ISSN 1128-3599
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La Seconda Repubblica Romana: 9 febbraio 1849 - 2 luglio 1849
“Il Vascello si sostiene fino all'ultimo per la bravura di Giacomo Medici e della
sua gente; e quando si abbandonò alla fine, non rimaneva di quell'esteso edifizio
che un mucchio di rovine”. (Dalle memorie di Giuseppe Garibaldi).
N. 83
Gennaio
Febbraio
Marzo
2009
ISSN 1128-3599
Periodico fondato nel 1992
N. 83
Gennaio, Febbraio, Marzo 2009
Spedizione in abbonamento postale 50% periodico bimestrale
SOMMARIO
1
Editoriale
Stefano Bisi, Presidente Collegio Circoscrizionale MMVV della Toscana
rispettosi dell’ordinamento dello Stato e delle Leggi
della Repubblica Italiana, vivono.
Nel giugno 1849 alcune centinaia di volontari e
garibaldini furono protagonisti della strenua
resistenza del Gianicolo e della difesa della villa del
Vascello, oggi sede del Grande Oriente d’Italia. Con
una tattica basata su rapidi assalti alla baionetta,
repentini ripiegamenti per riorganizzarsi e immediati
contrattacchi, poche centinaia di uomini sotto il
comando di valorosi come Giacomo Medici riuscirono
a fronteggiare e tenere le posizioni rispetto allo
strapotere militare delle migliaia di soldati regolari
francesi guidati dal generale Oudinot. Pochi e male
armati, i volontari di Porta San Pancrazio ebbero per
rincalzo il coraggio e la consapevolezza della giusta
causa per la quale combattevono: la libertà, la
democrazia e l’Italia unita. Tennero le posizioni fino
all’estremo sacrificio. Il massacro operato dai
francesi, che cannoneggiarono per giorni la villa, fu
immane. Sarebbe stato probabilmente evitabile se i
garibaldini, ripiegati al di là delle mura aureliane
fossero stati impegnati in una sortita di soccorso ai
valorosi del Vascello. Ma la strategia politica di
Mazzini favorì l’immagine di sacrificio e unità di
questi uomini che volevano ardentemente l’Italia
unita e per essa si sacrificavano. Di acqua sotto i
ponti del Tevere ne è passata tanta in oltre 150 anni.
Il Vascello e Villa Corsini
Il Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili
della Toscana, in linea con quanto avviene a livello
nazionale nella Massoneria del Grande Oriente
d’Italia, ha delineato una serie di interventi finalizzati
a diffondere i valori della nostra Istituzione dentro e
fuori di essa. Seminari e momenti di riflessione
interni coinvolgono i Fratelli toscani nell’intento di
accrescere la cultura esoterico-iniziatica e di crescita
spirituali oltre i canonici momenti di incontro in
Loggia. Sul fronte esterno poi, numerosi sono gli
appuntamenti che i singoli Orienti ed il Collegio
organizzano per rafforzare la conoscenza pubblica
della Massoneria di Palazzo Giustiniani. Una politica
in trasparenza che mira a dare opportuna visibilità a
quanto facciamo o ad assistere e supportare nostri
compagni di viaggio del mondo profano. Ne sono
esempio le tante iniziative di solidarietà, raccolte di
fondi, borse di studio d’onore, finalizzate ad alleviare
momenti di difficoltà che per noi possono apparire
relativamente piccoli, ma assai gravosi per chi si trova
ad affrontarli. L’azione di solidarietà e di diffusione di
valori universali ha visto protagonista l’intera Toscana.
Occorre non disperdere questo patrimonio e raccogliere
tutte le forze in campo per continuare l’opera del
Vascello per il bene dell’umanità.
Il Vascello, quello che resta oggi di villa Medici
del Vascello, una porzione ridotta dell’antica villa
Givaud, è ancora là, baluardo di valori riassunti in
quel Tricolore repubblicano che sventola ogni giorno
sulla terrazza della sede del Grande Oriente d’Italia.
I volontari lombardi, emiliani, toscani di allora, che
resero possibile l’avvento della Repubblica Romana
sullo Stato della Chiesa, sono oggi moltiplicati e
diffusi in tutte le regioni d’Italia. La memoria e la
volontà dei migliori italiani di allora non devono però
essere disperse. Occorre proseguirne l’opera e
rinnovarne il pensiero con azioni moderne e
attualizzate ai tempi in cui i massoni, buoni cittadini
Sede del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani
2
Nota di Redazione
La Seconda Repubblica Romana: 9 febbraio 1849-3 luglio 1949. Il 1849 fu uno degli anni cruciali del Risorgimento,
il periodo storico che portò alla formazione di un’Italia unita, libera e indipendente. A Roma, sotto la spinta di moti
popolari che chiedevano libertà e democrazia, crollò il regime pontificio e il Papa Pio IX fuggì a Gaeta. Il 9 febbraio 1849
un’Assemblea eletta con suffragio universale proclamò la Repubblica e il mese successivo ne affidò la guida a un
Triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Come bandiera, la Repubblica adottò il
tricolore. Intanto, da Gaeta il Papa invocava l’intervento delle potenze europee per restaurare il potere temporale.
Francia, Austria, Spagna e Regno delle Due Sicilie, paesi cattolici retti da regimi assoluti o conservatori, attaccarono il
territorio della Repubblica da più parti. Un corpo di spedizione francese forte di 7000 uomini guidato dal gen. Oudinot
sbarcò a Civitavecchia. A difesa della Repubblica affluirono in Roma giovani da ogni parte d’Italia e d’Europa.
Garibaldi vi portò i suoi volontari. Il comando del settore più esposto, individuato nel Gianicolo, fu affidato a Garibaldi,
che poteva contare solo su 4300 uomini e per giunta male armati. Ma era forte in tutti la determinazione di difendere ad
ogni costo la democrazia, la libertà, la Repubblica. Il 30 aprile i Francesi giungevano alle porte di Roma. Ritenendo di
incontrare scarsa resistenza, i Francesi avanzarono allo scoperto attaccando le mura vaticane, ma furono prima fermati
dall’intenso fuoco dei difensori, e poi vennero aggrediti sul fianco da Garibaldi, che uscito da Porta San Pancrazio
guidava un furioso assalto alla baionetta.
I Francesi furono costretti a ritirarsi. Venne concordata una tregua d’armi. L’esercito repubblicano si volse allora
contro le truppe borboniche, che avevano invaso il territorio della Repubblica arrivando sino ai Castelli Romani.
Garibaldi li sconfisse a Palestrina e a Velletri, ricacciandoli oltre il confine. Nel frattempo Oudinot aveva ricevuto
ingenti rinforzi, portando i suoi effettivi a 30.000 uomini. Il 1° giugno denunciò la tregua, comunicando che avrebbe
attaccato il 4 giugno. Attaccò invece nella notte tra il 2 e il 3 giugno, cogliendo di sorpresa i difensori. Riuscì ad
impossessarsi di punti chiave della difesa esterni alla città. Particolarmente grave era la perdita di Villa Corsini detta dei
“Quattro Venti” che, situata su di una piccola altura fuori Porta San Pancrazio, dominava le mura. Le truppe di Garibaldi
si lanciarono in una serie di sanguinosi contrattacchi. La Villa fu presa e persa più volte, ma infine restò in mano ai
francesi. Roma venne stretta d’assedio e bombardata. La popolazione sopportava con coraggio i sacrifici e contribuiva
alla difesa. La Repubblica aveva ormai i giorni contati. Pure continuò a combattere e a resistere con tenacia nonostante
la schiacciante superiorità delle forze nemiche. I francesi aprirono le prime brecce il 21 giugno; il 29 e 30 giugno
sferrarono l’attacco finale, sfondando le difese. Mentre Garibaldi riuniva i suoi uomini per l’estrema difesa, in città si
correva alle barricate. Ma l’Assemblea per non sottoporre Roma a inutili distruzioni decretò la fine della resistenza.
Garibaldi non accettò la resa e con un contingente di armati iniziò la ritirata verso Venezia, portando con sé la moglie
Anita, incinta e malata. Mazzini riprese la via dell’esilio. Il 3 luglio, mentre le truppe francesi entravano in Roma, dal
balcone del Campidoglio veniva proclamata la Costituzione della Repubblica Romana
La difesa del Vascello. La settecentesca villa Givaud, denominata il Vascello per la sua forma simile a quella della
prora di una nave, fu uno dei luoghi in cui più aspra divampò la lotta nel giugno del 1849 durante l’ultima fase della
difesa di Roma. In essa si distinse particolarmente Giacomo Medici, uno dei migliori comandanti garibaldini. Nato a
Milano nel 1817, Medici già possedeva una notevole esperienza di guerra, avendo combattuto prima in Spagna con i
Carlisti, poi in Uruguay con Garibaldi e, infine, durante la Prima guerra d’indipendenza nel 1848 e 1849 alla testa di
volontari lombardi. Dopo la sconfitta di Novara, Giacomo Medici con la sua Legione, composta di quattro compagnie
di circa 300 uomini per la maggior parte lombardi appartenenti a classi agiate, si era recato prima in Emilia, poi in
Toscana. Infine, il 16 maggio, era giunto a Roma mettendosi a disposizione della Repubblica. Il 26 maggio gli fu
conferito il grado di maggiore e la Legione Medici, che aveva assunto la denominazione di Battaglione Volteggiatori
lombardi, prese quella di Battaglione Volteggiatori italiani. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno, le truppe francesi
dell’Oudinot, rotta la tregua che durava da aprile, occuparono di sorpresa Villa Pamphili e Villa Corsini, sistemata
quest’ultima su una posizione dominante i bastioni di Urbano VIII attorno a Porta San Pancrazio, punto chiave
dell’intera difesa di Roma. Garibaldi, a cui era affidata la difesa della riva destra del Tevere, tentò con disperati
contrattacchi di riconquistare Villa Corsini.
L’azione fu però completamente scoordinata e si risolse in un insuccesso. Negli assalti effettuati alla spicciolata
morirono i miglior uomini della Legione garibaldina, del reggimento Unione, dei Bersaglieri lombardi, dei Lancieri
emiliani – tra cui i colonnelli Daverio, Masina, Paolini ed Enrico Dandolo – e venne ferito a morte Goffredo Mameli. Nel
pomeriggio del 3 giugno entrò in azione Giacomo Medici con i suoi trincerandosi nel Vascello e a Casa Giacometti,
quest’ultima tenuta come caposaldo avanzato da cui tentare una sortita per riconquistare la posizione fondamentale di
Villa Corsini. La resistenza su queste due posizioni fu inaspettata per i francesi. lnfatti, esse erano completamente
dominate dal poggio su cui sorge Villa Corsini e battute ad una distanza inferiore ai 400 metri dalle batterie di artiglieria
che erano state subito schierate e che potevano essere controbattute solo dai cannoni che i difensori avevano
dislocato sul bastione nord e sul bastione Merluzzo contigui a Porta San Pancrazio. La difesa di Casa Giacometti,
3
protrattasi fino al 24 giugno, e del Vascello, fino al 30 giugno, ritardò di molti giorni la caduta di Roma. Infatti, i francesi,
obbligati ad attaccare Roma da ovest per coprire la loro linea dì comunicazioni con Civitavecchia, non poterono
effettuare un attacco diretto contro Porta San Pancrazio e dovettero fare una diversione verso sud-ovest, per muovere
contro i bastioni Centrale e Barberini. Il 4 giugno cominciò l’assedio, che fu condotto in maniera lenta e metodica da
parte dei francesi. Il Medici, soldato rude, aspro e deciso, dimostrò tutta la sua energia e la sua tenacia.
Il suo battaglione fu rinforzato ad intervalli da distaccamenti di bersaglieri del Manara, di finanzieri, di studenti e del
reggimento Unione e si avvalse, per fortificare le due posizioni, anche dell’opera dei popolani volontari guidati da
Ciceruacchio. Giacomo Medici fece collegare con camminamenti e trincee il Vascello con Casa Giacometti e con Porta
San Pancrazio, resistette al bombardamento francese (sul Vascello e su Casa Giacometti cadevano in inedia 400 proietti
al giorno), rimanendo in linea ininterrottamente per quasi un mese e respinse tutti gli attacchi, in particolare uno
effettuato di sorpresa nella notte fra il 20 e il 21 giugno, che aveva in un primo tempo provocato la perdita di Casa
Giacometti. L’azione francese aveva però successo nella notte fra il 21 e il 22 giugno in corrispondenza delle brecce
aperte nei bastioni Centrale e Barberini. Garibaldi. spostatosi nella zona dal suo quartiere generale dislocato a Villa
Savorelli, si rifiutò, nonostante gli ordini di Mazzini, di contrattaccare per tentare di riconquistare i bastioni e si ritirò
sulla seconda linea di difesa sistemata in corrispondenza delle Mura Aureliane. Nella notte fra il 23 e il 24 giugno,
cessata ogni speranza di riconquistare Villa Corsini, fu evacuata Casa Giacometti e i resti del Battaglione Volteggiatori
italiani si rinchiusero nel Vascello e nel giardino della villa. Il 27 il Vascello crollò, seppellendo 20 difensori.
Giacomo Medici riorganizzò rapidamente la posizione e respinse un forte attacco francese. Intanto, la fine della
difesa si avvicinava. Nella notte fra il 29 e il 30 i francesi conquistarono Casa Merluzzo e attaccarono Villa Spada
dove Garibaldi aveva spostato il suo comando e dove morì Luciano Manara. Il 30 mattina Garibaldi, vedendo
approssimarsi il pericolo di un accerchiamento del Vascello, ordinò al Medici di abbandonare la posizione e di
ritirarsi. Il movimento fu eseguito in maniera perfetta e i resti dei Volteggiatori italiani rientrarono a Roma per Porta
San Pancrazio verso il mezzogiorno del 30 giugno. La resistenza della Repubblica Romana cessò il 30 sera, data
nella quale Giacomo Medici fu promosso luogotenente colonnello. Il 2 luglio, ultimo giorno della Repubblica, fu
decorato di medaglia d’oro al valor militare, una delle tre conferite nel corso della difesa di Roma (le altre due
furono concesse una a Garibaldi e l’altra al colonnello Bruzzese). Lo stesso giorno il battaglione fu sciolto e molti
suoi componenti si unirono a Garibaldi nella sua disperata marcia per raggiungere Venezia. L’asprezza della lotta
è dimostrata dall’entità delle perdite subite dai difensori: quasi 300 furono i morti e i feriti gravi, fra cui i due terzi
degli effettivi della Legione Medici. La resistenza, anche senza speranza, che fu condotta su quelle posizioni forse
è stata un controsenso dal punto di vista puramente militare. Senz’altro sarebbe stata più efficace l’azione mobile
che voleva fare Garibaldi nelle retrovie dei francesi. Ma dal punto di vista politico fu senza dubbio saggia la
decisione, ispirata soprattutto da Mazzini, di resistere sul posto quanto più a lungo possibile, per dimostrare al mondo
la volontà dei migliori italiani di unificare e di rendere indipendente la loro Patria. (Nota del Fratello Blasco Mucci).
Il Vascello al termine della battaglia il 30 giugno
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La Repubblica Romana 1848-1849
Vittorio Vanni
Quadro storico e cronologia degli avvenimenti
si a difendere i confini dello Stato temporale della
Santa Sede. L’esercito romano decide di non obbedire al Papa e di difendere le città libere del Veneto,
soprattutto Venezia in quel momento governata da
Manin. Anche Ferdinando di Borbone cambia idea,
e impone alle sue truppe di rientrare a Napoli. Solo
il Generale Pepe, antico patriota, assieme alle “armi
intelligenti”, l’artiglieria e il Genio, rifiuta l’ordine
borbonico e si reca a Venezia, ove ottenne il comando supremo della piazzaforte. L’esercito romano, forte di 10.000 uomini, seppe respingere l’attacco del
corpo d’armata di 20.000 uomini del Nugent a Vicenza, ma non poterono resistere al contrattacco del
Radetzky, che portò l’intero esercito (40.000 uomini)
e nonostante il valore dei romani e dei veneti, il comandante Durando dovette capitolare. La vendetta
degli austriaci contro il primo appoggio alla causa
italiana non tardò. Il Generale Welden passò il Po a
Ferrara, occupò e saccheggiò Ferrara e si presentò
a Bologna, occupandola, nonostante le proteste di
Pio IX. La reazione dei bolognesi fu immediata, l’insurrezione che ne seguì costrinse Welden a ripiegare verso il Po.
Il 1848 rimase a lungo proverbiale per gli sconvolgimenti costituzionali e rivoluzionari che lo contraddistinsero. La lunga marcia delle nazioni europee verso le costituzioni liberali, interrotta dalla Santa Alleanza e la Restaurazione dopo la Rivoluzione
francese e l’Impero trovò la sua più importante tappa già il 12 gennaio del 1848, quando a Palermo iniziò l’insurrezione contro i Borboni. Il 27, seguì a
Napoli la rivoluzione, che costrinse Ferdinando II a
promettere la Costituzione, che fu promulgata l’11
febbraio. Nella stessa data Leopoldo II di Toscana,
cugino dell’Imperatore d’Austria Leopoldo II, concesse a sua volta la Costituzione, ben gradita dalla
stragrande maggioranza dei suoi sudditi. Gli avvenimenti, poi, incalzarono. Il 22 febbraio in seguito ad
una rivoluzione, a Parigi s’instaura la II Repubblica.
Il 13 marzo Vienna insorge. Si depose Metternich,
ultimo gran fautore della Restaurazione europea, colui che negava all’Italia la possibile unificazione definendola come una semplice “espressione geografica”. Il 4 marzo è la data in cui Carlo Alberto concesse agli Stati sardi la Costituzione, il famoso Statuto Albertino. Anche Pio IX, che aveva mosso speranze per la sua prima adesione alla tesi dell’Unità
d’Italia, e benedetto i suoi combattenti, il 14 marzo
concesse lo Statuto. Il 17 marzo i veneziani insorgono, imponendo al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui lo stesso Manin.
Il 18 marzo le cinque giornate di Milano testimoniarono la ribellione dei milanesi all’occupazione austriaca, e umiliarono l’esercito austriaco di Radetzky.
Il 21 marzo Leopoldo II di Toscana dichiara guerra
all’Austria e invia l’esercito, comandato dal generale Lauger e composto da 7.000 soldati, verso il Quadrilatero, la fortezza geografica dell’Austria nel Lombardo-Veneto. Ferdinando di Borbone, con un corpo di 16.000 napoletani, interviene contro i possedimenti austriaci nel Veneto. Il 23 marzo anche Carlo
Alberto invia l’esercito piemontese in direzione di
Verona. Il 24 marzo Pio IX permise la partenza di un
corpo di spedizione da Roma verso Ferrara, al comando del generale Durando, seguito due giorni
dopo da un corpo di volontari, la Legione Pontificia, formata da cittadini degli Stati pontifici dell’Italia centrale.
L’insurrezione a Palermo il 12 gennaio 1848
La presa di distanza di Pio IX dalla causa italiana, che aveva suscitato tanti entusiasmi e speranze,
produsse il distacco e l’ira della popolazione verso
il Papato e una crescente opposizione politica. La
Guardia Civica occupò Castel Sant’Angelo e le porte della città, sette ministri del Governo Costituzionale Pontificio si dimettono, compreso Marco Minghetti. Anche il nuovo governo, presieduto da Terenzio Mamiani, diede le dimissioni per protesta contro il neutralismo pontificio. Un effimero governo
Fabbri fu allora sostituito da quello di Pellegrino
Rossi, vicino al patriottismo risorgimentale, ma comunque moderato nella visione politica. Il Rossi, alla
Intanto, il 29 aprile, con l’allocuzione al concistoro, Pio IX cambia fronte, sconfessando le truppe
pontificie che, a suo dire, avrebbero dovuto limitar-
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impedire il ripiegamento di Winspeare, a cui si era
unito lo stesso Ferdinando, verso Terracina. Con
appena 2.000 uomini, non vi riuscì e l’esercito borbonico completò il proprio ripiegamento anche se
disordinatamente. Nel frattempo anche l’esercito
spagnolo, forte di 9.000 uomini, raggiunse i Borboni
a Terracina. Tutte le truppe della democrazia si concentrarono allora a Roma, assieme a Garibaldi. I francesi assediarono allora Roma con 24.000 soldati e
settantacinque cannoni. L’attacco fu sferrato il 3
giugno, al Gianicolo, che fu conquistato parzialmente dopo un’eroica resistenza dei garibaldini. Roma
fu bombardata per sei giorni e il 26 al Vascello si
compì l’ultima resistenza. La capitolazione era inevitabile, come dichiarò Mazzini il 1° luglio, e Garibaldi
confermò, proponendo la ritirata e affermando che
Dovunque saremo, là sarà Roma. La ritirata non
era quella di un esercito sbandato in fuga, ma quella di un popolo in armi pronto a dirigersi là dove
si poteva combattere per l’Italia. Il 2 luglio Garibaldi trovò in Piazza San Pietro 4.000 armati, 800
cavalleggeri e un cannone. A loro rivolse la famosa allocuzione:
riapertura del Parlamento, il 15 novembre, fu assassinato da un gruppo di popolani democratici, fra cui
vi era anche il figlio di Ciceruacchio, un’influente
capopopolo. La stessa serata Ciceruacchio, assieme
a Carlo Luciano Bonaparte manifestò sotto il Quirinale, portandosi dietro anche un cannone. Nello
scontro con gli Svizzeri, un monsignore fu ucciso. Il
24 novembre il Papa fugge, rifugiandosi nella fortezza borbonica di Gaeta. Il 12 dicembre la Camera decretava la costituzione di una nuova giunta e lo stesso giorno Garibaldi entrava in Roma con una legione di volontari. Il 20 dicembre la giunta del Governo
romano promise la convocazione di una Costituente
romana. Il 26 la giunta sciolse il Parlamento e convocò le elezioni per il 21-22 gennaio 1849. Vinsero i
democratici e furono eletti, fra gli altri, Garibaldi,
Mazzini, Cernuschi e Bonaparte. L’assemblea inaugurò i suoi lavori il 5 febbraio e votò la proclamazione della Repubblica.
