STORIA SOCIALE DELL’EDUCAZIONE
Collana diretta da Carmela Covato e Simonetta Ulivieri
La Collana intende prendere in esame e rivalutare ambiti della
storia dell’educazione ai quali l’analisi degli studiosi di storia della
scuola, delle istituzioni educative e dei sistemi di formazione e
d’istruzione si è rivolta finora solo parzialmente o sporadicamente.
In particolare, riteniamo importante prestare attenzione alle indagini relative alla critica delle rappresentazioni sociali delle identità (dall’età al ceto o al genere) e al loro rapporto con i processi formativi nella storia dell’educazione e della società. La Collana vuole valorizzare quelle ricerche che, nell’affrontare specifici temi storicoeducativi sulla base del ricorso a una molteplicità di fonti, siano,
allo stesso tempo, sensibili a un’elaborazione di nuove ipotesi interpretative e alla costante verifica dei modelli storiografici e dei percorsi teorici. Sarà, dunque, dato ampio spazio alle questioni di
‘frontiera’, come il rapporto fra genere ed educazione, differenza e
processi formativi, normalità e segregazione nelle istituzioni educative, assistenziali e ri-educative. Saranno anche affrontati temi collegati all’immaginario, alle sue rappresentazioni sociali e, inoltre,
aspetti inerenti all’analisi della cultura materiale e della vita quotidiana, con lo scopo di approfondire quelle implicazioni educative
finora trascurate anche dalla storia sociale.
La Collana si apre alla collaborazione di quanti, studiose e studiosi, abbiano l’ambizione e il coraggio di delineare nuovi ambiti e
nuovi itinerari nella storia dell’educazione.
Nella collana:
1. C. Covato, S. Ulivieri (a cura di), Itinerari nella storia dell’infanzia.
Bambine e bambini, modelli pedagogici e stili educativi
2. G. Di Bello, V. Nuti, Soli per il mondo. Bambine e bambini emigranti
tra Otto e Novecento
3. G. Seveso, Come ombre leggere. Gesti, spazi, silenzi nell’educazione delle
bambine
4. R. Certini, Il mito di Garibaldi. La formazione dell’immaginario popolare nell’Italia unita
5. A. Cagnolati, L’educazione femminile nell’Inghilterra del XVII secolo. Il
Saggio per far rivivere l’antica educazione delle gentildonne di Bathsua
Makin
6. C. Covato, Memorie di cure paterne. Genere, percorsi educativi e storie
d’infanzia
7. G. Franceschini, Da direttore didattico a dirigente scolastico. Per una
storia della funzione direttiva nella scuola di base dalla Legge Casati
ai giorni nostri
8. G. Cappellari, D. De Rosa, Il Padiglione Ralli. L’educazione dei bambini
anormali tra positivismo e idealismo
9. T. Zappaterra, Braille e gli altri. Percorsi storici di didattica speciale
10. F. Marone, Narrare la differenza. Generi, saperi e processi formativi nel
Novecento
11. B.A. Bellerate, Società ed educazione in Europa (secoli XVI-XVII)
12. I. Baccini, La mia vita
13. A. Giallongo, Donne di Palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di
potere dall’età moderna
14. P. Causarano, Combinare l’istruzione coll’educazione. Municipio, istituzioni civili ed educazione popolare a Firenze dopo l’Unità (1859-1878)
15. D. Caroli, Ideali, ideologie e modelli formativi. Il movimento dei Pionieri in Urss (1922-1939)
16. R. Frasca, Il corpo e la sua arte. Momenti e paradigmi di storia delle
attività motorie, da Omero a P. de Coubertin
17. G. Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968)
18. S. Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba
19. C. Pancera, La paideia greca. Dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici
20. A. Cagnolati, T. Pironi, Cambiare gli occhi al mondo intero. Donne nuove
ed educazione nelle pagine de L’Alleanza (1906-1911)
21. C. Covato, Memorie discordanti. Identità e differenze nella storia
dell’educazione
22. N. Villeggia, La scuola per la classe dirigente. Vita quotidiana e prassi
educative nei licei durante il fascismo
23. C. Covato, M.I. Venzo (a cura di), Scuola e itinerari formativi dallo Stato Pontificio a Roma capitale. L’istruzione primaria
24. F. Borruso, Donne immaginarie e destini educativi. Intrecci pedagogici
nel teatro di Ibsen, Čechov e Strindberg
Per i volumi successivi, si rinvia alla lista a fine volume.
Nicola Siciliani de Cumis
I FIGLI DEL PAPUANO
Cultura, culture, intercultura, interculture
da Labriola a Makarenko, Gramsci, Yunus
Prefazione di
Franco Ferrarotti
EDIZIONI
UNICOPLI
Il presente volume è pubblicato con il contributo del Rettorato e del Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della Sapienza
Università di Roma.
Prima edizione: ottobre 2010
Copyright © 2010 by Edizioni Unicopli,
via Andreoli 20 - 20158 Milano - tel. 02/42299666
http://www.edizioniunicopli.it
Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei
limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633,
ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato,
Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.
Indice
p.
9
Prefazione. Lo spettro del multiculturalismo,
di Franco Ferrarotti
17
Premessa,
di Daniela Nardi
21
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
Forse un’introduzione,
di Nicola Siciliani de Cumis
43
I. INTERCULTURA COME “INCONTRO”
43
54
56
57
58
63
65
66
1. Nuovi percorsi educativi tra esperienze didattiche
e indagine scientifica
2. Le componenti pedagogiche dell’educazione alla globalità
e all’intercultura
3. Dizionario portatile delle idee: storicismo
4. Tutto è più immediato, forse troppo
5. Una testa un computer, una testa un sapere storico-critico
6. Per l’inaugurazione di una biblioteca a Petronà
7. La Banca delle invenzioni
7. Diritto di stampa
8. Ai corsisti CPT di San Vittore
71
II. OCCASIONI DI LETTURA
49
71
81
85
93
98
100
102
103
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Decalogo in forma di dialogo su Lamerica
Scritture bambine
Solo andata
Un “Makarenko” a Casal del Marmo
Pinocchio
Letteratura russa in Italia. Un secolo di traduzioni
Parole russe che s’incontrano in italiano
Vita nel Parco
6 p. 107
III. CATANZARO, TERRA D’ORIGINE
107
110
111
1. Catanzaro, il sogno di Chagall
2. Con il mondo nel cuore
3. Calabria-lettere-giornali
113
IV. YUNUS E MAKARENKO
113
127
131
136
1.
2.
3.
4.
147
V. IL PAPUANO
147
169
1. Stephen J. Gould, una critica dell’ideologia in educazione
2. Antonio Labriola a centosessant’anni dalla nascita
183
VI. TRASMISSIONE GENERAZIONALE
183
187
1. Carte di famiglia: testamenti
2. L’anziano come fonte di trasmissione culturale
205
VII. INTERCULTURA E BAMBINI
205
215
234
237
1.
2.
3.
4.
239
VIII. IL MAKARENKO TRANSCULTURALE
239
252
260
1. I bambini di Makarenko e Artek. Pagine di diario 2003-2008
2. A proposito di un volume di Gianluca Consoli
3. Ferrarotti filosofo del “senso del luogo”
269
Postfazione a due voci,
di Silvia Lanzetta e Nicola Siciliani de Cumis
281
Indice dei nomi
289
Indice analitico
Lettera di studenti a Yunus sul microcredito
L’intercultura dei poveri
Su Yunus e dintorni
Appunti per un sabato mattina
Zavattini, bambini e dintorni
“Che ne pensano i bambini”
Domande a Giorgia su A Bug’s Life
Bambini che recensiscono bambini
“Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi scolari, tanti anni fa, –
credo trent’anni fa, – al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di pedagogia, obiettando contro la
serietà della pedagogica.
“Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano professore) lo farei
schiavo, e questa sarebbe la pedagogia del caso,
salvo a vedere se ai suoi nipoti e pronipoti si potrà
cominciare ad applicare qualcosa della pedagogia
nostra”
(Benedetto Croce, 1914)
Ammettiamolo pure: che questa improponibile
pedagogia abbia storicamente, in Labriola, una
sua “logica” spiegazione.
Però, nell’attesa dei nipoti e dei pronipoti da educare domani e dopodomani, con i figli… con i figli
del “papuano”, qui ed ora, subito, cosa vogliamo
fare?
(Anonimo, 2008)
Ad Annamaria
Prefazione
Lo spettro del multiculturalismo
Franco Ferrarotti
Uno spettro s’aggira fra i popoli di oggi su scala planetaria. Com’è
ovvio attendersi, lo spettro ama presentarsi, all’occorrenza, sotto mentite spoglie. È lo spettro del multiculturalismo. Le persone colte, appartenenti per lo più a quel quinto dell’umanità che gode dell’acqua calda,
della mobilità, di cibo sufficiente e degli altri vantaggi del progresso
tecnico, ne sono orrificate. Domina il terrore della contaminazione da
contatto. E, tuttavia, la società multiculturale non sembra porsi come
un’opzione né etica né politica. È semplicemente un dato di fatto. Sta
passando, più o meno rumorosamente, sotto le nostre finestre. Corrisponde puntualmente a uno sbilancio ormai di dominio pubblico: il
Nord del mondo è economicamente ricco, ma demograficamente debole; il Sud del mondo è disperatamente povero economicamente, ma ricco dal punto di vista demografico.
La pluralità e la compresenza delle culture non garantiscono di per
sé una convivenza civile. Non si danno impazienza dialettica né proiezione ideologica che possano assicurare l’avvento, relativamente indolore, della società multiculturale. L’incontro fra le culture – che, storicamente, appare come occasione e fonte di progresso – può anche farsi
scontro, incomprensione, ostilità verso il diverso, percepito come potenziale nemico. L’immigrato resta e viene visto come esule, spesso sospeso fra una cultura abbandonata e una nuova cultura, che non
l’accetta in senso pieno, vale a dire accetta le braccia ma non le persone.
Occorre comprendere, in primo luogo, in che mondo viviamo. Non è
più un mondo unipolare in senso eurocentrico né corrisponde più alla
ruvida affermazione di Antonio Labriola sul Papuano – il padre…, i nipoti e i pronipoti ma non i figli, come nota per l’appunto Nicola Siciliani de Cumis con questo suo I figli del Papuano… –. Il Papuano che,
come primo gradino sulla strada del suo incivilimento, sarebbe da farsi
schiavo, salvo poi concedere, previe certe condizioni, la cittadinanza
piena ai nipoti e pronipoti. Chissà però quando, come e perché...
Questo mondo, essenzialmente diacronico, che già Hegel vedeva
passare dall’Oriente al Mediterraneo e da “questo mare fra le terre” al
Nord Europa, non esiste più. Viviamo in un mondo sincronico, in cui
10
F. FERRAROTTI
tutte le culture sono compresenti e interagenti a pari titolo (Derek Walcott è l’Omero dei Caraibi) e quindi non sono più gerarchizzabili. Il che
non vuol dire che ci troviamo in una babelica confusione. Piuttosto, ciò
significa che viviamo in un mondo multipolare, non più accentrato né
decentrato, ma, semmai, a-centrato.
Non si tratta più di vincere, ma di convincere. Vivere significa, per le
persone, gli strati e le classi sociali come per le culture, convivere. Né
egemonia né isolamento. Ma inter-dipendenza. In La convivenza delle
culture (Dedalo, Bari 2003) ho cercato di dimostrare la portata e l’origine storica di questo legame interculturale. Naturalmente, senza sottacere le difficoltà, esistenziali e organizzative. Il processo di acculturazione è laborioso e non può mai spacciarsi per concluso positivamente.
La via del Papuano, anche se a Labriola, grazie al suo ottimismo storicistico, poteva apparire prevedibile nei suoi scatti e, per così dire, nelle
sue stazioni successive è tutt’altro che facile e piana. Basterebbe pensare alle difficoltà insite nella barriera linguistica, che gioca in modo fondamentale sul processo di acculturazione. Le ricerche più accreditate ci
dicono, d’altro canto, che questo processo passa attraverso varie fasi,
anche se la cultura originaria resta probabilmente come un imprinting
indelebile. L’educazione del Papuano conoscerà quattro fasi, corrispondenti a situazioni specifiche:
1. l’immigrato rifiuta la cultura del Paese ospitante e vive in un suo
mondo di autoemarginazione;
2. l’immigrato accetta l’inserimento nella cultura del Paese ospitante,
ma questa non lo accetta e si trova così sospeso fra una cultura e
l’altra (D. Frigessi Castelnuovo, M. Risso, A mezza parete, Einaudi,
Torino 1982);
3. l’immigrato, pur inserito nella nuova cultura, si percepisce e di fatto
viene discriminato (F. Ferrarotti, “Osservazioni sul mondo periferico”, La Critica sociologica, 164, autunno 2007);
4. l’immigrato, soprattutto di seconda e terza generazione, si rivolta
contro l’emarginazione con la violenza.
A un esame maggiormente approfondito, l’acculturazione appare
come fenomeno di grande complessità, che solo analisti superficiali
possono confondere con una presunta “identità liquida”. In essa non si
registra nulla di liquido o fluido o facilmente smussabile. La ricerca ha
messo in luce vari tipi di acculturazione:
1. acculturazione integrale: credenza nello scambio totale dei simboli
esterni e “interni”. In questo caso i nuovi valori sono accettati in superficie mentre i vecchi valori continuano a sussistere, benché repressi, a livello inconscio;
2. il vecchio sistema di valori è conservato: l’importanza dei valori non
è riconosciuta; l’acculturazione dei valori è ridotta a un fatto puramente esteriore;
3. acculturazione minima: conservazione dei simboli esterni e dei valori interni, con l’eccezione dei comportamenti attinenti al contatto
quotidiano dell’acquistare e del lavorare. Ne deriva una certa sicu-
Prefazione. Lo spettro del multiculturalismo
11
rezza, la mancanza d’ambivalenza rispetto al proprio sistema di valori;
4. nessuna acculturazione perché non si è membri di un gruppo. Individui sradicati che vivono ai margini della cultura; personalità marginali, che si occupano soprattutto dei loro bisogni e che non sono
acculturate neppure nei loro Paesi d’origine;
5. acculturazione a un gruppo etnico o a un altro gruppo di minoranza.
La persona diventa dipendente dal modo di vivere interno a questo
gruppo perché non acculturata alla cultura dominante.
In definitiva, per gli emigranti non solo l’acculturazione è un parto
doloroso, stentato e contorto, ma è anche un processo conflittuale permanente e senza possibilità di conciliazione.
L’educazione del Papuano, dei suoi figli e nipoti richiede, dunque,
un concetto nuovo di cultura, al di là di quello normativo, consegnatoci
dalla tradizione elitaria vetero-umanistica, un nuovo concetto capace di
costituirsi e di comprendere in sé non solo le cognizioni teoriche e le
meritorie eredità intellettuali, nel senso più ampio del termine, ma anche le pratiche di vita, le strutture istituzionali, i sistemi produttivi dei
mezzi di sussistenza, le forme e i simboli della comunicazione interpersonale.
Ho già osservato in altra sede che, detto paradossalmente, la cultura
è agricoltura. Seminagione, sedimentazione e attesa. In altre parole, la
cultura è coltivazione. Coltivazione di Sé, autoaffinamento, che ha bisogno dell’altro da Sé. Perché ha bisogno di comparare e comunicare per
crescere, per consolidare la consapevolezza di Sé, comunicare con Sé e
il diverso da Sé. In principio erano il verbo, la parola, la lingua, il linguaggio: la lingua come grammatica e sintassi; il linguaggio come struttura di suoni e di significati. La cultura come agricoltura è quindi semina, sedimentazione, cristallizzazione, attesa, ripetizione e istituzionalizzazione di comportamenti, aspettative, risposte e valori. Non è solo abitudine, usanza, che non esce ma, anzi, conferma il sonnambulismo del
quotidiano. È la risposta, sempre rinnovata, alla domanda dell’infante
eterno: “Cos’è? Perché?”. E poi: “Dove sono? E che ci faccio qui?”. Il
momento epifanico della meraviglia.
Cultura è risveglio, rispecchiamento e coscienza: la pupilla che vede
se stessa nella pupilla dell’altro, il paesaggio che guarda me che lo guardo, la parola che ascolto e ripeto, la lingua che parla in me che la parlo.
E allora: sono io che parlo o sono parlato? No. Nessun dilemma: io parlo, e, mentre parlo, sono nello stesso momento parlato. Debbo negarmi,
nascondermi, marcire, come il seme nel buio del sottosuolo, per crescere ed eventualmente fiorire. Ma ho bisogno della terra, del suo umidore, protettivo e insieme luogo del mio disfacimento, ombra di morte
apparente e insieme liquido vitale. Mi colloco in un posto determinato.
Ho un corpo che richiede uno spazio. Non c’è idea platonica iperuranica
che tenga: il dualismo anima-corpo non ha senso, non illumina né guida la mia esperienza personale soggettiva, il mio esperire esistenziale. Il
soggetto non vive nel limbo, non naviga in apnea. Ha bisogno del corpo.
12
F. FERRAROTTI
Il corpo è la residenza del soggetto, il suo indirizzo specifico, non fungibile, non interscambiabile. Non è la storia degli storicisti, di destra o di
sinistra, neo-idealisti o marxisti. È l’orizzonte storico. In esso si comprende che la convivenza delle culture non è un’opzione. È una necessità storica. Nella situazione odierna di uno sviluppo storico non più diacronico, bensì sincronico, la convivenza delle culture si lega al dilemma,
crudele nella sua semplicità: dialogare o perire. In questo senso, non è
un idillio. È in essenza problematica. Contrariamente a quanto ritenevano gli storicisti, la storia non è un racconto a senso unico, non dispone di un libretto in cui tutto è previsto, non viaggia su binari certi e dalle stazioni prefissate e prevedibili. Il progresso è un processo incerto.
Non è una fatalità cronologica. È esposto a regressioni paurose, allo
scacco e al fallimento. Verso la metà del secolo XX, nel cuore di quella
che si riteneva la sede della civiltà umana nella sua più alta e nobile espressione, si insedia il potere delirante di una barbarie inaudita, razionalmente organizzata come efficiente burocrazia e industria del delitto.
Una lezione tremenda. Vivere significa ormai convivere. Interdipendiamo. Non è dialogare. Ma il dialogo non è un generico, per quanto generoso, embrassons-nous. È, letteralmente, un “trapassarsi”, un corpo
a corpo, a volte un duro, anche sgradevole, confronto.
L’educazione del Papuano impone l’abbandono del concetto elitario
di cultura e la rinuncia a ogni pretesa egemonica della cultura europea.
I figli del Papuano di Siciliani de Cumis, in tal senso, mi sembra essere
la rappresentazione di un preciso proposito autoeducativo, nell’esercizio di determinate funzioni di insegnamento-apprendimento, dentro e
fuori l’università. E a partire dalla persuasione della necessità (e dal
dramma non solo pedagogico, che ne consegue) di quell’abbandono e di
quella rinuncia.
C’è, tuttavia – mi sembra impossibile negarlo – un momento di autentica commozione e di genuina missione pedagogica nella prospettata
“promozione civile” del Papuano. Per comprenderlo appieno sembra
necessario ricostruire ed evocare un contesto che si va appannando.
Com’era consolante e rassicurante la concezione della storia come
sviluppo diacronico, da stadio a stadio, da conquista a conquista, da scoperta scientifica a scoperta scientifica, fino al punto più alto raggiunto e
saldamente tenuto dall’uomo europeo, detentore e sintesi dell’umanità
nella sua espressione più progredita e raffinata! Ma l’uscita di gran parte dell’umanità, fin qui esclusa, dagli scantinati della storia non sta soltanto a significare la fine dell’ottimismo storicistico. Significa una svolta radicale e innovativa. Come abbiamo più sopra osservato, l’umanità
sta entrando in una fase di compresenza sincronica in cui cadono le gerarchie fra le culture e si afferma l’esigenza di una ridefinizione dello
stesso concetto di “cultura”. Cresce la consapevolezza che il concetto
classico di cultura, incarnato dal tipo kalòs kaì agathòs, ha un valore
normativo che poggia su un’economia retta dal lavoro schiavile. Lo
stesso vale per il modello ciceroniano del vir probus dicendi peritus oppure, in un contesto moderno, per il country gentleman che vive di une-
Prefazione. Lo spettro del multiculturalismo
13
arned income, o reddito non da lavoro, variamente legato ai frutti di
rapina del colonialismo.
È piuttosto sorprendente che gran parte degli scienziati sociali
dell’Occidente tecnicamente progredito e moralmente convinto di essere il bastione della cultura e della civiltà, per usare la famosa contrapposizione tardo-romantica fra Kultur e Zivilisation, non si rendano
conto e non intendano riconoscere come il supposto primato europeo,
perno e punta di diamante dell’eurocentrismo, riposi in realtà, nella sua
forma antica, sul lavoro schiavile e, nella sua forma moderna e contemporanea, si regga sul colonialismo. Si può comprendere, ma non giustificare, la reticenza di studiosi che si vogliono scientificamente rigorosi e
quindi liberi da lealtà dinastiche e patrimoniali a dar conto di che lacrime grondi e di che sangue il primato europeo. Ma uno sguardo,
pur se superficiale e cursorio, non può lasciare molti dubbi in merito.
Le ricerche più recenti di quella che si potrebbe chiamare la neoantropologia culturale critica ha accumulato in proposito, nel corso degli ultimi anni, dati e documenti impressionanti, tanto che persino storici di orientamento decisamente marxistico, come Anthony Genovese,
non hanno esitato, in base alla concezione diacronica dello sviluppo
storico, a scorgere nella stessa schiavitù un progresso rispetto alla presunta primitività di certi gruppi umani.
Il fatto incontestabile è che tutta la cultura europea occidentale di
ascendenza greco-romana si è venuta sviluppando all’interno di una
partizione sociale che ne garantiva la perpetuazione attraverso lo sfruttamento sistematico di consistenti gruppi umani subalterni. Gli studi
comparativi fra schiavitù classica antica e schiavitù moderna confermano una sostanziale continuità.
In effetti, la valutazione della schiavitù antica ha da sempre fatto
parte della lotta a favore o contro l’abrogazione della schiavitù moderna. La tratta degli schiavi neri per la raccolta del cotone negli Stati del
Sud degli Stati Uniti ha avuto un precedente fondamentale nella tratta
degli schiavi che era fenomeno di primaria importanza nel mondo mediterraneo sotto il dominio di Roma. È, anzi, possibile dimostrare che
la diffusione del latifondo in Italia tra il II e il I secolo a. C. deve aver
avuto conseguenze simili a quelle derivanti alla fine del secolo XVII dal
diffondersi delle piantagioni. La stessa crisi dell’Impero romano, secondo un’analisi essenzialmente sociologica, condivisa peraltro da uno
storico della statura di Santo Mazzarino, più che dalle pressioni delle
famose “orde barbariche” è stata probabilmente determinata dalle
guerre di confine, vere e proprie “cacce agli schiavi”, ossia guerre per
ottenere prigionieri da avviare al lavoro schiavile. Ciò era tanto più impellente, verso il III secolo d. C., in quanto gli schiavi non potevano avere famiglia, non potevano riprodursi e quindi scarseggiavano. Questa
tradizione di potere e di prevaricazione dell’Occidente si salda quasi
perfettamente con quello che amerei chiamare il colonialismo “territoriale”, per distinguerlo dal più recente fenomeno della manipolazione
psicologica e della “colonizzazione interiore”, che si lega agli odierni
14
F. FERRAROTTI
mezzi di comunicazione di massa, psicologicamente potenti e ubiqui,
eticamente indifferenti, pedagogicamente irresponsabili. I “figli del Papuano” non sono tenuti ad alcun ringraziamento. Il loro contributo alla
presa di coscienza degli occidentali ha un valore inestimabile. Ne emergono alcuni punti problematici che forse vale la pena considerare:
1. ogni essere umano si costituisce come tale in quanto si riconosce
come individuo identico a se stesso, coerente attraverso il molteplice
e multiforme esperire;
2. in quanto collegata con la varietà dell’esperire, l’identità non è un
dato fisso; non è un archetipo. È un processo che si apre, muta, si
adatta e si scontra, assume e metabolizza le circostanze extra-soggettive;
3. in quanto processo, l’identità è un “prodotto” storico, e quindi aperto
al divenire e all’incontro con il diverso da Sé;
4. l’identità è un processo che tende alla costruzione del Sé in quanto:
a. sequenza cronologica o sviluppo nel tempo;
b. dominato dall’esigenza della coerenza soggettiva come effetto di
padronanza delle vicissitudini del vivere;
c. rivissute e “superate” nella formazione della personalità della
persona attraverso la memoria;
5. questa formazione comporta un processo di socializzazione essenzialmente meta-individuale, ossia un rapporto con l’altro da Sé.
L’identità presuppone quindi l’alterità (i Greci classici prendono coscienza di se stessi e della loro identità solo a contatto con i nonGreci, òi Bàrbaroi, i “padroni” del Papuano con i “figli del Papuano”;
6. di fronte all’alterità e al necessario confronto con essa, è possibile
negare l’altro in nome della “purezza” della propria identità, ma per
questa via si nega inevitabilmente questa stessa identità, la si impoverisce fino all’estinzione;
7. il carattere drammatico della situazione dell’uomo nel mondo di oggi
è che può scegliere l’incontro come frutto del dialogo fra le diverse
etnie-identità-culture oppure l’incontro irrazionale che si risolve nello scontro violento e nel reciproco annientamento;
8. l’alternativa alla costruzione e all’accettazione di una società multietnica e multiculturale non può essere l’indifferenza o la chiusura del
Sé verso l’Altro, ma solo l’annientamento dell’Altro, percepito come
minaccia, e quindi l’annientamento di Sé in quanto l’alterità è necessaria alla costruzione della propria identità.
In questa prospettiva, il libro di Nicola Siciliani de Cumis è un contributo prezioso. In un’epoca in cui tutti possono pubblicare il proprio
libro, i veri libri stanno diventando rari se non scomparendo. La moneta cattiva scaccia la buona. Quando tutti sono scrittori, si ha solo una
maggioranza di scriventi. Questo libro di Siciliani de Cumis è prezioso.
Emerso com’è dalle quotidianità culturali e interculturali dei luoghi universitari e educativi da cui proviene e a cui è destinato, collabora a
suo modo a rendere conto delle caratteristiche salienti di un preciso
Prefazione. Lo spettro del multiculturalismo
15
contesto di fatti e di idee. E qui e ora, tra didattica e ricerca, a intervenire nelle emergenze formative in atto.
Emergenze formative, oggi più che mai evidenti e pressanti. Basti
osservare quel che ci viene tragicamente accadendo attorno. A Rosarno,
ma non solo… E che, mettendoci in gioco, invita tutti a riflettere e ad
agire di conseguenza. A partire da noi stessi.
Siano rese grazie ai “figli del Papuano”.
Sapienza Università di Roma, giugno 2010
Premessa
Daniela Nardi
Nicola Siciliani de Cumis non si è mai occupato tecnicamente di intercultura, nel modo in cui la materia di studio comunemente s’intende
in senso “disciplinare”. Afferma di non avere mai affrontato, “scientificamente”, l’argomento. Eppure gli scritti raccolti in questo volume sembrano contraddire questa affermazione, avendo essi come soggetto principale proprio l’intercultura: meglio, il nesso tra “cultura” e ”intercultura”. Al plurale e da un determinato punto di vista.
L’intercultura è, come sappiamo, sempre più “protagonista” della
nostra quotidianità. Però, se ci sforziamo di andare al di là dell’associazione immediata, ma ristretta, dei termini “intercultura” e “stranieri”, ci
rendiamo conto delle mille sfaccettature che il binomio cultura-intercultura può assumere.
Con il termine “intercultura” ci si riferisce, di solito, all’incontro (e
allo scontro) tra persone provenienti da contesti territoriali, sociali e
culturali differenti. Si verifica, quindi, uno scambio di cultura tra soggetti portatori di esperienze ed emozioni differenti, tra adulti e bambini, tra giovani e anziani, tra docenti e studenti, tra Nord e Sud del mondo e/o di uno stesso Paese, tra stranieri e autoctoni… Uno scambio di
cultura tra culture poste, in linea di principio, tutte sullo stesso livello
di importanza e considerazione: e intese a costruire un sapere non interamente posseduto o definitivamente acquisito, bensì un insieme di conoscenze, attività, valori, ideologie idonee a guidare via via la vita e le
scelte di ciascuno, e che, nell’incontro interculturale, non fanno che
mutare continuamente e accrescersi reciprocamente.
Melville J. Herskovits, servendosi di alcune proposizioni che condensano numerosi studi sul tema, ci aiuta a delineare meglio il concetto
di “cultura”.
1. La cultura è appresa,
2. la cultura deriva dalle componenti biologiche, ambientali, psicologiche e storiche dell’esistenza umana,
3. la cultura è strutturata,
4. la cultura si divide in aspetti,
5. la cultura è dinamica,
6. la cultura è una variabile,
18
D. NARDI
7. la cultura mostra uniformità che ne permettono l’analisi con i metodi
della scienza,
8. la cultura è la strumento mediante il quale l’individuo si adatta al suo
ambiente complessivo e si procura i mezzi necessari per l’espressione creativa.1
Oltre agli argomenti trattati, questa raccolta di testi è, pertanto,
proprio un esempio di vivente intercultura tra docente e studente. E lo
è anche nelle modalità collaborativa, in cui lo stesso prodotto antologico è stato pensato e realizzato. Prima, nel quinquennio accademico dal
2002 al 2007, e quindi, nel 2008-2009, nel periodo di preparazione del
presente volume.
Con il professor Siciliani de Cumis abbiamo difatti incominciato a
parlare di intercultura, per la stesura della mia tesi di laurea in tema di
pedagogia interculturale,2 dal punto di vista dell’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole materne ed elementari. Esplicitamente, nei
suoi testi per i miei esami o nelle lezioni per i suoi corsi monografici,
poche volte si è occupato di tale argomento.
Gli spunti per un’idea d’intercultura, tuttavia non mancavano: di
qui l’idea, maturata dopo la laurea magistrale, di ricavare una “sua personale lezione” in merito, attraverso la selezione e la raccolta in forma
di libro di un certo numero di testi. E si tratta di testi talvolta inediti,
connessi a precise occasioni didattiche, di ricerca, di vita, che il professore ha voluto fornirmi per precisare e integrare la sua idea di intercultura.
Io proponevo a lui nuove conoscenze su un àmbito, quello della
scuola, in cui mi andavo laureando e specializzando, e lui offriva a me
una visione di intercultura molto più allargata e corrispondente ai suoi
studi e ai suoi modi di pensare. Un’esperienza pedagogica molto interessante, dal “privato” al “pubblico”, e quasi quasi portatrice di un nuovo modello d’intercultura, nello stesso rapporto tra laureata e professore.
Siciliani de Cumis, quindi, benché non dall’interno di saperi e di
dimensioni in senso stretto “interculturali”, con I figli del Papuano, offre tuttavia un suo contributo agli studi in materia. E ciò sembra potere
avvenire in forza, oltre che di sensibilità personale, di un principio di
interdisciplinarità, evidente dapprima nella sua formazione e, successivamente, nella sua carriera di professore sia nelle scuole medie e superiori sia nell’università.
In questo senso, il volume potrà essere oggetto di ulteriori scambi
di cultura e intercultura, tra lui e i suoi lettori. E, magari, tra i prossimi
studenti frequentanti le lezioni e lo studio del professore.
1 M.J. HERSKOVITS, in P. ROSSI (a cura di), Il concetto di cultura. I fondamenti
teorici della scienza antropologica, Einaudi, Torino 1970, p. 305.
2 Cfr. D. NARDI, Pedagogia interculturale. Per una didattica innovativa nella
scuola materna ed elementare (Facoltà di Filosofia, Corso di laurea in Pedagogia e
Scienze dell’Educazione e della Formazione, relatore: N. Siciliani de Cumis, correlatore: G. Boncori, a.a. 2007-08.
Premessa
19
Nel libro sono infatti contenuti testi che, fermo restando la continuità
sul tema nell’intercultura, spaziano nei più diversi campi d’indagine,
mostrandone la coerenza e l’organicità. Ecco spiegarsi, allora, l’interesse di Siciliani de Cumis per il Poema pedagogico di Anton S. Makarenko, per il cinema di Gianni Amelio e in particolare per il film Lamerica,
sulle migrazioni albanesi in Italia, ecco spiegarsi l’interesse per Casal
del Marmo e i suoi “ragazzacci”, per il Centro internazionale di Artek
sul Mar Nero, in Ucraina ecc. Ecco, ancora, il senso del confronto collaborativo con Muhammad Yunus e con la sua conclamata fiducia in un
potenziale illimitato di intelligenza e di creatività di ogni essere umano
vivente, e quindi, proprio all’opposto, l’incontro-scontro con l’Antonio
Labriola del “papuano” (che rimanda ai suoi studi sull’argomento), ecco, infine, i vari testi e le lettere scritte a più mani, che uniscono idee,
storie, formazioni differenti, e le recensioni, che raccontano di progetti
interculturali realizzati, in via di realizzazione o da realizzarsi.
Vi sono poi, numerosi, testi che raccontano esperienze d’intercultura in senso verticale, e colgono un sapere interculturale, che si trasmette sul piano intergenerazionale, dai bambini agli adulti e da questi ultimi agli anziani, dai figli ai genitori, dai genitori ai nonni, dai nonni ai
nipoti. E magari ai “pronipoti”…
I figli del Papuano e, per citare Labriola, i suoi “nipoti” e “pronipoti”, da non farsi… schiavi, ma da educarsi, in qualche modo, subito, tra
cultura, culture, intercultura, interculture. Non una cultura dominante
soltanto, non una cultura più importante delle altre, nessuna cultura
gerarchicamente e fissamente inferiore o superiore a un’altra, nessuna
da porre come aprioristico termine di paragone, con l’intento di annullarne le peculiarità. Tutte le culture, invece, con una pari dignità e ricchezza di possibilità di scambi interculturali: e tali da contribuire, in un
modo o nell’altro, alla crescita delle altre culture. Non una sola cultura,
più culture, invece, che si incontrano, che si interrogano, che interagiscono, che si arricchiscono a vicenda, dando così luogo a un effettivo
scambio interculturale e magari, come precisano gli specialisti, transculturale. Non un’unica espressione di intercultura, non un modo unitario di intenderla, non interculture come “punti d’arrivo”: ma molteplici aspetti ed esperienze di uno stesso fenomeno. Come puri e semplici “punti di partenza”.
La peculiare frammentarietà del libro, in tale ottica, è frutto proprio
di una siffatta molteplicità e infinità di vedute. Ed è proprio la particolare vitalità culturale, che le sta a monte e ne deriva, a permettere di
considerare I figli del Papuano non come un libro “già scritto”, ma – se
ciò non sembrasse eccessivo – un libro “ancora da scrivere”.
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
Forse un’introduzione
Nicola Siciliani de Cumis
Lo sa cosa vorrei tanto? Un po’ di prospettiva. Ecco, gradirei della prospettiva fresca, chiara e ben condita… Ci
sono occasioni in cui un critico rischia davvero: ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è
spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni. Al
nuovo servono sostenitori. Ieri sera mi sono imbattuto in
qualcosa di nuovo: un pasto straordinario di provenienza
assolutamente imprevedibile. Affermare che sia la cena
sia il suo artefice abbiano messo in crisi le mie convinzioni sull’alta cucina è, a dir poco, riduttivo: hanno scosso le fondamenta stesse del mio essere. In passato non
ho fatto mistero del mio sdegno per il famoso motto dello chef Gusteau: “chiunque può cucinare”. Ma ora, soltanto ora, comprendo appieno ciò che egli intendesse dire: non tutti possono diventare dei grandi artisti, ma un
grande artista può celarsi in chiunque
(Anton Ego, in Ratatouille, Disney-Pixar, 2007)
I agosto 2008
Perché “forse” un’introduzione? Semplicemente perché questo libro, I figli del Papuano, non è ancora quel libro, come si dice, “compiuto”, volto a spiegare monograficamente il proprio tema (e per cui il titolo ha un senso definito)… Di modo che anche l’introduzione, scritta
come tutte le introduzioni a libro “concluso”, non può non risentire di
una siffatta incompiutezza, “introducendo” e “non introducendo”, “spiegando” e “non spiegando”. In ogni caso, complicando le cose. E, di certo, dubitando.
Entro questi limiti, tuttavia, qualcosa posso pur dire. Che, intanto,
la “ragione” del libro è fornita, contestualmente, dall’insieme dei miei
studi sulla formazione di Antonio Labriola e dalla significatività del ruolo
che in essa svolge la “questione del papuano”1. Da un altro lato, essa è
data dalla gamma amplissima delle occasioni variamente “interculturali” di studio (corsi di lezioni, elaborati e tesi di laurea, convegni ecc.),
occorse in tanti anni nella vita didattica e scientifica della cattedra di
Pedagogia generale della “Sapienza” di Roma). Ed è proprio qui che si
colloca, tra l’altro, l’esperienza delle lauree – “triennale” e “specialistica” – di Daniela Nardi, in tema di Pedagogia interculturale,2 con una
sua interna, particolare maieutica.
1 Cfr. B. CROCE, “Rivista bibliografica”, in ID., Conversazioni critiche, serie seconda, seconda edizione riveduta, Laterza, Bari 1924, p. 312 (a proposito di Guido de
Ruggiero e una “critica del concetto di cultura”).
2 Cfr., supra, p. 18 n. 2.
22
N. SICILIANI DE CUMIS
Ci sono stati però, nella medesima ottica universitaria, anche altri
discorsi svolti o soltanto avviati, ma pur sempre – così è sembrato –
d’un qualche interesse interculturale. Parole di contorno e idee in qualche modo chiarificatrici, tematiche retrospettive e indagini per così dire
di prospettiva, domande, risposte, e dunque documentazioni, che hanno concorso a motivare la scelta attuale, operata d’accordo con la stessa
Nardi, di faire le livre.
Discorsi molteplici e di diverso impegno, quindi non facilmente sintetizzabili. I quali, però, mi obbligano a notare, per la pars destruens,
l’insufficienza, che avverto fortissima, di una definizione anche solo in
parte soddisfacente del concetto d’intercultura: un concetto, che a mio
parere, nell’uso che di solito se ne fa fra gli specialisti e nel senso comune, recupera al suo interno una gamma soltanto minima delle valenze semantiche ampissime, di cui pure dispone.
Ecco perché, intanto, per un’ipotetica pars construens, vengono in
mio soccorso alcuni motivi ideali “di principio” che, tra pedagogia e antipedagogia, incominciano a riassumersi nei seguenti termini:
a. Da Michail Michajolovič Bachtin:
Una cultura straniera solo agli occhi di un’altra cultura si rivela più pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno anche
altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più). Un senso rivela le sue
profondità, dopo essersi incontrato ed essere entrato in rapporto con un altro
senso, straniero: fra di essi comincia una specie di dialogo, che supera la chiusura e l’unilateralità di questi sensi, di queste culture. Noi poniamo alla cultura
straniera nuove domande, quali essa stessa non si poneva, cerchiamo in essa
risposta a queste nostre domande, e la cultura straniera ci risponde, scoprendo
davanti a noi nuovi suoi aspetti, nuove profondità di senso. Senza nostre domande (ma certo, domande serie, autentiche) non si può creativamente capire
niente di altro e di straniero. In tale incontro dialogico di due culture esse non si
fondono e non si confondono, ognuna conserva la sua unità e aperta interezza,
ma esse si arricchiscono reciprocamente.3
b. Da Muhammad Yunus:
Grameen mi ha insegnato due cose. Primo, la nostra conoscenza delle persone e dei modi in cui esse interagiscono è ancora molto inadeguata, secondo,
ogni persona è estremamente importante. Ciascuno di noi ha un potenziale illimitato, e può influenzare la vita degli altri all’interno delle comunità e delle nazioni, nei limiti e oltre i limiti della propria esistenza.
In ognuno di noi si cela molto più di quanto finora si sia avuto la possibilità
d’esplorare. Fino a che non creeremo un contesto che ci permetta di scoprire la
vastità del nostro potenziale, non potremo sapere quali siano queste risorse […]4.
3 M.M. BACHTIN, in G. MASTROIANNI, Pensatori russi del Novecento, L’officina
tipografica, Napoli 1993, p. 5 (per conto dell’Istituto italiano per gli studi filosofici).
4 M. YUNUS, Il banchiere dei poveri, con la collaborazione di A. Jolis, nuova edizione ampliata, tr. di E. Dornetti, Feltrinelli, Milano 2000, p. 9.
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
23
Questa tecnica di immaginare un mondo futuro a misura dei nostri desideri
brilla anche per la sua assenza nei programmi del nostro sistema educativo.
Prepariamo i giovani al lavoro e alla carriera ma non facciamo nulla per insegnare loro a pensare, come singoli individui, a come dovrebbe essere il mondo
che desiderano; è un esercizio che meriterebbe un corso specifico in ogni scuola
superiore e in ogni università. Si potrebbe chiedere a ogni studente di compilare
la sua lista dei desideri e poi spiegare al resto della classe perché desidera quelle
cose, e ci sarà chi è d’accordo con lui, chi propone qualcosa di meglio, chi non è
d’accordo. Poi lo studente dovrebbe discutere in che modo pensa di realizzare
quel mondo di sogni, quale potrebbe essere il suo contributo personale, quali gli
ostacoli, le alleanze, le organizzazioni, i concetti, i sistemi, i programmi necessari per avviare effettivamente l’azione. Il corso sarebbe appassionante, ma soprattutto sarebbe un ottimo viatico per il vero viaggio della vita.5
c. Da l’albatros, luglio-settembre 2008:6
“Casa Ratatouille”
Ci sarà una buona volta,
nella Vita Nòva,
per noi esserumani nessunescluso,
un casalottino ambulante,
un miniloft cieloterracqueo
o sottosopramontano,
dove raccogliersi e conragionare
a bassalta voce insieme,
in piccoli gruppi
comunicando
da un latangolo all’altro
del Pianeterra…
E sarà, il locomobile,
un pane buono fatto in casa,
l’inconsumabile novità
del mondo che verrà:
un localotto bendisposto
alla manutenzione culturale
dei vitanovizi,
mediante amichevoli incontrapensieri,
scambiaparole e inesauribili giochi
di prospettiva,
traboccanti
di “se… allora…”,
di “maguardaunpo’”
e di “perchémaichissà”
di “dovequandocome”
e di “dunqueforsemai”,
di “proviamoloadire”
e di “mettiamociafare”...
5 ID., Un mondo senza povertà, con la collaborazione di K. Weber, tr. di P. Anelli,
Feltrinelli, Milano 2008, p. 231.
6 Nella rubrica, a cura di chi scrive, “Lettere dall’Università”, pp. 125-138.
24
N. SICILIANI DE CUMIS
In cinque minimo,
dieci persone al massimo,
pluridialogheremo dunque
dell’incontramondo,
in barcacamper, stanzaplani
e sommergibilalianti,
in accoglienti e gioiose
casesavie
ospitanti
nuclei elementari
di minimassimi
conragionamenti
individual-collettivi,
sul più bello e sul più brutto
della vita,
di quando lo sai per tempo
e di quando meno te l’aspetti,
di quando prima che sia finita
puoi bruciare comunque
le tappe,
e di quando,
al dunque,
è meglio non pensarci più:
nel crogiolo
delle misere sorti e regressive
del vero/falso ch’è verità
chiusa dischiusa aperta
sull’utile/inutile
del mondo…
Casemobili
rassomiglianti
ora a maxitappeti ondulovolanti,
ora a minidischi ex-marziani,
ora a piccoli e pacifici Stealth
o a plananti Personal Computer,
o all’ineffabile monolite
di 2001 Odissea nello spazio
o ad alberelicotteri terraereonatanti,
con radici tronco rami foglie
e frutti pendenti,
visi
di bambini e bambine
d’ogni razza, religione, cultura…
Un’apparecchio
di natura
anfibia e idroterrovolante,
denominato “Casa Ratatouille”,
dal sublime piatto-forte
del piccolo grande chef toparigino:
ed accadrà
che di casemacchine
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
25
come e così
ce ne saranno tante
quante se ne vorranno,
e che alla loro superprogettazione
in serie,
collaboreranno i maggiori
architetti e ingegneri e designer
del novomondoventuro…
Le “Case Ratatouille”
saranno allora l’ambiente ideale
per sperimentapplicare
in ogni punto del globo terracqueo,
l’inesplorato tasso
di creatività potenziale
del maggior numero possibile
di uomini e donne,
allo scopo di acceleroamoltiplicare
le vitanovità della Vita Nòva:
e dunque
la produzione e lo scambio
degl’imprevedibili
“chi-ricerca-trova”
del mondo che verrà,
e l’infinita pluralità
dell’immagina-tu-che-immagino-anch’io,
per soluzioni di problemi
personali e di gruppo
in incontri ravvicinati del primo tipo:
e di sentimenti di idee,
nelle liberoscambiabili subitovisioni
di ciascuno
e nelle possibili ricercatrovate
di tutti.
Preghiera al Thesaurus
Per una Banca Mondiale del Ludiforme (BML)
La “visione” di Vita Nòva qui appreso illustrata in estrema sintesi
nasce dall’idea che ciascuno degli attuali 6.482.807.000 esseri umani,
nel “mondo che verrà”, possa fare valere il suo illimitato potenziale di
creatività, così da influenzare la vita di tutti all’interno delle comunità e
delle nazioni, e nei limiti e oltre i limiti della propria esistenza... La
BML/Banca Mondiale del Ludiforme è quindi l’innovazione più idonea
ad acquisire e a mettere opportunamente a frutto la vastità del potenziale individuale e sociale umano, mediante “micro-crediti” di giocolavoro… Ludiforme: una parola che, pur ricca di storia (se ne scrive ormai da mezzo secolo), è però ancora ignorata dai dizionari.
N. SICILIANI DE CUMIS
26
Se nella VitaAntiqua io ti interrogo, o Thesaurus, il termine ludiforme tacetace… Così ti prego, nella Vita Nòva, di darci la parola, che proprio nel 2008,
secondo Google e altri MRL (Motori di Ricerca del Ludiforme), compie 50 anni…
Roba da Guinness dei primati e da ELP (Enciclopedia del Ludiforme Planetario)… Perché il “ludiforme” non è il “ludico”, il “gioco per il gioco” spesso un disastro, è invece lo stesso lavoro umano con le sue gioiose progettualità e progressività, tutto coinvolgimenti personali e sociali: è Vita Nòva intellettuale,
morale, economica, artistica, religiosa, scientifica, politica… Per questo ti prego,
mio Thesaurus, di attingere al lessico delle FPCL (Forme Possibili di Comunicazione del Ludiforme) e dei LSTPL (Luoghi Sicuri della Trasparenza Pubblica del
Ludiforme)… Fa’ tuo il vocabolario dello SRTCL (Strumento di Raccolta di Tutte
le Componenti del Ludiforme), dei LMVL (Luoghi della Massima Visibilità del
Ludiforme), dell’ALLM (Archivio Laboratorio del Ludiforme del Mondo),
dell’USAL (Universale Stato dell’Arte del Ludiforme) e dei LCL (Lavori in Corso
del Ludiforme)… E dacci dunque, o nobile Thesaurus, e i verbi e i sostantivi e gli
aggettivi della BML (Banca Mondiale del Ludiforme): Banca delle Banche, che si
decentra nei PLMU (Percorsi Ludiformi della Massima Urgenza) e diffonde per
tutto il Pianeta tanti COFL (Centri Operativi Fondamentali del Ludiforme),
quanti sono gli ambiti umani coinvolti nelle previste APRL (Attività di Prestito e
Restituzione del Ludiforme), a partire dagli attuali 6.482.807.000 EVUSL (Esseri
Viventi Umani Sognanti il Ludiforme), coordinati dalle SSAIEU (Stazioni di Servizio per l’Accreditamento degli Interessi Elementari Umani)… Ecco perché,
caro Thesaurus, ti prego di far tue tutte le parole e le sigle della Banca Mondiale
del Ludiforme… Una Banca sui generis che, nella Vita Nòva, lavora al “gioco”
(sic!) della propria rivoluzionaria tecnologia: una tecnologia del ludiforme, di
semplicissima applicazione, al servizio degli UT (Uomini Tutti), e che si avvale
dell’attività degli EBAL (Educatori di Base Avvezzi al Ludiforme), oltre che
dell’opera degli APPL (Alti Papaveri della Pedagogia del Ludiforme) e dei MPEL
(Magnati della Politica e dell’Economia del Ludiforme)… Una Banca “altra”, ludiformemente impegnata a gestire capitali di creatività, a produrre forme disinteressate di interesse (sic! sic!), a distribuire non “dividendi” ma “moltiplicandi”, e a pregarti, caro il mio Thesaurus, di farne… tesoro-tesoro. Amen.
Avvisi di Vita Nòva
I
La Vita Nòva non vive di già
a ridosso
di ricordi che non ha.
Sopravanza semmai il fosso
del presente
nel futuro del passato,
come una pratica da istruire
hic et nunc
di là, di qua da venire.
Vive la Vita Nòva
d’illimitate visioni
e condivisioni,
e di miliardi di miliardi
di chi e che cosa.
E se negli occhi la guardi,
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
v’intravedi i fatti
i pensieri gli sguardi
e le emozioni e gli atti,
di voce in voce,
di bambine e bambini
del mondo che verrà veloce.
La Vita Nòva non è primula
a rischio di pioggia di vento
di morte,
se trova riparo alle spalle
del fior fiore della prospettiva
e della buona sorte.
II
La Vita Nòva non muore
di sonno
di stanchezza
d’inedia.
Sta desta piuttosto,
e sogna la dimestichezza
della gioia del domani,
anche se non ha orato né laborato
abbastanza stamani,
come il santo Benedetto
o il compagno Stakànov.
Non è figlia, la Vita Nòva,
di padre certo
e nemmeno
di madre fratelli e sorelle
sappiamo abbastanza.
La incontriamo però alla fermata
dell’autobus,
signora di noi uomini tutti,
paladina non disarmata
nel limbo
dei “se” e dei “ma”
dei “forse” e dei “chissà”.
E s’affaccia alla finestra
e racconta
non che “c’era una volta”,
ma che “ci sarà una buona volta”,
subito,
la novità
di responsabili, corresponsabili scelte.
III
La Vita Nòva non è lì per lì
o qui per qui,
l’inconcludente ottimismo
del tutti per uno, uno per tutti.
27
N. SICILIANI DE CUMIS
28
Non la sconcertante utopia
di un qualche “ismo”
in più,
ma la tecnologia
diseducativa, educativa,
dell’“io” e del “tu”.
Non l’illusione
che dall’oggi al domani
trasfigurino
in miracoloso bendidio
le aste, il solfeggio,
il dogma del due più due
sempre e comunque quattro
della matematica che non è un’opinione.
È visione
invece
la Vita Nòva,
immediatamente,
del negare che è un affermare,
dell’imparare che è uno spiegare
somiglianze e dissomiglianze,
criticamente
e somiglianze di dissomiglianze
e dissomiglianze di somiglianze.
IV
La Vita Nòva non insegna
addomesticando l’antiqua,
passo dopo passo
come mansuefatta cavalla.
Sa bene, invece, che l’apprendimento,
precede l’insegnamento
e che uno svantaggio
potrà pur tradursi in risorsa,
per tutti.
Racconta dunque, la Vita Nòva,
la grande avventura del dubbio,
la misera favola dell’interezza,
la storia strepitosa
di madamigella Serendipity
e l’elastica certezza
che seppure la realtà
supera l’immaginazione,
l’immaginazione
non sarà mai del tutto
immaginata.
Di qui, nella quasi-introduzione de I figli del Papuano, i seguenti,
ulteriori frammenti d’intercultura: tutti dell’estate scorsa e indirizzati,
come i capitoli di questo stesso libro tra storiografia e educazione, pe-
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
29
dagogia e antipedagogia, alla ricerca di situazioni utili per una definizione meno settoriale e unitaria del concetto d’intercultura.
Ai “Ragazzacci” di Adynaton,
Compagnia teatrale
diretta da Giorgio Spaziani e Emanuela Giovannini
Casal del Marmo – Roma
Lo muto, l’albatro, la sirena e il Mare di Ulisse7
Chista è la storia
d’u pisci spada,
storia d’amuri
(D. Modugno)
“Ragazzacci” carissimi,
buona davvero quest’idea di Emanuela Giovannini – una volta calato il
sipario di …E lo muto disse… –, di farlo continuare a parlare, cantare e
recitare, “lo muto”, nelle pagine di uno stimolante dossier tra autobiografia, biografia, educazione, cultura, intercultura, realtà, immaginazione (cfr. E. Giovannini, …E lo muto disse..., edizioni corsare, Perugia
2008). Una succosa cronistoria, personale e sociale, di come per un decennio, dentro Casal del Marmo ed extra moenia, si sia fatto felicemente teatro nel segno e nel sogno della leggenda del bambino, che spiega il
mondo a un imperatore… Cronistoria di una “solista” e leggenda “per
coro e orchestra” di una scuola e di un’anti-scuola: Vox Populi, per la
quale, se Verba Manent, Repetita Iuvant.
“Lo muto”, dunque, “disse” e “ridisse”: e, dopo che ebbe detto e ridetto, raccontò le tappe di un’avventura pedagogica, memorabile sia nei
contenuti sia nel metodo. Un’“odissea” individuale e collettiva, rivissuta
grado a grado; e, quindi, intessuta di date e dati, di persone e cose, di
opportunità e contrarietà, di presupposti, conseguenze, temi, problemi,
testi, contesti, limiti, possibilità, impossibilità, dimensioni culturali pregresse, linee formative in sviluppo, prospettive d’intervento al futuro.
Parole e musiche da mettere alla prova, come una sorta di originale test
di comprensione della lettura.
Gli accade pertanto, “allo muto”, che nel discorrerne qui con voi, gli
sembri proprio di rivivere ora, una volta di più, quel particolare momento in cui, dopo uno spettacolo, Giorgio Spaziani richiede la sua opinione su ciò che ha appena appena visto e ascoltato per opera vostra,
sua, di Emanuela e degli altri co-autori e co-attori dell’Adynaton (in
primis Valerio Di Filippo, Flavia Giovannelli, Paolino Blandano). E come un nonno, che viene preso per mano dai nipotini e condotto a giocare a nascondino, gli pare, allo stesso “muto”, di rassomigliare un po’ al
7
Nella rubrica “Lettere dall’Università”, l’albatros, gennaio-marzo 2009, pp. 98-105.
30
N. SICILIANI DE CUMIS
vecchio professore che, nel finale di Madadayo di Akira Kurosawa, sogna se stesso bambino, nell’atto del nascondersi, del farsi cercare e del
farsi scoprire dietro una siepe dai compagnelli di gioco: “Maadha
Kay?... Maadha Kay?...”, “Sei pronto?... Sei pronto?...” – “Madadayo!...,
Madadayo!...”, “Non sono pronto!... Non sono pronto!...”.
Succede allora che da un sogno del genere riaffiorino alla memoria
del vecchio professore immagini ed emozioni, del tutto compatibili con
le visioni teatrali “altre” dei “ragazzacci”; e che le parole e le idee al centro della dimensione onirica si traducano per “lo muto” in ulteriori elementi “accendistorie”, in “binomi” o “abbinamenti fantastici” alla Rodari. Sicché espressioni del tipo La Città Invisibile e L’Isola che non c’è,
Le Cose Buone e Nella Vita Contano i Fatti, Segreti Sussurrati Dappertutto, La Cooperativa dei Sogni… ecc. finiscono per assumere un potere,
che è insieme evocativo e maieutico. Un potere intrinsecamente formativo e autoformativo: e autoformativo e formativo, proprio nel senso di
quella “filologia vivente”, praticata con garbo tra le carte dell’Archivio
di Stato di Roma e messa quindi intelligentemente in scena dai “ragazzacci”.
“Allo muto” può accadere così di chiamarsi direttamente in causa e
di rivivere anche lui le medesime passioni “ragazzacce” del suo stesso
passato. E dunque – tanto per esemplificare – di ricordarsi “al futuro”
nella realtà (o nel sogno?) della trasposizione comico-tragica di Lu pisce spada di Domenico Modugno (con Flavia e Valerio); e rivolgendosi
a bassalta voce la domanda: “E ora che musica ci metto?”, rispondersi
cantando: la musica, la musica del Mare di Ulisse (da voi condiviso con
Linda Griva)… Adottando così, lo muto, una drammaturgia, metodologicamente in linea con quella di Giorgio e Emanuela (se ne parla infatti
in appendice a …E lo muto disse…); ripercorrendo “le vicende del lungo
viaggio di Ulisse in modo divertente ma anche evocativo”; e adottando
“uno schema di ruoli e uno sviluppo della storia tali da far agire molti
attori”: proprio perché “il testo permette di impegnare una o più classi
e di coinvolgere più discipline (disegno, musica, lettere, storia) adattandosi di volta in volta alle esigenze e alle caratteristiche dei gruppi
coinvolti”.
