della chiesa, e non diretta emissione dello "schema del Maestro", in senso dogmatico e teocratico. Secondo Calvino, "la grande colpa è l'autonomia della volontà." « Tutto il bene di cui è capace l'umanità si riassume nell'obbedienza. -redasse Mill - Non c'è scelta; si deve agire in un certo modo, e non in altro modo: "Tutto ciò che non è dovere è peccato." Poiché la natura dell' uomo è completamente corrotta, nessuno è redento fino a quando la sua non viene uccisa. Per chi crede in tale teoria dell'esistenza, schiacciare ed rimuovere tutte le facoltà, capacità e sensibilità umane non è un male: la sola capacità di cui l'individuo ha necessità è quella di arrendersi alla volontà di Dio; e se usa qualunque sua facoltà per un fine che non sia l'attuazione più efficace di tale presunta volontà, meglio sarebbe che non l'avesse. Tale è la teoria del Calvinismo; essa è condivisa da molti in una formulazione più moderata, consistente in un'interpretazione meno ascetica del supposto volere divino, secondo cui gli individui dovrebbero appagare alcune loro inclinazioni, naturalmente non nel modo che preferiscono ma nell'obbedienza, vale a dire in una maniera prescritto dall'autorità e pertanto, per occorrenza del caso, identico per tutti. Al momento esiste, sotto forme insidiose di tale genere, una forte tendenza disponibile a tale ristretta visione dell'esistenza, e al genere di personalità tormentata e piena di pregiudizi da essa favorita. Copyright ABCtribe.com 110 Senza dubbio molti considerano in tutta sincerità che degli individui così bloccati e rimpiccioliti siano quello che il loro Creatore intendeva che fossero, rigorosamente come molti altri pensano che gli alberi siano molto più belli potati, o modellati in forma di animali, che in questo modo come la natura li ha fatti. » (On Liberty - cap. III - Dell'individualità come elemento del bene comune) A tale punto Mill ha uno scatto del pensiero proprio profondo. « Avendo detto che l'individualità collima con lo sviluppo, e che solo la sua coltivazione produce, o può produrre, esseri umani compiutamente sviluppati, potrei concludere qui; poiché la maggiore e più precisa lode che si possa fare di uno stato di cose è dire che sostiene gli individui a realizzarsi al meglio delle loro possibilità; e affermare che glielo blocca o li ostacola è la peggiore condanna. Ciò nonostante non vi è dubbio che queste considerazioni non basteranno a convincere quelli che più hanno necessità di esserlo; e quindi è essenziale provare che lo sviluppo di alcuni ha una certa utilità anche per chi non si sviluppa - mostrare cioè a coloro che non anelano la libertà e non se ne servirebbero che possono essere ricompensati in maniera a loro comprensibile se consentono ad altri di farne utilizzo indisturbati. Innanzi tutto loro che avrebbero forse la opportunità di imparare qualche cosa dagli altri. Nessuno contesterà che nella vita l'originalità è preziosa. C'è sempre necessità di gente che non solo scopra verità nuove e mostri che quelle di una volta erano delle verità non lo sono più, ma pure inizi attività nuove e dia prova di atteggiamento più illuminato e di maggiore sensibilità e razionalità di vita.» (On Liberty - cap. III -Dell'individualità come elemento del bene comune). Che, in fondo, è come dichiarare: rivedetevi la parabola dei talenti. Gesù Cristo medesimo insegnò a svilupparsi, ad investire le proprie facoltà, non a occultarle sotto un mucchio di credenze popolari religiose e di presunte incapacità a combinare qualche cosa senza fare dei rotti. Ovvero: disubbidire ai teocrati per liberamente ubbidire a Cristo. 4.6.6 Idee sul pluralismo educativo Nel capitolo finale di On Liberty, Stuart Mill si pronuncia apertamente per un sistema scolastico nel quale lo stato non dirige l'istruzione, ma l'asseconda. Ciò non può piacere a chi creda che la scuola statale sia in grado di raggiungere di per sé una sorta di equilibrio e di perfezione imparziale grazie ai programmi ed alla scelta ultraselettiva degli insegnanti. L'idea stessa che possa esistere una scienza dell'educazione gioca come argomento sostanzioso in questa direzione. Ma allo stato dei fatti il polverone polemico su scuola pubblica e scuola privata in Italia si gioca su altri motivi. In primo luogo il diritto dei cattolici di avere una scuola confessionale, ed in secondo luogo, il diritto di tutti gli altri cittadini di non volerne sapere di pagare con le proprie tasse, scuole confessionali o private di alcun tipo. Io stesso non sarei molto contento se sapessi che una parte del mio contributo fiscale andasse al finanziamento di scuole cattoliche, anche se sarei persino disposto a dare un contributo personale sostanzioso all'unica scuola cattolica che mi piacerebbe più di quella statale, ovvero una scuola elementare ispirata ai Copyright ABCtribe.com 111 principi di Don Milani.Di fronte ad uno scontro di interessi così evidente, temo che le argomentazioni di Mill a favore di un sistema di scuole private abbiano scarsa possibilità di essere prese in considerazione in modo obiettivo. Mill, innanzi tutto, prende le mosse da un ragionamento inoppugnabile, ovvero che è diritto del padre di dare un'educazione al figlio, ma è anche suo dovere. Annota tuttavia che è molto improbabile che, al tempo in cui scriveva, "quasi nessuno", in Inghilterra, avrebbe tollerato che si dicesse che "il padre fosse obbligato a compierlo". Scrive Mill: « Invece di essere tenuto a compiere qualsiasi sforzo o sacrificio per assicurare una educazione a suo figlio, può scegliere se accettarla o meno quando viene fornita gratis! Non si ammette ancora che far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo procurargli alimento per il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, è un crimine morale, sia contro la sfortunata prole che contro la società; né che se non si adempie a quest'obbligo, dovrebbe adempiervi lo Stato nella misura del possibile a spese del genitore. (Requiem per il laissez -faire assoluto: il genitore non ha il diritto di tenere i propri figli nell'ignoranza.) Se venisse finalmente riconosciuto il dovere di attuare l'istruzione universale, avrebbero fine le controversie su che cosa e come, lo Stato dovrebbe insegnare, che attualmente trasformano la questione in un semplice terreno di scontro tra sette e partiti, in cui il tempo e gli sforzi che dovrebbero essere impegnati nell'educazione sono sprecati a litigare su di essa. Se il governo si decidesse a esigere che ogni bambino riceva una buona educazione, potrebbe evitarsi il disturbo di fornirla: potrebbe lasciare ai genitori il compito di trovare l'educazione dove e come preferiscono, e limitarsi a pagare le tasse scolastiche di quelli che sono completamente privi di mezzi. Le obiezioni che vengono giustamente mosse all'educazione di Stato, non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l'istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla; che è una questione del tutto diversa.» (idem) « Un'educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere dominante - sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la maggioranza dei contemporanei - quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quella del corpo. Un'educazione istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un esperimento in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca a mantenere un certo livello qualitativo generale.» (idem) Devo dire che le argomentazioni di Mill paiono, col senno di poi, un pochetto fragili, visto che sembra una costante il verificarsi tra le generazioni di un atteggiamento anticonformista, qualsiasi sia lo spirito dominante. Tanto per fare un esempio, Stalin fu educato in un seminario! In realtà è certo vero che l'ambiente e la cultura condizionano in modo decisivo la formazione delle idee di un individuo, ma non è affatto detto in quale direzione lo condizioneranno. Una scuola clericale produrrà inevitabilmente dei ribelli alla chiesa ed una scuola statalista produrrà sicuramente dei ribelli all'invasività dello stato, tanto più pericolosi degli altri, in quanto perfetti conoscitori del sistema che combattono. Sotto questo profilo, pertanto, solo chi crede, come i comportamentisti, che il maestro è in grado di clonarsi nel discepolo, e di fare di questo quello che vuole, può pensare che il tipo di scuola non ottenga, spesso, anche se non sempre, esattamente l'effetto contrario a quello voluto. In sostanza: si ha l'impressione che questa posizione di Stuart Mill sull'istruzione finisca col negare una delle tesi che stanno alla base della sua filosofia, ovvero che l'individuo aspiri in generale a maturare, a disporre completamente di sè stesso, e alla libertà. Se così fosse, qualunque sia il tipo di istruzione ricevuta, egli non avrebbe pace finchè non avesse letto i libri Copyright ABCtribe.com 112 del "nemico" e scoperto i punti deboli delle proprie idee, o di quelle che è stato costretto ad accettare. Certo, non tutti gli individui sono così, ma i migliori sono così. Bisogna davvero avere una scarsissima considerazione dell'intelligenza umana per credere che una qualsiasi scuola, una qualsiasi dottrina conculcata, possa bloccare, per sempre, lo sviluppo di tutti gli individui e non solo di qualcuno. 4.6.7 Perché lo stato minimo A differenza di Marx, che vagheggiò l'estinzione dello stato dopo un difficile percorso di ritorno alla solidarietà fra gli individui caratterizzato da una mai ben precisata "dittatura del proletariato", Mill si limitò a prendere atto di tutti i benefici che sarebbero venuti ai singoli ed alla società, se lo stato fosse diventato meno invasivo. E su ciò presentò una serie di ragionamenti che ancor oggi conservano una identica validità. Mill ritenne che se una determinata azione può essere condotta sia da singoli privati che da agenti o funzionari statali, sarebbe meglio fare ricorso a privati, in quanto l'interesse personale mette efficienza a tutto il meccanismo. Non indicò alle controindicazioni, quali la possibilità di speculazioni e l'instaurarsi di monopoli, o di consensi fra differenti operatori che portano di fatto ad un regime monopolistico, come nel terreno delle assicurazioni o del petrolio attualmente; ma noi lo dobbiamo considerare. Se non si scompone il cartello assicurativo, se non si torna alla concorrenza, sarebbe davvero suicida dare ai privati l'assistenza e la previdenza, pure se io sono dell'idea che occorre sottrarre allo stato per lo meno la previdenza sociale dei lavoratori, e che necessiterebbe uno sforzo diretto di questi per gestire in modo autonomo i propri fondi pensione. Lo stato non può utilizzare i fondi pensione dei lavoratori per fare assistenza ai poveri. Questa è un'attività che deve essere a carico di tutti i cittadini. La seconda opposizione di Mill all'ingerenza statale è meramente geniale: se ci troviamo sempre la pappa fatta dallo stato, non miglioreremo mai sul piano della responsabilità civile. Pertanto, anche se è vero che in un primo tempo un funzionario statale può essere più efficiente di un privato cittadino, alla lunga tale specializzazione porta con se il danno fondamentale di cittadini disinteressati, o che sanno soltanto lamentarsi, ma che sono inetti o impediti a prendere iniziative. Mill dice che "questo specifico addestramento, aspetto pratico della loro educazione politica di uomini liberi, che li fa uscire dalla ristretta cerchia dell'individualismo individuale e familiare e li abitua a comprendere gli interessi comuni e a organizzare iniziative comuni", ... li porterà ad "ispirare la propria condotta a fini che li unificano invece di isolarli l'uno dall'altro." Qui c'è un po' troppo ottimismo, ma la direzione è quella equa. Il sistema della protezione civile inaugurato in Italia dopo le calamità è soltato un esempio delle moltissime applicazioni delle idee di Mill. Vi è la convinzione dell’importanza a estendere il servizio civile a circoscritte funzioni di polizia urbana e di quartiere. « La terza e più valida ragione per limitare l'interferenza dello Stato è la grande sciagura costituita da un'inutile estensione del suo potere. » (idem) Questo impedisce agli uomini di essere attivi, li rende parassiti del governo. Si verificherebbe una tendenza dei migliori talenti e delle migliori intelligenze ad accedere nei ranghi della burocrazia statale, e ciò implicherebbe, come nella Russia Copyright ABCtribe.com 113 zarista, il costituirsi di una burocrazia elefantiaca e paralizzante, per sempre totalitaria, espressione di quel motto che riassume l'essenza medesima di tutte le amministrazioni: tutto quello che non è espressamente autorizzato, è vietato; l'esatto contrario di quel che dovrebbe essere: potete fare tutto quello che non è vietato, e che è stato vietato per ragioni ovvi a chi sa riflettere. Mill ha soltanto in parte colto la verità, perché in verità il regime delle burocrazie esclude che i migliori possano salire di livello, a meno che non siano i migliori tra i raccomandati, o tra i portaborse. Ma, di per se l'esame è analogamente corretta. Di qui le indimenticabili parole che chiudono On Liberty: «...uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi, e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire. » (idem) 