La reazione
Nel 1849 Radetzky ottiene la sua grande vittoria a
Novara e Vittorio Emanuele II, il nuovo re, dovette concentrarsi sulla caotica e difficile situazione interna del
suo regno. La Toscana fu occupata dalle truppe austriache e la Repubblica del Guerrazzi rovesciata.
Ferdinando II represse la ribellione siciliana e il generale Filangeri si spinse fino a Bagheria, il 5 maggio, mentre il 14 Palermo capitolava. Libero nel suo regno,
Ferdinando poté inviare il generale Winspeare all’invasione del Lazio, con un corpo di 8.500 uomini e
cinquantadue cannoni. Nel frattempo Napoleone III
preparava un corpo di spedizione per reprimere la Repubblica Romana, in soccorso del papa. Sbarcato a
Civitavecchia, l’esercito francese marciò contro
Roma con 6.000 uomini e senza cannoni, e inoltre
con la pretesa di considerarsi come un “liberatore”.
Napoleone affermava che la sua azione militare era
volta ad impedire “l’intervento della Spagna, dell’Austria, di Napoli”. La ragion di Stato di Napoleone, che tendeva a bilanciare la potenza austriaca
in Europa, così come le pretese di dominio dinastico
dei principi europei, non considerarono un fattore
nuovo: la volontà dei popoli europei alla loro unità, all’autodeterminazione dei loro destini.
Io esco da Roma: chi vuol continuare la
guerra contro lo straniero venga con me …
non prometto paghe, non ozi molli. Acqua
e pane quando se ne avrà.
Conclusioni
Se è pur vero che Garibaldi fu più un uomo d’azione che di pensiero, non possiamo non considerare
che quest’azione sconvolse e molto spesso vanificò
trame politiche e diplomatiche. Nel quadro della reazione europea del 1848-49 l’impresa della Repubblica Romana era certamente prematura, ma prefigurò
e anticipò la necessità di un’Italia unita con la sua
naturale capitale, Roma. Ma ancor più la fine del
potere temporale della Chiesa Romana e l’inizio di
una lentissima, ma ormai possibile battaglia contro
quello clericale. In un tempo in cui il rispetto per la
religione dominante si rifletteva, pragmaticamente o
no, con quello della sua politica, Garibaldi rompe un
secolare tabù. La libertà politica non può che iniziare che dalla liberazione delle coscienze dalla superstizione indotta per motivi di potere dalle casate
sacerdotali, in accordo e in appoggio delle tirannie.
Garibaldi afferma, nelle sue memorie che:
Garibaldi
Garibaldi, presente a Roma già dal dicembre del
1848, si distinse assieme alla sua Legione Italiana e
con il Battaglione universitario alla difesa di Porta
San Pancrazio contro l’assalto di 5.000 soldati (30
aprile 1849) dell’esercito francese. Il 9 maggio i garibaldini combatterono a Palestrina contro l’esercito
borbonico e assieme ai 600 bersaglieri comandati da
Luciano Manara respinse l’attacco del generale Winspeare, costringendolo alla fuga. Garibaldi tentò di
Se sorgesse una società del demonio, che
combattesse despoti e preti, mi arruolerei
nelle sue file.
Garibaldi c’insegna ancora che la forza della ragione e della libertà prevarrà sempre su ogni PapaRe, su ogni dispotismo, su ogni cinico sfruttamento
della paura degli uomini di fronte ai potenti.
6
La ritirata da Roma
Blasco Mucci
Quando i francesi il 29 e 30 giugno 1849 sferrarono
l’attacco finale, sfondando le fortificazioni, Garibaldi
riuniva i suoi uomini per l’estrema difesa e in città si
correva alle barricate. Ma l’Assemblea per non sottoporre Roma ad inutili distruzioni decretò la fine della
resistenza. Garibaldi non accettò la resa, e con un contingente d’armati iniziò la ritirata verso Venezia, portando con sé la moglie Anita, incinta e malata. Mazzini
riprese la via dell’esilio. Il 3 luglio 1849, mentre le truppe francesi entravano in Roma, dal balcone del Campidoglio era proclamata la Costituzione della Repubblica
Romana. Si trattava di una “uscita dalla città”, con
quante forze combattenti avessero voluto seguirlo verso quella parte degli Stati della Chiesa non occupati
dalle truppe francesi. Lo scopo dichiarato sarebbe stato “portare l’insurrezione nelle province”. A tal fine, la
mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in Piazza San Pietro, il famosissimo discorso: “Io esco da Roma: chi
vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga
con me. Non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e
pane quando se ne avrà”. Dette appuntamento per le
18,00 in Piazza San Giovanni, trovò circa 4000 armati
con ottocento cavalli e un cannone e, alle 20,00, uscì
dalla città.
cesso al Lazio (Rieti era parte dell’Umbria) e giunse,
con un largo giro, a Terni l’8 luglio. Qui raccolse
altri 900 volontari guidati dal colonnello Hugh
Forbes, un inglese sposato con una nobile senese,
che viaggiava assieme al figlio adolescente. Da Terni
mosse verso nord, sulla strada di Perugia, ma si fermò a mezza strada, a Todi, da dove svoltò a sinistra,
su Orvieto. Di lì, prese la vecchia strada per Chiusi
e, ancora una volta, si fermò a mezza strada, a Città
della Pieve ai confini fra Stato della Chiesa e
Granducato di Toscana. Il 17 luglio era a Cetona e di
lì entrò in Val di Chiana. Prese a percorrerla sul lato
occidentale, portandosi a Montepulciano, il 20 luglio,
dove trovò le porte chiuse e la popolazione in armi.
Passò allora sul lato orientale e ricevette ben altra accoglienza, il 21 luglio, a Castiglion Fiorentino.
L’Oudinot aveva almeno due ottime ragioni per
permettere tal esodo armato. Anzitutto esso liberava
la città da tutti gli “esagitati”, della cui reazione alla
prossima occupazione militare era sostanzialmente imprevedibile e inoltre lo esonerava da ogni incombenza
rispetto al trattamento degli eventuali prigionieri. I
volontari, in ritirata attraverso i territori appena
rioccupati dagli austriaci del feld-maresciallo Costantino
D’Aspre, avrebbero subito da loro – che restavano,
dopotutto, dei nemici “ereditari” della Francia – le vendette e le brutalità. È perfino possibile immaginare
che Napoleone ed il suo sottoposto, nella grande
ipocrisia che caratterizzò l’intera loro azione in quei
mesi, abbiano realmente sperato che il massacro che
il D’Aspre avrebbe fatto dei volontari, poteva far
dimenticare le gravi colpe che la Francia si era assunte nei confronti della causa nazionale italiana.
Un calcolo che non deve apparire del tutto mal riuscito, se si considera il generale favore con cui nel
1859 fu accolta, faute de mieux, l’alleanza del Cavour
con l’ormai imperatore Napoleone III.
Dopo quasi tre settimane di marce forzate, la colonna si era ridotta a circa 2000 uomini, causa le molte
diserzioni, del tutto normali, d’altronde, in un esercito
volontario, così lontano dalla base di partenza ed in
territorio ostile; oltre al Forbes, infatti, nessun gruppo
di volontari si era unito alla marcia. La controprova
definitiva venne la sera del 23, quando Garibaldi si
presentò davanti ad Arezzo, che trovò chiusa e decisa
a tentare una difesa. La città era, in realtà, difesa da
una guarnigione assai minuta, limitata com’era a 90
austriaci e 260 borghesi della guardia nazionale. Ma,
come dimostrato dai fatti di Montepulciano, Garibaldi
non aveva nessuna intenzione di assaltare una città.
Uscito dalla città la sera del 2 luglio 1849 Garibaldi
si diresse verso sud-est, sulla Casilina, manifestando di recarsi a Valmontone, ma per strada girò a
nord, verso Tivoli, arrivando a Montrotondo il 4 luglio. Monterotondo era considerata la porta d’ac-
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colonna giunse il 27, poté rifocillarsi e riposare prima
di aggredire il passo. Da notare che Sansepolcro faceva parte del Granducato di Toscana, San Giustino dello Stato della Chiesa. A sera, avvicinandosi il contingente austriaco che da Monterchi aveva fatto il giro
per Sansepolcro, i volontari cominciarono la risalita del
passo, raggiunto verso la mezzanotte, ove bivaccarono.
Poi proseguirono oltre, sulla strada di Urbino. Il 29
erano a Sant’Angelo in Vado. Lì dovettero affrontare
un combattimento e, ancora una volta, Garibaldi cambiò percorso, non raggiunse Urbino e girò verso nord,
raggiungendo Macerata Feltria. Di lì tentò di passare
l’Appennino, ma trovò ancora resistenza e si rifugiò, il
31 luglio, nel territorio neutrale della Repubblica di San
Marino che concesse loro asilo. Il locale governo trattò con gli Austriaci un’amnistia per i volontari, contro
il disarmo. Ma non v’era molto da fidarsi delle ordinanze del D’Aspre e del Radetzky che non offrirono
alcuna preliminare garanzia come dimostrava il comportamento dei comandanti le colonne lanciate all’inseguimento, i quali, a più riprese, avevano fatto fucilare i volontari catturati o dispersi (avvenne sicuramente sulla salita dello Scopetone e di Bocca Trabaria).
Garibaldi probabilmente a ragione, non si fidò e, con
circa un quarto dei mille volontari con i quali era giunto a San Marino, dopo la mezzanotte del 31 luglio, uscì
verso la foce del Rubicone.
La sua era una spedizione di guerriglia ed intendeva
sollevare le popolazioni, non certo combatterle. Si limitò, quindi, ad accamparsi sotto le mura, sulla collina di
Santa Maria, ed a condurre, domenica 22, un’oziosa
trattativa con il Guadagnoli, rappresentante degli aretini.
A questo punto le intenzioni di Garibaldi dovettero
farsi un poco più chiare. Egli era uscito da Roma dichiarando di voler “portare l’insurrezione nelle province” dello Stato della Chiesa. Ma, a questo punto del
tragitto, dovette apparirgli ormai chiara la velleitarietà
della speranza di sollevare le popolazioni. Opposto a
forze tanto imponenti, e di fronte all’evidente fallimento dell’ipotesi guerrigliera, Garibaldi passò al piano B
e stabilì di raggiungere un porto dell’Adriatico, per
imbarcarsi e raggiungere Venezia assediata. Ciò non
toglie che i suoi avversari l’avessero preso molto sul
serio. La sua marcia in Toscana metteva direttamente
in causa il feld-maresciallo Costantino D’Aspre, che si
trovava quale comandante delle truppe d’occupazione
in Toscana e dell’esercito toscano, in via di riorganizzazione. L’anno precedente, nelle brughiere dell’allora
provincia di Como egli aveva imparato a temere il guerrigliero e, avvertito della marcia in corso, scriveva:
Tutta l’Italia centrale sarebbe caduta nelle
mani di un avventuriero militare, al quale
il proprio nome e l’influenza avrebbe dato
i mezzi per una nuova insurrezione nel
disgraziato Paese.
Qui, giunto verso le 20,30 in località Gatteo, entrò
in Cesenatico, dove disarmò i gendarmi un piccolo presidio austriaco e si impossessò di tredici barche da
pesca, sulle quali, la mattina del 3 agosto, s’imbarcò
alla volta di Venezia. La flottiglia navigò lungo tutta la
Romagna, sino a poco sopra Comacchio quando fu
intercettato da una squadra austriaca, composta dal
brigantino Oreste, e due golette. Il cannoneggiamento
successivo, costrinse alla resa otto barche, con 151
volontari e 11 ufficiali, mentre la barca di Garibaldi si
arenava, tra Volano e Migliavacca, seguita dalle superstiti quattro. Da lì i superstiti si divisero in piccoli
gruppi. Gli uomini del D’Aspre, a cominciare dal generale Carlo Gorzkowski, non si risparmiarono neppure in
quest’ultima fase e ordinarono di fucilare tutti i fuggiaschi che riuscivano a catturare, come già avevano
operato con il capitano romagnolo Basilio Bellotti e
altri, il 29 luglio. Accadde così che fossero fucilati, il
10 agosto, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo, appena
tredicenne e il sacerdote Stefano Ramorino (insieme
ad altri cinque), nonché Ugo Bassi e Giovanni Livraghi,
catturati a Cento, portati prigionieri a Bologna e lì fucilati l’8 agosto. Nel complesso è possibile affermare che
il feld-maresciallo diede un contributo determinante alla
composizione del più nobile martirologio del Risorgimento italiano. Garibaldi, invece, si attardò nelle zone
paludose, rallentato dalla moglie Anita, incinta ed ammalata. Insieme al capitano Giovanni Battista Culiolo
detto Leggero, furono soccorsi da un paesano, che li
ricoverò in una capanna. Culiolo ebbe poi l’incredibile
Non risparmiò, quindi, le forze e dedicò, alla caccia
dei circa 2000 superstiti della colonna uscita da Roma,
la concentrazione di una intera armata che, al completo, contava almeno 25000 fanti, 30 cannoni e 500 cavalli. L’indomani Garibaldi fu avvisato dell’avvicinarsi
di una colonna inviata dal D’Aspre da Firenze e comandò, al tramonto, un’immediata ripartenza. Bivaccò
la notte sulla piccola sella dello Scopetone, sopra
Arezzo. Di lì si mosse veloce, arrivando, già il 24 a
Citerna dove passarono la notte. Qui fu informato che
anche Città di Castello aveva chiuso le porte e, in
soprannumero, una colonna di circa 1200 austriaci proveniente da Perugina aveva già raggiunto Umbertide
(allora Fratta), circa 20 km più a sud. Il 25, con la colonna dei volontari sempre ferma a Citerna, giunse
notizia di una seconda colonna di 2000 austriaci, in
marcia da Arezzo. Il 26 questi occupano Monterchi,
giusto di fronte a Citerna, ove avvenne un piccolo
scontro fra le avanguardie.
Il comandante austriaco, tuttavia, non cercò ulteriori contatti e, la sera del 26, i volontari scesero verso
il Tevere, per passare oltre verso il passo di Bocca
Trabaria, imboccando la strada di Urbino, verso l’Adriatico. La popolazione, comunque, li accolse festosamente, prima Ciceruacchio a Sansepolcro, eppoi lo stesso
Garibaldi nel vicino villaggio di San Giustino, ove la
8
Il generale abbandonò la salma della moglie, senza
neppure poterla seppellire e seguì i suoi salvatori, prima nel borgo di Sant’Alberto, poi nei campi, nei pressi
degli argini del Reno. Il 6 giunse al capanno, ancora
conservato, che da allora porta il suo nome. Garibaldi
poté indossare l’abito di un contadino e prese a girovagare di cascinale in cascinale. Non gli mancò, però,
mai l’aiuto di patrioti ed ammiratori: amministratori delle fattorie, mezzadri e fittavoli. Essi lo fecero passare,
sempre accompagnato dal Culiolo, il 9, a Ravenna. Di
lì a Cervia e poi Forlì, lasciata il 16. Da Forlì prese a
risalire l’Appennino e il 19 agosto era a Modigliana,
rifugiato presso il sacerdote don Lorenzo Verità. Questi lo ricoverò, e lo condusse per tre giorni lungo i
sentieri dell’Appennino tosco-romagnolo. Il 26 era a
Prato, poi a Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Volterra e
Pomarance. A San Dalmazio sostarono quattro giorni,
poi, attraverso Scarlino, giunsero in Maremma. Il 2 settembre giunsero, infine, in località Cala Martina, nel
golfo di Follonica, ove s’imbarcarono su un battello
da pesca, guidato da Paolo Azzarini. Questi li trasbordò a Cavo, il paese situato all’estremità nord-orientale
dell’Isola d’Elba, ove ottennero la patente di sanità, il
documento necessario ad entrare in altri porti. Passarono in vista di Livorno e, il 5 settembre sbarcarono a
Portovenere nel Regno di Sardegna, Lì era finalmente
in salvo. Il governo di Torino non lo avrebbe certamente consegnato agli austriaci, ma nemmeno, nel clima pesantemente compromesso dalle ripetute sconfitte della causa nazionale, volle accoglierlo esule. Lo
fermarono, quindi, a Chiavari, lo tradussero a Genova
e il 7 e lo espulsero dagli Stati sardi. Garibaldi si recò a
Tunisi, ma fu respinto dal Bey. Allora si recò alla
Maddalena e successivamente a Tangeri. Lì ricevette
l’aiuto del console sardo, che lo assistette sino al giugno 1850, quando il generale si imbarcò per l’America.
fortuna di incontrare, nei pressi, Giovanni Nino Bonnet,
fratello di Gaetano, un volontario di Comacchio che
aveva combattuto a Villa Corsini e lui stesso già conoscente di Garibaldi.
Cominciò, così, la “trafila”, la fuga, durata 14 giorni, che permise ai patrioti romagnoli di porre in salvo il
generale, sottraendolo alla caccia degli austriaci. Per
prima cosa il Bonnet convinse i fuggitivi a muoversi
dalla capanna. Partirono alle 11, trascinandosi Anita
assai affaticata. Raggiunti da Filippo Patrignani, essi
giunsero alla casa colonica del Podere Cavallina, dove
la puerpera fu soccorsa. Di lì mossero alle 15, giungendo, verso le 17, al Podere Zanetto, proprietà della
famiglia Patrignani. Verso le 20,30 s’imbarcarono su
due battelli da pesca, verso le Valli di Comacchio che
attraversarono sino al limite meridionale. Erano assistiti dai capi e sottocapi delle Valli, ovvero i funzionari
pubblici incaricati della tutela delle acque e del controllo di caccia e pesca. Pur essendo tutti funzionari
papalini, da buoni romagnoli erano tutti patrioti e sostenitori della Repubblica. Verso le 13 del 4 agosto i
fuggiaschi giunsero a ridosso dell’argine sinistro del
Reno, in un luogo chiamato “Chiavica Bedoni” e,
per tale ragione, non passato alla storia. Di lì Anita
fu trasportata alla vicina fattoria Guiccioli, ove i “partigiani” avevano fatto accorrere il locale medico condotto. Era, tuttavia, troppo tardi e Anita, la sera stessa, spirò. Nel colmo della sventura, Garibaldi ed il
fedele Culiolo non erano, comunque, soli. La stessa
sera furono raggiunti da due uomini di fiducia dell’ingegnere Giovanni Montanari di Ravenna che li
pregarono di affidarsi a loro. Tutti erano reduci della campagna dei generali Durando e Ferrari in Veneto
ed avevano combattuto a Vicenza. Montanari aveva
partecipato anche all’insurrezione del 1831.
Ugo Bassi condotto alla fucilazione
9
Ultimi echi del garibaldinismo a Massa Marittima
Gianpiero Caglianone
Una tradizione continua d’acceso volontarismo
percorre com’è noto tutta la storia di Massa Marittima
nel Risorgimento nazionale, del quale fu, per unanime
riconoscimento, non secondaria interprete tra tante altre protagoniste. Non stiamo qui a ricordare, per averlo fatto in tante pubblicazioni, le tante vicende di cui
furono parte gli oltre quattrocento volontari delle campagne risorgimentali e nazionali accorsi al seguito di
Garibaldi, che onorò Massa del titolo di Brescia
Maremmana e accettò, in nome dell’antico e sempre
rinnovato legame con i suoi massetani, la cittadinanza
onoraria con un telegramma che per lui, sempre avaro
di parole, significò qualcosa di più che una cortese e
formale risposta ad un nuovo titolo di benemerenza da
aggiungere ai tanti altri ricevuti da tutta Italia.
razioni rimase viva e presente nella vita cittadina come
coscienza d’inevitabile dovere civico ed elemento imprescindibile di crescita personale e collettiva. Fu insomma, quella dei giovani massetani cresciuti all’ombra del mito di Garibaldi e del garibaldinismo, un’utopistica ma generosa e continua ricerca dell’approdo ad
un’auspicata società migliore, organizzata in Repubblica, dove la perenne lotta tra il bene e il male, contrassegnati nella vita interiore dell’uomo dall’insopprimibile desiderio di libertà e l’oppressione che gli si
contrappone, chiamavano ad una continua battaglia
da combattersi ovunque fosse necessario. Una lezione
di vita, quella garibaldina, ben compresa ad esempio dalla gioventù massetana del 1897 durante la guerra grecoturca quando, alla notizia del bombardamento d’Akratiri
da parte delle potenze europee, organizzò il 23 aprile un’imponente manifestazione davanti al palazzo comunale, dove
fu letto un ordine del giorno in cui:
Basterà rammentare, per restare nell’ambito del
garibaldinismo massetano, i volontari dei Mille (mai
riconosciuti tali) della colonna Zambianchi; i volontari che combatterono al Volturno nel 1860 e quelli
del 1866 in Tirolo sotto la guida diretta del Generale; quelli del 1867 partecipanti alla sfortunata invasione dello Stato pontificio e rientrati in Toscana
(dopo lo scontro a fuoco con i papalini a FarneseGrotte di Castro dove caddero tre massetani) senza
poter congiungersi con Garibaldi e partecipare alle
decisive battaglie di Monterotondo e Mentana. Senza dimenticare i volontari caduti nel 1848 a Curtatone
e Montanara (tre massetani caduti) quelli del 1859
nella seconda guerra d’indipendenza, quelli del 1862
di Sarnico e i tanti che, seppur non volontari, parteciparono nelle file dell’esercito regio alla costruzione di questa nostra Italia, per altro oggi alquanto
smemorata nel rammentare i sacrifici compiuti da quei
giovani e quanto sia costato, in sangue e sofferenze, chiamarsi italiani.
Evocando la memoria di Giuseppe Mazzini, mentre riafferma la propria solidarietà con tutti gli oppressi – mentre esprime la sua più alta ammirazione per gli
insorti di Candia che combattono e muoiono eroicamente per l’affrancazione dei
loro diritti di libertà e di giustizia conculcati dalla prepotenza – manifesta il proprio sdegno contro la diplomazia che per
sordida rivalità, viene in appoggio del diritto della forza anziché della forza del
diritto, e delibera di aiutare nel miglior
modo e con tutti i mezzi possibili gli eroici
Canditoti ed i fratelli di Grecia (1).