Gruppi “muti” anch’essi, dialoganti o monologanti. Individui “muti”
che “dicono”, comunque, grandi cose, a patire da quell’indimenticabile,
brechtiano, motto in epigrafe: “Ci sedemmo dalla parte del torto/perché
tutti gli altri posti erano occupati”.
“Muti” filosofeggianti, come di S. da Roma (chi se ne dimentica?):
Poi non se deve mangià carne, no no perché so’ vegetariano solo non se devono ammazza’ gli animali; so mammiferi, so’ animali come noi. Se deve mangià solo er pesce primo perché er pesce è bono, secondo perché er pesce sta lì
nun parla e terzo perché ‘n ce comunichi col pesce, che je puoi comunica’ a’r pesce?! E poi a che serve? Perché vojo di’ sul serio, te vojo fa’ ’na domanda. Ma
secondo te a che servono i pesci? No davvero, a che servono i pesci? Nun servono a niente, no?
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
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Accade così che, grazie a voi “ragazzacci” e ai vostri “pesci da magna’”
e con cui “comunica’”, quel “ragazzaccio” d’un “muto” riesce a immaginare per voi e con voi addirittura un nuovo spettacolo, ispirato, “ammazzate oh” alle canzoni di Mimmo, Mimì, Mimino, Minicu, Mignucc,
Mignuccill… Domenico Modugno, visto che mare e marinai, pesci e pescatori, fiumi e spiagge e navi, barche e vele, sono proprio la “chiave interculturale di volta” per entrare nel mondo poetico-acquatico del cantautore di Polignano a Mare: mare nel sangue, gran nuotatore, innamorato di Lampedusa e del suo mare. Un albatro forse, che volando volando nel cielo infinito, canta canta Nel blu dipinto di blu: e, da “lassù”, si
tuffa e rituffa tra i marosi, “felice di stare quaggiù”, negli “occhi tuoi
blu” della sua sirena…
Sirena, alla quale l’albatro racconta la storia del ragazzo sordomuto
sulla spiaggia di Lampedusa, cui Modugno, prima di morire, avrebbe
voluto spiegare delle tartarughe marine da restituire al mare. E lei, la
sirena, risponde all’albatro, cantando Oceano (infinito mare):
Oceano immenso
infinito mare
il tuo trionfo
è un canto senza fine
gloria e leggenda
di bianchi cavalli.
Tu padre e madre,
tu mia prima culla
nelle mie mani ingenue
di bambino
per quante volte
ti ho imprigionato.
Respiro grande
che soffia nel vento,
spingendomi,
spingendomi,
fino a Dio...
Il tempo che avanza,
il tempo che avanza,
il tempo…
Oceano (infinito mare)… Espressione poetica di un universo marino
elementare e complesso, un po’ “ragazzaccio” anche lui. Per cui, ascoltando e riascoltando questa specie di preghiera, all’albatro viene da dire
e ridire e da cantare e ricantare della forza generatrice e rigeneratrice
del “mare”: del mare che, non a caso, nelle canzoni di Modugno, spesso
e volentieri fa rima con “amore”… Un “mare”, che è tra le più belle “invenzioni” della vita, come in Meraviglioso; un “mare che se smove” per
un amore finito che non vuol finire, come in Nisciuno po’ sapé; un
“profumo di mare” e immagini di “spiagge deserte”, come in Notte di
N. SICILIANI DE CUMIS
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luna calante (o in Mese ’e settembre, in Addio, addio ecc.); la musica
“in riva al mar”, la solitudine “con il mare” e il “pianto” di una tromba
“per le strade del Sud”, in Una tromba d’argento; i “fiumi che vanno
verso il mare”, inarrestabili come “l’amore mio per te”, in Dio come ti
amo.
Una donna amata, che è, essa stessa, il mare, in Tu sì ’o mare:
Tu sì pe me comme l’acque e mare
calma n’ora sola
e poi vene o temporale.
Tu sì ’o mare e io ’na vela
vela senza timone
ca la puorti
ca la puorti dove vo’ tu.
Tu sì ’o sole e io ’na vela
vela senza timone
ca la puorti
ca la porti dove vo’ tu.
Ecco perché, “ragazzacci” miei, sarebbe davvero bello osservarvi
mettere in scena canzoni tra loro diversissime, ma bagnate dal mare,
come Se Dio vorrà o Io mammeta e tu, Notte chiara o Io ti troverò…
Bello, vedervi nei vostri possibili adattamenti di Libero: una canzone,
dov’è “per il suo mare”, che “corre la vela mia… chi la può mai fermare… naviga naviga naviga… scivola scivola scivola… nel vento va… verso
la libertà”.
E mi piacerebbe sentirvi suonare e cantare Marinai, donne e guai,
dove sono “mesi e mesi d’alto mare” a provocare le azioni dei “marinai”,
le reazioni delle “donne” e i “guai” che ne derivano; Pasqualino marajà,
in cui si racconta proprio dell’“assoluta povertà” di “un certo Pasqualino pescatore”, che per amore diventa marajà; ’A pizza c’a pummarola,
dov’è “nu cicianiello e mare” a benedire quel miracolo di bontà che è la
pizza napoletana; Sole, sole, sole, dove “o verde e l’acqua e mare”, sciogliendo “‘sti culuri”, sembra quasi dipingere ed esprimere anche lui assieme ai “pitturi” il “mare, mare, mare” e le innumerevoli altre storie
marine del mare-amore di tante canzoni di Modugno, con i pesci, i pescatori, le barche, gli scogli, le vele, le spiagge, i fiumi dello stesso Mare
di Ulisse di cui vi dicevo più sopra…
E vi ascolterei ancora cantare il mare e le situazioni variamente
“marine” di Ventu d’estati, di Ma come hai fatto, di Ti amo amo te, di
Io ti troverò, di E Dio creò la donna… E poi di Le morte chitarre, di
Vecchio frack, di Il vecchietto, di Datemi un paio d’ali, di ’Na musica,
di Sole malato, di Delfini (sai che c’è) (l’ultima interpretazione di
Mimmo con il figlio Massimo):
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
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– Ehi, capitano mio, vado giù
Non è blu questo mare, non è blu
Tra rifiuti pescecani ed SOS
Vado alla deriva, sto affogando…
– Che cacchio stai dicendo?
Affoghi in un bicchiere
Sai nuotare come me, più di me
Ce la fai se lo vuoi, sì che puoi
Prendi fiato e vai.
– Ehi capitano mio
Siamo accerchiati
Da cento barche
Arpioni, armi e cento reti.
– Fuggi via, tu che sei più veloce
Mi hanno solo ferito
Ma sopravviverò.
Sai che c’è? Non ce ne frega niente
La vita è morire cento volte
Siamo delfini. Giochiamo con la sorte
Sai che c’è? Non ce ne frega niente
Vivremo sempre, noi sorrideremo sempre
Siamo delfini, è un gioco da bambini, il mare…
Un gioco da bambini… Il mare come “gioco della prospettiva”… Un
mare di prospettiva… Il “gioco” del “negativo”, che si fa “positivo”. Il
gioco “ragazzino” del vostro teatro “ragazzaccio”… Un musical sui generis da mettere in scena, un giorno o l’altro all’Auditorium: e, s’intende,
per un pubblico interculturale, senza eccezioni, pagante.
E pagante, perché voglioso di prospettiva, di prospettiva, di prospettiva… A proposito, se non lo aveste già visto, non lasciatevi sfuggire
il film di animazione Ratatouille, della Disney-Pixar (2007)… E soffermatevi a riflettere sulle parole del severissimo critico culinario Anton
Ego a proposito del topolino Remy, cuoco d’eccezionale bravura e simpatia, e delle sue imprevedibili “creazioni” gastronomico-inter-transculturali:
Lo sa cosa vorrei tanto? Un po’ di prospettiva. Ecco, gradirei della prospettiva fresca, chiara e ben condita… Ci sono occasioni in cui un critico rischia davvero: ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso
ai nuovi talenti, alle nuove creazioni. Al nuovo servono sostenitori. Ieri sera mi
sono imbattuto in qualcosa di nuovo: un pasto straordinario di provenienza assolutamente imprevedibile. Affermare che sia la cena sia il suo artefice abbiano
messo in crisi le mie convinzioni sull’alta cucina è, a dir poco, riduttivo: hanno
scosso le fondamenta stesse del mio essere. In passato non ho fatto mistero del
mio sdegno per il famoso motto dello chef Gusteau: “chiunque può cucinare”.
Ma ora, soltanto ora, comprendo appieno ciò che egli intendesse dire: non tutti
possono diventare dei grandi artisti, ma un grande artista può celarsi in chiunque.
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N. SICILIANI DE CUMIS
…E lo muto disse e… ridisse! E l’albatro e la sirena, nei sogni che faranno insieme, voleranno, voleranno in cielo come La donna cannone
di Francesco De Gregori, tenendosi per mano negli “abissi profondi e
blu” del mare, e canteranno, canteranno la “gioia infinita” di “cieli limpidi e sereni” e le storie finalmente eterne del loro “giovane amore”.
Con affettuosi auguri di “mezza estate”,
il vostro Nicola Siciliani de Cumis
Sellìa Marina di Catanzaro, Ferragosto 2008.
2. Saluto dell’emigrante8
A Santino Bubbo,
sindaco di Petronà (Catanzaro)
Al presidente della Comunità montana della Presila catanzarese
Caro Sindaco,
ho letto e apprezzato in particolare – assieme agli altri testi pubblicati
nel nuovo periodico del Comune di Petronà, il Municipio informazioni
sulla vita Amministrativa, luglio-agosto 2008 – il tuo “Saluto agli emigranti”. E trovo positivamente rilevante questa decisione dell’Amministrazione comunale, di rendere il più largamente possibile trasparenti
le proprie scelte e azioni, con un agile e succoso notiziario di vita amministrativa cittadina... Ne sapevo già qualcosa, da alcuni significativi
articoli agostani di Antonella Scalzi e Vincenzo Bubbo, rispettivamente
su il Quotidiano della Calabria e su il Domani, ora capisco forse di più.
Si tratta, com’è evidente, di una scelta politico-culturale “nell’interesse di tutti”, che porta bene “a ciascuno”. Una scelta, che va per
l’appunto nella direzione di quella convergenza e unità d’intenti “forti”,
che caratterizza la linea d’azione dell’attuale Giunta municipale di Petronà, nel più ampio contesto della Comunità montana della Presila Catanzarese, e che si traduce in un vantaggio per gli stessi ambiti regionali
e nazionali, in una prospettiva anche più ampia.
Ne davi del resto conferma tu stesso, la sera del 24 agosto in piazza
Muraca, chiudendo le attività in programma per l’Estate petronese:
“l’unità fa la forza”, dicevi. E lo comprovano i tanti emigrati di Petronà
in Italia, in Europa, nel mondo, che ripartendo dal loro paese, porteranno con sé la sua aria politica pulita, l’acqua fresca e buona della sua
sana amministrazione, la “diversità” qualificata e qualificante della propria cultura di provenienza.
Conosco sulla mia pelle ciò che tu definisci “la voglia e l’interesse di
tantissimi emigrati che vogliono conoscere e sapere cosa si fa nel ‘paese’
di origine”, per fare essi stessi qualcosa di “positivo”. Per questo trovo
8 Inedito, agosto 2008. In parte pubblicato sul numero de il Municipio informazioni sulla vita Amministrativa, autunno-inverno 2008.
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
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molto concreto, e lungimirante, l’obiettivo da te proposto “di rafforzare
e mantenere il legame con i tanti petronesi che vivono fuori regione”.
Ma cosa fare di seriamente costruttivo, per realizzare davvero e far durare e sviluppare nel tempo tutta l’importanza di un siffatto, impegnativo proponimento?
Se me lo permetti, vorrei essere considerato anch’io uno di quegli
emigranti cui va il tuo saluto: e non solo in quanto pronipote di Emilio
Colosimo e nipote di Vincenzo Colosimo, ma anche perché mia madre è
nata a Petronà, dispone ancora, qui, di alcuni beni che io collaboro ad
amministrare. E poi perché non sono state poche, nella mia vita, le occasioni per sentirmi “naturalmente” petronese anch’io: da bambino e
da ragazzo, in indimenticabili periodi estivi a Collevespe, appena laureato, con il mio primo incarico di professore di scuola media a Belcastro
(sezione staccata di Petronà), nelle collaborazioni con la Comunità
montana della Presila Catanzarese, con alcune scuole della medesima
Comunità montana (per es. a Zagarise), con il Parco nazionale della Sila, e – proprio a Petronà – in occasione dell’inaugurazione della Biblioteca comunale, dell’inaugurazione del Palazzo Colosimo, della presentazione del libro di Fiore Scalzi sul dialetto petronese, e finalmente, in
questo stesso agosto, nella Casa comunale, rivisitando le sale imponenti
e provando a guardare lontano dai balconi di Palazzo Colosimo, ovvero
dagli spalti della bella e accogliente piazza Muraca.
Non scorderò d’altra parte facilmente le facce di quei bambini che –
sempre a Palazzo Colosimo – svolgevano il loro laboratorio didattico
estivo, né dimenticherò i volti e le voci degli attori dell’originale messa
in scena del Non ti pago di Eduardo (nel dialetto di Sellia Marina), né
le musiche e i canti e le danze del gruppo folk “Petrania”. Conserverò
piuttosto il ricordo del mio agosto in Piazza Muraca: il ricordo delle sue
caratteristiche soluzioni architettoniche “miste” e delle larghe vedute
panoramiche dell’affaccio e il ricordo dei volti lieti e compunti dei compaesani, dei loro forti abbracci e delle loro salde strette di mano, il ricordo delle suadenti parole delle ragazze del “Taxi Verde” (“GRATUITO
rivolto ad anziani, disabili, persone non autosufficienti e svantaggiate”),
il ricordo dell’invito alla lettura e del dono di libri in mostra (“libri per
ragazzi e di cultura locale, ma non solo”), da parte del responsabile della Biblioteca comunale, e il ricordo degli odori di fumo e di arrosto, di
fungo, di salciccia e di caldarrosta, il ricordo, ancora, dei sapori corrispettivi (“a prezzo politico”), della voglia di avvicinarsi e di parlarti, da
parte di conoscenti e sconosciuti e del bisogno che viene spontaneo di
fare amicizia e di ascoltare, di fare domande, di trovare conferme, di
scoprire “novità”, di riflettere e di immaginare più lunghi sentieri nei
boschi e strade più brevi e sicure dal mare verso i monti e dai monti
verso il mare.
Così mi è capitato di immaginare, in piazza, un trenino o una funivia o un elibus, come si dice, low cost. Mezzi di trasporto rapido, non
inquinanti l’ambiente e non devastanti l’incontaminatezza e la bellezza
dei luoghi. Mezzi di trasporto lenti, finalizzati alle visite guidate, alla
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N. SICILIANI DE CUMIS
fruizione estetica, all’interazione sociale, all’esercizio individuale e collettivo della ragione.
Anche per me, come per te, agosto è sempre un momento importante: e proprio perché, come gli stessi petronesi di cui parli tu, anch’io
amo ritrovare parenti e amici che vedo poco o non vedo affatto durante
l’anno. Agosto: mese delle nuotate e delle passeggiate, mese delle esperienze culturali più disinteressate e, direi, tanto più riposanti, quanto
più intriganti e impegnative.
Agosto: mese di incontri e di riscontri, un mese nel quale, ritornando a Petronà, noi che viviamo altrove vogliamo più che mai “apprezzare
la crescita e le novità di questo nostro paese”. Tra le quali novità,
quest’anno, c’è anzitutto la su nominata Piazza Muraca, come dicevo
bella e accogliente, “unica nel comprensorio”, con il suo teatro all’aperto, il suo anfiteatro e la sua platea mobile, con il suo palcoscenico
stabile e cangiante, con i suoi servizi per gli attori e per il pubblico, con
le sue raccolte differenziate di rifiuti, con il suo straordinario panorama, con le sue tante tante umane presenze di petronesi stanziali, emigranti, itineranti.
Ci preannunzi, Sindaco, che quando sarà finalmente pronta anche
l’area di Manulata (una volta collegata con l’area verde di Donaglie del
Comune di Carva, “con al centro un’oasi con dentro i daini, le lepri e gli
uccelli”), le piazze di Petronà saranno due: quella che guarda il mare e
quella che guarda i monti. La Calabria tutta, concentrata in un solo luogo “intercomunale di valenza turistica e ambientale e di grande rilevanza regionale che porterà migliaia di visitatori, turisti e tantissime scuole”. Mare e monti a Petronà e dintorni: proprio come certe pizze italiane, mari e monti, famose in tutto il mondo…
A proposito di pizze: perché non invitiamo i petronesi, a partecipare a un concorso pubblico bandito dal Comune, sulla piazza Muraca, a
proporre una sorta di pizza della diversità gastronomica di Petronà?
Ingredienti obbligatori: la farina di castagne e i funghi. Tutto il resto –
a cominciare dalla non facile ma non impossibile soluzione del problema dell’alleggerimento della pasta e della difficile lievitazione –, viene
affidato alla libera inventiva culinaria dei partecipanti al concorso.
Consegna rigorosa agli emigrati, quando ripartono “per terre assai luntane”: la diffusione nel mondo della ricetta vincente (anche se non è la
propria)… Che te ne pare?
D’accordo, quindi, sugli altri punti qualificanti del tuo stimolante
“Saluto agli emigranti” e dei “valori” che l’ispirano. D’accordo sul tuo
invito “a fare” e sulle relative proposte operative che già avanzi in tema
di buone pratiche personali e pubbliche, di regole democratiche, di educazione alla legalità e all’igiene cittadina, di attività sportive presenti
passate e future, di rete idrica, di educazione civica e di crescita della
cultura generale, di utilizzazione culturale “la più idonea” del Palazzo
Colosimo…
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
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In questa direzione, ritienimi quindi a tua disposizione, per tutto
ciò che eventualmente potesse servire nello svolgimento dei progetti del
Consiglio comunale e tuoi.
Intanto, saluti carissimi,
il tuo Nicola Siciliani de Cumis
3. Muhammad Yunus, la poesia e la traduzione-mare
Voci “altre”, tra cultura e intercultura9
Tutti potranno leggere e ascoltare qualsiasi cosa usando solo la propria lingua. La tecnologia farà sì che pur continuando a scrivere, leggere o parlare nella
nostra lingua, chi ci ascolta o chi ci legge percepisca il messaggio nella sua. Ci
saranno software e dispositivi in grado di fornire la traduzione simultanea sia
del discorso parlato sia di qualsiasi file. Potremo guardare qualsiasi canale televisivo e ascoltare l’audio nella nostra lingua.
Così, il “banchiere dei poveri” e premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, opportunamente convinto del fatto che “all’inizio d’un mondo migliore” ci sia l’immaginazione e che l’immaginazione risulti effettivamente essenziale di fronte alle problematiche di Un mondo senza povertà (Feltrinelli, Milano 2008, p. 230: traduzione dell’originale Vers un
nouveau capitalisme, J.C. Lattès, Paris 2008, quindi in traduzione dall’inglese di P. Anelli). E la citazione, da un lato, con il suo ottimismo onirico e volontarismo programmatorio, interviene suggestivamente in generale sul tema dei limiti e delle possibilità del tradurre prossimo venturo, da un altro lato, in particolare, consente di riflettere per differenza sui
limiti e le possibilità del tradurre le complessità culturali: poniamo, la
poesia… La poesia, per esempio, che si condensa nel volume Un’altra voce. Antologia di poesia italiana contemporanea. Con traduzione in russo. A cura di Franco Buffoni. Traduzione di Natalie Malinin/Drugoj golos. Antologija sovremennoj ital’janskoj poezii. S perevodom na russkij
jazyk. Pod redakciej Franko Buffoni. Perevod Natalii Malininoj, Milano, Marcos y Marcos, 2007, pp. 192, € 11,00.
Un’antologia, questa, che – come avverte Buffoni nella prefazione –
seguendo il collaudato criterio editoriale della collana, di selezione dei
poeti e di impostazione critica, si colloca sulla scia di analoghe proposte
per la lingua araba, per la lingua portoghese, per la lingua ebraica, per
la lingua cinese, ed è il frutto di feconde confabulazioni e preziose acquisizioni di competenza tra chi, a diverso titolo, vi ha collaborato.
Scrive infatti Buffoni:
Nei continui scambi di email con la collega slavista traduttrice Natalie Malinin, mi sono reso conto di due fondamentali tratti distintivi che la nostra poesia
(ma anche quella di altri Paesi occidentali) assume nel corso della traduzione in
9
Recensione apparsa in l’albatros, ottobre-dicembre 2008, pp. 141-149.
N. SICILIANI DE CUMIS
38
lingua russa: anzitutto ho compreso come il peso della tradizione metrica ancora fortemente condizioni la fruizione della poesia lirica in quella lingua rispetto
alla nostra, quindi ho compreso l’importanza che quella civiltà culturale continua ad attribuire ai ‘titoli’. In altre situazioni traduttive, per esempio, i titoli delle opere di un autore nelle note bioblibliografiche non vengono nemmeno tradotti, si lasciano nell’originale. Malinin invece insisteva perché le spiegassi o il
vero significato di “bisbidis”, o della “viandanza”, mettendo a dura prova la mia
capacità di ‘meta-pherein’ (p. 6).
E spiega:
Questo perché il lettore russo deve anzitutto capire, non farsi suggestionare
dai suoni, e le strofe devono giungergli in una veste vicina a quella che noi solitamente definiamo di metrica chiusa (ibidem).
Interessante, d’altra parte, lo specifico significato interculturale della proposta “critica” d’insieme, veicolata dalla peculiare dimensione antologica del libro. Nel senso che, ben al di là della scelta “mirata” delle
quaranta opere dei poeti presenti all’appello (Antonella Anedda, Fernando Bandini, Mario Benedetti, Elisa Biagini, Franco Buffoni, Corrado
Calabrò, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Claudio Damiani, Milo De
Angelis, Gianni D’Elia, Eugenio De Signoribus, Luciano Erba, Umberto
Fiori, Biancamaria Frabotta, Gabriele Frasca, Giovanni Giudici, Vivian
Lamarque, Franco Loi, Valerio Magrelli, Guido Mazzoni, Alda Merini,
Roberto Mussapi, Giampiero Neri, Aldo Nove, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Antonio Riccardi, Nelo Risi, Paolo Ruffilli, Edoardo Sanguineti, Mario Santagostini, Flavio Santi, Luigi Socci, Maria Luisa Spaziani, Patrizia Valduga, Gian Mario Villalta, Cesare Viviani, Andrea
Zanzotto, Edoardo Zuccato), la selezione operata rende significativamente conto della situazione poetica italiana odierna: che “è oggi
senz’altro molto più complessa e variegata rispetto a quella di venti o
trenta anni fa”, quando pareva che “la linea ermetico-avanguardistica
rappresentasse quasi in assoluto il Novecento poetico italiano” (p. 8).
Conclude infatti Buffoni:
Oggi il cosiddetto ‘versante in ombra’ pare a tratti persino più in luce
dell’altro versante. Ed è un bene che sia così, per il raggiungimento di un equilibrio critico, che certo – al momento – non può in alcun modo considerarsi definitivo (ibidem).
Di modo che antologie del tipo di Un’altra voce, al di là di ciò che sono o
pretendono di essere, “hanno dunque – o pretendono di avere – anche una funzione di stimolo sul piano critico, oltre che informativo su quello estetico (ibidem).
E di più:
Sul piano più specificamente critico, si è mirato a fare risaltare in modo
molto nitido la poetica di ogni autore. Che è fatta sì – come scriveva Anceschi –
di norme operative e di sistemi tecnici, ma anche di moralità e di ideali. Ciascu-
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
39
na poesia qui contenuta ha pertanto per noi un valore in sé, come espressione
massima della poesia di quel dato autore, ma possiede anche un valore aggiunto, che le proviene dal fatto di essere posta in dialogo, in rapporto con poesie di
altri autori scelte con il medesimo criterio (pp. 8-10).
Una funzione per esplicito interculturale, quindi, che si arricchisce
ulteriormente di senso in presenza di opere in dialetto (come nel caso
dei testi di Loi e Zuccato), e che stimola ancor più a riflettere sugli scenari scaturenti dalle innovazioni tecnologiche prossime venture prefigurate dal lungimirante Yunus. Ma, riflettendoci, viene ancora da chiedersi: e la poesia? La poesia che, come afferma Buffoni, certo “non salva la vita”, ma che forse “aiuta a vivere e a fare maturare le persone e le
situazioni” (ibidem), sarà anch’essa facile compito delle macchine il
tradurla senza problemi? Potrà mai rientrare, la poesia, puramente e
semplicemente, tra le “cose qualsiasi” della traducibilità strumentale,
veicolare, generalizzata?
Fino a che punto sarà sul serio praticabile, come utenti delle nuove
tecnologie, non diciamo eguagliare, ma almeno affiancare, agevolare e
stimolare il lavoro proprio e nuovo, personalissimo, quasi viscerale, di
un traduttore? E viene allora da pensare che, fatte salve le pur auspicabili e in parte realizzabili previsioni yunussiane, la poesia (anche certa
prosa, però) non potrà comunque e sempre fare a meno dell’originario
“testo a fronte”. E si deve aggiungere che, nell’atto del tradurre, occorrerà comunque salire e scendere, risalire e ridiscendere senza posa i diversi eppur congiunti gradini dell’interpretazione simultanea e dell’adeguatezza sintattico-frasale, dell’adeguatezza lessicale e di quella espressiva, dell’adeguatezza testuale e di quella contestuale, dell’adeguatezza
pragmatica e di quella semiotica, dell’adeguatezza storico-culturale e di
quella storico-interculturale, ecc. In altri termini, si tratterà di volta in
volta di decidere della creativa funzione tecnica di questo o quel tradurre, e, dall’interno della circoscritta, autonoma e originale attività di traduzione, provare a capire la ragione etico-estetica dell’incontro linguistico-comunicativo e della mediazione espressiva.
Perché davvero – se fosse consentito riproporre qui, per estensione
metaforica, i versi di uno dei poeti di Un’altra voce, Corrado Calabrò –,
il tradurre sembra per l’appunto comportare anch’esso i medesimi rischi del mare e dell’amore al tramonto (cfr. ivi, alle pp. 38-40, i testi a
fronte dell’originale italiano di Calabrò e della traduzione russa di Malinin). E dunque, di rischio in rischio, i rischi della traduzione-mare:
Lo stesso rischio
Razionalmente, certo, il mare è un rischio,
ma io non l’ho mai sentito come tale.
Il mare va preso come viene,
così, con la sua stessa inconcludenza:
portando verso il petto, a ogni bracciata,
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N. SICILIANI DE CUMIS
un’onda lieve che non si trattiene.
Non c’è altro senso nel tendere al largo,
dove l’acqua è mielata dal tramonto,
se non di tenere la cadenza
fino a quando stramazzano le braccia
e spegnere nel mare il desiderio
di raggiungere a nuoto la soglia
che segna il limitare a un nuovo giorno.
Se allora ci si gira sopra il dorso,
come pescispada dissanguati,
agli occhi gonfi d’acqua e indeboliti
spalanca il cielo la sua occhiata vuota:
ma il corpo sta sospeso in un’amaca
che lo sorregge come si è riamati
nell’età antecedente la ragione.
Passata quell’età, l’amore è un rischio,
infido quanto più ne ragioniamo.
Al mare si va incontro come viene,
in un’illimitata inconcludenza,
sentendosi lambire a ogni bracciata
da una carezza che non si trattiene.
È una scommessa tutta da giocare
fino alla sua estrema inconseguenza.
La cosa più penosa è far le mosse
sulla battigia, invece di nuotare.
Il rischio-mare e la traduzione-mare, che parafrasando il su menzionato Yunus (il quale di mari se ne intende e come se se ne intende!),
da un lato infondono una grande fede nella creatività umana, da un altro lato, portano a pensare che tutti noi esseri umani nessuno escluso,
così come non siamo nati per patire le miserie della fame e dell’indigenza, allo stesso modo, non facendo semplicemente le mosse sulla battigia ma nuotando, possiamo contribuire a realizzare un mondo di poesia. Primo, perché la nostra conoscenza delle culture poetiche “altre”, e
dei modi in cui la poesia consente d’interagire interculturalmente, è ancora molto inadeguata, secondo, perché ogni persona, magari senza saperlo, è veicolo di “capitali” di poesia e condensa un potenziale illimitato di ascolto poetico che – per l’appunto parafrasando Yunus – può
davvero influenzare poeticamente (e criticamente) la vita degli altri
all’interno delle comunità e delle nazioni, e nei limiti e oltre i limiti della propria esperienza culturale.
In ognuno di noi, infatti, si celano mari molto più numerosi e grandi di quelli che finora si è avuto la possibilità di scoprire e di esplorare.
Ma fino a che non “nuoteremo” in quel contesto traduttivo, che ci permetta di scoprire la vastità delle nostre potenziali fruizioni poetiche e la
Quotidianità interculturali, tra pedagogia e antipedagogia
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qualità virtuale delle nostre approssimazioni interculturali, non potremo sapere quali siano le nostre stesse risorse in tal senso.10
10 Ciò che segue – in forma di saggio, articolo, paragrafo, nota ecc. – non è che un
insieme tendenzialmente organico di reazioni critiche alle occasioni, che nell’arco di
circa venticinque anni sono state offerte all’autore per intervenire in tema d’intercultura. Strettamente collegati alle situazioni che li hanno determinati, hanno avuto diverse forme di pubblicità: in fotocopia, in rivista, su alcuni quotidiani, in Internet
ecc. Sono stati qui ordinati e assemblati, spesso con notevoli varianti, in una forma
unificata tale da guadagnare in organicità, senza perdere in immediatezza.
I
Intercultura come “incontro”
1. Nuovi percorsi educativi tra esperienze didattiche
e indagine scientifica1
(Roma, 31 marzo 1993)
Una premessa
Una volta, più di un secolo fa, dalla cattedra di Filosofia morale e
Pedagogia dell’Università di Roma, il percorso didattico e scientifico
che, dati i tempi, riusciva a essere indicato per un’educazione interculturale, era questo che si deduce da un noto quanto discusso racconto di
Benedetto Croce:
“Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi
scolari, tanti anni fa – credo trent’anni fa, – al Prof. Labriola, in una delle sue
lezioni di pedagogia, obiettando contro l’efficacia della pedagogia.
“Provvisoriamente (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l’herbartiano
professore) lo farei schiavo, e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se ai suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad applicare qualcosa della
pedagogia nostra”2.
Un vecchio percorso educativo, non c’è dubbio, impregnato di filosofia evoluzionista: ma un percorso fondato anche su un preciso quanto
diffuso (ahimè ancora oggi) pregiudizio occidentalistico, eurocentrico,
nazionalistico. Da qui occorre muovere per differenza, da qui per fare
criticamente e autocriticamente i conti, sul piano dell’ideologia e della
“mentalità” corrente di “senso comune”. Questo per la pars destruens,
ai vari livelli.
Quanto alla pars construens, è per me meno facile dire: più che dare
ricette a un ammalato morto, in giorni terribili come questi che viviamo
1 Relazione alla Mostra/Convegno “Incontramondo”, a cura del CIES (Centro informazione e educazione allo sviluppo), Roma, Museo etnografico “L. Pigorini”, 3-5
dicembre 1992.
2 Cfr. in proposito A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, UTET, Torino 1981, p. 467.
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Capitolo I
nel mondo, e a casa nostra, per il rigurgito del razzismo (con tutto ciò
che sta a monte e a valle), preferisco attenermi alla mia personale esperienza professionale e di ricerca, nella quale l’“Incontramondo” odierno
(con il lavoro che c’è dietro) non è che episodio d’arrivo. La “novità” del
percorso educativo, tra didattica e ricerca, esige però una considerazione d’ordine più generale, o – se vogliamo – una scelta di campo, in termini tanto pedagogici quanto storici e politici, sì da maturare davvero
la distanza dalla soluzione ottocentesca del problema del “Papuano”. E
muoversi oggi altrimenti.
Orbene, dalla parte opposta, nell’ambito della pedagogia contemporanea, anche e forse e soprattutto in Italia, c’è una linea di tendenza
(minoritaria quanto si vuole, ma ben presente e viva e attiva), secondo
cui la didattica sia tanto più didattica, quanto più non rifiuti a priori,
anzi accolga prioritariamente, il principio di un rapporto continuativo,
dialettico, costitutivo con la ricerca: tra le ricerche di prima mano a
scuola, in classe,3 e la ricerca dei ricercatori, quella che si fa nei laboratori e negli archivi, nelle biblioteche e sul campo…
Senza volere scomodare il vecchio Socrate (tra i perdenti, però, in
quella curiosa gara delle citazioni delle star pedagogiche di tutti i tempi
e di tutti i luoghi, svoltasi qualche anno fa su una rivista di cose scolastiche, per iniziativa di F. Frabboni)4, basti ricordare adesso che il nesso
didattica-ricerca è un’opzione metodologica (almeno per me che ne
parlo, a partire dalla puntuale convergenza/divergenza di talune istanze
presenti nell’opera di John Dewey e Antonio Gramsci, sul tema della
relazione tra “indagine scientifica” e “senso comune”), e che una siffatta
opzione metodologica è supportata a mio avviso dalle esigenze espresse
via via in ciò che di meglio producono le teorie e le pratiche della “ricerca come antipedagogia”, dello “sperimentalismo educativo”, della “ricercaazione”, e che ben si connette con quel che di meglio deriva dai recenti
dibattiti su “quantità-qualità” in educazione, sul “coraggio” sì e no degli
“intellettuali”, sul rapporto tra “alta” e “bassa” cultura, sul “giornale in
classe” ecc. ecc. Di modo che sembra più che mai acquistare valore, nella scuola di ogni ordine e grado e dunque nell’università, la massima di
quel grande maestro, il filologo Giorgio Pasquali, dettata nel ’23 a ridosso della riforma Gentile:
Per nulla al mondo vorrei tolta ai miei scolari la gioia orgogliosa di avere
scoperto, essi per primi, grazie a metodo fattosi abito e a perspicacia cresciuta
dall’esercizio, qualche cosa... e fosse pure una minima cosa. È desiderabile, mi
3 Per l’esperienza di chi scrive cfr. (con tutti i limiti) il volumetto Filologia, politica e didattica del buon senso, Loescher, Torino 1980 (quindi, in seconda edizione,
col titolo Di professione, professione, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1998).
4 Cfr. “Una ‘Canzonissima’ per incoronare un’idea pedagogica da salvare”, La
Scuola Se, settembre 1988, pp. 7-16.
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pare, che il giovane nentri nella vita con la lieta coscienza di essere stato anch’egli
un giorno, anche un giorno solo, un ricercatore, uno scienziato.5
La mia ipotesi è allora questa: che proprio muovendo da un presupposto metodologico di tal fatta, e dalle imprescindibili questioni di merito che esso comporta, l’educazione interculturale, tra esperienze didattiche e indagine scientifica (meglio al plurale, indagini scientifiche,
tante quante sono le esperienze didattiche), non sia un optional, un genere di lusso o l’abito del dì di festa, ma una necessità quotidiana, una
condizione elementare vitale, un presupposto della normalità educativa.
E ciò tanto nel senso che l’educazione interculturale (e per certi versi
transculturale) è affare dei ricercatori, degli studiosi di molte discipline,
degli uomini di scienza, di tutte le scienze, nell’esercizio delle loro funzioni, quanto nel senso che un’educazione interculturale/transculturale
è davvero riuscita quando realizza gli obiettivi-limite di qualsiasi altra
didattica, al massimo grado delle sue possibilità critiche, in relazione
stretta con la ricerca.
La “differenza”6
Non basta infatti dire “integrazione culturale” (sento odor di “Papuano”, perché l’espressione può indurre in unilateralità culturalistiche, e in equivoci, al limite, perfino razzistici), così come non è sufficiente far valere puramente e semplicemente i termini del rapporto con
le differenze tra le diverse culture, sì da sostituire una pluriculturalità
educativa con una interculturalità metodologicamente controllata, d’ingegneria pedagogica, e nemmeno risolve il problema invocare l’ideale
dell’uguaglianza tout court, cioè di una generica e astratta uguaglianza:
giacché lo scopo è invece quello di riconoscere e garantire, qualuntunque paradossalmente, il diritto alla diversità, all’unicità e all’individualità di ciò che non può e non vuole essere forzosamente assimilato nella
pax paedagogica altrui. Si tratta invece di evitare le panie delle teorie e
delle pratiche educative soltanto emancipazionistiche (pro domo sua),
e l’impasse che deriva dal proposito formativo di limitarsi a fornire
qualche opportunità d’inserimento per i “nipoti” e “pronipoti” (diceva
Labriola) ovvero di compensare paternalisticamente le carenze culturali
d’origine, e di far valere quindi sui “meno progrediti” (questo è il sottinteso filosofico) la “forza” di un’occidentalità “avanzata”, migliore, specificamente più “umana”, più “sociale”, più degna insomma di essere preferita e imporsi (con le buone o le cattive). È per questa ragione forse
che i temi della guerra e della pace sono al centro dei percorsi educativi
5 Vedi sul tema le annate di Scuola e Città (con interventi esplorativi tesi a verificare la possibilità relativa del rapporto tra i due autori).
6 G. PASQUALI, “L’Università di domani”, in ID., Scritti sull’università e sulla scuola,
con due appendici di P. Calamandrei, Introduzione, di M. Raicich, Sansoni, Firenze
1978, pp. 48-49.
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Capitolo I
della mostra. Il percorso educativo “nuovo” non può non essere quindi
che assai più ambizioso. Distruggere il vecchio, e al tempo stesso costruire un’alternativa: ma su un principio educativo radicalmente altro:
e subito capace di cogliere i termini della sproporzione tra ciò che si fa e
si dovrebbe invece fare, nell’ottica di un progetto comune di conoscenza
e d’intervento. Occorre allora battere altre strade: e pertanto, invocando gli strumenti concettuali di un sano relativismo culturale (lo sottolineava Elisabetta Melandri, citando Piaget) guidato però dalla necessità
di realizzare obiettivi interculturali non subalterni a questa o a quella
logica particolare, procedere all’elaborazione di un nuovo e di un diverso modello educativo intrinsecamente autocritico, flessibile, dinamico,
alternativo e di rottura. Di qui allora l’esigenza di coniugare il principio
del rovesciamento della tendenza a integrare semplicemente i soggetti
di altre culture nella nostra (così da preparare soltanto buoni esecutori
di disegni che appartengono più ad altri che a loro) con il principio della normalizzazione del criterio “didattica-ricerca” nell’àmbito di una
pedagogia non della passività ma dell’azione, non della frammentazione arbitraria d’occasione, ma della padronanza dei processi e delle loro
finalità. L’intercultura educativa, da questo punto di vista, in tanto ha
un senso, in quanto poggia su un piano etico-politico che non si limiti
all’amministrazione dell’esistente e alla spiegazione (è il caso di dire)
didattica, è nella stessa prospettiva, intanto serve a qualcosa, in quanto
riesce a creare, come è stato detto (da Matilde Callari Galli):
un discorso comune e comprensibile fra gruppi profondamente diversi nei loro
interessi, nel loro comportamento, nel loro aspetto, nel loro potere e nella ricchezza, eppure tutti legati da un rapporto di interdipendenza che diviene ogni
giorno più vincolante, in un mondo sempre più affollato e sempre più minacciato dall’esaurimento delle sue risorse.7
Ecco perché tra la creatività propria e nuova di una didattica che si
adatta alla situazione, e la creatività peculiare di ogni attività di ricerca
che sia tale, non può esserci, non c’è, soluzione di continuità. Tra i programmi scolastici e la programmazione delle scuole, e il progetto complessivo delle politiche scolastiche, meglio delle società cointeressate, si
stabilisce una relazione assai stretta, che è essa stessa oggetto di ricerca: ma che tanto più riesce a esserlo davvero, quanto più risulta alla base di un’infinità di rapporti possibili, in classe, tra le forme e i contenuti
dell’apprendere-insegnare e i contenuti e le forme dell’indagine scientifica. Delle diverse indagini scientifiche e della loro storia...
7 La citazione rimanda alla serie degli articoli di M. CALLARI GALLI usciti su Riforma della Scuola dal 1990 al 1992.
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La “storia” e l’educazione
La storia, quindi, materia privilegiata? Direi di sì (ma è già un altro
discorso). Alla richiesta, ancora generica, di un insegnamento-apprendimento della storia non eurocentrico, si sostituisce il proposito di avere a che fare, documentando e sperimentando, con una dimensione
planetaria delle discipline storiche. A una frequentazione dei campi del
sapere, solo in via d’ipotesi interdisciplinare e/o transdisciplinare, s’impone il modello di una interculturalità e transculturalità più complessa
e ipercomplessa: da un lato le problematiche relative alle “due culture”,
dall’altro tutte le questioni che attengono alla “divulgazione scientifica”
(come diffusione dei prodotti della ricerca, o come produzione ulteriore
a cura degli stessi fruitori-utenti?). Di più; sono le stesse due matrici
“culturale” e “biologica” dell’indagine, così come le ha teorizzate a suo
tempo Dewey, a essere presenti in qualsiasi esperienza didattica di tipo
interculturale; e l’antropologia che da ciò deriva è effettivamente connessa con gli elementi storici e politici di una conflittualità esplicita e/o
implicita, di classe, di cui nelle varie classi ci si deve pur rendere criticamente conto. Gramsci su questo terreno ha ancora molto da dire...
Così Piaget, ma senza dimenticarci Vygotskij. Una democrazia all’acqua
di rose è tutto sommato inerte e sempre esposta a tradursi in antidemocrazia: ed è perfettamente organica di una pedagogia dell’indeterminatezza planetaria su basi universalistiche illusorie. L’inganno della
uguaglianza soltanto formale e la falsa coscienza delle “pari opportunità” trovano nel farsi del rapporto didattica-ricerca un pendant criticopedagogico alto e nondimeno altro rispetto a ciò che è dato, a ciò che
c’è, a ciò che è assunto come “dato”. Solo la ricerca didattica del “nuovo” un atteggiamento di tipo sperimentale in classe (quale che sia il
campo dell’indagine, quale che sia la materia scolastica specifica), forniscono indicazioni sulla strada in via d’ipotesi innovativa, educativa,
giusta. Se è vero che il problema, il problema globale che sta a monte
del cambiamento d’epoca di cui siamo testimoni (e di cui “Incontramondo” è prova per così dire “oggettiva”), esige la creazione di un ‘altra
cultura che sia tratto-di-unione tra i “valori comuni” da perseguire e di
“valori diversi” da non perseguitare, e semmai da assimilare e appunto
valorizzare, è anche vero che occorre cominciare a vivere di fatto, in
termini positivi e propositivi, già a scuola, il paradosso di un’idea di
uguaglianza non discriminativa ma discriminante, che fornisca gli
strumenti della differenza, gli strumenti della “valorizzazione della differenza” (Melandri) e il riconoscimento pieno della diversità in forza
del diritto alla propria identità.
La didattica-ricerca
Proprio le esperienze didattiche e insieme di ricerca che ci sono state trasmesse e che abbiamo esaminato per “Incontramondo” possono
intanto confermare una linea di tendenza: basterà visitare la mostra e
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leggere il catalogo nelle sue parti, per rendersene conto, e per constatare che non si è trattato soltanto di un produrre ricerche, al limite libri
(qualunque ricerca, qualunque libro), giacché questa degli insegnantistudenti autori è una consuetudine abbastanza frequente su un po’ tutto il territorio nazionale: basti pensare alle 270 scuole partecipanti
quest’anno al concorso “La scuola che scrive”, patrocinato e diffuso dal
Ministero della Pubblica istruzione, e al dato che al Salone del libro di
Torino del ‘92 i concorrenti siano stati presenti con un centinaio di libri
(un decimo circa di quelli pervenuti alla giuria). È stato piuttosto il fatto, che è a monte dell’iniziativa “Incontramondo”, di avere elaborato
come libri di testo, materiali critici su questi e non su altri qualsiasi temi, di avere cioè comunque creato un precedente, e realizzato una banca-dati sul motivo dello sviluppo e dell’educazione interculturale, che
sarà certo cura del CIES conservare e rendere interattiva nella sua interezza e compositezza, sì da coinvolgere direttamente o indirettamente
l’attività di sempre nuovi insegnanti e studenti, e di studiosi in via di
ipotesi sensibili alle questioni ora sollevate, affrontate, svolte in via preliminare. Tuttavia il problema più serio è la politica culturale. Di più: in
presenza di alcuni dei contributi migliori tra quelli esaminati, siamo
inevitabilmente indotti a riflettere sulla triste sorte di insegnamentoapprendimento scolastico scadente, scaduto a esercizio retorico per docenti e allievi, quando non sia fonte di più ricche motivazioni e della
possibilità di realizzare, quotidianamente, un diverso, fattivo e creativo
collegamento con la cultura in movimento, con l’extrascuola: basti pensare a questo proposito all’importanza dei rapporti intrattenuti come
essenziali, ai fini dello svolgimento delle ricerche sia con alcuni competenti di materie scientifiche, sia con le istituzioni culturali regionali, con
gli Enti locali, con le istanze di base delle organizzazioni degli insegnanti ecc. Il che è apparso specialmente evidente in quei lavori presentati al
concorso che nascevano fin dal principio in forza di collaborazione specialistiche e sul territorio, e di contatti e addirittura contratti della scuola con l’esterno. La ricerca, in tal caso, oltre a identificarsi con i contenuti migliori della didattica, ha finito col diventare organizzazione culturale complessa, servizio sociale di un’intelligenza collettiva, fruizione
e uso nonché produzione di una scientificità sperimentata e replicabile.
Conclusione
In questo ordine d’idee risulta evidente che è lo stesso dato disciplinare (relativamente alla storia, alla geografia, alla lingua nazionale e alle
lingue straniere, alle materie scientifiche, artistiche ecc.) a essere modificato e, nella fattispecie, ad arricchirsi, è l’elemento extra-curricolare
ad agire sull’insegnamento-apprendimento in un processo di ricaduta
immediata che modifica i termini del conoscere a tutto vantaggio della
dimensione sociale, politica di esso. Interventi sul campo, interviste,
raccolte-costruzioni-elaborazioni di documenti, uso consapevole e finalizzato di nuove tecnologie (computer, audiovisivi, cineprese ecc.) ipo-
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tesi di lavoro e progetti, ricerche di sfondo e acquisizione di fondo: tutto
ciò rende già diversa l’impostazione del proposito pedagogico e ne qualifica conseguentemente il prodotto finale come percorso educativo aperto, tra esperienze didattiche e indagini scientifiche. A partire da
quelle ora esposte in queste sale e da quelle altre che il panorama legislativo, di cui parla Giorgio Segrè,8 rende attualmente possibili. Però
(non dimentichiamolo, con buona pace della filosofia del Papuano di
labrioliana memoria) il tasso annuo di crescita degli studenti immigrati
in Italia è del 14% e non sottovalutiamo il fatto che ciò che chiamiamo
“realtà”, come dicevano i maestri del neorealismo, è spesso assai più
straordinario della nostra stessa capacità d’immaginazione. Coniugare
didattica e ricerca a scuola, nel caso delle attività quotidiane normali,
può essere quindi non un sogno di professore, ma una necessità metodologica su cui riflettere e per cui operare, tutti e ciascuno per la nostra
parte.
2. Le componenti pedagogiche dell’educazione alla globalità
e all’intercultura9
(Roma, 9 aprile 1997)
Essendo il mio tema generalissimo e assai complesso, mi limiterei a
questo: a indicare semplicemente, nel tempo a disposizione, i termini
della problematica che interessa, dal punto di vista di determinate quotidianità pedagogiche. Le mie proprie quotidianità educative “alla globalità” e “all’intercultura”, in rapporto con le attività e le produzioni specifiche di questa Fiera.
In altre parole, con quale strumentario mentale e morale, ancor
prima che pedagogico, io mi metto di fronte alle problematiche che abbiamo davanti? Con quali occhi ho visto e rivedo i lavori della Mostra,
visitato gli stando degli editori e della Biblioteca del Mediterraneo, delle
Organizzazioni non governative, del Provveditorato agli Studi di Roma
e del PLEI ecc. – e, prima ancora, con quali criteri ho valutato e valuto
per la mia parte i lavori di “Incontramondo”? Le indicazioni che da essi
provengono, sulla base anche delle parole di presentazione di Maria Teresa Mungo, sono molto eloquenti e – se mi è permesso – emozionanti...
Le emozioni. Le componenti emotivo-sentimentali dell’osservatore e
quelle degli autori oggetto di osservazione si mescolano. L’educazione
incomincia dalla pancia, prima che dalla testa. I sentimenti sono parte
integrante, e per l’appunto componenti primarie, elementari del processo educativo. Non solo, com’è ovvio, la solidarietà che qui la fa da
padrona, ma, pure, una vasta gamma di altri sentimenti: la paura e il
8 Cfr. la relazione, letta di séguito alla presente, “Educazione interculturale: panorama legislativo”.
9 Ancora nel quadro delle attività del CIES e dell’“Incontramondo” del 1997: ciò
che segue è il testo della relazione di chi scrive, integrata da alcuni appunti.
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Capitolo I
coraggio, l’amicizia e l’inimicizia, l’amore, l’odio, l’attrazione, la repulsione, l’indifferenza, e poi: l’entusiasmo, la gratitudine, la delusione, la
rabbia, la speranza, la disperazione, dunque di nuovo la rabbia, soprattutto la rabbia... Privilegerei tuttavia (d’accordo con Paola Berbeglia,
che ieri ci guidava nella visita alla mostra) un momento: il momento del
rapporto tra la scuola e i competenti. Solo così, a mio parere, le “componenti pedagogiche” crescono davvero, e si qualificano positivamente
(la stessa riqualificazione professionale degli insegnanti passa da qui).
Per fare degli esempi:
– direi subito dello stesso CIES, organizzazione culturale mediatrice tra
l’istruzione superiore, l’università e la scuola: offre consulenze tecniche, i frutti di un’ormai non breve esperienza di documentazione, e i
suoi supporti e le sue specializzazioni informatiche, bibliografiche,
procedurali ecc.
– ma ricorderei le opere dell’“Incontramondo”, che si sono giovate via
via dell’ausilio tecnico di associazioni e consolati, d’istituti di ricerca
geografica, di statistici, di esperti di audiovisivi, di storici e di antropologi – dello stesso Museo “L. Pigorini”, e cioè del circuito scuolaMuseo/Museo-scuola... un percorso ottimale, che conduce ora di nuovo al Museo, ma per servire ancora, esemplarmente, alla scuola (e citerei qui, per esempio, un lavoro come Altro Adige, di una scuola di
Merano, ovvero Con gli occhi degli altri, di insegnanti e studenti
romani).
Occorre pertanto fare riferimento all’immediatezza del quotidiano, a
ciò che vediamo con relativa continuità dal nostro osservatorio, e che si
fa per noi laboratorio di esperienza interculturale. Per dire di me, in
queste ore che vengo riflettendo sull’“Incontramondo”, non è cioè pensabile che io non risenta delle cronache sull’Albania e gli albanesi immigranti in Italia, che non ritorni alla polemica di Antonio Tabucchi sul
Corriere della sera di qualche giorno fa, contro Alberto Arbasino (dal
titolo “L’albanese sono io”), che non riveda il prodotto didattico bilingue dei bambini e delle maestre della scuola materna “Marco Polo” di
Roma, in rapporto con la scuola albanese “Musa Cakerri”, che non ripensi insieme a una ricerca come Migranti, di Viterbo (all’aumento del
numero dei lavori di “Incontramondo” su emigrazione e immigrazione),
al profetismo poetico del Gianni Amelio di Lamerica (1994), e al fascicolo della rivista di geopolitica Limes, in edicola da ieri e tutto dedicato
all’Albania.
Di più, riflettendoci, non potrei non vedere la relazione per così dire
genetica tra:
– il Mozambico di Marina Buffolano e il mio osservatorio di oggi, alla
“Sapienza”, tra il corso monografico sui besprizorniki (ragazzini senza tutela) del Poema pedagogico di Anton Semënevič Makarenko e
L’alienazione dell’infanzia in Brasile di Paula Benevene, e le ragazze
e i ragazzi di strada di cui si occupa Rosetta Maiuri per il Guatemala:
e quindi le ricerche di Tania Tomassetti sui “senza tutela” russi e ucraini degli anni Trenta,
Intercultura come “incontro”
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– tra il Dottorato di ricerca della Berbeglia (alunni stranieri nelle medie di Roma), il Dottorato di Alessandro Vaccarelli (acquisizioni linguistiche dei bambini cinesi immigrati), quello di Germana Recchia
(sul recupero dei minori tra il “dentro” e il “fuori” i luoghi di correzione), e, da un lato, certi risultati in progress dell’“Incontramondo”
(per es. dell’elementare di via Ribotti di Roma o delle medie “D. Manin” o “G. Toniolo”, pure romane), da un altro lato, gli esiti della “S.
Donnino” di Peretola-Firenze, Campi Bisenzio, tra i bambini delle
comunità cinesi,
– tra ciò che sapevo di Ostia e dintorni, da una tesi di laurea recente, e
quel che apprendo dai ragazzi e dagli insegnanti del liceo scientifico
“F. Enriques”,
– egualmente, farei entrare in quest’ordine di pensieri l’accurata ricognizione sulle Organizzazioni non governative (CIES compreso), portata avanti da Francesca Festa, la lunga recensione critica di storie
dell’infanzia occidentali cui attende Marta Gandiglio, la ricerca sulla
pedagogia giapponese di Paolo Carlini in relazione a quella particolare indagine sul Giappone presentata all’“Incontramondo”, lo studio
di Angela Declich sul concetto di “integrazione” secondo Don Milani,
le attività teatrali altrettanto “integrate” di Valeria Andreozzi, una tesi di laurea appena concordata sulla storia dell’UNICEF, qualche istruttivo rapporto con la Cattedra di Letterature comparate di Armando Gnisci ecc.,
– d’altra parte, io stesso ho recensito su Slavia il volumetto bilingue
Direttissimo Italia-Polonia, poi presentato al concorso di “Incontramondo”, e mi riprometto di tornare sulle storie di Vladimir, di
Carlos contro Nikita, dei napoletani studiosi dell’URSS ecc., o sulla
stessa rivista, oppure su Adultità, nella rubrica “interculturale” “A
come Bambini/B come Adulti...”.
Tuttavia, non basta. Il concetto e la pratica dell’intercultura e
dell’educazione alla mondialità, nelle loro componenti, si alimentano
anche altrimenti:
– non smettendo di studiare, in generale e in particolare, la “questione
meridionale”, anzi le “questioni meridionali”,
– affrontando sul piano storico-critico tutte le forme di razzismo in cui
ogni giorno c’imbattiamo variamente,
– avendo presente il tema dell’integrazione dei disabili,
– non disdegnando la cosiddetta “questione femminile”, i problemi
degli anziani, le tematiche connesse alle patologie della mente, a chi
è ristretto nelle case di correzione o in carcere,
– scoprendo o approfondendo i temi della mondialità e le categorie del
mondialismo nei classici della filosofia, della pedagogia, delle scienze
dell’educazione, del pensiero politico ecc. (per es. Maria Montessori,
Antonio Gramsci e John Dewey, il citato Makarenko e Lev Semënovič Vygotskij, Michail Michajlovič Bachtin e quanti altri, da Georg
Wilhelm Friedrich Hegel a Paulo Freire in giù, hanno lavorato o lavorano sulla fenomenologia della dialettica servo-padrone).
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Capitolo I
In quest’ottica, tra le componenti pedagogiche che qui interessano,
non vanno escluse le tecnologie educative che in un modo o nell’altro si
sostanziano di contenuti interculturali: penso in particolare ai contributi
che conosco, di Guido Benvenuto e collaboratori, sulla dispersione scolastica, alle esercitazioni di Emilio Lastrucci e di Lucia Viana sull’apprendimento della storia recente, e a quelle di Anna Salerni sui diritti
umani. Ma penso che anche le imprese sull’educazione linguistica
“strumentale”, “veicolare” (per es. nell’insegnamento, già nelle elementari, della lingua inglese), se opportunamente storicizzate, possano tornare di grandissima utilità formativa sul terreno dell’intercultura: a
patto però di ritenere comunque essenziali tutte quante le altre lingue,
quante più altre lingue sia possibile.
Una diversa questione. Nell’“Incontramondo” c’è una certa utilizzazione della lezione di Italo Calvino (delle funzioni di Vladimir Jakovlevič Propp) e di Gianni Rodari (il poeticissimo girotondo attorno al
mondo). Ebbene, stimolato da ciò, io non ho potuto fare a meno di ricordare un altro maestro della creatività e del pensiero “divergente”:
voglio dire Cesare Zavattini. Un autore che vengo ristudiando proprio
in questi giorni, rifinendo un libro dal titolo Zavattini e i bambini,10 tra
l’altro sul tema pedagogico dell’intercultura e della mondialità. E questo, da un punto di vista che ritengo di straordinaria importanza sia
“teoretica” sia “pratica”, oltre che, ovviamente, poetica. Mi riferisco ai
capisaldi del pensiero, meglio del non-pensiero, di Za: e innanzitutto al
suo concetto di “sproporzione” (tra l’essere e il dover essere dell’umanità
dell’uomo, tra gli atti individuali e quelli sociali, di fronte ai mali della
povertà, dell’ignoranza, dell’ingiustizia, della guerra). Ci sono poi queste categorie dell’improvviso, del sùbito, dell’inadeguato, della responsabilità di ciascuno e di tutti, e dunque dello stare insieme adulti e bambini, vecchi e bambini. Per tentare di salvarsi, e gli uni e gli altri, nella
prospettiva di un’intercultura: cioè di un’alta cultura (non individualistica, di base) che sia, al tempo stesso, una cultura altra (collettiva, di
massa).