4.7 La Libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti religiosi Adesso si desidera riflettere sulla libertà di espressione come uno dei valori indispensabili della società democratica. Non è facile formulare una definizione della libertà in senso assoluto essendo questo valore ridimensionato dall’esistenza di altri valori fondamentali della democrazia come la parità fra i cittadini e, in particolare, la medesima libertà di questi ultimi. Vedere la libertà di espressione come un semplice concorso nel mercato delle idee non può essere riconosciuto nella società attuale, dove l’impiego di potenti mezzi di comunicazione può favorire la soffocazione delle voci dissidenti o alternative di alcune minoranze in mezzo al “rumore democratico”. La libertà di espressione non va vista in senso meramente quantitativo, come aumento del numero di voci, ma soprattutto qualitativo. Garantire la libertà di espressione deve voler dire, vale a dire, facilitare la pluralità di opinioni, per contribuire a garantire la sopravvivenza e l’espressione delle diversità culturali. A partire da tale idea, desideriamo esporre i differenti argomenti intorno ai quali ha preso corpo il dibattimento sulla libertà di espressione e rivedere il suo concetto sullo sfondo di una collettività mediatica che possa difendere l’idea di pluralità ed eguaglianza. Pertanto, la prima tattica per mitigare la pretesa di libertà è quella di considerare i valori dell’altro, le sue credenze e i suoi modi di vita in maniera tale da facilitare quel pluralismo indispensabile in qualsiasi democrazia. La libertà di espressione ci servirà come mezzo critico per verificare se l’attività informativa nella nostra collettività risponda unicamente ad un criterio di mercato o, al contrario, appaghi l’obiettivo di rafforzare il dibattito delle idee. 4.7.1. Le Origini della libertà di espressione nel pensiero liberale Copyright ABCtribe.com 114 Nella lotta per il conseguimento della libertà di espressione nella società Occidentale, sono stati Molte le dimostrazioni di cui differenti autori (Milton, Locke, Tocqueville, Voltaire, Constante, Jefferson e tanti altri) si sono serviti. Andremo ad evidenziare in breve le loro tesi a favore della libertà di espressione, raccogliendole in tre argomenti fondamentali. John Stuart Mill cita quest’argomento della verità mediante una tesi molto suggestivo: presupporre che un’opinione sia assolutamente vera equivarrebbe ad dichiarare che detta opinione sia esatta. Mill sostiene che non esiste alcuna ragione per ostacolare l’espressione delle opinioni e che limitarle sarebbe soltanto una ostentazione dell’arroganza fondata sulla possibile infallibilità dell’opinione comune predominante. Si mostra del tutto contrario a riconoscere il diritto del popolo a esercitare tale coercizione, sia per se stesso, sia per il suo governo, a sfavore degli spazi di libertà privata dell’uomo, a meno che quest’ultimo con le sue decisioni non danneggi gli interessi di terze persone. Il carattere dispotico dell’esercizio democratico poco liberale, è esposto da Mill in maniera illuminate nel passo successivo: “Se tutta l’umanità, meno una persona, fosse della medesima opinione e se tale persona fosse di opinione contraria, l’umanità sarebbe iniqua se gli impedisse di parlare, così come egli stesso lo sarebbe se, avendo sufficientemente potere, lo ostacolasse all’umanità. Se fosse l’opinione una “proprietà privata” avrebbe valore solo per chi la esprime; se ad ostacolare la sua diffusione fosse unicamente un pregiudizio particolare, sarebbe diverso che il pregiudizio colpisse poche o molte persone. Però ostacolare l’espressione di un’opinione è particolarmente biasimevole perché significa commettere un furto ai danni della razza dell' uomo, tanto verso la discendenza quanto verso la generazione attuale, a danno tanto di quelli che respingono tale opinione quanto di coloro che la corroborano. Se l’opinione è vera gli si dà l’opportunità di mutare l’errore; se è errata, si perde quello che è un beneficio non meno rilevante: la più chiara comprensione e impressione che rende viva la verità è prodotta dalla collisione con l’errore”. L’intolleranza può ostacolare l’espressione dei sentimenti più nobili della persona. Solo quando si rispetta l’altro, acclusi i suoi possibili equivoci, si possono garantire le condizioni capaci di ottenere una verità che si trova sparpagliata; ed ancora, si deve assicurare il rispetto dei cambiamenti, sia per rivalutare le convinzioni che abbiamo, sia per rettificarle se ci trovassimo in errore. Per tale ragione, nell’ambito della convivenza, l’unica verità che possiamo dichiarare è la differenza di qualunque individuo nella propria unicità, e la necessità di un terreno favorevole ad un suo sviluppo intellettuale. Mill spiega mediante degli esempi come l’infallibilità della verità non è altro che un miopismo culturale: “il mondo, per ogni individuo, viene a collimare con la parte di esso con cui è in contatto: la sua patria, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; a parallelo, si potrebbe definire liberale e di ampie vedute l’individuo per cui il mondo è rappresentato dalla sua età o dal suo paese” Ricorda, per di più, che “le epoche non sono più infallibili degli individui” (ibid). Per tale ragione, continua Mill, “non possiamo mai essere sicuri che le opinioni che cerchiamo di soffocare siano false, e se lo fossero soffocarle sarebbe comunque un male”. L’uomo è padrone di pensare, pronunciarsi e agire come crede indispensabile per il suo sviluppo personale. La libertà dell’uomo è una condizione indispensabile al progresso sociale. È sempre più utile accogliere la libertà con i suoi possibili errori anziché commettere l’errore di contestare la libertà, indispensabile per favorire la critica sociale e il Copyright ABCtribe.com 115 fiorire di personalità straordinarie che facciano grandi invenzioni per l’umanità: il genio. “Chi può calcolare quello che il mondo smarrisce nella gran quantità di intelligenze promettenti, unite a caratteri timidi, che non hanno il coraggio seguire cammini mentali audaci, tortuosi e indipendenti, per la paura di cadere in qualche cosa che potrebbe essere considerato irreligioso o immorale?” (...) “Nessuno può essere un gran filosofo senza riconoscere che il suo primo dovere come tale consta nel seguire la sua intelligenza, qualunque siano le conclusioni cui lo condurrà. (...) Possono essere sussistiti e potranno esistere ancora grandi filosofi in un’atmosfera di schiavitù mentale. Però non è mai stato dato, e mai si darà in tale condizione, un popolo mentalmente vivo” . Avere facoltà di scelta è quello che distingue l’individuo dal resto delle creature. La scelta ricerca un esercizio della ragione ed è possibile soltanto se esiste una pluralità di idee e alternanze. Se l’individuo non avesse la libertà di pensare, esprimersi e agire, la sua vita sarebbe simile a quella di un automa, programmato soltanto per ripetere cose che altri fissano. Conviene prestare maggiore attenzione, è palese nei regimi democratici, perché la voce della minoranza non venga asfissiata e la libertà individuale semplicemente sfruttata in quanto si tende ad assimilare la reazione contraria della maggioranza, come dichiara Mill con ingegno: “La società può esercitare, ed esercita, i propri diritti; (...) ed esercita una tirannia sociale formidabile superiore a molte oppressioni politiche (...); per questo, non basta la protezione dalla tirannia del magistrato. Si ha bisogno anche della protezione dalla tirannia delle opinioni e dei sentimenti generalmente condivisi...”. La democrazia, per di più, con le sue dottrine di legittimazione del potere, dovrebbe tutelare una serie di valori che ne qualificano l’esercizio fondato sul rispetto della libertà e dell’uguaglianza fra cittadini. Se facesse il contrario la democrazia non sarebbe altro che una tirannide della maggioranza che trasforma la pressione sociale in legge, senza domandarsi in che maniera garantire il pari diritto di chi non ha in comune i criteri della maggioranza. Il terzo argomento a favore della libertà di espressione fa perno sul fatto che è un valore edificante della società democratica. La libertà pubblica costituisce il sistema circolare che apporta il flusso informativo indispensabile per esercitare un controllo delle istituzioni sociali e politiche. Senza libertà di espressione non è possibile l’esercizio politico dei cittadini come richiesta regolarizzante il potere. Siffatto argomento sarebbe la deduzione logica dei due punti precedenti. L’eliminazione di una verità assoluta e il passaggio a una società plurale è, pertanto, l’unica strada praticabile che risponde alla difformità delle idee e delle pratiche dei singoli, in una collettività aperta e plurale. La libertà di espressione si trasforma nella pietra angolare del sistema democratico come una libertà che permette l’esercizio coevo di tutte le altre libertà fondamentali.Questa posizione mette in risalto il carattere istituzionale e oggettivo della libertà come condizione del modello medesimo di convivenza sociale. Come dimostrava Tocqueville, il quale avvertì che la libertà di stampa era fondamentale per le idee d’uguaglianza della società democratica: “la sovranità popolare e la libertà di stampa sono due cose intrinsecamente correlate”. Con proprietà, considera che la libertà di espressione è più auspicabile per “i mali che evita, che per quel che di buono realizza”. E tali mali non sono altro che la insufficienza di partecipazione dei cittadini e la consequenziale eliminazione dei loro interessi dalla decisione pubblica; quello che lui chiama:”dispotismo morbido”. Copyright ABCtribe.com 116 La libertà di stampa è il controllo sparso e continuo sulle intenzioni del potere politico. La libertà di espressione, oltre che un diritto particolare, è un pilastro fondamentale alla base del sistema democratico. Senza libertà di espressione non esiste democrazia. La libertà è l’ossigeno che permette alla società di rinnovare la sua visione del mondo con le proprie peculiarità storiche e sociali, che esigono nuovi equilibri e che incoraggiano una maggiore uguaglianza e pluralità grazie alla liberta d’espressione medesima. A seguire, conseguiremo una serie di critiche a tale paradigma dell’informazione, critiche all’ esempio del libero mercato delle idee, alla libertà di comunicazione e al liberalismo classico. 4.7.2. La Libertà di espressione nel’età dell’informazione Abbiamo appena finito di esaminare i tre argomenti classici a sostegno della libertà di espressione. Le loro ragioni sono ancora adesso d’attualità, la loro forza si mette in evidenza quando nuovi esempi di “verità” culturale hanno origine nella visione etnocentrica, quando l’individuo vede il suo sviluppo molto delimitato da altre forme di censura originata dal Mercato o quando la libertà di espressione è nelle mani di poteri economici e politici che accostano i mezzi di comunicazione. Pertanto, conviene ripensare a cosa indica libertà di espressione nel nuovo quadro della società dell’ informazione. Oggigiorno non si discute la libertà dell’uomo di manifestare le sueopinioni o preferenze, ma casomai la possibilità che queste possano essere conosciute dai destinatari. Che cos’è la libertà di espressione? Che cosa dicono i media? Cosa consentono di dire? Di sicuro, si può pensare semplicisticamente che la libertà di espressione coincida col mero esercizio materiale del dire quello che si pensa. Ma chi sono quelli che lo intendono? Il pubblico ha la possibilità di conoscere apertamente i soggetti del dissenso? Non è assurdo lasciare che qualcheduno arrivi a sgolarsi per competere con potenti megafoni sociali? Ed ancora di più è credibile che i media enfatizzino tale maniera di “urlare” la propria opinione come un modo per screditare le sue ragioni. Però prima dovremmo domandarci: hanno la possibilità di esporre le proprie posizioni? Come va definita la libertà di espressione per dare efficacia al disaccordo nella società dell’informazione? In siffatto paragrafo si vuole illustrare come il metodo seguito da quelli che progettano i media rispetta soltanto in apparenza l’impianto effettivo della libertà di espressione negli stessi mezzi di comunicazione. In contrasto con tale concetto sociologico dell’informazione, proponiamo una serie di esigenze normative che si orientano agli argomenti classici che abbiamo commentato prima. Ci concediamo una breve analisi sul modello di informazione nella società attuale. Oltre al controllo economico e alla manipolazione politica, la principale caratteristica dell’informazione della nostra società è lo spettacolo. Però lo spettacolo non è gratuito, né risponde soltanto alla ragione economica di trasformare tutta l’informazione in un prodotto d’intrattenimento, ma è altresì una forma di ideologia. L’effetto anestetico dell’attività informativa viene prodotto mediante il riciclaggio della realtà nella logica dello spettacolo. Guy Debord nella sua ingegnosa opera “Commentario sulla Società dello Spettacolo” scrive testualmente “Chi guarda sempre per vedere la continuazione non