Non furono, come spesso siamo abituati a vedere
in tempi moderni, solo parole: per molti di quei giovani
massetani “il miglior modo” possibile di aiutare quei
combattenti per la libertà e l’indipendenza del proprio
paese era offrire tutti se stessi alla causa e partecipare
direttamente alla lotta in corso. Così, il 25 aprile 1897,
nonostante gli ostacoli frapposti in ogni modo dal
governo per impedirne la partenza, 16 giovani massetani
(2) lasciarono le famiglie, gli amici, la casa per imbarcarsi sul vapore greco Samos, che faceva rotta verso il campo di battaglia, per la libertà della Grecia
dall’oppressione ottomana. Ancora una volta, il contributo massetano alle vicende storiche del tempo
era affidato a quel sentimento mazziniano e a quel
volontarismo garibaldino che, sull’onda lunga dell’idealismo post-risorgimentale, tanta parte avevano
avuto fino ad allora nell’educazione repubblicana
della gioventù massetana, cresciuta nel culto dei due
Questo legame indissolubile fra Massa Marittima e
Garibaldi, nato nei pericolosi giorni del ’49 (quando
l’eroe poté sfuggire miracolosamente alla cattura dopo
la fuga dalla Repubblica Romana grazie anche ai patrioti massetani che lo posero in salvo nella notte tra
l’1 e il 2 settembre sulla spiaggia di Calamartina) segnò indelebilmente, da lì in poi, la futura educazione
delle giovani generazioni cittadine, che portarono sempre dentro di sé il racconto epico di quella indimenticabile pagina della storia italiana nella quale è pur fissata l’impronta della Democrazia massetana. La migliore dimostrazione di come fu conservata e curata l’eredità ideale di Giuseppe Garibaldi a Massa Marittima è
certamente data dal fatto che, anche quando Garibaldi
non fu più, la lezione che egli lasciò alle nuove gene-
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mente legato ai repubblicani massetani, caduto nello
scontro di Domokos il 17 maggio, quando le forze
garibaldine al comando del Colonnello Mereu sconfissero le molto più numerose forze turche di Islam Pascià;
unica soddisfazione nel bilancio complessivamente
negativo di quella spedizione.
grandi padri della nazione. Avrebbe scritto Ettore
Socci nel 1899 di quell’impresa:
Era un desiderio smanioso quello di partire:
era un sacrosanto dovere quello di continuare la gloriosa tradizione della Camicia Rossa,
simbolo di libertà per gli oppressi, di giustizia per tutti. Ravvisare in ogni essere umano
che soffre un fratello e in una nazione oppressa una patria; tale la missione che erasi
imposta e che esercitò fino agli ultimi anni
della sua vita Garibaldi; tale il retaggio che
ha lasciato ai suoi compagni d’arme superstiti e alla gioventù che deve essere la sacra
primavera degli anni che vanno incalzandoci (3).
La manifestazione con la quale l’intera città di Massa
accolse festante i volontari al ritorno dalla campagna
fu invece pretesto al Sostituto Procuratore del re, Stecchini, per imbastire un processo farsa (4), in cui diversi cittadini, tra cui una donna, e alcuni reduci furono
incriminati (e condannati a pesanti pene detentive) per
aver favorito – accusava il rappresentante della giustizia regia – disordini e attizzato odio fra le varie classi
sociali e fatta l’apologia di delitti in modo pericoloso per la pubblica tranquillità, cantando e suonando l’inno dei lavoratori di Filippo Turati e gridando:
viva l’Anarchia, abbasso la Monarchia (5). Era, come
subito apparve agli spiriti liberi, la vendetta contro chi
aveva disubbidito alle direttive emanate contro la partenza di volontari, che le autorità di Pubblica Sicurezza
non vedevano di buon occhio, soprattutto dove erano
così numerosi come nella “Repubblichetta”, come era
chiamata allora comunemente Massa Marittima. Il timore della vendetta monarchica non poteva certo bastare a frenare l’ardore degli ideali giovanili, i generosi
e disinteressati impulsi verso i fratelli oppressi o minacciati dalla tirannia e anzi accrebbe in molti altri coetanei massetani il desiderio di portare il proprio contributo alle vicende dei tempi, in nome della libertà e
dell’antica e sempre giovane eredità garibaldina. Un
ideale passaggio di testimone con la generazione che
dalle vive voci dei sopravvissuti alle campagne garibaldine aveva udito il racconto delle imprese quasi
miracolose di quell’eroe leggendario, senza macchia e
paura, capace con la sola sua voce di rianimare un
esercito.
I garibaldini massetani in Grecia (1897). Al centro con la
barba bianca il Tenente Colonnello Enrico Bertet)
Non sempre però alle attese corrispondono le vicende, nonostante le migliori intenzioni dei protagonisti. La spedizione dei volontari garibaldini in Grecia
(complessivamente 1300 uomini) era posta al comando
del Generale Ricciotti Garibaldi, ultimogenito dell’Eroe
dei Due Mondi. Il Tenente Colonnello Enrico Bertet
(già dell’esercito regolare) nella cui Legione (350 uomini) erano inquadrati i volontari massetani, si rifiutò
di sottostare al comando del Generale Garibaldi. Questa incresciosa e pericolosa situazione venutasi a creare tra i due corpi volontari, costrinse le autorità greche, per evitare contrasti nella linea di comando, a dirottare la Legione Bertet in Epiro e trasferire invece in
Tessaglia il corpo del colonnello Luciano Mereu, che
già vi stazionava, in uno scambio ragionato di posizioni che estrometterà di fatto la Legione Bertet dalle
poche battaglie che caratterizzarono quell’impresa
garibaldina. Delusi per non aver potuto offrire il proprio braccio alla causa come gli altri volontari, i 16
massetani rientrarono in patria attraverso la via di
Menidi – Vonitza – Zaverda (e di qui via mare in Italia)
il 30 maggio seguente, senza avere praticamente nemmeno potuto vedere il nemico. Fu invece l’altro corpo
di battaglioni al comando di Mereu, esposto direttamente sulla prima linea, che ebbe perdite significative
e dolorose (23 morti e 120 feriti) tra le file dei volontari:
uno per tutti Antonio Fratti, deputato di Forlì stretta-
Non si dimenticavano nemmeno, nel popolo
massetano, le parole di Ettore Ferrari (celebre scultore
autore del monumento a Giuseppe Garibaldi posto nella piazza maggiore di Massa Marittima il 2 giugno 1904)
il quale, descrivendo ad un altro vecchio ex garibaldino
e massone delle campagne del 1866 e 1867, Domenico
Pallini, la significazione concettuale del monumento che
si apprestava a realizzare, così si esprimeva: È un altare alla libertà, per la quale Garibaldi dedicò l’intera sua vita, l’opera sua redentrice e meravigliosa. Il
simulacro della Dea [la Vittoria che sovrasta il busto
monumentale dell’eroe] ha in basso un’ara, sulla quale
il popolo massetano arderà incensi alla dea
auspicata e a Garibaldi sua incarnazione italiana
(6). Una visione, quella di Ferrari, certamente di parte
artistica dell’ideale garibaldino e del suo mentore, e
non poteva essere altrimenti in questo caso, ma
intuitivamente sorretta dalla reale e ingenita tensione
morale racchiusa nella virtù degli ideali garibaldini, gra-
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secoli soggetti alla dominazione straniera, cui era dato
il nome forse romantico ma evocativo per tutti gli altri
connazionali più fortunati, di “irredenti”. Non si trattava dunque solo di un semplice cambiamento di forma
istituzionale, l’auspicato avvento della Repubblica;
come aveva scritto Pio Viazzi, successore di Ettore Socci
quale Deputato della Maremma e come lui amatissimo
a Massa Marittima, non si trattava solo della “sostituzione di un presidente ad un re” (scritto rigorosamente minuscolo) ma di qualcosa di ben altro e superiore:
perché anche la Repubblica, per loro, era sovranità,
ma del popolo; era anch’essa nobiltà, ma dell’animo;
con la Repubblica si attendevano soprattutto la realizzazione della libertà in tutte le sue forme e diramazioni
possibili, ma sempre discendenti direttamente dalla
democrazia. Per questo ideale di Repubblica, oggi forse capace solo di strappare un sorriso ma allora apparentemente irraggiungibile, quei giovani massetani erano
invece disposti anche a morire, come accadde al ventenne Arolfo Gandolfi, del quale le ultime parole ai
compagni, prima di spirare colpito dai tedeschi, furono: “Avanti sempre. Viva la Repubblica!”; non ci sembra davvero una testimonianza di poco valore, anche
se col cinismo di quest’epoca indifferente, così povera di ideali, potrebbe essere giudicata perfino retorica
e passata di moda: una sorta di capitolo mai scritto da
De Amicis per il suo “Cuore”, ma che avrebbe potuto
benissimo esservi incluso. Eppure, l’aria che si respirava a Massa Marittima, in quei cinquant’anni dalla
riunificazione parziale della nazione alla grande guerra,
era un’aria tutta particolare: basta frequentare anche
solo superficialmente i giornali e la stampa del tempo,
gli scritti e i discorsi pronunciati nelle più varie occasioni, le lettere personali di tanti giovani di allora per
rendersene subito conto e avere piena comprensione
di questa atmosfera che permeava tutta la città.
zie ai quali la gioventù massetana poté, generazione
dopo generazione fino all’avvento del fascismo,
rinverdire quell’antico legame che univa i massetani
dei tempi eroici del Risorgimento a Garibaldi e ai nuovi
garibaldini di ogni epoca.
Un richiamo, quando avvertito, al quale non si poteva rifiutare di rispondere: tale almeno credettero i 13
volontari massetani (anche se solo in dieci raggiunsero poi effettivamente il campo di battaglia) che diciassette anni dopo quelli del 1897, nel 1914, accorsero
nelle Argonne inquadrati nella Legione Italiana comandata da Peppino Garibaldi (nominato Tenente Colonnello dell’esercito francese, lui che aveva già il grado
di Generale garibaldino) poco prima dello scoppio della Grande Guerra. Con l’Italia della Triplice ancora neutrale si rinnovava il generoso slancio con cui Giuseppe Garibaldi, dimenticando l’offesa francese di Roma
del 1849 e quella di Mentana del 1867, scriveva nel
1871 una nuova straordinaria pagina del suo mito partendo con i suoi volontari, tra cui l’immancabile Ettore
Socci, in difesa della giovane Francia repubblicana in
guerra con la Prussia dopo la caduta di Napoleone III.
Parlare o scrivere oggi delle vicende di quel gruppo di
tredici massetani che, sul finire del 1914 e l’inizio del
1915, accorsero nelle file dei volontari garibaldini di
Peppino Garibaldi in difesa della Repubblica francese
aggredita dagli austro-tedeschi dei cosiddetti Imperi
Centrali, può avere un senso solo se si riesce a far
comprendere, cosa non facile al giorno d’oggi, il grande slancio idealistico che derivava loro dall’essere cresciuti e vissuti in una città che dal Risorgimento in poi
aveva sempre partecipato, con la sua miglior gioventù,
alla realizzazione del sogno unitario e alla costruzione
di una società più equa e moralmente più giusta quale
prodotto finale dell’instaurazione di una Repubblica
anche nel nostro Paese.
La stessa denominazione di “Repubblichetta”, assegnata comunemente a Massa Marittima da amici ed
avversari, ne definisce i contorni, non solo politici e
ideologici ma di partecipazione popolare (quasi come
si volesse ancora attingere alle radici primigenie della
antica e gloriosa Repubblica Massana medievale,
arroccata nelle sue mura contro tutto e contro tutti)
assai più di tante e forse inutili parole: i legami con
Garibaldi, le vicende risorgimentali, l’educazione repubblicana e mazziniana che si tramandava di generazione
in generazione nelle famiglie di questa città, avevano
segnato e segnavano in maniera indelebile il percorso
formativo, culturale politico e morale, di ampi strati della
popolazione massetana: il comportamento conseguente che derivava da questa impronta formativa fortissima non poteva che indirizzare la gioventù cittadina
verso quegli obiettivi cui aveva teso mezzo secolo di
propaganda repubblicana e mazziniana. Intrecciato ad
essa, il garibaldinismo fu il tramite più immediato col
quale questo sentimento espresse concretamente il suo
desiderio di fare qualcosa, qualunque cosa, per tenta-
Garibaldini massetani in Tirolo
Una parola, Repubblica, che per noi, nati nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale appunto nell’Italia repubblicana, ha un senso assai diverso da quello che aveva per quei giovani di un secolo fa, nati nell’allora sabaudo Regno d’Italia, alle frontiere del quale pur coesistevano altri italiani, ormai da
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re di realizzare quei grandi ideali che questa gioventù
sentiva racchiusi dentro di sé. Tutti repubblicani, quei
dieci volontari dell’Italia monarchica furono catapultati
dagli eventi della storia nelle lontane montagne francesi delle Argonne; ostacolati in tutti i modi dal Governo italiano, che minacciò loro di togliergli i diritti
civili e la galera in nome di quella Triplice Alleanza che
dal 1882 legava ad un unico destino l’Italia, l’Austria e
la Germania, trovarono il modo comunque di giungere
sul campo di battaglia. Ai volontari, che costituirono
tre battaglioni (circa 2.500 uomini) fu concesso il privilegio di indossare la camicia rossa sotto la divisa francese. I primi importanti scontri avvennero il 26 dicembre nei pressi del Bois de Bolante (30 morti e 120 feriti)
e il 5 gennaio al Ravin des Mourissons (50 morti e 200
feriti). Ai giovani garibaldini massetani (7) impegnati
nella campagna, dobbiamo aggiungere anche il
sottotenente Unico Fiaschi, arruolatosi direttamente in
Francia anch’egli volontario ed unico ufficiale
massetano. Sindaco di Massa Marittima per tre legislature (1900-1906), massone appartenente alla storica
Loggia “Vetulonia” di Massa Marittima fin dal 1911,
egli lasciò tutto, all’età non più verde di 43 anni, per
accorrere dove il Dovere, quello maiuscolo, quello
mazziniano, lo chiamava. Del gruppo faceva parte anche il ventenne Arolfo Gandolfi, che nell’altra impor-
tante battaglia combattuta dai volontari garibaldini (avvenuta l’8 gennaio 1915) cadeva sul campo per il suo
ideale di Repubblica, e sepolto al cimitero della Maison
des Forestiers.
Il 6 marzo 1915 la Legione garibaldina fu sciolta,
dopo essersi coperta di valore riconosciuto anche dai
francesi, dopo aver versato un doloroso tributo di sangue (oltre ai 93 morti anche 337 feriti e 136 dispersi) tra
cui i fratelli stessi di Peppino Garibaldi, Bruno e Costante che con gli altri fratelli erano accorsi al grido di
raccolta dei volontari garibaldini. Tutti i figli insomma
di Ricciotti Garibaldi (eccetto Menotti junior che era in
Cina e arrivò a Legione ormai disciolta) furono presenti a quell’impresa che, appena terminata, li vide nuovamente arruolarsi volontari, dopo una significativa attesa loro imposta dalle alte sfere politiche e militari, nell’esercito italiano (inquadrati nella Brigata Cacciatori
delle Alpi comandata nel 1859 dall’avo) che di lì a poco,
il 24 maggio, inizierà la Grande Guerra a fianco dei paesi dell’Intesa. In tempo perché altri 17 volontari
massetani offrissero la loro vita accorrendo alla chiamata della patria. Il monumento che conserva alla memoria cittadina il ricordo del sacrificio di quei volontari, opera dello scultore massetano Olinto Calastri, riporta il nome di ciascuno di loro (8).
Garibaldini massetani nelle Argonne
Note
(1) Etruria Nuova, N. 208, 25/2/1897.
(2) I volontari furono: Attilio Biagini, Giulio Gambassi, Riccardo Tosi, Attilio Benini, Angiolino Marchi, Achille
Burgassi, Giovanni Grassini, Luigi Catani, Gustavo Leoncini, Giuseppe Panichi, Vittorio Pellini, Francesco Bini, Giovanni
Volpi, Oreste Alessi, Giuseppe Carelli, Ferdinando Betti.
(3) E. Socci: “Grecia e Italia nelle tradizioni della Camicia Rossa, in Ricciotti Garibaldi: La Camicia Rossa nella guerra
greco-turca. 1897, Roma, 1899, pag. 14.
(4) Vedi il resoconto dettagliato della vicenda in Gianpiero Caglianone: Il Cavaliere puro e gentile della Democrazia. Ettore
Socci Deputato della Maremma. Contributo alla storia politica dell’Alta Maremma Grossetana di fine ‘800". Grosseto, 2004.
(5) Etruria Nuova, N. 235, 29/8/1897.
(6) Gianpiero Caglianone: Garibaldi. Storia di un monumento. Siena, Cantagalli, 1993, pagg. 43-44.
(7) Tra essi, oltre ad Arolfo Gandolfi, Giuseppe Panci, Paride Perini, Marcellino Morini, Mazzini Mariotti, Enrico
Carboncini, Emilio Stefanelli, Bernardino Sacchetti, Gisberto Bichicchi, Ubaldo Luchini.
(8) Erano: Giuseppe Ammalati, Giovanni Banchi, Angiolino Barlettai, Licurgo Bernardini, Rigo Billi, Mario Fiorini, Ivo
Longhi, Marcellino Morini, Martino Mencacci, Mazzini Maestrini, Domenico Menichetti, Giuseppe Nesi, Bernardino
Pozzi, Giovanni Paradisi, Gino Tombari, Adolfo Zibali (nell’elenco figura anche Arolfo Gandolfi).
13
La Questione romana
Paolo Pisani
dicono ben poco. Dopo la caduta dell’Impero napoleonico, il governo italiano non poteva ritardare ne soprassedere allo stato incerto e precario che derivava dalle difficoltà romane. Il governo non poteva tollerare che le truppe mercenarie raccolte nello Stato romano:
Non fu facile sciogliere la questione romana tra ignoti
sovversivi ed illustri diplomatici, il 20 settembre 1870 però
si concludeva l’opera. Fiumi d’inchiostro e grandi quantità di carta stampata, sono serviti a narrare e trasmettere
sino a noi la questione romana. Porta Pia, il Gianicolo, il
XX settembre, gli eroici personaggi che permisero la realizzazione dell’evento, portando lo Stato ad imporre la
sua legittima rappresentatività, tutto questo caratterizza
quel momento storico. Non sono stati però solo i personaggi più noti ad essere artefici di questa conquista.
Vorremmo al riguardo, riportare dunque un po’ di “giustizia” ed affrancare accanto alle figure più rappresentative,
quei meno noti e addirittura spesso anonimi soggetti, che
come tante piccole tessere, servono a formare l’immagine
completa dell’unità d’Italia e dello Stato moderno.
Offendessero ulteriormente i diritti dei romani ed impedissero la libera manifestazione
della loro volontà.
Dopo lunghe e maturate deliberazioni, i ministri, riguardo a Roma ed alle province adiacenti optarono, con
il re stesso consenziente, di decretare la spedizione di
Roma. Il generale Cesare Ricotti curò le disposizioni per
attivare l’azione militare. Il re da parte sua, aggiunse poi
alla fermezza mostrata, anche un grande senso di civiltà e
di intelligente diplomazia. Tentò di far sì che il pontefice
riflettesse sul da farsi ed optasse per il non contrapporsi.
Da Firenze, partiva per Roma il conte Gustavo Ponza di
Sanmartino, senatore del Regno, in qualità di latore di
una lettera del re, nella quale:
Lo faremo iniziando da certi personaggi, presenti in
Quaderni editi dal Ministero dell’Interno, che furono
segnalati come politicamente pericolosi e sospetti. Biografie stringate che permettono però di avere, nella fase
di maturazione e crescita degli eventi risorgimentali, un
quadro più completo della situazione di quegli anni. Un
quadro campione, riguardante il territorio grossetano,
consistente in un circoscritto elenco di chi era in odore
di sovversivismo. Lo smarrimento di fascicoli (come
quello pressoché certo riguardante le zone dell’Alta
Maremma) permette solo una parziale conoscenza di
questi segnalati. Si tratta comunque di una preziosa
documentazione, utile a comprendere come diffuso e
presente nei vari ceti sociali, fosse il desiderio di cambiare le cose. Primo degli undici personaggi elencati
nel repertorio ministeriale, risulta Apolloni Apollonio,
medico chirurgo di Porto Santo Stefano, di anni 33,
repubblicano, presiedeva a Massa Marittima il Comitato di Provvedimento affiliato alla “Società Emancipatrice
di Genova”. Segue tale Arus Giuseppe, legale e possidente in Orbetello, di anni 50. Nel 1848 era stato nominato Gonfaloniere della città lagunare e nel 1859 aveva
fatto parte dell’Assemblea della Toscana. Risultano poi
in lista: Becchini Benvenuto, di anni 23, impiegato e nel
’59 volontario nei bersaglieri; Benetti Andrea, possidente di Orbetello, di anni 61. Sempre di Orbetello Del
Rosso Genesio di 43 anni negoziante, Di Lazzaro
Ferdinando, di 50 anni, canonico, Maratti Luigi e
Vallecorsi Biagio entrambi sacerdoti, rispettivamente di
anni 45 e 65. Chiudevano la lista Marini Vincenzo,
trentenne sacerdote in Sorano, Movizzo Gaetano di
Orbetello, possidente di anni 58 e Percelli Giacomo, farmacista in Roccalbegna, di anni 27.
Con affetto di figlio, con la fede di cattolico e
con l’animo di re e d’italiano,
gli esponeva con franchezza la condizione delle cose, la
situazione esistente. Lo esortava a prendere atto della
necessità dei tempi, gli elencava i motivi che avevano
resa opportuna la decisione, dandogli anche ampie assicurazioni circa il rispetto della indipendenza dell’autorità
spirituale. A questa lettera ufficiale (che era stata peraltro
argomento del Consiglio dei Ministri), fece però seguito
una sua seconda (personale) lettera, indirizzata a Pio IX,
molto più confidenziale, con la quale per il bene del popolo supplicava il pontefice:
A non suscitare conflitti e a non prolungare
con una inutile resistenza, una condizione di
cose perniciosa alla religione ed all’Italia.
Vittorio Emanuele II gli evidenziava anche come
sarebbe stata più efficace, utile e decorosa per la Chiesa, la protezione delle armi italiane. L’impressione che
suscitò quella lettera nell’animo di Pio IX non fu lieve!