In altri termini, guardando alla Fiera, non sono pochi né di scarso
conto gli spunti zavattiniani in tal senso: basterebbe riflettere un momento sul posto della multimedialità e sulla rivoluzione dei ruoli, sulla
stessa idea di rotazione delle mansioni lavorative degli esseri umani e
sul valore delle opposizioni sociali e direi di classe nell’identificazione e
nella risoluzione dei conflitti derivanti da ingiustizie. Ecco perché, osservando nell’insieme i lavori dell’“Incontramondo” e le nuove proposte
editoriali (queste ultime cresciute in effetti notevolmente negli ultimi anni), ti chiedi in ultima analisi il significato storico e politico-pedagogico
di tutto questo nostro daffare. Occupandoci, in altri termini, di globalità, riusciamo a riqualificare davvero l’ora e il qui del nostro operare localizzato, quotidiano? Vinciamo sul serio, anzitutto in noi stessi, le
10 Cfr. quindi Zavattini e i bambini. L’improvviso, il sacro, il profano, Argo, Lecce 1999.
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sempre vive propensioni neo-colonialistiche, oppure finiamo con il coprire con un velo di bontà a buon mercato (cioè di falsa coscienza, secondo il lessico di Marx-Engels) le eventuali contraddizioni?
Si potrebbe approfondire e discutere. E, ritornando alle “componenti pedagogiche”, pur senza prevaricare su quanto con competenza ci diranno la stessa Berbeglia, Claudio Marta e Antonietta Fugazzola a conclusione dei nostri lavori, è ancora utile segnalare per un attimo i criteri-guida che hanno presieduto alla valutazione degli elaborati del concorso, e avere anche per questa via una rosa già ampia e significativa di
ciò che ci interessa: i livelli di età e il grado e il tipo di scolarità, la pertinenza dei contenuti disciplinari e la giusta attenzione a ciò che è riconoscibile o meno come multidisciplinare, interdisciplinare e (qualche
volta) transdisciplinare, la ricaduta formativa dichiarata o soltanto ipotetica di una proposta educativa e di contenuto, e quindi la sua possibile riproponibilità metodologica, la quantità e la qualità dei nessi formativi con l’esperienza (con le “cose”, sul “territorio”, di fronte agli “altri” e
in forza di questi ultimi), il livello della documentazione oggettivamente nuova, e il grado del coinvolgimento soggettivo, gli elementi pedagogici rielaborativi, simpatetici, estetici, e le prove della coerenza interna
e di una relativa originalità, e dunque la maggiore o minore distanza da
ciò che risulta essere formativamente stereotipato o, all’opposto, critico...
Basterebbe considerare una per volta, e nell’insieme, queste nostre
categorie di giudizio, e ritenere di aver suggerito abbastanza. Sennonché, al di là di questa fase tecnica, pur necessaria (quanto eloquente),
rimane tutta la complessità e la difficoltà dell’argomento: e la sua non
proporzionata trattazione, rispetto a quella che invece servirebbe. C’è,
cioè, sproporzione tra la rilevanza sia scientifica ed educativa, sia sociale e politica del problema (una rilevanza drammatica, un’emergenza
con motivi di tragedia epocale), e la pochezza delle cose che ancora in
via straordinaria riusciamo a fare. Invece, occorre uscire dalla ghettizzazione che tuttora concerne la pedagogia dell’intercultura e della globalità, e cercare nuove strade. Alla “solitudine degli insegnanti” (effettiva), di cui parlava ieri su la Repubblica Elisabetta Melandri, è necessario opporre la normalità di un’azione didattica (ne diceva un momento
fa Donatella Amatucci). E ciò nel senso, proprio, di questa circolare del
Ministero della Pubblica istruzione, n. 73/1994, citata dalla Caritas di
Roma in occasione del “Forum per l’intercultura”, ma pure altrimenti.
Per es., a partire da quei passaggi del progetto Berlinguer sulla secondaria, con puntuale, esplicito riferimento alla accettazione e alla valorizzazione delle differenze, all’imparare a cooperare, allo sviluppo, ai
valori della persona, al criterio-guida di considerare i problemi non in
termini di vincoli, ma di risorse ecc. La risorsa, appunto, che rappresentano le culture “altre”, i propositi dell’intercultura, e la dimensione
educativa della globalità. Inoltre, com’è noto, le iniziative ministeriali di
riforma non rinnegano, anzi rilanciano i punti d’arrivo delle pur dibattute e dibattibili proposte sperimentali della Commissione Brocca. Un
ulteriore campo di approfondimento...
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Anche perché, a partire da qui, sarebbe possibile un serio ragionamento anche sui nuovi codici comunicativi, sulla musica come eccezionale strumento di educazione interculturale (basti pensare all’ etnomusicologia, opportunamente considerata dai Programmi Brocca ) e sul
cinema... Il cinema, la televisione, che meriterebbero, da soli, un lungo
e articolato discorso, per il quale ora non c’è il tempo. Meglio, invece,
una proposta di lavoro, che mi faccio, in prospettiva. L’ipotesi, cioè, di
mettere a punto un Dizionarietto delle componenti pedagogiche , sulla
base delle idee ricorrenti nei miei pensieri e, contestualmente, tra i materiali didattici e biblio-videografici di questa Fiera. Magari incominciando da un relativo disordine alfabetico, da un alfabeto al rovescio,
dalla Zeta di Zingari, di Zero, del su citato Zavattini, cioè Za, o dalla V
di Volontariato, Vita, Viaggio, Valori, ovvero dalla U di Utopia, di Uomo, dell’“Uomo a strisce” di cui si occupano alcuni studenti con i loro
insegnanti, qui, nella Mostra, oppure dei “Preparativi per un viaggio
alla ricerca dell’arcobaleno”... Procedendo così, via via a ritroso, fino
alla A di Abbandono, di Accoglienza, di Altro/Altri, di Arte, di Antipedagogia, di Autobiografia... eccetera, eccetera.
3. Dizionario portatile delle idee: storicismo11
(3 marzo 2001)
Una volta (si era nell’inverno del 2001, nell’Italia delle riforme universitarie e scolastiche, dei connessi dibattiti sulla storia e il suo insegnamento), la rivista Storiografia promosse un’inchiesta in tema di
storicismo. Più precisamente, invitò un certo numero di esperti a redigere, brevemente, il testo di un’ipotetica voce “Storicismo” per un immaginario Dizionario portatile delle idee correnti a grande tiratura,
ovvero a scrivere, se l’avessero preferito, una sorta di voce “in negativo”, volta a illustrare l’eventuale esclusione di “Storicismo” dal suddetto
Dizionario. Il ventaglio delle idee espresse sarebbe stato esso stesso un
variegato documento storico, idoneo sia ad additare i pieni e i vuoti dello “storicismo”, sia a stimolare didatticamente l’indagine nella direzione
di un’ulteriorità “storicistica” in progress. Un “collettivo di pensiero”
quindi, come intesero alcuni, radice e semenza di ricerca e insegnamenti e apprendimenti storici e storiografici multilaterali: e come “genesi”,
“formazione”, “prospettiva” e “sviluppo” di ricezione e produzione critica dell’esperienza del nesso presente-passato-futuro, nel gioco delle analogie e delle differenze tra il “durante”, il “prima” e il “dopo” di quella
esperienza medesima. Di qui, allora, una prima approssimazione, per
quanto ancora generica, alla materia dello storicismo.
11
Testo rimasto probabilmente inedito, ma destinato a Storiografia.
Intercultura come “incontro”
55
Il carattere evidentemente divulgativo dell’impresa (ma non si trattò
di questo soltanto) stimolò d’altra parte la bilateralità del contatto disciplinare e del confronto di natura epistemologica tra storiografia ed
educazione. I distinti punti di vista e i ragionamenti che ne scaturirono
si recensirono gli uni con gli altri, e ciò fu recepito da qualcuno già come un risultato intrinsecamente “pedagogico”. Anche la considerazione
critica della linea di confine tra la storia come res gestae e la storia come historia rerum gestarum fu poi indicata da qualcun altro degli interpellati come un luogo di sicura “presa formativa” (storicistica). E la
discussione sulla storia magistra o non-magistra vitae, ovvero “cattiva
maestra”, da più parti sostenuta sul terreno ora delle “indagini scientifiche” ora del “senso comune”, risultò comunque un vantaggio, così sul
terreno del rigore disciplinare come su quello dell’uso e fruizione della
materia specifica. E quindi delle ragioni, o meno, della invocata “visibilità” dello storicismo in un Dizionario portatile delle idee correnti.
L’esito tuttavia più interessante dell’indagine, considerata la numerosità e la densità degli interventi a riguardo, si rivelò essere lo scambio
delle opinioni a maggior tasso d’interdisciplinarità (con aperture alla
cosiddetta transdisciplinarità). E, nel quadro ampio e variegato delle
“assunzioni di principio” e delle “acquisizioni di fatto”, non mancarono
spunti variamente stimolanti sul concetto e sull’anti-concetto di “storicismo”, in relazione sia alle “scienze della cultura” sia alle “scienze della
natura”, e dunque ai loro possibili nessi educativi (intimamente storiografici). Storicismo, pertanto, come educazione. Non a caso, in questo
ordine di pensieri, fu proprio l’autobiografia, come parte essenziale della storiografia (ogni testa d’uomo, dei sette miliardi e passa che siamo,
una autobiografia), a dare spazio a una ulteriore ipotesi di riflessione
sullo storicismo.
La maggior parte degli intervenuti, in ogni caso, puntò a redigere la
voce per il Dizionario, presentando anzitutto, ordinatamente, l’origine,
le caratteristiche e gli effetti dello storicismo per così dire “classico”,
con riferimento all’indirizzo filosofico, sviluppatosi in Germania nella
seconda metà del XIX secolo (Historismus). E l’ipotesi esplicativa prevalente fu in tal caso quella di una scienza storica, sciolta tanto dalle
panie del sapere metafisico quanto da quelle di un empirismo inconsapevole. Né mancò chi – opportunamente – puntò sull’idea di storicismo, in quanto tendenza (una tendenza intrinsecamente educativa) a
riferire ogni attività e manifestazione umana al contesto storico in cui si
è formata e sviluppata, e chi – non meno utilmente – sottolineò il fatto
che nella critica letteraria, per storicismo s’intende (in opposizione a
formalismo) lo studio delle matrici storico-culturali (culturologicodidattiche) di un testo, viste come prevalenti o generative rispetto ai
fatti di forma. Insomma, una molteplicità di profili. Ma ci fu anche
dell’altro.
Uno degli interpellati, per esempio, teoreticamente indeciso tra i
pro e i contra dell’immissione della voce “Storicismo” nel Dizionario
portatile delle idee correnti, ma operativamente incline a ritenere che
Capitolo I
56
la tematica dello “storicismo” non potesse essere ristretta in uno spazio
limitato, perché estensibile a tutte (nessuna esclusa) le altre “idee correnti” del medesimo Dizionario, intervenne nella querelle semplicemente con i propri dubbi. Di questo tipo: e se piuttosto che di “storicismo”, si discorresse al plurale di “storicismi” (antistoricismi compresi)?
Perché non cogliere l’occasione dell’inchiesta promossa da “Storiografia”, per estenderla magari, con le opportune cautele, alla voce di un ipotetico, neologistico “Storiografismo”? E se viceversa, ammesso che si
rinunziasse tanto a “Storicismo” quanto a “Storiografismo”, ci si limitasse ad argomentare (a ridosso di qualsiasi altra voce del Dizionario)
sulle valenze metodologicamente sinonimiche delle voci “Storia”, “Educazione”, “Uomo”? Avrebbe un senso immaginare, in questo stesso ordine di idee, che l’ipotetica voce “Storicismo” per l’immaginario Dizionario di “idee correnti” possa tradursi, addirittura, in una “corrente di
idee”, tutt’altro che immaginaria, riguardante invece “gli uomini, quanti
più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono
in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi” (Antonio Gramsci)? La sproporzione tra l’essere e il dover essere degli storicismi storicamente in campo non suggerirebbe inediti supplementi d’indagine,
anche teoretici nonché etici?
Dove cercare, in altri termini, il principio di una sorta di storicismo
“altro” (ogni testa d’uomo uno “storicismo”), più proporzionato rispetto
alle emergenze storiche dello hic et nunc, e funzionante magari in forza
di categorie mentali e morali storicamente (storicisticamente, storiograficamente) determinate, all’incrocio dei parametri di “relativismo”,
“necessità”, “quotidianità”, “mondialità”, “intercultura”, “quantità e qualità”, “multimedialità”, “culturologia”, “didattica-ricerca”, “pedagogia”,
“antipedagogia”? Perché non supporre con un supplemento di immaginazione (in considerazione della hora presente), che l’inchiesta promossa da Storiografia possa uscir fuori dai suoi specifici ambiti tecnici,
nella prospettiva del Dizionario portatile delle idee correnti, per farsi
proposta immediatamente educativa, scolastica, di programma?
4. Tutto è più immediato, forse troppo12
(5 marzo 2001)
Sia a scuola che fuori della scuola, la “novità” delle odierne tecnologie telematiche che a mio parere conta di più è il loro potenziale di immediatezza formativa e di subitaneità acculturativa, nei più diversi contesti di insegnamento/apprendimento. Un processo di trasformazioni
in tempo reale, così generalizzabile ed estendibile a qualsiasi àmbito di
pertinenza umana, non si era mai visto prima d’ora. Anche a scuola,
almeno come esigenza. E, nel futuro prossimo, le tecniche dell’abbre 12
Telèma, primavera 1998, p. 96.
Intercultura come “incontro”
57
viamento delle distanze e della risoluzione di problemi esecutivi via via
più complessi, certo, miglioreranno, si perfezioneranno, tenderanno
cioè a rendere il “virtuale” sempre più “attuale”. E la realtà una sorta di
iperrealtà. Ciononostante, però, è l’altra faccia della medaglia che non
appare. Dove sono, infatti, le politiche sovranazionali e le prospettive
culturali localizzate, capaci di tradurre i servizi della società multimediale in visioni d’insieme e valori etici altrettanto innovativi? Manchiamo del tutto, o quasi, di progettualità pedagogiche tali da cogliere in
primo luogo il divario, la sproporzione, tra l’eccedenza tecnologica e la
deficienza storico-critica e autocritica, tra le costruzioni del “subito” telematico (che ben venga) e la rivoluzionaria conseguenza educativa, politico-culturale, non ancora supposta (fuor d’utopia). Che fare intanto?
Non ho ricette sicure. Tuttavia potrà servire, forse, non perdere di vista
il disegno di una costruzione collaborativa di competenze individuali e
sociali: tra memoria e immaginazione, tra indagini scientifiche e fruizioni estetiche, tra qualità civiche e valori di giustizia… E dunque, in
classe, tra didattica e ricerca del nuovo. Che dovrebbe essere, nell’intero
mondo: una testa, un voto e il computer che lo esprime.
5. Una testa un computer, una testa un sapere storico-critico13
(8 marzo 2001)
Riterrei da un lato che i bambini e i ragazzi di oggi (quelli almeno
che nell’intero mondo ci riescono, e sono ancora una minima parte) entrano in rapporto con l’uso del computer e della telematica, in modi che
sono evidentemente molteplici, assai diversificati e difficilmente classificabili (ma non conosco sull’argomento indagini comparative serie a
livello planetario). Non avrei tuttavia dubbi circa l’impatto positivo,
globale, del mezzo, nel processo d’acquisizione di conoscenze, ma a
condizione che ciò avvenga per tutti e per ciascuno (una testa, un computer), in forme equilibrate, attive, non esclusive né riduttive degli altri
livelli formativi umani: educazione fisica, dimensione ludica, valenza
estetica, ricaduta sociale, crescita della capacità critica e autocritica,
consapevole costruzione di tavole di valori, facoltà di discriminazione e
di scelta, senso di responsabilità ecc.
Ecco perché, da un altro lato, penso che si faccia mondialmente assai poco affinché tutti i giovanissimi della Terra, nessuno escluso (una
testa, un sapere storico-critico), si preparino sperimentalmente e intellettualmente a vivere e operare in un mondo in rapidissima trasformazione (per ciò che attiene alle tecnologie multimediali, ma non solo). Di
qui la necessità che si sviluppino a 360 gradi, assieme alla padronanza
dello strumento informatico e telematico, il senso della storia, la cultura generale, la capacità di orientarsi non passivamente nel presente,
13 Risposta a una domanda di una studentessa, sull’importanza dell’informatica a
scuola.
58
Capitolo I
l’attitudine a progettare: e dunque, in forza di ciò, l’abilità personale e
collettiva a fronteggiare creativamente i cambiamenti, ad adattarsi alle
novità, a trovare in prospettiva, tuttavia subito, la forza intellettuale e
morale di affrontare i problemi prevedibili e imprevedibili, e di cercare
le soluzioni umane più giuste. Magari inedite.
6. Per l’inaugurazione di una biblioteca a Petronà14
(Petronà (Catanzaro), 14 agosto 2002)
Al sindaco e all’assessore alla Cultura di Petronà (Catanzaro)
dott. Santo Bubbo e prof. Enza Talarico
Cari amici,
vale la pena, credo, d’informare i lettori della nascita della vostra importante istituzione culturale. Lo faccio riproponendo il testo del mio
intervento per l’inaugurazione, il 14 agosto scorso.
Una biblioteca aperta al pubblico è veramente una finestra sul mondo. Ed è, tutt’insieme, i suoi occhi, le sue orecchie, la sua bocca. La sua
voce, magari le sue mani… Lo abbiamo detto e scritto in tanti, prima e
dopo il 14 agosto 2002. E mi viene da ripensare agli interventi di quanti
siamo intervenuti in quei giorni: il sindaco e il vicesindaco-assessore
alla Cultura, il presidente della Comunità montana, Pasquale Capellupo,
Michela Talarico e Giuseppina Scalzi, rispettivamente presidente e vicepresidente del Comitato per la gestione della biblioteca, Domenico Peluso, che ha donato il cospicuo fondo librario, Francesco Spinelli e Fiore
Scalzi, tutti gli altri oratori, e poi: Vincenzo Bubbo, su il Domani, Antonella Scalzi e Salvatore G. Santagata, su il Quotidiano della Calabria ecc.
A ripensarci, soprattutto adesso che la Biblioteca popolare del volontariato è aperta al pubblico cinque giorni su sette, c’è da bene sperare.
E mi piacerebbe conoscere la natura del servizio bibliotecario e il tipo particolare dell’utenza. E sapere se le scuole del paese, gli insegnanti
e gli studenti, frequentano la Biblioteca, e quanto e come, e con quali
limitazioni e prospettive. Gli altri paesi della Comunità montana se ne
stanno giovando, quindi, a loro volta? E, a proposito, è arrivato il computer promessovi dalla stessa Comunità montana? Se sì, avete cominciato a servirvene, per i collegamenti via Internet con altre biblioteche?
Come intendete far crescere la Biblioteca, con nuovi fondi librari, e soprattutto con significative attività culturali?
Queste le prime domande che, ricollegandoni a quanto ci siamo detti tra l’agosto e il settembre, mi viene subito di farvi. Ma avremo modo
di riparlare di tutto rivedendoci a Petronà o a Roma. E scrivendoci.
Intanto, un cordiale saluto e auguri,
dal vostro Nicola Siciliani de Cumis
14 Da diversi giornali locali, riviste e siti Internet di allora. Il testo qui riprodotto è
stato ricomposto ex novo.
Intercultura come “incontro”
59
Tre motivi per parlare, tre di augurio, tre cose da fare subito.
“Finalmente” – è la parola-chiave, scelta dal sindaco di Petronà Santo Bubbo come la più immediata e significativa, per caratterizzare
l’evento culturale e politico-sociale di oggi. Finalmente una Biblioteca
comunale, la Biblioteca popolare del volontariato, a Petronà… Mi piacerebbe pertanto accogliere l’invito rivolto dai “giovani volontari”, che hanno curato la catalogazione dei libri della Biblioteca, agli “altri giovani”:
e potere lavorare anch’io come uno di loro, con loro. La lontananza, il
fatto di vivere a Roma non mi scoraggerebbe: un “volontario” anch’io per
la vita di questa Biblioteca, mi starebbe bene, ma come la mettiamo con
il “giovane”? Occorre allora estendere l’invito anche ai “non-giovani”.
È comunque vero (come ha sostenuto con passione il collega insegnante che prima ha preso la parola), che solo “chi ha libri ha labbra”,
ma è ancora più vero, purtroppo, che “chi non ha libri, non ha labbra”…
Bisogna lavorare su entrambe queste due frasi, padroneggiarne il significato. Lo hanno sostanzialmente ribadito nei loro interventi lo stesso
sindaco, il presidente della Comunità montana della Presila Catanzarese Pasquale Capellupo e l’assessore alla Cultura del Comune di Petronà,
Enza Talarico (che ringrazio, per avermi gentilmente invitato a questa
importante inaugurazione).
Ma perché prendere adesso la parola? Come fare a essere il meno
possibile “retorici” (lo raccomandava Capellupo)? Quali le cose “giuste”
da dire per l’occasione?
Il primo motivo per cui mi sento autorizzato a intervenire in una
circostanza davvero importante come questa, sta nel fatto che da oltre
cinquant’anni la biblioteca (una qualche biblioteca) è per me una specie
di ambiente naturale: come la casa dove abito, la sede di lavoro, il Corso
di Catanzaro, alcune strade di Roma, la campagna, la montagna, il mare.
La biblioteca, nelle sue varie forme d’uso (strumento di raccolta, utilizzazione e produzione di libri, emeroteca, audioteca e videoteca, dimensioni archivistiche, funzioni informatiche e telematiche di diverso
tipo ecc.), è nella mia esperienza un elemento che non esiterei a definire vitale: un alimento irrinunciabile come cibo e bevande… Un fatto fisiologico, un motivo di equilibrio della persona, da additare socialmente ad esempio e valorizzare politicamente come un “bene culturale” (si
dice così) accanto ad altri beni culturali e colturali (qui a Petronà i boschi e i funghi, le bellezze naturali, le antiche costruzioni, l’artigianato,
le opere d’arte, la lingua del posto ecc.).
La seconda ragione per parlare sta poi nel fatto che, se mi guardo
indietro nel tempo, c’è sempre stata nella mia esperienza una qualche
biblioteca pubblica o privata, nella quale svolgere una determinata attività personale di natura sociale...
Ho cominciato nel 1969 a Belcastro, con il mettere in funzione la biblioteca della locale scuola media (sezione staccata da Petronà). Vi ho
insegnato per due anni: c’è qui tra noi il mio preside di allora, il professor Fiore Scalzi, che se ne ricorda. Più o meno la stessa cosa è quindi
60
Capitolo I
avvenuta con la biblioteca dell’Istituto magistrale di Catanzaro e con
quella dell’Istituto tecnico commerciale della stessa città. Nella Biblioteca comunale di Catanzaro mi affidarono le Carte di Francesco Acri,
da ordinare e studiare. Egualmente (prima che un terremoto rendesse
inutile il mio lavoro), ho messo in ordine i libri della biblioteca del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria… Oggi, mi occupo
della Biblioteca della Facoltà di Filosofia della “Sapienza” di Roma.
A pensarci bene, però, anche l’uso privato della mia biblioteca personale, da trentatré anni a questa parte, ha avuto ed ha, oggettivamente, un suo risvolto pubblico, sociale: perché mi è servita e mi serve a
preparare le lezioni, a coniugare la didattica con ricerca, a provare a
trasmettere competenze e a tentare di produrre risultati in via d’ipotesi
scientifici, a collaborare con gli studenti nella preparazione delle loro
tesine e tesi di laurea, a far sì che essi trovino a loro volta indispensabile
per gli studi l’uso di altre biblioteche e altri archivi.
Ed ecco il terzo motivo per intervenire qui: il fatto, cioè, che questa
neonata Biblioteca popolare del volontariato di Petronà mi appare variamente legata alle mie radici familiari e personali (ma di ciò potrei
parlare in un’altra occasione)… “La storie personali s’intrecciano”, diceva prima il sindaco. È proprio così. Una biblioteca può suscitare emozioni e ricordi davvero particolari. Può servire a far rivivere criticamente il passato, a spiegare con maggiore chiarezza il presente, a stimolare
per il futuro pensieri “altri” e possibilmente alti.
Guai cioè a credere in partenza che il “sogno” di questa “cosa”, che ci
farebbe diversi e migliori, sia impossibile da realizzare per sempre.
Guai a interiorizzare come un’incapacità naturale il senso delle proprie
difficoltà storiche, a considerare intoccabile il nostro senso del limite, a
ritenere senza futuro la voglia di trasformare progettualmente il presente. Bisogna invece provare, non velleitariamente ma realisticamente,
a cambiare in meglio le attuali circostanze negative, e ritenersi piuttosto modificabili e in qualche modo educabili, prima che sia possibile…
subito.
Penso insomma che, a Petronà come in Calabria e in Italia (ma anche altrove nel mondo), c’è da intervenire consapevolmente nella passività (subalternità) di certi atteggiamenti mentali e comportamenti diffusi, e opporvi costruttivamente l’attività (creatività) che si coltiva nelle
biblioteche. Le quali dovrebbero fornire tra l’altro gli strumenti per intervenire opportunamente sulle motivazioni dei loro destinatari e per
suscitare interessi nei potenziali utenti, per aggregare soggetti diversi
su scopi comuni, per ampliare il “gioco” della domanda e dell’offerta di
cultura, nella direzione di attività lavorative davvero qualificate e qualificanti…
Che cosa augurare allora a questa neonata Biblioteca comunale e intercomunale, venuta al mondo nella forma dell’incontro culturale di Petronà e Cernusco sul Naviglio? Tre cose, almeno:
Intercultura come “incontro”
61
Primo augurio: che la Biblioteca sia adoperata, come una ragione di
vita, dal maggior numero possibile di persone: dagli abitanti dal paese,
ma anche da gente che non è di Petronà e della Comunità montana, da
insegnanti e scolari del posto e non, da studiosi e lettori senza limiti di
età, cultura, appartenenza…
Secondo augurio: che la Biblioteca riesca a essere, nel medesimo
tempo, sia un luogo di letture interessanti e disinteressate, appassionate, sia un luogo di ricerche utilitarie, economicamente utili a produrre
nuova ricchezza (culturale e materiale, individuale e collettiva, per se
stessi e per altri)…
[E qui, se mi è consentito, vorrei aprire una parentesi.
Sono stato informato della riunione di lavoro, in tema di giovani e
droga, che ci sarà oggi pomeriggio, a Petronà. Mi spiace, se a causa di
un precedente impegno non mi riesce di trattenermi. Una riflessione
però vorrei farla.
Ed è questa, in breve: che c’è, a mio parere, un legame preciso tra le
motivazioni represse, distorte, negative, che finiscono con lo stare alla
base dell’autodistruttività propria di chi si mette sulla via della droga, e
il potenziale critico e autocritico inespresso, misconosciuto, negato dei
giovani. Proprio questo, se valorizzato, potrebbe invece fare da freno e
da contraltare alla droga. Perché questa è una conseguenza indotta dalle circostanze, non la causa determinante, originaria, di comportamenti
estranianti e conseguenze autolesionistiche.
Mi piacerebbe poter svolgere questi pensieri. Tutti gli esseri umani
(ciascun essere umano) hanno (ha) l’esigenza elementare di manifestare idee, esprimere opinioni e compiere azioni in fatto di “bello” e “brutto”, “buono” e “cattivo”, “vero” e “falso”, “giusto” e “ingiusto”. Il bisogno
di affermare valori e negare disvalori è un bisogno elementarmente
umano, che chiede di essere socialmente soddisfatto e che in un modo o
nell’altro necessita di un proprio spazio di vita e di movimento. Se invece ciò viene negato, si cercano allora altre strade, altre possibilità di
soddisfazione, altre soluzioni: magari innaturali, distorte, mortifere.
Succede così che gli individui più deboli (e sensibili), interiorizzando le proprie frustrazioni, trovino immediatamente nella droga dei motivi di “evasione”, di “avventura”, di “compensazione”. Il presente, con
le sue urgenze umane qualificanti, viene per così dire messo a tacere.
Né il passato (la storia) né il futuro (un progetto di vita degna di essere
vissuta) hanno più valore per chi si droga. Ciò che più conta, per lui, è
allontanarsi dal sé problematico. Annullarsi in un “subito” che provoca
piacevolmente estraniazione, dimenticanza, autoesclusione. Di qui, costi quel che costi, la scorciatoia della droga. Perché quale che sia il prezzo da pagare a breve, medio o a lungo termine, al drogato non importa
affatto…
Ecco perché, invece, occorre incominciare con il prevenire questo
disastro della persona: e costruire socialmente, per i nostri ragazzi, un
ambiente favorevole all’affiorare di sensibilità positive, per le quali sia
per così dire necessario ipotizzare e coltivare vizi alternativi. Bisogna
62
Capitolo I
che una passione estetica, conoscitiva, interattiva più forte scacci quella
passione negativa in agguato, che è la droga. La Biblioteca popolare del
volontariato, con le sue attinenze e potenzialità educative, può essere
(assieme al resto, giacché non si vive solo di libri) uno strumento indispensabile allo svolgimento di questa operazione salvifica].
Terzo augurio: che la Biblioteca sappia offrirsi come un luogo non
solo di conservazione e di accumulo di beni culturali (sono in ciò specialmente d’accordo con Pasquale Capellupo), ma anche un luogo di
produzione di alta cultura… E ha ragione Enza Talarico quando rivendica la natura propria del libro e la originalità dei caratteri della biblioteca, la sua insostituibilità. Giacché – è evidente – la biblioteca deve
utilizzare il computer per i suoi fini, non delegare il computer a negarli.
Cosa fare allora, come procedere in concreto in questa direzione?
Tre idee (tra le altre che possono e debbono venire in mente): tutte
per conto e a cura di questa Biblioteca popolare del volontariato e delle
strutture che sapranno e vorranno collegarsi a essa.
La prima. Un dossier individuale e collettivo su Petronà, cominciando da un’inchiesta sulle letture reali e quelle desiderate degli abitanti del luogo, sui loro interessi culturali pregressi e in atto, sull’uso
che fanno del tempo libero. Che il paese, riflettendo su se stesso, legga e
scriva e produca documentazioni che lo riguardino…
Si organizzi un gruppo di lavoro inizialmente ristretto, ma con la
prospettiva di un coinvolgimento il più ampio possibile, finalizzato a
redigere “il libro che non c’è” su Petronà e dintorni (dintorni locali, regionali, nazionali, europei, planetari).
La seconda. Un sistema di relazioni tra questa biblioteca e quante
altre biblioteche possibili… e pur sempre in funzione della vita culturale
reale di Petronà.
Oggi basta poco: con l’informatica e la telematica si fanno “miracoli”, che miracoli non sono, ma solo semplicissime azioni di collegamento e di mantenimento di rapporti…
Sono dunque da estendere e approfondire, in questo senso prioritariamente, da un lato (senza dubbio) i raccordi con gli altri paesi della
Comunità montana della Presila Catanzarese e da un altro lato (se possibile) l’intesa con Cernusco sul Naviglio. O con altri luoghi italiani e
non italiani, disposti a svolgere delle attività culturali (o d’altro tipo),
ma qualificanti per entrambe le parti, assieme a Petronà.
La terza cosa da fare è pensare, progettare il modo di conferire alla
Biblioteca popolare del volontariato una sua fisionomia tecnica e politico-culturale propria.
Voglio dire che gli handicap storici, le endemiche deprivazioni culturali, se si fa funzionare il cervello e si ha la giusta dose di immaginazione, possono perfino tradursi in risorse. Occorre attivarsi in tal senso
e costruire azioni e reazioni critiche con al centro la Biblioteca e la sua
vita culturale reale…
Intercultura come “incontro”
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Bisogna essere certamente grati a Domenico Rinaldo Peluso per il
dono che ha fatto a Petronà dei cinquemila volumi, per la sua generosità
esemplare, e, se ci riesce, rispondere alla sua lezione di vita con comportamenti adeguati: offrendo alla Biblioteca nuovi fondi librari e fruendone
nel migliore dei modi, per giovarsene creativamente un po’ tutti, per rendere solito l’insolito, la straordinarietà di un comportamento individuale
in qualcosa di tendenzialmente normale per la comunità.
Bisogna attivarsi subito in questo senso, senza perdere tempo. Auguri di buon lavoro.
Nicola Siciliani de Cumis
7. La Banca delle invenzioni15
(24 aprile 2003)
Da statistiche recenti (vedi per es. il Calendario Atlante De Agostini
2002), risulta che la popolazione totale della Terra è di circa
6.064.400.000 abitanti.
Non si dispone invece di alcun dato numerico d’insieme, né planetario né variamente localizzato, in merito alla quantità e alla tipologia degli autori d’invenzioni: anche se – com’è evidente –, rispetto all’attuale
numerosità dei viventi, sembra ragionevole supporre cifre comunque
minime di inventori riconoscibili “in atto”.
Ecco perché, data la situazione, si vorrebbe da un lato conoscerne
con maggiore esattezza i termini, da un altro lato intervenirvi, prefigurando ragionevolmente e per l’appunto inventando in concreto nuovi
possibili scenari e itinerari d’“invenzione”. E ciò, tuttavia, sui seguenti
presupposti:
1. che la nostra conoscenza delle persone (di ciascuna persona), e delle
ragioni e dei modi in cui esse variamente “inventano” è ancora molto
inadeguata,
2. che ogni persona vivente può essere essa stessa un’invenzione: ed è
intanto, nel campo delle nostre e altrui invenzioni reali o possibili,
estremamente importante,
3. che il potenziale d’inventività degli esseri umani, come singoli o in
gruppo, è praticamente illimitato,
4. e che un siffatto potenziale d’inventività, se valorizzato, può modificare la vita propria e altrui all’interno delle comunità e delle nazioni:
e nei limiti e oltre i limiti della propria esistenza.
La Banca delle Invenzioni, come ipotetica sede tecnica di selezione,
acquisizione, uso e fruizione, diffusione, crescita qualitativa e quantitativa di tecnologie connesse con l’inventività umana, nonché luogo di
formazione di inventori e di produzione quotidiana di “invenzioni volte
15 Inedito. Per un concorso sulla creatività indetto dalla rivista Focus negli stessi
giorni.
64
Capitolo I
a sollecitare invenzioni e reinvenzioni”, intenderebbe proporsi essa stessa
come un’invenzione deputata a perseguire i seguenti obiettivi:
a. in primo luogo, di raccogliere, avere presenti e adoperare funzionalmente, gli elementi di un’ipotetica modificazione “in meglio” delle
condizioni dell’inventare,
b. in secondo luogo, di avere per fermo il presupposto di massima che
ciascun essere umano abbia già o possa avere per sé e per gli altri un
qualche acquisibile potenziale di “inventività”,
c. in terzo luogo, di far valere l’idea che la stessa conoscenza delle persone, in quanto sono inventive, sia anch’essa quasi del tutto da inventare, rispetto ai modi in cui esse interagiscono (inventivamente)
all’interno delle comunità e delle nazioni, e nei limiti e oltre i limiti
della propria esistenza.
Le ragioni dell’ipotetica utilità dell’invenzione di una Banca delle
Invenzioni (finalizzata all’attivazione del maggior numero possibile di
inventori) possono pertanto essere così sintetizzate:
1. un probabile elevamento individuale e collettivo della qualità della
vita fisica, estetica, intellettuale, morale, religiosa ecc. di quanti, direttamente o indirettamente, avrebbero modo di partecipare all’esperienza della Banca,
2. una qualche positiva ricaduta del complesso delle attività d’invenzione nella lotta alle povertà, all’incultura, alla mancanza di senso
critico, ai razzismi, ai terrorismi, alle guerre, alle violenze, alle intolleranze, alle droghe, al consumismo, alla superstizione, al cattivo gusto, alle nevrosi di ogni tipo ecc.,
3. una presunzione di maggiore e migliore interdipendenza del genere
umano, nel rapporto tra i sessi, le razze, le culture, le fedi religiose, i
campi di attività, le dimensioni “scientifiche” e di “senso comune”
dell’esperienza.
Per ciò che attiene al suo funzionamento, la Banca delle Invenzioni
propone il seguente schema:
1. In generale, per tutto ciò che concerne la struttura “creditizia” in
senso stretto, il modello seguito è quello delle esperienze di “finanza
etica”. Le “invenzioni” depositate e rese pubbliche, a seconda di ciò
di cui si tratta, sono quotate e valorizzate, comprate e vendute e dunque variamente acquisite nel normalissimo gioco della “domanda” e
dell’“offerta”, secondo un determinato “fine di lucro”, con l’intermediazione della Banca delle Invenzioni: per la quale banca si suppone
uno statuto, che prevede legittimi accordi tra i contraenti coinvolti, nel
rispetto delle opportune “cautele” e “garanzie”, delle norme sui “brevetti”, della salvaguardia dal “plagio”, rispetto del “diritto d’autore”, di
una “borsa valori”, di un “profitto equo e responsabile”, della maturazione degli “interessi”, della riscossione dei relativi “tagliandi” ecc.
2. Sennonché, nella specie, la Banca delle Invenzioni (proprio in conformità con il concetto stesso di “invenzione”, anche nel senso che
essa è tutta da inventare) prevede, anzi incoraggia, un’ampia e imprevedibile gamma di patti in deroga. Del tipo: io invento qualcosa,
Intercultura come “incontro”
65
una Banca, affinché altri inventino più cose e cose, a loro volta utili a
sollecitare gli altri ad altre invenzioni.
Così io deposito nella Banca delle Invenzioni la mia idea, da cui
l’invenzione prende il nome. Ma quale idea? Eccola:
a. Banca delle invenzioni – ai sensi del concorso di “Focus 2002”
L’invenzione italiana dell’anno – è sì il nome della mia ipotetica invenzione, ma è anche il titolo di una ricerca: che tiene conto, per esplicito, dell’etimologia della parola inventio, dal verbo invenire, che
come è noto rimanda all’azione del “cercare” (nel senso di “escogitare”, “creare qualcosa di nuovo”) e insieme dell’ “aver trovato” (quello
che in una qualche sede c’è già).
b. Quanto alla “categoria” cui la mia invenzione/ricerca partecipa, tra
quelle proposte da Focus, immediatamente la vedrei come “Tecnologia di uso quotidiano” (per quanto, riflettendoci, non è detto che la
mia idea non sia in qualche modo attinente anche ad altre previste
categorie: quali “Elettronica e telecomunicazioni”, “Salute”, “Meccanica e tecnologia industriale” ecc.).
c. Occorre pertanto descrivere per sommi capi questa ricerca/invenzione, indicarne brevemente l’eventuale utilità, spiegarne il funzionamento e mettere in chiaro quale sia il problema che intenderebbe
risolvere.
8. Diritto di stampa16
(12 giugno 2003)
Collana diretta da Giuseppe Boncori, Nicola Siciliani de Cumis, Maria
Serena Veggetti
Il diritto di stampa era quello che, nell’università di un tempo, veniva a meritare l’elaborato scritto di uno studente, anzitutto la tesi di laurea, di cui fosse stata dichiarata la dignità di stampa. Le spese di edizione erano, budget permettendo, a carico dell’istituzione accademica
coinvolta. Conseguenze immediate: a parte la soddisfazione personale
dello studente, del relatore e del correlatore, un vantaggio per il curricolo professionale dell’autore, eventuali opportunità di carriera accademica e possibili ricadute positive d’immagine per tutti gli interessati.
Università compresa.
La dignità di stampa e, se possibile, il diritto di stampa erano quindi
determinati dalla cura formale della trattazione, dalla relativa novità
del tema di studio, dall’originalità del punto di vista e magari dai risultati “scientifici” della tesi: e cioè dal “vuoto” che, in via di ipotesi, si veniva a riempire in un determinato “stato dell’arte”, e dunque dal valore
16 È la bandella editoriale di una collana di tesi di laurea, per i tipi dell’editrice
Aracne, di Roma. Sono finora usciti otto titoli. Ce ne sono in preparazione una cinquantina. Altri trecento potrebbero diventare, ciascuno, un libro.
66
Capitolo I
metodologico, anche in termini applicativi, della materia di studio e dei
suoi risultati tra didattica e ricerca. Caratteristica del diritto di stampa,
in tale logica, la discrezionalità e l’eccezionalità. La prospettiva di contribuire, così facendo, alla formazione di élite intellettuali.
Sulla scia di questa tradizione, e sul presupposto che anche l’università di oggi, per quanto variamente riformata e aperta a un’utenza di
massa, sia pur sempre un luogo di ricerca, nasce questa collana Diritto
di stampa. Sul presupposto, cioè, che la pubblicità dei risultati migliori
della didattica universitaria sia essa stessa parte organica e momento
procedurale dello studio, dell’indagine: e che pertanto, ferme restando
la responsabilità della scelta e la garanzia della qualità del prodotto editoriale, il diritto di stampa debba essere esteso piuttosto che ridotto.
Esteso, nel segno di un elevamento del potenziale euristico e della capacità critica del maggior numero possibile di studenti.
Un diritto di stampa, che però comporta precisi doveri per la stampa:
il dovere di una selezione “mirata” del materiale didattico e scientifico a
disposizione, il dovere di una cura redazionale e di un aggiornamento
bibliografico ulteriori, il dovere della collegialità e insieme dell’individuazione dei limiti e delle possibilità dell’indagine: limiti e possibilità di
contenuto, d’ipotesi, di strumenti, di obiettivi scientifici e didattici, d’interdisciplinarità. Un diritto di stampa, che cioè collabori francamente,
in qualche modo, a una riflessione sulle peculiarità istituzionali odierne
del lavoro accademico e dei suoi esiti.
Questa Collana, dunque, prova a restituire l’immagine in movimento di un laboratorio universitario di studenti e docenti. E l’idea che alcuni dei risultati più apprezzabili, come le tesi di laurea prescelte, possano mettersi nuovamente in discussione mediante i giudizi e gli stimoli di studiosi competenti.
9. Ai corsisti CTP di San Vittore17
(3 maggio 2004)
Può accadere che fuori dall’università, fuori dalla scuola, in situazioni educative pur difficili, la disponibilità degli allievi e l’intelligente
iniziativa degli operatori culturali approdino talvolta a risultati didattici
innovativi ed esemplari per tutti.
Ai corsisti del CTP di San Vittore
dell’Istituto Comprensivo “Cavalieri”
di Milano
Emilia Andi, Paolo Clavenna, Gabriella Axmann, Nysret Dervishaj,
Nancy Contreras, Darko Dojcinovski, Labidi Latina, Benjaber El Char 17 Da l’albatros, luglio-settembre 2004, nella rubrica “Lettere dall’Università”,
pp. 105-110.
Intercultura come “incontro”
67
ki, Ionela Stanciu, Abderrahim Lhaimar, Tatiana, Carmelo Lo Conte,
Ziane Mourad, Secondo Rosé, Mohammed Seif
Cari ragazzi,
ho saputo del laboratorio di scrittura creativa dal titolo Come granelli
di sabbia, a cura di Claudia Laffi e Vincenzo Samà, nell’ambito del progetto Un mondo di xché, a cui anche voi avete partecipato come autori
dei testi e attori nel musical che ne è seguito. Ho quindi letto con vivo
piacere il libro col connesso CD ROM, che ora documentano l’impresa,
ricavandone alcune forti impressioni e diversi insegnamenti: e mi dispiace di non aver potuto vedere i filmati di supporto e ad ascoltare le
musiche e i cori. Dell’Inno alla vita di Francesco Chiesa, viene sì riprodotta la partitura (alle pp. 92-98), ma non ho trovato ancora il modo di
sentire il pezzo.
Intanto, però, sono stato soprattutto attratto dal preambolo su
L’ignoto pone interrogativi, che mi ha fatto subito pensare a certe indimenticabili pagine di Italo Calvino e al Libro dei perché di Gianni
Rodari. E mi sono trovato in perfetta sintonia con l’idea del lavoro collettivo, che ha preso le mosse dai vostri rispettivi idiomi (arabo, milanese, spagnolo, serbo, francese), e che si è concluso con la messa in
scena dello spettacolo nei modi previsti dal progetto.
La cosa più interessante, infatti, rimane per me il dato reale delle
vostre produzioni comunicative ed espressive originali: a cominciare
dalle sventagliate poetiche di spontanei perché… Molto suggestivi,
quindi, i versi del brano L’ignoto pone interrogativi, da voi composto e
recitato nelle varie lingue (cfr. le pp. 19-21), che mi è sembrato essere
un po’ il “motto” dell’intero laboratorio:
L’ignoto pone interrogativi
rende incerto il futuro
e porta verso l’avventura dell’esistenza.
Solo chi va verso l’avvenire a cuor leggero
portando con sé il pesante bagaglio della storia
potrà gustare, durante la propria vita, i frutti del paradiso.
Davvero importante, d’altra parte, la dimensione corale, integrata,
del vostro avere lavorato assieme, ed esemplare, direi, il gioco interculturale, individuale e sociale, che vi è riuscito di realizzare tra le diverse
generazioni di studenti partecipanti, e che è sta alla base della successiva messa in scena. La cui metodologia viene così sintetizzata:
Alcuni corsisti di San Vittore cantano in lingua araba la canzone Tala il badro alaina che acompagna le voci narranti degli altri. Partendo dai loro idiomi
(arabo, milanese, spagnolo, serbo, francese) declamano singolarmente la poesia
L’ignoto pone interrogativi […]. Un corsista ripete poi gli stessi versi in italiano
con una modalità che prevede la recitazione di ogni verso, seguita immediatamente dal coro degli altri che ripetono lo stesso verso […]. Mentre viene proiettato il video del preambolo, entrano in scena i bambini della Materna, i ragazzi
68
Capitolo I
della Media e gli studenti del Liceo. Partendo da diversi punti della platea tutti
si dirigono lentamente verso il palco, salgono sul palco prima gli studenti del
Liceo, che accolgono i ragazzi della Media, che a loro volta accolgono i bambini
della Materna. Nel frattempo gli studenti del Liceo si dispongono: alcuni agli
strumenti che suoneranno durante lo spettacolo e altri che siedono lungo il bordo del palco.
Io non sono un critico letterario né un critico musicale o teatrale, e
non so nulla delle procedure didattiche che i vostri insegnanti hanno
via via adottato nel corso del lavoro. Ho però l’impressione che voi, nel
fare quello che avete fatto con loro, siete riusciti a divertirvi molto, riuscendo al tempo stesso a essere delle persone serie, impegnate a fare
qualcosa di importante per voi stessi e per gli altri.
Ecco perché m’è venuta voglia di scrivervi: per farvi sapere che c’è
un qualcuno che non conoscete, un ex professore di scuola media che
vive in un’altra città e che ha apprezzato particolarmente la vostra impresa e che ora vorrebbe dirvi che anche lui, una volta, tanto tempo fa,
si è trovato a vivere esperienze simili alla vostra. Anche se con molte
differenze di contesto e in condizioni didattiche parecchio diverse, per
le ragioni che vi dirò, i suoi scolari di allora avrebbero condiviso volentieri con voi i versi di L’ignoto pone interrogativi. Magari in dialetto
calabrese (faccio la prova a tradurre):
I cosi chi nun canusci fannu ma fai dumandi
issi u futuru fannu insicuru
e t’imbuttanu subb’a vita comu a n’avventura.
Sulu cu va a lu futuru senza pisi subb’u cori
senza ma si lassa i pisi pesanti d’a storia
po’ ma senta, ‘nta sta vita sua stissa, u fruttu du paradisu.
“I frutti del paradiso”, che mi sembra ora di poter gustare anch’io
assieme voi, un po’ ricordando il passato un po’ vivendo il mio presente
di insegnante. E dunque per il gusto di sempre nuovi perché (di perchédomande e di perché-risposte), che, per l’appunto come “granelli di
sabbia”, vengono a incanalarsi nella strozzatura della mia clessidra (finché continuerà a funzionare).
Ecco perché allora, nel leggere Come granelli di sabbia, mi sono ritornate in mente alcune circostanze di tanto tempo fa, all’inizio della
mia carriera di professore nella scuola media, nella Calabria di più di
trent’anni addietro, a Belcasto, un paesino della Presila in provincia di
Catanzaro: duemila abitanti sulla carta, ma con moltissimi emigrati,
tante “vedove bianche” e tanti ragazzi pieni di vita e di “perché”.
Ragazzini e ragazzine come voi, che avrebbero voluto giocare, leggere, scrivere, disegnare, imparare a costruire il loro “mondo di xché”: e
che invece erano costretti ai lavori dei campi, a badare agli animali, ad
accudire i fratellini più piccoli. A fare insomma qualsiasi attività potesse rendere subito qualche soldo per la famiglia.
Intercultura come “incontro”
69
Così addio studio. Addio scuola dell’obbligo, niente cose belle da fare insieme con gli insegnanti e a casa, per migliorarsi e qualificare adesso la propria infanzia e, domani, la propria vita. Unico desiderio, inespresso o gridato: l’andare via, il partire dal paese per arrivare in un
qualche altro posto del mondo (Torino, Milano, Roma, Genova, Germania, Francia, Belgio, America, Australia ecc.), e cercare così un lavoro qualunque, dovunque, per vivere in un altro modo, altrove.
Intanto, però, la legge imponeva che essi andassero a scuola. Dove
trovavano i loro insegnanti, che per la maggior parte venivano dalla città, tutte le mattine (io ero tra questi). E succedeva spesso che nelle loro
case piombassero all’improvviso i carabinieri, a frugare nelle stanze,
nelle stalle, sotto i letti, negli armadi, dappertutto, per scovare i bambini tenuti nascosti dagli adulti, i quali s’opponevano a che la scuola li
sottraesse alle famiglie nella soddisfazione dei loro bisogni elementari
immediati.
Ma per fortuna non era sempre così. In paese c’erano infatti anche
le bambine e i bambini, che seguivano abbastanza regolarmente gli studi. E succedeva pure, anche se non di frequente, che qualcuno potesse
continuare la scuola dopo la terza media.
Così come capitava che alcuni adulti e anziani si iscrivessero a scuola, per migliorare nel lavoro e socialmente. E volessero conseguire la
licenza media: oppure soltanto (ma ciò avveniva più raramente), per
desiderio di cultura. Per fare cioè da grandi quello che non gli era riuscito di fare da piccoli.
A una larga parte dei ragazzi, tuttavia, sarebbe continuata a toccare
la stessa loro sorte. Di non andare a scuola o di smettere di andarci, per
stare a spasso o per cercare un lavoro. Qualsiasi lavoro, per non gravare
più sulla propria famiglia, e, raggiunta l’età, per mettere su un’altra famiglia: ma con lo stesso immutato desiderio di partire, di andare via da
Belcastro, da qualche altra parte…
Ebbene, in questa situazione, con i ragazzi delle mie classi, riuscimmo ad avviare delle attività dello stesso tipo di quelle che voi avete
avviato a Milano. Molto diverse nei contenuti, ma assai simili nelle finalità e nel metodo del laboratorio.
Fu così, per esempio, che facemmo un’esperienza di scrittura creativa, collettiva, con il coinvolgimento epistolare di Italo Calvino, prendendo le mosse dal Marcovaldo televisivo e da quello letterario, messi a
confronto. Seguì poi, con la partecipazione dello stesso Calvino, un laboratorio sulle fiabe in dialetto e in lingua italiana. Un altro, poi, sui
lapponi, con la collaborazione di un noto scrittore per ragazzi, Walter
Minestrini.
Dopo, fu la volta di una nuova impresa didattica, altrettanto coinvolgente: la preparazione dei materiali per un documentario su Belcastro. Di un documentario predisposto nei particolari, che però non siamo riusciti a realizzare (avrebbe dovuto girarlo Gianni Amelio, il regista
de Il ladro di bambini, lo conoscete?).
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Capitolo I
In questo senso, voi di Milano siete stati più bravi di noi di Belcastro: perché il musical, alla fine del percorso, vi è riuscito di metterlo in
scena. Noi invece, il documentario, l’abbiamo soltanto previsto, non visto.
Però ci siamo divertiti molto anche noi, allora, studenti e insegnante. Così che, quando capita che ci si incontri di tanto in tanto, parliamo
ancora con gioia di quelle e delle altre esperienze scolastiche fatte insieme.
Ma chissà che non ci si veda pure noi, un giorno o l’altro a Milano o
a Roma, per continuare a parlare delle rispettive vite scolastiche… Delle
nostre vite di studenti e di insegnanti, collezionisti di “perché” e di
“frutti del paradiso”.
Vi faccio quindi i miei migliori auguri per l’anno scolastico in corso,
pregandovi di girarli anche agli insegnanti e a tutti gli altri partecipanti
al vostro laboratorio.
Saluti cari.
Nicola Siciliani de Cumis
II
Occasioni di lettura
1. Decalogo in forma di dialogo su Lamerica1
(11 ottobre 2000)
Primo: pensare mondialmente ma localmente, localmente
ma mondialmente
Perché l’“Altra” Calabria? In che senso Altra? Cercando la Merica,
forse?
– Lì per lì, è evidente che la risposta è data dal concetto di “diaspora”. I
calabresi della diaspora sono un’altra, meglio l’Altra Calabria. Però
questo è soltanto un aspetto della “cosa”: un’“Altra” Calabria è anche
quella che attualmente non c’è, quella che si vorrebbe ci fosse, è il
“dover essere” della Calabria nella Calabria. E fuori.
– Risulta chiaro allora che interpellare gli assenti, i lontani, i dispersi
della diaspora, è solo un atto tra i molti da compiere...
– E neppure il più importante, a meno che tra chi se ne è andato dalla
regione e chi vi è restato non si sia stabilito o non si venga stabilendo
un’intesa, tutt’altro che un alibi reciproco, un effettivo rapporto di
collaborazione. Ma nei due sensi: la Calabria si giova dell’esperienza
lavorativa, tecnica e umana del calabrese andato via, tanto quanto
quest’ultimo trae profitto dalla vitalità produttiva e dalla tensione
progettuale in atto della regione. Gianni Amelio dice...
– In questo senso, allora, non si vede perché limitare l’Altra Calabria
alla pura e semplice “Calabria” dei calabresi. Vedi Lamerica, appunto.
– Certamente. È “Altra” la Calabria degli “Altri”, di qualunque altro
uomo, sia calabrese o meno, che operando in direzione di suoi interessi si ponga consapevolmente il problema di agire nell’interesse
della Calabria, di tutto ciò che ha a che fare con la nostra terra...
– Della calabresità? Proprio Amelio ha discusso questo concetto.
1 Da N. SICILIANI DE CUMIS, Italia-Urss/Russia-Italia. Tra culturologia ed educazione 1984-2001, con la collaborazione di V. Cannas, E. Medolla, V. Orsomarso, D.
Scalzo, T. Tomasetti, Quaderni di Slavia, 1, Roma 2001, pp. 289-298.
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Capitolo II
– Forse: però credo lo abbia fatto comunque fuori dall’ottica di una
“calabresità” sentimentale, mitica, paternalistica, razzistica, premoderna, e cioè in ultima analisi anti-calabrese, immobilistica, conservatrice, reazionaria.
– Si deve rinnegare noi stessi, le nostre peculiarità regionali, locali?
– Niente affatto. Proprio il contrario, invece. Semmai potenziarle.
– Quale calabresità allora? Gira e volta, Amelio se ne è andato. Che calabresi?
– L’inesistente calabresità, direi: dato che il vocabolo non sta in alcun
dizionario... Tuttavia, riflettendoci, non è detto che il neologismo
non sia in qualche modo significativo: perché afferma un “noi”
nell’atto del suo esternarsi, sia in forza di un’identità culturale “diversa”, sia come processo d’interazione evidentemente positiva nel
rapporto con “il resto del mondo”. Bisogna esercitarsi a questa reciprocità. In altri termini, l’essere calabresi è un dato storico iniziale,
un fatto solo relativamente condizionante da considerare ma da non
enfatizzare, da far valere localmente nel nome dell’extralocalità, ed
extralocalmente in forza delle competenze e delle responsabilità formatesi e maturate in loco. Ogni altro approccio, su altre premesse,
non può che essere perdente, subalterno e illusorio, improduttivo,
anzi uno spreco... Davvero è necessario pensare mondialmente, localmente, localmente, ma mondialmente. Un film come Lamerica lo
prova.
Secondo: descrivere un’antipedagogia come educazione d’urgenza
– Le idee-guida degli intellettuali della diaspora calabrese, specie se
pedagogisti, o uomini del cinema, quanto possono essere utili in
questa direzione?