realizzerà mai nulla”. Lo spettacolo si rappresenta come una nuova ideologia del Copyright ABCtribe.com 117 mondo che si adegua alle disparità. Perfino la discussione riguardo lo spettacolo, che Debord definirà come la discussione “su quello che fanno i padroni del mondo”, è preparata dallo spettacolo medesimo.Trasformandosi in questo modo in uno strumento del discorso di potere, di fatto amministra sotto le sue direttive i suoi progetti, che emergono come decisioni già prese che si lasciano osservare di buon grado dai cittadini, come se il solo fatto di conoscerle indicasse prendervi parte. L’illusione della cittadinanza è quella di credere che vi sia un dibattito che precede la presa di posizione medesima, quando in verità avviene il contrario. I padroni del mondo sono quelli che, oltre a prendere decisioni, guidano l’informazione in forma spettacolare a tal punto da giustificare la narrazione filmica della realtà. Gli individui, pur non capendo quello che succede, si considerano liberi in quanto credono di essere informati. Li si lascia conversare su quello che pensano sia la realtà, da cui risulta che le medesime paure e le aspettative che sgorgano dal discorso informativo divengono la realtà effettiva sulla quale agisce il potere per offrirsi come salvatore. Debord lo chiarisce bene quando afferma: “Lo spettacolo organizza con destrezza l’ignoranza di ciò che succede e, immediatamente dopo, l’oblio di ciò che, malgrado tutto, è riuscito a far conoscere”. Si consegue in questo modo una nuova forma di autorità – invisibile – sino ad adesso inedita, la cui efficacia è radicata nel controllo dello scenario in cui l’agire di ogni attore sociale acquisisce una dimensione simbolica e pubblica: i mezzi di comunicazione. Tutto quello che accade dietro di loro (ossia, la verità vera e propria) non esisterà per il popolo, anche se tale dovesse essere più ingiusta e declinante degli argomenti dello spettacolo. Per siffatta ragione, la censura, nel senso classico del termine, non c’è più. Ci sono, ad oggi, altri modi più efficaci di occultamento della realtà esercitati mediante la libertà “democratica” dell’informazione: sono i mezzi di comunicazione che prediligono quali immagini della realtà mostrare, facendole passare come le uniche realtà disponibili; è attorno a queste ultime che si formerà l’opinione pubblica. La forma dello spettacolo si è cambiata nel contenuto essenziale, nella nuova ideologia. In un importante passaggio, Debord rappresenta le facoltà di questa nuova autorità dello spettacolo: “(…) l’autorità dello spettacolo può contestare quello che vuole, una volta, tre volte, e dire che non tornerà a parlare di siffatta cosa e poi parlare di altro; sa che non si espone più a nessun’altra replica, né sul suo terreno, né su nessun altro. Di conseguenza non vi è più un’agorà, una comunità generale, neppure una comunità ristretta o un caffè per i lavoratori di un’unica impresa; nessun luogo dove il dibattito sulle verità che concernono quelli che stanno lì, possono liberarsi in maniera duratura dalla pressante presenza del discorso mediatico e della forza organizzatrice indispensabile a svilupparlo”. Il risultato non sarebbe altro che una versione moderna del “panem et circenses” romano, con l’unica differenza che il gusto del pubblico sarebbe più sofisticato. Copyright ABCtribe.com 118 Almeno, si è conseguito che venga appagata la occorrenza informativa del cittadino, anche se questi, in verità, non è informato. Per finire: si definisce un nuovo modello della realtà che si identifica con quello di cui tutti parlano e che tutti “teleconoscono”, senza captare che questa opinione non è altro che l’eco della voce dei media. Neanche la menzogna è più indispensabile, dal momento che vi è una forma più elegante d’informare: lo spettacolo. Come nell’opera di Orwell, “1984”, dove il ministro della verità ha come obiettivo togliere tutto quello che non desta interesse al potere e perfezionare la storia per spiegarla in funzione dei propri interessi. 4.7. 3 Critica al modello del libero mercato dell’informazione Il dibattito pubblico delle idee, obiettivo fondamentale della libertà di espressione, non viene salvaguardato se le distinte posizioni che si discutono non hanno la eventualità di una partecipazione proporzionata, o almeno minima. Il difetto partecipativo non reca danno soltanto quelli che hanno qualche cosa da dire, ma tutti i cittadini perché privati della possibilità di ascoltare punti di vista e opinioni differenti. La mancanza di misure positive per assicurare una maggiore uguaglianza comunicativa causa un restringimento della libertà di espressione del pubblico. La grande differenza fra la società liberale e la società democratica, rispetto al diritto all’informazione, è che questa non viene pensata più come il semplice diritto individuale di esprimere le proprie idee, ma si considera un’istituzione fondamentale che ha il compito di far giungere alla cittadinanza un’informazione vera e pluralistica. Perciò, il diritto del pubblico è prioritario rispetto al diritto degli emittenti. I media hanno la responsabilità di assicurare questi valori fondamentali della democrazia mediante le attività. La libertà di espressione non vuol dire, pertanto, vedere facce differenti, ma conoscere e rispettare idee che consentono ai cittadini di vivere in una società in cui l’opinione pubblica sia eterogenea. Solo stabilendo regole del gioco ben definite nell’esercizio della libertà di espressione, può esistere una società regolarmente informata. Il medesimo Mill, cosciente del rischio che la democrazia pregiudichi la libertà delle minoranze, ha fissato una serie di condizioni che regolano il dibattito pubblico per garantire la libertà di Copyright ABCtribe.com 119 espressione. In primo luogo, scansare la condanna delle parti implicate nel dibattito, in particolare di quelle minoranze alla cui partecipazione la maggioranza presta poca attenzione. A suo avviso, la peggior offesa che si può commettere consiste nello stigmatizzare quelli che sostengono delle opinioni contrarie come individui immorali e nell’errore. Quelli che sostengono opinioni non popolari sono esposti a calunnia dagli avversari perché, di solito, sono pochi e di scarsa influenza, e nessuno, a parte loro medesimi, ha interesse a che si faccia giustizia; però quelli che attaccano l’opinione comune predominante non possono servirsi di quest’arma senza compromettere la propria certezza, e se osassero farlo non farebbero altro che screditare la propria causa. Tali forme di dominazione della maggioranza si esercitano mediante nuovi strumenti di controllo dell’l’uomo: l’opinione e i costumi, lacci invisibili che portano a quella che è stata denominata “la spirale del silenzio”. Con tale similitudine si vuole far notare come chi è vittima della stigmatizzazione pubblica prediliga rinunciare a, o almeno nascondere le sue difformità, per assicurarsi una maggiore integrazione sociale. Le persone temono l’isolamento per ragioni pragmatiche, dal momento che l’essere stigmatizzati condizionerebbe negativamente tanto la concretizzazione dei loro progetti, quanto il loro relazionarsi nella società. In secondo luogo, non si ammette l’insulto, in nessun tipo d’argomento, perché può influire emotivamente sulla ricezione del dibattito delle idee. È un’arguzia della maggioranza per esprimere il suo potere sociale e discriminare i dissidenti con apprezzamenti che indeboliscono le ragioni dei loro argomenti. L’insulto smisurato impiegato da parte dell’opinione predominante scoraggia il popolo dal prendere in considerazione tanto le opinioni contrarie, quanto coloro che le esprimono”. Infine, difendere un’idea non indica che qualsiasi critica le venga rivolta vada intesa come un attacco personale. Un’inclinazione liberale deve favorire la critica. È ammissibile pure un’attitudine scettica rispetto alle tesi contrarie, però si deve schivare di “sminuire” o pregiudicare l’immagine degli altri, per non compromettere la loro posizione nella società. A suo parere dev’essere condannata l’opinione di tutti quelli nella cui requisitoria si manifesta la malafede, la malignità, il fanatismo o l’intolleranza, ma perché si riconoscono tali vizi nella presa di posizione, e non soltanto perché l’opinione è contraria alla nostra; e deve riconoscersi pure il merito di chi, qualsiasi sia l’opinione che sostenga, ha la calma di vedere e l’onestà di riconoscere quelli che sono i suoi rivali e le loro opinioni, senza calcare troppo la mano su ciò che può essere, per loro, fonte di discredito, né nascondendo quello che possa, al contrario, andare a loro favore. La libertà di espressione, o almeno quello che aspira ad occupare lo spazio pubblico, deve manifestarsi con un senso di responsabilità per gli effetti che potrebbe causare sui vari gruppi sociali. Ci riferiamo soprattutto ai suoi effetti simbolici, quelli di cui si nutrono le persone con tendenza all’identificazione e principalmente a quelli che ricostruiscono il loro senso d’appartenenza o meno a una comunità. Copyright ABCtribe.com 120 In tale senso, una società che criminalizza una religione, al di là di altre limitazioni di detta religione con la quale possiamo trovarci in dissonanza, non pare essere in contrasto con il senso della libertà di espressione. La libertà di espressione accetta ed esige la critica, ma la critica non può avere come obiettivo sbilanciare la medesima comunicazione fra gli interlocutori. La comunicazione ha effetti sulla realtà degli individui e una comunicazione vessatoria implica la preclusione di alcune opportunità. In tale senso, i discorsi a favore di una determinata immagine convenzionale della donna come essere inferiore o ausiliare dell’individuo, potrebbero essere considerati un esercizio immaginabile della libertà di espressione, ma siamo tutti d’accordo sul fatto che compromettono la libertà delle donne nell’ottenere i loro scopi sociali. La soluzione classica al problema della libertà di espressione risiede nell’ elargire più libertà, ma ciò non risulta pertinente in un ambiente in cui le opportunità comunicative sono indicate dalla presenza di forti catalizzatori dell’opinione pubblica. Soltanto se esiste uguaglianza comunicativa fra i distinti esponenti il discorso sociale si può dotare di contenuto il pluralismo, pensato come valore normativo. Da una prospettiva democratica, un disequilibrio informativo o, per meglio dire, una libertà la cui forza sprezza o distorce altre libertà, rimane un pregiudizio enorme per la medesima libertà di espressione vista come un valore critico.Come abbiamo già visto, John Stuart Mill percepì come tale disegno di democrazia avrebbe potuto convertirsi in una nuova forma di democrazia sociale dell’uomo, se non se ne fosse rispettata l’opinione personale e culturale. Per questa ragione crediamo che una delle chiavi etiche per rappresentare un esempio di “libertà di espressione democratica” affondi le sue radici nel rispetto delle differenze. Rispetto delle differenze non indica indifferenza, ma una propensione al riconoscimento delle posizioni differenti per ampliare lo spettro delle opinioni nel dibattito pubblico. È indispensabile una maggiore uguaglianza comunicativa. Si devono conoscere prima di tutto le opinioni di coloro i quali sono oggetto di discussione e conoscere le loro realtà in modo più ampio rispetto alla semplice percezione che ci offrono i media solo sottoforma di spettacolo. Si deve intendere la libertà come un esercizio critico del costume sociale, delle idee dominanti, dell’esercizio del potere, ma si deve pure fare in maniera che la libertà come tale non sia il fine ultimo. Con tale proposito anche la libertà deve essere criticata e la critica spunta dai valori di chi è stato chiamato ad esercitare la critica con l’obiettivo di favorire l’uguaglianza di tutti e una convivenza plurale nel rispetto delle differenze. Senza scelta, non esiste né progresso, ne autorealizzazione. In campo politico ci vuole pluralità di stili di vita e di opinioni per alimentare il dibattito, perché senza dibattito non c’è democrazia. Per questo, benché quantitativamente le voci dei dissidenti siano minoritarie, in un progetto normativo, non sociologico, della libertà di espressione, queste dovrebbero acquistare priorità. Se la democrazia non assume tale imperativo etico, e viene intesa come una nuova forma di legittimazione del potere, allora l’unico risultato che si conseguirà sarà quello di aver cambiato ilmodo di scegliere i governanti, senza aver in effetti reso le persone più libere. Copyright ABCtribe.com 121 E il nuovo capo, percepisce Mill, può essere tutta la società, però non per questo può risultare meno dispotico. Questa situazione conduce a quella che potremmo qualificare come una deflazione dellademocrazia: al carattere aperto dell’ andamento seguito per prendere le decisioni non corrisponde l stessa apertura sul piano intellettuale, aspetto, questo, certamente decisivo per intensificareautenticamente la libertà sociale. Rammenta Mill che la tutela delle idee della società non è altro che una specie di addomesticazione degli interessi di quelli che hanno il potere. Per finire, Mill ci offre