Il 20 settembre 1870, le truppe italiane entrarono in Roma.
Si compiva l’unità d’Italia e cessava il governo temporale del papa. Una grande opera di patriottismo si trasformava in una grande opera di civiltà. Il giorno 2
ottobre furono indetti a Roma e nel rimanente Stato
romano comizii per esprimere la volontà della popolazione. Il plebiscito fu un’acclamazione al re ed all’Unità
Nazionale. Il 9 ottobre in Palazzo Pitti, Vittorio Emanuele riceveva la deputazione che gli recava quel plebiscito e nella sua riposta dichiarava: “ora i popoli italiani
Se tali elenchi, presenti in tutta Italia, testimoniano la
presenza di un diffuso fermento popolare, non dobbiamo
però neppure ignorare l’opera svolta dallo stesso re Vittorio Emanuele II, un’opera di cui i libri di storia però
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sono veramente padroni dei loro destini”. Non mancava neppure di sottolineare che:
quelle di dare la felicità al popolo con rispettate e libere
istituzioni. Attraverso queste nostre riflessioni, si delinea
forse una immagine storicamente più completa, riferita a
belligeranze, scontri, ma anche sapienti “ricami”. Ci accorgiamo di come composito e variegato sia stato il tessuto umano che rese possibile l’evento. Personaggi noti
ed esaltati dalla pubblicistica ufficiale, a cui debbono essere affiancati ignoti giovani ed insospettabili cittadini,
che imbastirono trame per creare le giuste condizioni ed
occasioni propizie per arrivare alla tanto agognata unità
d’Italia. A questi, si aggiunge l’opera sottile, di Vittorio
Emanuele II che con sapienza, seppe muoversi ed agire
anche nei confronti di coloro che stavano “leccandosi le
ferite”, costretti ad accettare una diversa realtà politica nazionale ed europea. Un renderci conto insomma, di come
dal mare della storia, possano affiorare figure ignote, quali
quelle dei “sovversivi risorgimentali”, così come certi comportamenti non conosciuti di personaggi come lo stesso
re Vittorio Emanuele II: personaggi, vicende ed azioni, tutti
da approfondire. Del resto non è una novità, che spesso fa
carico ai posteri, ricomporre più correttamente la Storia!
Come re e come cattolico, nel proclamare l’unità d’Italia, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa e l’indipendenza del Sommo Pontefice.
Fu dunque il suo fare un fare saggio e garantista.
La stessa politica relazionale con altre nazioni, la Francia in particolare, nonostante certe infauste previsioni
espresse prima del 20 settembre dal suo rappresentante signor Adolfo Thiers:
Il vostro re ha voluto ingoiare troppo in fretta
tutte le foglie del carciofo: si guardi dall’ultima
foglia (Roma) che potrebbe costargli cara,
fu improntata alla distensione. Gli eventi della storia diedero torto al “gallico” e si compirono le dichiarate speranze espresse oltre venti anni prima da Carlo Alberto,
Nota di redazione
L’apertura degli archivi storici del sec. XVIII di vari Stati europei hanno permesso agli studiosi di chiarire molti avvenimenti
dell’epoca e di scoprire realtà diverse da quelle ufficialmente divulgate dai vincitori dei conflitti di quel periodo.
Infatti, secondo carteggi diplomatici e documenti e ufficiali risulta che tali avvenimenti furono fondamentalmente promossi e
sostenuti dalla Massoneria, seguendo le direttive della “Gran Loggia” inglese, che operava per cambiare gli assetti politici europei
al fine di attuare il suo disegno di emancipazione delle popolazioni soggette a regimi dispotici e illiberali. L’inizio del 1849 vede
a Roma la presenza dei più importanti esponenti massoni rivoluzionari dai quali, il 9 Febbraio, fu proclamata la “Repubblica
Romana” e la fine del Papato. Da notare che in questo periodo il Primo ministro del Regno Unito, il liberale e Gran Maestro
massone Lord Palmerston, dichiarò pubblicamente di “essere pronto a portare loro qualsiasi aiuto”. Un sogno improvviso che
unisce e fonde energie, esistenze, individui, donne, uomini, ragazzi.
Considerati dai nemici, che non comprendono il compimento di un autentico miracolo compiuto, come “avventurieri e
briganti”. Così chiamati dai più potenti come dai minori nemici, questi veri patrioti che spaventano “Sua Santità” e si ritrovano in
mano la possibilità di erigere una nuova realtà organizzata, promossa dalla iniziativa individuale di pochi che diventano subito una
unica comunità. E l’arrivo da tante parti d’Italia di tanti “briganti” si spiega proprio con l’immediata percezione di una missione
di valore eccezionale, universale, da condurre a compimento, con maggiore o minore consapevolezza del valore morale dell’impresa
che quei coraggiosi riescono a realizzare attraverso l’unica vera rivoluzione democratica dell’Italia risorgimentale. Non li spaventa
l’alleanza che li combatte, anzi quel coacervo di avversari li sprona a dimostrare che essi sono tutti uomini di forte volontà. E tra
essi – non dimentichiamo – sono molte donne, sia popolane che benestanti. Il richiamo “Roma, Repubblica: venite!” è un
messaggio che trascina gli eventi di quell’anno e assume un’importanza storica. Dalle varie province dello Stato pontificio
(Romagna, Marche, Umbria) ma anche dall’Abruzzo e dalla Toscana, come da altri centri, giungono cittadini desiderosi di dare il
loro apporto alla costruzione di una Repubblica, capace subito di dotarsi di una Costituzione – ancora oggi – esemplare. La vita
nella città, nei vari livelli, le difficoltà nella vita civile, l’urto delle armi con il peso degli eserciti assedianti e con personaggi
esemplari come l’apostolo genovese, il condottiero nizzardo e i mitici Goffredo Mameli e Carlo Pisacane, per non parlare dei
“romani” autentici, fieri di realizzare quel sogno. Azioni militari impetuose compiute da un piccolo e compatto esercito costituito
quasi integralmente da veri “eroi” sconosciuti, ignorati dalla storia che si immolarono in nome di ideali vissuti tanto intensamente
quanto drammaticamente. Due “sconosciuti” intendiamo qui ricordare. Eroi che si immolarono senza rimpianti nella certezza che
l’eventuale loro sacrificio servisse da esempio ai futuri propugnatori dell’unità nazionale: Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e
Antonietti Colomba.
Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, una delle figure di maggior spicco, distintasi per coraggio e carisma, capace di radunare ed
arringare ingenti masse di individui nella città di Roma durante i giorni della Repubblica Romana. Aiutato dai due figli Luigi e
Lorenzo, organizzò anche infermerie e punti di ristoro per i combattenti e, secondo la testimonianza di chi lo vide in quei giorni,
Ciceruacchio era dappertutto, ovunque si potesse aiutare lo sforzo dei difensori della Repubblica. Quando Garibaldi, la sera del 2
luglio lasciò a Roma – dove ormai era cessata la resistenza contro l’assalto dei francesi – per dirigersi verso Venezia insorta, che
ancora resisteva all’assedio austriaco, i tre Brunetti seguirono la Legione e furono con Garibaldi anche all’uscita da San Marino,
diretti a Cesenatico per imbarcarsi verso Venezia. Catturati il 10 agosto dai croati comandati dal tenente Luca Rokavina furono
fucilati la notte stessa senza alcun processo.
Antonietti Colomba, eroina del Risorgimento. Nata a Bastia Umbra si trasferì fanciulla a Foligno. Il 3 dicembre 1844 sposò
il conte Luigi Porzi di Imola, cadetto delle guardie pontificie in Foligno. Nel 1848-49 il Porzi fu alla difesa di Venezia. Anche
la sua donna si tagliò i capelli e vestì l‘uniforme del marito, poi passato alle formazioni della Repubblica Romana. Romantica
figura, volle essere accanto all‘uomo amato e con lui combatté con virile coraggio nella battaglia di Velletri il 19 maggio 1849
contro i Borboni, a Villa Corsini e, infine, a Porta San Pancrazio in Roma, ove cadde, nella disperata difesa del bastione del
Casino dei Quattro Venti (13 giugno 1849), colpita da una palla di cannone, mentre porgeva al marito la sacca ed altri oggetti
per riparare la breccia. (Nota del Fratello Blasco Mucci).
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Giuseppe Garibaldi nei fumetti italiani (*)
Manlio Bonati
Tutte le Arti si sono impossessate di Giuseppe
Garibaldi. Ci sono state commedie teatrali, pellicole cinematografiche e televisive, sculture, dipinti, francobolli commemorativi, ecc. L’elenco risulterebbe interminabile. Potevano mancare i fumetti? Ovviamente no! Uno svariato
numero di persone si sono dedicate a scrivere e a disegnare avventure a fumetti dell’Eroe dei Due Mondi dalla
fine degli anni Trenta in poi. Questo intervento, che si
limita alla sola produzione italiana, non intende ripercorrere cronologicamente tutto il pubblicato, ma soltanto
quello conosciuto o raccolto dallo scrivente. Infatti, essendo collezionista di “giornalini” sin dall’infanzia, mi sono
spesso imbattuto nelle Camicie Rosse con le didascalie
oppure, a secondo dei casi, con le più tipiche nuvolette.
Le ho portate sempre a casa anche se a volte, come si
vedrà, la qualità del prodotto era scarsa. Come tutte le
manifestazione artistiche, anche il Garibaldi a fumetti vanta dei grandi disegnatori che hanno narrato visivamente
le sue peripezie come pure degli artigiani che avrebbero
fatto meglio a cambiare mestiere. Partiamo quindi dall’inizio o meglio da quello che considero soggettivamente il
primo fumetto garibaldino, che tra l’altro è quello che ha
vissuto editorialmente più a lungo. Cuore garibaldino,
di Lauro, Matteo Guarnaccia e Luciana Peverelli per i
testi e Ferdinando Vichi per i disegni, venne pubblicato a
colori nella prima e nell’ultima pagina del settimanale L’Intrepido dell’Editoriale Universo di Milano, famosa testata che ebbe larga diffusione per ben 63 anni (dal 1935 al
1997). Cuore garibaldino si sviluppa dal numero 1 del
20 dicembre 1939 al 42 del 12 ottobre 1943 (1), quando la
testata dovette chiudere per gli eventi bellici. I protagonisti erano due: Giuseppe Garibaldi e Leardo Stigli, fedele
garibaldino di fantasia, che seguì il suo generale in tutte
le Campagne (o quasi) dal 1844 in poi. L’avventura era di
casa con buona pace della realtà storica. Abbiamo, infatti, salti cronologici e nessun cenno sulla guerra francoprussiana, quando nel 1870 Garibaldi ed i suoi varcarono
il confine per andare in aiuto della Francia. Evidentemente gli autori pensarono di non offendere l’alleato tedesco, sicuri anche del fatto che la censura fascista non
l’avrebbe fatta pubblicare. A Palermo, Stigli con alcuni
patrioti, nel 1844, si era impadronito di una goletta austriaca per raggiungere in America del Sud sia i legionari
garibaldini che la sua fidanzata (italiana). L’Intrepido era
specializzato in storie con situazioni sentimentali e
famigliari particolarmente azzeccate per il pubblico femminile che acquistava il giornalino tanto come i coetanei di
sesso maschile. Gli autori dei testi fecero un buon lavoro,
mentre i disegni di Vichi, abbelliti dalla tricromia della
Casa editrice lombarda, furono sempre di ottimo livello
qualitativo: particolarmente incisivo è il periodo dedicato
alla Repubblica Romana (con Luciano Manara) ed alla
morte di Anita Garibaldi (2) dove il disegnatore, che doveva morire nel 1944 a causa di un mitragliamento aereo
degli Alleati, si sbizzarrì al meglio. Poco prima che il settimanale fosse costretto a chiudere i battenti, era il n. 21
del 17 maggio 1943, Garibaldi lascia questa terra dopo
aver baciato il figlioletto Manlio: “Il suo capo cade sul
petto. Si ode un grande grido di dolore. Teresita cade in
ginocchio. L’eroe è spirato”.
Gibilrossa, località distante meno di dieci chilometri
da Palermo, è nota per essere stata utilizzata come punto
di appoggio dalle truppe garibaldine guidate da Nino Bixio
per la presa di Palermo. Anche questo paese ha avuto la
sua storia a fumetti con I monelli di Gibilrossa, albo di
32 pagine in bianco e nero nel classico formato orizzontale “all’italiana” con geometrica (3) coloratissima copertina dell’illustratore Giove Toppi, punta di diamante della
casa editrice Nerbini di Firenze (4). Il giornalino faceva
parte della collana quindicinale “Albi grandi avventure”
e fu stampato con le date 1 agosto 1940 XVIII. Il soggetto era di Livio Andriani, i disegni di Giovanni Crotta,
discreto artista molto al di sotto qualitativamente del suo
collega Toppi. La Sicilia nel 1860 è in attesa di Garibaldi:
i siciliani cospirano e poi si ribellano ai Borboni. Un padre, accanto al camino acceso, parla ai due figli: “È il
momento della liberazione”. E questi gli rispondono: “I
Borboni saranno cacciati via, speriamo che Garibaldi ci
aiuti”. Inizia così un breve episodio completo di 90 strisce con i giovani del paese che si ribellano, con barricate
e sparatorie dai tetti delle case, alle truppe di Francesco I.
All’ottantacinquesima striscia Garibaldi concorda la resa
di un generale nemico, costretto a ritirarsi lasciando le
armi sul molo. La storia è simpatica anche se risente della
retorica di quando è stata realizzata. Un altro famoso settimanale formato giornale presentò, sempre a puntate, un
buon fumetto risorgimentale. Mi riferisco al cattolico Il
Vittorioso della AVE con Camicie rosse, dal n. 2 al 10 del
1956, di D. Forina, testi, e Carlo Boscarato, disegni. Si
tratta di un puntuale resoconto della Spedizione dei Mille. Tra i personaggi storici si inserisce il giovane Renato,
già protagonista di “Un tamburino per la barricata” (5)
durante le cinque giornate di Milano. Infatti, sono passati dodici anni dagli avvenimenti narrati nel precedente
episodio. Dopo alterne vicende, Milano e la Lombardia
sono ora completamente libere dal dominio austroungarico, ma altri storici eventi maturano (6). Garibaldi,
lasciata l’isola di Caprera, sbarca a Genova, ove si radunano i patrioti. Tra essi troviamo quelli che erano stati tra
i protagonisti della liberazione di Milano” (7). Renato è,
naturalmente, dei Mille e parte da Quarto. A Talamone
trova per caso due vecchi cannoni e li fa imbarcare, sotto
gli occhi compiaciuti di Garibaldi. In Sicilia Renato si fa
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lontario Scavezza che, introdottosi nell’accampamento
avversario, fa esplodere la polveriera e ritorna sano e
salvo dal suo Generale che con enfasi gli dice “Sei
stato grande, ragazzo!”. Il soggetto è semplice e i disegni discreti, gli autori sono anonimi. Osservando lo
stile, a mio giudizio è un fumetto della fine degli anni
quaranta o inizio cinquanta ristampato per l’occasione. La seconda avventura, intitolata La picciotta, è su
testo di Gianca con disegni di un anonimo dal tratto
ancora acerbo (10), deve essere stata realizzata nel 1960
proprio per questo albo. Siamo nel “maggio 1860. Tra
pochi giorni Garibaldi partirà dallo scoglio di Quarto
per iniziare la liberazione della Sicilia. Laggiù a Marsala
qualche fedelissimo è al corrente della spedizione”. Una
ragazza del posto, Carmela, cospira contro i borbonici
e riesce a liberare un patriota dalla prigione. All’alba
del giorno dopo Garibaldi sbarca con i suoi volontari,
acclamato dalla popolazione. Decisamente l’episodio
di Scavezza convince di più di quello della Carmela.
onore, tanto da essere ferito il 21 maggio 1860 nella
battaglia di Monreale. Il giovane garibaldino viene
curato da Rosa, una ragazza siciliana che lo ospita nella
casa del padre. Le amorevoli cure lo rimettono presto
in sesto e gli permetteranno di seguire i compagni nel
Continente, ma intanto è anche sbocciato un amore.
Finisce così la nona puntata che lascia ai lettori dei
presentimenti positivi sia per l’Italia sia per la vita privata del valoroso milanese. Il duo Forina-Boscarato ha
prodotto un fumetto di classe.
Ancora su Il Vittorioso Sandro Cassone per i testi
e A. Sciotti per i disegni, in bianco e nero, presentano
in due puntate Il “Giallo” di Garibaldi: n. 12 e 13 del
1961. Cassone ha preso l’ispirazione per il soggetto
dal famoso libro di Giuseppe Bandi I Mille (8) specialmente per l’ambientazione a Villa Spinola nel 1860, nel
periodo preparatorio alla Spedizione dei Mille, poi ci
ha messo del suo: due consoli, uno austriaco e l’altro
borbonico, cercano di scoprire se Garibaldi è in zona e
cosa stia architettando. Oltre ai tanti personaggi storici, due ragazzini sono i protagonisti di questo breve
racconto a fumetti, Gasparo Repetto e Giose, adibiti a
tener lontano da Villa Spinola i curiosi spargendo in
giro la fola che è stata adibita a lazzaretto per colerosi
(sotto la direzione del dottor Simeone Schiaffino). I
consoli faranno di tutto per dipanare il “giallo” che
circonda questa misteriosa località, ma ogni sforzo sarà
vanificato dalle trovate dei ragazzini, con divertenti
scene comiche. Ancora una volta il Vittorioso ha offerto ai suoi giovani lettori un prodotto ben confezionato e documentato a dovere, impreziosito poi da una
grande tavola centrale (9) di Franco Caprioli raffigurante I combattenti per l’Unità d’Italia con presenti,
ovviamente, anche i garibaldini. Di minor spessore,
anche se a tratti non è del tutto da scartare, l’albo
monografico Fiamme garibaldine della Urbis Press di
Roma, (senza data ma forse del 1960). È il classico esempio di numero unico stampato e prodotto per le buste
a sorpresa, che si vendevano sigillate nelle edicole,
contenenti fumetti dalle rese ed altri appositamente
pubblicati e venduti tramite questo particolare sistema
di distribuzione. Il fumetto, di formato tascabile, ha 32
pagine in bianco e nero suddivise in due storie.
Il Garibaldi di Paolo Piffarerio
Di qualità nettamente superiore il racconto biografico illustrato Epopea garibaldina che il settimanale
cattolico Lo Scolaro di Genova pubblicò nel caratteristico formato giornale nel 1955 in prima battuta per poi
ristamparlo nel 1960 (11). In questa sede S. Pollini traccia una buona e documentata biografia di Garibaldi da
quando il personaggio, nel 1848, parte da Montevideo
verso l’Italia. Invece i disegni sono di Armando
Monasterolo, un grande disegnatore che non ha avuto la fama che si meritava. Il fumetto si sviluppa a
puntate in 24 pagine tutte a colori nelle quali
Monasterolo, che evidentemente “sente” il personaggio, dà prova di abilità nell’illustrare la Repubblica
La prima, che si intitola come l’albo, è ambientata
nella Roma del maggio 1849: “I francesi del generale
Oudinot stanno per entrare nell’Urbe, mentre l’eroica
resistenza di Garibaldi e dei suoi uomini al Vascello, a
Villa Spada, a Villa Pamphili sta per infrangersi contro
la schiacciante superiorità nemica”. Nella vignetta di
apertura Garibaldi, con la sciabola in pugno, urla “Resistete! Resistete ancora!”. I garibaldini riescono a ricacciare il nemico dietro le sue linee. Alcune ore dopo,
di notte, gli assediati si accorgono che il nemico sta
guadando il Tevere per assalirli nel sonno. Ancora una
volta i garibaldini, con Garibaldi al comando, vanificano
il tentativo francese. La storia si conclude con il vo-
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vane, Francisco, chiede ad un uomo maturo, chiamato
il “professore”, se l’Italia potrà mai essere unita. L’adulto allora gli narra brevemente gli eventi salienti della
nostra Patria, da Romolo e Remo alle Cinque giornate
di Milano. Garibaldi quindi si volta verso di loro, dicendo. “Amici! È giunto il momento di rompere gli indugi. La Patria ci chiama!”. Il mattino dopo una nave
fa vela per l’Europa. Sbarcati nel suolo patrio, iniziano
le peripezie della camicia rossa Francisco che deve
portare una lettera al Quartiere Generale di Casale.
Nell’ottava ed ultima puntata affronta due pericolosi
agenti austriaci, facendoli fuori. Rimasto ferito nello
scontro, è soccorso da una bella contessina che lo
cura amorevolmente nella villa paterna. Quando riprende il cammino, “il suo cuore sa di aver lasciato in quel
luogo un pegno che tornerà a riprendere presto. Il suo
saluto non è stato un addio ma un arrivederci!”. Come si
può intuire, è una buona realizzazione tutta di fantasia.
Romana, la ritirata verso Venezia, la drammatica morte
di Anita, il 1859, il 1860, la permanenza a Caprera,
Aspromonte, il 1866, Mentana, le Argonne. L’ultima
tavola mostra un Garibaldi vecchio e stanco, ma che ha
sempre presente le terre non ancora annesse alla Patria. Il
milanese Corriere dei piccoli non poteva mancare all’appello! Infatti anche questa prestigiosa testata ha più
volte trattato Garibaldi. Il n. 20 del 15 maggio 1960 lascia
la prima e l’ultima pagina a colori ad una sintesi didascalica
della Spedizione dei Mille. Gli autori, purtroppo, non sono
menzionati, ma il tutto è senz’altro d’effetto. Sempre nel
1960 dal n. 24 del 12 giugno al n. 42 del 16 ottobre il
Corrierino presenta una lunga storia a puntate tutta a
colori dal titolo I nemici fratelli di grandi autori per un
fumetto di classe, soggetto di Mino Dilani (12) e illustrato da Mario Uggeri. Abbiamo due protagonisti (non fratelli come invece il titolo farebbe supporre): uno piemontese, l’altro garibaldino. Si assiste ad una bella avventura
ricca di colpi di scena. “È l’ottobre 1860. La battaglia del
Volturno è ormai conclusa. I borbonici vinti ma non distrutti sono tuttavia ancora in armi ed alimentano, nelle
zone dell’interno, una feroce guerriglia. Bande di soldati
e di briganti assaltano le pattuglie garibaldine”. Pertanto
al Quartiere Generale di Caserta il generale Sirtori affida al
capitano Visconti del Secondo Reggimento Volontari la
missione di andare verso San Paolo ad investigare cosa
fosse successo alla colonna Bassini. Visconti parte a cavallo accompagnato dal garibaldino Giuseppe. Si imbattono in due cavalleggeri del Reggimento Monferrato, uno
è il Capitano di Vinzaglio ed è sprezzante nei confronti
delle camicie rosse. Subito dopo vengono presi di mira
da alcuni cecchini con conseguente uccisione di Giuseppe e dell’ordinanza piemontese. Tra i due superstiti nasce piano piano un’amicizia che maturerà in stima fino
alla morte eroica dell’ufficiale regolare. Invece il Corrierino
n. 34 del 26 agosto 1962 dà un preciso resoconto su
Garibaldi ferito “100 anni fa ad Aspromonte” con ben tre
pagine a colori: tutta la copertina e le pp. 24 e 25 con
illustrazioni e lunghe didascalie. Dulcis in fundo, la pagina 27 offre quarantatre soldatini garibaldini da ritagliare
ed incollare su cartone.