– A mio parere servono a ben poco, finché restano per l’appunto “ideeguida” di qualcun altro, benché intellettuale, ancorché pedagogista o
cineasta, quantunque corregionario e “cittadino del mondo”. Il problema è complesso: non è che si tratti di sradicarsi, di “mondializzarsi” nelle intenzioni, astrattamente e fittiziamente. Ideologicamente.
Né, per principio, si deve delegare nessuno a ragionare e ad agire per
noi. Tutt’al più si può chiedere un aiuto tecnico, un suggerimento,
una comunicazione di esperienza vissuta, in vista di nuove qualità
d’esperienza: però mai fidarsi di se stessi, e neppure di chicchessia,
proprio nella misura in cui si è predisposti alla delega, alla ricezione
pedagogica, cioè a una certa passività. Più che critici occorre essere
ipercritici. Come Amelio.
– Vuoi dire che i cosiddetti altri diventano per noi un elemento di regresso, anziché di progresso, intanto in quanto sono da noi stessi
pensati, vissuti, interiorizzati come produttori di idee-guida?
– Proprio così, in un certo senso. Gli intellettuali della diaspora, invece, se proprio vogliono (come si dice) fare qualcosa, non debbono
anzitutto smettere di operare nel campo che normalmente è il loro,
Occasioni di lettura
73
dando in Calabria, se richiesti, il meglio di sé, e ciò fino al punto di
rendere superflua la loro prestazione d’opera, il loro momentaneo,
straordinario, contributo pedagogico. L’essenziale sarebbe il descrivere piuttosto un’antipedagogia: meglio, una pedagogia dell’inutile
pedagogico come controprova del buon esito di un’educazione, che è
già un’autoeducazione. Un’educazione d’urgenza. E Lamerica di Amelio, nel suo specifico “visivo”, ti comunica proprio questa urgenza. Il
sentimento dell’urgenza, direi.
Terzo: nuotando, s’impara a nuotare, imparando, s’insegna a nuotare
– Come realizzare, in concreto, una cosa del genere: e cioè, in primo
luogo, la comunicazione e la trasmissione di un “modello” di esperienza positiva, riuscita, dall’esterno all’interno della Calabria?
– Niente ricette. Formule niente. Nessun modello da applicarsi meccanicamente. Solo ipotesi di lavoro, prove nei due sensi della parola:
tentativi di andata, sul terreno del fare progettuale, tentativi di ritorno, sul piano delle verifiche degli esiti (a breve, medio e lungo termine). Che cosa, chi, poi, può dirsi perfettamente riuscito? Anche Amelio è inquieto, scontento. Dice che “nessuno è innocente!”.
– In sintesi, sperimentazione... L’educazione, il cinema “sperimentali”?
– Sì, sperimentazioni, al plurale, quale che sia il campo dell’intervento...
– ... e tenuto conto, com’è ovvio, delle variabili locali. Anche se si rassomigliano dentro di noi, la Calabria non è l’Albania.
– Senza dubbio: sperimentazione in agricoltura e nel commercio,
nell’industria e nell’artigianato, sperimentazione nelle forme di aggregazione sociale e di governo, sperimentazione nella produzione di
alta cultura, e nella divulgazione scientifica, nell’informazione e a
scuola, sperimentazione nei modi del vivere quotidiano in città, in
campagna, sulle strade, a piedi e in automobile, nei parcheggi, nei
luoghi privati e pubblici, durante il lavoro e nel tempo libero, e se si è
disoccupati: provare comunque a fare qualcosa, magari a immaginare di svolgere un’attività, fino al punto di imporsi operativamente a
se stessi con la forza della propria laboriosità e immaginazione, e agli
altri con la quantità e la qualità del prodotto. Dieci, cento, mille Lamerica, come si diceva una volta per il Vietnam...
– Una rivoluzione, insomma.
– Se ne fossimo capaci! A nuotare, in ogni caso, si impara nuotando. E
imparando, si insegna a nuotare. Una scuola di cinema, in Calabria,
diretta da Amelio. Ecco un bel passo in avanti.
Quarto: non perdere la prospettiva, anzi arricchirla
– Va bene la sperimentazione, d’accordo sulle sperimentazioni. Ma secondo quali regole generali, secondo quale piano, quali finalità, obiettivi, soluzioni prospettiche?
74
Capitolo II
– Tutte le regole, tutti i piani, tutte le finalità, e gli obiettivi e le soluzioni prospettive, tutte, tranne quelle adottate fin qui...
– I salti nel buio sono però sempre pericolosi.
– Nessun salto nel buio. Solo una presa di distanza critica e autocritica.
Un fatto è certo: che se i risultati dello “sviluppo” in Calabria sono
quelli che sono, c’è evidentemente un difetto di fondo (che non è un
problema di “razza”, s’intende, ma effettivamente storico e politico),
e con questo limite occorre fare i conti con coraggio... L’“Altra” Calabria è in questo senso un’altra, differente e opposta Calabria che
progettandosi come nuova, brucia proceduralmente il proprio vecchiume. Distruggere/costruire, costruire/distruggere, per realizzare
un’alternativa, un’alterità, l’altrimenti che non c’è: questo è, probabilmente, l’atteggiamento mentale più giusto che dovrebbe prendere
piede in Calabria e tra i calabresi in sede e fuori sede.
– Ma non è utopistico?
– No, è quanto di più realistico di possa pensare. Del resto, a questo
punto, c’è forse ben poco da scegliere: la realtà dell’utopia può essere
una ragionevole soluzione, la “novità” in via di ipotesi la più praticabile... In Lamerica non sono pochi gli spunti sull’utopia. Utopia!
– Forzando la mano? Pestando i piedi a qualcuno?
– Basti dire: senza perdere la prospettiva, la direzione d’indagine e la
linea di un’azione coerente “in vista”, nel presente, dell’Altra Calabria. Che Lamerica non sia più l’America per nessuno. Per nessun
uomo.
Quinto: valorizzare le “differenze”, differenziare i “valori”
– Ma da dove incominciare, in concreto? Non è poco, non è assai poco,
un film?
– Dalle domande, dai perché, dalle richieste di spiegazioni intorno a
ciò che “non va”, e dall’ipotesi di motivi razionalmente condivisibili
rispetto al “che fare”... In altri termini: se la disoccupazione giovanile
è un dato di fatto negativo, come la ’ndrangheta, il sottosviluppo
produttivo, l’analfabetismo di “andata” e quello di “ritorno”, il caos
edilizio nei centri urbani e lungo le coste, le disfunzioni nei servizi
pubblici, l’incultura di massa e l’imbarbarimento del senso comune
ecc. ecc., allora si tratta di ricercare delle ipotesi di soluzione, ben
sapendo in partenza che gli strumenti non possono più essere quelli
adoperati fin qui. Gli strumenti eccezionali che servono...
– Che trovata! Strumenti antidemocratici? Il “realismo socialista”, magari.
– Proprio l’opposto. Purché ci si intenda su che cosa voglia dire, sul
serio, democrazia. La quale è tale se non si limita agli astratti aspetti
formali, alle pure e semplici ragioni del “metodo”. Queste sono soltanto delle condizioni mediante cui agire bene, nell’interesse di tutti i
cittadini. Niente di più che delle condizioni: ma i contenuti, il merito
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di un’azione, i vantaggi reali della popolazione, restano il compito
principale. Anche se questo comporta dei costi per tutti.
Bisogna allora non seguire la corrente, e andare invece controcorrente, facendo valere il peso dell’opposizione? Si oppone Amelio?
Non avrei molti dubbi su questo. Nel senso di un’opposizione costruttiva.
Sì, ma come procedere? In quale partito riconoscersi?
Non sta a me dirlo. Anche perché tutti, ciascuno sa come deve, come
dovrebbe comportarsi. Cosa scegliere. In che mettersi in discussione.
Cosa? Come? In che maniera comportarci, insomma?
Nel modo esattamente opposto a come si comporta: dalle scelte più
importanti a quelle di minore significato... Basterebbe questo, per
l’appunto: agire diversamente da come si agisce, valorizzare cioè la
differenza. Che so io: ti va di stare solo a pensare ai casi tuoi? Allora
unisciti con quelli che hanno gli stessi problemi, e ragionate assieme
sui modi migliori per risolverli. Ti senti libero quanto ti sembra di
poter fare quel che ti pare? Allora prova a supporre di essere piuttosto, in siffatta situazione, meno libero che mai. Ti considerano fortunato per il fatto di avere piccoli o grandi privilegi rispetto agli “altri”
(un lavoro, la casa, un pezzo di terra, dei CCT, BOT ecc.)? Allora mettiti in dubbio, guarda pure in faccia le ragioni della differente tua fortuna, e impegnati in un’attività sociale disinteressata. Ti dicono che
“privato” è bene, “pubblico” è male? Non crederci: studia la differenza, e agisci diversamente che nel tuo personale (individualistico) interesse. Scopri cioè il senso del collettivo, e i suoi vantaggi anche per
te, al di là delle apparenze. Valorizza, come dicevo, la differenza. La
differenza, perfino nel senso di sottrazione di valori (negativi), e
dunque di una possibile, conseguente valorizzazione (positiva, moltiplicativa) del vivere “qui” e “ora” diversamente, in Calabria, e nella
stessa Merica che cerchiamo.
Sesto: misurare e valutare le sproporzioni nell’“esistere”
– E lo sviluppo? Come intervenire perché la Calabria trovi una sua
strada per lo sviluppo? Che vuol dire sviluppo? Bastasse un film!...
– Ho idee mie, decisamente minoritarie, senza che essa si faccia attivamente partecipe della lotta al sottosviluppo al suo esterno. Per
quanto paradossale, questo è l’unico modo... Occuparsi degli altri.
– Più che “paradossale”, una strada così, la diresti una stranezza...
– Capisco. Ma il mio punto di vista è questo: che oggi viviamo in un
mondo sempre più piccolo, dove ciò che avviene in Giappone non è
slegato da quel che non riesce ad accadere in Calabria, un mondo,
teatro di trasformazioni epocali, organicamente planetarie, nel quale
la “questione meridionale” ha uno spessore internazionale per così
dire a portata di mano. In tempo reale, assistiamo via satellite, in televisione, a eventi mondiali, localizzati, che ci riguardano da vicino
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Capitolo II
anche se lontani migliaia e migliaia di km (mettiamo in Rwanda o in
Sud America, ovvero nei paesi dell’ex URSS...).
Per questo, a due passi da noi, c’è la Bosnia. E l’Albania... E allora?
Orbene, ridotta all’essenziale, la questione è la seguente: le cose che
ci accadono intorno realmente, giorno per giorno, superano qualsiasi
immaginazione. E c’è una sproporzione incredibile, che dovremmo
imparare a misurare e a valutare, tra i mezzi (politici, giuridici, educativi ecc.) che solitamente adoperiamo, e i problemi che abbiamo di
fronte. Anche l’ONU dovrebbe avere ben altra funzione...
Ricadiamo nell’utopia?
No, l’utopia non c’entra. È il nostro vivere quotidiano che risulta così
compromesso, irrimediabilmente compromesso. Non può esserci
“qualità della vita”, per nessuno, di fatto, se tutti, dico tutti, continuiamo a essere invischiati, giorno dopo giorno, nella logica del
mantenimento degli aleatori vantaggi provenienti dalla “storia”, senza porci con urgenza il problema di una prospettiva politica altra...
E la Calabria, che c’entra la Calabria?
C’entra, eccome se c’entra. Perché le ragioni del sottosviluppo sono
le medesime del non-sviluppo, e perché – come dicevo – tra l’essere
della situazione sociale calabrese e il suo dover essere c’è una sproporzione immensa: ed è della stessa natura, fatte salve tutte le differenze, di quella che si riscontra nei molti e vari “Sud del mondo”.
Ragion per cui una Calabria che facesse costruttivamente propria
l’ottica del mutamento, misurando e valutando le sproporzioni esistenti tra gli obiettivi mondiali umani da raggiungere subito in ogni
luogo (compresa la Calabria), e le strumentazioni inadeguate disponibili, questa Calabria, nel lavorare per gli altri lavorerebbe più che
mai per se stessa. Nell’intervenire nella sequenza delle cose da fare,
immediatamente, per le popolazioni “che stanno peggio” (sempre
più presenti in Italia, in Europa e nelle aree “avanzate” del pianeta),
svolgerebbe, la Calabria, un esercizio di progettualità e concretezza
di tutto rispetto, che varrebbe a emanciparla oltre ogni attesa... Una
Calabria-laboratorio per il Terzo mondo e per sé, una Calabria “pedagogica” e “autopedagogica”: potrebbe essere un’idea vincente!
Settimo: non rubare (e, se lo si fosse fatto, recuperare il maltolto)
– E i calabresi, nei loro rapporti reciproci? Amelio ci è stato tolto, rubato.
– Non vedrei alcuna apprezzabile soluzione di continuità. Se si trattano i propri simili non come mezzi per altri scopi, ma come lo scopo
della nostra azione, allora non avrei alcun dubbio: ciascuno di noi,
nei suoi limiti e nel suo raggio d’azione quotidiana, non può che mettersi nella posizione di chi dà, non da chi prende. Come Amelio. Ci
dà tanto, Amelio.
– Vuoi dire che è dall’altruismo, che comincia il riscatto della Calabria?
Occasioni di lettura
77
– Sì, in qualche modo: ma avendo anche chiaro che la cosa non ha
niente a che fare con l’umanitarismo generico, né con l’egoismo truccato di chi vuol semplicemente sentirsi buono la domenica per avere
una chance in più per salvarsi l’anima... Nessun “voto di scambio”
con il padreterno: piuttosto una necessità tecnica, sul piano del vivere associato. La realizzazione di un concretissimo progetto politico...
– Significa che senza pensare ad agire per gli altri, prima che per noi
stessi, non ne usciamo? Sarebbe questa la “politica”?
– Proprio così. E bisognerebbe inventare dei misuratori sociali, dei
termometri della temperatura collettiva dei nostri comportamenti e
delle nostre scelte individuali socializzabili. Il che non vuol dire che
questo debba essere stabilito una volta per tutte, a priori, e burocraticamente amministrato e somministrato. Significa, invece, proporsi
di vivere secondo un’altra dimensione elementarmente più umana,
significa decidere un’inversione di tendenza, secondo le direttrici di
un progetto di offerta di servizio, rompere il cerchio dell’etica dell’opportunità (che apre agli opportunismi), attingere alle novità realmente vantaggiose per la comunità... Dicevamo Lamerica...
– Essere onesti, non rubare...
– No, non ci siamo: l’essere onesti, il non rubare (e magari restituire
alla società il maltolto) non può essere un “fine” di cui appagarsi. È
semmai il presupposto, la pre-condizione di un obiettivo ben più alto
da perseguire... Tangentopoli, qualora scoppiasse in Calabria, sarebbe certo un fatto positivo: come è positivo l’ossigeno per lo stare in
vita. Ma poi? Se usiamo bene o male il nostro “stare in vita”, a vantaggio di chi e di che cosa, per quali finalità ecc., questo è un altro discorso. Si tratta di avere degli scopi, un disegno, un itinerario da percorrere insieme, verso un “dove” cui pervenire.
Ottavo: immaginare, ragionare, agire, collettivamente
– Un “disegno” che deve essere pensato, eseguito, da chi?
– Da ciascuno e da tutti. Facendo un esempio “alto”, Amelio. Però non
basta.
– Ma non è astratto rispondere così?
– Certo, è astratto. Ma potrebbe non esserlo. Basterebbe organizzarsi...
– E allora? Non dirmi che basta proiettare un film su un lenzuolo...
– Non ho molte cose da dire. Come individui non si può poi fare granché.
– Però restano le idee... Restano i progetti e i tentativi di realizzarli.
– Per quello che possono valere, indubbiamente sì. È un ritornello che
conosciamo tutti e ciascuno, ma che si canticchia poco o niente. Eppure è da qui che dovremmo incominciare: dall’immaginare, dal ragionare, dall’agire collettivamente... Le nuove tecnologie dovrebbero
servire proprio a questo: a garantire che si possa in qualche modo
comunicare gli uni con gli altri, e dialogare, discutere, decidere, come una volta si riusciva in parrocchia, in sezione, al bar o passeg-
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Capitolo II
giando per strada... Dicevi il film sul lenzuolo. Ebbene sì, vedessero
tutti Lamerica in piazza, e lo discutessero in piazza con Amelio...
In piazza, nell’Agorà, come nell’Atene dei tempi di Socrate?
In un certo senso, ma cambiando tutte le cose che da allora a oggi
sono da cambiare... in termini di leggi, di regole sociali. Di storia.
Vedo molte difficoltà, sento nuovamente odore di utopia, mi sembrano idee talmente velleitarie.
Ambiziose, certamente ambiziose, ma non “fuori dal mondo”. La Calabria, per essere un laboratorio dello sviluppo, deve farsi carico delle discussioni sulle grandi questioni di principio su “libertà” e “giustizia”.
Prendere o lasciare: o l’una o l’altra. “Sociale” contro “individuale”.
Sì, in un certo senso. Prendere o lasciare. O una vita collettiva, seriamente collettiva, con la partecipazione critica essenziale della gran
massa dei calabresi per decidere dei contenuti e delle forme del progetto, oppure la situazione attuale. Che non piace.
No, non piace. Non può piacerci: troppe false libertà, troppi arbitri.
Eppure si trascina. La trasciniamo, questa situazione, quasi per inerzia.
Va sempre peggio, vuoi dire.
Mah! C’è Lamerica di Amelio. Partiamo da qui.
Nono: coltivare la critica, anche se non ha “mercato”
– Allora non c’è speranza? Nel film di Amelio c’è tanta disperazione...
– Non è questione di “speranza”. È che non si deve perdere la bussola:
e, anche se si può essere frastornati per questo o quell’altro motivo
“sociale” e in qualche misura “di senso comune”, non smettere di ragionare. Mai svendere le proprie idee, posto che siano idee. Aprirsi a
tutti i confronti, a tutte le verifiche, a tutte le “sperimentazioni” –
ma, anzitutto, dall’interno degli ipotetici “punti fermi”, non dall’esterno, previa rinunzia a pensare con la propria testa. In ogni caso,
Lamerica non è solo disperazione. È riflessione critica.
– Che vuol dire “pensare con la propria testa”?
– Vuol dire per l’appunto: coltivare la critica, sempre e comunque non
cessare di essere critici, ipercritici: anche se, provvisoriamente, della
tua merce non c’è “domanda”, e l’“offerta” entra in crisi di... sottoproduzione (con tutte le conseguenze). Mettersi in discussione. Autocriticarsi...
– Ma critica, in ultima analisi, che significa “critica”? Che c’entra questo discorso con la questione dello “sviluppo” in Calabria? Non ti pare che così usciamo fuori tema?
– Tutt’altro. Qui siamo, invece, esattamente al cuore del problema.
Che è quello della “recensione”, del recensire la Calabria, del guardarvi e dal guardarci dentro (dall’interno e dall’esterno) con la massima attenzione. Per l’appunto, un’attenzione critica, un interrogare
noi stessi, un’obiezione infinita.
– Ma come procedere, da dove incominciare? Dalla “lotta di classe”?
Occasioni di lettura
79
– Le strade “tecniche”, com’è ovvio, possono essere più d’una, tante.
Ciò che più serve è però un atteggiamento morale, un entusiasmo della
volontà, una capacità di autolimitazione, riassumibile nella massima:
“Spendere del proprio, per l’Altra Calabria”. Almeno come Amelio.
– Spendere del proprio? Amelio spende del proprio, per noi?
– Sì, in competenza e in umanità, ancora prima che in danaro...
– Sembri un predicatore. Il tuo è un ragionamento di tipo religioso.
– Può darsi. Solo che io non mi aspetto di salvare l’anima. Per me, questa è puramente e semplicemente la politica. Un’alta politica, non la
sola amministrazione dell’esistente. Governare vuol dire spingere la
Calabria verso il mondo, e l’una e l’altro verso mete collettive elevate,
decisamente finalizzate alla radicalità del cambiamento politico, sociale, esistenziale. Facendo delle scelte. Come Amelio.
Decimo: guarda avanti, “Non pigolare!”. Rileggiamo Makarenko,
rivediamo Lamerica!
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Per realizzare che cosa, in ultima analisi: la diaspora? “Lamerica”?
Un nuovo modo di pensare, di agire, di vivere nell’Altra Calabria...
Siamo alle solite utopie, non si capisce di che parli. Sembri un ufo.
Perché tu li hai conosciuti, gli ufo? Se nemmeno riconosci Amelio...
Voglio dire che mi sembri provenire da un’altra realtà, che il tuo modo di vedere non è mai esistito, non esiste e non esisterà mai!
– Sbagli. Nel mio lavoro non faccio che occuparmene: e me ne occupo
per quel che mi riesce, operando sì a Roma, ma avendo come Amelio
la Calabria per la testa.
– Cioè? L’Altra Calabria, la diaspora o che cosa ancora, l’Est europeo,
l’ex URSS, forse? Il pianeta Terra?
– Non è facile da spiegare, ma voglio provarci, facendoti una proposta:
leggiamo anche qui in Calabria, insieme, lo stesso libro che ho letto
l’anno scorso, che sto leggendo quest’anno, e che rileggerò l’anno
venturo: cioè a dire il Poema pedagogico di Anton Semënovič Makarenko... Discutiamone l’intreccio, le situazioni, gli imperativi: a cominciare dal “Non pigolare!”, in cui si condensa tutta una visione
della vita, davvero degna di attenzione. Guarda avanti, “Non pigolare!”, rileggiamo Makarenko! E riandiamo al cinema a rivedere Lamerica. Chissà che non si capisca tutti qualcosa di noi stessi, di più...
Appendice. La doppia posizione di Amelio verso la “terra d’origine”
Qual è la Calabria che ami?
Io sono nato e vissuto in Calabria per venti anni. Mi sono formato lì,
le mie radici sono lì, però mi è difficile rispondere.
Mi sembra che sia necessario (e non solamente perché non vivo più
in Calabria) abbattere le frontiere, superare ogni forma di regionalismo.
La cosa che mi è rimasta “dentro”, della Calabria, è la mia famiglia,
la storia, i problemi della mia famiglia. Io sono nato in provincia di Ca-
80
Capitolo II
tanzaro, dopo la guerra, in un momento in cui la situazione sociale era
molto più pesante di quella di oggi. E ho vissuto sulla mia pelle vicende
e vicissitudini che, a raccontarle, sembrano proprio un romanzo tipico
del Sud. Anzitutto, l’emigrazione. Io vengo da una famiglia di emigrati a
catena. Sono emigrati in Sudamerica il mio bisnonno, mio nonno, mio
padre e i miei zii. E tutta la mia famiglia è una storia di donne forti e di
uomini invisibili, che si sono persi negli oceani, al di là degli oceani, e
che non abbiamo mai conosciuto. Io, mio padre, l’ho conosciuto quando avevo già diciotto anni. Mio padre non ha mai conosciuto suo padre.
Della Calabria mi è rimasto il peso della miseria (e anche della forza), il
peso della sopravvivenza, della lotta. Io vengo da una famiglia di contadini o di gente che non aveva un mestiere, di gente aggrappata solamente alla terra e alle chimere americane, quindi non conosco la Calabria della borghesia, che, anzi, quando ero in Calabria, detestavo. La
Calabria che amo è quella della terra, dei calabresi veri, che si esprime
nei valori di una cultura antica.
La mia esperienza in Calabria è stata di assoluta e totale lotta per la
sopravvivenza. E quando sono andato via per lavorare, sono emigrato
anch’io in fondo.
Non c’è in te, come si dice oggi, nessuna “nostalgia delle radici”?
No. Non so cosa sia la nostalgia. Penso che ognuno di noi debba vivere proiettandosi nel futuro. In fondo, se c’è un difetto in molti calabresi, questo è un certo adagiarsi su situazioni nostalgiche di comodo,
che derivano da un atteggiamento molto preciso: il fatto di vivere, talvolta, autocommiserandosi. È il vittimismo di cui bisogna liberarsi, una
volta per tutte.
Io non so quanto le cose siano cambiate in Calabria. Però la situazione che mi porto dietro mi stringe ancora il cuore, solo a pensarci.
Tant’è vero che, dopo le primissime esperienze, dopo i primi due film
che sono stati in qualche modo legati alla Calabria, ho sempre raccontato delle storie sulla borghesia. Mi sono sempre proiettato su un altro
mondo, anche perché sento una specie di disagio sentimentale a rioccuparmi di certe cose.
(Pietro Pisarra, Cittacalabria, agosto 1983)
Io in un certo senso vorrei staccare la Calabria dalla mia vita. Io non
voglio sentirmi calabrese, perché ritengo la vera malattia del Sud questo sentirsi privilegiati nell’abbandono e nell’orgoglio... Io sono nato in
una comunità di poveri. Ero affratellato a tutti coloro che avevano dei
bisogni elementari e non riuscivano se non con molta fatica a soddisfarli, e mi sentivo parte di una comunità che ha dei bisogni forti, duri,
primordiali: il pane, le scarpe, il vestito. Se questa persona è calabrese,
che mi stia accanto e combatta insieme a me oppure non combatte, è
comunque mio fratello e mio compagno. Allo stesso modo sento mio
Occasioni di lettura
81
fratello e mio compagno qualcuno che ha gli stessi problemi a Nichelino, o a Sesto San Giovanni. Odio con tutte le mie forze, perché li conosco, quelli accanto a me che questi problemi non li hanno, perché essi
sono – lo dico e lo sottolineo – gli artefici delle mie mancanze, gli artefici primi della mia povertà. Io so che il Sud non è tale solo perché c’è
un Nord, ma è Sud perché c’è anche un Sud sbagliato. Questo discorso
sarà impopolare, ma va fatto. È il Sud sbagliato la vera grande iattura
di tutti i Sud del mondo: è ancora più terribile essere accanto a un tuo
fratello che ha bisogno e tu non fai niente perché possa uscire dalla sua
situazione...
Kadarè, se invece di abitare a Parigi vivesse in Albania, si renderebbe conto di come il suo Paese si è trasformato in questi anni, e di come
continua a cambiare adesso, di giorno in giorno. Ha detto delle stupidaggini fragorose, è un trombone, un vate retorico, che crede di avere
l’esclusiva sull’Albania, per cui solo lui può parlarne. Vada in Albania, ci
torni!
Gianni Amelio
2. Scritture bambine2
(16 novembre 2000)
Q. ANTONELLI E ALTRI, Scritture bambine. Testi infantili tra passato
e presente, a cura di Quinto Antonelli ed Egle Becchi, Laterza, RomaBari 1995, pp. 368, E. BECCHI E ALTRI, Storia dell’infanzia I. Dall’antichità al Seicento, II. Dal Settecento a oggi, a cura di Egle Becchi e Dominique Julia, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 430-502.
Si discusse se rappresentare il testo pubblicamente. Emerse così l’esigenza
di un fare collettivo [...]. La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa.
I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al
teatro all’aperto della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e
grandi.3
Così Asja Lacis, la regista-pedagogista amica di Walter Benjamin, riferendo delle sue esperienze teatrali del 1918-19 a Orël (una cittadina a
sud di Mosca), che è ora menzionata a mo’ di esempio in un luogo metodologicamente essenziale della Storia dell’infanzia, da Egle Becchi
(vol. II, p. 393). Non a caso, del resto, il medesimo brano era stato riproposto dalla stessa Becchi, e opportunamente recensito, in prossimità delle conclusioni del volume I bambini nella storia del ’94 (di cui si è
Da Scuola e Città, 30 novembre 1996, pp. 508-509.
E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell’infanzia, Roma-Bari, Laterza. 1996,
vol. II, p. 393.
2
3
Capitolo II
82
dato conto su Scuola e Città del gennaio ’95). Mentre adesso, nella Storia citata, è ancora alle conseguenze teoretiche in Benjamin che l’autrice rinvia:
Nello scritto di Benjamin [Programma per un teatro proletario di bambini,
del 1928, traduzione filosofica, appunto, del Programma per un’educazione
estetico-politica della Lacis 1918-19] la centralità dell’infanzia, la sua considerazione in sé e per sé è parte di un discorso a elevato tenore speculativo, dove gioco, materialità, gesto, sono momenti forti, brani di una teoria della prima età
che cerca di uscire dai limiti di un’espressione metaforica e di comprendere il
significato del bambino inteso metastoricamente e in generale […]. Ma il bambino non è solo e tanto per il sociale – e per una società da fondarsi – quanto in
un sociale già fondato.4
Ecco perché, nell’opera, si sarebbero voluti presenti i “Sud” del
mondo, perché, oggi, non c’è impresa storiografica che possa prescinderne. Con tutte le conseguenze, sia nell’“immaginario”, che nella “quotidianità”.
Nel proprio ordine d’idee, si deve tuttavia rendere merito ai curatori-autori dei volumi qui oggetto di segnalazione critica dell’effettiva importanza del loro contributo: il quale, da un lato, fornisce la sintesi di
qualificate esperienze scientifiche individuali e di gruppo sul tema storico-sociologico ed “epistemologico” del bambino, da un altro lato, rientra nel quadro degli spaccati monografici progettati e largamente realizzati da Laterza con la collana Storia e società e sue propaggini editoriali (per es. la serie Quadrante). In tal senso un testo come Scritture
bambine (nato da un seminario a Rovereto, nel dicembre del ’93), se
precede cronologicamente Storia dell’infanzia ed è coetaneo de I bambini nella storia, non è che il seguito logico-pedagogico di una serie di
titoli laterziani su la stampa, le città, le regioni italiane, le donne, i giovani, la famiglia, la sanità, la religione, lo sport, l’immaginario, la vita
quotidiana, la scuola, l’uomo (‘greco’, ‘romano’, ‘medievale’, ‘del Rinascimento’, ‘barocco’, dell’’Illuminismo’, ‘romantico’ ecc.): e dunque – in
un certo qual modo – una sorta di prolungamento settoriale dell’opera
di Henry-Jean Martin, Storia e potere della scrittura, edita nel 1988 a
Parigi (titolo originale Histoire et pouvoirs de l’écrit), traduzione italiana di Maria Garin 1990, e ricchissima di indicazioni, anche, sul terreno
delle diverse “infanzie” delle molte e varie “scritture” (al di qua e al di là
dello “scritto”). Occorrerà pertanto ripensare alla luce della genesi dei
“sistemi di scrittura” e della loro “inflazione”, della “moltiplicazione” dei
“segni” e del “matrimonio tra testo e immagine”, in presenza dei “nuovi
media” e dei “linguaggi alla prova della massa delle informazioni”, gli
stessi concetti di archivio, testo privato, destinatario pubblico, attività
dello scrivere, funzione dell’imparare a comporre, ambiguità e finzione
della composizione scritta. Da questo punto di vista, non sono pochi né
4
Ivi, p. 394.
Occasioni di lettura
83
irrilevanti gli apporti compresi nel volume Scritture bambine: e basti
riflettere sul valore di certe osservazioni su ciò che è “minore” e su ciò
che non lo è quando si parla di testi infantili, e dunque sulla problematicità, sui paradossi, sulle asimmetrie che si stabiliscono tra gli adulti e i
bambini, quando e gli uni e gli altri si trovano a scrivere entrando in
una qualche relazione reciproca. Giovanissimi e giovani scrivani nell’Egitto greco-romano, piccoli scrittori dal Rinascimento all’Illuminismo e dall’Ottocento ai nostri giorni, bambini e bambine, sudditi e re,
santi e santini autori di “sciocchezze” e “creatori di lingua” a casa come
a scuola, “figli” del Duce e “bocche della verità”, autobiografi in erba e
filosofini cacasenno, e mini-diaristi, giornalisti, poeti, comici, artisti
d’ogni altra specie, pedagoghi in atto e in nuce, tutti rigorosamente al di
sotto dei quindici anni: questi, e altri, i temi via via trattati nel libro della Becchi con Antonelli dai numerosi specialisti che vi hanno collaborato, e di cui utilmente vengono date brevi schede informative (Dominique Julia e Philippe Lejeune, Emanuele Banfi, Daniele Foraboschi,
Monica Ferrari, Valeria Vignes e la stessa Becchi, Irene Guerrini e Marco Pluviano, Jean Hébrard, Claudio Rosati, Patrizia Cordin, Gian Bruno
Ravenni, Michele A. Cortellazzo, Anna Bondioli, Loredana Lanati e Maria Bacchi, Antonelli e Pino Boero).
E non è tutto: ché la “elettività” degli argomenti di Scritture bambine risulta alla fine senza dubbio congruente con la scelta privilegiata di
determinati contenuti di Storia dell’infanzia, dall’inizio alla fine del libro, primo e secondo tomo:
il bambino e gli adulti che gli stanno intorno, le istituzioni in cui egli trascorre la
sua esistenza, le rappresentazioni che si hanno di lui a livello dotto e di immagini sociali, la sua educazione [...] tracce d’infanzia e di spunti di lettura nuova e
più pertinente [...] le tracce che gli adulti ce ne hanno lasciato [...] i limiti in cui
si iscrive, in ogni periodo, la vita dell’infanzia [...] le costrizioni esercitate su di
questa dalle pratiche e dai discorsi normativi, ma anche le mosse e gli scarti che
gli attori possono introdurre all’interno della trama sociale e culturale in cui esistono [...] l’infanzia come problema [...] le specificità proprie di ogni epoca.5
E dunque:
In questa scissione – che contiene una serie di questioni di natura epistemologica qui non affrontabili – sta una delle aporie della realtà infantile e della cultura che questa produce, esperita come poco rilevante in quanto tale, interessante solo a fini propri della vita adulta, assumibile e scartabile a piacere, sottratta insomma ai suoi autori, che il tempo ha allontanato irrimediabilmente da
essa.6
Contribuiscono pertanto al chiarimento diacronico delle svariate situazioni, accanto alla Becchi (che tratta di “antichità”, di “Medioevo”, di
5
6
Ivi, vol. I, pp. XXVI-XXVII.
Ivi, vol. II, p. 454.
84
Capitolo II
“Umanesimo e Rinascimento”, di “Ottocento”, del “nostro secolo” e di
“scritture bambine, letture adulte”) e a Julia (che si occupa dell’“epoca
moderna” e di “assolutismo ed epoca dei Lumi”), i seguenti altri autori:
Jeanne-Pierre Neraudau (la “cultura romana”), Michael Goodich (una
“santa bambina”), Christiane Klapisch-Zuber (“La memoria e la morte”), Eugenio Garin (nel “Quattrocento”), Franz Bierlaire (sul “XVI secolo”), Jeroen J.H. Dekker (su “iconografia” ed “educazione”), Jacques
Le Brun (sul “Bambin Gesù nel secolo XVII”), Michel Manson (sul “giocattolo in Francia dal XVI al XIX secolo”), Jean-Pierre Bardet e Olivier
Faron (sull’“infanzia abbandonata in età moderna”), Serge Chassagne
(sul “lavoro dei bambini nei secoli XVIII e XIX”), Carlo A. Corsini (su
“Infanzia e famiglia nel XIX secolo”), Jean-Nöel Luc (sui “primi asili
infantili e l’invenzione del bambino”), Monique Vial (su “infanzia handicappata tra XIX e XX secolo”), Hans-Heino Ewers (sulla “letteratura
per l’infanzia”, in Germania, “dal Settecento al Novecento”), Giovanni Scibilia (su “l’infanzia e il cinema di Federico Fellini”). Anche quest’opera
dispone di brevi note bio-bibliografiche, relativamente agli autori.
Infine, alcune rapide osservazioni. Scritture bambine è, nel suo specifico, una precisa provocazione culturale: e se il tratto d’unione LacisBenjamin ti commuove, hai il dovere di lamentarti del silenzio che (ahimé, anche nella storia dell’infanzia) avvolge i besprizorniki di Anton
Semënovič Makarenko, le loro “scritture bambine”, il loro “teatro in
piazza”, e in ultima analisi la loro collaborazione alla scrittura adulta
makarenkiana. Quanti altri esempi di “mancanze” dello stesso tipo potrebbero addursi? Ancora: che cosa scrivevano, che cosa hanno scritto i
“grandi” (non solo scrittori), da bambini? Hanno mai scritto insieme,
magari pubblicato insieme, con un oggettivo, apprezzabile risultato di
comunicazione ed espressione piccoli e adulti (perfino autorevoli), producendo per questa strada esiti nondimeno significativi sul piano pedagogico-autopedagogico? Sul terreno storiografico, poi: quando è che un
bambino passa dall’“autobiografia” alla “storiografia” (nei suoi limiti)?
E se fosse il riassunto (nel senso di Dewey, dell’assumere di nuovo, del
riformulare non passivamente su cui Gramsci sarebbe stato d’accordo),
un momento tecnico imprescindibile (trascurato invece in Scritture
bambine) del costituirsi di una storiografia “altra” (che non escluda
proprio l’apporto, in qualche modo, dell’infanzia)? Perché non storicizzare, a questo livello stesso, le “novità” della sperimentazione in pedagogia? Facendo i conti con le manine, d’altra parte, anche un bambino
messo sull’avviso da un adulto si farebbe persuaso che alle pp. 227-228
del vol. II di Storia dell’infanzia non è “evidente”, è invece fuori luogo,
quel “richiamo alla celebre frase di Marx nel Capitale: ‘Il lavoro che il
capitalismo obbligava a fare usurpò il posto dei giochi dell’infanzia’.
Come avrebbe potuto il buon Théodore Lebreton, ex operaio, richiamarsi nel 1838 al testo marxiano in questione, che Marx pubblicherà
solo molti anni dopo, nel 1867? Marx vecchio infine, com’è noto, dedicò
molto del suo tempo ai bambini: quanti e quali quaderni registrarono,
in un modo o nell’altro, questa fase della vita, quelle concrete esperien-
Occasioni di lettura
85
ze? Asja Lacis e Walter Benjamin, probabilmente, se lo chiesero anche
loro: “Prima che Mosca stessa, è Berlino che s’impara a conoscere attraverso Mosca” – scrisse Benjamin in Immagini di città, non immemore dei ragazzini della Lacis, negli anni Venti –. E la riflessione può
valere metodologicamente ancor adesso, per l’infanzia del pianeta Terra: prima che gli stessi bambini, è degli adulti che s’impara a conoscere
attraverso i bambini. Ma è così?
3. Solo andata7
(7 maggio 2001)
A fine aprile ’98 si è chiusa Solo andata, la mostra multimediale basata sulla tecnica del gioco di ruolo e pensata per far “vestire i panni” di
un immigrato, che tenta la fortuna lasciando la sua terra. Ogni visitatore poteva scegliere tra le storie di 11 extracomunitari: una colombiana,
un albanese, un ragazzo del Kurdistan turco, una nigeriana, un ruandese e un bosniaco, una filippina e un marocchino, un polacco, un pakistano, un somalo. Si dovevano quindi ripercorrere attivamente le tappe
di un viaggio, vissuto da tante persone sulla propria pelle. A rendere
ancor più verosimile l’esperienza c’erano agenti, doganieri e funzionari,
interpretati da 20 animatori stranieri.
Concluso il percorso, accanto al Dossier pedagogico – una sorta di
“vademecum” da offrire ai ragazzi della scuola, per riflettere analiticamente sull’esperienza appena vissuta – c’erano i Quaderni, su cui
chiunque avesse voluto poteva lasciare una traccia delle emozioni provate, delle considerazioni che l’avventura gli aveva provocato.
Grazie ai quaderni (ne sono stati riempiti 12 di formato grande nei
sette mesi di apertura degli stand) abbiamo ripercorso quello stesso
viaggio a un paio di mesi dalla chiusura e dalla loro rilettura è nato un
doppio, ma parallelo, lavoro analitico: a. il primo è incentrato sull’individuazione di filoni tematici diversi all’interno dei quaderni stessi, attraverso un esame filologico/critico delle frasi lasciate e nel tentativo di
enucleare ogni volta il centro problematico più evidente (constatando,
magari, l’intercomunicabilità di tutti i messaggi), b. il secondo è un elenco alfabetico delle “idee” o “parole-chiave” più ricorrenti nei quaderni, elenco che sottolinea la significatività di certi argomenti generali
evidenziatisi e all’interno dei quali ogni singola “idea ricorrente” si ricontestualizza. Riteniamo, peraltro, che i visitatori rappresentino alcune tendenze diffuse a livello sociale e che l’indice sia perciò stesso indi 7 Il contributo è un estratto dell’originale in italiano, pubblicato in Solo andata:
Un viaggio diverso dagli altri. Dossier conclusivo, realizzazione a cura del CIES
(Centro informazioni educazione e sviluppo), Roma 1998, pp. 15-34. A questa pubblicazione si rinvia per una lettura più analitica dei 20 temi individuati e dell’Indice
ragionato.
Capitolo II
86
cativo dei termini e dei concetti più comuni e metabolizzati a proposito
di “società multirazziale” e di “intercultura”.
a. I quaderni della mostra e i filoni interpretativi individuati
Sono venti i “macrotemi” desunti dalla lettura dei messaggi lasciati
e utilizzati come contenitori in cui far confluire le espressioni più usate
e più significative. Tali macrotemi – ne illustreremo alcuni, ciascuno
attraverso alcune frasi dei quaderni8 –, per come sono stati definiti e
titolati, potrebbero suscitare perplessità. Altri avrebbero forse individuato filoni diversi, e gli scriventi, vedendosi citati e inclusi in un filone
tematico piuttosto che in un altro, potrebbero sollevare obiezioni. Bisogna dunque considerare lo scarto tra la soggettività delle emozioni espresse dal pubblico e il tentativo di oggettivare il tutto attraverso il nostro itinerario interpretativo.
In questo percorso post-mostra non è stato sempre possibile riconoscere con certezza l’età e il sesso degli autori, inoltre, in un paio di casi
la grafia era criptica e ci siamo esentati da interpretazioni forzate.
L’ordine in cui presentiamo i temi emersi è, in qualche modo, cronologico: si parte da quelli selezionati per primi e si prosegue così anche se
alcuni argomenti sono emersi contemporaneamente tra di loro.
1. La mostra come esperienza conoscitiva e di condivisione
Molti hanno conosciuto per la prima volta le condizioni degli extracomunitari, riflettendo sulla vita di chi fugge dal suo Paese. La mostra
ha dato un contributo alla comprensione del razzismo e dell’intolleranza avviando a una possibile “nuova solidarietà”, infatti, solo immedesimandosi si può “capire cos’è la povertà, cosa significa convivere con la
paura e la morte”. Inoltre, sono state colmate le lacune di altre fonti di
informazione: “si scoprono realtà e situazioni che non emergono dai
mezzi di comunicazione”. È stata quindi un’“iniziativa [...] per meglio
comprendere senza giudicare”.
2. Visitatori stranieri
Pochi stranieri hanno visto la mostra, magari conoscendo davvero la
fuga e la clandestinità e rivivendo così storie e difficoltà personali: “sono ritornato al passato, sono un ‘ex straniero’ [...], quante volte ho tremato allo scadere del permesso di soggiorno!”. Ci sono state riflessioni
più dure: “bisogna creare una legge giusta [...] per tutti coloro che vogliono – o devono – partire e venire liberamente a vivere, lavorare e
confrontarsi in un paese così bello e così brutto come l’Italia”. Infine,
un messaggio di speranza: “grazie alla Colombia che mi ha visto nascere, all’Italia che mi ha visto passare e al Canada che mi lascerà vivere!”.
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Vedi nota precedente.
Occasioni di lettura
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3. Le emozioni suscitate dal percorso interattivo
Il coinvolgimento emotivo è risultato davvero forte e molti hanno
espresso “lo sconforto per una situazione senza via di uscita”; “spesso –
scrivono altri – ho avuto le lacrime agli occhi per chi ancora non comprendere”. La forza dei sentimenti è quella “dei momenti che restano
impressi nella mente come un nome tra milioni di altri”, ma per alcuni
è una forza eccessiva: “ho sentito paura e solitudine e non sono ancora
rientrata nella mia vita vera”. Ma le emozioni possono essere “catartiche”: “se le informazioni sul mondo passassero attraverso le emozioni,
tutti si impegnerebbero con tutti”.
4. Proposte per migliorare la mostra
Abbiamo trovato anche suggerimenti per migliorare il “viaggio”, in
prospettiva di allestimenti futuri, magari itineranti. Ecco poi alcune osservazioni: “forse occorreva più tempo per leggere i pannelli attaccati
alle pareti”, “rendete ugualmente complesse e lunghe le storie, più che
il numero di tappe [...], o fate in modo che chi vuole possa scegliere una
storia più difficile”. C’è chi ha chiesto maggiore realismo, per facilitare
il processo d’immedesimazione e chi ha obiettato: “non si riesce a trasmettere al visitatore cosa significa non comprendere la lingua delle
forze di polizia”.
5. Critiche e suggerimenti
Le disapprovazioni sono dovute alla difficoltà di capire l’esperienza
o alle attese personali: “bella documentazione d’ufficio” – si legge –,
“bene lo spirito dell’iniziativa, l’esecuzione è goliardica”. Hanno rimarcato il poco realismo: “[...] possibile che divento clandestino e finisce il
percorso? Lì iniziano i guai!”, “non portate i ragazzi alla mostra, ma alla
stazione Termini”. Sono stati notati “un appiattimento sugli aspetti
dell’arrivo e dell’inserimento a Roma” e l’assenza “di approfondimento
sulle condizioni all’origine e sul viaggio in clandestinità [...]”.
6. Superamento di stereotipi in tema d’intercultura
Questo spunto è fondamentale; infatti, nonostante le campagne di
informazione e di sensibilizzazione, resistono tanti luoghi comuni sulla
realtà multirazziale e sull’intercultura e dietro essi si celano, talora inconsapevolmente, pregiudizi veri e propri. A far enucleare questo titolo
è stata l’onorevole Livia Turco, che ha scritto: “è importante informare,
ma esiste il rischio di abbattere degli stereotipi per costruirne altri, magari opposti”, un’insegnante ha detto: “spero che i miei alunni, pieni di
luoghi comuni e di pregiudizi, abbiano capito con questa mostra la dinamicità della vita degli altri”.
7. Frasi, citazioni, battute significative
Molte espressioni recuperano istanze solidaristiche: “so quanto è
grande la voglia di espatriare per noi”, “non tutti sanno, non tutti conoscono: siamo cittadini del mondo?”, “se fossimo una volta ‘profughi’ il
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Capitolo II
mondo sarebbe un po’ migliore”, “pensavo a quanto la vita fosse tragica, dura, difficile, non avevo pensato che fosse triste”, “questa mostra è
un granello di sabbia, il deserto di paura e dolore che resta addosso
[...]”. Un invito: “[...] battiti [...], lo spazio antagonista non lo sottovalutare, terreno fertile da coltivare”. Infine: “ne sono successe di tutti i colori... non è spuntato l’arcobaleno!”.
8. La “poesia” di Solo andata
Le emozioni hanno parlato anche con versi e scritti di altri autori:
quando mondi lontani/ci frugano nei sogni/e nel cuore/allora siamo pronti/ad
andare lontano/scavalcando i nostri stessi sogni/e i confini del cuore”, “considerando l’apertura alare e la frequenza del battito delle ali, rapportate al peso, è
scientificamente provato che un coleottero non può volare. Vola perché non lo
sa. L’uccello libero non vola”, “a te, amore, pulserà il cuore umano nel mondo e
saranno riverberi di gioia”, “la fiducia è l’uccello che canta quando la notte è ancora buia” (Tagore).
9. Entusiasmo ed elogi per l’esperienza vissuta
Le approvazioni sono entusiastiche: “speriamo che iniziative simili
producano più benefici di tante chiacchiere a sproposito”, “è stata un’
occasione per liberare ognuno dalle ipocrisie e dai pregiudizi”, “la mostra è tanto speciale che ho capito veramente chi sono”, “una mostra
nuova dove posso creare io e non sono vittima della scelta della mia
prof.”, “dovrebbe essere motivo di dibattito in Parlamento [...]”. Infine:
“[...] è stato uno stimolo a conoscere meglio tutto ciò che non è Italia”,
“grazie per questo indimenticabile ‘viaggio umano’. Dovrebbe diventare
una mostra per un’educazione permanente”.
10. La mostra come percorso educativo e catartico
Molti hanno percorso un cammino di miglioramento interiore, sentendo di subire una “metamorfosi”: “Grazie per non averci fatto uscire
uguali a quando siamo entrati”, “spero che la mostra cambi la popolazione di Roma e di altre città”, “scopo del ‘viaggio’: l’educazione all’amore del prossimo”, “mi auguro sia visitata da chi crede l’Italia circondata da barriere di solo pensiero e parole”. Il percorso aiuta poi a valorizzare la propria vita: “per conoscere e apprezzare i nostri diritti acquisiti”, infine: “un’altra verifica che la scuola deve cambiare metodologia
per approcciare problemi simili”.
11. Incontrare gli altri diversi da noi
C’è stato un processo di decentramento che ha fatto accogliere l’altro: “la mostra, un modo, un tentativo di vivere come altre persone, che
vedo in giro con gli sguardi bui. Ogni tanto provo a parlarci, ma solo
quando chiedo del loro Paese gli sguardi si accendono”, “saper vivere,
ma soprattutto convivere: la mostra è stata un’esperienza per ampliare
l’idea di multiculturalità, “questa mostra dovrebbe essere visitata anche
Occasioni di lettura
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dai razzisti, perché è facile non accettare chi è diverso, ma è difficile
non sentirsi accettato [...]. Chi non viene accettato non accetterà mai”.
12. Da me a te, da noi a voi: decentrarsi dall’ego-centrismo
Mettersi nei panni del prossimo: un esercizio che aiuta a comprendere, scostandosi dall’io egoistico e dal noi occidentalistico per accogliere l’altro, il tu e il voi. Diciamolo con le parole dei Quaderni: “credo
che la mostra faccia capire che non esistiamo solo noi”, “è stato un contributo alla comprensione dei problemi dell’altro”, “è impossibile non
immedesimarsi e per una volta ci si sente dall’altra parte”; anche se non
è facile, “ci libera dal difetto di giudicare senza sapere”.
13. Solidarietà ingannevole?
Non sempre c’è stata consapevolezza e sensibilità verso alla mostra
e il suo valore: “[...] forse l’Italia non è il posto giusto per loro, ma ce ne
sarà uno sparso per il mondo!”, “forse l’unico rimedio per l’immigrato è
restare nel suo Paese con i problemi che ci sono, ma con le sue tradizioni, liberi di pensare”, “la mostra è stata divertente, ma questa è la dura
realtà e dobbiamo accettarla”, “bella mostra, illumina sul ‘mito dell’occidente’, visto da chi non può raggiungerlo!”, “chi ha pregiudizi non è
venuto e se ne sta a casa”. Infine, secondo alcuni, “a volte l’immagine
dell’immigrato è rappresentata troppo positivamente”.
14. Nei panni di uno straniero
Alcuni si sono sentiti dentro la storia umana del personaggio: “porterò con me Lorena, mi aiuterà nel lavoro come una compagna disperata, bella, concreta, ridatemi casa, lavoro e il piacere di vivere (Rachid)”.
Altri chiedono: “come fa lo straniero a compilare domande in italiano
appena arrivato? Bisogna aiutarlo”. E le affinità col personaggio? “Ho
scelto Khalid perché fa parte del partito MQM, è un uomo che lotta per i
diritti [...], “ho impersonato Fatos perché noi italiani proviamo repulsione per chi dovrebbe essere nostro vicino di casa. Se non accogliamo
loro come possiamo accettare culture diverse, che bisogna sforzarsi di
capire?”.
15. Il lontano così vicino
Questo “filone” si ispira a un messaggio: “la mostra è utile per sentire come il lontano sia vicino”. In effetti, le distanze tra persone sono
quelle che ci creiamo dentro e la speranza è che “la mostra serva a far
capire che la diversità rende gli uomini uguali”, e poi: “quanto ci vuole
poco per condividere i ruoli degli altri! Eppure siamo così chiusi in noi
stessi e così lontani dal capire la realtà altrui!”, “quello che ho vissuto
continuerà a esserci finché non si capirà che siamo tutti uguali e che
dobbiamo aprirci uno all’altro”.
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Capitolo II
16. Solo andata: tra realtà e finzione
Il “viaggio” virtuale mostra la distanza tra realtà e gioco di ruolo:
“un confronto tra realtà [...] e fine del percorso-finzione, dopo il quale
si torna alla tranquillità della propria vita”, i visitatori: “possono dire
quel che vogliamo, tanto la prigione, gli interrogatori e il resto durano
solo pochi minuti”. Altri dicono: “la realtà supera l’immaginazione?
Non credo. Però le mie lacrime sono vere”. Ma immedesimarsi è istruttivo: “sappiamo tutto sulla sofferenza, la paura, la guerra. Tv, giornali,
radio dicono tutto [...]. Ma non sappiamo nulla prima di vivere le esperienze sulla nostra pelle!”.
17. Immedesimarsi negli attori della mostra
Gli “attori” sono gli operatori che hanno impersonato agenti, doganieri e funzionari, ricevendo elogi per la loro credibilità: “siete bravissimi, ma secondo me siete tutti un po’ cattivelli”, “cambiate il controllore alla dogana. È terribile”, “il ragazzo di colore prima del campo rifugiati è uno spasso”, “gli animatori sono molto convincenti e anche terrorizzanti [...]”, “gli attori sono coinvolgenti e anche la mostra”. Tante
lodi anche per la “bella” poliziotta all’ingresso. Molti sono stati toccati
dall’esperienza della questura e del carcere, altri hanno lamentato di
non essere stati imprigionati.
18. “Grazie” alla mostra e agli organizzatori
Sola andata è piaciuta per la sua originalità, ma i meriti sono anche
degli operatori, dei promotori e del CIES: “mi avete fatto capire quale
realtà vivono gli stranieri”, “bravi, siete stati quasi tutti particolarmente
antipatici, soprattutto il ‘simpaticone’ dell’aereoporto! Comunque, è un
viaggio interessante per qualche razzista [...]”. Complimenti al CIES: “ha
organizzato un’iniziativa che mi ha fatto capire quanto sono fortunato
ad avere lavoro e a essere italiano”, “formidabili gli attori della questura”, “quando ci arrestate, evitate gli sguardi acidi, che noi non siamo
immigrati!”.
19. Imparare giocando: l’aspetto ludico della mostra
Il divertimento si è unito al valore di un gioco accrescitivo e didattico: “giocare aiuta sempre a crescere”, “forse noi occidentali non siamo
moralmente attrezzati a giocarci, in tutte le sue fasi e con le sue regole
difficili”, “un’esperienza così vera nel suo essere gioco”. Però si rischiava che i giovani sottovalutassero il problema: “attenzione che i ragazzi
non vivano troppo come gioco la mostra e non capiscano del tutto il
problema [...]”, “l’esperienza è stata bellissima [...], ma è presa troppo
per gioco e molti non capiscono davvero i problemi di questa gente”.
20. Il valore culturale, etico, sociale, politico della mostra
La mostra ha avuto una dimensione “polisemica”, culturale, morale,
sociale, politica (relativa ai doveri dei governanti): “secondo me questa
esperienza può avere valore politico [...] e il senso di un rivoluziona-
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mento culturale”, “ho conosciuto l’occidente, la sua miopia. La sua desolazione: l’Italia è bella solo in tv”, “esistono esperienze che pongono
interrogativi sulla propria consapevolezza sociale, questa è una di quelle!”, “ora apprezzo di più un valore che troppo spesso do’ per scontato:
la libertà”, infine: “se appartenere alla società civile vuol dire sentirsi
superiori, allora noi siamo selvagge”.
b. Indice ragionato delle idee ricorrenti nei Quaderni
In questo indice non è segnata la frequenza delle “idee”, poiché le
pagine dei quaderni non sono numerate. Le parole “chiave” sono state
ripescate da un contenitore grande9 – i quaderni appunto – dentro cui
sono confluite indistintamente sensazioni forti dettate ora dalla mostra
in generale, ora dalla esperienza del gioco di ruolo, ora dalla storia del
personaggio interpretato, ora dalla realtà multirazziale dei nostri giorni
e dalla difficile convivenza con gli extracomunitari, ora, infine, dall’organizzazione di Sola andata e dall’abilità di tutti gli operatori.
Lo abbiamo chiamato Indice ragionato, perché molti termini sono
spiegati secondo l’uso fattone dai visitatori.
Servendoci dei vocaboli indicizzati come tasselli di un puzzle potremmo costruire uno e più discorsi sui problemi illustrati dalla mostra.
Ma il nostro discorso lo hanno già scritto le migliaia di “viaggiatori” avvicendatisi nel percorso – poco meno di 38.000 le presenze, tra studenti di ogni ordine e grado, docenti, adulti e genitori –, percorso che non è
stato di “sola andata” ma ha avuto un “ritorno” di emozioni, riflessioni
e perfino di responsabilizzazione e coscientizzazione, come questo Indice da solo basterebbe a evidenziare.