un principio adatto che deve essere tenuto presente in una definizione critica del concetto di libertà di espressione. L’idea chiave può, forse, essere compendiata con una delle più belle frasi della sua opera:“Quando si incontrano persone che rappresentano un’eccezione nell’apparente unanimità del mondo su qualsivoglia argomento, sebbene il mondo sia sicuro, è sempre probabile che i dissidenti abbiano qualcosa da dire meritevole di essere ascoltato e che la verità ci perderebbe nel caso rimanessero in silenzio”. La risposta di Mill, sebbene importante, è, ovviamente, limitata al concetto di libertà negativa che contraddistingue il pensiero liberale, nel senso che l’uomo può esprimersi e agire nei suoi interessi senza essere osteggiato dal potere politico. In siffatta sede dobbiamo, piuttosto, richiamare l’attenzione sul fatto che un tale concetto di libertà di tutti gli uomini non garantisce lo stesso livello libertà per tutti nella loro realtà; può, anzi, essere un chiaro presupposto per la differenza dei cittadini. Pertanto, ci vuole un concetto di libertà politica positiva che consideri la libertà personale non solo come un punto di partenza per l’espressione e realizzazione delle possibilità di ciascuno, ma anche come un punto d’arrivo per l’autorealizzazione, senz’altro differente nei valori dei singoli e nel modo di perseguirli. L’uguaglianza è la garanzia della diversità, perché dobbiamo essere tutti indistintamente coscienti del fatto che siamo differenti e che possiamo avere punti di vista differenti (uomo, donna, ceti sociali, fedi religiose e, nella società odierna in particolare, diversità etniche). Come è stato osservato da Owen Fiss nel suo magnifico libro “L’ironia della libertà di espressione”, lo spirito individualista del concetto liberale risulta insufficiente a rispondere alle esigenze di libertà di espressione nella società mediatica. L’essenza di tutte tali domande è la seguente: “Perché gli interessi di coloro che esprimono le loro opinioni devono prevalere sugli interessi degli altri che non prendono parte alla discussione, o su quelli di chi ascolta, nel caso in cui ci sia un conflitto di interessi tra di loro?”. Da questo punto di vista, lo Stato non può più agire da semplice spettatore nel mercato delle Copyright ABCtribe.com 122 idee, ma deve intervenire per poter assicurare l’uguaglianza come un valore che rischierebbe, altrimenti, di essere pregiudicato da una libertà sproporzionata oppure insufficiente. Quindi, lo stato ha il dovere di intendere la libertà come un valore unitamente all’uguaglianza; in caso contrario si rischierebbe che la libertà di quelli che sono diversi sia condizionata oppure eliminata. L’informazione ha il valore di un’istituzione fondata sul pluralismo sociale. I diritti dei cittadini sono prioritari rispetto a quelli di quelli che vogliono fare della loro libertà una forma di dominazione sociale. Lo stato non deve considerarsi nemico della libertà, ma suo garante: il suo principale dovere dovrebbe essere quello di regolare la comunicazione in maniera da renderla non solo un esercizio di libertà, ma anche d’uguaglianza di tutti gli uomini. Da questa prospettiva, lo stato dovrebbe portare avanti iniziative positive della libertà anche nel caso in cui gli ostacoli vengano dalla libertà degli attori privati che possono ostacolare il pluralismo delle idee. Lo stato ha la funzione di vigilare sull’esercizio della libertà allo scopo di incoraggiare una libertà che rispetti i diritti di tutti cittadini. Si può dire che due imperativi scaturiscono dal concetto critico della libertà di espressione: 1. l’imperativo della dissidenza comunicativa; 2. l’imperativo dell’uguaglianza comunicativa. Un concetto odierno della libertà di espressione dovrebbe tener conto di entrambe, perché la democrazia informativa come spettacolo e mercato delle idee, riesce a passare sopra a questi imperativi della libertà. Da tale prospettiva, vogliamo riflettere sulla libertà di espressione considerata in rapporto ai sentimenti religiosi. In particolare, valuteremo la pubblicazione della vignetta di Maometto spuntata su differenti giornali europei. 4.7.4 Considerazioni sulla vignetta di Maometto Varie sono le analisi che dobbiamo fare sulla libertà di espressione in rapporto alle caricatura sorse sul quotidiano danese Jyllands-Posten (J-P) e in un secondo momento rifatte da altri quotidiani europei. Crediamo di poter dichiarare che la libertà di espressione non debba avere nessun limite religioso. Il fatto che le persone possano manifestare le proprie credenze senza incorrere in un atto empio è stato una conquista della nostra cultura occidentale. La libertà di espressione difende addirittura le critiche più estreme che si possono fare alle idee religiose e al dominio che il potere richiede di esercitare sui popoli per suo tramite. In tale senso, quella per l’ottenimento della libertà di espressione è una battaglia che dovranno condurre a termine i paesi islamici per cominciare quel processo di secolarizzazione in cui la libertà di professione religiosa e di pensiero siano autorizzate e in cui possano coesistere nelle rispettive comunità, in modo Copyright ABCtribe.com 123 pacifico, credenti e dissidenti religiosi. In verità, si deve contribuire a intensificare il dibattito in contesti sociali autoritari e conseguire che i giornalisti che lavorano in tali contesti si sentano riparati dalla comunità internazionale. D’altra parte, non pensiamo che rientri fra i limiti alla libertà di espressione l’impossibilità di riprodurre la realtà sociale con umorismo o spirito critico. La critica tollera certi voli dell’immaginazione che riproducono in maniera canzonatoria i limiti della realtà, producendo occasionalmente un sentimento d’impotenza enorme. Tali peculiarità assumono maggior rilievo quando sono espresse mediante i mezzi di comunicazione, i quali possono, con un’ unica caricatura, rappresentare apertamente certi sentimenti presenti nell’opinione pubblica. Partendo da tali premesse, sembra comprensibile che anche certi aspetti della vita religiosa delle persone possano diventare oggetto di commenti o critiche ed essere trasformati, perché no, in caricature e colti graficamente per rendere la critica più evidente. Perciò, raggiungendo la libertà di espressione il suo apice quando adoperata dai mezzi di comunicazione, questi ultimi vengono ad assumere una rilevante funzione sociale e raddoppiano la loro libertà di esercitare la critica in tutti i suoi aspetti e su qualunque realtà sociale attiri l’opinione pubblica. La libertà di espressione, tuttavia, non deve renderci vittime di pregiudizi di qualunque sorta, ma ci deve consentire di continuare ad analizzare con occhio critico la realtà. La libertà deve essere onesta con se medesima e raffrontarsi con i dubbi che scaturiscono dalla natura dei problemi su cui si riflette, invece che lasciare da una parte i pregiudizi che potrebbero scaturire dal raffronto fra differenti punti di vista dottrinali su un indicato argomento.Adesso, detto ciò, non pare si possa ammettere che la libertà di espressione sia un diritto illimitato e che qualunque esercizio di essa sia scusato per il semplice fatto di essere il risultato dell’espressione. L’obiettivo fondamentale della libertà di espressione, come abbiamo visto prima, è difendere idee, offrire argomenti che consentano di intendere la effettività in nuovi modi, criticare quelle idee che paiono ingiuste; ma non la si può adoperare come arma contro le credenze di altre persone che si vedono gratuitamente marchiate socialmente da immagini che le declassano. Siamo dell’avviso che le idee religiose hanno un certo status che le difende da un esercizio gratuito e sensazionalista della libertà di espressione che causa soltanto il predominio delle credenze della maggioranza su quelle della minoranza. Alcuno mette in dubbio che si possa disapprovare la religione come si può criticare la politica. È una pratica sana che perfino i credenti dovrebbero esercitare per scansare di mescolare credenze o pratiche che li influenzano o che possono essere totalmente infondate. Comunque, esiste un senso in cui, a nostro parere, non è accettabile criticare la religione, ossia quando lo si fa con l’intento di stigmatizzare quella comunità di persone che hanno fatto di essa un punto di riferimento per la propria identità. Occorre fare molta attenzione, al fine di scansare che la critica possa recare danno il senso di identità di quelle persone che si riconoscono come tali mediante la religione. In tal caso staremmo minacciando il senso di dignità di quelle persone che hanno diritto di non vedere messo in dubbio il loro onore soltanto per il fatto di Copyright ABCtribe.com 124 appartenere a una indicata collettività sociale. In tale senso, pare sbagliato riprodurre determinati simboli rappresentativi di certe collettività religiose soltanto per deriderle sul piano sociale. È forse ammissibile che qualcheduno possa farlo sul piano individuale, però è del tutto illogico che coloro che dovrebbero essere socialmente dalla parte della libertà di espressione intesa come sistema di valori della collettività democratica (che acclude uguaglianza, rispetto e pluralismo) adoperino la libertà come un modo per pronunciarsi sulla fede di persone che formano parte della nostra collettività. Con tale tipo di pratica, piuttosto di contribuire al rispetto, si esorta alla provocazione e al disprezzo e si istigano sentimenti di xenofobia, contrapposti all’idea di tolleranza e pluralismo, valori tali ultimi che dovrebbero andare di pari passo con un regolare esercizio della libertà di espressione. Pertanto, in una democrazia la libertà di espressione si assicura soprattutto a salvaguardia della medesima democrazia, come si fa per il dibattito aperto che di per sé rende possibile la democrazia. Si conviene con il commento della professoressa Gemma Martin relativamente a quanto ha scritto nel suo articolo dal titolo “L’Europa e il mondo mussulmano”, presentato sul quotidiano El Pais, dove individua che il pericolo della pubblicazione delle vignette di Maometto è quello di rafforzare i sentimenti islamofobici esistenti negli stati europei. Rendiamo di seguito le suoe interpretazioni: “quello che ha convertito in un gran polverone indesiderato la pubblicazione del giornale danese JP è il carattere anti-islamico e l’incitazione all’odio che inevitabilmente sarebbe derivata dalla rappresentazione del fondatore dell’Islam come un terrorista . La natura del messaggio è evidente: se il fondatore di questa comunità è un terrorista, tutti i suoi membri lo sono.Si trasmette in questo modo un messaggio rischioso che stigmatizza e umilia una parte molto importante dell’umanità. Da tale punto in poi l’ argomento non è più religioso, ma diventa politica, perché riguarda qualche cosa di fortemente detestabile come il razzismo e la xenofobia. Considerato come valore assoluto e privato di qualunque senso di responsabilità, l’esercizio della libertà di espressione si trasformerebbe in un abuso di tale privilegio”. La libertà di pubblicazione dev’essere concepita come un esercizio di libertà al fine di conseguire una maggiore uguaglianza, premessa per una libertà ancora maggiore. In nessun caso si può adoperare tale libertà per permettere ai più forti di danneggiare i più deboli. La democrazia legittima il potere mediante il consenso e la partecipazione, e deve combattere continuamente l’abuso di potere, sia esso di un governo prepotente (o della sua voce mediatica), o di una maggioranza o potere tirannico che incutano timore alla minoranza. La libertà di espressione è il mezzo col quale fare fronte a tali abusi. L’idea è riconoscere ai singoli il diritto di dire la verità a chi detiene il potere, o per lo meno di parlare con questi senza la preoccupazione della censura, a prescindere dalla verità o meno di quello che hanno Copyright ABCtribe.com 125 da dire. Pertanto, se tale è il proposito della libertà di espressione, è normale chiedersi quale campo del dibattito politico e sociale si pretende ricalcare con una vignetta in cui Maometto èraffigurato con una bomba sotto la “chilaba”. Che potere politico-economico della società danesesi voleva criticare con tale preconcetto del musulmano come terrorista? Ci troviamo di fronte a un esercizio della libertà che pregiudica disinteressatamente una cultura religiosa, più che una religione. È chiaro che tale forma di iniziativa nel contesto di una società occidentale comporta lastigmatizzazione della minoranza marginale dei musulmani che si sentono, in questo modo, discriminati per il solo fatto di convenire ad una determinata cultura, e non per la religione confessata. Non è un atto responsabile di esercizio della libertà, perché non dà il controllo del potere, né accresce alcun dibattito, ma è un semplice colpo ad effetto per disonorare la volontà di una delle parti di essere socialmente individuata. Non si è trattato, pertanto, di un dibattito sulla libertà di espressione, ma anziché sull’immagine che la stampa europea è sistemata ad offrire ai cittadini spettanti ad una collettività sociale. Da tale punto di vista, la diffusione della caricatura