Il Garibaldi di Domenico Natoli per il Corriere dei Piccoli
Negli anni Sessanta la Magnesia San Pellegrino (15)
perse una buona occasione per approntare un fumetto
di alta qualità. Per circa vent’anni questa ditta farmaceutica offrì in omaggio alle farmacie di tutto lo Stivale
albi formato a striscia, con pagine sia a colori che in
bianco e nero, della Collana di libri celebri, che a
loro volta erano donati ai bambini dei clienti. Per tanti
anni si avvalse della collaborazione di un grande
illustratore, tra i più bravi artisti del collaudato Corriere dei Piccoli, Domenico Natoli che illustrò a fumetti,
su sue riduzioni, romanzi del calibro de I Promessi
Sposi, Davide Copperfield, Don Chisciotte e decine
d’altri, tutti piccoli capolavori. Gli subentrò Mariano
Congiu, che non eccelleva assolutamente nel disegno.
A lui si deve La storia dell’Unità d’Italia su testi di
Corrado Radi. Naturalmente delle 48 pagine dell’albo
molte sono riservate a Garibaldi ed alle sue gesta. Per
fortuna il bravo Natoli aveva in precedenza, dal 1952
al 1955, realizzato una pregevole Storia d’Italia proprio per il Corriere dei Piccoli. Giuseppe Garibaldi fa
Troviamo ancora una volta Milani con l’ottimo Sergio Toppi ai disegni nel Corriere dei Piccoli n. 40 del
1969 con I 300 di Castelmorrone dove si racconta la
strenua resistenza dell’avamposto garibaldino che blocca, durante la battaglia del Volturno, migliaia di
borbonici. Sono otto pagine molto incisive e ben realizzate da due Maestri del Fumetto. Altri autori che
non hanno nulla da invidiare agli ultimi nominati sono
Luciano Secchi (13) e Paolo Piffarerio, il primo responsabile dei testi, il secondo ovviamente dei disegni. A
loro si deve W l’Italia, pubblicato a puntate, sia a
colori che in bianco e nero, nell’inserto centrale del
mensile Gordon (14) edito dalla ESV di Andrea Corno
di Milano dal n. 6 del giugno 1961 al n. 13 del gennaio
1962. “Una sera d’aprile del lontano 1848” sulla costa
americana Garibaldi osserva l’orizzonte mentre un gio-
18
vogliate destinarlo. Vostro Giuseppe Garibaldi” (17).
L’episodio I fuggiaschi porterà Cooper e Carcano a
liberare in territorio sudista, tramite la “ferrovia sotterranea”(18), molti schiavi.
la sua prima apparizione nel 73° episodio, poi torna
dall’83° all’85°, nel 89°, dal 94° al 98°, dal 100° al 103°.
Questa Storia d’Italia, che inizia “verso l’anno 750
prima della nascita di Cristo” e termina con la puntata
149 all’epoca del Presidente della Repubblica Giovanni
Gronchi, è il capolavoro (testi e disegni) di Domenico
Natoli, grande artista troppo presto dimenticato. Occorre stendere un pietoso velo su Viva Garibaldi! A
chi ama l’orrido è il suo fumetto! Si deve ad A. Felmang
il più brutto fumetto garibaldino: tre numeri mensili in
bianco e nero, di 64 pagine cadauno, dall’aprile al giugno 1970. Le intenzioni erano di narrare la vita di
Garibaldi a fumetti. Si parte dalla sua morte, poi si riprende il racconto con Giuseppe bambino, poi ragazzo
ed infine adulto in America del Sud. Fortunatamente
con il terzo albo l’avventura della Rotoeditoriale di
Opera ha termine senza rimpianti di nessuno dei pochi
acquirenti. Non tutte le ciambelle riescono col buco,
ma per fortuna questa sì. Intendo quel piccolo capolavoro del già citato Franco Caprioli con il suo I corsari
del Rio Grande del Sud, pubblicato originariamente a
colori negli anni settanta nella pagine de il Giornalino
delle Edizioni Paoline di Milano e ristampato dalla stessa casa editrice nel volume miscellaneo Racconti di
mare del 1977, tutto di Caprioli. Renata Gelardini ha
curato la riduzione dalle Memorie di Garibaldi di alcuni
suoi episodi americani. Sono 12 pagine del miglior Caprioli, il disegnatore con le sfumature a puntini, dove
Garibaldi nel 1837 viene ferito al collo e poi naufraga
perdendo dei cari amici.
Terminata la prima serie delle avventure dei fratelli
Cooper (19), inventai Leo Battaglia ambientato nel Risorgimento. Si sviluppava dalla Carica dei Seicento in
Crimea all’inizio del 1859, poco prima della Seconda guerra d’indipendenza (20). Leo Battaglia, agente segreto al
servizio del Conte Camillo Benso di Cavour, come spalla
ha il polacco Mirko, abile truccatore che insegna la sua
arte all’italiano per trasformarsi e prendere le sembianze
di chiunque. Invece il capitano austriaco Albert von Hess
è il nemico giurato dell’italiano. Le missioni di Battaglia lo
portano in varie località, tra cui Parma dove fa amicizia
con il garibaldino Faustino Tanara (21). L’immaginaria
Avventura a Caprera (22) trova Garibaldi fianco a fianco
di Leo Battaglia quando, nel luglio 1858, il capitano von
Hess tenta di uccidere il Generale, prevedendo la sua
partecipazione nella prossima guerra contro l’Austria.
Garibaldi, tranquillo nella sua isola, salva addirittura la
vita di Battaglia (stava affogando per un banale incidente). Il giorno dopo, invece, è proprio Leo a salvarlo dai
cecchini di von Hess, poi insieme sbaragliano il nemico e
prendono prigioniero il cattivo capitano austriaco. L’ultima apparizione di Garibaldi a fumetti a me nota (23) risale
al novembre 2003. Sergio Bonelli Editore annualmente edita
un volume della serie Storie di Altrove, dove vari personaggi storici vengono presi in prestito per farli vivere
avventure al limite della fantascienza. Per l’appunto
l’annual del 2003 (24) ha avuto come gradito protagonista il Nostro nell’episodio L’artiglio che si strinse sull’America. L’albo, scritto da Alfredo Castelli con Stefano
Vietti e disegnato da Dante Spada ed Esposito Bros (25),
è ambientato in un improbabile 1851 dove Garibaldi, il
quale collabora con la misteriosa base statunitense Altrove, combatte contro Il Ragno, diabolica figura del Celeste Impero. Garibaldi riuscirà a salvare gli Stati Uniti dal
“pericolo giallo” e tornare a Caprera ad accudire i suoi
cavalli in attesa che la Patria lo chiami. Un albo Bonelli è
sempre una sicurezza per i suoi lettori, naturalmente anche questo è di ottimo livello. Qualche mese era trascorso dalla mia conferenza su Garibaldi a fumetti, quando
ricevetti un pacco dall’Inghilterra con due libri a fumetti
inglesi che avevo appena ordinato tramite eBay. La mia
sorpresa fu grande e piacevole scoprendo che in entrambi c’erano delle storie imperniate sulla figura del nostro
eroe. L’Eagle Annual 1963 (26) presenta Giuseppe
Garibaldi. The great patriot scritto da Alan Jason e disegnato da Hardee. Sono quattro pagine in bianco e nero
con un testo succinto quanto chiaro. I disegni sono molto
ben realizzati e rendono giustizia al grande italiano. Infine, l’Eagle Annual 1972 ha otto pagine a due colori con
il già citato fumetto di Mino Milani e Sergio Toppi: The
siege of Castelmorrone, pubblicato in prima edizione nel
Corriere dei piccoli del 1969. Viene spontaneo concludere con Viva Garibaldi e Viva i Fumetti!
Belle pagine, anche se troppo didascaliche, su
Garibaldi ed il Risorgimento si trovano nella Storia
d’Italia a fumetti di Enzo Biagi, edita la prima volta da
Mondadori nel 1978 e più volte ristampata. Menziono
la bella edizione intitolata La Storia a fumetti del 2005,
volume 27° de La Biblioteca di Repubblica, nella quale
i disegnatori Paolo Ongaro, Alarico Gattia e Carlo
Ambrosini sintetizzano le fasi principali dell’epopea
garibaldina. Ho scritto all’inizio che da sempre sono
collezionista di fumetti, ma non mi sono limitato a leggerli, li ho anche scritti (soggetto e sceneggiatura) con
l’attiva collaborazione di mia moglie (Alessandra
Ovrezzi). Appassionato sia del genere western che della
Storia vera. Nel 1985 proposi a il Giornalino, nella
persona di Claudio Nizzi (16), la saga a colori Fra due
bandiere, ambientata durante la guerra civile americana. I protagonisti sono due fratelli gemelli, Hal e Cole
Cooper, il primo ufficiale nordista, il secondo sudista.
In due episodi, dei venti realizzati tutti con i disegni di
Sergio Tarquinio, Hal Cooper è affiancato dal
garibaldino Mattia Carcano, desideroso di aiutare il
Presidente Abraham Lincoln nella liberazione degli
schiavi. Garibaldi, per l’appunto, scrive al Presidente
americano, presentando il suo valido ufficiale. Questo
è il testo della lettera: “Signor Presidente, il capitano
Mattia Carcano è uno dei miei valorosi della campagna
dei Mille. Egli farà onore a qualunque comando Voi
19
Note
(*) Il 13 dicembre 2007 si è svolto presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi di Parma il Convegno di studi a cura
del Comitato parmense per le Celebrazioni del secondo centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi intitolato “Garibaldi e
il garibaldinismo parmense”. Chi scrive, del Comitato organizzatore, ha trattato il tema Garibaldi a fumetti, poi pubblicato,
pp. 195-210 con sei illustrazioni, nel volume monografico, che raccoglie gli Atti del Convegno, di Aurea Parma fascicolo II di
maggio-agosto 2008, edito da Gazzetta di Parma. La presente riedizione ha delle aggiunte e delle sostanziali differenze.
(1) L’Intrepido, dal formato giornale tipo il Corriere dei piccoli, ospitò Cuore garibaldino nelle seguenti quattro annate: dal n. 1
del 20 dicembre 1939 al n. 53 del 18 dicembre 1940, dal n. 1 del 27 dicembre 1940 al n. 52 del 17 dicembre 1941, dal n. 1 del 24
dicembre 1941 al n. 52 del 14 dicembre 1942, dal n. 1 del 28 dicembre 1942 al n. 42 del 12 ottobre 1943. Il settimanale tornò nelle
edicole nel 1945 con sempre in prima ed ultima pagina Cuore garibaldino, di Luciana Peverelli e Vittorio Cossio, ma il protagonista,
nipote del garibaldino della saga precedente, era un partigiano che combatteva contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale.
(2) L’Editoriale Universo durante il periodo bellico ristampò in bianco e nero la parte iniziale di Cuore garibaldino in tre albi
di formato supergigante orizzontale con stupende copertine sempre di Ferdinando Vichi. L’interno, purtroppo, non è del tutto
integrale per vari tagli editoriali. Esiste una ristampa anastatica, di circa trent’anni fa, del Club Nostalgia dei Fratelli Voltolina di
questi giganteschi albi. Una curiosità: nell’ultima annata dell’Intrepido formato giornale, precisamente nei numeri 1 e 2 del gennaio
1951, un’avventura di dieci pagine intitolala La Stella d’Italia disegnata da Carlo Cossio ripeteva, con alcune differenze (il testo
è quasi identico!), il primo episodio del 1939/40 di Cuore garibaldino. In questa sede il nuovo Leardo Stigli si chiamava Massimo.
Sempre negli anni ’50 l’Intrepido ospitò più volte il Generale e i suoi volontari: in una storia di Liberty Kid di Corrado Zucca, per
i testi, e Lina Buffolente, per i disegni, e nella saga, iniziata nel 1959, Arriba Gringo! disegnata da Carlo Savi. Inoltre numerosi Albi
dell’Intrepido con episodi autoconclusivi presentarono personaggi garibaldini.
(3) Composizione armonica di ben 5 illustrazioni, tra cui il ritratto di Garibaldi.
(4) La Nerbini ristampava sempre in albo il materiale che precedentemente aveva pubblicato a puntate nei suoi settimanali
formato giornale. Anche in questo caso, copertina a parte, è una ristampa ripresa, forse, dal mitico settimanale L’avventuroso.
(5) Cfr. Il Vittorioso dal n. 48 del 1955 al n. 1 del 1956.
(6)Cfr. la prima didascalia della pagina 8 dove inizia l’episodio da Il Vittorioso n. 2 dell’11 gennaio 1956. Ogni puntata era di
due pagine, una in bianco e nero e l’altra ad un colore. Per la cronaca, il n. 3 del 18 gennaio 1956 ha la copertina con Garibaldi a
cavallo che incita le sue camicie rosse alla carica alla baionetta contro i soldati borbonici.
(7) Cfr. il riassunto della terza puntata a pagina 8 del n. 4 del 25 gennaio 1956.
(8) Cfr. G. Bandi, I Mille. Da Genova a Capua, Firenze, Salani, 1903.
/9) Pagine 12 e 13 del n. 12 del 25 marzo 1961.
(10) Dallo stile riconosco che il disegnatore in seguito sarà uno degli illustratori della lunga saga di Isabella, famoso fumetto
per adulti degli anni ’60 e ’70.
(11) Possiedo la ristampa: Epopea garibaldina venne edito dal n. 1 del 3 gennaio al n. 14 del 3 aprile 1960. Ogni numero
pubblicava in media due pagine a colori, fuorché la prima puntata che si avvale di una bella copertina a tutta pagina con i garibaldini
che difendono Roma nel 1849 e l’ultima puntata, la quattordicesima, con una sola pagina.
(12) Mino Milani per il Corriere dei piccoli scriveva degli ottimi articoli sul Risorgimento. Pagine fitte di notizie con poche
illustrazioni d’epoca a corollario. I giovani lettori potevano in questo modo erudirsi divertendosi. Al giorno d’oggi nelle pubblicazioni
rivolte ai bambini si stampano dei gran disegni con dei testi “storici” approssimativi e brevi. Evidentemente il piacere della lettura
era più vivo un tempo! Mino Milani ha pubblicato una miriade di libri a tema risorgimentale, quello che mi è più caro e che reputo
fondamentale, è Giuseppe Garibaldi. Biografia critica, edita nel 1982 da Mursia.
(13) Luciano Secchi, inventore di Maschera Nera, Kriminal, Satanik e Alan Ford, per citare solo i personaggi più noti, è
conosciuto con lo pseudonimo di Max Bunker. Piffarerio ha disegnato i suoi Maschera Nera e Alan Ford.
(14) Si tratta dell’edizione italiana delle avventure di fantascienza di Flash Gordon nella versione del disegnatore Dan Barry.
(15) Prodotta dal Laboratorio Chimico Farmaceutico E. Granelli Spa di Milano.
(16) Scrittore sia di romanzi che di fumetti, ha creato un numero incredibile di personaggi, tra i quali spicca il poliziesco Nick
Raider. Ha sostituito, ormai da tanti anni, Gianluigi Bonelli nella creazione dei testi per il mitico mensile Tex.
(17) Mi ero raccomandato che questa lettera avesse una grafia che ricordasse quella di Garibaldi e ne fornii dei facsimili in
fotocopia. In effetti nel fumetto Lincoln la tiene in mano ed il lettore la legge alla stessa stregua di una nuvoletta. Rimasi
soddisfatto: la grafia è molto simile a quella del Generale!
(18) Era un’organizzazione segreta con la quale i bianchi aiutavano i negri a raggiungere le zone libere. I fuggiaschi, episodio
di 10 pagine tutte a colori, apparve nel n. 11 de il Giornalino del 1986.
(19) Nel 1990 fu edita la seconda, in 11 episodi, dal titolo Nuove frontiere, con i disegni di Sergio Tarquinio.
(20) Sono 12 episodi apparsi ne Il Giornalino dal n. 9 al n. 20 del 1993. Ancora una volta i disegni sono di Tarquinio.
(21) Cfr. l’episodio Il rapimento ne Il Giornalino n. 14 del 1993.
(22) Cfr. Il Giornalino n. 17 del 1993.
(23) Preciso che non ho preso in considerazione i Garibaldi a fumetti comici o grotteschi. Amo il genere avventuroso, non
quello comico che francamente non mi interessa. Devo, però, ricordare una bella versione comica di Giuseppe Garibaldi disegnata
con arte da Enzo Marciante e pubblicata in volume nel 1982.
(24) È un albo di 148 pagine in bianco e nero; le ultime quattro ospitano articoli esplicativi.
(25) La copertina è di Giancarlo Alessandrini.
(26) Da non molto tempo mi sono messo in testa di collezionare il settimanale inglese Eagle, creato nel 1950 dal reverendo
Marcus Morris, parzialmente tradotto in Italia ne Il Giorno dei ragazzi dal 1957 al 1966. Chi non ricorda Dan Dare e Jeff
Arnold? Gli Annual di Eagle sono dei libri che uscivano per l’appunto una volta all’anno con articoli, saggi storici e scientifici
e naturalmente fumetti.
20
No alla pena di morte
Olinto Dini
Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse
medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. (Cesare
Beccaria, Dei delitti e delle pene, Capitolo XXVIII).
Un lungo e multisecolare cammino verso l’abolizione è stato percorso, segnato da forti resistenze e
contraddizioni, con alterne vicende, concomitante al
vasto processo di evoluzione del pensiero umano,
della civiltà, sostenuto da concezioni filosofiche,
culturali, politiche, sociali tese ad affermare la personalità dell’individuo, l’identità dei popoli, il divenire del progresso. In Europa, in Italia l’Umanesimo,
il Rinascimento segnarono una nuova fase storica,
affermarono la singolarità e specificità esistenziale dell’uomo collocandola in un rapporto distinto ed al vertice delle diverse componenti della vita universale.
II 18 dicembre 2007 l’Assemblea delle Nazione
Unite ha approvato a maggioranza, con 104 voti favorevoli 54 contrari e 29 di astensione, la moratoria
dell’esecuzione della pena di morte: una data storica. Superata l’opposizione del 1994 e 1999 è stata
confermata una precisa volontà di giungere all’abolizione della pena. Un’affermazione fortemente significativa, esaltante voluta da un ampio movimento
politico, culturale, pacifista e libertario internazionale impegnato nella più completa applicazione dei diritti civili ed umani. L’Italia e il ministro degli Esteri
hanno svolto un’efficace azione diplomatica sostenuta dalla risoluzione unanime del Parlamento, dalle
associazioni laiche, religiose appartenenti ad
Amnesty Internazionale, alla Lega dei diritti degli
uomini, a Nessuno tocchi Caino, alla Comunità di
Sant’Egidio.
Le Grandi Rivoluzioni del XVIII secolo sostenute
dagl’ideali dell’Illuminismo, del razionalismo, contenuti nell’Enciclopedia, espressi dalle Logge massoniche affermarono la libertà di pensiero, religiosa: lo
Stato moderno contro l’assolutismo, l’integralismo,
i privilegi dell’antico regime. Le Costituzioni, la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776,
la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1779 in Francia sancirono i principi inalienabili
di uguaglianza, di libertà, di fraternità: “tutti gli uomini sono uguali ed hanno gli stessi diritti alla vita
e alla libertà”.
È stata quindi acquisita la consapevolezza che il
ricorso agli strumenti di morte: il patibolo, la forca,
la fucilazione, la lapidazione, la sedia elettrica, l’iniezione letale e quanto altro non rappresenti la prevenzione né un deterrente contro la violenza e l’efferatezza del delitto; essi possono costituire lo strumento di un irreparabile arbitrio contro la vita, spesso il sostegno all’arroganza dello Stato, per l’affermare un potere politico vessatorio, dittatoriale, ispirato da un integralismo, un fondamentalismo ideologico, religioso per annullare la libertà individuale,
attuare il genocidio di un popolo.
In Toscana gli uomini delle Accademie, esponenti
della cultura umanistica e razionalistica sorretta dal
metodo scientifico-sperimentale – alcuni facenti parte
della Reggenza di Pietro Leopoldo altri appartenenti
alla Loggia massonica fiorentina del 1737, in rapporto quindi con la Massoneria inglese – Pompeo Neri,
Francesco Gianni, Giovanni Targioni Tozzetti,
Leonardo Ximenes, Giovanni Lami, Antonio Cocchi,
Rinuccini, Tommaso Perelli, Giulio Rucellai, Tommaso
Crudeli. Horace Mann, Marco Craon. Enrico Fox e
Philips Stosch – elaborarono i principi di una Costituzione. Il 30 novembre 1786 fu emesso l’Editto di
riforma del Codice Criminale, fu abolita la pena di
morte, si affermò la sicurezza della pena, si bruciarono gli strumenti della tortura, fu eliminato il Tribunale del Sant’Uffizio, furono annullati i privilegi delle Congregazioni e gli Ordini religiosi.