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ABBANDONO:10 senso di abbandono provato durante il percorso,
ACCOGLIERE: importanza dell’accoglienza verso lo straniero,
CAMBIAMENTO della gente: obiettivo favorito dalla mostra,
COLPEVOLEZZA degli uomini verso gli stranieri,
CONFUSIONE MENTALE: in cui si trovano gli stranieri,
CRESCERE: accogliere gli altri è un’esperienza accrescitiva,
DEMOCRAZIA: la mostra insegna che non esiste,
DIRITTI ACQUISITI: la mostra li fa apprezzare di più,
EMPATIA: la mostra favorisce il processo di empatia,
9 I messaggi dei visitatori hanno riempito 12 quaderni, e per l’esattezza: Q1 (Q =
Quaderno): dal 29/10 al 30/11 1997; Q2: dal 1 al 20/12 1997; Q3: dal 21/12 1997 al
23/1 1998; Q4: dal 24/1 al 3/2; Q5: dal 4 al 14/2; Q6: dal 14 al 28/2; Q7: dal 29/2 al
12/3; Q8: dal 13 al 18/3; Q9: dal 19 al 29/3; Q10: dal 30/3 al 10/4; Q11: dal 14 al
23/4; Q12: dal 24 al 30/4 (quaderno compilato per metà).
10 Le “idee ricorrenti” sono state desunte dalle frasi dei quaderni, alcune delle
quali riportate nelle pagine precedenti. L’indice alfabetico costituisce anche il materiale genetico del lavoro sui filoni tematici ed è servito come griglia di controllo per
l’analisi e la sintesi critica. Qui riportiamo solo alcune tra le principali “voci” trovate
(vedi nota 1), privilegiando la parola “mostra”, molto usata nei quaderni.
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Capitolo II
– ESSERE ALLA MERCÈ DEGLI ALTRI: condizione dello straniero,
– “EX COMUNITARI”: sta per extracomunitario, sembra indicare chi non
appartiene più a una comunità, vivendo una condizione in cui non è
riconosciuto neppure come uomo,
– IDENTITÀ: concetto ampliato dalla mostra,
– IMPATTI DOLOROSI: per arrivare alla verità delle situazioni,
– INGANNO: è la vita di cui è vittima lo straniero,
– INGIUSTIZIA: sensazione suscitata dalla mostra,
– IPOCRISIA: nei rapporti interpersonali,
– LETARGO: in cui è sprofondata l’italia,
– LONTANO: il lontano che invece ci è molto vicino,
– “MI SONO MIMETIZZATO MOLTO”: per dire “mi sono immedesimato”,
come se durante la mostra non si volesse esser riconosciuti,
– MONDIALITÀ: un valore a cui aspirare,
– (la) MOSTRA: definizioni e attributi riferiti a essa:11 ANGOSCIANTE, APPASSIONANTE, “APRE I NOSTRI OCCHI CHIUSI DI EUROPEI”, AVVENTURA
(commovente, convincente, costruttiva, creativa, cruda, distruttiva,
diversa, divertente, dolorosa, educativa, emozionante, fuori dal comune, negativa), EDUCAZIONE PERMANENTE: è una mostra per l’ed.
permanente, esperienza: (che confonde, che rapisce, entusiasmante,
esperienza di vita, “esperienza extracomunitaria”, faticosa, formativa, frenetica, incuriosisce, insolita, istruttiva, liberatoria, profonda,
senza confini, superlativa, triste, traumatica, un po’ terroristica, veramente vera), GIOCO (bellissimo, gioco di ruolo, gioco per i visitatori
e non per gli stranieri, gioco serio), GITA, GRANDIOSA, IMMEDESIMAZIONE e IMMEDESIMAZIONE VIRTUALE: fa entrare nella vita di un immigrato, IMPARARE GIOCANDO, IMPEGNATIVA, INIZIATIVA SOCIALMENTE UTILE, “INSEGNATIVA”, INSIGNIFICANTE, INSIPIDA, INTERAZIONE tra persone,
“INTERLOCUZIONE INTERCULTURALE”, INUTILE, LAVORO SULLE EMOZIONI,
LEZIONE SULL’INTERCULTURALITÀ, MAGICA, MEDICINA UNIVERSALE CONTRO LA DISCRIMINAZIONE, MERAVIGLIOSA, MOSTRUOSA, NON ISTRUTTIVA,
OCCASIONE DI RISPETTO, PERCORSO (vedi viaggio): angosciante, brutto,
destabilizzante, efficace, esplicativo, “ideale” – rispetto alla realtà,
“reale” – quello dello straniero, sconfortante), PROGRAMMA CULTURALE, RICCHEZZA DI INFORMAZIONI, RIFLESSIONE: favorita dalla mostra,
SCIOCCANTE, SCONVOLGENTE, SCOPERTA DI CULTURE “ALTRE”, TEATRO: la
mostra come modo giusto di vivere il teatro e la rappresentazione,
UTILE, VELOCE, VIAGGIO (cfr. anche PERCORSO): (appassionante, avventuroso, avvincente, bello, breve, “coinciso” e concreto, “con un ritorno”, corto, crudele, diverso, duro, faticoso, illuminante, intelligentissimo, interattivo, magico, monotono, viaggio nel buio, realistico,
troppo facile, viaggio umano),
11 Il termine “mostra” ha uno spazio ampio, occupato da definizioni e attributi a
essa riferiti e collocati in ordine alfabetico ma cumulativamente. I sinonimi della voce più ricorrenti sono in grassetto, seguiti dalle loro qualificazioni specifiche tra parentesi. Dopo “mostra”, l’elenco riprende l’ordine letterale generale.
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MURO: innalzatosi nella società contro il diverso,
OCCHI DELLA COMPRENSIONE: con cui guardare all’altro,
PACE: come esigenza degli uomini,
“QUASI INDESIDERATO”: sensazione che la mostra rende bene,
RABBIA: per non poter cambiare la realtà degli immigrati,
RISPETTO: valore a cui educa la mostra,
SERENITÀ: condizione che cercano gli emigrati,
SMARRIMENTO: “non so più chi sono, dove sono, mi sono persa”,
SOCIETÀ INTERETNICA: quella a cui dovremmo avviarci,
SOCIETÀ MULTIETNICA: quella a cui si deve educare,
SOLITUDINE: condizione degli emigranti,
STRANIERO “SCANZATO”: condizione di alcuni stranieri,
“TERRA PROMESSA”: la meta ideale degli immigrati,
TRADIZIONI: quelle di cui l’emigrante sente la mancanza,
UMILTÀ: condizione che la mostra fa vivere,
VERGOGNA: provata dai visitatori come dagli immigrati,
“VIA CRUCIS DEL 2000” : la storia degli stranieri,
“VIAGGIATORI DELLA SPERANZA”: definizione di extracomunitari,
VOGLIA DI PIANGERE: bisogno attribuito agli immigrati.
4. Un “Makarenko” a Casal del Marmo12
(20 marzo 2002)
La prima cosa che ti viene da pensare, leggendo questo Verba manent ’99. La Città Invisibile dell’International Acting Society, è Makarenko: l’Anton S. Makarenko del Poema pedagogico. Poi ci rifletti, e
certamente trovi le differenze…
Verba manent ’99. La Città Invisibile. Un testo collettivo di una trentina di pagine, con informazioni “storiche”, spunti teorici, testimonianze, indicazioni pedagogiche, meglio antipedagogiche, di tutto rispetto.
Il racconto di un Progetto educativo realizzato in collaborazione con
l’Istituto penale per minorenni di Roma “Casal del Marmo”/Direttore
M. Laura Grifoni e con il Comune di Roma/Dip. XI – Politiche educative e formative; direzione artistica, Giorgio Spaziani; collaboratrice al
Progetto, Francesca Sinatra; coordinatori del Progetto per l’Istituto,
Roberta Petraroli e Crisanto Crisanti; foto ed elaborazioni video, Alessandro Di Gregorio; produzione esecutiva, Emanuela Giovannini.
Per analogia e per differenza, cioè, ti tornano in mente quelle indimenticabili pagine makarenkiane sul teatro, dove i ragazzi della Colonia di rieducazione M. Gor’kij, nell’Ucraina degli anni Venti, inventando se stessi, reinventavano un po’ tutto il Mondo. Non solo il loro. Fino
ad andare “alla conquista del Komsomol”. Della Politica. Il che non era,
12 Già in N. SICILIANI DE CUMIS, I bambini di Makarenko. Il Poema pedagogico
come “romanzo d’infanzia”, ETS, Pisa 2000, pp. 179-185. Variamente pubblicato in
rivista e in Internet.
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Capitolo II
semplicemente, Teatro. Era stato invece, in quel contesto, la vita “adesso”. La vita rivoluzionaria “istruzioni per l’uso”. La “vita della vita”, se
così si può dire, come supposizione progetto genesi gioco formazione
costruzione lavoro innovazione rischio “scoppio” responsabilità/corresponsabilità controllo tradizione risultato prospettiva ipotesi di nuove
ipotesi… Stile. Stile di vita umana. E lì per lì, in funzione della vita, “accumulazione originaria della pedagogia socialista”. Vita collettiva. Anche nel senso che la prima e l’ultima parola ce la aveva proprio lei, la
Vita Insieme. Una libertà-Libertà. Contesto e valori (pro tempore) “comunisti”.
Ciononostante, una Ricerca. Più Ricerche. Tutto risolto, tutto da risolvere. Economicamente, culturalmente, ideologicamente, esteticamente, educativamente, sentimentalmente. Dialetticamente insomma.
Una filosofia degli ossimori. Niente di più sicuro, niente di più aleatorio. Quella delicata “vita nova novissima” da Grande Laboratorio, che
doveva pur nutrirsi di Vera Sperimentazione. Che andava quindi coltivata, protetta, fatta crescere, prospettata, additata ad esempio. Vita del
Progetto-Uomini-Tutti-e-Ciascuno. Vita della Prospettiva in view. Vita
dell’“Uomo nuovo”, che prova e riprova se stesso per reinventarsi di sana pianta. La vita “Radice-Labirinto”. E, diciamo pure, l’invisibile vita
di un visibile “Dover essere”. La messa in forma (una splendida Forma)
di un handicap morale-sociale-globale. Di un handicap totale, che mediante il Teatro (ma non solo) si rimuoveva proceduralmenete dall’interno, promuovendosi a trasparente, pervasiva risorsa umana. Una Risorsa Educativa per il “qui” della Colonia e per il “lì” del Mondo. Il “positivo” del “negativo”. E tuttavia: la udibile odorosa degustabile palpabile vita della città-Città, che nessuno aveva mai visto ma che tutti riconoscevano, come Città di un probabile Sesto Senso. Città minuscolaMaiuscola. La Vita, insomma della Città Invisibile. La vita “Altra”, che
non vuole essere “venduta” ma veduta. Giacché la Visione dell’Invisibile, disubbidiente com’era all’“io-ti-do-se-tu-mi-dai”, arrivava metodologicamente alla Padronanza del “Sé”, fino al punto, forse, di regalarti
un Leonardo (occhio ai contenuti!) praticamente senza “prezzo”. E senza dolo.
Nessuna meraviglia, quindi, se Giorgio Spaziani autobiograficamente (meglio forse autobiologicamente) dichiara:
Le persone e le realtà con le quali mi sono confrontato mi hanno portato a
dover rimettere in discussione me stesso e la mia idea di spettacolo, accompagnando il mio stupore nella ricerca di un nuovo modo di far valere i contenuti
più delle forme, di dare voce alle storie di questi ragazzi. Storie dure per le loro
giovani spalle, che segnano i corpi e i visi. In un certo senso con questo spettacolo mi sembra di aver per un attimo fermato il tempo, aver colto un frammento
di realtà che altrimenti sarebbe andato perduto.
I contenuti più delle forme. Sì, un Makarenko a Casal del Marmo/
Città Invisibile… Un “Makarenko” tra virgolette, s’intende, un po’ con,
Occasioni di lettura
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un po’ senza Makarenko. Un Makarenko decontestualizzato. Ma degno,
comunque, di una sincera attenzione.
Continua Spaziani:
La città invisibile come l’isola che non c’è, forse in questa esperienza è potuta per un attimo riemergere dall’oblio collettivo. In un luogo dove si depositano,
in attesa di venire ritirate, persone e storie che la coscienza collettiva preferisce
dimenticare, abbiamo voluto riaffermare la nostra vitalità, la nostra fantasia, la
nostra voglia di vivere e la nostra abilità nel sopravvivere. Non posso dire che
sia stato un lavoro facile, a volte bisognava assecondare e comprendere gli umori, altre volte contrastare lo sconforto o la stanchezza, ma sempre abbiamo continuato a raccontarci storie, che adesso sono a conoscenza di tutti.
Ti viene davvero in mente quella volta che nel Poema pedagogico,
in uno dei primi capitoli, Makarenko…
Nicola Siciliani de Cumis
Allegati
(liberamente tratti da Verba manent ’99. La Città Invisibile)
Una regia a Casal del Marmo
È difficile parlare di questo mio anno a Casal del Marmo.
Un anno in cui mi sono trovato a lavorare in modo totalmente diverso e nuovo rispetto a quanto finora avevo potuto sperimentare. […]
Il primo laboratorio si è svolto da ottobre a gennaio ed era centrato
sulla favola di Pinocchio. Questa favola ha offerto spunti per una profonda discussione e riflessione sulla differenza tra il bene e il male, e
sulla loro definizione.
Non abbiamo saputo trovare risposte esaustive, e questo interrogativo è diventato l’elemento determinante dello spettacolo, che si concludeva proprio con l’invito agli spettatori a darne delle loro.
È stato l’allestimento più faticoso e complicato della mia vita; volendo
citare una delle difficoltà, il cast del Pinocchio è variato continuamente,
fino a un giorno prima del debutto, quando mi trovai con un nuovo Mangiafuoco, un nuovo Lucignolo, un nuovo Grillo e una nuova Fata Turchina.
Ma come per questo allestimento è stata importante e utile la riflessione scaturita dal suo farsi più del risultato artistico. Durante la seconda parte di questo laboratorio la discussione si è spostata sui ragazzi
stessi. Mettendosi in gioco, raccontandosi e raccontando storie sono
diventati gli autori oltre che gli attori di questo spettacolo.
Uno spettacolo che fonda la sua ragion d’essere ancora una volta sul
percorso compiuto più che sull’esito finale. Nasce così la “Città Invisibile”, la città di questi ragazzi, facilmente omologabili ma nello stesso
tempo indefinibili, belli e brutti, puri, semplici, diretti, contorti e bugiardi, volgari e poetici, ma tutti a loro modo amabili.
Capitolo II
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E io non ho fatto altro che dar loro modo di avere una voce.
Giorgio Spaziani
[Pinocchio]
Durante la preparazione di Pinocchio, il primo spettacolo del laboratorio che si è svolto da ottobre a gennaio, pensando al fatto che la caratteristica di Pinocchio è di non saper distinguere il bene dal male, ci
interrogavamo su quale fosse questa differenza. Dopo alcuni incontri
siamo arrivati a questa definizione, condivisa dalla quasi totalità dei
frequentatori del corso:
il male è quando ti danno un cazzotto
il bene è quando lo dai.
Da allora i curatori del corso, Giorgio Spaziani e Francesca Sinatra,
portarono avanti questo interrogativo, per stimolare delle discussioni
su questa tesi. Quasi tutti i partecipanti sono cambiati, chi ha finito la
pena e chi è stato trasferito, il dibattito è ancora in corso con nuovi partecipanti.
Racconto slavo
Una volta i Zingari e Serbi costruirono due chiese. I Serbi di formaggio, i Zingari di pietra. Quando finiscono di costruire le due chiese
vogliono fare lo scambio, e allora i Zingari si prendono quella di formaggio. Però volevano dai Serbi per quella di pietra 5 soldi, per fare la
bilancia. E i Serbi si mettono a cercare i soldi, mentre i Zingari si mangiano la chiesa di formaggio. Quando i Zingari finirono di mangiare la chiesa
chiedono ai Serbi 5 soldi, ma quelli non ce l’avevano. Per questo i Zingari
non hanno una chiesa e i Serbi devono dare l’elemosina ai Zingari.
Sarajevo
Quando ero piccolo a Sarajevo il mio paese, là sono cresciuto, poi ho
visto tante cose che facevano come facevano là poi quelli di collegio
[carcere minorile, n.d.r.] i ragazzini scappavano poi li ho visti a Stazione Termini così a un parco, e io ero colli amici, uno era pelato, vado da
lui e colla busta che si drogava e lui m’ha data una pizza e siamo scappati via. Siamo andati a centro, a centro siamo tornati, poi ero là alla
sala giochi, poi là giocavo billiardino tutto quanto. Poi sono cresciuto,
poi qualche volta andavo a Mostar, a Vares, Gorazd, e poi tornavo ancora a Sarajevo, poi quando c’ho avuto dodici anni sono venuto qua a Italia, poi invece io non volevo veni’. È la mia nonna che ha mandato a il
mio cugino per prendermi. È arrivato lui e m’ha detto “Andiamo” Io dico “No non voglio anda’, sto qua coll’amici, non voglio anda’ là”. Lui è
andato a casa, è venuto colla mia zia e mia zia mi piglia, mi pressa e
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portato via. Sono venuto a casa mi sono fatto la doccia tutto quanto, mi
hanno comprato le scarpe, i vestiti, tutto quanto. So’ sceso da macchina
e sono partito e sono venuto qua. Sono venuto qua a Italia, ho visto il
campo, quando sono entrato a campo, ho visto i’ campo no? Poi da
quello momento, come ho visto i’ campo ho fatto piangere. Dentro a baracca non mi muovevo, sempre piango, due o tre giorni sempre piangere, poi là ho finito, poi andavo co’ amici, un po’ a centro, e finito là.
L’International Acting Society
L’International Acting Society, nelle persone di Giorgina Cantalini,
Margarete Assmuth, Giorgio Spaziani, Emanuela Giovannini e Francesca Cantalini, è un’Associazione culturale nata con lo scopo di creare un
centro culturale e di aggregazione, che si occupi da una parte della formazione professionale dell’attore, dall’altra si impegna umanamente e
professionalmente in iniziative sociali, volte a stimolare la comunicazione e la fantasia, elementi necessari per coltivare le relazioni interpersonali.
Noi crediamo che il Teatro, inteso come evento umano e non formale o intellettuale, sia un luogo di conoscenza e di crescita e siamo convinti che approfondire la propria capacità di esprimersi aiuti ad acquistare fiducia in se stessi, arricchisca la personalità, riattivi la creatività,
e non possa che portare a una “consapevolezza” del vivere più vasta e
profonda.
Di qui la creazione di una scuola di teatro che si avvale delle metodiche di apprendimento della tradizione russo-americana, da Stanislavskij ai successori di Lee Strasberg, del metodo Feldenkrais e di un solido lavoro basato sulla Tradizione Italiana.
E il Progetto Verba Manent, di cui si riassume in questo volumetto
l’esperienza e lo spirito, che ci ha arricchito e emozionato, e da cui
prenderanno l’avvio altre iniziative di questo tipo, tra cui il Laboratorio
teatrale di “Regina Coeli” previsto per giugno.
I nostri ringraziamenti vanno alla Direzione di Casal del Marmo,
con la quale si è potuto creare un serio, profondo e amichevole rapporto
di scambio, agli educatori, che con professionalità puntuale e impegno
ci hanno regalato la loro umanità, agli agenti, disponibili e attenti, a
padre Gaetano che ha alimentato con la sua serenità e franchezza lo
spirito di questa iniziativa, agli attori Paolino Blandano, Valerio Di Filippo, Gerardo Fiorenzano, Gianluca Musiu e Daniele Natali, che hanno
invogliato, con la loro performance, i ragazzi a partecipare al laboratorio, all’A.V. Ladri di Merendine, agli attori Giorgia Bilardi, Monica Carlone, Giulia Ficcadenti, Veronica Milaneschi, Stefania Runci, Lorenzo
Ait e Filippo Gabriele che hanno partecipato a La Città Invisibile, al
Comune di Roma e a tutti quelli che ci hanno dato fiducia e sostenuto
in questa avventura.
Grazie, sentitamente grazie.
98
Capitolo II
5. Pinocchio13
(13 luglio 2002)
Pinocchio, il burattino pedagogico: per i bambini, dalle scuole materne alle elementari, come percorso di conoscenza per crescere insieme, superando ogni paura e imparando dai propri errori, per i disabili,
come viaggio di comunicazione con lo spettatore che non solo può riconoscere la diversità negli altri, ma viverla dentro di sé semplicemente
perché coinvolto da una bella storia, Pinocchio per gli attori, come formazione di una personalità scenica, come necessità di raccontarsi in
una storia che sia un po’ quella di tutti noi. E poi viene da chiedersi:
perché proprio Pinocchio, perché non Alice nel paese delle meraviglie?
Forse perché il burattino è vicino a noi nel suo disagio, nel suo conflitto
tra giusto e ingiusto, nel suo essere “diverso” e nell’affermarsi poi come
individuo. Una “diversità” che oggi viene combattuta in tanti modi, uno
di questi è, appunto, il teatro.
Quest’anno è stato il Laboratorio teatrale integrato pilota Piero Gabrielli, diretto da Roberto Gandini, a cominciare l’itinerario nella fiaba
di Pinocchio: lo spettacolo Le nuove avventure di Pinocchio è, per i disabili del corso, un nuovo modo di comunicazione con l’altro, lo spettatore e il compagno di scena, la storia, che ha accompagnato la nostra
infanzia, permette di immedesimarci nell’eroe burattino, cogliere
l’impaccio dei suoi movimenti, ma anche la poesia e la leggerezza del
suo mondo fantastico, riuscendo alla fine a trovare quel luogo comune
in cui vengono espressi e compresi i sentimenti. Lo spettacolo s’ispira a
un ipotetico seguito del libro di Collodi e vede Pinocchio, diventato
bambino, tornare nuovamente burattino e affrontare altre divertenti e
fantastiche avventure. RaiSat Ragazzi ha seguito il lavoro di preparazione fino al debutto al Teatro Argentina – il maggio 2002 – per poi introdurre nell’immaginario televisivo il racconto di quest’esperienza, attraverso una crescita comune che non è solo l’avventura del burattino,
ma soprattutto “l’avventura dell’integrazione”.
Pinocchio diventa scuola anche per gli attori: L’Accademia nazionale Silvio D’Amico, in collaborazione con l’ETI, ha concluso a giugno il
secondo anno con il saggio Viaggio nella storia di Pinocchio, per la regia e drammaturgia di Maria Brigida Cuscona. Una versione quasi integrale che ha trattenuto gli spettatori per quasi quattr’ore nel Teatro Valle, un allestimento a più livelli, che racconta, parallelamente alle avventure del burattino, la biografia dell’autore Carlo Lorenzini-Collodi in un
eccellente affresco dell’epoca risorgimentale. Altri due strati si aggiungono al già ricco spettacolo: una sottile polemica con il nazismo, denunciando l’atroce realtà dei campi di concentramento, rappresentati
nella favola dal “Paese dei balocchi”, dove si reclutano i bambini che
diventeranno somari-schiavi, e una costante dichiarazione ideologica
13 Testo di un “appunto promemoria” per Ilaria Testoni, collaboratrice della rivista Teatri della diversità, pubblicato nel numero di dicembre 2002, pp. 31-32.
Occasioni di lettura
99
della regista che provoca, talvolta, negli attori un curioso effetto di straniamento brechtiano.
Ed ecco che Pinocchio finisce anche tra i banchi di scuola per insegnare ai bambini quanto sia importante un’autonoma crescita spirituale, quanto necessaria la conquista della libertà, ma fondamentale l’essere guidati nell’istruzione da qualcuno che “sa”.
Il grillo parlante della favola dirà: “Guai ai bambini capricciosi che
abbandonano la casa paterna per rincorrere le farfalle!”.
Una maestra, ora in pensione, insegnante nella scuola elementare
“Montessori” di Villa Paganini, offre una ricca testimonianza di questa
esperienza didattica: è Carmela Albarano, ancora un punto di riferimento per molti dei suoi ex-allievi, la maestra che ha utilizzato il teatro
come mezzo didattico per educare e contribuire a costruire una personalità equilibrata. In quest’esperienza si colloca la drammaturgia delle
Avventure di Pinocchio che Carmela ha preparato insieme ai suoi alunni nel quinquennio 1983-87. Il teatro educativo, quindi, come forma di
prevenzione, perché – come dice la maestra – “con un’adeguata formazione, attraverso la gioia di vivere, si possono evitare le strade sbagliate”. L’allestimento era incentrato su un continuo sdoppiarsi dei personaggi, che, se da un lato mostravano quello che erano nella favola,
dall’altro, “straniandosi” in modo brechtiano, spiegavano a quale tipo
della società si riferissero. Il progetto su Pinocchio e la sua realizzazione
ebbero notevole successo fino a ottenere un premio nel 1989 in occasione del “Compleanno di Pinocchio” a Collodi.
Ancora una volta Pinocchio è tornato protagonista, quest’estate a
Roma, al Fontanone del Gianicolo, con la compagnia della Scuola italiana di Tbilisi, un adattamento per il teatro di Raffaello Lavagna. Un
progetto promosso dall’Ambasciata della Georgia in Italia dall’ASSITEJ
(Association internationale théâtre enfance jeunesse) e dalla sua scuola
italiana, dall’ATIG (Associazione teatro infanzia gioventù). Sfruttando le
suggestioni del music-hall, lo spettacolo narra le avventure e le disavventure del burattino Pinocchio lasciando trasparire tutte le analogie
con tanti momenti della vita dei ragazzi di ogni tempo e di ogni età.
Già a febbraio, la Compagnia Il Pudore Bene in Vista, diretta da Fabrizio Crisafulli, ha allestito Battito, Naso, Lungo, un percorso, più che
uno spettacolo, di immagini e suoni ispirati alla figura di Pinocchio: luci e proiezioni in un itinerario di semioscurità, che permette di rivivere
immagini e simbologie legate alla storia del burattino. Non per raccontarla nuovamente, ma per creare, a partire da essa, vie ulteriori alla fantasia dello spettatore. Facendolo immergere in un’atmosfera fantastica
e visionaria, che ha come matrice poetica una favola entrata da tempo
nel nostro immaginario collettivo.
Sollecitato a confrontarsi con il mondo della marionette da parte
degli Accettella, storica e prestigiosa compagnia di teatro di figura, Crisafulli ha scelto un loro essenziale Pinocchio, quale fonte ispiratrice
dell’intervento. Il personaggio collodiano, viene da lui assunto quale
figura “altamente indiziaria”, come scriveva Giorgio Manganelli, gene-
100
Capitolo II
ratrice di “tracce, orme, indovinelli”, quale archetipo e materia viva,
che, nel contesto ritmico ed enigmatico creato dall’artista, diviene elemento propulsore di nuove visioni.
Dal 26 novembre al I dicembre 2002 il burattino sarà in scena al
Teatro “Ambra Jovinelli” con Le avventure di Pinocchio – ovvero bugie
musicali in una drammaturgia e regia di Italo Dall’Orto. Uno spettacolo
concerto che rispecchia infedelmente la storia di Pinocchio. Pur raccontando in sequenza i molti episodi, le canzoni filtrano tutta la vicenda
attraverso l’irriverenza del rock.
Mentre da febbraio 2003 la Compagnia della Rancia metterà in scena la storia del burattino in musical per la regia di Saverio Marconi e
musiche dei Pooh, in una nuova struttura di Milano, il “Teatro della
Luna”, accanto al Forum di Assago.
Per concludere, un omaggio doveroso al “Teatro della Tosse” di Genova, che dal 1994 al 1996 ha portato in giro per l’Italia Nel campo dei
miracoli o il sogno di Pinocchio, per la regia di Tonino Conte, scene e
costumi di Emanuele Luzzati. Un sogno, appunto, quello di un uomo
che, in una stanza disadorna, quasi beckettiana, improvvisamente viene
travolto da un’esplosione di colori, da innumerevoli illustrazioni, stilizzate e oleografiche, come a simboleggiare un rito d’iniziazione per un
burattino-bambino-uomo costretto a conciliare i suoi sogni e bisogni
con il mondo reale.
6. Letteratura russa in Italia. Un secolo di traduzioni14
(ottobre 2002)
Claudia Scandura, Letteratura russa in Italia. Un secolo di traduzioni,
Roma, Bulzoni, 2002, pp. 208, € 15.
L’autrice fa bene, nella Nota bibliografica,15 a spiegare nei seguenti
termini la genesi e le ragioni, i criteri e i confini del suo contributo:
La raccolta dei materiali di questa bibliografia ha avuto inizio nel 1996 un
po’ per soddisfare le richieste che mi venivano dagli studenti della mia pratica
universitaria (cosa leggere? In quale traduzione?), un po’ per rispondere ai quesiti dei redattori delle case editrici (esiste la traduzione del romanzo X? E
l’autore Y è stato mai tradotto?) che volevano segnalazioni o pareri. Mi ha ulteriormente spinto a sistematizzare i materiali che avevo via via raccolto, il desiderio di dare visibilità a traduttori, prefattori, spesso confinati sul retro di copertina […]. Col passare del tempo ho poi deciso di allargare i limiti temporali
che mi ero assegnata in un primo tempo e di comprendere nella mia rassegna
tutte le traduzioni pubblicate nel ‘900 (il nostro secolo? Il secolo scorso?), operando però una scelta sugli autori da includere, limitandomi ai letterati in senso
stretto ed escludendo scienziati, musicisti, pensatori, matematici, psicologi,
14
15
Dalla rivista Slavia, gennaio-marzo 2003, pp. 189-191.
Cfr. pp. 31-33.
Occasioni di lettura
101
uomini politici […]. Ho dovuto poi restringere in qualche modo il mio campo di
indagine, includendo solo le opere pubblicate in volume, e non quelle apparse
su riviste, il cui spoglio avrebbe comportato una ulteriore mole di lavoro […]. Di
ogni libro ho cercato di dare il maggior numero di informazioni possibili, e nella
stragrande maggioranza dei casi, ho controllato con i miei occhi indici, copertine, nomi di traduttori, curatori, autori di introduzioni e postfazioni.16
Eccetera.
Di contributi di questo tipo, e non solo relativamente alla letteratura, ma anche per qualsiasi altra materia disciplinare e interdisciplinare
oggetto storicamente di traduzione dal russo in italiano, ce ne vorrebbero certamente di più. E le singole rassegne, quando fossero state rese
note, sarebbero comunque meritevoli di recensione, di integrazione, di
sviluppo. Sembra nell’ordine di cose. Voglio dire, cioè, che – stando alla
quarta di copertina – se l’intenzione dell’opera è quella di rendere un
“utile servizio a quanti, specialisti o no, si interessino di letteratura russa e desiderino orientarsi nel panorama delle traduzioni italiane”, detta
intenzione non solo sarebbe opportuno estenderla ulteriormente, ma
sarebbe anche bene che si estendesse e approfondisse. A più livelli, come la stessa autrice prevede. Così, tanto per esemplificare: 1. Se il criterio prescelto17 è stato quello di costruire una bibliografia solo mediante
titoli di opere pubblicate in volume, rimane da oggi in avanti il problema di estendere la ricognizione pure alle riviste, agli atti di convegni,
agli annali di istituzioni accademiche, ai bollettini editoriali, alla memorialistica, ai giornali, al teatro, alla cinematografia, alle antologie
tematiche, all’editoria scolastica, alla radiofonia ecc. 2. Se l’obiettivo
voleva essere quello di evidenziare i rapporti tra la letteratura italiana e
quella russa18, sarebbe allora contestualmente necessario recuperare
anche una qualche “risposta” dialogica sul tema delle due culture (russa
e italiana): quante traduzioni e quali, non soltanto dal russo in italiano,
ma anche dall’italiano nel russo? Quando, dove, come e perché questo
testo è stato tradotto, quest’altro no? Quali le tendenze, quali le scelte
traduttorie nell’attuale congiuntura interculturale Russia-Italia? 3. Non
starei a vedere, quindi, se il numero di traduzioni di certe opere russe,
in lingua italiana, sia stato nel Novecento un esito quantitativamente
“difettoso”, “giusto” o “eccessivo”19: l’attività dei traduttori (quale e quanta possa essere stata) è comunque un dato storico immodificabile che,
indipendentemente da noi, va inteso nei suoi motivi e nei suoi effetti,
può servire, se mai, a fare qualche previsione, e, per il passato, vale solo
a spiegare non a contrastare o a favorire retrospettivamente il “dato”
dell’assenza o compresenza di traduzioni di questa o quell’opera (o parte di essa) e le ragioni della maggiore o minore fortuna di un autore.
Ibidem.
Cfr. p. 11.
18 Cfr. p. 12.
19 Cfr. pp. 28-30.
16
17
102
Capitolo II
In tal senso, davvero istruttivi potrebbero risultare, se considerati
più da presso, i curricula degli editori e dei traduttori, che intanto,
stando alle finalità più immediate del libro, risultano sottintesi negli
utili promemoria di Scandura (e negli indici redazionali del volume).
Così, tanto per fare solo qualche esempio: a p. 58, prendendo spunto da
Aleksander A. Bogdanov (Malinovskij) e dalle due traduzioni di Giovanni Mastroianni e di Giovanni Maniscalco Basile, questa curiosità: in
che rapporto reciproco, differenziale, stanno le due traduzioni del 1988
e 1989 di La stella rossa? A p. 121, presentando Anton S. Makarenko e
il Poema pedagogico (tradotto in italiano anche, nel 1985, da Saverio
Reggio, per i tipi delle edizioni Raduga, di Mosca), questa domanda:
quali le eventuali edizioni e traduzioni parziali del romanzo?… Curricula ed esempi, che anche da altri punti di vista confermerebbero la questione metodologica di principio, riassunta nell’esergo da Valerij Ja.
Brjusov, e che fa da epigrafe a tutto il libro: “trasferire la creazione di
un poeta da una lingua a un’altra, è impossibile, ma altrettanto impossibile è rinunciare a tale sogno”20. Che potrebbe voler dire, tra l’altro,
anche questo: un tentativo di ampliamento e di educazione della base
dei traduttori, prove di accesso ai laboratori del tradurre, formazione
moltiplicativa delle competenze relative alla traduzione, e insomma rischio pedagogico e fatica del ricominciare daccapo con rinnovato, meritorio, “furore bibliografico”.
7. Parole russe che s’incontrano in italiano21
(4 luglio 2004)
Giorgio Maria Nicolai, Dizionario delle parole russe che s’incontrano
in italiano, Roma, Bulzoni (“Biblioteca di Cultura”, 649), 2003, pp.
534, Є 30,00.
Il volume è frutto di un’esperienza più che ventennale della Russia
(e, prima, dell’URSS), della sua lingua e della sua cultura, dal punto di
vista dell’Italia, dell’italiano e dei suoi russismi. La materia oggetto di
indagine, mediante una sorta di filologia procedurale (una “filologia vivente”, direbbe Antonio Gramsci), viene quindi presentata nella forma
di un dizionario tendenzialmente enciclopedico, mediante illuminanti
ragionamenti e documentazioni tra cronaca e storia. Di particolare interesse, quindi, gli apparati tecnici sulla pronuncia delle parole russe,
sulle pubblicazioni, i nomi e i russismi citati. E le conclusioni della ricerca circa la tipologia dei vocaboli oggetto di analisi, la storia dei lemmi in larga parte di origine straniera, la complessa vicenda della loro
penetrazione nella dimensione culturale e linguistica nostrana. Il che
porta a ragionare sul fatto che “i russismi – come del resto tutti i fore 20
21
Ivi, p. 11.
Da Slavia, ottobre-dicembre 2004, pp. 18-24.
Occasioni di lettura
103
stierismi – riflettono cose e idee legate a culture diverse dalla nostra,
necessitano di adeguate nozioni sui loro referenti”22.
Di qui lo sforzo dell’autore di fornire non solo definizioni, ma anche
corredi informativi, spiegazioni storiche, chiarimenti etimologici, esplicitazioni delle fonti. Con il duplice obiettivo, davvero apprezzabile, da
un lato,
di mostrare le parole analizzate nella varietà dei contesti in cui si ritrovano, evidenziandone in tali modo il significato più autentico nelle sue diverse sfumature
e gli eventuali usi figurati, da un altro lato di dare sapore alla trattazione delle
voci, di guisa che questo dizionario possa essere oggetto non solo di consultazione ma anche di stimolante lettura, con la speranza che dall’evocazione di istituzioni, costumi, figure e vicende della storia e della cultura russa il lettore venga indotto ad accostarsi a essi con rinnovato interesse23.
In questo senso, un ulteriore livello dell’indagine, per il lettore coinvolto, potrebbe risultare proprio un confronto storico-critico dall’interno delle diverse tappe della ricerca di Nicolai nel suo insieme: dal
primo approccio storico-sociale alle parole russe, nel 1982, ai successivi
viaggi lessicali degli anni Novanta, ma con riferimento gradualmente
retrospettivo al Paese dei Soviet da Lenin a Gorbačëv e via via, indietro
nel tempo, ai viaggiatori italiani in Russia e a quelli russi in Italia.
8. Vita nel Parco24
(22 agosto 2005)
Mi limiterei a parlare anzitutto del titolo di questo Vita nel Parco di
Mariangela Bettini e di Marina Fichera, in relazione ai contenuti del testo e alle sue possibili utilizzazioni didattiche, anche a scuola (in scienze
naturali, storia, educazione civica, storia dell’arte ecc.), oppure come
libro di lettura, ovvero come utile strumento di ricerca.
Per questo comincerei col sottolineare l’importanza del fatto che,
nell’opera, le forme di “vita” del Parco nazionale della Sila, sono analizzate in un’ottica, che introduce sì a dimensioni biologiche, ecologiche,
naturalistiche, ambientalistiche peculiari, ma che tuttavia si alimenta di
dimensioni culturali anche più larghe.
Basti infatti pensare alla struttura redazionale di Vita nel Parco: al
succedersi delle stagioni, primavera-estate-autunno-inverno, che viene
a offrirsi come una sorta catalogo di opere d’arte sui generis, fatte di
paesaggi stagionali e di sculture arboree secolari, alla luce di ciò che è
naturale, storico, antropizzato, economico, culturale, ricreativo…
NICOLAI, op. cit., p. 14.
Ivi, pp. 14-15.
24 Da l’albatros, ottobre-dicembre 2006, pp. 198-117.
22
23
104
Capitolo II
Risultano quindi suggestive le descrizioni di taluni momenti “biografici” e “autobiografici” del Parco (una sorta di grande album di famiglia o immenso albero genealogico). E, come sottolinea Antonio Garcea
nella presentazione al volume, è significativo il tentativo di Bettini e Fichera di coniugare il progetto di valorizzazione e rivitalizzazione del
Parco, sia alle “schegge policrome di un vissuto dalle diverse proiezioni”, sia alla “passione nata con loro e costantemente vissuta tra le montagne della Silva calabrese” (pp. 8-9).
Vanno pertanto in questa direzione, da un lato lo sforzo di catalogazione (tutte quelle piante e fiori e funghi e animali, denominati scientificamente e quindi scansionati per fasce o biomi e biotopi particolari),
da un altro lato, lo standard di un’accattivante ed efficace divulgazione
(chiarezza del dettato, belle illustrazioni funzionali ai testi, opportune
reiterazioni, una certa complicità con il lettore).
Un approccio al Parco nazionale della Sila, insomma, che pur fondandosi essenzialmente sul concetto di biodiversità, trova le sue ragioni
anche in virtù delle bioanalogie. Nel senso che, alla luce del criterio di
ecocompatibilità, sarebbe essenziale ritrovare, così in Sila come nel resto del mondo, analoghe situazioni colturali e biologiche, analoghi contributi alla vita della Terra. Giacché in un mondo “globalizzato”, ma
sempre più piccolo ed ecologicamente assai disastrato, quello che succede nei boschi della Sila dipende da – e interferisce su – tutto il sistema…
Ma, per restare all’attualità del libro, è anche da notare come la vera
“vita” del Parco venga restituita con garbo e sensibilità nelle microstorie degli organismi viventi, nel vissuto di alberi, boschi, laghi, animali,
piante, fiori, funghi, e nella prospettiva dell’ulteriore rinnovarsi della
vita millenaria di luoghi, uomini, cose.
Si racconta allora dell’inconfondibile splendore di un albero, l’abete
bianco, “monumento vivente” (p. 38), e si favoleggia della bella e rara
rosa selvatica e del festoso biancospino, così utili in farmacopea (p.
40)… Ma è lo stesso Parco della Sila, nella sua irripetibile unitarietà e
organicità, e con le sue variabili localizzate e sorprendenti contraddizioni, a configurarsi come un “vero e proprio museo rigogliosamente in
vita” (p. 41).
Tanto le parti scritte quanto le fotografie di Vita nel Parco risultano
pertanto del tutto funzionali a esprimere le diverse facce del “silano”:
sia nel senso che la vitalità multimediale del libro viene a incidere positivamente sulla vivente realtà del Parco, sia nel senso che lo stesso Parco nazionale della Sila, in quanto tale, più che un deposito, viene a essere un vero e proprio laboratorio di cultura e intercultura, tendente a integrare l’opera arborea e quella umana, mediante attività ecologicamente produttive, esteticamente intriganti, moralmente elevate.
Ecco perché mi piace sottolineare l’elemento di straordinaria vitalità, che affiora da Vita nel Parco, e che approda nella singolare ibridazione di osservazioni scientifiche, negazione di luoghi comuni e spunti
affabulatori.
Occasioni di lettura
105
Straordinaria è, infatti, la forza vitale e l’eccezionale accrescimento
del pino laricio calabrese o pino silano, per la sua “possente vigoria e
incredibile resistenza” (p. 31). Portentosa, la vitalità che deriva dalla
“capacità fertilizzante” dell’ontano napoletano (p. 32). Imponenti, le
attestazioni di vita offerte dai “plurisecolari e maestosi esemplari di abete bianco e di faggio” (pp. 38-39).
Meravigliose poi, e altrettanto vitali, le spettacolari virtù dello scoiattolo della Sila, “vero e proprio protagonista tra le quinte del parco”, autore di affascinanti “performances con salti, corse, soste, in attesa di un
plauso”. Leggendarie, le controverse “note biografiche” del lupo, “vera
vedette del comprensorio, è lui che connota e si fa icona ufficiale del
Parco” (pp. 52-53). Quasi incredibili, le virtù salvifiche del “fungo tossico e velenoso, in quanto portatore anch’esso di qualificata funzione nella fitocenosi” (p. 49) e le vitali qualità della vipera, solo relativamente
pericolosa, ma ben altro che dannosa: “Nemica dell’uomo nel comune
collettivo, è al contrario una vera risorsa nel mantenimento degli equilibri del bosco, quindi al pari di tutte le altre specie da salvaguardare,
proteggere e non uccidere, perché oltremodo utile anche il suo veleno”
(p. 55).
Ma c’è dell’altro. Perché la straordinaria vitalità che più incide,
biologicamente, culturalmente, addirittura pedagogicamente, in Vita
nel Parco, è quella che deriva dalla stessa “antropizzazione” del paesaggio, dalla naturale capacità di farsi, esso stesso, Maestro di “pazienza e
sapienza, tenacia e rispetto, una somma di emozioni che uomo, casa e
territorio ancora trasmettono a chi della Sila vuole leggere l’anima”
(p. 78), tra le “incredibili sonorità” (p. 133) e i “falsi silenzi del Parco”
(p. 142).
Il paesaggio naturale: “pedagogo” e “filosofo”, a suo modo, di una
“filosofia del sicuro, del salutare, del riposante”, che sa farsi “sentiero
didattico” (p. 70) per chiunque voglia assimilarne l’inconfondibile lezione di vita. E si fa, nel Parco, “casa”, “chiesa”, “pinacoteca”, “architettura”, “scultura”, “museo” (pp. 81 sgg.), per quanti credono ancora nei
supremi valori di talune risorse elementarmente essenziali alla vita,
come l’acqua, l’aria, la terra, il fuoco, e il pane, le verdure, le carni, e le
mani che lavorano, il cuore che batte bene, il corpo che dà il meglio di
sé, la testa che funziona a puntino.
Una filosofia e una pedagogia “della vita”, questa del Professor Parco, i cui “imperativi” e “valori culturali profondi” sono, di volta in volta:
“conoscere, rispettare, tutelare, conservare e tramandare” (p. 69), “curiosità, novità, straordinarietà” (p. 82), il “plurimo” e il “suggestivo” (p.
87), il “camaleonticamente trasformista” (p. 125), l’“esuberante”, l’“intatto” e il “sorprendente” (p. 131), “la percezione sonora del silenzio, la
consistenza e il sapore della sua valenza” (p. 133), “l’andare lentamente” (p. 138) e “il brivido dell’esistere” (p. 139), e dunque “il gioco” tra
“divertimento” e “apprendimento” (p. 143), alla ricerca di “equilibri
perduti” (p. 149) e di “straordinarie consolazioni” (p. 157).
106
Capitolo II
Di qui in Vita nel Parco, a più livelli, i puntuali riferimenti al formarsi di una mentalità ambientalistica concettualmente e praticamente
accattivante. Una “filosofia della vita”, che tende a risolversi nelle “esperienze di sintesi che vengono offerte al visitatore quasi a surrogare
l’impossibile conoscenza di un tutto difficilmente raggiungibile […].
Oserei dire un viaggio nel viaggio” (A. Garcea, p. 9).
Un itinerario etico-estetico privilegiato del Parco nel Parco, cioè nel
primo grande Museo naturale fruibile con gratuità anche nel rituale giorno di
riposo settimanale degli altri musei […]. Poliedrico davvero il suo essere contemporaneamente pinacoteca, nel variopinto dipingersi stagionale, architettura
nel suo strutturarsi paesistico, scultura vivente nei suoi polimorfismi naturali.
Nient’altro che “musei nel museo” (p. 82). Un percorso di percorsi
per il ritrovamento di sentieri perduti, e “quasi un gioco nel gioco, che
fortificherà l’io interiore, il controllo dello spazio-tempo, che cancellerà
il timore dello smarrimento, la paura dell’ostacolo. Impossibile perdersi
allora nel bosco” (p. 143).
Ecco perché, dicevo, tra le colture e le culture del Parco si stabilisce
una sorta di possibile sinergia. E ciò che colpisce di più, nel lavoro di
Bettini e Fichera, è proprio la relativa convertibilità del rapporto tra gli
elementi biologici e quelli culturali, e dunque il portato euristico di un
siffatto rapporto…
Il che consente di mettere un ordine “altro” in una materia composita, talvolta confusa e sfuggente, e aprire piste d’indagine ulteriormente
nuove. Faccio qualche esempio, prendendo le mosse da ciò che proprio
Vita nel Parco sembra suggerire: e se il vademecum di Bettini e Fichera
fosse messo per così dire alla prova, nelle singole località evocate del
Parco nazionale della Sila, con il preciso scopo di sollecitare nei lettori
“del posto” correzioni, integrazioni, modifiche? Quanti e quali nomi di
persone, luoghi, piante, funghi, fiori, animali, cibi, manufatti, potrebbero aggiungersi, così facendo, a partire dal testo? Perché, in altri termini,
non provare a coinvolgere nell’indagine, in qualche modo, gli stessi utenti del Parco, nelle medesime dimensioni monografiche, informative
e formative, cioè didattiche, del libro?
E infine: tenuto conto della sicura valenza interdisciplinare di Vita
nel Parco (scienze della natura, storia, economia, arte, letteratura ecc.),
come ampliarne e completarne la stessa dimensione enciclopedica? E
dunque, per esemplificare: quali gli scrittori, i pittori, gli scultori, i registi, i musicisti che, nel tempo, si sono ispirati al Parco nazionale della
Sila? O ancora: oltre a quelle di cui già si dice nel testo, ci sono altre esperienze individuali e sociali significative, in qualsiasi campo, direttamente o indirettamente riferibili al Parco nazionale della Sila?
III
Catanzaro, terra d’origine
1. Catanzaro, il sogno di Chagall1
(14 agosto 1998)
Non è un caso che la caliente polemica agostana a proposito della
ordinanza comunale del sindaco Abramo con la licenza a Mimmo Rotella e a Fiorenzo Zaffina, venga a situarsi nello stesso contesto regionale da cui, stando all’“inesorabile” Rapporto Svimez (se i giornali del 3
agosto non scrivono il falso), si evincono le più recenti disastrose notizie in fatto di dotazioni infrastrutturali economiche e sociali: “c’è un abisso tra Nord e Sud”, nel Meridione, “meno strade, acquedotti, linee
elettriche e telefoniche” ma anche “meno scuole, ospedali, campi sportivi e cinema”, “il Mezzogiorno d’Italia è veramente un altro Paese”, “la
Calabria agli ultimi posti”, la Calabria “fanalino di coda” ecc. ecc. Di
modo che, in questa situazione, anche la scelta metodologicamente “eccentrica” e non priva di humour del primo cittadino catanzarese, nelle
sue valenze sia politico-culturali sia estetico-educative, non può che essere letta in primo luogo alla luce dei suddetti dati inquietanti, va quindi giudicata nelle prospettive di lavoro individuale e sociale che addita,
e valutata con schiettezza e lungimiranza nell’immediata tangibilità dei
suoi contenuti: e, nell’eventualità che essa comporti l’affacciarsi di problematiche amministrative inedite, complesse, difficili da essere comprese da tutti di primo acchito, ciò non deve meravigliare né tanto meno fare gridare allo scandalo. Ecco perché, in questa situazione, sarebbe
bene che non solo i politici di mestiere, ma anche gli uomini di cultura,
i professionisti delle diverse professioni, gli insegnanti e gli studenti,
tutti quei cittadini insomma che si sentono immediatamente i destinatari dell’ordinanza del sindaco, intervenissero pacatamente e disinteressatamente nel merito, ragionando e discutendo, rifacendosi con costrutto alla propria esperienza, ponendo problemi, formulando domande, affacciando soluzioni ecc. Sarebbe, se ciò avvenisse, un’occasione
educativa e autoeducativa di sicuro rilievo: alla quale già contribuisce
egregiamente, dal suo specifico punto di osservazione, la Lettera al
1
Nel quotidiano Il Domani, stessa data.
108
Capitolo III
cronista di Luigi Magli, titolare della cattedra di Pittura nell’Accademia
di belle arti di Catanzaro (su il Quotidiano della Calabria del 6 agosto).
E, d’altra parte, a suo modo “pedagogica” è la stessa dichiarazione
polemica e talora sarcastica dell’assessore Tallini. E intanto perché i
suoi distinguo, per quanto internamente contraddittori tra motivi formali e ragioni di contenuto, risultano didatticamente utili per intendere
una quantità di passaggi operativi obbligati, e invitano comunque a
chiarire i termini della questione: quale il ruolo delle “sedi istituzionali”
rispetto ai catanzaresi tutti, chiamati in qualità di cittadini intelligenti e
reattivi a esser essi stessi parte viva dei processi di creazione di due
personalità artistiche come quelle (così diverse) di Rotella e Zaffina?
Che cosa è una “maggioranza politica”, che cosa sono le “scelte programmatiche”, che cosa lo “sperimentare” secondo una determinata
“corrente pittorica” e/o “tecnica artistica”? In che consiste, ancora, il
rapporto tra il fare originalmente cultura nella città e per la città, e il
fruirne non passivamente da parte dei cittadini? Dov’è il nesso, posto
che un nesso ci sia, tra il risultato delle proposte espressive di artisti di
chiara fama (Rotella, Zaffina ecc.), e il contesto culturale in cui quel risultato di volta in volta si situa? Di chi sarebbero, però, le scelte politiche “demagogiche”, “finalizzate esclusivamente a predisporre un illusorio canovaccio di obiettivi da far valere surrettiziamente in occasione
delle prossime scadenze elettorali”?... Ed è chiaro che una domanda del
genere potrebbe essere agevolmente restituita al mittente, e rivolta con
la medesima malizia da chiunque a chiunque faccia politica: meglio
quindi discorrere di contenuti, e restare ai fatti, e, oggi come oggi, ciò
che subito è da pensare come un “fatto” è per intanto, come si diceva, la
sostanza di quest’ultimo Rapporto Svimez: contestiamola pure tecnicamente, se ne siamo capaci, ma è da essa che bisogna partire, tutto il
resto corre il rischio di rimanere chiacchiera, niente altro che chiacchiera.
Il passaggio d’interesse drammaticamente più pedagogico (o antipedagogico?) della dichiarazione di Tallini è tuttavia un altro: quello
per cui, anche al di là della stroncatura per partito preso delle due iniziative artistiche cittadine promosse da Abramo con l’apporto di notevoli esperti, egli avverte comunque tutta l’importanza culturale degli
eventi che addita come formalmente arbitrari e contenutisticamente
precoci. Di qui la richiesta, in generale, di un “futuro culturale della città”, che tutto sommato confermi, in particolare, l’esigenza che l’intera
popolazione catanzarese sia messa al corrente così dell’importanza artistica del décollage rotelliano (con la sua storia e fortuna ormai consolidate), come del significato etico-politico degli spregiudicati quanto incisivi ed educativi interventi zaffiniani. In nome della “vera” e non “pseudo libertà artistico-compositiva”, e nel rispetto del “contesto urbano” e
della “memoria storica che lo stesso contesto custodisce” ecc., insomma, Tallini finisce con il richiedere a gran voce, ciò che pur ad alta voce
contesta. Non sembra dubbio infatti, che l’assessore finisca oggettivamente anche se confusamente con il volere le stesse cose del sindaco: e
cioè il “far conoscere” e il “far capire” ai conterranei “l’arte dei due cala-
Catanzaro, terra d’origine
109
bresi” Rotella e Zaffina, l’”analizzare politicamente e criticamente i motivi per i quali l’arte e l’intelligenza di numerosi catanzaresi può crescere, svilupparsi ed essere riconosciuta solo se coltivata in ambiti socioculturali differenti da quelli catanzaresi”, e il principio di trasformazione della città di Catanzaro in una città all’avanguardia e in grado, addirittura, di rappresentare un punto di riferimento per tutti gli artisti
d’Italia. L’handicap, insomma, che diventa non velletariamante ma fattualmente risorsa.
Un programma educativo, questo di Abramo condiviso da Tallini,
decisamente, positivamente “antipedagogico”, al quale nessuno può sentirsi in buona fede di opporsi. Conviene allora mettersi culturalmente in
gioco, costruire una prospettiva politica coraggiosa, ambiziosa, e come
si usa dire all’avanguardia. E, in tale ottica, non è male pensare ad alta
voce, magari rischiando di dover correggere strada facendo il tiro... Per
venire al dunque: e se si organizzasse per il prossimo autunno una
giornata di studio (con relativa produzione di “atti”) tra competenti delle cose d’arte, uomini politici, gornalisti, cittadini della città (ma non
solo di Catanzaro), e con la partecipazione non subordinata della scuola?
In questo Tallini ha pedagogicamente e politicamente ragione: occorre
lavorare ancora molto, per rendere di “senso comune” l’avvenimento
artistico di spicco. E intanto: se tutta quanta una città, a opera di artisti
nazionalmente e internazionalmente noti e apprezzati, si disponesse
davvero a tradurre se stessa in disegni, dipinti, sculture, miniature, collages e décollages, interventi murali e murari ecc., quanto varrebbe di
più dall’oggi al domani l’intera Catanzaro? Questa volta non si tratterebbe (come pure è accaduto) di un “pezzo” di Calabria, come si è lamentato, “in svendita”: sarebbe piuttosto una Calabria che, in virtù di
una sua peculiare, straordinaria esperienza artistica, acquisterebbe subito un maggior valore – considerato il livello non solo italiano, ma anche europeo e planetario su cui immediatamente si situerebbe la sua
propria immagine e irripetibile fisicità: e diventando essa medesima,
Catanzaro per l’appunto, un’opera d’autore (non si dimentichi infatti
che i “testi” di Rotella stanno nei musei, nei mercati, nelle collezioni
d’arte pubbliche e private, in monografie ed enciclopedie, di varie parti
del mondo, e che – anch’esse senza limiti di luogo – le “copertine”
dell’art director Zaffina si vedono nelle edicole, si conservano nelle emeroteche e si studiano nelle università: e ciò non separatamente, talvolta, dai suoi interventi espressivi “mirati” ed “estremi”, dalle sue mostre pietrose, cementizie, precarie o durature che siano, comunque civili...).
Sì, quest’ agosto sarà rovente in città, più rovente di quanto non lo
vogliano il solleone e il buco nell’ozono (e le caldane dell’età). Ma tenteremo, doverosamente, di sopravvivere ricordando senza nostalgia, e se
mai con una nuova prospettiva, il sogno di Chagall: diventato com’è noto realtà nella piccola Vitebsk, tra l’estate e l’autunno del 1919. Ma questo
è già un altro e più complicato discorso, da fare magari un’altra volta.
Capitolo III
110
2. Con il mondo nel cuore2
(Roma, novembre 2000)
Cari alunni della Scuola elementare e media Convitto “P. Galluppi”
di Catanzaro, è dalla pagina 7 della vostra interessante “opera prima”,
che vorrei incominciare a dirvi qualcosa: a partire da quella sottolineatura cioè, che si trova nella Prefazione di Achille Curcio, C’era una volta Catanzaro, sul tema “Conoscere il proprio paese per conoscere il
mondo”. E non c’è dubbio, che è pur vero l’opposto: che, conoscendo il
mondo, si conosce anche il proprio paese… Ecco perché, nel leggere Nel
cuore di Catanzaro, ho pensato di fermarmi a riflettere un attimo proprio su questo punto: sugli spunti del vostro lavoro in una chiave locale-mondiale.