da parte degli altri mezzi di comunicazione europei quale gesto di solidarietà, continua ad essere una difesa sbagliata dell’esercizio sbagliato di una libertà di espressione mal interpretata, intesa, cioè, come il diritto a far preponderare l’immagine di una maggioranza su una minoranza, altresì quando quest’immagine risulta essere offensiva e pregiudica gli altri intenti intrinseci nella libertà di espressione vista in senso democratico. È nostra convinzione che quando una delle istituzioni basilari della comunità democratica, com’è la libertà di stampa, non svolge in modo responsabile le sue funzioni, sia opportuno che il potere politico rifletta sentitamente su quel congiunto di valori che dovrebbero essere alla base della coabitazione sociale. In tale senso, senza incorrere in espressioni di censura, è consentito allo Stato di mostrarsi in accordo o in dissonanza con certi atti che, pur essendo legittimi dal punto di vista legale, emergono “infelici” rispetto ad altri obiettivi politici e sociali causati dall’insieme degli atteggiamenti etici dei cittadini. Considerare che tutto quello che va approvato o disapprovato derivi dalla legge, vuol dire diminuire la convivenza ad un esempio di intolleranza legale inammissibile. L’azione dei media è più rilevante di quella della legge perché dalla prima, di fatto, dipende la effettività delle persone al di là del semplice riconoscimento del soggetto come possessore di diritti e doveri. Tutti abbiamo la medesima libertà, ma abbiamo una differente responsabilità nell’esercitarla, a seconda dei risultati che può avere sui cittadini. Gli insulti individuali, gli scherzi di cattivo gusto non possono essere adoperati dalla stampa come semplice esercizio di libertà, a meno che non si consideri la libertà di espressione come un mero atto di stravaganza o non la si intenda come l’insieme delle evenienze bizzarre cui può dar vita il genio di coloro che rappresentano la parte più anomala e ignorante della società. Tali riflessioni, nondimeno, non hanno in nessun caso come fine ultimo quello di giustificare le reazioni prepotenti Copyright ABCtribe.com 126 occorse in certi paesi musulmani, in cui i cittadini sono stati agevolmente usati, come se esprimessero un odio anti-occidentale che trascende l’episodio stesso delle caricature. Conflitti internazionali come l’occupazione della Palestina da parte di Israele o la guerra in Iraq, hanno prodotto nelle popolazioni di tali paesi un sentimento di disprezzo impotenza che ha riacceso in loro il sentimento di identità religiosa. Per tale ragione crediamo che l’ atteggiamento indifferente dei media che hanno pubblicato le caricature di Maometto, non avrebbe dovuto generare altro effetto che quello di richiamare l’attenzione perché esito di una pratica poco consigliabile dal punto di vista etico, principalmente tenendo conto del contesto storico in cui si è prodotto. Occorrerebbe interpretare la reazione a posteriori di alcuni governi musulmani, che hanno fomentato il fuoco dell’odio verso l’occidente acceso dalle caricature, come qualche cosa scaturito da ragioni politici più che religiosi. Piuttosto che segnalare l’offesa per aver rappresentato la figura del profeta in una religione iconoclasta, si doveva far leva sul sentimento di identità mettendo in luce il sarcasmo e il disprezzo che l’occidente nutre per la cultura musulmana. In tale modo si sarebbe ottenuta, ipocritamente però efficacemente, una maggiore unione della comunità che avrebbe appagato qualunque dissidenza esistente all’interno di quelle società. Mettere in evidenza i rischi della libertà appellandosi ai sentimenti religiosi come al referente più profondo in teoria condiviso da quella società teocratica è una strategia di dominazione antica. La opposizione violenta dell’atto blasfemo si converte così in una scusante cieca e brutale dell’esercizio religioso, che si antepone a valori molto più sacri come la stessa vita umana. Va, pertanto, ben guidata la critica a queste caricature di cattivo gusto che vanno intendete come una mancanza di deontologia, necessariamente da scansare in futuro. Tuttavia, l’intolleranza di certe collettività che cambiano in provocazione naturale una qualsiasi manifestazione di dissidenza, può soltanto dimostrare che la religione si è tramutata in uno strumento di lotta politica. Alla luce di tali riflessioni, dovrebbe esser chiaro come un esercizio civile della libertà di espressione supponga la responsabilità dell’essere consapevoli del momento in cui si dice qualche cosa e del modo in cui quello che si dice possa condizionare coloro che potrebbero essere oggetto del dispregio di terze persone. In tale senso, pare che la revisione della storia di un concetto cardine come quello della libertà di espressione nella tradizione occidentale, possa cooperare a far capire la logica protesta della collettività musulmana nei paesi europei, marchiata per l’orrore di certi atti estremi e per l’immagine distorta dei suoi topici culturali. Alla medesimo maniera si denuncia l’utilizzo a scopi politici di tali episodi da parte di governi rigorosi che approfittando di tale incidente soffocano ancora di più, se possibile, qualunque dissidenza sociale. Per concludere, va purtroppo rammentato che i medesimi mezzi di comunicazione chedovrebbero mantenere un comportamento sereno in tali circostanze, sfruttano la medesima provocazione per generare una nuova edizione di spettacolo mediatico. Copyright ABCtribe.com 127 Le ragioni della reazione rimangono in secondo piano e se ne mette ancora una volta in evidenza soltanto il carattere violento, scatenando quasi certamente la vergogna pure di quei musulmani che considerano la propria fede conciliabile con la libertà di espressione, e che capiscono, al contempo, che il rispetto è una faccenda fondamentale alla base di qualunque convivenza in una società multiculturale. Un’occhiata alla libertà di espressione come principio della democrazia eviterebbe il prendersi certe licenze in nome di tale libertà recando in questo modo offesa e pregiudizio a chi è alla medesimo maniera parte di tale società democratica. 4.8 I liberali riformatori La formula del liberalismo riformatore interessa passionalmente, tuttavia, come tale, la definizione “liberale riformatore” non soddisfa troppo sul piano teorico. Entrambe le parole, “liberalismo” e “riformatore” mi sono care, ma messe congiuntamente rammentano che possa esistere un liberalismo immobilistico, o perfino reazionario. Certamente è vero che vi sono immobilisti, conservatori e reazionari, che si sono definiti o si definiscono “liberali”. Ma il liberalismo come tale, associato a questi aggettivi, dà luogo ad un ossimoro: parlare di liberalismo immobilista, e tanto più di liberalismo tradizionalista, probabilmente altresì di liberalismo conservatore, denota vale a dire esprimere quella che più classicamente si definisce una incoerenza in termini. Non si afferma questo per reclamare una patente di progressismo, ma altresì per rendere giustizia ad alcuni effettivi liberali che a buona ragione abbiamo pensato dei conservatori. Si parla per esempio di Giovanni Francesco Malagodi, obiettivo per tanti anni delle critiche della sinistra liberale, sotto molti profili Malagodi poteva essere visto, e si considerava lui stesso, un tradizionalista, ma in fondo lo era più per una specie di istintiva incertezza di certe versioni del progressismo ufficiale, in particolare quella del comunismo di allora, che per scelta ideale. Presentava difatti delle spaccature che, per un'avventura psicologica e storica, si sono presentate durante gli anni della sua vecchiaia e che davano prova di come l'individuo guardasse in avanti e non indietro, e con una sicura capacità di indagine. 4.8.1 Il liberalismo conservatore Se “liberalismo conservatore” è un ossimoro, la formula di cui si parla, che è il “liberalismo riformatore”, è una ridondanza, dal momento che il liberalismo è riformatore per definizione, nel senso che è una dottrina che, quanto meno, si sistema il compito di interpretare una realtà che avanza e non retrocede. Il liberalismo in ogni modo la interpreta, e molto spesso l’ accelera. Si può parlare, invece che di liberalismo riformatore, di liberalismo sociale: formula anch’essa dubbia, che uso qui solamente a scopo discorsivo, per segnalare quegli equivoci che sgorgano da una fonte Copyright ABCtribe.com 128 fondamentale, l’equivoco degli equivoci, e vale a dire che il liberalismo sia la teoria dell'individualismo asociale. Il liberalismo è una dottrina politica, al contempo descrittiva e normativa, che prende come punto di riferimento l'uomo perché nasce dalla rivoluzione umanistica, quella rivoluzione che pone l'individuo al centro dell'universo. In filosofia politica il liberalismo fu pertanto, come si adopera dire, l’espressione di una rivoluzione copernicana, ma non è la dottrina dell'individualismo asociale, dell'individualismo anomico, dell'individualismo egoistico. E’ la teoria politica che pone l'uomo, le sua libertà, la sua capacità di discernimento, di scelta e di autorealizzazione, al centro dell’esplorazione e, sul piano filosofico e sociologico, descrive la società come composta di uomini interagenti con libertà, non di atomi isolati e racchiusi in se stessi, ciascuno nel proprio microcosmo. È una dottrina politica che riconosce e valuta positivamente il conflitto sociale – Einaudi non parlava probabilmente di “bellezza della lotta”? – e tuttavia propone di risolverlo mediante mezzi che tutti i liberali, salvo nei casi estremi della lotta contro il tiranno, ritengano debbano essere non-violenti e rispettosi di leggi liberamente e in modo democratico scelte. Questa pertanto non è la dottrina dell'individualismo asociale, ma semplicemente una teoria che individua e descrive la società in un certa maniera. Rievocando due classici della sociologia, fra loro molto diversi, da un lato Émile Durkheim, per cui la società era “un tutto organico”, e dall’altro Herbert Spencer, per cui la società era “un tutto discreto”, possiamo dire che i liberali vedono la società, appunto, come un tutto discreto e non come un tutto organico. In fondo, potremmo aggiungere, non la vedono neanche come un tutt’uno, in quanto la vedono nelle sue molteplici fattezze e sfaccettature, come un insieme di individui differenti che lottano, competono, cercano pure di preponderare gli uni sugli altri. . Ma nel momento in cui questo desiderio di prevalenza, comunissimo tra gli individui, sfocia nell'esaltazione della forza, nella proclamazione del diritto del più forte, vale a dire del diritto di prevalere in virtù della forza stessa, siamo fuori dalla teoria liberale, perché il liberalismo è fin dalle sue origini teoria della liberazione dell’individuo dai vincoli ingiustificati, quei vincoli che qualcuno, esercitando la forza (o l’inganno) imponga a tutti gli altri. Il primo individuo che il liberalismo realmente limita, non a caso, è il più forte di tutti: il re. È stata diligentemente la teoria liberale, nei suoi prodromi e poi, principalmente, attraverso i secoli che si sono succeduti dal Seicento in avanti, a mettere in discussione tale concezione verticistica della società – pensiamo alla teoria del diritto divino dei re – e a mettere in discussione l'autorità massima. Da allora qualunque autorità è diventata più fragile, esposta alle demitizzazioni della dottrina liberale. Non ho bisogno di ricordare che il capostipite della teoria liberale coeva, sebbene prima di lui vi siano rilevanti predecessori, è John Locke. Locke, vorrei mettere in risalto, non è l'unico teorico del contratto sociale. Lo è altresì Thomas Hobbes, che teorizza un doppio contratto sociale, prima un pactum unionis e poi un pactum subiectionis, come maniera per uscire da una condizione primitiva che egli rappresentava come di guerra generale, omnium Copyright ABCtribe.com 129 contra omnes. Per dar vita a una società occorreva, per Hobbes, consegnare il potere ad un sovrano “assoluto” dato che ab-solutus, padrone di fare la legge e di disfarla, non vincolato pertanto a rispettarla. Il sovrano hobbesiano è il garante di una pace sociale non in altro modo ottenibile che mediante una forte compressione delle libertà individuali. Anche siffatta è una dottrina politica rivoluzionaria rispetto a quella che giustifica il potere regio come emissione e riflesso dell’autorità divina, dato che pur sempre dichiara che l’autorità politica riceve un’investitura popolare, dal basso. Ciò nonostante è una teoria contrattualista illiberale. La dottrina contrattualista liberale è quella di Locke, un autore che sopraggiunge a individuare, prima di tutto, una serie di libertà individuali corrispondenti ad una condizione originaria che l'autore descrive non come stato di guerra, ma come stato di pace. Uno stato di godimento effettivo, sia pure imperfetto e soggetto a rischi, di libertà e di correlativi “diritti” che sono “innati” perché congeniti all’essere umano. Fra tali libertà ve ne sono alcune che a molti fanno paura pure oggi: la libertà di opporsi a chi detiene il potere, entro certi limiti il diritto di resistervi, quello di emigrare. Si tratta di riconoscimenti rilevanti perché contengono in sé il nocciolo del pensiero liberale, ossia la constatazione che qualsiasi potere, nel momento in cui si istituzionalizza, tende a raggrumarsi intorno a chi lo esercita, a trasformarsi in arbitrio, a perpetuarsi altresì al di fuori delle regole a cui deve il suo punto di partenza, per cui è fondamentale che vi sia la libertà di contrapporvi. 