Nei Paesi contrari all’abolizione nel 2006 sono
state eseguite 5628 condanne, di queste circa 5000
solo in Cina e oltre 20.000 individui, relegati nel braccio della morte, sono in attesa della sentenza capitale. In generale si tratta di Paesi dominati da regimi
fortemente autoritari, privi spesso dei diritti civili ed
umani: Egitto, Libia, Pakistan, Iran, lrak, Corea del
Nord, Mongolia, Sudan, Arabia Saudita ed altri.
L’uso della pena di morte presente ancora negli Stati Uniti, in India ed in Giappone, risultato di una
formazione statuale tradizionale, rappresenta una
palese contraddizione con i rapporti democratici esistenti ed è quindi fortemente contrastata.
II Risorgimento in Europa ed in Italia contro la
Restaurazione del 1814-1815 fu l’espressione di un
vasto movimento ideale, patriottico del quale la
Massoneria con le sue Costituenti fu una componente essenziale, fece corrispondere l’impegno unitario per l’indipendenza e l’unità nazionale di ciascun popolo alla conquista di Statuti, di Costituzio-
21
lizione della pena di morte s’inquadrano quindi nel
movimento generale contro l’integralismo ed il
fondamentalismo. Essi del resto sono le cause, gli
strumenti degli scontri tribali tra le etnie, dell’isolamento, della miseria d’intere popolazioni, di un uso
strumentale dell’estremismo terroristico dei kamikaze
indirizzato contro i movimenti d’ispirazione laica,
moderata, contro la coesistenza tra civiltà diverse.
ni per l’affermazione, la codifica di più ampi diritti
civili. Lo Stato unitario italiano ne affermò i contenuti, compresa l’abolizione della pena di morte, nel
nuovo Codice approvato nel 1889 dal governo della
Sinistra presieduto dal massone Giuseppe Zanardelli.
La violenza delle leggi speciali del fascismo, codificate nel Codice Rocco del 1926, le aberranti
espressioni dell’hitlerismo, del comunismo staliniano reintrodussero la pena di morte contro ogni
espressione di libertà, di rispetto della diversità etnica, politica generalizzando un indistinto delitto
contro la società attraverso i Campi di tortura, di
sterminio, le deportazioni nei Gulag della Siberia.
L’esasperata affermazione di una società fortemente globalizzata subordinata all’efficienza, al consumismo, dominata dalle leggi di mercato accoglie
una diversa forma d’integralismo dal quale ne consegue la massificazione, la limitazione dei diritti civili ed umani, l’alienazione della personalità dell’individuo. Nella società multietnica, multiculturale solo
l’affermazione dei valori di libertà, di uguaglianza, di
solidarietà, di pari opportunità nei diritti umani realizza un vasto processo d’integrazione, il diffondersi di un nuovo Umanesimo. I massoni sono consapevoli dell’intimo valore dell’iniziazione, del valore
di una coscienza libera dal dogmatismo ideologico,
religioso, dalla subordinazione ad una qualsiasi
ispirazione fideistica, ritengono di essere a sostegno
dei diritti umani, della solidarietà, della comprensione.
Fu necessaria la sconfitta delle aberrazioni ideologiche, statuali per ricostituire i rapporti di pace, di
rispetto nel consesso umano; il 26 giugno 1845 fu
approvata la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 ottobre
1848, la Carta Europea di Giustizia nel 1868; essi rappresentano insieme agli accordi internazionali successivi un patrimonio ideale, dei principi solenni per
la libertà, la convivenza, la solidarietà, l’amicizia tra
i popoli. La moratoria, l’impegno per la generale aboNota di redazione
Questo numero de “Il Laboratorio” è stato ordinato sul tema della commemorazione della Repubblica Romana del 18481849, pertanto è quanto mai opportuno ricordare che uno dei principali atti promulgati e inseriti nella Carta Costituzionale
della Repubblica Romana – nel Titolo I: Dei diritti e dei doveri dei cittadini – fu l’articolo 5 che testualmente recitava: La
pena di morte e confisca sono proscritte.
Nelle società antiche, che si reggevano prevalentemente sul potere
assoluto del monarca, la pena di morte era considerata non solo legittima,
ma anche necessaria. Il delitto infatti non era punito perché danneggiava
un privato cittadino, ma perché, violando una legge emanata dal sovrano,
recava oltraggio al sovrano stesso, alla sua autorità. Così la pena capitale
era considerata al pari di una “vendetta di Stato” e, in quanto tale, doveva
avere la maggiore pubblicità possibile e le esecuzioni erano trasformate in
veri e propri spettacoli per i sudditi.
Uno dei primi pensatori ad aprire un dibattito sul problema etico
della pena capitale ed a proporre una diversa visione della giustizia
è stato Cesare Beccaria. Partendo da una concezione tipica della sua
epoca spiegò che gli uomini si uniscono in società, rinunciando
ciascuno ad una parte di diritti individuali, allo scopo assicurare la
sicurezza e la libertà di tutti. La legge, insomma, deriva da un patto
tra uguali e mai nessuno sarà allora disposto a stipularne uno con
cui regala ad altri individui il più grande ed inviolabile dei suoi diritti:
quello alla vita. Beccaria continua poi osservando che millenni di
pena di morte non hanno impedito agli uomini di commettere i peggiori
delitti. Più che supplizi spettacolari sarebbero allora efficaci pene
prolungate nel tempo, come ad esempio lunghi periodi di detenzione.
Ciò che più intimorisce un potenziale delinquente è infatti non tanto
la cruenza della pena, quanto la certezza di questa. Ma la grande
novità nel pensiero di Beccaria sta nel fatto che, in un’epoca in cui
si era sicuri che il male fosse radicato fin dalla nascita in alcuni
uomini predestinati al peccato, egli per primo considera l’influenza che un ambiente degradato può avere anche sul più
onesto degli individui. È da questa consapevolezza infatti che nasce l’idea della pena come strumento di “rieducazione”
del cittadino, idea, ovviamente inconciliabile con la pena capitale, che è alla base di quasi tutti i sistemi giudiziari delle
più solide democrazie. (Nota compilata dal Fratello Blasco Mucci).
22
Festa della Luce 2008
Carlo Maria Rotella
Una valutazione strettamente biologica del significato della luce si esemplifica attraverso il modello sperimentale del non-vedente, perché da sempre si è imparato ad
apprezzare ciò che manca, ma questo può essere agevolmente trasposto ad un significato simbolico. La nascita è
“venire alla luce”, l’oggetto del nostro amore è “luce dei
miei occhi”, un’idea brillante è “un’illuminazione” e potrei andare avanti con gli esempi, ma mi preme concludere che la positività, nel nostro mondo psico-affettivo,
s’identifica spesso con la luce. Venendo alla nostra Istituzione, si può affermare che l’iniziato è tale perché cerca
la luce, ma, al contempo, questo esercizio mentale è senza fine, facendosi sempre più complesso con l’aumentare
delle conoscenze e delle esperienze. Per comprendere
l’unità funzionale del significato biologico, psicologico
ed esoterico della luce credo che dovremmo tornare indietro di 150.000 anni e cercare di immedesimarci nei nostri progenitori, le cui capacità associative erano in continua evoluzione, essendo dotati di un bagaglio culturale
estremamente limitato e di una struttura immaginativa
collettiva ancora tutta da formare. Sicuramente il nemico
più grande dei nostri progenitori era la paura, ma purtroppo credo che anche oggi non siamo riusciti a sconfiggerla del tutto, diciamo che siamo solo un po’ più attrezzati a difenderci. La paura è generata dall’indeterminazione come conseguenza dell’assenza della ripetitività nella
verifica delle previsioni. Qual’era, dunque, l’unica certezza dell’uomo primitivo? La costante ripresentazione di un
fenomeno poderoso e salvifico: il sole sorge tutti i giorni
e la luce subentra alle tenebre. Per assurdo, potremmo
dire che tutte le mattine è la festa della luce e tutti i giorni
sono un grande dono che dovremmo accogliere con venerazione e rispetto. Venendo a tempi più recenti ed alla
comparsa dell’agricoltura, che possiamo collocare circa
20.000 anni fa, si è valorizzato il ritmo annuale della durata delle ore di luce, anche in relazione ai cicli della natura,
che in qualità di madre feconda distribuiva in turno i suoi
doni: «il fiore è il frutto del sole di un anno». Non è un
caso che i calendari più antichi, quali quelli Atzechi, Maya
e Veda, erano a struttura circolare. Dunque, nelle società
rurali, l’inizio del nuovo ciclo coincideva col solstizio d’inverno e la rinascita della luce era l’unica certezza all’interno di una costante imprevedibilità dei fenomeni naturali.
so precisi rituali consolidati nel tempo, che misera cosa
sarebbe una ragione glaciale priva del supporto vivifico e salvifico dei sentimenti? Dunque, che luce nascente festeggiamo oggi? Il suono-luce primordiale, il
Big-Bang, la Forza che “muove il sole e le altre stelle”,
l’Amore che Dante pone, ad estrema sintesi, nell’ultimo verso del XXXIII Canto del Paradiso.
Dante G. Rossetti: “L’amor che muove il sole e l’altre stelle”
Mai come negli ultimi anni l’uomo ha bisogno di sconfiggere la paura e ne ha ben donde. Le guerre, vecchie
quanto il genere umano, hanno mutato aspetto, sono diventate caleidoscopiche nelle loro fenomenologia, il terrorismo (forma estrema della genesi della paura) ha poi
consolidato l’esistenza di una forma di guerra sotterranea, talvolta inapparente, ma che non manca mai di ripresentarsi in modi imprevedibili, come il fiume Guadiana in
Galizia. Nel libro di Michelangelo Iacobucci “I nemici del
dialogo” (Armando Editore, Roma) tra l’altro, si afferma
che «L’uomo è il solo animale (ad eccezione dei topi ed
alcuni insetti sociali), che uccide sistematicamente quelli
della sua stessa specie. Secondo alcuni antropologi contemporanei, egli è arrivato ad essere il signore di tutti gli
animali perché prima di tutto è un assassino». Se accettiamo quest’ipotesi potremmo dire che, in quanto assassini nati, siamo spontaneamente tendenti ad operare il
male, ma che poi ci siamo in qualche modo creati dei
sistemi operativi mentali di “salvezza”, o forse di “fuga”,
che ci hanno portato a contemplare l’idea della nemesi e
della catarsi. In termini di funzionalità assassina questi
sono degli strumenti perdenti, ma certamente l’esigenza
di crearci un alibi morale alla nostra innata cattiveria è
stata fin dalla notte dei tempi molto forte, tanto forte da
ingenerare ancestralmente l’esigenza di una religione che
agisse come elemento regolatorio morale e successiva-
Venendo a tempi più recenti possiamo subito rilevare che la Massoneria moderna è nata nel secolo che
ha visto il trionfo dell’Illuminismo, per cui potremmo
essere tentati di concludere che per noi la luce da ricercare è quella della Ragione, ma quest’interpretazione è sicuramente semplicistica. Per il massone cuore e
ragione non vanno mai disgiunti e, se la ragione deve
controllare l’istintività e l’impulsività, anche attraver-
23
all’ascolto attento che alla parola facile. Il massone è l’uomo dei grandi dubbi interni e delle grandi certezze esterne. Il massone non è né remissivo, né aggressivo: è assertivo. Il massone è possibilista e spontaneamente portato al sincretismo culturale. Il massone è l’uomo dei sussurri e non delle grida. Il massone è l’uomo del dialogo.
Tutto questo non deve essere esercitato solo all’interno
dei Lavori Rituali nelle Logge, ma deve essere soprattutto portato fuori nella vita quotidiana perché il suo esempio venga additato dagli altri come il frutto di un uomo di
Luce. La Luce che emana dal massone deve propagare
un calore salvifico che possa contribuire fattivamente
al bene dell’umanità. Tutto questo non è un mero esercizio di cultura e di teoria, ma è una esperienza di vita e
per questo vi voglio raccontare una piccola storia vera.
La sorella di un carissimo Fratello della mia Loggia è
affetta da una grave forma di tumore e tutti ci siamo
adoperati per dimostrarle la nostra solidarietà durante il
triste calvario che sta passando. È una donna molto
forte il cui spirito reagisce bene agli strali dell’avversa
fortuna e cerca di condurre una vita il più possibile
normale, compatibilmente con gli eventi legati alle sue
cure. Pochi giorni fa ha invitato a cena i Fratelli più
cari, che le sono stati vicini in questo frangente ed ha
detto parole commuoventi, ma ciò che mia ha più colpito è stato quando ha detto: Io non conosco il significato della vostra Istituzione e dei lavori che conducete durante le vostre riunioni, ma so solo che quando
sto con voi mi trasmettete un grande calore che mi ha
consentito di continuare a combattere. Questo è il significato della Luce la cui rinascita oggi festeggiamo.
Buona Festa della Luce a tutti.
mente una legge che ci tutelasse in qualche modo da
spinte socialmente troppo autodistruttive. Con l’andare
del tempo la religione è diventata Chiesa, mentre la legge
è diventata Stato; ed ecco che da assassini individuali
siamo diventati assassini sociali. Alla base delle guerre di
religione, di territorio o di interessi economici vi è sempre
stato il principio dell’intolleranza, cioè la visione del diverso da sé come antagonista, da prevaricare ed in buona sostanza da eliminare.
È solo dopo molti secoli, con l’Illuminismo, che si è
affacciato il principio della tolleranza come bene di
rilevanza filosofica e sociale, dal quale ci possiamo attendere dei benefici duraturi per il bene dell’umanità. Per
comprendere bene il reale significato della parola tolleranza basta ricordarne l’etimo: la parola deriva dal verbo
latino tollere che significa sollevare, prendere su di sé e
quindi, in senso lato, farsi carico dei problemi degli altri.
La pratica della tolleranza non ha risolto il problema delle
guerre, ma ha contribuito a creare il modello di un uomo
nuovo. Ecco che il massone, quale sacerdote della religione della libertà, ed in quanto mistico adogmatico, deve
essere tollerante, perchè tale espressione massima dell’intelletto sofisticato e culturalmente raffinato può rappresentare l’ultima possibilità di salvezza del genere umano dalla condanna, geneticamente predisposta, ad essere
un assassino nato. In poche parole, a mio avviso, l’intollerante è un debole ed un perdente, mentre il tollerante è
un forte ed un vincente. Il massone, dunque, tollerante
per definizione, deve essere sempre portato a comprendere e mai a giudicare: per compiere questo complesso
sistema d’autodisciplina deve anche essere più pronto
“La verità svelata” opera di Giambattista Tiepolo assunta quale tema per la Festa della Luce del Solstizio d’Inverno 2008
La grande tela, dipinta da Giambattista Tiepolo attorno alla metà degli anni Quaranta del Settecento, giunse in Museo
nel 1928. L’opera, proveniente dal palazzo che il noto avvocato Carlo Cordellina aveva fatto costruire in contrada Riale a
Vicenza, era stata originariamente pensata come una grandiosa decorazione a soffitto per una delle altre proprietà di
Cordellina: o la villa di Montecchio Maggiore, affrescata da Tiepolo tra il 1743 e il 1744, o il palazzo vicentino in Stradella
Piancoli, o quello veneziano in Campo San Maurizio. L’artista rappresenta qui uno dei soggetti allegorici a lui più cari. La
giovane donna, mollemente posata accanto al globo terrestre su un soffice tappeto di nubi, rappresenta la Verità, che stringe
con la mano destra uno specchio, mentre con la sinistra sorregge il disco solare, simbolo della luce della Ragione. Il corpo
nudo, morbido e sensuale della giovane è stretto tra le braccia del Tempo, rappresentato secondo la tradizione allegorica
come un vecchio, la cui pelle raggrinzita contrasta nettamente con le carni rosee e levigate della fanciulla. Il Tempo,
abbandonata la grande falce suo consueto attributo, volge lo sguardo accigliato verso uno dei putti, più vivace degli altri, che
gli ha appena rubato la clessidra, mentre impugna con la mano destra una foglia di palma, che allude alla Verità. Sulle destra
della tela, al di sotto di un putto con una corona d’alloro, appare la Menzogna abbagliata dalla luce accecante della Verità.
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Il libero arbitrio nel cammino spirituale del massone
Carlo Luigi Ciapetti
Una questione di fondo
Il problema, all’origine
Il libero arbitrio fa la sua comparsa nei nostri Rituali (1) solo in epoca positivista, non essendovi mai
stato citato in alcuno di quelli precedenti, né del Settecento, né della prima metà dell’Ottocento. La cosa appare abbastanza intrigante e pone una questione di
fondo: perché? Sarebbe assai semplice rispondere
laconicamente: “il cammino della Massoneria moderna
è, non certo casualmente, parallelo a quello dell’evolversi della civiltà occidentale e la comparsa del riferimento al libero arbitrio segna il passaggio dall’età del
mistero sovrumano a quella della consapevolezza della
presenza umana in un Universo sempre più conosciuto nella sua struttura e nelle sue leggi”. Una risposta
di questo tipo darebbe però per scontata la storia di
un percorso assai lungo, cosparso di lotte sanguinose
e di sacrifici pesantissimi, che è invece necessario ripercorrere specie in questo periodo storico, perché
rappresenta la grande differenza che caratterizza la
nostra cultura della libertà, non solo massonica, rispetto a quella delle ideologie teocratiche e assolutiste che
oggi le si oppongono. Va premesso che non si tratta
solo di una questione di merito: se vivere all’insegna
del trinomio massonico “libertà, uguaglianza e fratellanza” con lo scopo di operare “per il bene ed il
progresso dell’Umanità” è un comandamento per noi
massoni, è anche un’aspirazione civile per il mondo
profano, conquistata nell’arco di millenni, risultato
di infinite sperimentazioni politiche e sociali. In un
periodo in cui la nostra civiltà sembra assai incerta
nella difesa della propria identità e dei propri valori,
incerta nel confronto con altre forme di civiltà che –
ed è poi in fin dei conti questo l’assunto della riflessione fatta su questo tema – appaiono indietro
di molti secoli nella loro evoluzione, è quindi necessario rendere il giusto valore a quel libero arbitrio
che altrimenti potrebbe venire considerato solamente come un’espressione grammaticale. Il termine arbitrio, nella sua interpretazione laica, si riferisce alla
capacità di giudicare in assoluta libertà attorno a un
fatto o a un concetto (2). Il libero arbitrio è quindi
la facoltà propria dell’uomo di essere libero da qualsiasi necessità riguardo alle decisioni che vuole prendere. Su questo significato si è molto discusso ed
una risposta inequivoca, sempre restando nell’ambito della visione laica della realtà, deve sempre fare
i conti con la saggezza esperienziale: un libero arbitrio assoluto comporterebbe, infatti, l’inesistenza di
un qualsiasi principio divino, mentre, al contrario,
l’esistenza di un Dio onnipotente comporterebbe l’impossibilità del concetto stesso.
Il libero arbitrio è il concetto filosofico e teologico
secondo il quale ogni persona è libera di fare le sue
scelte. Ciò si contrappone alle varie concezioni
deterministiche secondo le quali la realtà è in qualche
modo predeterminata (3), per cui in realtà gli individui
non compiono scelte, essendo ogni loro azione già
stabilita prima della loro nascita ossia predestinata (4).
Il concetto di libero arbitrio è molto dibattuto nell’ambito religioso in relazione alla onniscienza attribuita alla divinità nelle religioni monoteistiche. Esso è
alla base della religione cattolica mentre risulta uno
dei punti di contrasto con la religione luterana per la
quale l’uomo non può in alcun modo agire per liberare
la propria anima (il cattolicesimo considerava fondamentali le opere quanto le preghiere). Alla stessa idea
del luteranesimo aderiva anche il calvinismo per il quale l’uomo era predestinato e per questo a niente servivano le proprie opere e le proprie azioni. Il concetto di
libero arbitrio è d’altronde estremamente importante
in quanto ha implicazioni non solo in campo religioso
ma anche in quelli etico e scientifico: se in campo religioso il libero arbitrio implica che la divinità – per
quanto onnipotente – non possa utilizzare il suo potere sulle scelte degli individui, nell’etica questo concetto è alla base della responsabilità di un individuo per
le sue azioni ed in ambito scientifico l’idea di libero
arbitrio determina un’indipendenza del pensiero, inteso come attività della mente, e della mente stessa dalla
pura causalità scientifica.
Il problema, alla fine del XV secolo
Alla fine del ’400 il problema del libero arbitrio si era
fatto pressante dopo le considerazioni di Martin Lutero sul servo arbitrio (5): secondo lui, l’uomo non poteva nulla per ottenere la redenzione ed a nulla servivano quindi le opere e la carità. Una visione tipica del
clima culturale e intellettuale che segnava la fine dell’Umanesimo e il tramonto del concetto dell’homo faber fortunae suae. Erasmo da Rotterdam fu invitato
ripetutamente a pronunciarsi sulla posizione di Martin
Lutero e finalmente, nel settembre del 1524, pubblicò il
suo libro De libero arbitrio. Ma perché un’opera sul
libero arbitrio? Principalmente perché era la questione della libertà ad essere al centro della discussione
ma anche, e non del tutto secondariamente, per un
motivo pratico: occupandosi della responsabilità umana davanti a Dio non si favoriva certo l’interesse della
Chiesa cattolica. C’è, infatti, da scorgere, nella sua
opera, una protesta in favore dei diritti dell’individuo,
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legata alla trasformazione del movimento, al nuovo
senso di esodo che ne derivava: mentre nel passato
erano le masse a muoversi, con il secolo dei lumi è
l’uomo ad avventurarsi, fisicamente e spiritualmente,
verso nuovi ed inesplorati territori di conoscenza e di
interiorità. Non casualmente questo momento viene a
coincidere con la nascita della Massoneria moderna,
movimento per eccellenza all’interno della propria spiritualità, alla scoperta di nuovi valori che assumono
l’uomo come centro dell’universo, riconoscendogli non
solo la capacità di un giudizio libero, scevro da vincoli
di sorta, ma anche il diritto di compiere questo cammino nell’interesse proprio e dei suoi simili (8). Ma come
sempre succede davanti al nuovo, la conquistata libertà comportò infiniti turbamenti e ci volle molto tempo
(9) perché l’uomo riuscisse a sconfiggere il senso di
abbandono ed il disequilibrio che gli derivavano dalla
perdita di premesse inconfutabili, sicuramente assai più
comode, conquistando il coraggio di avventurarsi, da
solo, alla scoperta di se stesso e del mondo che lo
circondava. E anche la Massoneria non poté giungere
a questa conclusione che in tempi abbastanza lunghi,
in epoca positivista, appunto.
tanto da farlo definire “cattolico e anticlericale” quando definisce il libero arbitrio come un potere della
volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene. Anche se a questo proposito si rivelerà poi fondamentale e centrale il
concetto di grazia, Erasmo è molto chiaro affermando
che arbitror esse aliquam liberi arbitrii vim dopo aver
precisato che la controversia non mette in discussione
l’autorità e il valore delle Sacre Scritture (6) ma il loro
senso. La soluzione di Erasmo, a suo stesso dire moderata, si trova comunque nella conclusione: l’uomo
può tutto con l’aiuto della grazia e dunque tutte le
azioni umane possono essere buone e siccome ogni
azione si sviluppa in tre parti (l’inizio, il progresso e la
fine) il libero arbitrio si ha solo nel progresso, cosicché le due cause – la grazia di Dio e la volontà umana
– si attuano nello stesso tempo in un’unica opera indivisibile (7).