A pagina 18 per esempio, nel paragrafo sul “velluto”, c’è uno spunto
importante sulla Catanzaro “internazionale” e la sua “via della seta”. Mi
chiedo cos’altro potreste trovare e documentare, in futuro, sullo stesso
argomento. Fate la prova a chiedere informazioni utili agli storici della
città, e, quindi, a farvi dare una mano nelle ricerche dai vostri insegnanti e genitori: e chissà che dagli archivi o biblioteche cittadine e di
famiglia non spunti fuori qualcosa di importante, su cui fermarsi a ragionare in classe, e magari da pubblicare in un prossimo dossier.
C’è poi, alla pagina 35, un preciso riferimento al “viaggiatore” George Gissing. Che bel tema di ricerca! Un tema da approfondire certamente, sullo stesso Gissing, ma da impostare e sviluppare anche sugli altri
viaggiatori stranieri che, per questo o quel motivo nelle varie epoche,
sono venuti a Catanzaro e vi hanno soggiornato, per poi ripartire e ricordare la città nei loro scritti. Nella Biblioteca comunale di Catanzaro
si trovano diversi testi sull’argomento… Però c’è anche l’altra faccia del
problema, che riassumerei nella domanda: quanti e quali i viaggiatori
catanzaresi, scrittori e non scrittori, nel mondo? E, più in generale,
quali e quante le partenze, gli arrivi, le diaspore, le emigrazioni e le
immigrazioni concernenti, in un modo o nell’altro, la città?
Ancora, nel primo libro scritto da voi in collaborazione con i vostri
adulti, ci sono diversi altri luoghi, su cui nei prossimi anni potreste forse continuare il discorso “locale”, congiuntamente a quello “mondiale”
da voi stessi introdotto fin qui. Così, per esempio, a proposito di quanto
dite in tema di Papato e Impero, di onomastica, di cinema e teatro, di
giochi e mestieri…
A proposito, quel bambino-calzolaio di pagina 129, potrebbe forse
suggerire per il futuro un bel capitolo sui lavori minorili a Catanzaro
accanto a quelli di cui si ha notizia nel resto del mondo. Egualmente, “i
finti pecurarielli” delle pagine 132 e 133 invitano probabilmente a rileggere con maggiore attenzione il pezzo di Teresa Cosco della III C e la
testimonianza anonima su Rocco, Il pastore d’America, di pagina 135:
2
Cfr. in questo stesso volume, infra, Bambini che recensiscono bambini.
Catanzaro, terra d’origine
111
Sono nato il 20 febbraio 1930, in una famiglia poverissima, in una fredda e
cadente cascina […] Settimo di otto figli, di cui cinque in vita. In casa non c’era
acqua e nemmeno l’elettricità e l’unica donna, mia madre, lavorava da mattina a
sera, dentro e fuori la cascina […]. Io […] badavo alle bestie, portandole al pascolo e pulendo la stalla. Verso i quindici anni cominciai a ribellarmi a quella
vita così misera, cominciai a vergognarmi della mia ignoranza, tentavo di nasconderla, ma non sapevo né leggere né scrivere. Da bambino, a scuola, c’ero
andato solo due mesi perché era troppo lontana e le mie braccia servivano in
casa. Poi, nostro padre comprò una bicicletta per tutti: fu un miracolo. Al paese
mi informai dei corsi serali di scuola elementare: mi iscrissi di nascosto, frequentai con enormi sacrifici e riuscii a conseguire la licenza elementare”.
Rocco vive il dramma della seconda guerra mondiale, in Canada, qui, dopo
otto anni di gavetta, riesce a farsi una brillante posizione economica e chiama in
Canada anche due suoi fratelli.
Complimenti, ragazzi, a voi e ai vostri insegnanti. E auguri di buon
lavoro.
Nicola Siciliani de Cumis
3. Calabria-lettere-giornali3
(18 settembre 2002)
Caro Del Buono, non si può che essere d’accordo con Salvatore Barillari sulle straordinarie bellezze della Calabria, ma si deve pure convenire con lei sul fatto che tali bellezze non sono esclusive. È questo il
problema: perché poi, quando arrivano le statistiche sulla disoccupazione, sull’emigrazione, sull’illegalità diffusa, su produttività e consumi,
su scuola e cultura, e insomma sulla qualità della vita, qui casca l’asino.
Meglio quindi non fare gli struzzi e, per rimanere alle metafore esopiche, togliersi il moscerino dagli occhi e tentare di prendere il toro per le
corna. Come? Non ho ricette da guaritore, ma solo qualche ipotesi su
cui lavorare: 1. Va confermato che le bellezze e gli altri innumerevoli
pregi della Calabria sono fuori discussione, ma evitiamo come la peste
di irrigidirci nella presunzione localistica, edificante e cieca e disperata
di chi, per carità di patria e per un falso volerle bene, non vede e non
denuncia contestualmente i difetti gravi e autodistruttivi della regione.
2. Occorre cercare e individuare le specificità positive reali, davvero esclusive, della Calabria nella sua storia, nella sua arte e cultura, nelle
sue produzioni economiche e tradizioni commerciali, nelle sue lavorazioni tipiche, nel suo artigianato, nelle sue punte di eccellenza (dentro e
fuori la regione) ecc. 3. Principalmente, però, è necessario far sì che tutto quello che si fa in Calabria sia accolto all’esterno come una risorsa
per tutti. Bisogna cioè segnalarsi positivamente, a partire sì dalla regione, ma guardando all’Italia, all’Europa, al mondo. È indispensabile lavorare con gli altri, cercare il confronto, costruire sinergie, attivarsi in
3
Da La Stampa, stessa data.
112
Capitolo III
imprese miste (di qualsiasi tipo ma strategicamente mirate), pensarsi
competitivi essendolo davvero. Non solo in virtù di una fantomatica calabresità: sotto sotto un po’ razzistica e in fin dei conti perdente.
IV
Yunus e Makarenko
1. Lettera di studenti a Yunus sul microcredito1
(17 ottobre 2001)
Rome, 5 october 2001
Muhammad Yunus
Grameen Bank
Dhaka – Bangladesh
Dear Colleague,
We are pleased to inform you that, in accordance with our present
teaching and researching plans, we have diligently concluded a collective reading of your book Vers un mond sans pauvreté, and so we communicate to you our reflections and observations on this subject. Besides, we submit our ideas and some plan of inquiry to your judgment,
consequently we aspire to know your reactions on this. For this reason,
thank you for the attention that you pay to our review of your important book.
It is in mutual interest (at least we think so), that we would like to
start a long and profitable collaboration with your team of research and
with your both strategic and empirically determinate action, against the
poverty: poverty, in every sense of the term “poverty”, included the cultural, moral sense, concerning whoever, even “a rich man”. Mutatis
mutandis, as the professor Yunus, so we have understood the lesson of
Nicholas Georgescu-Roegen… Besides we are referring especially to the
works and the experiences of John Dewey, Antonio Gramsci, Anton S.
Makarenko, with a specific reference to the topic “scientific inquiry”
and “common sense”, “quality” and “quantity”, “rulers” and “governed”,
“freedom” and “discipline”, “individual” and “society”, “the collective”,
“localization of international culture” and “internationality of local culture”, etc.
1 Dal già citato I bambini di Makarenko, pp. 234-253. Variamente pubblicato in
riviste e in Internet.
114
Capitolo IV
It is of public knowledge that the Grameeen model of development
is changing the face of rural Bangladesh. Besides, it is also fast gaining
popularity world-wide, with developed and rich nations such as Norway, USA, Italy, Sweden, Switzerland etc., that have decided to replicate
it or have expressed an interest in Grameen Bank idea. Well, we suppose to be able to contribute to your plan, pushing forward our own
project, we think to have conceptual instruments, perhaps useful for all,
we become convinced that you have in abundance what we are defective, that is an objective experience of the indigence and of the real
overcoming of indigence. On the other hand, we would like to offer our
specific knowledge, partially different from yours: we would like to offer our support for a pedagogic and educational perspective, with the
aim to start a “relationship with other sector experts” as you said. By
these collaborations, also the critical perspective of the project will be
improved.
Some time ago, you declared: “We welcome people and organizations from all over the world to contact us and let us know how they
would like to work in partnership with our existing organizations
and/or propose new business ideas that may lead to new business ideas
which fulfil the social development objectives and organizations in the
Grameen Family”. Well, we agree to your proposal, but we think that
your invitation involves matters of great moment on different levels of
experience.
In particular, we underline the “elementary complexity” (so to say)
of the human being and his immediate needs, between biological factors and cultural factors. Indeed, human living may be regarded as a
continual rhythm of disequilibrations and recoveries of equilibrium,
between the state of disturbed equilibration that constitutes the biological and cultural need, and the recovery of equilibration as fulfilment
or satisfaction of the cultural and biological need. From here, the round
of a formative interference, a co-ordinate and immediate interference,
on the total human personality. From here, our philosophy of “immediately”: and so our radical confidence in the complexity of positive reaction, individual and collective, on behalf of all and everyone, confidence
in the charge of intellectual and moral creativity that everybody have:
and it’s that, with reference to your experience about the “microcredit”,
we define “macrocredit”.
The diversity and variety of needs and complexity of satisfaction of
needs, therefore, remain constant factors in the man, even if these factors change their quality. What does not change is the need of satisfaction activity of research. And of human organismus it is especially true,
that activities carried on for satisfying needs so change the environment that new needs arise which still demand further change in the activities of organism and of the general human personality, by which
they are satisfied. And so uninterruptedly, on in potentially endless
chain.
Yunus e Makarenko
115
With the hope you will examine the enclosed dossier with wished
carefulness, we thank you in advance and assure you that, as in the past
or even more so, our university team of research, our contribution of
inquiry and our departmental organization are at your complete disposal.
Cordially,
Nicola Siciliani de Cumis
P.S. We seize the opportunity to preannounce the dispatch of the
book Gianni Amelio. Un posto al cinema, a cura di Domenico Scalzo: a
dispatch that, for various reasons, we think welcome to you.
14 gennaio 2002
Non è detto che l’uomo non possa sottrarsi al proprio destino di povertà. Realizzare un mondo senza miseria: questo è l’obiettivo di Grameen. Microcredito, fiducia nelle potenzialità umane, logica del “subito”, approccio pragmatico ai problemi, rifiuto dell’assistenzialismo:
questa è l’impostazione di Grameen. Questa può considerarsi, forse, la
tua filosofia.
Siamo un gruppo di studenti della Facoltà di Filosofia “La Sapienza”
di Roma. Nell’a.a. 2000-2001, nell’ambito del corso di Pedagogia generale (Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche), tenuto dal prof. Nicola Siciliani de Cumis, abbiamo avuto modo di conoscere e approfondire Il banchiere dei poveri,2 nel quale abbiamo rintracciato, oltre alle tematiche economiche, alcuni interessanti spunti
filosofico-pedagogici. Per questo motivo abbiamo deciso di scriverti,
per sottoporti alcune questioni e chiederti alcuni chiarimenti.
Abbiamo cercato di scrivere un testo collettivo, partendo da riflessioni e contributi individuali.
Per facilitare la lettura abbiamo, inoltre, dato un titolo a ciascuno
degli argomenti affrontati.
1. Grameen e la pedagogia
Il tuo testo ha per oggetto la povertà. Pur all’interno di un’attività
economico-finanziaria come Grameen, la povertà è comunque considerata secondo una prospettiva non fondamentalmente economica né
quantitativa, ma soprattutto socio-qualitativa. Già da questo è evidente,
dunque, che contro la povertà non sia sufficiente una soluzione solamente economica, ma che questa debba essere coniugata con un intervento di più ampio respiro.
2
M. YUNUS, Il banchiere dei poveri, cit.
Capitolo IV
116
In una delle “sedici risoluzioni” che Grameen propone ai suoi membri come un vero e proprio stile di vita, si legge infatti: “Educheremo i
nostri figli, e lavoreremo per aver modo di provvedere alla loro istruzione”.
La centralità dell’educazione è, a nostro avviso, il primo elemento
costitutivo della tua “pedagogia”, intesa nella varietà delle sue declinazioni: educazione, istruzione e formazione.
Il secondo elemento è l’istruzione, a cui tu dedichi ampio spazio
all’interno del libro, riconoscendo a essa un ruolo fondamentale sia nella tua vicenda biografica, sia nell’attività svolta con i clienti di Grameen.
Per quanto riguarda il tuo percorso scolastico, riferisci innanzitutto
le tue esperienze formative, dagli anni della scuola a quelli dell’Università, scanditi dall’incontro con alcuni insegnanti speciali, poi la tua stessa attività d’insegnamento, caratterizzata da un’esigenza di completezza
da guadagnare fuori dalla scuola, fuori dall’accademia, un’esigenza di
verifica dell’utilità del sapere, di maggiore prossimità alla vita individualmente vissuta, nella sua dolorosa problematicità.
Anche all’interno di Grameen, d’altra parte, l’istruzione riveste una
funzione fondamentale, visto che tu stesso dichiari che l’attività all’interno della banca è per te un prolungamento dell’insegnamento, ora rivolto ai clienti di Grameen stessa. Numerose sono poi le indicazioni relative all’istruzione dei potenziali clienti e del personale di Grameen e
all’alfabetizzazione dei soci e dei loro figli.
Il terzo elemento della tua “pedagogia” è la fiducia: tu poni l’accento
sulle grandi potenzialità dei poveri. In ciò consiste la grandezza di questo progetto, la tua stessa grandezza: economista innanzitutto, ti distingui, però, dagli altri economisti portati a trascurare il problema della
povertà o tutt’al più a guardare ai poveri partendo dal presupposto che
non abbiano assolutamente alcuna capacità.
Diversamente, Grameen pone al centro della sua attività il credito,
cioè la fiducia: il microcredito ne è lo strumento, il macrocredito (la fiducia nelle potenzialità umane) ne è la condizione, l’autocredito (la fiducia in se stessi) ne è il presupposto individuale e, insieme, il fine.
Grameen, infatti, aiuta i poveri “a sviluppare appieno il proprio potenziale, a scoprire i propri punti di forza, ad ampliare i propri orizzonti e
le proprie capacità”3.
Non ti sembra che in queste righe si concentri l’essenza della tua
‘pedagogia’?
Avendo così illustrato le ragioni che ci hanno indotti a considerare Il
banchiere dei poveri un testo interessante dal punto di vista pedagogico, vorremmo ora sottoporti alcune questioni particolari, sulle quali ci
piacerebbe che tu ci fornissi qualche chiarimento.
3
Ivi, p. 60.
Yunus e Makarenko
117
2. Una mentalità nuova
Hai indagato per lunghi anni il problema della povertà: hai capito,
svelato e combattuto i meccanismi che la producono e li hai riassunti in
una impressionante lista di luoghi comuni, stereotipi, “miti” che “sono
accettati come norme” e sono difficilissimi da screditare perché “su di
essi si fondano regole e istituzioni che per settori importanti della popolazione diventano barriere, mentre ad altri settori assicurano ingiustificati privilegi”4.
Questi miti hanno fatto sì che l’intera società si organizzasse in
strutture e istituzioni tendenti a escludere il povero dalla loro fruizione.
Hai rivendicato la necessità di un rinnovamento che avesse come punto
focale l’attenzione per i poveri. Una mentalità nuova.
“Secondo me è possibile che le idee e i concetti siano passati semplicemente da una generazione all’altra senza che a nessuno venisse in
mente di criticarli”5: è in questo modo che si affermano le tradizioni, la
mancanza di criticità avalla qualsiasi istituzione, anche la più sfavorevole. Dunque, per acquisire una mentalità nuova e per volgere a favore
dei poveri le istituzioni, occorre che essi acquistino consapevolezza critica.
Non dovrebbe allora essere questo l’obiettivo primario di Grameen e
di tutte le altre organizzazioni che si occupano del problema?
Grameen indubbiamente tenta di sviluppare la capacità critica del
povero, ma lo fa solo in un secondo momento, nella convinzione che “il
bisogno di credito venisse prima di ogni altro bisogno sociale, per quanto pressante e legittimo”6.
Senza la creazione di un contesto economico favorevole, dunque,
non si potrebbero creare delle condizioni sociali favorevoli: “attraverso
lo sviluppo economico le persone che aderiscono al nostro progetto si
[affrancano] da tutto un insieme di ingiunzioni e regole dettate dagli
estremisti”7.
I risultati ti hanno indubbiamente dato ragione, esperti di antropologia sociale, uomini politici, religiosi, osservatori in generale, intellettuali, tu stesso, molti hanno indicato Grameen e il microcredito come
una forza in grado di cambiare il mondo, “portatore di idee e pratiche
nuove”8, artefice di “controcultura”, “di una rivoluzione sociale”9 in
grado di “intaccare le strutture tradizionali e di cambiare la società”10.
Ivi, p. 78.
Ivi, p. 81.
6 Ivi, p. 199.
7 Ivi, p. 151.
8 Ivi, p. 141.
9 Ivi, p. 146.
10 Ivi, p. 139.
4
5
Capitolo IV
118
Il cambiamento ha coinvolto numerose persone che, anche contro la
propria volontà, hanno avuto a che fare con Grameen: poveri in primo
luogo, governi, banche, uomini di religione.
Ma in che misura è effettivamente mutata la mentalità comune e
sono stati sradicati gli stereotipi che paralizzano il povero e ne impediscono un concreto sviluppo?
Quante tra le persone coinvolte nel programma Grameen sono in
grado di valutare con consapevolezza il cambiamento?
1. Funzionari di Stato:
Nel 1994, il consigliere del Dipartimento femminile iraniano, che dipende
direttamente dal presidente, mi fece visita a Dhaka. Quando le chiesi cosa pensasse di Grameen, l’autorevole signora mi disse: “Non c’è niente nella Shariah o
nel Corano che contrasti con il vostro operato. Perché le donne dovrebbero accettare la fame e la povertà? Mi sembra anzi che facciate un lavoro formidabile,
aprendo a un’intera generazione di bambini la possibilità di frequentare la scuola. E grazie ai prestiti di Grameen le madri possono lavorare a casa senza essere
costrette a cercare un impiego all’esterno”11.
Non ti sembra che ponendo l’accento prevalentemente sullo sviluppo economico non si riesca a minare seriamente quella cultura che vuole le donne chiuse in casa, private del diritto di avere liberi rapporti sociali?
2. Funzionari di Grameen:
Inoltre ritenevo che lo stereotipo della donna incapace di fare da sola un
breve viaggio fosse una di quelle idee preconcette che Grameen si era prefissa di
combattere. Invece Nuryahan era molto arrabbiata che non avessi incaricato un
uomo di assisterla provvedendo a tutti i dettagli del viaggio.12
Anche se “oggi Nuriahan si sposta disinvoltamente senza problemi”13, per aver scoperto sul campo le proprie capacità (ma ancora oggi
con quanta consapevolezza?), non pensi che sia grave che una donna
istruita, per di più funzionaria di Grameen, cioè di un’organizzazione
che ha puntato molto sull’emancipazione femminile, debba ancora essere vittima di una mentalità sessista al punto di giudicarsi incapace di
cavarsela da sola?
3. Le donne povere:
“Lo scopo di quella gente è distruggere il Purdah, è per questo che sono venuti”.
Ivi, p. 150.
Ivi, p. 102.
13 Ibidem.
11
12
Yunus e Makarenko
119
“Non è vero! Per fare il lavoro che pensiamo […] non c’è neanche bisogno di
uscire di casa. Gli impiegati della banca vengono direttamente da noi… cosa c’è
di contrario al Purdah? Qui l’unico che va contro il Purdah è proprio lei, che ci
obbliga a fare chilometri per cercare aiuto da un’altra parte!”14.
Dov’è, in queste donne, la consapevolezza di poter acquisire con
Grameen una libertà che la tradizione nega loro da secoli? Perché non
si sentono protagoniste di una rivoluzione sociale?
4. Tu stesso:
La ricaduta benefica del microcredito non è solo politica, ma anche sociale:
grazie all’attività economica, le donne poverissime del Bangladesh che prima
vivevano recluse per via del Purdah, hanno la possibilità di muoversi e di parlare con altre donne.15
Se questo è vero, perché le donne non se ne rendono conto?
Inoltre tu specifichi: “parlare con altre donne”. È forse indicativo di
una mentalità così radicata da non permettere neanche a te di valutare
la potenza della rivoluzione in atto in fondo (escludendo la possibilità
per le donne di parlare anche con gli uomini)?
In conclusione, noi crediamo che gli effetti del microcredito potranno essere realmente avvertiti solo accompagnando interventi economici
con interventi culturali miranti alla costruzione di una capacità critica.
Per raggiungere questa completezza, accenni più volte nel libro alla
necessità di garantire un’istruzione alla gente povera.
Pensi che la formazione offerta da Grameen ai suoi clienti possa far
fronte a tale esigenza?
3. Investimento economico, investimento culturale:
una questione di priorità
A questo punto, vorremmo provare a porre in discussione la priorità
che tu sembri riconoscere all’investimento finanziario.
A partire dalla tua esperienza, non pensi infatti che, anche in condizioni di penosa miseria, ancor prima di beneficiare di un credito finanziario, sia possibile all’essere umano scoprire la propria dignità ed esercitare le proprie potenzialità, magari grazie a un investimento di tipo
culturale (l’alfabetizzazione, innanzitutto, potrebbe allora essere strumento privilegiato per l’emancipazione dell’ “ultimo”)?
Con ciò, non intendiamo sostenere che il povero debba restare tale:
piuttosto, ci chiediamo se l’assoluta priorità che tu accordi al microcredito finanziario non rischi di subordinare la dignità dell’essere umano
alla disponibilità di mezzi finanziari.
14
15
Ivi, p. 149.
Ivi, p. 152.
120
Capitolo IV
Le parole di una delle clienti di Grameen, intervistata nel documentario 27 dollari, di Garini, sembrano dar “credito” alla nostra ipotesi:
“Se avrò soldi, i vicini mi cureranno. Se non avrò soldi, nessuno mi
guarderà”.
Di fronte a tale affermazione, non ti sembra che gli effetti del microcredito possano smentire e tradire la filosofia che lo ispira (fondata sul
riconoscimento assoluto della dignità di ogni essere umano in quanto
tale) e che dunque la pratica del microcredito stesso possa avere ricadute negative dal punto di vista socio-culturale, di contro a evidenti successi sul piano economico?
Non ti sembra che, almeno in parte, siano condivisibili le perplessità
e le riserve espresse nel brano che ti proponiamo di seguito?
Le ricadute sociali del microcredito rischiano di volgersi al negativo alimentando, ad esempio, il miraggio della ricchezza […] “Il rischio è che i valori individuali tendano a sopravanzare i bisogni collettivi”, chiarisce Luzzati.16
Attraverso le parole di Aboul Tall, che opportunamente riporti nel
tuo libro, in parte rispondi a tale perplessità, ricordando giustamente la
specificità del tuo ruolo e della funzione di Grameen e dichiarando, evidentemente, l’impossibilità di provvedere, come banchieri, a tutti i problemi e i drammi legati alla povertà:
I problemi sociali sono tanti – problemi di denutrizione, di ambiente, di
pianificazione familiare…– che saremmo tenuti a intervenire su ogni cosa. Ma
questo sarebbe pericoloso: una banca di microcredito non può fare tutto, dobbiamo instaurare collaborazioni con esperti di altri settori che sanno operare nel
loro campo.17
In quanto studenti di Pedagogia, c’interesserebbe sapere qualcosa di
più rispetto alle “collaborazioni” instaurate finora, specialmente in funzione dell’istruzione e della formazione culturale dei clienti di Grameen.
4. Lavoro salariato e lavoro indipendente
Nel tuo libro, fai inoltre una dura critica del lavoro salariato elogiando, al contrario le caratteristiche del lavoro indipendente. Soffermiamoci sulle tue motivazioni. Per prima cosa, il lavoro indipendente,
nei Paesi poveri come in quelli ricchi, sarebbe l’unica arma per spezzare
il circolo della mera riproduzione materiale dell’esistenza: il possesso
16 Il brano è tratto dalla rivista Volontari per lo sviluppo, n. 1, anno XIX, marzo
2001, p. 14. Enrico Luzzati è docente di Programmazione economica all’Università di
Torino.
17 Il banchiere dei poveri, cit., p. 240.
Yunus e Makarenko
121
dei mezzi di produzione18 renderebbe, finalmente, l’uomo capace di
progettare. Ci sono, tu dici, delle categorie sociali che trarrebbero un
grosso giovamento dal lavoro indipendente, i poveri e gli analfabeti. E,
a questo proposito, enumeri una serie di vantaggi che il lavoratore indipendente avrebbe rispetto a quello salariato: possibilità di godere di
orari flessibili, opportunità di sfruttare qualità pratiche rispetto a un
sapere libresco, occasione di trasformare un hobby in attività lavorativa, essere indipendenti dagli aiuti sociali, gravare meno sulla comunità,
superare l’isolamento e la depressione dopo un licenziamento, aggirare
gli ostacoli dovuti alla discriminazione razziale, riacquistare fiducia in
se stessi.19 A torto, quindi, la teoria microeconomica avrebbe considerato l’individuo o come produttore o come consumatore, in quanto
una scienza sociale degna di questo nome deve creare un quadro analitico che
abiliti e incoraggi gli esseri umani a esplorare il proprio potenziale, a non partire
dal presupposto che la loro capacità sia determinata e circoscritta, e il loro ruolo
fissato per sempre.
Affinché l’economia non sia solo una “scienza degli affari”, è necessario, ci dici, non trascurare la “vivace realtà del lavoro indipendente” e
“la possibilità che ognuno diventi imprenditore”20. Ebbene, dal nostro
punto di vista, non possiamo che concordare sul diritto degli individui
alla realizzazione sociale, all’iniziativa, all’esercizio della propria creatività, e abbiamo, altresì, preso in considerazione i vantaggi che la piccola
impresa potrebbe offrire ad alcuni soggetti svantaggiati. Ma, accanto al
lavoro indipendente, noi rivendichiamo per gli individui l’indipendenza
critica: la capacità di sottrarsi alla schiavitù dell’ignoranza, della soggezione culturale, della omologazione della società dei consumi.
Come dare a tutti, ci chiediamo, la possibilità di guadagnare un’indipendenza di pensiero, oltre che economica e lavorativa?
5. Capitalismo e impegno sociale
Assai interessante è, a nostro avviso, anche la tua posizione in merito al capitalismo. A tal proposito, hai infatti affermato: “Non c’è dubbio
che il libero mercato, così com’è organizzato attualmente, non sia la
panacea di tutti i mali sociali”21, e citi le aeree che il capitalismo lascia
scoperte: sanità, istruzione, cura dei soggetti più deboli. La strategia di
18 Cfr. la storia di Sufia Begum, una delle tante donne del poverissimo villaggio di
Jobra, che costruiva sgabelli con il bambù del rivenditore che li avrebbe acquistati a
fine lavoro, sottraendo il debito iniziale e lasciandole, così, un misero profitto (ivi,
pp. 17-19); o la storia dei disoccupati dell’Arkansas a cui sarebbe bastato poco per
iniziare una nuova attività (ivi, pp. 191-194).
19 Cfr. pp. 207-208.
20 Ivi, pp. 229-230.
21 Ivi, p. 211.
Capitolo IV
122
Grameen è tuttavia quella di agire all’interno del sistema capitalistico,
non opponendosi aprioristicamente a questo, ma cercando di colmare
le lacune di uno Stato inefficiente e di un settore privato fondato sulla
cupidigia. Rispetto alle categorie di destra e sinistra, e di pubblico e privato, hai rivendicato, quindi, l’autonomia del tuo punto di vista: operare
per la creazione di un “settore privato guidato dall’impegno sociale”22.
L’intervento sociale, quindi, dovrebbe essere competenza delle imprese che, incoraggiate dallo Stato, scelgano la via dell’impegno piuttosto che il mero profitto. Indichi, come soggetti che dovranno essere coinvolti in questo progetto “persone animate da una coscienza sociale”23.
Di quali strumenti intendi servirti, per realizzare un “capitalismo
umano”, capace di veicolare valori culturali e di promuovere così lo sviluppo delle potenzialità di ogni essere umano, senza ricreare la dicotomia oppressore/oppresso?
Vorremmo sottoporti, a questo punto, alcune questioni particolari,
che non approfondisci nel tuo libro, ma a cui hai accennato in alcune
interviste.
a. Poveri meno poveri, ricchi meno ricchi
Nella civiltà occidentale, recentemente, si stanno sviluppando e
moltiplicando movimenti e organizzazioni che, come Grameen, intendono lanciare una sfida alla scandalosa disparità tra i pochi ricchi e i
moltissimi poveri. In particolare, si sta affermando e diffondendo un
principio, rispetto al quale ci piacerebbe conoscere la tua opinione: contro la diseguaglianza economica tra Sud e Nord del mondo, non possono essere sufficienti gli sforzi tesi a migliorare le condizioni economiche
del povero, ma è necessaria, parallelamente, una “rivoluzione” nelle abitudini e nello stile di vita del ricco.
Molti credono, cioè, che il povero non potrà divenire meno povero,
se allo stesso tempo il ricco non accetterà di divenire meno ricco: l’affrancamento del povero dalla miseria sarebbe dunque condizionato dalla rinuncia, da parte del ricco, all’opulenza.
Tu non credi che la responsabilità del “Nord” nei confronti del “Sud”
non consista solo nel dovere di investire, di dare credito al povero, ma
anche nella disponibilità a modificare radicalmente il proprio stile di
vita, affrancandosi dalle catene di un capitalismo esasperato e assumendo con ciò una posizione critica nei confronti dell’attuale sistema
economico?
Ci piacerebbe sapere come giudichi il brano che riportiamo di seguito, che ci pare prospetti una strada nella lotta contro la povertà, diversa
sì, ma forse complementare, rispetto alla proposta di Grameen:
22
23
Ivi, p. 213.
Ivi, p. 212.
Yunus e Makarenko
123
Fino a qualche tempo fa si pensava che per risolvere gli squilibri mondiali
dovessimo innalzare tutti gli abitanti della Terra al nostro stesso tenore di vita.
Poi questo obiettivo è stato abbandonato, perché abbiamo capito che non si
concilia con la capacità della Terra di fornire risorse, né di assorbire tutti i rifiuti
che verrebbero prodotti.
Qualcuno ha calcolato che se volessimo garantire a tutti il nostro tenore di
vita avremmo bisogno di altri cinque pianeti da usare al tempo stesso come discariche e come fonti di materie prime. […]
Proprio a partire dagli aspetti ambientali, risulta evidente che il nostro stile
di vita entra in conflitto con quello della gente del Sud, che ha bisogno di più
cibo, più vestiti, più mezzi di trasporto, più alloggi, più strutture sanitarie, più
macchinari. Tutto questo richiede una crescita produttiva che il Sud si potrà
permettere solo se il Nord sarà disposto a ridimensionare la propria macchina
produttiva e a ridurre i propri consumi.24
Andrea Berrini, giornalista di una rivista italiana, recentemente ti
ha sottoposto lo stesso problema, sostenendo che, “se tutti cinesi usassero carta igienica, scomparirebbero tutte le foreste del mondo”. Giustamente, a tale argomento hai risposto: “Non possiamo privare i cinesi
della carta igienica solo per questa ragione. […] Non possiamo condannare i cinesi alla povertà, solo per mantenere inalterato il modo di produrre e di consumare dei ricchi”25.
Credi anche tu, dunque, che per consentire ai cinesi di usare la carta
igienica sia necessario che noialtri ne consumiamo di meno? In altre
parole, sei d’accordo con chi sostiene che, affinché i poveri diventino
più ricchi, è indispensabile che i ricchi divengano più poveri, alterando
in questo modo le leggi di un sistema economico che si alimenta e vive
del desiderio di opulenza del consumatore del Nord?
b. Il debito del Terzo mondo
In alcune interviste da te rilasciate, abbiamo scoperto la tua perplessità nei riguardi della cancellazione del debito del Terzo mondo, di
cui oggi più che mai si discute.
Abbiamo compreso le tue ragioni fondamentali: il rifiuto dell’elemosina, che mortifica la dignità umana, il rischio che il denaro non arrivi nelle mani dei poveri, ma favorisca governi corrotti, il timore che
tale denaro possa essere impiegato per scopi bellici.
Vorremmo tuttavia sottoporti alcune riflessioni suggerite dalla lettura del libro Debito da morire,26 al quale tu stesso hai contribuito.
Proveremo a illustrare schematicamente i tre argomenti che maggiormente hanno suscitato il nostro interesse e che ci sembra possano risolvere almeno in parte le questioni da te sollevate.
24 F. GESUALDI, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 150-151.
25 L’intervista è stata pubblicata in Linus, marzo 2000, pp. 51-56.
26 AA.VV., Debito da morire, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
124
Capitolo IV
Gli interessi
Scrive padre Alex Zanotelli, nell’introduzione del libro I poveri hanno già pagato: se sul debito non gravassero infatti altissimi tassi d’interesse, i Paesi debitori avrebbero già restituito la somma dovuta ai
creditori.
Per questo, l’economista Riccardo Moro sostiene che “il debito va
cancellato perché è stato già pagato, solo che la contabilità che noi imponiamo al Sud impedisce di renderlo evidente”. Infatti, spiega ancora
Moro, “per pagare gli interessi servono somme più alte dell’intero capitale preso a prestito”.
La storia del debito
Per valutare le ragioni a favore o contro l’abolizione del debito del
Terzo mondo, è indispensabile fare riferimento all’origine e alla storia
del debito stesso. Solo così si potrà infatti stabilire se l’eventuale condono sia effettivamente un gesto di carità o se non sia piuttosto un diritto dei Paesi del Terzo mondo e, quindi, una questione di giustizia,
anziché di solidarietà.
Il contributo di Moro è a tal proposito illuminante. Perfettamente in
linea con quanto tu stesso affermi, egli sostiene innanzitutto che “cancellare un debito appare sempre un gesto problematico sul piano etico”.
Si domanda tuttavia: “È solo in ragione di una straordinaria esigenza di
solidarietà che si fonda la richiesta di cancellare?”.
Per rispondere a tale questione, certamente fondamentale, egli traccia una breve storia del debito stesso, illustrandone i momenti fondamentali: la prima crisi petrolifera (1973-1974). I Paesi produttori, arricchitisi enormemente, versarono ingenti somme di denaro sul mercato
finanziario internazionale. Di conseguenza, le banche abbassarono i
tassi d’interesse, mentre crebbe l’inflazione. Molti Paesi, allora, si indebitarono, incoraggiati dagli interessi bassissimi.
Il secondo shock petrolifero (1979). I governanti del Nord, in primo
luogo Reagan e la Thatcher, risposero con l’aumento dell’inflazione e
dei tassi d’interesse. Chi si era indebitato a tassi medi del 5% si ritrovò
con interessi fino al 30%, se non più alti. A questo si aggiunse il raddoppiamento del valore del dollaro, così che – spiega Moro – ora “per
pagare gli interessi servono somme più alte dell’intero capitale preso a
prestito”.
Gli “aggiustamenti strutturali” (dal 1982). Ai Paesi del Sud fu prestato altro denaro, a patto che questi sottoponessero la propria politica
economica al controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Questa condizione si tradusse ben presto nell’imposizione
di una liberalizzazione selvaggia, da cui derivarono pessimi investimenti ed enormi sprechi di denaro. Responsabili di questa cattiva amministrazione non furono dunque solo i malgoverni del Sud, ma anche i Paesi del Nord.
Le parole di Moro sembrano rispondere così alle tre questioni da te
sollevate: il condono del debito non è questione di solidarietà, ma di
Yunus e Makarenko
125
giustizia, la povertà del Sud non è da imputarsi solo ai malgoverni locali, ma anche ai Paesi del Nord, anche i frequenti investimenti di denaro
a scopo bellico non sarebbero possibili senza l’accondiscendenza, se
non l’incoraggiamento, delle grandi potenze mondiali.
Scrive dunque Moro:
La retorica settentrionale in questi 20 anni ha sempre detto che la responsabilità di queste azioni stava nella classe dirigente del Sud e nella sua scarsa
moralità. Il fatto è che per acquistare armi, per installare grandi inutilizzabili
impianti e aprire conti nelle banche del Nord occorrono aiuti e autorizzazioni.
Dal Nord, cioè da quella parte di mondo che faceva arrivare anche i finanziamenti usati così male, con “severo ma giusto senso di responsabilità”, censurava
il Sud per i suoi comportamenti poco morali.27
Chi paga?
Ti proponiamo ora un’ultima questione: se da una parte è probabile,
come tu sostieni, che non sarebbe la popolazione a godere dei benefici
della remissione del debito, ma piuttosto i governanti spesso corrotti e
guerrafondai, bisogna tuttavia riconoscere che sono i cittadini – e non
le classi dirigenti – a pagare attualmente un debito di cui altri sono responsabili. A tal proposito, scrive infatti Moro:
I cittadini dei Paesi indebitati, che pagano realmente il peso del debito (perché pagano le tasse, ma a queste non corrispondono i servizi, perché quel denaro va a pagare gli interessi) non hanno mai ricevuto i benefici dei finanziamenti.
[…] I cittadini del Congo quel denaro non l’hanno mai visto, ma oggi continuano
a pagare!28
In conclusione, non pensi che, viste le caratteristiche e la storia del
debito, sia doveroso e giusto procedere alla sua abolizione, a patto che
questa preveda alcune condizioni imprescindibili?
È quanto propongono molti di coloro che hanno contribuito al libro
Debito da morire.
Walter Veltroni, per esempio, attuale sindaco di Roma, avverte che
“per ogni aiuto e sostegno finanziario è indispensabile avere la certezza
che il denaro non vada ad alimentare regimi corrotti e dittature senza
scrupoli”.
Allo stesso modo, Alessandro De Nicola afferma che “la remissione
del debito senza condizioni è la consacrazione del fatto che chi si sacrifica o è oculato nella gestione dei soldi è un cretino, mentre chi è corrotto, guerrafondaio, autoritario, affamatore può contare sulla politica”29.
Alex Zanotelli, infine, fa riferimento alle quattro condizioni previste
dall’All African Conference Churches di Nairobi: democratizzazione, rispetto dei diritti umani, demilitarizzazione, reinvestimento nello sviluppo.
Ivi, p. 235.
Ivi, p. 236.
29 Ivi, p. 277.
27
28
126
Capitolo IV
Come valuti la proposta di una remissione del debito in tal modo
condizionata?
Pensi che si possa condividere l’opinione di Riccardo Moro il quale,
facendo riferimento a un concetto a te particolarmente caro, afferma:
“Davvero, non è solo una questione di solidarietà, ma di recupero di dignità: la nostra?”.
c. Mamma Grameen
Per concludere, ci resta un ultimo e fondamentale dubbio: è realmente possibile, per il povero che si rivolge a Grameen, divenire indipendente non soltanto dal datore di lavoro, ma da Grameen stessa? Alcune tue affermazioni, infatti, ci hanno lasciati perplessi: ad esempio,
riferendoti a una delle tante donne che vivono nella povertà e che sono
state aiutate dalla tua banca, affermi: “Dal primo prestito, nel 1977,
Ammaja partecipò a Grameen fino alla morte” (p. 83).
Grameen, quindi, l’ha accompagnata alla morte, ma poco dopo aggiungi: “Oggi la figlia di Ammaja ha sostituito la madre tra i membri di
Grameen”.
Non ti sembra che questo rimanere in rapporto di dipendenza da
Grameen sia in realtà un non emanciparsi mai?
Né si tratta di un caso isolato, perché accanto alla storia di Ammaja
descrivi quella di Hajeera:
Quando ricevette un prestito di 2000 taka (50 dollari) non poté trattenere le
lacrime. […] A distanza di un anno Hajeera aveva rimborsato il primo prestito e
ne aveva preso un secondo, per affittare un terreno sul quale piantò sessanta
banani (p. 97).
Sembra quasi che il meccanismo del prestito metta in moto un processo in cui è necessario chiedere nuovi prestiti: non è chiaro se per
ampliare la base economica o perché è impossibile rimborsare il primo
senza chiederne un secondo e così via…
Hajeera conclude: “Vuole sapere cosa penso di Grameen? Per me
Grameen è come una madre. Anzi non è come una madre, è mia madre”
(ibidem).
Noi ti chiediamo: quando Hajeera si affrancherà completamente da
“mamma Grameen”?
Nel cap. 20 racconti la storia di Pramila che, dopo aver chiesto prestiti e superato avversità di ogni genere, sembra riesca a raggiungere un
equilibrio economico, usufruendo di prestiti dal fondo di soccorso, prestiti stagionali, prestiti per l’edilizia… Concludi così il capitolo: “Pramila
usufruisce attualmente del suo dodicesimo prestito, possiede e affitta
terra…” (p. 156).
Non ti sembra che il sistema che intraprende Grameen sia quello di
obbligare queste persone a chiedere ancora prestiti?
Yunus e Makarenko
127
Alla fine del cap. 18 parli, come di una vittoria, del fatto che “alla fine del 1981 l’importo totale dei prestiti da noi versati era di 13,4 milioni
di dollari. Nel corso del solo 1982 l’ammontare dei prestiti ai clienti
crebbe di altri 10,5 milioni di dollari” (p. 145).
Inoltre quantifichi l’incremento in termini di denaro, senza specificare il numero di individui beneficiati.
Questo incremento del 1982 non è stato dunque causato, forse, più
che dalle nuove clienti, dalla continua e crescente richiesta di prestiti,
da parte delle “vecchie conoscenze” di Grameen?
Al termine di questa lettera, perché tu non fraintenda le nostre intenzioni, ci teniamo a dirti che i dubbi che abbiamo sollevato non vogliono essere l’ennesima critica che si aggiunge alle tante da te ricevute:
non è in discussione la nostra sincera stima per il tuo lavoro e per
l’attività di Grameen.
Il nostro è semplicemente un invito a chiarire alcune questioni che,
in quanto studenti di Pedagogia, riteniamo fondamentali.
Speriamo che questa lettera sia solo l’inizio di un dialogo con te e
con quanti, da vari punti di vista, sono interessati a ciò che stai facendo.
Grazie e buon lavoro.
Marzia D’Alessandro
Federico Feliciani
Paolo Franzò
Chiara Ludovisi
Rosetta Maiuri
Francesca Picella
Si ringrazia per la versione inglese Elisabetta Mariani.
2. L’intercultura dei poveri30
(28 aprile 2002)
Makarenko dopo Makarenko (però senza più Makarenko): questa
l’ipotesi per cui si giustificano le pagine seguenti. Nel senso che Muhammad Yunus (nonostante tutte le differenze che pur si vedono tra i
due da un tempo all’altro della storia, differenze di carattere, cultura,
competenze, ideologia, ecc. e soprattutto di contesto storico) ha diverse
cose in comune con Makarenko. Per esempio il senso della prospettiva.
Poi, la valorizzazione del collettivo e l’apprezzamento della responsabilità. C’è ancora in entrambi la medesima convinzione che l’uomo (tutti
gli uomini e tutte le donne, specialmente le donne secondo Yunus) ha
30 Dal citato I bambini di Makarenko, pp. 225-234. Variamente pubblicato in riviste e in Internet.
128
Capitolo IV
delle potenzialità intellettuali e morali enormi, non misurabili apriori.
Entrambi scommettono quindi sulla educabilità umana. Tutti e due ragionano praticamente in termini planetari. E l’uno e l’altro hanno avuto
una certa esperienza del marxismo: Yunus, studiando in America, Makarenko, vivendo e operando nell’URSS degli anni Venti e Trenta.
Ciò detto, tuttavia, si tratta d’impiantare una ricerca – come si diceva – anzitutto per differenza. Occorre cioè cercare in ciascuno dei due,
in Makarenko e in Yunus, come si configurino nel confronto le diversificazioni delle eventuali analogie, e come si rassomiglino le loro rispettive “novità” (quella innanzitutto finanziaria di Yunus, e quella in primo
luogo pedagogica di Makarenko). Sennonché per entrambi si può parlare di evidente dimensione educativa, ovvero di esplicite capacità imprenditorial-finanziario-manageriale. E tanto Makarenko quanto Yunus, pur essendo senz’altro dei grandi educatori, esprimono seri dubbi
sulla “pedagogia”. Meglio, la loro è piuttosto una sorta di antipedagogia… Ma occorre indagare in che senso.
Una proposta di lettura al Liceo “P. Galluppi” di Catanzaro
Una cultura straniera solo agli occhi di un’altra cultura si rivela più pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno anche
altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più) […]. Noi poniamo alla
cultura straniera nuove domande, quali essa stessa non si poneva, cerchiamo in
essa risposta a queste nostre domande, e la cultura straniera ci risponde, scoprendo davanti a noi nuovi suoi aspetti, nuove profondità di senso
(M.M. Bachtin, tr. di G. Mastroianni)
L’idea in breve è questa: che al Liceo “P. Galluppi” di Catanzaro, anche in vista dei prossimi esami di maturità, si possa leggere e discutere
il libro di Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri [titolo dell’opera
originale Vers un mond sans pauvreté, 1997]. Un’autobiografia, la storia di un’avventura economico-finanziaria, etico-politica e “filosofica”,
raccontata dal suo protagonista, già professore d’università e ora banchiere.
Ma perché Yunus? Perché questo libro? E Catanzaro, il “Classico”, io
stesso, che c’entriamo? Francamente, non ne conosco ancora tutte le ragioni. Capisco però di essermi trovato e di trovarmi di fronte a un’esperienza culturale (ma non solo culturale) di straordinario interesse:
un’esperienza forse (come è stato detto in occasione della recente venuta di Yunus in Italia, a Napoli) “capace di capovolgere e sovvertire pacificamente qualunque categoria di pensiero – economico, politico, sociale, religioso – minacciato dalla sua ineffabile disobbedienza civile, animata da un unico obiettivo: abolire la povertà dalla faccia della terra”31.
Ecco perché probabilmente vale la pena di parlarne, a scuola e fuori
31 D. TROTTA, “La sfida di Yunus. ‘Fonderò a Napoli la banca dei poveri’“, Il Mattino, 20 ottobre 2000.
Yunus e Makarenko
129
della scuola, anche in Calabria: e magari per scoprire i limiti e i difetti
di una proposta. E insieme, se possibile, per acquisirne criticamente il
significato e il valore positivo.
Per cui incomincerei da qui, come quando si entra in libreria e si
cerca di sapere di più di un titolo (mettiamo, Il banchiere dei poveri),
che per qualche ragione ha attirato la nostra attenzione. E si va alla
quarta di copertina:
Muhammad Yunus vive in uno dei Paesi più poveri del mondo. Ad arginare
gli effetti devastanti delle calamità naturali, della malnutrizione, della povertà
strutturale, dell’analfabetismo e della alta densità di popolazione, in Bangladesh, non sono bastati i trenta miliardi di dollari degli aiuti internazionali. È
difficile quindi immaginare che l’Occidente abbia qualcosa da imparare da questo paese. Eppure, è nata qui la Grameen Bank e con essa un’idea per far sparire
la povertà dalla faccia della terra. Il professor Yunus ha trovato il modo, accordando minuscoli prestiti ai diseredati della terra, di fornire al 10% della popolazione bengalese (dodici milioni di persone) gli strumenti per uscire dalla miseria, e di trasferire poi la sperimentazione del microcredito dal Terzo mondo ai
poveri di altri Paesi. La banca presta denaro, a tassi bonificati, solo ai poverissimi: in questo modo coloro che non potevano ottenere prestiti dai tradizionali
istituti di credito (e sono state in maggioranza donne) vengono messi nella condizione di affrancarsi dall’usura, di allargare la propria base economica e di
prendere in mano il proprio destino. Questo libro, che è già un bestseller e che
ha ispirato un film, ci racconta come è stato possibile realizzare tutto ciò.
L’edizione (la seconda, rispetto alla precedente italiana del 1998)
comprende un inedito di Yunus: Proposta per la creazione di un Centro internazionale di tecnologia informatica per l’abolizione della povertà globale. Seguono quindi essenziali informazioni sull’autore:
Muhammed Yunus è nato e cresciuto a Chittagong, principale porto mercantile del Bengala. Laureato in economia, ha insegnato nelle Università di
Boulder, in Colorado, e alla Vanderbilt University di Nashville, Tennessee. Ha
poi diretto il Dipartimento di Economia dell’Università di Chittagong. Nel 1977
ha fondato la Grameen Bank [che vuol dire “Banca Rurale”], un istituto di credito indipendente che pratica il microcredito senza garanzie. Oggi Grameen, oltre
a essere presente in 36.000 villaggi del Bangladesh, è diffusa in 57 Paesi di ogni
parte del mondo.
Ma si tratta di numeri in movimento, in crescita… La mattina di
domenica 29 ottobre 2000 Yunus stava in Italia in televisione, a Raidue, ospite della trasmissione a cura di Lorenza Foschini La bussola di
Sindbad. “Attualità” XXVI edizione delle Giornate internazionali di
studio del Centro ricerche Pio Manzù”, e si è capito che il suo progetto,
pur tra mille difficoltà, tende tangibilmente ad ampliarsi in un po’ tutto
il mondo, Stati Uniti, Europa, e Italia compresi. Yunus ha così prodotto
una sintesi delle sue idee: e non sembra dubbio che, proprio nella specificità di una chiave meridionale e meridionalistica, Grameen Bank “ci”
riguardi. Restando sulla linea di quanto l’economista è venuto dicendo
130
Capitolo IV
e ripetendo da noi (da ultimo all’Istituto per gli studi filosofici di Napoli, per iniziativa dell’Ama/Associazione mondo amico, a Fiuggi, in occasione del “Premio Manzù”, a Torino, dove la Facoltà di Economia gli ha
conferito la laurea honoris causa ecc.), ciò che risulta sempre più evidente è difatti la esportabilità del modello Grameen Bank anche nei Paesi
cosiddetti avanzati, e proprio in quanto si fonda sui concetti di “microcredito”, “prestito d’onore senza garanzia”, e “credito solidale” come
“redditività d’impresa” e “attività di gruppo”. Ma c’è un di più, nel programma, che non è mero rapporto finanziario, bancario, e che invece
appare essere una sorta di “questione di principio”, un atteggiamento
filosofico “altro”...
Ecco, l’idea da cui prendere le mosse con gli studenti del nostro Liceo potrebbe per l’appunto essere questa: di leggere non frettolosamente Il banchiere dei poveri, tutto il libro, e di produrre quindi, attorno
all’opera, i necessari approfondimenti e le opportune ricerche interculturali, tenendo soprattutto conto degli attuali sviluppi del sistema Grameen Bank anche nel Mezzogiorno d’Italia (cfr. nello stesso numero di
Il Mattino su citato, la notizia di sostanziosi accordi con la Regione
Campania).
E subito, magari solo per saggiare se la cosa può interessare davvero, cimentarsi nel commentare criticamente il seguente brano di Muhammad Yunus, dal titolo “Se diamo fiducia ai poveri, cancelleremo la
povertà”, e pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2000:
La mia esperienza in seno a Grameen mi ha infuso una fede incrollabile nella creatività umana, che mi ha portato a pensare che l’uomo non sia nato per
patire le miserie della fame e dell’indigenza; se oggi soffre, e ha sofferto in passato, è perché noi distogliamo gli occhi dal problema.
Ho maturato la certezza, solida e profonda, che, se davvero lo vogliamo,
possiamo realizzare un mondo senza povertà. Questa mia convinzione non discende da un pio desiderio, ma dalle prove concrete che ho raccolto nell’esperienza di lavoro con la Banca Grameen. Non è solo il microcredito che può spazzar via la povertà. Il credito è solo una delle porte, per quanto grande, che la
gente può imboccare per uscire dalla miseria. Ma un’infinità di altri sbocchi
possono essere reperiti per facilitare tale scopo. Si tratta soprattutto di avere un
diverso concetto delle persone e di delineare un nuovo quadro istituzionale atto
ad accogliere la nuova concezione.
Grameen mi ha insegnato due cose. Primo, la nostra conoscenza delle persone e dei modi in cui esse interagiscono è ancora molto inadeguata, secondo,
ogni persona è estremamente importante. Ciascuno di noi ha un potenziale illimitato, e può influenzare la vita degli altri all’interno delle comunità e delle nazioni, nei limiti e oltre i limiti della propria esistenza.
In ognuno di noi si cela molto di più di quanto finora si sia avuto la possibilità di esplorare. Fino a che non creeremo un contesto che ci permetta di scoprire la vastità del nostro potenziale, non potremo sapere quali siano queste risorse.
Spetta soltanto a noi decidere dove andare. Siamo noi i piloti della nave spaziale chiamata Terra. Se prendiamo sul serio i nostri compiti non potremo che
arrivare là dove abbiamo pensato. […]
Yunus e Makarenko
131
Grameen ha sempre puntato alla massima semplicità di funzionamento.
Oggi siamo arrivati a perfezionare un meccanismo di rimborso che può essere
compreso immediatamente dalla stragrande maggioranza degli utenti:
– prestito con scadenza a un anno,
– tratte settimanali di identico importo,
– inizio dei pagamenti dopo una settimana dalla concessione del prestito,
– tasso d’interesse del 20 per cento,
– quota di rimborso: 2 per cento a settimana per cinquanta settimane,
– quota d’interesse: 2 taka a settimana per un prestito di 1000 taka.
Inoltre, se vogliamo riuscire, dobbiamo puntare sulla fiducia.
Fin dal primissimo giorno abbiamo stabilito che il nostro sistema avrebbe
fatto a meno di polizia e tribunali. Noi partiamo dal principio che dobbiamo essere capaci di far marciare autonomamente i nostri affari, altrimenti faremmo
meglio a lasciar perdere la banca e a cercarci un altro mestiere. A tutt’oggi, per
recuperare i nostri crediti, non ci siamo mai serviti di avvocati, né di altre figure
professionali esterne alla banca.
Nella stessa logica, non esistono da noi atti giuridici tra la banca e il cliente.
Noi stabiliamo rapporti con le persone, non con i documenti. Il nostro legame
riposa sulla fiducia, e il successo o il fallimento della nostra iniziativa dipendono
dalla forza del rapporto personale con l’utente.
La parola “credito” significa propriamente fiducia. Nel sistema bancario tradizionale, tuttavia, vige soltanto la diffidenza reciproca. Al giorno d’oggi le banche tendono a sospettare ogni debitore di voler scappare con il denaro, lo tengono quindi legato con clausole di ogni genere, studiate attentamente dagli avvocati.
Per Grameen, al contrario, il presupposto di partenza è che i debitori siano
onesti. Ci si potrà accusare di ingenuità, ma resta il fatto che questo ci risparmia
il fastidio di compilare montagne di documenti. E nel 99 per cento dei casi la
nostra fiducia è ricompensata.
Gli insolventi rappresentano appena l’uno per cento dei clienti. E anche in
quei casi Grameen non ritiene che il debitore insolvente sia automaticamente
una persona disonesta, piuttosto pensiamo che la sua situazione personale sia
così difficile da impedirgli di rimborsare il suo minuscolo prestito. Allora perché
affannarsi a correre dietro agli avvocati? In fondo, lo 0,5 per cento di mancato
rimborso rientra tranquillamente nei rischi d’impresa.
Un’ultima cosa. Su Il banchiere dei poveri progetta di girare un film
Gianni Amelio, per la Cecchi Gori Group (cfr. “Il cinema secondo Amelio”, Film-tv, 27 agosto 2000, p. 6). Fa riflettere.
3. Su Yunus e dintorni32
(10 marzo 2005)
Come e quando è nato il rapporto tra l’economista Yunus e il professore-pedagogista Siciliani de Cumis?
32 Da un’intervista in tale data, a cura di Giuseppe Gaetano, per i siti http://
www.magcity.it e http://cattolicanews.it (con richiamo sull’edizione cartacea del
mensile (ora bimestrale) Presenza.
132
Capitolo IV
Del Banchiere dei poveri, mi parlò per la prima volta un amico regista cinematografico cinque anni fa, alla fine di luglio, mentre ero in partenza per le vacanze, in Calabria. Me ne parlò come del soggetto di un
suo possibile film… Dedicai così a Yunus tutto l’agosto: e ne fui tanto
colpito che, tornato a Roma, cambiai il titolo del mio corso di Pedagogia
generale, per leggere Il banchiere dei poveri… Un Makarenko dei nostri
tempi – pensavo – anche se cambiando tutto quel che c’è da cambiare…
Quali sono i principi, le parole-chiave della “pedagogia” di Yunus?
Volendo essere telegrafico, direi il principio di educabilità, la fiducia
nel “potenziale illimitato” di ciascun individuo, il credito “senza garanzia” che ne deriva nell’intelligenza e nella volontà umana, il “collettivo”
come strumento di aggregazione e di recupero delle disfunzioni individuali, la responsabilità quindi (intesa anche come corresponsabilità), la
libertà e la disciplina, la prospettiva, l’antipedagogia… Proprio come
Makarenko: un Makarenko del Duemila, decisamente planetario, ma
senza il contesto della Rivoluzione d’Ottobre…
Qual è la reazione dei suoi studenti di fronte a questa proposta?