4.8.2 Il liberalismo come teoria della divisione Il liberalismo è pertanto la dottrina della divisione, anzi della frantumazione del potere, non della concentrazione del potere, e Locke è il punto di partenza di tutto questo. Che cos'è il contratto sociale nella versione liberale? L'interazione politica è vista dalla dottrina liberale come prodotto di una contrattazione permanente tra esseri liberi, capaci di obbligarsi reciprocamente, ma non autorizzati da una qualche autorità superiore a prevalere sia nel momento della realizzazione sia nel momento dell'esecuzione del contratto, per parlare da giuristi. Il contratto politico dei liberali non è un contratto per adesione. I giuristi presenti sanno bene che si voglia dire: non è un contratto come quello che fanno sottoscrivere la Telecom, o le compagnie di assicurazioni, o le banche, per cui dobbiamo per forza sottoscrivere e accogliere esplicitamente in un modulo prestampato una moltitudine di clausole che rendono nulli di fatto il potere negoziale del contraente più debole. Quelle clausole che nelle polizze assicurative sono redatte in corpo invisibile, grigio su grigio o giallo su giallo, e che, alla fine, vi rendono conosciuto che il danno che avete in effetti subito non è coperto dal contratto che avete sottoscritto e pertanto non verrà risarcito. Il contratto liberale non è questo tipo di contratto, vale a dire non è imposto da un monopolista, o da un cartello di oligopolisti, che possiede il 100% del potere contrattuale, ad un antagonista che non ne ha alcuno. Copyright ABCtribe.com 130 Il contratto liberale è un contratto tra uomini liberi. Insisto sul contratto perché è la sintesi della società liberale: nella concezione ideale le clausole di tale contratto dovrebbero tutte essere frutto di un’interazione tra individui capaci di contrapporsi a vicenda su un piano di uguaglianza, cioè occupando uguali spazi di libertà contrattuale. Il contratto difatti è altresì un conflitto, nel quale i contraenti cercano di massimizzare il proprio profitto, la propria quota di libertà, a danno dell'altro. Entro certi limiti si deve ammettere che tale accada. Ma vi devono essere appunto dei limiti prefissati, e prefissati legalmente, sia alle disparità iniziali, sia a quelle finali. Il liberalismo è pertanto una visione della vita sociale e politica che contesta, desidera, propone il massimo di libertà di tutti i stipulanti. E’ un classico bellissimo, di un liberale moderato – un liberale inglese più vicino a Edmund Burke che a John Stuart Mill – che osserva come le società “progressive”, a diversità di quelle “stazionarie”, si modifichino da una condizione sociale basata sullo status ad una condizione sociale fondata appunto sul contratto, da una struttura in cui le posizioni sociali sono ascritte alla nascita di ciascun singolo, ereditate come possono essere la società di caste indù o la società medievale, ad una struttura in cui le posizioni sociali sono scelte, contrattate e impadronite in un libero confronto. Contratto pertanto, e conflitto. La dottrina liberale è una dottrina conflittuale come lo è quella marxista, con la sola indispensabile differenza che i marxisti caratterizzano una fine, uno sbocco verso una perfetta collettività integrata, cosa questa alla quale i liberali non hanno mai creduto, nel loro fondamentale scetticismo sulla natura umana. I liberali hanno sempre pensato che il conflitto sia permanente, una specie di motore immobile indirizzato a perpetuarsi per sempre, in qualunque età. Una società perfettamente inserita, una “Città del sole”, non rientra nelle visioni liberali. Ma il liberalismo, come riconosce il conflitto e proclama la necessità di non spegnerlo, in questo modo altresì teorizza, e propone la necessità, che il conflitto stesso sia controllato e “trattato” secondo una metodica non violenta. Pertanto, per poter contrattare liberamente, gli uomini devono essere liberi dai vincoli preventivi, vale a dire non subire imposizioni, né da parte delle loro avversari, né da parte di un terzo, com'è il governo, che aiuti le controparti medesime. Secondo il liberalismo il terzo, vale a dire il governo inteso in senso lato come autorità politica, deve essere neutrale: metto in risalto, neutrale, non assente. 4.8.3 Il principio della non interferenza Copyright ABCtribe.com 131 Quando si proclama il principio della non interferenza dei pubblici poteri, si compie un'operazione che può anche avere le sue giustificazioni. Ma quando si proclama ad esempio l’ideale dello stato minimo, di cui Robert Nozick è stato il massimo portavoce, sino a quasi a sconfinare nell'"anarchismo" liberale (da cui si distanzia con alcune sottigliezze) si compie un'operazione di grande pericolosità. Lo Stato deve essere neutro, non minimo, per una ragione indispensabile che è ben visibile nell’esame di quel settore in cui i liberali sono maestri e che rappresenta uno dei nuclei fondamentali della loro dottrina sociale. Vale a dire l’economia del mercato. In economia il liberalismo è la teoria della concorrenza. Questo occorre ricordarlo: secondo il liberalismo il mercato deve essere libero e, se non è libero, come diceva proprio Malagodi, deve essere reso libero e poi mantenuto tale. Ma per rendere e mantenere libero un mercato necessitano delle regole; di fatto un mercato anomico, ossia senza regole, decade. L'idea di una politica liberale monopolista in nome della libertà di mercato è l’ossimoro, la incoerenza in termini più vistosa che si possa immaginare. La concorrenza è l'esatto contrario del monopolio. Se per rendere e tenere libero il mercato necessitano delle regole, necessita anche un'autorità che le riconosca, le proclami e le faccia rispettare, certo senza soffocare, senza esagerare. Abbiamo un esempio vistoso sotto gli occhi. La Comunità Europea dichiara la libertà del mercato, il mercato competitivo come sua filosofia fondamentale. Il principio su cui essa si fonda è quello delle quattro libertà di circolazione: “merci, servizi, capitali e persone”. La sua politica di salvaguardia dei principi di libertà del mercato è comprensibile, ma raggiunge dei punti ossessivi. Si è giunti a disciplinare tutto, ogni più piccolo segmento dell’attività economica, in una maniera così minuzioso che alla fine diviene soffocante. Ma quel tanto di regole sostanziali che impediscono la composizione di gruppi monopolistici, siano essi palesi oppure non palesi, occultati dietro i trusts e i patti di sindacato, è coessenziale con il liberalismo. Un sistema economico cessa di essere liberale quando decade verso la struttura monopolistica. Se gli uomini devono poter contrattare con libertà, essendone garantiti dal governo che essi stessi contrattualmente scelgono, lo mette in risalto ancora, devono entrare nella relazione contrattuale in condizioni di uguaglianza vicendevole. Qui va detto che si è sempre distinto fra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale. Non so quanto abbia senso tale opposizione: un'uguaglianza che esista soltanto ufficialmente sulla carta rischia di essere la giustificazione retorica dell'oppressione. Non c'è occorrenza di disturbare Carlo Marx; basta ricordare che lo stesso nostro progenitore, Luigi Einaudi, ha portato sotto questo profilo una serie di osservazioni rilevanti, ad esempio nel campo del lavoro. Tale problema dell'uguaglianza mi impone di compiere alcune precisazioni, ancora una volta, sul rapporto fra libertà e uguaglianza. Sono precisazioni alle quali io sono legato altresì perché mi è capitato di insistervi molte volte e in possibilità differenti, altresì nel quadro di un’ormai antica discussione che ebbi la ventura di portare con Ralf Dahrendorf quasi vent’anni fa. È assolutamente vero che libertà e corrispondenza sono due termini differenti. Come disse Dahrendorf in quella vecchia intervista, e come ha riprodotto tante volte Bobbio, il liberalismo è stato sempre inteso come la bandiera della libertà, mentre il socialismo è stato per molto tempo assunto come la bandiera dell'identità. Copyright ABCtribe.com 132 Non scordiamo però che il liberalismo ha sempre detto, con molto fondamento, che il metodo della libertà è anche quello che permette di conseguire il massimo dell'uguaglianza possibile. Il marxismo ha detto, o cercato di dire, la cosa contraria: solo una condizione di uguaglianza consente di conseguire, alla fine di una più o meno lunga serie storica, la totale libertà individuale. È stata questo esempio per dimostrare come, in fondo, tutti e due i grandi corpi di teorie politiche umanistiche degli ultimi secoli, vale a dire il liberalismo e il socialismo (la democrazia è bensì una terza e distinta teoria, che però concerne non la totalità delle relazioni umane ma solamente i metodi di gestione della cosa pubblica) hanno preso a cuore tanto la libertà quanto l'uguaglianza, magari sbagliando, imbattendo in aporie, abbandonandosi ad illusioni, cozzando contro le dure ripetizioni della storia come si vuol dire. Invero, libertà e corrispondenza sono bensì due concetti differenti, ma sono uno il riflesso dell'altro per una ragione visibile: che, come riconosceva Immanuel Kant, e dopo di lui Stuart Mill e molti altri artefici dietro i quali mi posso tranquillamente nascondere, quando non si parla di libertà di coscienza, di pensiero, di espressione, ma si parla di libertà sociale, della libertà che regola le relazioni interattivi fra gli individui, necessariamente la mia libertà collide con la libertà del mio vicino. Nel momento in cui devo contrattare con il mio vicino l'unica maniera ragionevole, e ragionevolmente morale, di gestire il rapporto consiste nel tracciare un’ideale linea mediana fra noi due, e tale è la linea dell'uguaglianza. 4.8.4 Libertà economiche e sociali Quando parliamo di libertà economiche e sociali, l'uguaglianza è pertanto nient’altro che il riflesso sociale della libertà. Dicevo che liberalismo e socialismo si sono presi a cuore i due concetti da posizione opposte; i liberali ritengono che la massima eguaglianza possibile sia conseguibile mediante la libertà, il socialismo, in particolare il marxismo, ha predicato al contrario l'utopia di una libertà assoluta mediante l'assoluta uguaglianza: un’uguaglianza che non è mai stata raggiunta perché quello che, purtroppo, le dottrine socialiste hanno ignorato per tanto tempo è stato uno dei più grandi principi liberali, che il potere tende a continuare se medesimo e se lo si concentra, come dicevo poco fa, si fissa nelle mani di un'élite che poi diviene improbabilmente scalzabile. Anche quella liberale, la massima eguaglianza possibile mediante la libertà, è una utopia, ma lo è in senso debole, un ideale degno di essere perseguito altresì se non è realizzabile nella sua integrità. Quella marxista al contrario è stata una utopia in senso forte, l’ideale di una collettività perfetta, un modello molto pericoloso secondo il pensiero liberale perché passibile di offrire Copyright ABCtribe.com 133 forti argomenti a favore di un oppressore. Non c’è necessità di ricordare le dure critiche di Karl Popper ai teorici delle utopie forti e della società “chiuse”. Cambiano la collettività, la tecnologia, la cultura, l'economia, e principalmente mutano le persone, i loro progetti, i loro ideali, le loro utopie. Il liberalismo è la teoria non solo del contratto sociale in sé, ma è altresì la teoria del contratto sociale permanente: vale a dire non si contratta una volta sola, ma si continua a negoziare. Questo lo ha detto assai bene anni or sono, in Italia, un autore che pure viene da un’educazione prossima al marxismo, Salvatore Veca, il quale, mentre veniva sparso nel nostro paese il pensiero di John Rawls con la traduzione di A Theory of Justice, se ne è fatto un po' l'interprete e ha messo in rilievo come vi sia una indispensabile inerenza tra il concetto di conflitto e il concetto di contratto, come ho detto poco fa. Adesso, se è durevole il conflitto è fermo anche il contratto. Occorre essere sempre disposti e pronti a contrattare e ricontrattare; non per niente i liberali sono gli sostenitori della società aperta, di una società che consente di cambiare, riprendersi, automodificarsi, riscattarsi, rimettersi in gioco. Mi viene in mente un conosciuto libro di Lawrence Friedman (che non va confuso con Milton), giurista e professore a Stanford: The Republic of Choice, apparso nel 1990. Il liberalismo vede la società come un terreno di preferenze permanenti. Friedman osserva che la società liberale ottocentesca era, sotto molti profili, meno aperta e pronta alle scelte di quanto non sia la collettività di adesso; la famiglia era patriarcale e pervadeva, assorbendole, tutte le decisioni individuali, il divorzio era quasi generalmente vietato, l'attività economica era più severamente disciplinata di quanto non sia oggi, esisteva il carcere per