Massoneria e libero arbitrio
Poniamoci qui alcune domande: è l’uomo capace di
attuare pienamente il libero arbitrio? Quasi sempre no,
condizionato com’è dalle mille regole che gli vengono
imposte per essere davvero libero; nel 1857, in piena
epoca positivista, Charles Baudelaire scrive in uno dei
suoi Fleurs (10) Homme libre, toujours tu chériras la
mer! Ma in realtà è libero l’uomo di scegliere la libertà?
E ancora: quando muore il profano e nasce il massone? Nasce quando la via iniziatica lo porta a scoprire
l’essenza di se stesso e solo allora comprenderà quale
sia il suo vero percorso, solo allora disporrà del libero
arbitrio; anche se l’iniziazione uccide il profano, quanti iniziati riescono davvero a liberarsi dalle catene delle
regole imposte e delle abitudini passive? In questo
senso dà una forte indicazione proprio il rituale del
30°, al quale si entra abbattendo le Colonne. Ma anche
qui non è certo facile, specie per un cattolico, far coesistere la propria Fede con un atteggiamento fortemente
oppositivo da parte della Chiesa, consolidatosi in questo senso – dopo la bolla In eminenti apostolatus
specula emanata nel 1738 da Clemente XII – anche
con la enciclica Humanum Genus emanata nel 1884 da
Papa Leone XIII (11) che per certi versi ha contenuti
abbastanza condivisibili, anche se i massoni c’entrano
ben poco. Un’umanità nuova sarà quella che nascerà
libera, libera dentro. Quella in cui l’uomo verrà educato ad esprimersi per quello che è e non per quello che
gli altri o la società vogliono che egli sia, in cui potrà
realizzare le proprie aspirazioni e le proprie ricerche in
piena libertà, senza condizionamenti materiali, legali o
psicologici. Non dovrà essere dichiarato libero, dovrà sentirsi libero. Qualcuno forse intendeva riferirsi a
La rottura con la tradizione
Non è affatto facile rendersi conto di cosa abbia
rappresentato la questione del libero arbitrio nei secoli
che precedettero l’illuminismo, quando la sua pur limitata e sommessa affermazione comportava – come rottura con la tradizione, non solo religiosa ma anche
culturale – anatemi e condanne: uscire dai canoni, anche se con dimostrazione scientifica, era perseguito e
ne fecero in vario modo le spese scienziati come Copernico, Galileo e Keplero. Una delle considerazioni
più interessanti che si possono fare a margine della
affermazione del libero arbitrio come modalità di approccio dell’uomo alla realtà che lo circonda è tuttavia
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religioso non solo alla struttura politica degli Stati
ma anche alla loro organizzazione sociale, al cospetto di civiltà che tali pretendono di essere ma non
sono. In questo contesto la Massoneria ha avuto
un ruolo estremamente importante proprio per aver
adottato come proprio principio fondante la certezza del libero arbitrio. Che poi per ammetterlo e parlarne in un Rituale ci sia voluto più di un secolo ha
davvero poca importanza.
questo ideale parlando del superuomo, come Nietzsche,
perché a volte i filosofi estremizzano i loro concetti per
rendere più chiaro il loro messaggio; una versione di
più immediata fruizione del superuomo potrebbe proprio essere quella dell’uomo libero, artefice autentico
del proprio destino. Quel che è certo, incontrovertibile,
è che il libero arbitrio ha permesso un’evoluzione sociale e civile che ha reso la nostra civiltà fortemente e
saldamente laica, abolendo forme di condizionamento
Note
(1) Appare nel Rituale attuale del 30° del Rito Scozzese
(2) Nella visione cattolica il termine arbitrio viene considerato come una libertà che si esaurisce interamente nella
scelta fra infinite possibilità aventi tutte lo stesso valore, dal momento che sono prive di una qualsiasi radicazione in
un senso obiettivo; poiché l’essere è neutrale di fronte ad ogni impatto che la libertà ha con esso, una scelta vale
l’altra; quindi una libertà “libera dagli affanni della realtà, ma libera anche dalle sue gioie, libera dalla sua benedizione”
(S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, Milano 1989, pag. 217).
(3) Il termine destino, o fato, si riferisce all’insieme di tutti gli eventi che accadono in una linea temporale, considerandoli come inevitabili in quanto manifestazione dell’irresistibile potere che determina il futuro, sia in termini generali
che di singolo individuo; il concetto è basato sul credo che esista un ordine naturale prefissato nell’universo, principio
assoluto iniziale delle religioni monoteiste.
(4) La dottrina della predestinazione formulata nella storia della Chiesa cristiana da teologi come Agostino di Ippona
e Giovanni Calvino è stata causa di costanti discussioni e controversie in quanto molti cristiani hanno rifiutato di
accettarla, sia nel passato (Pelagio nella Chiesa antica e John Wesley nel XVIII secolo) sia in epoca moderna; della
dottrina della predestinazione si hanno due interpretazioni: quella detta dell’elezione (Dio avrebbe preordinato tutto
ciò che deve accadere, Efesini 1: 11) e quella detta della riprovazione (Dio avrebbe scelto un numero determinato di
persone, accordando loro la grazia, mentre avrebbe determinato che il resto dell’umanità seguisse la via del peccato
fino alla punizione eterna, Romani 9:16-19).
(5) Il servo arbitrio è quel concetto filosofico e teologico secondo cui l’uomo non è libero nello scegliere liberamente
tra bene e male, essendo predestinato a compiere determinati atti; Martin Lutero, ne fece una delle basi della sua
religione.
(6) In alcuni passi, secondo Erasmo, si dimostra il libero arbitrio (gli uomini vengono esortati a scegliere il bene, Dio
si lamenta della rovina del suo popolo, Cristo piange su Gerusalemme apostata che lo ripudia, e la invita a seguirlo,
ecc.), e, anche se in altri sembrerebbe essere negato, spiega perché non vanno interpretati in quel modo.
(7) Un’idea che, secondo Godin, si può giudicare nelle sue grandi linee allineata all’etica di San Tommaso, santo sia
per la Chiesa cattolica sia per quella luterana, fondata sulla libertà dell’uomo che possiede il libero arbitrio, anche se
inteso solo come libertà di giudizio; in questo senso il libero arbitrio non è affatto in contrasto con la Provvidenza
divina, perché essa è al di sopra d’ogni giudizio e libertà umana.
(8) Kant afferma che l’Illuminismo é l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità intendendo come minorità l’incapacità
di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, imputabile a se stesso se non dipende da difetto di
intelligenza, ma da mancanza di coraggio nel far uso del proprio intelletto; sapere aude! ossia abbi il coraggio di
servirti della tua propria intelligenza! é d’altronde il motto dell’Illuminismo.
(9) Viene da citare a questo proposito anche l’Aforisma 125 di Nietzsche: Questo enorme avvenimento è ancora per
strada e sta facendo il suo cammino (…) Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le
azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora
sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!
(10) Sempre il mare, uomo libero, amerai! Perché il mare è il tuo specchio: tu contempli nell’infinito svolgersi
dell’onda l’anima tua e un abisso è il tuo spirito non meno amaro. Godi nel tuffarti in seno alla tua immagine:
l’abbracci con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore si distrae dal tuo suono al suon di questo selvaggio ed
indomabile lamento. Discreti e tenebrosi ambedue siete: uomo, nessuno ha mai sondato il fondo dei tuoi abissi;
nessuno ha conosciuto, mare, le tue più intime ricchezze, tanto gelosi siete d’ogni vostro segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate fra voi, talmente grande è il vostro amore per la strage e la morte, o lottatori eterni,
o implacabili fratelli! (L’homme et la mer, da Les fleurs du mal, 1857).
(11) (…) per essere l’umana natura infetta dalla colpa di origine, e perciò più proclive al vizio che alla virtù, non è
possibile vivere onestamente senza mortificare le passioni, e sottomettere alla ragione gli appetiti. (…) i massoni,
ripudiando ogni divina rivelazione, negano il peccato originale, e stimano non esser punto affievolito né inclinato al
male il libero arbitrio (Conc. Trid. Sess. VI, De justif., c. I.). Anzi esagerando le forze e l’eccellenza della natura, e
collocando in lei il principio e la norma unica della giustizia, non sanno pur concepire che, a frenarne i moti e moderarne gli
appetiti, ci vogliono sforzi continui e somma costanza. E questa è la ragione, per cui vediamo offerte pubblicamente alle
passioni tante attrattive: giornali e periodici senza freno e senza pudore; rappresentazioni teatrali oltre ogni dire disoneste;
arti coltivate secondo i principi di uno sfacciato verismo; con raffinate invenzioni promosso il molle e delicato vivere;
insomma cercate avidamente tutte le lusinghe capaci di sedurre e addormentare la virtù. (…).
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Una riflessione da Apprendista
Aristide Pellegrini
l’uomo nella sua condizione “naturale”, appartiene alla
terra, rappresenta la “Terra”, nel senso più ampio del
termine: è soggetto alle suggestioni terrene, talora ne è
addirittura schiavo, è del tutto ignaro del vero sapere; è
un grumo di terra informe, è una pietra grezza, tutta da
lavorare, e come tale non utilizzabile per la costruzione. Il
colore nero, la ristrettezza dello spazio, la semioscurità
del locale, la sua stessa collocazione inequivocabilmente
ipogea, non fanno che rimarcare l’appartenenza alla “Terra”, del locale e di chi ne è ospite, almeno transitoriamente. Per accedere all’Iniziazione, è necessario discendere
nella “Terra”, ed assai appropriatamente, il Gabinetto di
Riflessione rappresenta per il profano la prima prova,
quella legata appunto alla terra, all’elemento terra, da cui
il neofita dovrà passo dopo passo distaccarsi, e liberarsi,
se vorrà progredire nella ricerca della “Luce”. Nell’oscurità di quella stanzetta, appena rischiarata dalla luce di
una candela, il profano può vedere infatti una clessidra,
trasparente allusione al tempo ed alla sua inarrestabile
fugacità, alla ineluttabile caducità di tutte le cose umane,
terrene appunto. Insomma alla morte, quella fisica e quella simbolica, ma vede anche l’immagine di un gallo, che
in Alchimia è il simbolo di Ermes, o Mercurio, simboleggiante la possibilità cambiare profondamente se stesso,
perché il gallo canta per annunciare la nascita del sole, e
quindi il ritorno della Luce, il ritrovamento della Luce.
Quindi morte insieme a resurrezione, nel ciclo perenne
del divenire, della Vita, intesa in senso fisico, ma soprattutto iniziatici con la possibilità di cambiare se stessi, di
rinnovare se stessi, di migliorare se stessi attraverso il
rinnovamento, il risveglio e la rinascita, che il profano
troverà nell’Iniziazione.
Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante
novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a
salire a le stelle. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio XXXIII, vv 142-145).
Il bisogno di percorrere la Via Iniziatica è antico
quanto l’uomo, ed ha portato alla manifestazione dei
primi Misteri, antiche Scuole iniziatiche che hanno profondamente coinvolto gli ambenti sociali e culturali delle
civiltà attive all’epoca, e che attraverso la Tradizione
continuano a manifestare i loro effetti ancora oggi. Ed
è stato proprio quel bisogno di condividere quel cammino con altri Fratelli, di aiutarci reciprocamente nelle
difficoltà della ricerca e di trovare consiglio, sostegno
ed incoraggiamento nei lavori di Loggia, che ci hanno
spinto a “bussare” per entrare nel nostro Ordine. Pur
nella primaria condizione di Apprendista, abbiamo avuto modo di sviluppare già molte esperienze significative, scaturite dal contatto e dal confronto con i Fratelli,
nonché dal recepimento di insegnamenti che l’Istituzione saggiamente dispensa a tutti noi.
Ma l’approfondita e consapevole considerazione
di un altro elemento che compare in evidenza nel Gabinetto di Riflessione, per le molteplici, coinvolgenti ed
assolutamente suggestive implicazioni che contiene e
che stimola, costituisce un vero fattore di shock per
l’iniziando: il potentissimo acronimo VITRIOL. È ben
noto, anche nel mondo profano, che tale espressione
corrisponde alla frase latina “Visita Interiora Terrae
Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, che talora
si trova scritta anche come “Visita Interiora Terrae
Rectificando Invenies Occultum Lapidem Veram
Medicinam”. Tale frase è attribuita a Basilio Valentino,
un monaco benedettino del XIV secolo, assai noto per
i suoi studi alchemici. La traduzione “letterale” della
frase di per sé non è molto significativa, anzi proprio il
profano non riesce a coglierne alcun significato immediato: “Visita i recessi della terra, e rettificando troverai la pietra nascosta (vera medicina)”; è naturale che
ad una prima lettura la frase resti oscura. Ma rifletten-
Purificazione di Dante, XXXIII Canto del Purgatorio
Già dal primo ingresso nel Tempio si acquisiscono
profondi stimoli alla riflessione. Ma è dal primo “contatto” che il profano sperimenta con la materia esoterica,
che avviene nel Gabinetto di Riflessione, che si considera significativo e determinante un elemento presentato
dalla saggezza dell’Ordine. In tale locale dominano elementi di sapore squisitamente alchemico, a sottolineare
la enorme importanza del sapere custodito dall’Alchimia
nel grande fiume della tradizione. In senso alchemico,
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periglioso, impegnativo ed arduo cammino che è stato
delineato, premio che attende chi riuscirà a percorrere la
Via fino in fondo. È il “Lapis Philosophorum”, la Pietra
dei filosofi, quella Pietra filosofale che racchiude la Vera
medicina.
do, e naturalmente cominciando a fare anche solo i
primi passi sulla via, lentamente affiorano i primi veri,
sconvolgenti significati di quelle oscure parole.
“Visita”, verbo che anche in italiano esprime una
nozione di mobilità, di movimento, di spostamento, di
recarsi in un altro luogo, in un luogo diverso dal nostro
spazio abituale, consueto, ormai noto. Significa muoversi, e prendere coscienza e consapevolezza di ciò che sta
più in là del posto che abbiamo occupato finora. Significa andare per conoscere qualcosa di nuovo, finora a noi
sconosciuto, che può trovarsi anche fisicamente prossimo, non necessariamente lontano, ma sicuramente incognito, non ancora conosciuto.
“Interiora”, con quel senso un po’ greve che la parola conserva in italiano, che ci rimanda subito a visceri e
fermentazioni, allusivo a ciò che è più interno, più intimo,
più “viscerale”. Afferente alle pieghe, ai recessi, alle profondità più intime e nascoste del nostro essere, a quelle
zone di noi stessi che conosciamo meno, e che conservano un senso di pesantezza, di oscurità, quasi di timore
per chi vuole affrontarle e conoscerle.
“Terrae”: è la terra, ma è il simbolo di ciò che è l’uomo
“naturale”, un impasto di terra, appunto, un qualcosa di
ancora informe, non lavorato, non raffinato, non evoluto.
È l’immagine di come siamo noi uomini, all’inizio della
nostra evoluzione esoterica. Noi siamo terra, e quella
“Terra” della frase di Basilio Valentino siamo noi: la terra
siamo noi.
“Rectificando”: è la parola veramente terribile, lo snodo del concetto di tutta la frase, il fulcro della leva che
sconvolge la nostra mente; lo shock che subiamo, insomma. “Rettificando” dunque, ma che cosa? Il cammino, la strada seguita fino ad allora, l’itinerario, come si
potrebbe supporre continuando la metafora di movimento suggerita dall’iniziale “Visita”? No. “Rectificando” non
si riferisce alla strada seguita, ma a noi stessi; dobbiamo
rettificare non l’itinerario da seguire, ma il contesto stesso dove ci muoviamo, l’ambiente, il contesto, noi stessi.
Perché tutto questo, nella grande tradizione del viaggio
iniziatico (una sola, ovvia citazione: La Divina Commedia), è un viaggio all’interno di noi stessi, che deve
procedere tramite un nostro continuo cambiamento, un
costante rimodellamento del nostro essere e una perenne tensione ad elevare la nostra anima, nella direzione suggerita dagli insegnamenti tradizionali. Questo è
lo sconvolgente significato di “Rectificando”, così semplice, ed insieme così terribile, così apparentemente
banale, ed invece così profondo.
“Invenies”, cioè “troverai”; una parola che prelude
alla repertazione di un qualcosa, al rinvenimento di un
qualcosa di notevole, con questo tempo futuro che allude all’immanenza di un incontro, di un evento, di un ritrovamento, ancora non conosciuto ma che viene presagito
come assolutamente significativo, pregnante, probabilmente di valore ultimativo.
“Occultum Lapidem”, cioè “La Pietra nascosta”, che
è la ricompensa finale e catartica che sta in fondo al
Non si può restare insensibili al fascino del mondo concettuale riassunto in quella frase, che esprime uno dei punti
culminanti dell’espressione esoterica di quella disciplina. che
per chi la professava, ai tempi di Basilio Valentino, costituiva
un vero pericolo personale, visto il clima di repressione, se
non di vera e propria persecuzione, che la Chiesa di Roma
aveva instaurato. L’Alchimia medioevale costituì un coraggioso nucleo di espressione di libertà di pensiero in una
società che semplicemente non la concepiva nemmeno, oltre
a rappresentare una isolata iniziativa culturale, filosofica ed
iniziatica volta alla ricerca della Verità, caratterizzata dall’essere assolutamente adogmatica, e manifestamente ispirata agli
insegnamenti di Ermete Trismegisto, il primo Maestro che
nell’antico Egitto insegnò le scienze occulte. E poiché
l’Ermetismo e quindi l’Alchimia, avevano una chiara derivazione dall’antico Egitto, quindi dal mondo “pagano” pervenuto fondamentalmente attraverso il filtro del pensiero
gnostico, fu considerato apertamente “eretico” dalla Chiesa.
Poiché tali Scuole iniziatiche insegnavano una conoscenza
dell’uomo e della natura di Dio decisamente in contrasto con
i dogmi ufficiali della Chiesa, è evidente che queste caratteristiche resero necessario per gli alchimisti adottare linguaggi,
allegorie, simboli, procedure e formule assolutamente non
comprensibili a chi non era iniziato, e l’acronimo VITRIOL ne
è un riuscito esempio.
Questa meravigliosa frase è la raffigurazione allegorica di
tutto il Cammino iniziatico, espresso con estrema sintesi, ma
insieme con grandissima profondità. Se convenientemente
comprese e meditate, le parole del monaco medioevale non
mancano di sconvolgere, marcando così discorsivamente,
ed insieme così efficacemente, tutta la bellezza e la grandiosità del compito che aspetta chi aspira a vivere l’esperienza
iniziatica. Si tratta di un’impresa assai notevole, che l’Iniziato
non può compiere da solo, necessitando della guida, dello
stimolo e del suggerimento che gli provengono dalla saggezza del nostro Ordine, che ha adeguatamente ed opportunamente regolato e stabilito le tappe, i gradi e le regole che
guideranno il neofita sulla via, così aspra e difficile, ma insieme così suggestiva e coinvolgente. Così insignificante per
chi vive nella terra dell’oscurità, ma così attrattiva per chi ha
potuto elevarsi anche solo di poco dalle pesantezze terrestri,
ed intuire che solo l’elevazione del proprio essere può far
muovere qualche passo sulla via della tradizione anche a noi
uomini di oggi. Solo dopo la presa di coscienza dei propri
limiti legati all’elemento terra, possiamo innescare l’opera di
rigenerazione, fisica e spirituale, necessaria per liberarsi da
tutto ciò che ci lega alla terra ed ai suoi condizionamenti.
Quando si sarà liberato da questa zavorra, l’uomo potrà aspirare a seguire la Via iniziatica, perché allora sarà rifatto sì
come piante novelle, rinovellate di novella fronda, puro e
disposto a salire a le stelle.
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Notiziario
Novità librarie e recensioni
La vita e il mondo di Leon Battista Alberti. Atti del Convegno internazionale a Genova il 19-21 febbraio 2004. Due tomi
di XVIII-674 pagine con 40 tavole f.t. di cui 2 a colori. Casa Editrice Leo S. Olschki, Collana Ingenium, volume 11. Firenze 2008,
prezzo € 68,00. Il Convegno è stato organizzato con l’intento di mettere a fuoco la vicenda biografica di Leon Battista Alberti
rimasta sostanzialmente ancorata fino ad oggi a quella proposta il secolo scorso da Girolamo Mancini. Dal Convegno sono emersi
nuovi dati in relazione alla famiglia Alberti, alle sue attività e alle sue importanti connessioni con la società del tempo. Nuovi e
importanti contributi riguardano la presenza dell’Alberti a Roma e nelle altre città dove ha operato.
Leon Battista Alberti, grande umanista, teorico e architetto del Rinascimento (1404-1472) nacque a Genova nel febbraio 1404
ed a Genova si svolse il Convegno internazionale – oggetto della mirabile e ineguagliata pubblicazione della Casa Editrice Leo S.