Quali i punti di maggior interesse da parte loro nei confronti dell’esperienza di Yunus?
Difficile dire, bisognerebbe chiederlo a loro… Li vedo però assai
coinvolti: come se Yunus, ben al di là dell’immediata congiuntura universitaria, al di là del corso, dell’esame, della eventuale tesi di laurea,
rispondesse positivamente assai meglio di altri ai loro bisogni psicologici e alle loro più recondite esigenze morali… Direi di più: come se Il
banchiere dei poveri affidasse loro in prestito tutt’intero il suo progetto
educativo e loro accettassero questo prestito, per un qualche investimento formativo a breve o a lunga scadenza. Come se l’interesse culturale che provano per la proposta di Yunus venisse a coincidere con un
interesse, un valore aggiunto da corrispondergli, prima o poi. È il carisma di un’idea, più che il carisma di una persona, a intrigare i ragazzi:
come se loro, i ragazzi, stessero vivendo la propria vita più a Dacca, accanto a Yunus, che non a Roma, a Villa Mirafiori…
E la reazione dei suoi colleghi? Ha cercato di trasmettere anche a
loro quest’interesse? In che modo? Come rispondono?
Quattro anni fa, in occasione degli usuali scambi di doni per le feste
di fine-inizio d’anno, regalai Il banchiere dei poveri a una decina di colleghi. Le risposte più significative sono state queste: qualcuno ha adoperato il libro a lezione, qualcun altro mi ha rivolto delle domande, per
saperne di più. Un altro ancora, colpito favorevolmente dal libro, ha
parlato di Yunus in sede di dottorato di ricerca. Tutti nel Consiglio del
Corso di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione, siamo
Yunus e Makarenko
133
stati quindi d’accordo nell’incoraggiare un laboratorio “autogestito” sul
tema del microcredito e nell’affidare a persona competente un contratto
d’insegnamento su Yunus, Makarenko e Dewey… L’immagine e una citazione di Yunus figurano perfino sui gadget della Facoltà di filosofia, e,
come Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche, abbiamo preso l’iniziativa di fare andare uno studente, esperto di Yunus,
in India, a fondarvi una scuola…
Quali osservazioni critiche ha raccolto (da parte di studenti e docenti) in relazione all’esperienza di Yunus?
Un luogo comune ricorrente è che, nei Paesi cosiddetti avanzati,
l’esperienza yunusiana non possa attecchire come è attecchita nei Paesi
sottosviluppati, e che pertanto sia destinata a fallire: e si porta l’esempio di Napoli, dove sembra che l’accordo finanziario di qualche anno fa
tra la Regione Campania e la Grameen Bank non abbia funzionato nel
modo previsto… Io invece sono persuaso che il modello Yunus non sia
soltanto un modello di finanza locale per battere la povertà e la fame di
cibo; credo si tratti piuttosto di qualcosa di assai più complesso e organico, di qualcosa che coinvolge la creatività intellettuale e un’altra “fame”, la fame di cultura, di tutti gli individui e, dunque, la formazione,
l’educazione individuale e collettiva di un numero non delimitabile di
soggetti umani. Di qui la convinzione che sia necessaria una traduzione
del modello Yunus anche su altri piani, e anzitutto sul terreno delle idee
e dei valori, cioè sul piano dell’educazione estetica, dell’informazione,
della comunicazione, dell’espressione, ecc. È un discorso elementarissimo e al tempo stesso assai complesso, facile e difficile insieme… Ma
da fare.
Quali esperienze positive (dibattiti, tesi di laurea, ulteriori approfondimenti) sono sorte (all’interno dell’Università) intorno all’esperienza Yunus-educazione?
Le nostre esperienze yunusiane positive – come dice – sono sorte a
due livelli: da un lato, certamente, nell’impegno diretto dei singoli e dei
gruppi a leggere criticamente Il banchiere dei poveri, a redigere tesi di
laurea sul no-profit e Yunus, su don Milani e Yunus, su Makarenko,
Dewey e Yunus, perfino su Pico della Mirandola e Yunus. Da un altro
lato, un’analoga positività io la vedrei anche sul piano metodologico: e
cioè – come dicevo – nell’applicazione del “metodo Yunus” a ben altre
situazioni didattiche, coniugate alla ricerca di prima mano (così a livello
universitario come nella scuola)… Il lavoro di un insegnante, a pensarci
bene, rassomiglia molto a quello di un banchiere. Gli ingredienti ci sono
praticamente tutti: crediti e debiti formativi, interessi e profitti culturali, restituzioni, investimenti, capitalizzazioni, moltiplicatori pedagogici,
ecc. Ciò che fa difetto, però, è una strategia non solo individuale, ma
anche collettiva di funzionamento della “banca educativa”, nella dire-
134
Capitolo IV
zione sperimentata con successo da Yunus. Una prospettiva di politica
culturale in tal senso ahimè manca, manca del tutto.
A quali autori classici della pedagogia accosterebbe l’economista
Yunus? Perché?
Anzitutto ad Anton Semënovič Makarenko, per ciò che dicevo prima, a John Dewey, per l’atteggiamento sperimentale (e per il modello
che ne deriva). Ma occorrerebbe esaminare, oltre che le analogie, le differenze. Le differenze delle somiglianze… E ciò a maggior ragione se,
proprio con riferimento a Makarenko e a Yunus, ci viene da riflettere
sulla sproporzione che i due autori denunciano tra il contributo dei
classici (quali che siano) alla risoluzione dei problemi, e i problemi che
restano da risolvere (l’educazione dei ragazzi di strada, l’eliminazione
della fame nel mondo). Ma non solo questo. I classici continueranno a
svolgere la loro funzione, storica, di riferimento, ma la vita non smetterà di porre le sue domande, vecchie e nuove che siano, i suoi nodi da
sciogliere…
Può citare una frase del libro di Yunus che ritiene particolarmente
significativa ai fini di un discorso pedagogico?
Una sola? La stessa definizione di “banchiere dei poveri”… Purché ci
s’intenda sul concetto di “banchiere” e su quello di “poveri”. Magari con
l’aiuto delle parole di Yunus: “In ognuno di noi si cela molto di più di
quanto finora si sia avuto la possibilità di esplorare. Fino a che non creeremo un contesto che ci permetta di scoprire la vastità del nostro potenziale, non potremo sapere quali siano queste risorse”.
Yunus scrive che l’obiettivo della Grameen Bank è “eliminare la
povertà dalla faccia del pianeta”. In che modo l’economia e la pedagogia possono incontrarsi, per il raggiungimento di questo scopo?
Esattamente nel modo in cui economia e pedagogia si incontrano
nel Poema pedagogico di Makarenko e nel Banchiere dei poveri di Yunus: cioè – come ho detto – in presenza della fiducia nell’educabilità di
ciascuno e di tutti gli esseri umani (Makarenko) ovvero nel potenziale
di creatività di ogni uomo (Yunus). In presenza, quindi, della medesima
prospettiva: l’eliminazione della povertà (materiale) come l’altra faccia,
inseparabile, dell’acquisizione di ricchezza (culturale).
Il principio fondamentale dell’esperienza di Yunus è il “credito”.
Anche nella scuola italiana, negli ultimi anni, si è iniziato a parlare di
“crediti”. Come giudica l’introduzione di questo termine nel sistema
formativo italiano?
Yunus e Makarenko
135
Intanto, comincerei col fare un po’ di storia dei due termini, per sottolinearne le differenze testuali e di contesto. Subito dopo però negherei queste differenze, alla luce del principio di sinergia finanza-educazione… Come giudico l’introduzione del termine “credito” nel sistema
formativo italiano? Non lo giudico affatto: perché vorrei si giudicasse
da solo… A me piacerebbe fosse ripensato alla luce del meccanismo del
“microcredito”. Occorrerebbe coniugare i sistemi di valutazione correnti, anche quelli più avvertiti, con la lezione di Yunus.
L’università italiana sta vivendo in questi mesi una fase di transizione. Come professore di Pedagogia, con quale stato d’animo sta vivendo questo momento?
Lo sto vivendo contraddittoriamente. Nel senso che, da un lato, per
quel che ci succede, non posso non soffrire anch’io, come tutti nell’università, lo stato di seria impotenza in cui versiamo: in mancanza di risorse finanziarie, di spazi adeguati, di personale docente e amministrativo. Da un altro lato, facendo tesoro del Yunus della fine degli anni Settanta, mi rimbocco quotidianamente le maniche e provo a fare la mia
parte, in un contesto universitario culturalmente molto eterogeneo, in
cui però tutti proviamo a dare il massimo. Ecco, proprio l’idea di una
responsabilità e corresponsabilità collettiva mi aiuta non poco. Così
come mi aiuta molto l’idea di non essere un isolato nel mondo “grande
e terribile” di cui parlava Gramsci, e di poter contare sull’esempio di
uomini del tipo di Yunus.
Quale crede sia il punto di forza della riforma Moratti (rispetto
all’università)? E quale l’aspetto più problematico?
Il punto di forza? La debolezza dei suoi oppositori. Il punto più problematico? Il potenziale critico inespresso, dentro e fuori l’università.
Siamo a metà marzo: state già pensando all’anno prossimo? Quali
novità può anticiparci?
Sì, proprio in questi giorni, assieme ai colleghi del Corso di laurea,
stiamo programmando le attività didattiche del prossimo anno accademico. La novità più seria, davvero grave, è che abbiamo deliberato il
“numero chiuso” (in contrasto con le nostre idee, con la nostra tradizione, con i nostri progetti). Ma non abbiamo avuto scelta: pena la dequalificazione del nostro lavoro… La novità universitaria più impegnativa per me? Il continuare a far stare assieme i corsi, gli esami e le tesi
del vecchio e del nuovo ordinamento, il partecipare alle attività dei “laboratori autogestiti” e dei “ moduli coordinati” ai miei insegnamenti, il
portare avanti i progetti di cattedra già avviati e, in questo quadro, partecipare alle iniziative in onore di Antonio Labriola nel centenario della
morte…
136
Capitolo IV
Yunus comparirà ancora nel suo programma d’esame?
Sì, a più livelli. Perché Il banchiere dei poveri viene consigliato per
l’esame agli studenti delle Facoltà di Filosofia, di Lettere e Filosofia, di
Scienze umanistiche e di Lingue, è oggetto di studio nel corso di lezioni
che terrà una giovane collega, in rapporto a Dewey e a Makarenko. Yunus è poi l’argomento di una tesi di laurea in dirittura di arrivo, e io
stesso me ne occuperò nei due semestri, per analogia e per differenza,
in rapporto a Labriola.
4. Appunti per un sabato mattina33
(17 aprile 2004)
Su quella magnifica poltrona mi addormentai,
senza attendere la fine dello spettacolo. Nel sonno
sentii i piccoli dell’undicesimo strillare con le loro
vocette da soprani:
Trasportiamolo, trasportiamolo, su!
Ma Silantij li mise a tacere bisbigliando:
Su, state un po’ zitti, come si suol dire! Un
uomo si è addormentato, non bisogna disturbarlo,
e che non se ne parli più! Vedete, com’è la storia…
(Anton S. Makarenko)
Io non so se Danilo Dolci nel 1974, nel suo Poema umano, nell’affidare al verso di una composizione poetica il concetto che fa ora da titolo
a questo libro, “Ciascuno cresce solo se sognato”, avesse presente il Poema pedagogico di Anton Semënovič Makarenko. Opera, come si sa,
dai risvolti per esplicito antipedagogici e antididattici, e facente certamente parte del bagaglio culturale dal maestro di Partinico.
Su un altro piano, mi piacerebbe sapere se lo stesso Dolci avesse avuto modo di conoscere le pagine su Arte e sogno di Psichologija iskusstva di Lev Semënovič Vygotskij. Pagine tradotte in lingua italiana proprio in quegli anni, nel 1972: e concernenti per l’appunto il tema della
“creazione, come sogno ad occhi aperti” di artisti e bambini analoga 33 Con alcune varianti, si tratta di un testo di prefazione al volume “Ciascuno cresce solo se sognato”. La formazione dei valori tra pedagogia e letteratura, a cura di
E. Medolla e R. Sandrucci, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2003, nella collana “Percorsi
formativi” diretta da G. Cacioppo. Per ragioni di spazio, nel volume, si era dovuto
fare a meno dell’esergo makarenkiano in epigrafe. Che torna ora al suo posto, riproponendo il sonno di Makarenko come foriero di possibili sogni di collettivi in crescita; e circoscrivendone la portata alla luce di ciò che è documentato nella Postilla, con
le schede a cura di Simona Savo, una studentessa del Corso di laurea in Scienze
dell’educazione e della formazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
(Facoltà di Filosofia, anno accademico 2002-2003). La quale, avendo letto il Poema
pedagogico ed essendosi interessata in particolare alla tematica del “sogno” secondo
Makarenko, ha fornito un essenziale promemoria per una ricerca da fare.
Yunus e Makarenko
137
mente.34 E ciò, anche nel quadro di una riflessione più generale su
“L’arte e la psicoanalisi”35: tra l’altro, nella chiave letteraria, pedagogica,
morale, formativa, che è al centro di “Ciascuno cresce solo se sognato”.
Né so, ancora, se la vygotskijana “chiamata in causa dell’inconscio”,
come “ampliamento della sfera delle indagini” e come “indicazione che,
nell’arte, l’inconscio diviene sociale”, abbia poi prodotto risultati teorico-pratici apprezzabili tra psicologi e sociologi, storici e letterati, filosofi e moralisti, culturologi ed educatori, e tra gli altri possibili destinatari
di quelle teorie. Ovviamente, artisti e psicoanalisti in primo luogo.
E tanto più in quanto, a parere degli esperti, la posizione di Vygotskij sembra in ciò avvicinarsi alla successiva, “sostanziale modificazione della concezione psicoanalitica dell’arte, anzitutto nei lavori di
Jung”36. Argomenti e problemi da chiarire nei loro termini effettivi, per
analogia e per differenza e, insomma, da approfondire mediante studi
speciali.
So però, adesso, che c’è un uso inedito, e davvero suggestivo, del testo di Dolci e del contesto in cui si situano il verso citato e l’intero componimento poetico che lo comprende (C’è chi insegna), proprio nel volume attorno al quale vengo adesso prendendo questi appunti. Appunti
di cui mi piacerebbe discorrere nelle nostre riunioni del sabato mattina
con tutti e dodici gli “apostoli” (manco a farlo apposta) che me li stanno
stimolando.
Ecco perché, probabilmente, ho letto e riletto, senza tuttavia riuscire
a lasciarmelo alle spalle, il luogo cruciale del capitolo di Elisa Medolla,
con cui si conclude il sobrio eppur ricco e vario itinerario saggistico, nel
quale la stessa Medolla fa da guida assieme a Roberto Sandrucci. Che
non è un “libro di sogni”, ma un libro per i sogni, intanto, di chi non sa
(nemmeno, velletariamente, di non sapere), e che tuttavia, ora dal cielo
della propria ignoranza ora dagli inferi delle cosiddette verità acquisite,
svolge socialmente la parte dell’insegnante…
Meglio, del cercatore d’oro, che mostra le sue pepite. Ed è d’altronde
evidente che proprio il poeta ed educatore Dolci, anche al di là delle pagine di Medolla che tecnicamente lo riguardano in questa sede, contribuisce alla costruzione della filigrana morale dell’intero collettivo di
pensiero, che in tema di formazione dei valori tra pedagogia e letteratura, gli stessi Sandrucci e Medolla hanno saputo intelligentemente assemblare in funzione della loro proposta di libro.
Una proposta che, non a caso, viene a inserirsi nella collana Percorsi formativi, diretta da Giovanni Cacioppo per i tipi dell’Editore Sciascia (l’uno e l’altro variamente partecipi alla lezione di Dolci). E che
34 Cfr. L.S. VYGOTSKIJ, Psicologia dell’arte, prefazione di A.N. Leontjev, note e
commento di V.Vs. Ivanov, Editori Riuniti, Roma 1972 (prima ristampa 1976), pp.
112 sgg. e 125.
35 Ivi, pp. 109-126.
36 Ivi, p. 128 (nota del curatore).
Capitolo IV
138
scaturisce, nella sua specificità, dalla concreta esplicazione autocritica
di una pedagogia dolcianamente antipedagogica:
C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
Profondamente stimavo un amico
quasi invidiando un altro, a cui diceva
stupido, e non a me.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.37
Di qui allora l’idea di massima e l’ipotetica fisionomia del libro. L’attivarsi organizzativo dei curatori, la scelta delle risorse culturali da
coinvolgere nel progetto e quindi l’accordo collegiale, tutto loro, circa i
contenuti e le forme del contributo di ciascun autore, nella serie ordinata e coordinata delle procedure di selezione, degli interventi critici, degli ultimi aggiustamenti di stile. E, finalmente, la definizione del volume che ne è risultato: un’antologia tematica, costituita da spaccati monografici indipendenti e al tempo stesso interdipendenti. Organici tra
loro e prospetticamente inclini a nuove esperienze di ricerca.
Di qui, pertanto, il senso complessivo dell’operazione letteraria a
più voci:38 certo composita, ma relativamente compiuta a mo’ di equilibrata e definita sequenza, solidale nelle sue parti, ma ben articolata nei
D. DOLCI, “C’è chi insegna”, in ID., Poema umano, Einaudi, Torino 1974, p. 105.
Ed è un tentativo che porta avanti ed approfondisce i discorsi per l’innanzi avviati come singoli o in gruppo, da un ventennio a questa parte, già altrove: così specialmente, oltre che in numerose riviste accademiche, in L’università, la didattica, la
ricerca. Primi studi in onore di Maria Corda Costa, a cura di N. Siciliani de Cumis,
Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001; N. SICILIANI DE CUMIS, Italia-URSS/Russia-Italia.
Tra culturologia ed educazione 1984-2001, con la collaborazione di V. Cannas, E.
Medolla, E. Orsomarso, D. Scalzo, T. Tomassetti, cit.; ID., I bambini di Makarenko. Il
Poema pedagogico come “romanzo d’infanzia”, cit.; Laboratorio Amelio, a cura di
M.P. MUSSO e A. SANZO, presentazione di N. Siciliani de Cumis, postfazione di D.
Scalzo (come uno “speciale” in allegato alla rivista Comunità Domani, gennaio-giugno
2003).
37
38
Yunus e Makarenko
139
diversi capitoli, allineati e assemblati secondo la tendenziale fisionomia
di un work in progress. Del quale è possibile cogliere subito la dimensione del proprio farsi nel gioco di “essere” e “dover essere” di una ricerca coordinata, libera e al tempo stesso proiettata ben oltre l’abbrivio
delle quattro “parole accendistorie” (“formazione”, “valori”, “pedagogia”, “letteratura”), da cui il progetto comune ha preso le mosse.
Apre quindi la raccolta un contributo di Sandrucci, su Günther Anders, “allievo” un tempo di Edmund Husserl, quindi di Claude Eatherly,
il pilota di Hiroshima. Ed è un testo che è introduttivo, nella misura in
cui rompe stilisticamente gli schemi delle abusate e irresponsabili passività dell’insegnare e dell’apprendere. Le quali comportano invece, per
principio e in ultima analisi, e a maggior ragione se in presenza dell’Apocalisse, “gioco delle parti”, un inquieto, drammatico attivismo. Una disperata creatività.
Seguono nell’ordine, con la serietà, l’acutezza, l’inventività di cui
sanno dare prova: Giordana Szpunar, su John Dewey, filosofo e pedagogo del “circolo virtuoso” arte-civiltà/civiltà-arte; Chiara Ludovisi, su
don Lorenzo Milani, fine letterato, uomo di scuola e critico intransigente dell’“intellettualismo”; Vincenzo Gabriele, su Pinocchio e le problematiche “valoriali” che al burattino si possono riconnettere, sia in senso
soggettivo sia in senso oggettivo; Germana Recchia, sulle tracce letterarie nell’opera di Maria Montessori, Il Metodo della Pedagogia Scientifica, e sulla loro funzionalità e incidenza formativa; Virgilio Pino, sul
testo di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, come pretesto per ragionare sull’uomo e come occasione formativa in fieri; Tania Tomassetti, sul senso proprio e nuovo della letteratura tra valori e educazione,
secondo Luigi Volpicelli; Tiziana Pangrazi, su il Doctor Faustus di Thomas Mann: la formazione musicale di Adrian Leverkühn, nelle sue valenze anche interdisciplinari; Manuel Anselmi, su alcuni versi di Niccolò Machiavelli e le loro incidenze formative, dialettiche, tra pedagogia e
politica; Maria Pia Musso, su Antonio Gramsci tra narrazione ed educazione, quindi tra “fabula” e “racconto”; Aldo Demartis, sul Cesare Zavattini “poeta” della propria esperienza etica “in dettaglio”.
Chiude Medolla, su Danilo Dolci, tra scrittura e moralità, educazione e impegno civile: e, insisterei, tra pedagogia e antipedagogia, dentro
e fuori le pagine di questo libro. Tanto in presenza degli argomenti di
ricerca oggetto delle singole trattazioni, quanto alla luce dell’insieme
dei nessi scientifici scaturenti dal loro accostamento funzionale tra
formazione, valori, pedagogia, letteratura.
Un libro, “Ciascuno cresce solo se sognato”, che, se da un lato rinvia
metodologicamente al settore dei contenuti dell’enciclopedia pedagogica (alle cosiddette “materie specifiche” via via chiamate in causa e ai
relativi “stati dell’arte”), da un altro lato non nega l’azione congiunta
dell’etico e dell’educativo, del letterario e del formativo. La loro azione
sinergica, prospettica, aperta ai valori dell’ulteriorità.
Come scrive Italo Calvino, esperienze del genere “danno una forma
alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di para-
140
Capitolo IV
gone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza”39.
Sono cioè esperienze formative, per quanto storicamente determinate e
radicate nel presente, rivolte proceduralmente al futuro.
E mi viene in mente a questo stesso proposito, ma anche più in generale, dello stesso Calvino, la celebre e pedagogicamente lungimirante
“tirata” sul lettore (al posto dell’autore, “enfant gâté dell’inconsapevolezza”):
Smontato e rimontato il processo della composizione letteraria, il momento
decisivo della vita letteraria sarà la lettura. In questo senso, anche affidata alla
macchina, la letteratura continuerà a essere un luogo privilegiato della coscienza umana, un’esplicitazione delle potenzialità contenute nel sistema dei segni
d’ogni società e d’ogni epoca: l’opera continuerà a nascere, a essere giudicata, a
essere distrutta o continuamente rinnovata al contatto dell’occhio che legge, ciò
che sparirà sarà la figura dell’autore, questo personaggio a cui si continuano ad
attribuire funzioni che non gli competono, l’autore come espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime, l’autore come utente d’organi
sensori e interpretativi più ricettivi della media, l’autore questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali. Il rito che stiamo celebrando in questo momento sarebbe assurdo se non potessimo dargli il senso d’una cerimonia funeraria per accompagnare agli inferi la figura dell’autore e celebrare la perenne resurrezione
dell’opera letteraria, se non potessimo immettere nella nostra riunione qualcosa
del tripudio dei banchetti funebri, in cui gli antichi ristabilivano il contatto con
ciò che vive.
Scompaia dunque l’autore – questo enfant gâté dell’inconsapevolezza – per
lasciare il suo posto a un uomo più cosciente, che saprà che l’autore è una macchina e saprà come questa macchina funziona.40
Di più, “Ciascuno cresce solo se sognato”, per le sue proprie fattezze
euristiche, è una prova (tra le altre possibili) del rapporto problematico
e almeno in apparenza paradossale dei due termini dell’insegnare e
dell’apprendere. E non solo nel senso, sostenuto con ottimi argomenti
da Aldo Visalberghi:
che l’apprendimento precede sempre e necessariamente l’insegnamento efficace
[…]. Esiste cioè una sorta di precedenza ideale dell’apprendimento sull’insegnamento, e una precedenza di principio della spontaneità sull’intenzionalità
didattica.41
Ma anche nel senso che, dal punto di vista dell’insegnamento e dei
suoi “valori”, considero il fatto che io stesso, disponendomi a insegnare,
non posso non affrontare preliminarmente temi e risolvere problemi di
I. CALVINO, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, p. 12.
ID., “Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)” (1967), in ID., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi,
Torino 1980, pp. 172-173.
41 A. VISALBERGHI, Insegnare ed apprendere. Un approccio evolutivo, La Nuova
Italia, Scandicci (Firenze) 1988, p. 15.
39
40
Yunus e Makarenko
141
apprendimento, relativi alla specificità della conoscenza dell’allievo,
della società, dei metodi, dei contenuti. E sono compiti, funzioni, che
comportano indagine, cioè ricerche, dunque un apprendimento del
“nuovo” che non può non precedere, in tal modo, la mia stessa ipotesi
di insegnamento.
Dal mio mettermi in gioco, come docente-ricercatore:
Per educare
meglio non inizi
dalla grammatica, dall’alfabeto:
inizia dalla ricerca del fondo interesse
dall’imparare a scoprire,
dalla poesia ch’è rivoluzione
perché poesia.
Se educhi alla musica:
dall’udire le rane,
da Bach, e non da pedanti esercizi.
Quando avranno saputo, i tuoi alunni
può una carezza essere infinite
carezze diverse, un male infiniti
mali diversi,
e una vita infinite vite,
arrivando alle scale chiedi le suonino
tesi come una corda di violino
con la concentrazione necessaria
al più atteso concerto.
Non temere di rimanere
solo.
Inizia con pochi
a garantire qualità all’avvio,
per essere di tutti:
elastico con chi non sa capire
aperto al diverso
non lasciarti annegare in confusioni arruffone
da chi è inesatto e impuntuale cronicamente –
taglia netto.
E soprattutto cerca di scoprire
la necessaria dialettica
tra l’impegno maieutico e l’assumere
responsabili scelte.42
Lo stesso Vygotskij della Psicologia dell’arte, del resto, non risulta
estraneo a queste problematiche formative. E intervenendo nelle discussioni in atto sull’“uomo nuovo” del suo tempo, tra il 1915 e il 1922,
42
DOLCI, op. cit., pp. 123-124.
Capitolo IV
142
sembra variamente collegabile alla complessiva esperienza pedagogica
e letteraria che è, tra l’altro, alla base del Poema pedagogico di Makarenko. Alla sua maieutica del senso della responsabilità (e corresponsabilità).
Piuttosto che sugli “ingegneri di anime” di staliniana e ždanoviana
“pedagogia”, sia Vygotskij che Makarenko, ciascuno dal proprio punto
di osservazione e di competenza, sembrano infatti trovarsi pienamente
d’accordo su una conclusione (antipedagogica) di questo tipo, tra “prospettiva del futuro” e “funzione dell’arte”43:
Non è possibile neanche immaginare quale sarà, in questa rifusione dell’uomo, la funzione che l’arte sarà chiamata a esplicare, e quali forze, che già nel nostro organismo sussistono, ma che non sono ancora in attività, saranno da essa
chiamate alla formazione dell’uomo nuovo. Una sola cosa è fuor d’ogni dubbio:
ed è che, in quel processo, spetterà all’arte pronunciare la più autorevole e decisiva parola. Senza una nuova arte, non si avrà un uomo nuovo. E le possibilità,
nell’avvenire, sono per l’arte altrettanto irriducibili a previsioni e a calcoli anticipati, quanto per la stessa vita: secondo la parola di Spinoza: “Ciò di cui il Corpo è capace, nessuno mai lo ha ancora definito”44.
L’arte e la “vita” (parola-chiave in Makarenko come in Vygotskij). Il
“sogno” dell’“uomo nuovo”. L’“uomo nuovo”, che soggettivamente sogna e che viene a sua volta oggettivamente sognato: e sognato così da
risultare liberamente in grado, a sua volta, di sognare la propria educazione e rieducazione. Cioè in grado di sognarsi come processo e formazione di novità umane. Come valore.
Ecco perché, allora, come chiave metodologica di “Ciascuno cresce
solo se sognato”, può servire in particolare la chiusa del saggio di Sandrucci, sul giovane Günter Anders “ballerino” al cospetto del grand old
man Edmund Husserl:
Trentacinque anni fa, in uno studiolo della Lorettostrasse a Friburgo. Trincerato dietro un muro di analisi scritte senza tregua dall’inizio del secolo […]
stava alla sua scrivania, uomo paterno, scienziato inesorabile, il vecchio Husserl, che mi aveva chiesto di andare da lui per tenermi un discorso molto serio.
Perché gli era giunta all’orecchio l’incredibile notizia che io, travestito da spettro, avevo ballato nella Kaiserstrasse in una notte di carnevale, e divertimenti di
questo genere suscitavano in lui “gravissimi dubbi”. Un giovane, mi disse, che
faceva discorsi di questo genere, e li faceva, per di più, volentieri, mostrava con
ciò di non meritare le nozioni apprese alla sua scuola, di essere più immaturo
del proprio ingegno, e di natura più pericolosa, per sé e per gli altri, di quella di
uno Scheler. Tacqui. Ero ancora troppo, troppo giovane, per poter spiegare al
grande vecchio che il mondo non consiste solo di “oggetti in generale”, e che filosofare e ballare non si escludono reciprocamente […]45.
VYGOTSKIJ, op. cit., p. 352.
Ivi, pp. 352-353.
45 G. ANDERS, in R. SANDRUCCI, infra.
43
44
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Ecco perché, per quanto su un altro piano, può servire infine ricordarsi del gopak: di quella danza coinvolgente, frenetica, rigeneratrice,
che verso la fine del Poema pedagogico, i ragazzi di Kurjaž si mettono
tutt’insieme a ballare. Con risultati formativi, etici, educativi, letterari,
a dir poco straordinari.
Postilla sul sogno nel Poema pedagogico
Ciò che interessa, nelle citazioni qui di seguito riportate, non è soltanto la molteplicità e la varietà dei profili con cui Makarenko rappresenta nel Poema pedagogico la tematica del sogno. È anche e soprattutto la movenza dell’articolazione dialettica del sogno come stato psicologico ora positivo ora negativo, all’interno della filosofia makarenkiana
della prospettiva. Ora come superamento dei limiti dell’azione nelle libere regioni del progettuale, ora come fittizia e distorcente evasione dai
condizionamenti del reale. Tuttavia sono proprio la duplice faccia del
sogno e l’intima contraddittorietà dell’onirico a fare andare avanti sia la
crescita della colonia Gor’kij sia la crescita di qualsiasi altra esperienza
educativa, tra guadagni e perdite formative, difetti d’immaginazione e
risorse della creatività, “scoppi” e “stasi”, pedagogia e antipedagogia. Ed è
ciò che, per l’appunto per analogia, rinvia al libro curato da Medolla e
Sandrucci, al verso di Dolci che gli fa da titolo, alla sua non ingannevole
significatività e vitalità.
La traduzione del Poema pedagogico utilizzata da Simona Savo per
le seguenti citazioni è quella a cura di Saverio Reggio (Raduga, Mosca
1985).
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“A marzo la colonia contava già trenta iscritti. Per la maggior parte erano assai mal ridotti, inselvatichiti, del tutto refrattari alla realizzazione
del sogno di educazione sociale”.
“La povertà, che toccava limiti estremi, i pidocchi e i piedi semicongelati non ci impedivano di sognare un futuro migliore. Benché il nostro
trentenne Piccolo e la vetusta seminatrice lasciassero poco sperare
nel campo dell’agricoltura, i nostri sogni avevano invece proprio un
indirizzo agricolo. Ma restavano sogni”.
“Sulla via del ritorno, camminando dietro la slitta dei nostri vicini, sul
fondo stradale ancora compatto, Kalina Ivanovič cominciò a sognare:
come sarebbe stato bello avere quel serbatoio!”.
“Ma ragazzi, lo sapete che non è bello abbandonarsi a sogni irrealizzabili? Non è una cosa da bolscevichi?”.
“Così mi trovai in mano l’autorizzazione a prendere possesso dell’ex
proprietà Trepke, con sessanta desjatine di terreno coltivabile e un
preventivo di ricostruzione approvato. Me ne stavo in piedi in mezzo al
dormitorio e ancora stentavo a credere che non fosse un sogno”.
“Gli si leggeva chiaramente negli occhi che il loro sogno nella vita era
quello di diventare membri della colonia. Alcuni riuscivano anche a
realizzare il loro sogno, quando conflitti economici o religiosi interni alle
loro famiglie li spingevano fuori dalle braccia paterne”.
“Eravamo arrivati all’ultimo atto della nostra lotta contro le rovine di
Trepke, durata quattro anni. Tutti quanti noi, da Kalina Ivanovič a Šur-
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Capitolo IV
ka Ževelij, avevamo una voglia matta di terminare quella casa. Dovevamo realizzare nel più breve tempo possibile quello che avevamo
sognato tanto a lungo e con tanta speranza”.
“Le nostre sessanta desjatine sulle quali tanto si dava da fare Šere, non
impedivano a lui e ai suoi accolti di sognare qualche cosa di più grande,
un’azienda con tanto di trattore e con solchi di un chilometro filato”.
“I primi giorni di vita nella colonia erano solitamente per i ragazzi giorni
di riposo dopo le talvolta tragiche peripezie della vita vagabonda, erano giorni in cui i nervi dei ragazzi si ritempravano all’ombra rassicurante del sogno di una carriera di calzolaio o di falegname”.
“L’esatto opposto di Burun era Marusja Levčenko. Costei aveva portato
nella colonia il suo carattere insopportabilmente bizzoso, isterico, puntiglioso e capriccioso. Con lei ci toccò soffrire molto. Con una sconsideratezza da ubriaca e un’insana protervia era capace di distruggere in
un istante le cose più belle: l’amicizia, un successo, una bella giornata,
una serata tranquilla e serena, un bel sogno o la più fiduciosa speranza”.
“Veramente allora non è che la vita ne avesse molto di buon senso,
perché vivevamo in povertà. Io sognavo: se fossimo ricchi, i ragazzi potrebbero sposarsi e seminare i dintorni di giovani coppie del Komsomol”.
“Terminata la prima sarchiatura e poi la seconda, tutti sognavano di
potersi dedicare ai cavoli e ai fagioli, già nell’aria si diffondeva l’aroma
del fieno e, una domenica, trovavi scritto sull’ordine del giorno di Šere,
tranquillamente: Quaranta uomini per il diradamento delle barbabietole”.
“Questo Kuz’ma, qui, è come si suol dire un sognatore. Ma parli invece
Osip Ivanovič: a cosa ci servono quelli spruzza-acqua? Non è più utile,
qui, ingrassare un maiale?”.
“Per quanto della facoltà operaia da noi se ne fosse parlato fin dai
tempi di Il nostro è il più bello e alla facoltà operaia ci si preparasse
quotidianamente, per quanto non ci fosse per noi sogno più bello di
avere dei nostri ragazzi alla facoltà operaia, tuttavia, anche se si trattava di un vero trionfo, quando giunse il giorno degli addii tutti si sentivano tristi, su molti occhi comparvero le lacrime e avevamo paura”.
“La vita è fatta in modo che tutto è scomodo. Andare alla facoltà operaia è la felicità, un sogno, una specie di uccello di fuoco, che il diavolo
se la porti”.
“Fu allora che i ragazzi cominciarono a provare un particolare desiderio di conoscere personalmente Aleksej Maksimovič e cominciarono a
sognare il suo arrivo nella colonia, pur senza credere che ciò fosse
minimamente possibile”.
“Cosa ci stesse facendo a Char’cov non lo si sapeva, ma in compenso
nella colonia si lavorava molto. Difficile dire cosa sognassero i ragazzi,
se il Dnepr, o l’isola, o la vastità dei campi, o qualche fabbrica”.
“Quelli della facoltà operaia partecipavano ai sogni scherzosi su
quell’isola che dovevamo ereditare e contribuivano volentieri con il loro
vecchio amore per il recitare”.
“Per la colonia ebbe inizio un’era veramente felice. Per circa tre mesi i
ragazzi vissero di progetti. La Bregel’, di passaggio alla colonia, mi
rimproverò: – Makarenko, chi sta educando? Dei sognatori?
Sognassero pure! La parola “sogno” non mi piace molto. Ne emana un
che di signorina, o forse anche di peggio. Ma c’è sogno e sogno. Un
conto è sognare un principe con il cavallo bianco e un conto è sognare
ottocento ragazzi in una colonia. Quando vivevamo in casermette non
avevamo sognato ampie stanze luminose? Quando ci avvolgevamo le
estremità inferiori in pezze da piedi non sognavamo scarpe degne di
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questo nome? Non avevamo sognato la facoltà operaia, il Komsomol,
il Bravo e una mandria di Simmenthal? Quando era arrivato alla vecchia colonia con due maialini inglesi in un sacco uno di quei sognatori,
il piccolo e scarmigliato Van’ka Šelaputin, seduto sulle proprie mani su
una panca tanto alta che spenzolava i piedi nel vuoto, guardava nel
vuoto, guardava il soffitto: – Questi sono solo due maialini. Ma ne faranno degli altri. E quegli altri altri ancora. E tra… cinque anni avremo
cento maiali… Ho, ho, ha, ha, senti, Tos’ka, cento maiali! Il sognatore
e Tos’ka ridevano tanto forte da disturbare i discorsi pratici che si stavano facendo nel mio studio. Ma ora abbiamo più di trecento maiali e
nessuno si ricorda più come sognava Šelaputin. Forse la principale
differenza del nostro sistema educativo rispetto a quello borghese sta
nel fatto che da noi un collettivo di ragazzi deve necessariamente crescere e arricchirsi, deve scorgere davanti a sé un domani migliore e
tendere a esso in uno sforzo gioioso e comune, in un sogno allegro e
persistente. Forse è proprio in questo che si cela la vera dialettica pedagogica. Perciò non frenavo in alcun modo i sogni dei ragazzi e, con
loro, volai anche troppo lontano. Ma quello fu veramente un periodo
felice per la colonia e ora anche i miei amici lo ricordano con gioia.
Con noi sognava anche Aleksej Maksimovič, al quale scrivevamo dettagliatamente delle nostre vicissitudini. Solo alcune persone nella colonia non sognavano e non si mostravano gioiose e, fra questi, Kalina
Ivanovič. Aveva sì un animo giovanile, ma pare che per sognare il solo
animo non basti”.
“Perfino la Bregel’ era rimasta coinvolta nel nostro sogno, anche se in
quel periodo non mi chiamava con altro nome che Don Chisciotte dello
Zaporož’e”.
“Così l’ometto mise i piedi sul petto del nostro sogno inaspettatamente
gettato a terra, sul nostro magnifico sogno. E per quanto il sogno gemesse e cercasse di dimostrare che era uno di quelli che la ‘Gor’kij’
riusciva sempre a realizzare, non servì a niente: morì”.
“Quaranta educatori e quattrocento rieducandi parevano a chi ascoltava centinaia di aneddoti sull’indegnità umana, sogni malati di un denigratore, misantropo e sporcaccione”.
“Può, Kozyr’, può! Il consiglio dei comandanti può impartire delle benedizioni che il tuo onnipotente nemmeno se le sogna”.
“Capisco benissimo la profonda filosofia di Nisinov, tanto profonda che
nemmeno i sapienti se la sognano”.
“Nisinov e Zoren’ stavano appoggiati l’uno all’altro, spalla a spalla, e
rimiravano i gor’kiani come persi in un sogno, forse pensando al momento in cui anche loro si sarebbero trovati nelle nostre file, oggetto di
ammirazione da parte di altri ragazzi liberi”.
“Leggendo le lettere, osservavo al di sopra del foglio i ragazzi. Mi ascoltavano con l’anima interamente concentrata negli occhi, stupiti e
contenti, ma ancora incapaci di comprendere tutto il mistero e tutta la
vastità di quel nuovo mondo. Molti si erano alzati e protendevano le
facce verso di me, appoggiati sui gomiti. Quelli della facoltà operaia,
fermi vicino alla parete, sorridevano con aria trasognata, qualche ragazza cominciava già ad asciugarsi gli occhi, mentre i piccoli, più coraggiosi, la guardavano con indulgenza”.
“Dalle cime dell’‘Olimpo’ non si scorgono i dettagli del lavoro. Di lassù
si vede solo il mare sconfinato dell’infanzia e hanno in un ufficio il modello di un ragazzo astratto, fatto di materiali inconsistenti: idee, carta
stampata, sogni utopistici”.
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Capitolo IV
“Per sette anni non avevo sognato invano. Era proprio così che avevo
sognato i futuri palazzi per il lavoro pedagogico”.
“La mia soddisfazione era grandissima. Cercando di formularla in modo conciso, capii: avevo conosciuto da vicino dei veri bolscevichi, avevo avuto modo di convincermi definitivamente che la mia pedagogia
era una pedagogia bolscevica, che il tipo di uomo che mi ero sempre
posto come modello non era solo un mio bel sogno, ma una realtà tanto più tangibile ora che era diventata parte del mio lavoro”.
“Ci pareva un sogno: solo poco prima eravamo poveri in canna, mentre
ora Solomon Borisovič aveva montagne di legname, di metallo, banchi
da lavoro”.
“I giorni passavano e continuavano a essere giorni magnifici e felici. Si
ornavano di lavoro e di sorrisi come di fiori, le nostre strade splendevano limpide e risuonavano calorose parole di amicizia. Come sempre
splendeva su di noi un arcobaleno di occupazioni, come sempre i riflettori dei nostri sogni tagliavano il cielo”.
V
Il Papuano
1. Stephen J. Gould, una critica dell’ideologia in educazione1
(1 novembre 2002)
Pregiudizi e false misurazioni dell’intelligenza
Per diverse ragioni sia direttamente sia indirettamente pedagogiche,
questa opera di Stephen Jay Gould The Mismeasure of Man (1981), ora
in edizione italiana a cura di Alberto Zani e Alberto Ambrogio,2 anche a
una prima lettura e senza le speciali verifiche che pur sarebbero necessarie relativamente ai testi via via chiamati in causa,3 merita un’attenzione del tutto particolare. L’autore, noto anche nel nostro Paese per i
suoi precedenti lavori di biologia e paleontologia,4 si è affidato ora il
compito di trasporre le tecniche delle discipline di cui è specialista, in
un particolare settore delle scienze dell’educazione, tra psicologia e sociologia: possibile allora il tentativo di far ruotare a nostra volta metodi
1 Con il titolo “Le idee di Stephen Jay Gould per una critica dell’ideologia in educazione”, in Scuola e Città, 30 novembre 1985, pp. 486-497.
2 Col titolo Intelligenza e pregiudizio. Le pretese scientifiche del razzismo, Editori riuniti, Roma 1985, pp. 340 (sulla base dell’ed. W.W. Norton and Company, New
York-London 1981, pp. 353).
3 In particolare, avendo assimilato la lezione sia di metodo sia di merito di Gould,
occorrerebbe rifare lo stesso lavoro critico-filologico, di controllo statistico-quantitativo ecc. fatto dall’autore, per metterne in evidenza l’ideologia ed eventualmente i
pre-giudizi (nel senso tecnico più elementare della parola). Una lettura del suo libro
che non si sobbarchi questa fatica rimane nei preliminari; ed è legittimata solo nella
misura in cui introduce ai problemi specifici, ovvero in quanto abbia a che fare con
una serie di evidenze generali, culturali e politiche complessive, già in se stesse quantificabili e qualificabili e dunque “oggettivabili” in un discorso di tipo storico-critico.
4 Cfr. per es. Ever since Darwin, W.W. Norton and Company, New York-London
1977 (tr. it. Questa idea della vita. La sfida di Darwin, Editori Riuniti, Roma 1984);
Ontogeny and Phylogeny, Harvard University Press, Cambridge 1977; The Panda’s
Thumb, W.W. Norton and Company, New York-London 1980 (tr. it. Il pollice del
panda, Editori Riuniti, Roma 1983); e Hen’s Teeth and Horse’s Toes, W.W. Norton
and Company, New York-London 1983 (tr. it. Quando i cavalli avevano le dita, Feltrinelli, Milano 1984).
148
Capitolo V
e contenuti della suddetta trasposizione sul terreno della storia della
cultura, con specifico riguardo al contesto in cui noi siamo inseriti.
In Italia, del resto, le opere di Gould circolano da tempo come frutti di
uno “specialismo” atipico. Ed è notevole rilevare come la problematica
dell’ultimo libro ora tradotto si ritrovi in un modo o nell’altro nelle pagine di altri lavori gouldiani su temi abbastanza diversi e, quanto al loro
contenuto evidente, solo mediatamente riconducibili all’unità di un disegno.
Così, per esempio, nel volume Ever since Darwin (1977) (tr. it. Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, prefazione di E. Visalberghi ed E. Alleva, citato più sopra), le questioni quantitative si mescolano a quelle qualitative, la misurazione dell’intelligenza umana trova
riscontri metodologici e di merito, in termini storici, sul terreno delle
misurazioni delle superfici planetarie, ma poi un po’ tutto il discorso
finisce col dirigersi contro il determinismo biologico dal punto di vista:
del duplice rapporto, ingegnoso e buono, della scienza con la società e
della scienza con la politica della natura umana. Ancora, nell’altro libro
su menzionato, The Panda’s Thumb (1980) (tr. it. Il pollice del panda.
Riflessioni sulla storia naturale, prefazione di D. Mazzonis), sono le
parti o i capitoli o i paragrafi sul darwinismo e sull’evoluzione dell’uomo, su scienza e politica delle differenze umane, sul cervello della donna e sulla sindrome del dottor Down, sugli albori della vita ecc., a introdurre e a spiegare la stessa materia di Intelligenza e pregiudizio di cui
ci occuperemo in questo saggio. Altrettanto diciamo per Hen’s Teeth
and Horse’s Toes (1973 ) (tr. it. Quando i cavalli avevano le dita. Misteri e stranezze della natura), successivo al libro di cui ci occupiamo
qui, ma già introdotto in Italia dall’84. Di quest’ultima opera segnaliamo quindi, come più direttamente esplicative di quanto verremo dicendo, le pagine su Louis Agassiz, tutta la Parte quinta su scienza e politica, e i due capitoli storico-metodologici su Le ricchezze del caso e O
morte, dov’è la tua vittoria (ma il volume ha un prezioso indice analitico che consentirebbe ben altri collegamenti ed esplicazioni critiche da
“materia” a “materia”, dai contenuti specifici ai motivi enciclopedici di
cui ampiamente rende conto).
Quanto all’opera d’interesse educativo di cui intendiamo soprattutto
discorrere ora, The Mismeasure of Man, ci sembra preliminare sottolineare come essa sia proprio, dalla prima all’ultima pagina, una legittimazione del principio d’interdisciplinarità. Né mancano, qua e là, le
opportune puntualizzazioni dell’autore, circa il come e il perché ciò avviene: e basti leggere, di seguito all’introduzione, il paragrafo esplicativo su Un contesto culturale comune (nel secondo capitolo), ovvero i
due primi paragrafi della Conclusione positiva, sulla critica come
scienza positiva e sull’apprendere attraverso la critica (nel settimo capitolo). In questo senso, può essere accolta la sensibile modifica del titolo dalla lingua originaria all’italiano, appunto come una prova d’indipendenza critica dell’editore: ma nella traduzione sarebbe stato opportuno mantenere almeno lo stesso livello di analiticità dell’Index,
Il Papuano
149
che, come Indice analitico, viene ora decurtato di riferimenti significativi come Platone, Mussolini, Educazione ecc. ecc., ma anche nella prima edizione in inglese una maggiore precisione non avrebbe guastato
(per es. per progress, idea of, per Kant, Condorcet, Ferrero, Sergi,
Lombroso jr. ecc. ecc.): anche se – ed è un merito palese del contributo
di Gould il testimoniarlo – le circa trecentocinquanta pagine di cui consta sono un invito palese alla discussione critica delle tematiche esposte
e sottoposte a verifica, ora negli autori chiamati in causa, ora in Gould
stesso che produce e riproduce un siffatto processo, ora nel lettore che è
sollecitato a spogliarsi degli eventuali pregiudizi e a rifare i propri conti
con i dati acquisiti e le idee assorbite nel corso dell’approccio critico
all’intelligenza e al pregiudizio oggetto d’indagine...
D’altra parte, è un fatto che nel momento stesso in cui siamo qui a
occuparci delle pretese scientifiche del razzismo, il dibattito sull’argomento si venga via via modificando e arricchendo e drammatizzando a
causa di nuovi e importanti riscontri sia sul piano delle cose che su
quello delle idee. Così che non sembra davvero possibile rimuovere –
magari in nome di una razionalità perfetta e di una conseguente pratica
scientifica distinta – il punto di vista del vissuto quotidiano, e ciò di cui
siamo informati giorno per giorno e su cui veniamo variamente sollecitati a riflettere socialmente e politicamente qui e ora.5 Di più, è la serie
5 Proprio per tener fermo al criterio del ruolo fondamentale che l’informazione
viene a giocare nel rapporto tra le due dimensioni biologica e culturale, secondo
Gould, conviene almeno accennare alla possibilità di una ricerca in parallelo, tra cronaca e storia, sull’idea sociale, contestuale e per così dire di “senso comune”, dell’odierno razzismo. Un’idea che, senza volerla approfondire in questa sede ulteriormente, nel breve periodo che abbiamo dedicato alla lettura di Intelligenza e pregiudizio, e rimanendo alla pura e semplice documentazione giornalistica (da vagliare,
quindi, nella sua veridicità estemporanea, e spesso puramente ad effetto): ci si è presentata nelle seguenti varianti principali: a. come ondata xenofoba, tipicamente europea (dalla Francia alla Germania, dalla Svizzera all’Italia, dall’Inghilterra al Belgio
ecc.), di seguito ad una continuità abbastanza omogenea di fatti razzisti ben precisi
(dal gennaio 1985 al periodo maggio-giugno successivo); b. come espressione di violenza, come contenuto di insegnamento, soprattutto nel rapporto Nord-Sud, nelle
scuole italiane e straniere di vario ordine e grado (febbraio, aprile, giugno: cfr. in
particolare la sintesi di C. ZIGLIO, “La valutazione infinita. A scuola una smisurata
voglia di misurare. Mappa dei modelli”, il manifesto, 7 giugno 1985); c. come oggetto
di ricerca scientifica per tutto il primo semestre di quest’anno: sulle pagine di divulgazione scientifica; in occasione dell’uscita di alcuni libri su Darwin e l’evoluzione; a
margine della mostra di Torino su “La scienza e la colpa” secondo il Lombroso (marzo-aprile); in tema di “gioco” e “lavoro”, da più punti di vista: cfr. per es. A. OLIVERIO,
“I giochi violenti nascono dal cervello antico”, Corriere della sera/Corriere delle
scienze, 26 marzo 1985; d. come razzismo ideologico accanto ad altri tipi di razzismo
(cfr. soprattutto la pagina di vari articoli, dal titolo complessivo “Il razzismo figlio
dell’intolleranza”, a cura di diversi specialisti, Stampa sera, I aprile 1985); e. come
conseguenza di pregiudizi culturali, nel rapporto tra i Paesi cosiddetti avanzati e
quelli del Terzo mondo: cfr. per es. M. BONO, “Strisce d’Africa”, Panorama, 21 aprile
1985; f. come fenomeno tipicamente metropolitano (parigino), dalle complesse radici
nazionali e antropologiche: cfr. A. TOURAINE, “Francesi miei, razzisti quotidiani”,
L’Espresso, 19 maggio 1985); g. come oggetto di divulgazione scientifica, già nell’Otto-
150
Capitolo V
delle molte dimensioni “ideologiche” dei pregiudizi connessi alla misurazione dell’intelligenza umana, a rendere problematico qualsiasi tentativo in tal senso. Di modo che solo un intreccio di competenze tra “scienze della natura” e “ scienze della cultura” può aprire la strada a qualche
risultato conoscitivo relativamente certo: ed è ciò che ha ben capito
Gould, nel momento in cui, senza disconoscere l’importanza determinante del buon senso e scegliendo il tono ora drammatico ora faceto del
consumato ironista, viene a servirsi nella sua esposizione di una molteplicità di tematiche (storiografiche, antropologiche, statistiche, criticoideologiche, scientifico-educative ecc.), che produttivamente combina
con quelle che gli provengono dalla biologia. Ma è una più comprensiva
tensione etico-politica (e deontologica, sia nel significato corrente, sia
in quello originario da Bentham, in senso eudemonistico) a richiedere
una approssimazione differenziata e aperta ai dati dell’esperienza, tenendo conto del fatto che c’è una vera e propria “enciclopedia del razzismo”, che si è venuta formando nell’opinione di molti (e forse dei più):
e che a questa occorre contrapporre la qualità di un altro “sapere in circolo” costitutivamente aperto al “quantitativo” – nel senso almeno
dell’affermazione di un principio di eguaglianza fra gli uomini tutti, e
della rimozione effettiva degli ostacoli sia di contenuto sia di metodo
che si frappongono e che essa cominci con l’essere confermata sul piano
della cultura diffusa e attuata in realtà. La “filosofia” di Gould nel denunciare, dati alla mano, le pretese scientifiche del razzismo, da questo
punto d’osservazione, non è tanto nell’esercizio di alcuna capacità giudicativa a priori, quanto piuttosto nella disposizione a evidenziare analogie di pregiudizi tra filosofi (da Platone in giù) e non filosofi (naturalisti, politici, educatori, uomini qualsiasi). Chiunque può aver espresso o
esprimere una certa filosofia del razzismo, chiunque, non condividendone l’assunto non egualitario, può farsi veicolo dell’espressione di un
dubbio su se stesso e sugli altri circa il grado, malgré lui, dell’avallo ideologico. Il contributo di Gould in questa ottica non è che pura maieutica, sperimentazione di un metodo di esplicitazione dei fatti e delle idee, ben oltre la millenaria magagna della “reificazione” dell’“ideologia”
– e cioè contrapposizione di numero a numero, di statistica a statistica,
di motivo a motivo, di criterio a criterio, di risultato derivante da misurazione orientata a risultato aperto alla ulteriorità della verifica, considerata la novità del principio di fondo su cui poggiano sia la critica della
cosiddetta oggettività, sia l’ipotesi di un rovesciamento di prospettiva in
senso non determinista né in alcun modo razzista.
cento: cfr. G.M. PACE, “Professore d’amore” (su P. MANTEGAZZA), la Repubblica, 29
maggio 1985; h. come razzismo alla rovescia, in vari sensi: del Sud verso il Nord, del
Sud verso il Sud (Sud Africa); rispetto alla diversità del cervello; rispetto alle nuove,
accresciute dimensioni del nostro cervello; i. come strumento di tutela dei beni artistici; in relazione alla “questione femminile” (anche nel senso che c’è una “questione
maschile”, dell’“antimaschilismo” ecc.); l. come razzismo tipico delle vittime stesse
delle persecuzioni razziali ecc.: cfr. G. ROMANO, “Razzisti 40 studenti ogni cento. Israele, sgomento, s’interroga”, La Stampa, 13 luglio 1985.
Il Papuano
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I contenuti della ricerca
Gould, mai oscuro, è chiarissimo sul punto delle sue intenzioni di ricerca. Le definisce pertanto, e restringe, in questi termini:
Il determinismo biologico è un argomento troppo vasto per un solo uomo e
un solo libro, infatti esso tocca praticamente ogni aspetto dell’interazione tra
biologia e società sin dagli albori della scienza moderna. Mi sono quindi limitato
a un argomento fondamentale e trattabile rispetto al suo intero edificio – un
argomento in due capitoli storici, fondato su due errori profondi e portato avanti con uno stile comune... la reificazione cioè la nostra tendenza a convertire
concetti astratti in entità, a materializzarli... la classificazione, cioè la nostra
tendenza a ordinare una variazione complessa in una scala ascendente... Questo
libro riguarda, quindi, l’astrazione dell’intelligenza come entità singola, la sua
collocazione dentro il cervello, la sua quantificazione in un numero per ogni individuo e l’uso di questi numeri per classificare le persone in una singola serie di
valore, per trovare invariabilmente che i gruppi oppressi e svantaggiati – razze,
classi o sessi – sono innatamente inferiori e meritano il loro stato. In breve questo libro riguarda l’erroneità della misurazione dell’uomo, così come è stata
condotta sino a oggi...6
Di qui, allora la stessa struttura cronistorica del libro, e il suo procedere per successive approssimazioni critiche nella forma del saggio di
idee: sia nel senso che certe idee, e non altre, costituiscono positivamente il discorso di Gould, sia nell’altro senso, che il lavoro in questione è un esempio di storia delle idee. Non è un caso infatti che la narrazione cominci da un passo del terzo libro della Repubblica di Platone,7
prosegua chiamando esplicitamente in causa (tra gli altri) Tacito e Galilei, Condorcet e Kant, Spencer e J.S. Mill, Lombroso e Le Bon, la Montessori e la Lombroso jr., Freud e Jung e Havelock Ellis, e faccia puntuale menzione del saggio classico di Lovejoy (1936) sulla grande catena dell’essere e della precedente famosa trattazione di Bury sull’idea di
progresso (1920)8... Gli stessi sette temi principali di The Mismeasure
of Man, e la trentina dei sotto-argomenti in cui si convogliano le “tesi” e
le “prove” offerte da Gould all’interpretazione e al controllo del lettore,
acquistano sì una loro fisionomia in progress, ma anzitutto come scrupolosa attenzione alla complessità del rapporto tra l’intelligenza come
oggetto d’indagine, e l’intelligenza come strumento della medesima. Il
che comporta una salutare, addirittura vitale contraddizione “conclusiva” (cioè “di principio”), che Gould non esita a sottolineare:
Ma io non considero questo libro come un esercizio negativo, per screditare,
non offrendo in cambio altro, una volta che gli errori del determinismo biologico sono stati smascherati come pregiudizi sociali. Credo che abbiamo molto da
GOULD, Intelligenza e pregiudizio, cit., p. 15.