debiti (talvolta viene da rimpiangerlo di fronte a certe impossibilità di pagare programmate a scopo truffaldino). Oggi più che mai il contratto liberale è un contratto permanente, e tale ordinatamente è un punto dolente delle forze conservatrici che si annunciano “liberali”, le quali si fermano a quel campo di scelte che è stato teorizzato e vissuto prima, quando la società era differente. Un liberalismo che non voglia mutare cessa di essere liberale. C'è da chiederselo, per natura: cambiamenti progressivi o "progressisti"? E c’è altresì da chiedersi, più in generale, esiste davvero il “progresso”? Non lo so. Dahrendorf rammentava anni or sono che gli ultimi a parlare saggiamente di progresso, nell'ambito delle scienze sociali, sono stati Morris Ginsberg, l'allievo di Leonard Trelawney Hobhouse, e Richard Henry Tawney. In verità da 40-50 anni nessuno ne parla più. Si diffida di un concetto che è apparso scientificamente deviante e politicamente pericoloso. Ma ancora una volta, come per l’utopia, occorre discernere tra progresso in senso debole e progresso in senso forte. Quello che i liberali rifiutano è l’idea di un progresso inevitabile, unilineare, determinato e deterministico, l’idea della fine della Copyright ABCtribe.com 134 storia. Hegel, che aveva tale idea, non è un filosofo liberale; in Marx ci sono forti fermenti liberali, come riconosceva Benedetto Croce, ma non è sicuro liberale, non tanto perché teorizzi la lotta di classe, quanto abbastanza perché individua un esito stabilito e invariabile, per cui tutto quello che fuoriesce da quel binario – che per i liberali è un binario verso l'infinito ed è al contrario per lui un binario verso il finito – è come tale da condannare. In siffatto senso forte non ci si può proclamare progressisti, né si può parlare di progresso. In verità la società ci mette dinanzi continuamente altresì le debolezze dei nostri tradizionali concetti di evoluzione: chi 25 o 30 anni fa, nell'ambiente della sinistra liberale alla quale appartengo, avrebbe messo saggiamente in discussione il principio dello Stato del benessere? Credo che sino alla guerra del Kippur del settembre 1973 – in quegli anni facevo politica liberale a livello europeo – non ci fosse un soltanto liberale di destra o di sinistra in tutta Europa, tranne alcune patetiche frange ultraliberiste, che mettesse in discussione l'idea del Welfare State. E poi, come spesso succede nella storia umana, nell’arco di pochissimi giorni, mentre il prezzo del petrolio aumentava a dismisura e ci siamo trovati in mano dopo pochi mesi i micro-assegni da 50 e 100 lire che ricordavano le “Am-lire” dell’occupazione militare post-bellica, in una condizione in cui i pochi risparmi degli italiani si sono volatilizzati, ci siamo accorti che lo Stato del benessere – forse – costava troppo rispetto alle possibilità delle nostre economie. La capacità di autocriticarsi – che come dice bene Valerio Zanone nel suo L’età liberale, vale a dire di ripensare criticamente alle proprie posizioni, è il tratto distintivo principale del liberalismo – ha portato ad esempio Ralf Dahrendorf, che era stato uno dei personaggi principali della svolta a sinistra del Partito liberale tedesco in tempi di welfare, a denunciare con forte anticipo sui tempi i limiti di questa formula politica, in quanto moltiplicatrice di attese destinate ad essere appagate con un vertiginoso aumento della spesa pubblica e dell’inflazione, o ad essere disingannate. Questo, Dahrendorf lo diceva parecchi anni prima di Niklas Luhmann, il pensatore conservatore che negli anni ottanta è stato eletto a maître à penser pure dalla sinistra italiana. Come fare fronte oggi un problema del genere adottando un concetto debole e liberale di progresso? Possiamo pensare di tornare a una collettività non protettiva o saremo richiesti chiaramente di estendere la protezione sociale su una scala che trascenda i limiti dei paesi sviluppati? Poco fa ho parlato delle varie libertà di movimento che sono all'origine della Comunità Europea, che ne costituiscono, come dire, la costituzione materiale, vale a dire merci, servizi, capitali e persone. Il mondo, non solo la Comunità Europea, ha a questo punto sperimentato il più ampio livello mai raggiunto nella storia della libertà di movimento di merci, servizi e capitali. Il movimento delle persone al contrario non è stato tanto protetto come i suoi tre confratelli. Se nei paesi dell'Occidente rischiamo di soffrire una crisi economica che si traduce in disoccupazione endemica, questo accade altresì perché la concorrenza nell'ambito del mercato del lavoro da parte dei paesi in via d sviluppo è fortissima e può essere tale da non lasciarci strade di scampo, proprio perché il movimento delle persone in larga misura è fortemente controllato. La suddivisione del mondo secondo quel modello che abbiamo ricevuto in eredità sin dalla fine del ‘600, il modello del mondo diviso in una serie di stati sovrani, e che è stata superata e trascesa da una serie di movimenti liberi che passano ben sopra gli stati, in verità è quella che ancora regge il mercato del Copyright ABCtribe.com 135 lavoro mondiale. Le imprese vanno a cercare la manodopera là dove costa meno, dove non è sindacalizzata, quello che pone problemi di concorrenza fortissima ai paesi, come i nostri, in cui al contrario la manodopera costa ed è sindacalizzata. È tale adesso la sintesi del problema, che 20 anni fa fu visto come problema della crisi del Welfare State. Come lo devono fare fronte ai liberali? Questo è un quesito che mi pongo, e vi pongo. Perché non ho la risposta: forse ce l'hanno i più giovani perché hanno più fantasia costruttiva, mentre noi probabilmente possiamo dare un apporto analitico, più che un contributo propositivo. Al momento si parla molto del concetto di cittadinanza, uno dei problemi indispensabili su cui la scienza discute da alcuni anni: ci si chiede se il concetto di cittadinanza debba essere riformulato come concetto transnazionale, uscendo dalla logica nazionalistica alla quale lo si è sempre portato indietro. l problema del diritto al lavoro e della protezione del lavoro, pertanto delle garanzie di welfare a livello mondiale, è al centro dell’agenda della società incostante di adesso. Non possiamo mancare di rispondere ai quesiti che ne derivano. In questo momento, io ho fatto questo esempio dello stato del benessere solamente per dire che non occorre avere paura di misurarsi con il cambiamento, altresì se il mutamento pone dei problemi ai quali non siamo pronti, ai quali non possiamo rispondere con formule tradizionali. Il livello della discussione politica in questo paese è corso giù in modo così vertiginoso negli ultimi anni da far sì che qualunque persona parli in maniera più evoluta rispetto alla media, che si esprime per slogan urlati e spesso per insulti, per ciò medesimo non abbia successo. Ho anche notato però che c'è una sottile paratia che pur sempre mi suddivide da Zanone. Il liberalismo è Locke, e sicuramente Kant, e altresì Tocqueville: si pensa oggi al problema della transnazionalità alla luce dello scritto di Kant per un progetto di pace perenne. Però il liberalismo sono altresì Beccaria e i fratelli Verri, e il garantismo processuale speso per gli imputati deboli, oltre che per quelli forti, come si tende a fare nel nostro tempo in Italia. E in Inghilterra Bentham e tutta la corrente utilitarista e principalmente Stuart Mill (autori che appaiono di riflesso nel libro) e, voglio mettere in risalto, Henrietta Mill, all’origine del femminismo. Si è osservato con qualche amarezza che Mill appare nel libro quasi casualmente, altresì se la simpatia che il libro stesso mi ispira non potrebbe per tale ragione indurre a indirizzare all’autore le critiche dedicato al volumetto di Giorgio Rebuffa. In una recensione che il liberalismo di Rebuffa, il quale giunge pure lui da un'educazione marxista, pare si sia fermato alle libertà civili di Locke: ma dopo le libertà civili ci sono state le libertà politiche, le libertà sociali, le altre tappe del movimento dei diritti umani. Siamo arrivati alla “quinta generazione” di tali diritti e Mill è, nell’Ottocento, la figura centrale di un movimento liberale che ha capito e teorizzato, accanto ai diritti civili e politici, altresì i diritti sociali di cui Thomas Marshall avrebbe parlato un secolo dopo. Copyright ABCtribe.com 136 II Mill liberale puro, che contesta il principio della libertà e della non sovrapposizione nella sfera di ciascuno e dichiara che non si può imporre a qualcuno una concezione della felicità. Ma vicino al Mill del saggio sulla libertà vi è il Mill che riconosce la libertà del prossimo, vi è il Mill che critica le successioni mortis causa in maniera più aspra di quanto non abbia fatto lo stesso marxismo, dando vita ad una corrente che ha ritrovato in Italia due grandi interpreti con Eugenio Rignano e il medesimo Luigi Einaudi. Certo, ci sono mille maniere per evadere le imposte di successione, ma il principio fondamentale, per cui non è accettabile che la libertà di una generazione divienga privilegio della seconda generazione e più ancora della terza in virtù dell'accumulazione di potere e di ricchezza, tale è il principio di John Stuart Mill. È opinione diffusa che il liberalismo è altresì quella speciale corrente di socialismo che in Inghilterra è andato sotto il nome di socialismo fabiano e, vicino ad esso, tutta quella grande corrente di sinistra liberale e di social liberalism che è ubicata in effetti sotterranea e raramente viene riscoperta. Liberale è sicuramente Hobhouse, altresì se un po’ troppo passionale in alcune sue analisi. E Carlo Cattaneo e certamente Benedetto Croce, come sappiamo tutti, ma altresì Max Weber, di cui Zanone parla principalmente per l' “ascetismo capitalistico” de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ma Weber è pure altro, è la ripartizione dei compiti dello scienziato da quelli del politico e soprattutto l’autore di Economia e società, colui che ha riformulato e rifondato la sociologia assumendo per base l’azione volontaria degli individui, da interpretare nel suo “senso” e da chiarire nella sua ampia eziologia, e precedendo di 30 o 40 anni la sociologia interpretativa. Weber è un autore che ha saputo meravigliosamente collocarsi su una ubicazione intermedia equilibrata tra la tradizione tedesca di liberalismo nazionalista e quella similmente tedesca, ma non meno viva, di liberalismo libertario. Di sicuro è liberale Einaudi, il maestro di tutti noi, e lo è pure Gobetti, ma lo sono altresì Carlo Rosselli, e Guido Calogero, e sicuramente Hans Kelsen che con grande piacere ho trovato nel libro di Zanone, e con lui per natura Bobbio e la Arendt e Dahrendorf, ma altresì Jo Grimond, quella grande personalità che fu il leader del liberalismo radicale inglese negli anni Cinquanta e Sessanta, il teorico del “riallineamento della sinistra” su basi liberali; e certo John Rawls, ma altresì e principalmente Bertrand Russell e, in Francia, quel grande epistemologo che è Raymond Boudon. Alcuni di questi, ripeto, sono stati rinvenuti casualmente o meno occasionalmente nel libro di Zanone, ma non si reperita la nettezza auspicata, quel filone che confluisce in quella che comunemente viene chiamata “ critica liberale”. 