Olschki – nel quadro delle iniziative promosse dal Comitato Nazionale VI centenario della nascita. Obiettivo del Convegno fu la
revisione della sua biografia, per molti aspetti ancora oscura, cercando di fare nuova luce almeno su alcuni dei molti interrogativi
ancora aperti, ricostruendo i diversi contesti culturali, il ruolo che ebbero le città nelle quali visse o si fermò un tempo significativo
e, al tempo stesso, ripercorrere la rete vastissima dei rapporti umani e di lavoro che portarono l’Alberti al servizio delle
committenze più illuminate del tempo. I temi del Convegno si estesero anche al secolo in cui l’Alberti visse, alla particolare
prosperità dell’economia genovese all’inizio del Quattrocento e ai rapporti della famiglia Alberti con Genova. Agli inizi del
Quattrocento Genova era uno dei più attivi porti del Mediterraneo ed anche – come fu nei tre secoli successivi – una delle città
“capitali” europee della finanza e del commercio. Il padre Lorenzo vi giunse quando, nel 1400, un ramo degli Alberti, importante
famiglia e società di mercanti banchieri fiorentini, era stato bandito da Firenze. La città ligure, nelle convulse fasi del Grande
Scisma, accoglieva due pontefici di cui gli Alberti erano, con altri, banchieri e cambiatori. Consolidarono così interessi economici
e solidarietà con eminenti famiglie genovesi legate al potere, quali i Fieschi, i Lomellini, i Vivaldi e i de Mari, impegnati come loro
nei traffici sulle più importanti piazze europee e nell’attività di cambio al servizio della Curia pontificia. Le potenzialità di Leon
Battista, d’altra parte, non si esaurirono in questo panorama pur ampio ma si estesero ad una vastità di interessi e competenze
impressionanti: scrittore e teorico ma anche architetto e progettista pragmatico, scienziato e naturalista, esperto di musica e
conoscitore della medicina, antiquario, anzi archeologo ante litteram, teorico dell’arte pittorica come della scultura e primo
moderno interprete del testo di Vitruvio. Si trascrive, di seguito l’indice della pubblicazione che ha integralmente rispettato il
programma degli interventi che si sono svolti nei tre giorni prestabiliti.
TOMO I
Premessa: Francesco Paolo Fiore, Liliana Pittarello e Giuseppe Pericu, Interventi. Giovanna Petti Balbi, Ricordo di Giovanni
Ponte.
Introduzioni: Anthony Grafton, Un pass-partout ai segreti di una vita: Alberti e la scrittura cifrata. Roberto Cardini: Alberti
scrittore e umanista. Francesco Paolo Fiore, Leon Battista Alberti architetto.
Biografia e autobiografia: John Woodhouse, La vita di Leon Battista Alberti: interpretazioni inglesi. Luca Boschetto, Tra
biografia e autobiografia. Le prospettive e i problemi della ricerca intorno alla vita di Leon Battista Alberti. Michel Paoli, L’influenza
delle due Vite albertiane di Vasari (secoli XVI-XVIII). Thomas Kuhen, Leon Battista Alberti come illegittimo fiorentino. Paola Benigni,
Tra due testamenti: riflessioni su alcuni aspetti problematici della biografia albertiana.
Alberti e Genova: Giovanna Petti Balbi, Famiglie e potere: gli Alberti a Genova tra XIV e XV secolo. Giuseppe Felloni, Niccolò
Lomellini: un banchiere genovese degli Alberti. Paola Massalin, Dagli archivi privati Alberti Gaslini e Alberti La Marmora agli
archivi pubblici: percorsi per una ricerca su Leon Battista e la sua famiglia. Susannah E. Baxendale, Aspetti delle società e delle
compagnie della famiglia Alberti tra tardo Trecento e primo Quattrocento.
TOMO II
I luoghi della vita: Silvana Collodo, L’esperienza e l’opera di Leon Battista Alberti alla luce dei suoi rapporti con la città di
Padova. Roberto Norbedo, Considerazioni intorno a Battista Alberti e Gasparino Barzizza a Padova (con un documento di Leonardo
Salutati). David A. Lines, Leon Battista Alberti e lo studio di Bologna negli anni Venti. Lorenz Böninger, Da ‘commentatore’ ad
arbitro della sua famiglia: nuovi episodi albertiani. Maria Pavón Ramírez, L.B. Alberti, oficial de la cancelleria pontificia: nuevos
documentos del archivo secreto vaticano. Riccardo Fubini, Leon Battista Alberti, Niccolò V e il tema della ‘infelicità del principe’.
Arturo Calzona, Leon Battista Alberti e l’architettura: un rapporto complesso.
Catalogo dell’esposizione collaterale. Gli Alberti da Firenze a Genova. Banchieri e mercanti fiorentini in una capitale del
commercio europeo: Alfonso Assini, Introduzione. Enrico Basso, I documenti dell’archivio Alberti Gaslini. Valentina Ruzzin, Gli
Alberti di Firenze nella documentazione dell’Archivio di Stato di Genova. Catalogo. (Recensione del Fratello Blasco Mucci).
Gelli e la P2 fra cronaca e storia. Aldo Alessandro Mola, Casa Editrice Bastogi, Foggia, 2008, pagine 568, prezzo € 25,00.
Dopo trent’anni di contumelie, processi politici e indagini giudiziarie contro la Libera Muratoria, una voce si alza alta sui roghi dei
massoni, fomentati dalla così detta opinione pubblica: manipolata dal corto circuito innescato da “informatori” (o imbonitori)
addetti a inventare il Mostro, a demonizzare la Loggia “Propaganda massonica” n. 2 e tutta la massoneria italiana. Chi ha vissuto
come me, sulla propria pelle, la vicenda descritta da Mola in modo accurato e veritiero, si rese conto della fragilità dell’Istituzione
massonica. Da una parte i mass media attribuivano alla Massoneria poteri che neppure nella fantasia della polizia zarista gli
“anziani savi di Sion” hanno mai posseduto, dall’altra ci imputavano ogni malefatta, ogni reato, ogni attentato terroristico che gli
anni di piombo ci andavano regalando. Nessuna distinzione si faceva, come Mola ricorda nella sua opera, fra P2 e Massoneria nel
suo insieme. Per anni i nostri nomi sono stati messi alla gogna sui più diffusi periodici. Il quotidiano di un certo partito pubblicò
addirittura un libretto con i nomi dei Fratelli d’Italia, come fosse la lista di proscrizione, un elenco di persone dannate all’infamia
perenne. In effetti è rimasta. Quel libretto contiene, con altre, l’intervista di un docente universitario che alla domanda del
malizioso giornalista se la Massoneria fosse una fucina di complotti rispose con un “ni”; per cui trovandoci in un momento di
azioni terroristiche i massoni potevano essere creduti mandanti della strage degli Uffizi e di altre già sotto inchiesta della
magistratura. Se qualcuno dei giovani Fratelli non mi crede, poiché sono passati quasi trent’anni da quando ci svegliammo
perseguitati come novelli ebrei, avrà pur sentito dire di recente, sempre da certi mass media, che il mostro di Firenze, nel
compimento degli efferati delitti, era il semplice esecutore di mandanti di evidentissime congreghe massoniche! Insomma da tanti
decenni abbiamo avuto sulla nostra spalla destra il segno del diavolo impresso a fuoco. Qualunque “fattaccio” avvenisse in Italia
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si andava subito a cercare se il reo aveva il segno del diavolo per poterlo mettere al rogo, lui ed i suoi intrinseci e parenti sino alla
settima generazione, ovviamente ancor prima di un processo legittimo e della prova di colpevolezza. Mai una voce alta si levò,
solo qualche incerto e tremulo balbettio: voci fioche al confronto di centinaia di pamphlet e migliaia di riviste (la Massoneria in
quel senso rendeva molto) che oscurarono la verità, la nostra verità. Ora finalmente il libro di Mola fa giustizia nei confronti dei
numerosi Fratelli che nel frattempo sono deceduti e di coloro che a strapiombo sul burrone della malafede altrui continuarono il
cammino da soli, senza protezione, ma con la certezza della loro buona fede, dell’onestà appresa nelle proprie famiglie e nel
tempio massonico. Quante carriere stroncate! Che vergogna andare al lavoro ogni giorno ed essere additati come il male d’Italia, noi
che avevamo scritto cose benevole nel nostro testamento spirituale: Cosa devi alla Patria?
Oggi scriverei: Resistere, resistere, resistere! Così facemmo e la Massoneria grazie a noi è sopravvissuta a partiti ormai
dissolti nel nome e nel ricordo. Quegli stessi partiti che nella Commissione Anselmi (1982-84), tutti uniti, ci condannarono senza
che fosse provata alcuna colpa, senza prove, come documenta Mola; e nemesi storica tanto per ricordare il Vangelo di Giovanni,
chi di spada colpisce di spada perisce: mani pulite docet. Sotto l’incalzare di inchieste settarie, promosse da commissioni
parlamentari e tribunali del popolo, condotte con cipiglio da Santa Inquisizione, sparì in un baleno la migliore dirigenza dello Stato,
quella uscita dalla guerra e che aveva ricostruito l’Italia sconfitta, ridotta nel territorio, piena di debiti di guerra, ma che in pochi
anni aveva riportato la nazione ad essere la settima potenza mondiale. Leggendo questo libro di verità, questo vangelo massonico,
facciamo fatica a non dare ragione a Vico con i suoi corsi e ricorsi storici: in duecento cinquanta anni di esistenza troppe volte la
Massoneria si è fatta male da sola. Un cannibalismo fra Fratelli che di quando in quando si autodivora e totemisticamente, come
spiega Freud, divora pure i padri, cioè i Grandi Maestri, non appena lasciano il Supremo Maglietto. Aldo Alessandro Mola.
documenti alla mano, smaschera decenni di assurdità. Una revisione necessaria. Questo è un libro che ogni massone farà bene a
leggere e a conservare per i momenti di sconforto. Ne abbiamo passate tante. Perciò, ricorda Mola, abbiamo diritto a una legge che
ci liberi dalla condizione di “figli di un Dio Minore”. Siamo i depositari del Grande Architetto dell’Universo. Hanc eandem.
(Recensione del Fratello Gugliemo Adilardi).
Manifestazioni
Seminario su “Massoneria ed esoterismo”. Ha avuto un grande successo il Seminario svolto il 15 novembre 2008 a
Firenze nella Sala Blu dell’Educatorio del Fuligno, Via Faenza 48 e organizzato dal Collegio Circoscrizionale dei MMVV della
Toscana, cui hanno partecipato oltre cento Fratelli. Dopo il saluto del Presidente Stefano Bisi, gli interventi di Luigi Sessa (Il
progetto architettonico, dal pavimento a quadretti alla tavola da disegno e al quadro di Loggia) e di Morris Ghezzi (L’Ordine
iniziatico tradizionale) sono stati introdotti da Francesco Borgognoni e moderati da Lorenzo Del Lungo. Moreno Milighetti,
Vicepresidente del Collegio, ha rivolto il ringraziamento della Giunta ai relatori del Seminario, a coloro che si sono adoperati per
la sua riuscita ed a tutti i Fratelli che hanno sollecitato il proseguimento di questi incontri, ricordando che sono stati sei i Convegni
e i Seminari organizzati dal Collegio nel 2008, in diverse sedi e luoghi della Regione, tutti caratterizzati dalla notevole levatura
culturale dei vari relatori, profani e non, che vi si sono alternati.
Festa della Luce 2008, 13 dicembre 2008. Terminata la nostra Festa della Luce – che a giudicare dalle e-mail e dalle
telefonate di ringraziamento ricevute, è stata vivamente apprezzata dagli oltre 500 Fratelli ed ospiti profani presenti – desidero
condividere con tutti voi la gioia per la riuscita della cerimonia e della successiva Agape, frutto di un lavoro corale di tanti Fratelli
che desidero ringraziare, anche a nome della Giunta, sia che abbiano lavorato all’organizzazione senza comparire, sia che abbiano
condotto la cerimonia, come il Maestro Venerabile, le Luci, i Maestri delle cerimonie. Mi è grato anche comunicarvi il ringraziamento
dei fratelli “quarantenni”, della delegazione francese, del Vicepresidente del Consiglio Regionale Angelo Pollina e dell’Europarlamentare
Paolo Bartolozzi. Mi è soprattutto caro trasmettervi le emozioni dei Fratelli non vedenti festeggiati in questa occasione, Marcello
Fabbri e Franco Lampani, felici di aver percepito il calore del nostro affetto fraterno. A loro volta ci hanno trasmesso tanta luce,
come fanno ogni giorno: la luce della saggezza, della bontà e dell’ironia. Che ci accompagnino sempre nel nostro cammino! Un
abbraccio forte a tutti voi ed un rinnovato augurio. (Comunicazione del Fratello Stefano Bisi, Presidente del Collegio Circoscrizionale
MMVV della Toscana).
6 gennaio 2009. Il Concerto dell’Epifania di Lucca. Grazie al grande successo di pubblico che ha affollato l’Auditorium di
San Romano per l’eccellente Concerto dell’Epifania, l’associazione “La Piramide” – ONLUS di riferimento della Massoneria
lucchese del GOI, curata dalla RL “Burlamacchi” (1113) – ha devoluto 3.000 Euro al Comitato “Lucca Bimbi” facente capo
all’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Lucca e nato per volontà del Sindaco Mauro Favilla. “Lo scopo del Comitato ha
affermato Angelo Monticelli, Assessore al sociale che ne è il Presidente non è quello di duplicare gli aiuti messi in atto dall’ASL
e dai servizi sociali comunali, ma di intervenire in aiuto delle famiglie in difficoltà per gli sforzi necessari a sostenere bambini
gravemente ammalati. L’aiuto verrà fornito – su base di precisi riscontri contabili ed esclusivamente in presenza di gravi e
riscontrate malattie in età pediatrica – dopo l’attento giudizio dei membri del Comitato”.
Attività e Comunicazioni da parte del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana
Con i prossimi numeri il Notiziario conterrà soltanto le “news” che non sono state precedentemente pubblicate sul
sito [email protected] del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana preposto a questa specifica. I
Fratelli possono accedere alla struttura richiedendo “password” e “username” al mail sovraspecificato. “Il
Laboratorio” è però, a sua volta, a disposizione per adempiere ad ogni richiesta, dei Fratelli e delle Officine, che sia
pertinente a una “memoria storica”.
Il Collegio Toscano condanna i vandalismi ai luoghi israelitici toscani. Purtroppo anche in Toscana si stanno verificando
episodi gravissimi segno di intolleranza e razzismo. Nei giorni scorsi sono stati presi di mira alcuni luoghi di culto israelitico che
fanno temere il ciclico riemergere di un antisemitismo sempre strisciante. È accaduto a Pisa, dove vandali hanno imbrattato i muri
della sinagoga con vernice. È accaduto a Firenze, dove pericolosi ignoti hanno lasciato un rudimentale ordigno di fronte alla Chabad
House di via dei Pilastri, accanto al Tempio israelitico maggiore di via Farini.
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Il Collegio dei MMVV della Toscana condanna tali gesti irresponsabili, frutto dell’ignoranza della storia e della caduta della
ragione. I massoni toscani sono vicini ed esprimono solidarietà alle comunità ebraiche di Pisa, Firenze e di tutta la regione,
auspicando che l’attenuarsi della crisi nella striscia di Gaza diminuisca la tensione internazionale e riporti un sentimento di
fratellanza tra i popoli, stemperando gli animi di chi vuole cercare un nemico ad ogni costo e lo individua nei simboli di ricerca di
spiritualità. La Toscana è da sempre terra di libertà, di rispetto dei diritti umani, di asilo per gli esuli e di accoglienza per gli
oppressi. Già in epoca granducale, quando nel confinante Stato della Chiesa si verificavano rigurgiti antisemiti, la Toscana apriva
le sue porte, tanto che nel Grossetano esistono paesi come Pitigliano, la “piccola Gerusalemme”, dove è ancora vivo il ricordo della
presenza ebraica. A Livorno poi, con l’emanazione delle Leggi Livornine, ogni confessione religiosa ebbe diritto di espressione e
genti diverse ebbero possibilità di vivere in pace e armonia. Auspichiamo che questa armonia non venga interrotta dalla follia di
pochi. Occorre vigilare e illuminare le menti non sottovalutando segnali che potrebbero degenerare in derive che la storia ha già
registrato. (Testimonianza di Stefano Bisi, Presidente Collegio toscano).
Il pensiero libero dell’Italia moderna. Sabato 14 febbraio 2009, alle ore 16 nella Casa massonica di Firenze in Borgo degli
Albizi 18, il Professor Michele Ciliberto, ordinario di Storia della Filosofia moderna e contemporanea presso la Scuola Normale
Superiore di Pisa, ha presentato l’ultimo libro da lui curato ed edito da Laterza dal titolo “Biblioteca Laica – Il pensiero libero
dell’Italia moderna”. La presentazione, promossa dal Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana, curata e coordinata dal
bibliotecario Francesco Borgognoni, è stata introdotta da Moreno Milighetti, Vice Presidente del Collegio Circoscrizionale della
Massoneria toscana.
Dal Blaue Blatter
L’Ordine dei Mops (ovvero Il segreto svelato della società dei Mops) di Gerhard Leupold. Numero 363, pag. 9, del febbraio
2008. Traduzione di Flavio Di Preta. Nella Casa massonica di Norimberga sono esposti all’interno di una vetrina figure di
porcellana Meissen, che rappresentano dei liberi muratori; in corrispondenza dello zoccolo si può vedere raffigurato un Mops!
Viene da chiedersi cosa c’entra un Mops, un cagnolino molto vezzeggiato e da tenersi in grembo ai tempi del rococò, con la
Massoneria? Le figure sono state create dal famoso scultore della manifattura di Meissen Johann Joachim Kaendler tra il 1741 e
1744 ed il cagnolino ivi raffigurato sta ad indicare che i personaggi rappresentati appartengono all’Ordine dei Mops. Questa
società di carattere massonico venne fondata nel 1740, sembra, da August von Clemens come reazione alla bolla emanata da papa
Clemente XII contro la Massoneria (“In eminenti apostulatus specula”), che vietava, pena la scomunica, l’appartenenza alla Libra
Muratoria di cui facevano parte anche religiosi cattolici. L’Ordine fondato da August von Clemens ammetteva anche le donne,
purché fossero cattoliche. Il Mops era il simbolo della fedeltà e della fermezza e non appartiene a razze di animali feroci usate di
solito nell’araldica come aquile, orsi e leoni. Tramite l’allevamento secolare il Mops – un tempo in Cina compagno di Gengis Kahn
nelle sue campagne militari – è divenuto un cane da salotto. In Amsterdam nel 1745 venne pubblicato uno scritto dal titolo “Il
segreto rivelato della società dei Mops” unitamente al loro rituale. Rare sono le notizie sulla storia dell’Ordine in quanto
scarseggiavano gli appunti e veniva mantenuto il giuramento sulla segretezza.
È interessante sapere che l’ordine teneva in Norimberga un capitolo fondato nel 1744 da Johann Georg Freiherr Von Hagen.
Le riunioni dei membri avevano luogo all’inizio “in ambienti estranei”, ma più tardi nel castello di Oberburg, di cui era proprietaria
la famiglia Von Hagen. Altre Logge sono segnalate in Francia, a Halle, in Amburgo e in molte altre località. Grazie alle “pubblicazioni
traditrici” siamo al corrente del rituale della cerimonia di iniziazione, che prevedeva l’adozione di un collare da cane: i profani
dovevano grattare alla porta per ottenere il permesso di entrare, dopodiché venivano condotti con gli occhi bendati per nove volte
intorno ad un tappeto, mentre i Fratelli e le Sorelle Mops producevano rumori vari, ringhiavano ed abbaiavano. Tutto questo
aveva come scopo di saggiare la resistenza e la fermezza dei novizi, che alla fine, quale momento costitutivo della cerimonia di
iniziazione, dovevano baciare un Mops sotto la coda quale espressione di totale sottomissione e dedizione. Si trattava comunque
di un Mops di porcellana. L’ordine dei Mops era figlio del suo tempo ed ebbe modo di estendersi ulteriormente; oggi ci può sembrare
incomprensibile e divertente, ma può essere spiegato con il clima del rococò. Nonostante diversi divieti (quello del 1748, rinnovato
nel 1768) l’Ordine ha vissuto ancora a lungo, tanto che nel 1785 sopravviveva ancora a Jena e a Marburgo. A causa del già
rammentato obbligo al silenzio da parte dei Fratelli e Sorelle Mops i pochi documenti pervenutici sono avari di informazioni: ed infatti
i Mops hanno portato i loro segreti con sé nella tomba e noi possiamo venire a sapere qualcosa solo da ritrovamenti occasionali e
fortuiti. Mops è parola in uso nell’area di lingua tedesca per indicare un cane da compagnia diverso dal mastino inglese, che ha
forma robusta e tarchiata, alto cm. 30 al garrese con pelo raso di color fulvo-giallastro: da noi prende il nome di “Carlino”.
Necrologi
Giampaolo Albergucci. Al piedilista della RL “Carmignano Carmignani” (475) all’Oriente di San Marcello Pistoiese è
passato all’Oriente Eterno il 23 novembre 2008. Entrato in Massoneria da oltre trent’anni aveva frequentato i lavori di Loggia sino
a quando le condizioni di salute glielo avevano permesso. Rappresentava un esempio di attaccamento e di amore verso l’Istituzione,
un Fratello “old time”, uno da guardare con ammirazione e da non dimenticare. Al di là delle cariche di Loggia, ricoperte nel tempo
Giampaolo aveva sempre assicurato ai suoi Fratelli una sincera amicizia ed umanità. Alla Famiglia e alla sua Officina le più sentite
condoglianze de “Il Laboratorio” e di tutta la Comunione massonica della Toscana. (Comunicazione del Fratello Blasco Mucci).
Silvano Berti, al piedilista della RL “Acacia” (727) all’Oriente di Firenze, è passato all’Oriente Eterno il 12 novembre 2008.
La sua Loggia lo ha visto interprete e determinante protagonista della crescita dell’Officina. Era entrato in Massoneria da oltre
trenta anni ricoprendo principalmente la dignità di Tesoriere, svolta con dedizione, severità e benevolenza. Non è retorica
affermare che il Fratello Silvano era conosciuto ed amato da tutti, per le sue elevate doti di comunicativa ed umanità. (Comunicazione
del Fratello Blasco Mucci).
Mezzanotte in punto
Una volta ottenuto il beneficio, il donatore è dimenticato. (William Congreve).
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n° 83 - Base