5. Aforismi e citazioni i di John Stuart Mill Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo. (da Autobiografia) Copyright ABCtribe.com 137 È meglio essere un uomo malcontento che un maiale soddisfatto, essere Socrate infelice piuttosto che un imbecille contento, e se l'imbecille e il maiale sono d'altro avviso ciò dipende dal fatto che vedono solo un lato della questione. (da L'Utilitarismo) Il senso del governo rappresentativo è che tutto il popolo o una numerosa parte di esso eserciti, tramite deputati periodicamente eletti, il potere di controllo ultimo che in ogni costituzione deve trovare il suo soggetto. Deve possedere tale potere nella sua pienezza. Deve essere padrone, a suo piacimento, di tutte le funzioni del governo. (da Considerazioni sul governo rappresentativo, p. 82) La costante abitudine a correggere e a completare la propria opinione confrontandola con quelle degli altri, non solo non causa dubbi o esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. (citato in Giovanni Boniolo et alii, Filosofia della scienza, a cura di Corrado Sinigaglia, Cortina, Milano 2002) La distribuzione di cariche amministrative il piú estensivamente possibile nella massa popolare costituisce, per il nostro autore, il solo mezzo per renderla atta a un'efficiente partecipazione alla direzione della cosa pubblica. [...] Comunque possano essere strutturate altre costituzioni, il carattere di un popolo sarà, ne siamo persuasi, essenzialmente volgare e servile, ove lo spirito pubblico non venga coltivato grazie a una partecipazione estensiva dei piú agli affari del governo. (da Sulla «Democrazia in America», pp. 111-3) La società ha pieno titolo di abrogare o alterare qualsiasi particolare diritto di proprietà che in base ad adeguata riflessione reputi ostare al bene pubblico. E certamente il terribile atto di accusa che, come abbiamo visto in un capitolo precedente, i socialisti sono stati in grado di montare contro l'attuale ordine economico della società richiede piena considerazione di tutti i mezzi attraverso i quali l'istituzione della proprietà privata possa essere fatta funzionare in maniera più proficua per quella ampia porzione della società che attualmente beneficia in minima parte dei suoi diretti vantaggi. (citato in Paul Ginsborg, La democrazia che non c'è, Einaudi, 2006, p. 150) Ma la virtù vera degli esseri umani è quella di saper vivere insieme come degli uguali; di non pretendere altro per sé, tranne ciò che concedono con pari liberalità a tutti gli altri; di considerare qualsiasi posizione di comando come una necessità eccezionale, e in ogni caso temporanea; e di preferire, ogni qual volta sia possibile, un tipo di associazione di individui che consenta alternanza e reciprocità nel guidare ed essere guidati. (da L'asservimento delle donne, in La libertà, L'utilitarismo, L'asservimento delle donne, p. 397) Quanto è vero che innaturale in genere significa solo inconsueto e che tutto ciò che è usuale appare naturale. (da L'asservimento delle donne, in La libertà, L'utilitarismo, L'asservimento delle donne, p. 348) Se per opporci aspettiamo che la vita sia ridotta quasi completamente a un unico tipo uniforme, qualsiasi deviazione da quel tipo verrà considerata empia, immorale, e addirittura mostruosa e contro natura. Gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si sono disabituati a vederla. (da La libertà, in La libertà, L'utilitarismo, L'asservimento delle donne, p. 167) Trovandosi tutti più o meno sul medesimo piano per quanto riguarda le condizioni economiche, e similmente dal punto di vista dell'intelligenza e del sapere, l'unica autorità che ispira una involontaria deferenza è quella del numero. [...] "La fede nell'opinione pubblica", dice Tocqueville, "diventa in quelle contrade una specie di religione, e la maggioranza è il suo profeta". (da Sulla «Democrazia in America», pp. 128-9) Chi conosce solo la propria visione del caso ne sa poco. Copyright ABCtribe.com 138 Chiunque riceve la protezione della società le è debitore per il beneficio ricevuto. La felicità non è un fine da perseguire avidamente, ma un fiore da cogliere sulla strada del dovere. La guerra è una cosa brutta, ma non la cosa più brutta. Molto peggiore è lo stato decadente e degradato della morale e del sentimento patriottico che porta a pensare che non ci sia nulla per cui valga la pena di fare la guerra. Colui che non ha niente per cui sia disposto a uccidere, niente che sia più importante della propria sicurezza personale, è un misero essere che non ha altra possibilità di essere libero se non quella di diventarlo o di restarlo grazie agli sforzi di uomini migliori di lui. La libertà dell'individuo deve essere limitata solo fino a questo punto: che egli non deve rendersi una seccatura per gli altri. La fatale tendenza dell'umanità di smettere di pensare alle cose quando non sono più dubbie è la causa della metà dei suoi errori. La libertà consiste nel fare ciò che si desidera. La maggior parte dei componenti il sesso maschile non riesce a tollerare l'idea di vivere con qualcuno alla propria altezza. Non esiste la certezza assoluta, ma c'è abbastanza sicurezza per gli scopi della vita umana. Tutte le cose buone che esistono sono il frutto dell'originalità. 5.1 Saggio sulla libertà, Citazioni dal libro Quindi, la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta, con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. (1981, p. 27) Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (1981, p. 29) Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a permettere differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze al mantenimento del terreno che in quel momento occupava, le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire. Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i diritti dell'individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati rivendicati su un'ampia base di principio, e la pretesa da parte della società di esercitate la propria autorità sui dissenzienti è stata apertamente Copyright ABCtribe.com 139 contestata. (1981, p. 30) Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. (1981, p. 33) Ciascuno è l'unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale. (1981, p. 36) L'inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri, come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata da alcuni dei migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all'umana natura, che quasi sempre è frenata soltanto dalla mancanza di poere; e poiché quest'ultimo non è in diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che, se non si riesce a erigere una solida barriera di convinzioni morali contro di esso, nella situazione attuale del mondo il male si estenda. (1981, p. 37-8) Mentre ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono cautelarsi dalla propria fallibilità, o ammettere la supposizione che una qualsiasi opinioni di cui si sentano del tutto certi possa essere un esempio di quell'errore di cui si riconoscono soggetti. (1981, p. 41) Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi cosí certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni piú giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. (1981, p. 45) È sentimentalismo inutile pensare che la verità semplicemente in quanto tale abbia un qualche potere intrinseco, negato all'errore, di prevalere contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno piú zelo per la verità di quanto non ne abbiano spesso per l'errore, e un'adeguata applicazione di sanzioni legali o anche soltanto sociali riuscirà in generale ad arrestare la diffusione di entrambi. Il reale vantaggio della verità è che quando un'opinione è vera la si può soffocare una, due, molte volte, ma nel corso del tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno, finché non riapparirà in circostanze che le permetteranno di sfuggire alla persecuzione fino a quando si sarà sufficientemente consolidata da resistere a tutti i successivi sforzi di sopprimerla. (1981, pp. 53-4) [...] l'asserzione di opinioni bollate dalla società è in Inghilterra molto meno comune di quanto in molti altri paesi non lo sia l'ammissione di idee per cui si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo coloro che la condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione è in questo campo altrettanto efficace che la legge: non vi è differenza tra imprigionare un uomo e impedirgli di guadagnarsi da vivere. (1981, p. 57) Chi può calcolare quanto perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti ma uniti a caratteri deboli che non osano sviluppare alcuna linea di pensiero audace, vigorosa, indipendente, per timore di ritrovarsi con qualcosa che potrebbe venire considerato irreligioso o immorale? (1981, p. 59) In ogni campo in cui è possibile una differenza di opinioni, la verità dipende dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti. Anche nella filosofia naturale, è sempre possibile fornire un'altra spiegazione degli stessi fatti; una teoria geocentrica invece di quella eliocentrica; il flogisto invece dell'ossigeno [...]. (1981, p. 62) Questa disciplina è cosí essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se una verità fondamentale non trova oppositori, è indispensabile inventarli e munirli dei piú validi argomenti che il piú astuto avvocato del diavolo riesce ad inventare. (1981, p. 63) Copyright ABCtribe.com 140 [...] fatale la tendenza degli uomini a smettere di pensare a una questione quando non è piú dubbia [...] è la causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo ha giustamente parlato del "profondo sonno dogmatico indotto da un'opinione definitiva". [...] se vi sono persone che negano un'opinione generalmente accettata, o che lo farebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole. (1981, pp. 69-72) [...] tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la multilateralità, l'eccezione; quindi anche nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità generalmente tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che dovrebbe assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità parziale e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che il nuovo frammento di verità è piú richiesto, piú adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce. (1981, p. 73) Credo che se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle di derivazione esclusivamente cristiana debbano coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non costituisca un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo intellettuale umano gli interessi della verità esigono la presenza di opinioni diverse. (1981, p. 78) La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnato, ma un albero, che ha bisogno di crescere e di svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una persona vivente. (1981, p. 88) [...] è utile che [...] vi siano differenti esperimenti di vita [...] e che la validità di modi di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia [...] che vi sia la piú ampia libertà di svolgere ogni attività inconsueta affinché col tempo emergano chiaramente quelle che meritano di diventare consuetudini. (1981, pp. 85, 97) L'originalità è l'unica cosa di cui coloro che originali non sono non possono comprendere l'utilità. Non vedono a che cosa gli serva: e come potrebbero? Se lo potessero, non si tratterebbe più di originalità. (1981, p. 95) Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la libertà è l'unico fattore infallibile e permanente di progresso, poiché fa sí che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui. (1981, p. 101) L'Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme. (1981, p. 104) Assumersi questa responsabilità – dare una vita che può essere una sciagura o una fortuna –, senza che l'essere che riceve la vita abbia almeno le normali probabilità di condurre un'esistenza desiderabile, è un delitto contro di lui. (1981, p. 144) Se vogliamo avere dei funzionari abili e efficienti – soprattutto capaci di generare innovazioni e disposti a accettarle –, se non vogliamo che la nostra burocrazia degeneri in una pedantocrazia, l'entità burocratica non deve inglobare tutte le occupazioni che formano e sviluppano le facoltà necessarie al governo degli uomini. (1981, p. 150) [...] la massima disseminazione di potere che non vada a scapito dell'efficienza, e la massima centralizzazione, e diffusione dal centro, dell'informazione. (1981, p. 151) I mali cominciano quando il governo, invece di far appello ai poteri dei singoli e delle associazioni, si sostituisce ad essi; quando invece di informare, consigliare, e talvolta denunciare, impone dei vincoli, Copyright ABCtribe.com 141 ordina loro di tenersi in disparte e agisce in loro vece. [...] A lungo termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono [...] uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per fare funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire. (1981, p. 153) Non possiamo mai essere certi che l'opinione che tentiamo di soffocare sia falsa; e se ne fossimo certi, soffocarla sarebbe ancora un male. La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante. Quella che viene chiamata l'opinione pubblica non è sempre l'opinione del medesimo tipo di pubblico. Il valore di uno stato, a lungo andare, è il valore dei singoli che lo compongono. Piú penso al progetto di un volume sulla Libertà, piú mi convinco che sarà letto e farà sensazione. (citato in F. A. Hayek, J.S. Mill and H. Taylor. Their friendship and subsequent marriage, Routlédge and Kegan Paul, London, 1951, p1981, p. 222-3; ripreso in 1981, p. 7) La Libertà probabilmente sopravviverà piú a lungo di qualsiasi altro mio scritto. [...] Ciò perché l'unione della sua [di Harriet Taylor] mente con la mia ha fatto di quel saggio una specie di manuale filosofico su una singola verità cui i cambiamenti verificantesi progressivamente nella società moderna tendono a dare un rilievo sempre più forte: vale a dire l'importanza per l'uomo e la società si una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti. (da Autobiografia, a cura di F. Restaino, Laterza, Bari, 1976; 1981, p. 197) La «rivoluzione copernicana» per la sinistra consiste allora precisamente nel superamento del «dogma dei sistemi centrati» e nel riconoscimento del sistema sociale come un sistema di interazioni tra gruppi (o individui) con «funzioni di utilità» diverse (e usualmente in conflitto), tra cui nessuna rappresenta gli interessi universali dell'intera umanità. Problema della sinistra in quanto forza di governo diventa allora quella di «incollare» tali funzioni di utilità individuali (o di gruppo) in una funzione di scelta sociale che massimizzi l'utilità media, soggetta al solo vincolo di compatibilità con il principio di von Humboldt. Problema della sinistra in quanto forza di opposizione diventa invece quello di rappresentare politicamente un'opportuna media delle funzioni di utilità di una parte sociale: quella dei più svantaggiati. (Giorello, Mondadori, la prefazione, 1981, p. 21). Copyright ABCtribe.com 142