Gould si rifà alla Repubblica, III, XXI, 414 d e sgg.
8 Cfr. I.B. BURY, The Idea of Progress, MacMillan, London 1920 (vedila ora in ed.
it. con pref. di Pietro Rossi, Feltrinelli, Milano 1964).
6
7
Capitolo V
152
imparare su noi stessi dal fatto innegabile che siamo animali evoluti. Questa
comprensione non può penetrare le abitudini radicate del pensiero che ci hanno
portato a reificare e classificare: abitudini che sono sorte nel contesto sociale e a
loro volta lo suffragano...9
Ecco perché, da un lato, il messaggio che viene proposto è come abbiamo detto, questo di una critica come scienza positiva (debunking as
positive science), e comporta una rivisitazione delle “teorie” e dell’“informazione” attorno ai singoli “fatti scientifici” su cui le varie teorie sono fondate, da un altro lato, la novità di questo apprendere attraverso la
critica (learning by debunking), se deve avere un valore duraturo, deve
essere di più che il puro e semplice rimpiazzare i pregiudizi sociali: deve
produrre invece una sorta di “mutazione” culturale all’interno della
stessa scienza delle mutazioni non culturali, cioè la biologia. E dunque:
Cosa più importante, e motivo della necessità della conoscenza biologica, è
che la notevole mancanza di differenziazione genetica tra i gruppi umani – una
base biologica fondamentale per screditare il determinismo – è un fatto contingente della storia evolutiva, non una verità a priori e necessaria. Il mondo potrebbe esser stato ordinato in modo diverso... Noi siamo inestricabilmente parte
della natura, ma l’unicità umana non viene per questo negata... L’unicità umana
risiede prima di tutto nei nostri cervelli. È espressa nella cultura costruita sulla
nostra intelligenza e sul potere che ci dà per manipolare il mondo. Le società
umane cambiano con l’evoluzione culturale, non come risultato, di alterazioni
biologiche. Non abbiamo prove di cambiamenti biologici nella dimensione o
nella struttura del cervello da quando Homo sapiens apparve nei reperti fossili
di circa cinquantamila anni fa... Tutto quello che abbiamo fatto da allora è il
prodotto dell’evoluzione culturale.10
Tutto quello che abbiamo fatto, evidentemente, e tutto quello che
non hanno fatto rivoluzioni politico-sociali riuscite, riuscite in parte o
storicamente fallite, rivoluzioni culturali capaci di tener o non tenere
dietro, ovvero precedere i necessari mutamenti di “strutture”, riforme
capaci d’incidere sull’esistente, e riforme solo in apparenza tali, restaurazioni, reazioni, guerre: tutto può essere inscritto, almeno dal punto di
vista biologico sottolineato da Gould, nei termini di una scienza e di
un’etica dell’eguaglianza.11 Ed è questa la ragione per cui – almeno dal
punto di vista cronologico, avendo d’occhio la serie dei fatti storici messi in ordine in The Mismeasure of Man, da Darwin in giù, non c’è pro GOULD, Intelligenza e pregiudizio, cit., p. 306.
Ivi, pp. 307-309
11 Cfr. D. HAWKINS, The Science and Ethics of Equality (1977), ora in tr. it., Scienza ed etica dell’uguaglianza, con pref. di A. Visalberghi, Loescher, Torino 1982. Su
un altro piano, ma nello stesso ordine di idee educative e come “applicazione” di una
“filosofia” in termini di didattica congiunta alla ricerca, cfr. il volumetto di L. JOLLY,
Sud Africa storia di un razzismo, Loescher, Torino 1983: tema qui a maggior ragione
importante, in quanto proprio Gould ha avuto modo di occuparsene direttamente e
di tenerne conto nelle sue indagini.
9
10
Il Papuano
153
gresso. Le pretese scientifiche del razzismo sono più vive e generalizzate che mai, tra intellettuali e potere politico, un po’ in tutto il mondo,
sorgono e risorgono connivenze di vario tipo, i pregiudizi razziali e di
classe e di sesso, oggi, tengono in vita il ricorso di quegli autori che più
hanno contribuito alla falsificazione ideologica dei dati umani reali. Ed
è proprio a essi che s’oppone la speranza e il proposito di “lotta” di chi,
come Gould, propone una storicizzazione conseguente delle diverse posizioni, del loro intrecciarsi e contraddirsi nell’area culturale che più
immediatamente lo riguarda e che ora interessa in particolare il lettore
italiano.
L’indagine si snoda pertanto secondo le classiche regole di una monografia scientifica per temi e problemi, e comporta le seguenti parti o
capitoli e paragrafi: 1. Una Introduzione con un prevalere di argomentazioni di tipo storico-filosofico (pp. 11-20). 2. Un capitolo, pure di tipo
introduttivo, sulla poligenesi e sulla craniometria negli Stati Uniti tra il
XVIII e il XIX secolo, sulla natura del razzismo dei bianchi nei confronti dei neri, e su una serie di questioni di contesto: indagini scientifiche e
senso comune, rapporti tra politica e scienza, monogenesi e poligenesi,
teorici e empiristi, scuola americana e schiavitù ecc. (pp. 21-61). 3. Una
terza parte su La misurazione delle teste: aspetti quantitativi e qualitativi, maestri e scuole della craniometria, selezione naturale e selezione
dei caratteri, uomini, donne, “questione femminile” ecc. (pp. 62-101).
4. Ancora su La misurazione dei corpi: dottrina della ricapitolazione,
antropologia criminale, autore e problemi “classici”, condizionamenti e
conseguenze sociali ecc. (pp. 102-133). 5. La teoria ereditaria del QI: da
A. Binet (l’unico o quasi a non ricevere gli strali polemici di Gould), a
H.H. Goddard, su L.M. Terman e la diffusione di massa del QI innato,
R.M. Yerkes e l’Army Mental Test, ancora su politica e scienza ecc. (pp.
134-220). 6. Il vero errore di Cyril Burt (su analisi fattoriale e materializzazione dell’intelligenza): a proposito di correlazioni, cause, effetti, su
C. Spearman e “l’intelligenza generale”, C. Burt e la “sintesi ereditaria”,
L.L. Thurston e i vettori della mente, A. Jensen e la rinascita della “g” di
Spearman ecc. (pp. 221-305). 7. Una conclusione positiva: la critica come
“scienza positiva” e come procedura di insegnamento-apprendimento,
biologia e natura umana ecc. (pp. 306-319). 8. E un epilogo, che riferisce cronache correnti e ricorsi storici di ordinario razzismo (pp. 321322)...
Un certo numero di schede di lettura
Fin qui il contenuto complessivo dell’opera di Gould, secondo l’ordine provvisorio, cronologicamente progressivo dato dall’autore, e che
ha le sue interne ragioni da indagare nell’insieme.
Ma il libro è di quelli che si leggono d’un fiato, e stimola nel corso
della prima lettura particolari ricerche su aspetti tecnici che si possono
non avere presenti, e soprattutto ti lascia la voglia di riprenderlo, di ritornarci su per questo o quell’altro motivo. Ed è la ragione per cui rite-
154
Capitolo V
niamo opportuno produrre qui di seguito un certo numero di schede di
lettura, forse utili a impostare fin d’ora un piano di indagini a partire
dalle pagine gouldiane, ma tali da allargare l’ambito della ricerca nell’ipotesi di un approfondimento avvenire. E dunque:
1. Filosofia platonica
Il testo di Gould prende le mosse da Platone: e precisamente da alcuni luoghi della Repubblica in cui viene presentata una certa idea di
educazione, funzionale alla stabilità sociale, al “consenso” attorno al
mantenimento della divisione della società in classi, e quindi giustificativa “dell’ordinamento dei gruppi per meriti innati” (p. 11). La posizione
di Platone, pertanto, è il precedente teoretico polemico di maggior rilievo di questo libro. Che difatti – precisa Gould – “riguarda la versione
scientifica del racconto di Platone”, proprio in quanto “l’argomento generale” risulta “essere definito determinismo biologico” (p. 12). L’argomentazione platonica viene poi ripresa, ma sempre nella stessa chiave critica, variamente: ed è interessante che ritorni, per es., a proposito
del positivismo di Enrico Ferri (p. 126), oppure quando Gould discorre
della “tecnocrazia dell’innatismo” secondo Terman (p. 168), ovvero,
addirittura, nel quadro della denuncia della “nostra intima e viscerale
impressione [...] che le misure astratte che riassumono grosse tavole di
dati debbano esprimere qualche cosa di più reale e fondamentale dei
dati stessi” (p. 226). (Da questo punto di vista, “lo spirito di Platone
muore difficilmente”). Per concludere: l’argomentazione si lega per somiglianza e per differenza (meriterebbe cioè di essere integrata in questa direzione) alla discussione del II libro della Repubblica di A. Visalberghi, “Educazione e divisione del lavoro nei paesi avanzati”, Scuola e
Città, 31 dicembre 1979, pp. 530-532.
2. Divisione del lavoro
Il tema si affaccia e riaffaccia un po’ in tutto il libro. Dal “razzismo”
al “classismo” il passo è breve (cfr. le pp. 11 sgg., 21 sgg., 62 sgg., 102
sgg., 147 sgg. e passim). Inoltre, Gould ha sempre presente la dimensione specificamente educativa del problema, che anzi proprio a questo
livello si precisa e si drammatizza fino alle conseguenze estreme: “Se
Agassiz non aveva reso chiaro il suo messaggio politico, finisce col difendere una politica sociale specifica. L’educazione, egli sostiene, deve
essere confezionata in base alle abilità innate, addestrare i neri al lavoro
manuale, i bianchi a quello mentale” (p. 37). Del resto, è diffusa l’idea
che “sotto la bandiera della scienza” finisca con l’andare la “razionalizzazione dell’ordine sociale” e del corrispondente “apparato educativo”
(p. 61). Se secondo alcuni – denunzia Gould – “l’attitudine al lavoro è
ereditabile come ogni altra facoltà” (pp. 65-66), le “variazioni tra classi
sociali” mediante educazione potranno essere ben limitate. Il vantaggio
sarà solo e sempre delle “teste più grandi” (pp. 97-98), e Goddard,
“l’innatista più ottuso di tutti” (p. 148), finirà col trovare il maggior credito tra i politici reazionari e razzisti: “C’è un’immensità di lavoro pe-
Il Papuano
155
sante che deve essere fatto, una notevole quantità di lavoro per il quale
non desideriamo pagare abbastanza per assicurarci lavoratori più intelligenti...” (p. 156, e cfr. pp. 169 sgg., 183 sgg e passim, ma, sull’argomento, vedi ora AA.VV.., Quale società. Un dibattito interdisciplinare
sui mutamenti della divisione sociale del lavoro e sulle loro implicazioni educative, a cura di A. Visalberghi, Firenze, La Nuova Italia, 1985).
3. L’idea di progresso
L’argomento è centrale: ed è sviluppato da Gould sotto diversi profili. Intanto, viene considerato sotto il profilo storico-teoretico (Bury, Lovejoy, Nisbet) in rapporto con le sue implicazioni politico-razziali (Tooker T. Washington), e con quelle psicologico-educative. Scegliamo come
la più perspicua una sola citazione:
Una scala lineare dell’intelligenza. Il tentativo di costruire una classificazione lineare delle deficienze mentali, una scala crescente comprendente idioti,
imbecilli e moron, incorpora due comuni errori che pervadono la maggior parte
delle teorie del determinismo biologico discusso in questo libro: la materializzazione dell’intelligenza come un’entità singola e misurabile, e l’assunto, che risale
ai crani di Morton [...] e arriva alla scala universale di Jensen dell’intelligenza
generale di pensiero [...], che l’evoluzione è la storia di un progresso lineare e
che una singola scala ascendente dal primitivo al progredito rappresenta il miglior modo d’ordinare la variazione. Il concetto di progresso è un pregiudizio
profondo dall’antica genealogia [...] e ha un sottile potere anche per coloro che
lo negano esplicitamente [...] (p. 147, e cfr. pp. 16, 84-85, 148 sgg., 158, 302, 306
e passim.
Rimandiamo quindi a G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna 1984, al dibattito
che variamente è seguito alla pubblicazione di questo libro soprattutto
sulla stampa quotidiana, e al recente A. Asor Rosa, L’ultimo paradosso,
Einaudi, Torino 1985, pp. 14-18).
4. Alfred Binet
È l’unico autore (come pare), di quelli trattati da Gould, a ottenere
un giudizio sostanzialmente positivo nel capitolo che gli è dedicato. A
salvarlo è il suo stesso limite: cioè la sua capacità di essere contraddittorio ed evasivo. Ma è soprattutto il principio cui rimane pur sempre
fedele: “l’intelligenza [...] è troppo complessa per catturarla con un
semplice numero” (pp. 138-139), e i tre punti fermi in cui egli riesce a
tradurre il suddetto principio:
1. I punteggi sono uno strumento pratico [...]. 2. La scala è una guida empirica e grossolana per identificare i bambini leggermente ritardati, e quelli con
problemi nell’apprendimento che necessitano di un aiuto speciale. La scala non
è un mezzo per classificare i bambini normali. 3. I bassi punteggi non saranno
usati per marcare i bambini come congenitamente incapaci (pp. 142-143).
156
Capitolo V
Ma come può essere accaduto che, “ironicamente”, la teoria e la pratica di Binet siano state prima distorte dai suoi stessi scolari, e poi riprese facendo un giro completo e tornando al punto di partenza, sicché
“molti consigli di istituto delle scuole americane ora usano il reattivo
del QI solo come Binet raccomandava originariamente: come strumento
per definire i bambini con specifici problemi d’apprendimento” (ibidem)? Quale fortuna godrà in particolare tra i pedagogisti americani il
punto di vista di Binet? Come si combina, quest’ultimo, con quello di
Dewey (cfr. in specie J. Dewey, “Mediocrity and Individuality”, in Education Today (1940), tr. it. “Mediocrità e individualità”, in L’educazione oggi, La Nuova Italia, Firenze 1950, pp. 205-213, che è un articolo
da The New Republic del 5 dicembre 1922). Ma l’intera problematica di
Binet e su Binet andrebbe variamente ripresa e approfondita. In particolare, bisognerebbe aver presenti le seguenti dimensioni di ricerca: da
un lato quella relativa all’utilità positiva dei test (a certe condizioni e
per certe finalità), da un altro quella relativa al dibattito storicoscientifico e politico-culturale nonché “filosofico” sulla “pratica” dei test
di intelligenza, profitto, valutazione scolastica ecc. e sulle corrispondenti “teorizzazioni”. Da questo punto d’osservazione è essenziale far riferimento ad alcuni momenti “critici” e al loro contesto. Solo a titolo
d’esempio, ricordiamo pertanto talune date significative nell’ultimo
cinquantennio: gli anni Trenta e Quaranta, quando per un verso negli
Stati Uniti non mancano importanti ricerche empiriche sui bianchi e
sui negri, che suffragano l’ipotesi del rapporto inscindibile tra condizioni socio-economiche e socio-culturali di provenienza, e collocazione
“civile” d’arrivo degli svantaggiati; per un altro verso, quanto all’Italia,
sono da accertare il modo e il senso dell’approccio a Binet proprio nel
cuore degli anni Trenta e nella sede dello Studium Urbis da parte di
quei docenti (per es., Luigi Credaro) che, oltre a fare studiare Binet, introducevano Dewey e Piaget (Russell e Freud). Cfr. quindi, per qualche
indispensabile riferimento d’avvio sulla questione generale, A. Visalberghi, “Il dibattito eredità-ambiente e le sue implicazioni educative”,
Rinascita della scuola, maggio-giugno 1982, pp. 159-61, e, per quanto
attiene la “fortuna” di Binet in Italia, a cominciare dalla “Sapienza” romana nel 1935, quanto si deduce dai documenti esposti nella mostra
sintetizzata nel volume dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Filosofi università regime. La Scuola di Filosofia di Roma negli
anni Trenta, mostra storico-documentaria, a cura di T. Gregory, M.
Fattori, N. Siciliani de Cumis, Roma (Istituto di Filosofia)-Napoli (Istituto Italiano per gli Studi filosofici) 1985, pp. 49 sgg., 69 sgg. e passim.
Inoltre, per il periodo successivo degli anni Quaranta e Cinquanta,
una proficua lettura – anche per la bibliografia italiana e internazionale
cui rimanda – è ancora il libro di A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Edizioni di Comunità, Milano 1955. Soprattutto i capitoli iniziali su “Misurazione e valutazione” e “Lo sfondo
sociale del problema” e quelli conclusivi “Oggettività e cultura” e “La
natura del giudizio educativo” contribuiscono notevolmente – anche
Il Papuano
157
sulla linea della esperienza complessiva di Binet – a circoscrivere positivamente i limiti e le possibilità del testing e dell’ideologia entro cui
s’inscrive questa pratica socio-educativa. Quanto alla “nuova fase” della
“vecchia disputa”, innescata da Arthur B. Jensen sulla Harvard Educational Review nel 1969, essa ha dei riscontri precisi in Italia già subito
(cfr. M. Corda Costa su la ricerca del 15 marzo 1971 e un po’ tutto il vol.
AA.VV., Metodologia e psicologia, Loescher, Torino 1974), e prosegue
con il dibattito di cui è testimonianza il volume Intelligence: The Battle
for the Mind del 1981, scritto “in contraddittorio” da Hans J. Eysenck
e Leon Kamin (autori di cui Gould tiene ampiamente conto) (cfr. quindi
H.J. Eysenck, L. Kamin, Intelligenti si nasce o si diventa?, prefazione
di P. Angela, Laterza, Bari 1982).
5. John Dewey
Gould non gli dedica una particolare attenzione, eppure varrebbe la
pena d’indagare sul piano della storia delle idee di quanta filosofia e
pedagogia deweyana sia sostanziato il suo libro: tra “matrice culturale”
e “matrice biologica” della ricerca, tra “indagini scientifiche” e “senso
comune”, tra “narrazione storica” e “indagine sociale”. D’altra parte
Dewey è un testimone degli avvenimenti (uomini e cose) menzionati da
Gould nei due terzi del suo volume, né mancano nell’opera deweyana
precisi riferimenti alle stesse problematiche ivi esposte. Uno studio sistematico in tal senso potrebbe prendere le mosse, quanto a Intelligenza e pregiudizio, dalle pp. 62 sgg., 102 sgg., 142 sgg., 179 sgg. ecc., e,
quanto a Dewey, oltre che dal citato Education Today, dalla stessa Logic, the Theory of Inquiry (1938). Ma sarebbe certo interessante riprendere, sotto questo profilo, The School and Society (1899-1900), il
secondo volume del Dictionary of Philosophy and Psychology (1902),
Moral Principles in Education (1909), Experience and Nature (19251929), e una serie di scritti minori o minimi in tema di antropologia,
intelligenza, darwinismo ecc. ecc. (per una ricognizione completa, M.H.
Thomas, A Centennial Bibliography, University of Chicago Press, Chicago 1962).
6. Precedenti in Italia
Il lavoro di Gould ha suoi caratteri particolari e una sua originalità.
Tuttavia non è la prima volta che l’idea principale del libro, quella della
falsa misurazione e dei pregiudizi tra scienza (pretesa) e razzismo (sostanziale), viene esposta sistematicamente in termini critico-polemici
da qualcuno, prima di Gould quasi anticipandone le conclusioni. Di ciò
del resto lo stesso autore rende atto, menzionando da un lato i propri
“debiti”, sottolineando da un altro lato i “limiti” della sua ricognizione
storica. Quest’ultima, però, viene ora tradotta, trasferita nella nostra
cultura, nel contesto in cui noi viviamo e operiamo. Può essere pertanto
non inutile, a titolo puramente esemplificativo (e tenendo conto così
della distanza cronologica come delle peculiarità scientifiche di ciascun
discorso), ricordare che in Italia ci sono una serie di momenti e di auto-
158
Capitolo V
ri significativi che vanno nella direzione indicata da Gould, e che converrebbe riprendere e storicizzare e utilizzare per un apporto di tipo
contestuale, per analogia e per differenza, dal testo a testo, da situazione a situazione, da punto di vista a punto di vista... Tre titoli soltanto
per esemplificare: 1. C. Cattaneo, “Tipi del genere umano” (1862), in
Id., Storia universale e ideologia delle genti. Scritti 1852-1864, a cura
di D. Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, pp. 355-383. 2. P.
Mantegazza, “La riforma craniologica. Studi critici”, Archivio per
l’antropologia e l’etnologia, vol. X, 1880, pp. 117-137 (e cfr. a tal proposito G. Landucci, Darwinismo a Firenze. Tra scienza e ideologia 18601900, Olschki, Firenze 1977, pp. 107 sgg., 129 sgg., 157 sgg.). 3. R. Michels, Lavoro e razza, Vallardi, Milano 1924, capp. IV, V, VII.
7. L’attualità
C’è un’attenzione particolare di Gould alla stampa quotidiana: non
solo nel senso che ancor oggi, leggendo il giornale, ci s’imbatte in una
serie pressoché infinita di razzismi, e relativamente a tutto il mondo
(cfr. quindi le pp. 123, 217-218, 321-322 ecc. ecc.), ma anche e soprattutto nel senso che l’informazione è essa stessa ideologia, e per giunta
di massa, sicché gioca un ruolo pedagogico decisivo, di cui difficilmente
ci si rende conto. Bastino questi luoghi metodologici introduttivi al problema:
I fatti non sono frammenti puri e incontaminati d’informazione, anche la
cultura influenza che cosa vediamo e come la vediamo [...]. La scienza non può
sfuggire alla sua curiosa dialettica. Incastonata nella cultura, essa può, tuttavia,
essere un potente agente per mettere in forse e sovvertire gli assunti che la nutrono. Può fornire l’informazione per ridurre il rapporto fra dati e importanza
sociale. Gli scienziati possono lottare per identificare i presupposti culturali della loro professione e per chiedersi in che modo le risposte potrebbero essere
formulate con asserzioni diverse [...] (pp. 13-19).
Ma, se le cose stanno in questi termini, accanto all’esame delle “fonti originali delle tesi che ancora ci circondano” (p. 20), non sarà altrettanto essenziale ritrovare quelle stesse idee originarie nelle nuove fonti
di diffusione di massa? Non è appunto a partire dal quotidiano,
dall’attualità sia della rievocazione che della trasmissione, che si determina la possibilità dell’ingrandirsi dell’ideologia, del suo prender forma
e del suo radicarsi stratificato? Non è soprattutto l’uso, il consenso organizzato, la direzione della fruizione, relativamente alle idee del determinismo biologico, a decidere, in ultima analisi, della stessa “bontà
scientifica” della teoria? (cfr., a proposito, S. Magistretti, No comment.
L’organizzazione del consenso nella stampa britannica, Il Saggiatore,
Milano 1978, soprattutto il capitolo “Razzismo e media: ‘Asiatici in albergo a quattro stelle’” e il capitolo “L’immagine dell’estero”, pp. 73 sgg.
e 118 sgg.).
Il Papuano
159
8. Tra cronaca e storia
La questione è in realtà decisiva: e proprio in quanto sul piano
scientifico si ritrova già quello politico-sociale, e in quanto il conflitto
della dottrina si traduce immediatamente in un conflitto di azioni, di
comportamenti nella pratica sociale generalizzata. Prendiamo per esempio lo stesso libro di Gould, a p. 50, dove leggiamo:
Le dimensioni del cervello sono correlate alle dimensioni del corpo che lo
porta: le persone grandi tendono ad avere cervelli più grandi delle persone piccole. Questo fatto non implica che le persone grandi siano più in gamba, non più
di quanto gli elefanti dovrebbero essere giudicati più intelligenti degli uomini
perché i loro cervelli sono più grandi. Devono essere fatte appropriate correzioni per le differenze di dimensione corporea. Gli uomini tendono a essere più
grandi delle donne, di conseguenza, i loro cervelli sono più grandi. Quando si
applicano correzioni per la dimensione corporea, uomini e donne hanno cervelli
approssimativamente di uguale grandezza. Morton non solo non apportò correzioni per la differenza di sesso e delle dimensioni corporee, egli non ne riconobbe neanche la relazione, sebbene i suoi dati lo proclamassero forte e chiaro [...]
tutti gli errori numerici di Morton sono a favore dei suoi pregiudizi [...].
Ebbene, Gould va in questo caso, come negli altri, alla fonte: rifà i
conti di Morton sulla base dei suoi stessi dati, ne sottolinea i pregiudizi
d’interpretazione e mette così a nudo la direzione politico-sociale di
quella pratica scientifica, non solo per le donne, ma anche per i neri. E
dunque, così decide a p. 54:
In altre parole, più una razza era “inferiore” secondo il giudizio a priori di
Morton, maggiore era il divario tra una misurazione soggettiva, facilmente e
inconsciamente mistificata, e una misura oggettiva inalterata da un precedente
pregiudizio [...]. Scenari plausibili sono facili da costruire. Morton, misurando
con i semi, prende un cranio di nero terribilmente grande, lo riempie senza pigiare e lo scuote appena. Prende poi un cranio di bianco penosamente piccolo,
lo scuote energicamente e pressa con forza con il pollice nel foramen magnum.
È facilmente fatto, senza motivazione cosciente, le aspettative sono una potente
guida all’azione.
Questo avveniva a metà del secolo scorso. E oggi? Come reagiamo,
ciascuno nel suo piccolo, alle centinaia d’informazioni che ci piovono
quotidianamente addosso in tema di discriminazioni a causa del sesso e
della razza? Bisogna che “scoppi” il caso della donna discriminata in un
concorso per “altezza inferiore a 160 centimetri” (terzo punto del Regio
decreto 30 luglio 1940, n. 2041), per modificare con la legge un costume? Il fatto stesso che si producano, a livello di massa, circostanziati
sondaggi su campioni rappresentativi della popolazione adulta italiana,
e se ne sottolineino luci e ombre nel passaggio dall’antipatia all’odio e
da questo alla discriminazione, e che i risultati di tali sondaggi vengano
subito dibattuti pubblicamente a più voci, non è il segno di quanto i
mass media, la stampa quotidiana possa contribuire alla critica (cfr. E.
Finzi, “Ecco il nostro razzismo”, Il Giornale, 9 giugno 1985), nel senso
160
Capitolo V
positivo e immediato e duraturo auspicato da Gould? (Da tenere in particolare presente a questo riguardo le osservazioni assai fini di Gould
sul Binet critico di se stesso: là dove, alle pp. 135-136 di Intelligenza e
pregiudizio, viene illustrata la problematica binetiana della “suggestionabilità” e dell’“autoesame”, in vista appunto tanto della correzione dei
dati e delle misurazioni consapevolmente ma ideologicamente errate,
quanto della sperimentazione di un metodo sociale di verifica pubblica,
ben oltre l’esistente concettuale e al di là delle false apparenze della
stessa esperienza quotidiana subito “evidente”).
9. Variazioni sul tema
In altri termini, c’è una buona e una cattiva misurazione dell’uomo,
un’ipotesi conoscitiva del razzismo che si realizza, tra intelligenza e pregiudizio, quotidianamente nella vita di ciascuno di noi, e che, in qualche modo, viene come rispecchiata dalla cronaca. Se è vero cioè, come
scrive Gould, che nel corso del XVIII e del XIX secolo “il profondo assenso dato dagli scienziati a ordinamenti convenzionali scaturì dal comune credo sociale, non da dati oggettivi raccolti per provare un problema aperto” (p. 26), non c’è dubbio che debba essere anzitutto il contesto culturale comune a essere preso in considerazione critica. Le idee
dei singoli scienziati, l’azione dei politici sono sì in relazione reciproca,
organica, ma scaturiscono dal credo sociale diffuso, vi interferiscono
dialetticamente e ne rispecchiano le contraddizioni. Ecco perché occorre non solo aver presente il fatto che, per qualche “curioso caso di casualità inversa”, i “pronunciamenti” degli scienziati possano esser “letti
come sostegno indipendente per il contesto politico” (ibidem), ma anche e soprattutto il fatto che, alle spalle di tutto ciò, c’è un sostrato di
“senso comune” che condiziona motivazioni e comportamenti di punta,
e spesso al di là dello stesso “buon senso”. Difatti, è “la filosofia: generale del determinismo biologico” a essere “pervasiva”, sono i “pregiudizi
a monte”, non “le copiose documentazioni numeriche” a dettare “le
conclusioni”:
Numeri e grafici non acquistano autorità dall’accresciuta precisione della
misurazione, dalla grandezza del campione o dalla complessità della manipolazione. I progetti sperimentali di base possono essere incrinati e non soggetti a
correzione per mezzo di estese ripetizioni...
Ma la cosa decisiva è questa “che i vari giocattoli per accademici”,
del tipo della craniometria, vanno poi dai “giornali specializzati” alla
“stampa popolare”. Qui cominciano una “vita indipendente”, si stabilizzano nelle “fonti secondarie” (“refrattarie alla confutazione perché nessuno andò a esaminare la fragilità della documentazione primaria”), ed
esigono ascolto sul piano politico-sociale... I “pregiudizi”, insomma, generano “pregiudizi” e completano così il loro “ciclo” (pp. 69-71). La divulgazione scientifica come critica della ideologia dominante, e cioè
come “apprendimento attraverso la critica”, trova a questo livello, il suo
Il Papuano
161
ruolo storico e politico (cfr. pp. 307 sgg.), e invita ai necessari distinguo
e approfondimenti (cfr. quanto si è detto a proposito nei due convegni
“Il linguaggio della divulgazione”, a cura di Selezione dal Reader’s Digest, rispettivamente Milano 11-12 febbraio 1982 e Roma 14-15 aprile
1983, di cui sono leggibili gli Atti, Selezione dal Reader’s Digest, Milano
1982 e 1983).
10. Contestualizzazione e contestazione
Proprio Gould, del resto, non manca di ricordare la dura polemica
del giovane giornalista Walter Lippmann col primo responsabile della
diffusione di massa del QI innato, Lewis M. Terman:
Il pericolo dei test d’intelligenza è che in un sistema educativo di massa, i
meno sofisticati e i più prevenuti si bloccheranno dopo aver classificato, dimenticando che il loro dovere è educare. Classificheranno il bambino ritardato invece di combattere le cause della sua arretratezza. In quanto l’intera tendenza della propaganda, basata sui test d’intelligenza, è trattare le persone con basso quoziente d’intelligenza, come individui congenitamente inferiori e senza speranza
[...]. Se il somministratore di test mantenesse fede alle sue affermazioni, egli
occuperebbe una posizione di potere che nessun intellettuale ha più sostenuto
dal tracollo della teocrazia [...]. Con l’aiuto di una sottile illusione statistica, di
complessi errori logici e di alcuni contrabbandati obiter dicta, l’ingannare se stessi
come preliminare all’inganno del pubblico è quasi automatico (pp. 167-168).
Il problema, però, non è qui soltanto quello di contestare la posizione meritocratica di Terman, di “biasimare la sua concezione d’élite”, in
quanto egli “credeva che i limiti di classe fossero stati fissati dalla intelligenza innata” (p. 170). La questione è piuttosto un’altra – e Gould se
ne avvede subito, opportunamente: quella cioè di una ricostruzione del
contesto storico e politico-sociale in cui quella determinata posizione
classista e razzista si affaccia e mette radici. Il punto di vista di Terman
infatti cambia con il cambiare dei tempi, e di volta in volta c’è un diverso “senso comune” a testimoniare e a suffragare il suo risultato “scientifico”. La scienza è imposta dalla “storia”, dall’“ideologia”. È essa stessa
ideologia che riflette la storia:
Il libro di Terman del 1937 sulla revisione della scala Stanford-Binet fu cosi
diverso dal volume originale del 1916 che la comune paternità a prima vista
sembra improbabile. Ma in quel periodo i tempi erano cambiati e gli stili intellettuali dello sciovinismo e dell’eugenetica erano stati inghiottiti dalla palude
della Grande Depressione... Autres temps, autres moeurs (pp. 179-180).
(Ma siamo nel ‘37: Dewey sta per pubblicare la Logica, teoria della
indagine, tutto il mondo è in nuovi fermenti, tra America e l’Europa
sono possibili paralleli e confronti, le contestualizzazioni storico-ideali
permettono di spiegare la più radicale e assoluta delle contestazioni politico-sociali, la seconda guerra mondiale è infatti ormai alle porte: per
alcune linee d’indagini sul piano della storia delle idee, rinviamo a
Capitolo V
162
quanto appuntato in “La ‘logica’ di Dewey e la ‘praxis’ di Gramsci”,
Scuola e Città, agosto 1978, pp. 305-308).
11. Intellettuali e pubblico dei lettori
Il libro di Gould, nell’ottica del discorso precedente, è un notevole
contributo alla storia degli intellettuali e del loro pubblico. Il tema appare e riappare a più riprese (e oltre ai luoghi fin qui citati, cfr. le pp. 22
ss., 32 ss., 40 ss., 57 ss., 68 ss., 93 ss., 109 ss., 124 ss., 131 ss., 142 ss., e
poi 205 ss., 221 ss. e passim): e sia sotto il profilo della responsabilità
tecnica, sia sotto quello della responsabilità etico-politica. L’argomento
è ovviamente degno della massima attenzione e andrà ripreso nell’ottica europea e italiana che ci riguarda, e soprattutto in quanto essa si
rapporta a quella americana considerata in primo luogo da Gould.
L’aspetto dei rapporti tra i due mondi, il confronto interno al binomio
intellettuali/pubblico nelle due culture, cui del resto Gould è sensibilissimo (bastino le pagine su Lombroso a testimoniarlo), è da identificare
nelle sue fasi e da storicizzare per analogia e per differenza. In altri
termini, e per fare un solo esempio da una cronaca dell’epoca, a quale
problematica complessiva e complessa introduce, se Gould ha ragione,
un resoconto di questo tipo, che riprendiamo da L’Opinione del 19 gennaio 1873, su Luigi Agassiz e il suo pubblico americano, sul pubblico
italiano e quello americano ecc.? “Il prof. Capellini visitò nel 1863 la
Harvard University a Cambridge – scrive Michele Lessona – dal viaggio
ricavò alcune interessanti pubblicazioni, e nella più sistematica di esse
si trova la seguente comparazione”:
Il pubblico di questo paese non è lo stesso del pubblico d’Europa. Negli Stati
Uniti non v’è una classe di persone di letteratura separate e distinte dalla nazione. All’incontro il desiderio dell’istruzione è qui tanto generale, che debbo aspettarmi di essere letto da operai, da pescatori, da coltivatori, tanto quanto da studenti e da naturalisti per professione. Quindi il linguaggio scientifico deve avere
una forma accessibile a tutti.
Commenta quindi Lessona:
Ecco quello che è in America lo scrittore popolare! La popolarità consiste nel
numero di lettori, non nella qualità: lo scienziato può essere popolare senza
smettere dal trattare la scienza in modo progressivo e profondo... Il lettore, a
qualunque classe appartenga, cerca nelle letture dei libri scientifici ammaestramento, non diletto... Fra noi invece....
Ebbene, l’argomento è tanto più interessante in quanto Gould, proprio nel caso di Agassiz, fa della filologia: e il risultato delle sue indagini
sulle corrispondenze epistolari, sui manoscritti originali delle opere ecc.
offrono un quadro abbastanza diverso rispetto a quello della cronaca
ottocentesca dell’opinione. A meno che il Lessona, nell’enfatizzare il
modello d’intellettuale impersonato da Agassiz, non ne condividesse,
con bonapace del pubblico per cui scrive, le discriminazioni umane di
Il Papuano
163
fondo... (cfr. per una ricerca sul tema, S. Lanaro, “Il Plutarco italiano:
l’istruzione del ‘popolo’ dopo l’Unità”, in Storia d’Italia, Intellettuali e
potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 553-582, con interessanti osservazioni proprio su Lessona).
12. Storia della filosofia e misurazione delle teste
Gould, come abbiamo accennato, mette opportunamente in relazione, a più riprese, i filosofi, e in particolare gli storici delle idee, con il
suo problema: le concezioni del mondo dei grandi tecnici della filosofia
(per es. Platone) sono spesso alla base dei pregiudizi degli uomini sugli
uomini, le opinioni generali, i valori di ciascun uomo, le filosofie consapevoli o inconsapevoli di cui tutti siamo in qualche modo veicolo, confermano o invalidano – vi interferiscono comunque – le grandi costruzioni concettuali che passano sotto il nome di filosofia. Di un siffatto
processo, si dà variamente storia. Ebbene, stando così le cose (e Gould
vi insiste), non risulterebbe di particolare interesse quella situazione
nella quale proprio un filosofo di professione, teoretico o storico che
sia, si venga a occupare immediatamente e in prima persona di misurazioni craniometriche, di valutazione dell’intelligenza ecc.? Da questo
punto di vista, c’è un nodo problematico di un certo interesse, da spiegare nel contesto italiano che ci riguarda, nella fase post-unitaria: e cioè
la circostanza per cui Felice Tocco, “forse il maggiore storico della filosofia che l’Italia abbia avuto in questo secolo” (E. Garin), per un verso
studioso di Kant (autore di un’Antropologia), per un altro verso allievo
di Bertrando Spaventa (che tenne corsi universitari di Antropologia), a
un certo punto, si mette a misurare teste. Siamo più precisamente nei
primi anni Settanta dell’Ottocento, egli insegna Antropologia nell’Università di Roma e, nell’anno accademico 1871-72, tiene una prolusione
che viene spesso citata (ma che non sembra essere stata abbastanza letta, studiata). Di più, negli anni successivi svolge una serie di lezioni nella sede e per conto della Società geografica italiana... Ma con quali risultati “scientifici” e” ideologici”? La ricerca, interessantissima nell’ottica del saggio di Gould, è tutta da fare, o quasi (cfr. intanto come promemoria l’articolo Le letture della Società geografica italiana nella seconda metà dell’Ottocento. I. Tra positivismo e neokantismo, Marzorati, Milano 1977, pp. 247-269).
13. Ideologia e pedagogia
L’argomento su accennato, nei termini di una ricerca da fare, non è
di pura erudizione né è d’interesse esclusivamente storico-teoretico. Ha
invece una sua precisa valenza politica ed educativa: e introduce a un
problema che non sfugge a Gould, quando per es. a proposito di Lombroso e dei suoi colleghi egli accenna alla divaricazione tra ideologia politica (magari socialista) e ideologia filosofica (esplicitamente razzistica)
(cfr. a pp. 128 sgg.). È la stessa contraddizione sottolineata da Antonio
Gramsci in un noto giudizio sul primo, grande marxista italiano, Antonio
Labriola. Vale la pena di trascrivere il brano, nell’essenziale:
164
Capitolo V
Antonio Labriola. Per costruire un compiuto saggio su Antonio Labriola occorre tener presenti [...] anche gli elementi e i frammenti di conversazione riferiti dai suoi amici e allievi [...]. Nei libri di B. Croce, sparsamente, si possono
raccogliere parecchi di tali elementi e frammenti. Così nelle Conversazioni critiche (serie seconda), pp. 60-61: “Come fareste a educare moralmente un papuano?” domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una delle
sue lezioni di Pedagogia. “Provvisoriamente – (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l’herbartiano professore)–, provvisoriamente lo farei schiavo, e
questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se per i suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”. Questa
risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla questione
coloniale (Libia) verso il 1903 e riportata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica. È da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che
riguarda l’insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare si tratti di uno
pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al
più volgare evoluzionismo. Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertrando Spaventa a proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè
nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla. Mi pare che storicamente il problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è
giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) “accelerare” il
processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza [...]. Il modo di
pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello “pedagogico-religioso”
del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la “religione è
buona per il popolo” (popolo=fanciullo=fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.) cioè la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo. Nella
intervista sulla questione coloniale il meccanismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche più evidente [...]. Lo storicismo del Labriola e del Gentile è
di un genere molto scadente [...] un modo di pensare molto nebuloso e confuso…12
14. Le “idee” in educazione
Da questo punto di osservazione la specificità del contributo di
Gould appare in tutta evidenza. “Le vecchie tesi non sembrano mai morire” (p. 91)... “le vecchie tesi non muoiono mai” (p. 110)... “Lo spirito di
Platone muore difficilmente” (p. 226): sono frasi, queste e altre, che ricorrono spesso lungo tutto il saggio, e che Gould spiega e rispiega da
diverse angolazioni. Ce ne è una però che, proprio di seguito al ragionamento precedente, deve essere sottolineata: ed è l’insistenza sul rapporto educazione/ideologia. Facciamo solo qualche esempio, a partire
dall’“imperativo morale” di Agassiz:
Giudico l’uguaglianza sociale assolutamente impraticabile. È un’impossibilità naturale che sgorga dallo stesso carattere della razza negra, perché i neri
possono essere paragonati a bambini cresciuti fino ad assumere le dimensioni di
12 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica a cura dell’Istituto Gramsci,
a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 1366-1368.
Il Papuano
165
adulti, pur conservando una mente infantile... Ritengo, quindi, che essi siano
incapaci di vivere, su una base di uguaglianza sociale con i bianchi, in una stessa
comunità senza essere un elemento di disordine sociale (pp. 37-38).
Di qui la necessità di un’educazione discriminatoria. Lo stesso vale
per Morton, quando studia esquimesi, ottentotti e indiani (cfr. pp. 45
sgg.), oppure per Galton e “l’ingegnosità dei suoi metodi idiosincratici”
(p. 64), e per Broca “dominato da un’idea preconcetta” (p. 73), ovvero
per la Montessori che adatta la sua stessa importante riforma educativa
ai propri radicati e forse inconsapevoli pregiudizi:
Maria Montessori non limitò la sua attività a una riforma pedagogica per
l’infanzia, ma per molti anni tenne corsi di antropologia all’Università di Roma.
A dir poco, non fu certo una sostenitrice dell’egalitarismo. Accettò la maggior
parte del lavoro di Broca e fu una sostenitrice della teoria della criminalità innata sviluppata da Cesare Lombroso... Misurò quindi la circonferenza delle teste
dei bambini nelle sue scuole e dedusse che quelli con migliori prospettive avevano cervelli più grandi. Ma non si servì delle conclusioni di Broca sulle donne...
Le donne, concluse, sono intellettualmente superiori agli uomini, ma questi ultimi hanno finora prevalso grazie alla forza fisica (pp. 95-96, e cfr., per un approfondimento della materia, M. Montessori, Antropologia pedagogica, Vallardi, Milano 1911).
15. I bambini secondo Lombroso
Stando al testo di Gould, si tratta di luogo problematico decisivo.
Non solo per l’influenza di Lombroso tra gli educatori e i pedagogisti,
nella didattica (per es. sulla Montessori), ma anche per ciò che di esplicito egli viene a dire sull’argomento). Il bambino infatti, secondo lui
(sottolinea Gould), “è un adulto ancestrale, un primitivo vivente”, tutto
da scoprire in tal senso. Scrive quindi Lombroso:
Una delle più importanti scoperte della mia scuola è che nel bambino sono
manifeste, sino a una certa età, le tendenze più tristi dell’uomo criminale. I
germi di delinquenza e di criminalità vengono trovati normalmente anche nei
primi periodi della vita umana (p. 115).
Anche la scuola, la scuola della società non può allora non adattarsi
a un siffatto principio “di scuola”. “L’antropologia criminale – spiega
Gould – non fu semplicemente un dibattito di accademici, comunque
vitale. Essa fu l’argomento di discussione negli ambienti legali e penali,
per anni. Provocò numerose ‘riforme’”, ma finì con lo svuotare
dall’interno, in forza della “tesi fondamentale del determinismo biologico” che “gli attori seguono la loro natura congenita”, il ruolo dell’educazione come momento organico di una politica non conservatrice:
Per comprendere il crimine, si studi il criminale, non la sua educazione, non
la sua istruzione, non la situazione difficile contingente che potrebbe aver ispirato il furto o la rapina [...]. Come tesi politica conservatrice essa non può essere
battuta: gli individui perversi, stupidi, poveri, o non emancipati sono quel che
166
Capitolo V
sono per risultati della loro nascita. Le istituzioni sociali riflettono la natura.
Vale a dire: biasima (e studia) la vittima, non il suo ambiente (p. 124).
Il bambino contiene l’uomo: le “stimmate” decidono dell’uno e
dell’altro. Nella scuola occorre pertanto comportarsi di conseguenza
(come del resto nella società), e cioè preselezionare i bambini affinché i
maestri sappiano come regolarsi:
L’esame antropologico – spiega Lombroso –, sottolineando il tipo criminale,
lo sviluppo precoce del corpo, la mancanza di simmetria, la ridotta dimensione
del capo e l’esagerata grandezza della faccia, spiega l’insufficienza scolastica o
disciplinare dei bambini così marchiati e permette loro di essere separati in
tempo dai compagni meglio dotati e diretti verso carriere più adatte al loro temperamento (cfr. p. 126).
La distinzione genetica pertanto introduce alla divisione del lavoro,
l’una e l’altra alla differenziazione delle due questioni, “settentrionale” e
“meridionale”, come facce diversificate e irriducibili del fatto “biologico” non di un “problema storico-sociale” (cfr. G. Mastroianni, “Lombroso e la scuola positiva in Calabria”, in Problemi sociali e filosofia
nella Calabria di fine Ottocento, Società editrice meridionale, Chiaravalle Centrale 1978, pp. 99-111) .
16. Le contraddizioni di Goddard
“Goddard può essere considerato l’innatista più ottuso di tutti” (p.
148). Perché? Probabilmente per avere egli inventato “la parola del nostro secolo”, cioè moron (da una voce greca che significa “idiota”), per
designare i ragazzi e le ragazze deboli di mente della ‘Vineland Training
School’ nel New Jersey [...]. Più sicuramente, però, egli è l’ottuso per
eccellenza perché non si è accorto del fatto che, nel giro di non molti
anni, aveva detto tutto e il contrario di tutto (pur rimanendo – s’intende – nell’ottica del determinista, dell’innatista e in ultima analisi del
razzista).
Così aveva sostenuto che la debolezza mentale (il moron) è incurabile, ma poi difese la tesi della non incurabilità. Sostenne che il debole
di mente va segregato in istituti, per arrivare quindi ad affermare la non
sostenibilità di questa convinzione. Rilevò l’inefficacia di qualsiasi “sistema di educazione”, per i deficienti, e affidò poi, proprio all’educazione, il compito dell’unico intervento possibilmente utile in tal senso
(cfr. pp. 149 sgg. e 161-162). Ma, in assenza, quale fu la filosofia di Goddard? Quella del tassonomo confusionario e miope, convinto che “il mondo ci giunge in distinti e piccoli quanti”? Oppure quell’altra dell’ideologo incapace di discriminare le differenze, per eccesso di presbiopia?
(Per una prima risposta circa i criteri di massima su cui impostare la
ricerca, cfr. D. Hawkins, The Informed Vision (1974), tr. it. col titolo
Imparare a vedere. Saggi sull’apprendimento e sulla natura umana,
Loescher, Torino 1979).
Il Papuano
167
17. La soluzione storico-critica
In altri termini: in che misura è possibile, posto che sia possibile, intervenire umanamente nel divario qualitativo che c’è tra i tempi estremamente più lunghi della biologia, rispetto a quelli brevissimi della cultura? Se è vero, come sostiene Gould, che “la scienza avanza in primo
luogo per rimpiazzi, non per aggiunte” (p. 307), una volta escluso
l’andamento unilineare, progressivo e necessario della ricerca scientifica, come rintracciare – di volta in volta – il punto della confutazione del
“vecchio” alla luce del “nuovo”, del “diverso” e del “migliore”? Evidentemente, se deve avere un valore duraturo, una critica efficace deve far
più che sostituire a un pregiudizio un altro pregiudizio, a una biologia
“ideologica” un’altra biologia “ideologica”. Il problema è evidentemente
un altro: questo di sostituire alle “idee fallaci” altre idee più attendibili.
Il problema è d’informazione, nel senso proprio di rivoluzionare gli
schemi precostituiti del sapere storicamente inadatto a reggere la critica: “[...] i biologi hanno affermato recentemente, come si sospettava da
tempo, che tutte le differenze genetiche generali tra le razze umane sono straordinariamente piccole [...]” (p. 308), mentre continuano a rimanere straordinariamente radicate le convinzioni degli stessi esseri
umani in senso contrario. E allora:
Se le persone sono così simili geneticamente e se le affermazioni precedenti
di una diretta mappa biologica delle questioni umane hanno registrato pregiudizi culturali e non la natura, allora la biologia ci risulta una guida vuota nella
nostra ricerca per conoscere noi stessi? (p. 309).
E la risposta:
L’evoluzione culturale non è solo rapida, è anche prontamente reversibile...
Come ha affermato il filosofo Stephen Toulmin [...]. “La cultura ha il potere di
imporsi alla natura dal suo interno” [...]. Se ci fissiamo sugli oggetti e cerchiamo
una spiegazione del comportamento di ciascuno nei suoi propri termini, siamo
perduti. La ricerca, tra comportamenti specifici, della base genetica della natura
umana è un esempio di determinismo biologico. La ricerca di regole generanti
sottostanti (the quest for underlying generating rules) esprime un concetto di
potenzialità bilologica. Il problema non è la natura biologica rispetto alla cultura
non bilologica. Il determinismo e la potenzialità sono entrambi teorie biologiche, ma cercano la base genetica della natura umana a livelli fondamentalmente
diversi (pp. 309-316).
E dunque:
Che cos’è l’intelligenza se non la capacità di affrontare i problemi in un modo non programmato (o, come diciamo spesso, creativo)? [...] Il nostro cervello
è un computer enormemente complesso [...]. La flessibilità è il marchio
dell’evoluzione umana. Se gli esseri umani si sono evoluti, come credo, in base
alla neotenia [...] allora siamo, in un senso più che metaforico, bambini permanenti [...]. In altri mammiferi, l’esplorazione, il gioco e la flessibilità di comportamento sono qualità dei giovani, solo raramente degli adulti. Non conserviamo
168
Capitolo V
soltanto lo stampo anatomico dell’infanzia, ma pure la sua flessibilità mentale
[...]. Gli uomini sono animali che apprendono [...] (pp. 316-317).
(Cfr. a questo proposito, A. Visalberghi, “L’influenza del darwinismo
sulla pedagogia”, Scuola e Città, novembre 1983, pp. 470-476, e, su un
piano più generale, Pietro Rossi, “Quale rivoluzione?”, in Tecnologia
domani. Utopie differite e transizione in atto, a cura di A. Ruberti, Laterza-Seat, Bari 1985, pp. 319-344)13.
13 Da un punto d’osservazione strettamente educativo, il tema delle “utopie” e
delle “transizioni in atto” sembra in realtà fondamentale. In questo senso, può essere
interessante registrare a titolo di semplice promemoria la serie dei riscontri che, sul
terreno della quotidianità in corso, continuano ad essere offerti sull’argomento del
saggio di Gould, ma a partire dagli ultimi dati dell’esperienza che tutto il mondo continua a fare del razzismo proprio mentre scriviamo. Per restare alla dimensione esclusivamente pedagogica che c’interessa, quindi, elenchiamo a titolo d’esempio
un’ampia gamma di argomenti, che ricaviamo dalle cronache dell’estate e dell’autunno 1985. E dunque: 1. La morte per impiccagione del poeta nero Benjamin Moloise, nel clima in cui è avvenuta nel Sud Africa dell’apartheid, il 18 ottobre, ha scosso le
coscienze degli uomini di cultura di tutte le nazioni, ed ha interessato in un modo o
nell’altro anche la scuola. 2. Sul piano delle scienze dell’educazione, è notevole la notizia che due studiosi americani James Wilson e Richard Herrnstein, rispettivamente
uno studioso di scienze politiche e uno psicologo sperimentale, abbiano pubblicato
negli Stati Uniti “una teoria generale della criminalità” ed “un loro modello di aggressività umana” (cfr. il vol. Crime and Human Nature, Simon and Schuster, pp.
640), dedicando ampio spazio anche al problema della “razza”. 3. La “fiammata razziale” che ai primi di ottobre sconvolge Londra, ha i suoi riscontri anche a scuola (in
quelle londinesi e inglesi anzitutto). 4. In Italia, in varie città, decine di migliaia di
studenti medi in corteo contro il razzismo (tra la fine di settembre e i primi di ottobre). 5. Su numerosi giornali italiani e stranieri è possibile leggere, variamente, delle
“cronache” e dei “fantasmi” del “piccolo” (e del “grande”) razzismo quotidiano, dentro
la scuola e fuori. 6. Il dramma dell’apartheid è, per esplicito, il contenuto dell’opera
letteraria e politologica della scrittrice Nadine Gordimer (in visita in Italia in settembre), di cui si sottolineano anche gli aspetti pedagogici. 7. Uno studio di Sebastiano
Vassalli, Sangue e suolo, edito da Einaudi, fa discutere del bilinguismo e del razzismo in Alto Adige. 8. Vari interventi, tra il settembre e l’ottobre, su razzismo e divisione del lavoro. 9. Cronache sul rapporto educazione dell’infanzia e questione femminile-razzismo. 10. Casi di razzismo in Italia che ricordano quelli di Johannesburg,
Birmingham, Berlino, Parigi... 11. Tra cronaca e storia: a cinquant’anni dalle leggi
antisemite di Norimberga, esplodono ovunque nuove violenze che ripropongono il
problema dell’intolleranza razzista. 12. Aids e razzismo: educazione sanitaria e caccia
alle streghe (estate-autunno). 13. Di Gould si discorre in varie occasioni in Italia: per
es. a proposito di John Eccles e delle sue teorie; in tema di “intelligenza negata” e di
“scienza ideologica”; dei suoi prossimi studi ecc.
Il Papuano
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2. Antonio Labriola a centosessant’anni dalla nascita14
(6 giugno 2003)
Una presentazione
Quando, agli inizi del secolo scorso, Antonio Labriola si trovò a svolgere gli ultimi corsi della sua trentennale carriera di docente, non aveva
ancora compiuto sessant’anni. Li compirà il 2 luglio del 1903, essendo
egli nato a Cassino (San Germano) nel 1843, ma non vivrà ancora per
molto, perché era già gravemente ammalato di un cancro alla gola
(all’“organo pedagogico”, diceva). Morirà infatti il 2 febbraio del 1904,
interrompendo un’autorevole, originale attività di teorico, educatore,
pubblicista.15
Quelle lezioni conclusive all’Università di Roma, dove Labriola aveva insegnato Filosofia morale e pedagogia (dal 1874 al 1901), Filosofia
della storia (dal 1887) e quindi Filosofia teoretica (dal 1902), saranno
così insieme l’estrema testimonianza di un alto magistero scientifico e
didattico, il suo testamento spirituale e, per più versi, la sintesi concettuale e morale di tutta una vita di studi, d’insegnamento, d’impegno etico-politico e civile. E dunque il compendio di un’esistenza di pedagogista sui generis, degnamente condotta per l’università e per la scuola.
Quest’ultima, intesa in tutte le sue forme possibili: sul piano istituzionale ed extra-istituzionale, come educazione e autoeducazione, in famiglia, nella società, in circoli pedagogici, tra gli operai, nella corrispondenza pubblica e privata, sui giornali e sulle riviste, al caffè Aragno, dovunque insomma gli fosse riuscito.
Titolo e argomento generale di quei corsi primo-Novecento: Da un
secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi. Ovverosia: il celebre Quarto saggio intorno alla concezione materialistica della storia,16 sul tema del passaggio di secolo, dal Settecento all’Ottocento, ma
Con lo stesso titolo, in Pedagogia e Vita, luglio-agosto 2003, pp. 65-80.
Questo Labriola è stato oggetto di studio, da parte di chi scrive, dal 1968 in
qua, in volumi, saggi, articoli, voci di enciclopedia, edizioni di testi, note, bibliografie,
emerografie, corsi accademici, dossier ecc. Per riferimenti bibliografici essenziali e
qualche lettura critica di merito, cfr. quindi la “Nota bibliografica” a cura di V. Gerratana e A. Guerra con aggiornamenti di N. Siciliani de Cumis, in A. Labriola, Saggi sul
materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Editori Riuniti, Roma 1977
(seconda edizione), pp. 379-519; la voce “Antonio Labriola” nell’Enciclopedia pedagogica, a cura di M. Laeng (per i tipi dell’editrice La Scuola di Brescia); l’edizione A.
LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, UTET, Torino 1981; N.
SICILIANI DE CUMIS, Laboratorio Labriola. Ricerca, didattica, formazione, La Nuova
Italia, Scandicci (Firenze) 1994. Per gli anni più recenti, cfr. poi, variamente, il sito
web www.cultureducazione.it.
16 Cfr. quindi, dopo l’anticipazione di un brano dell’opera in A. LABRIOLA, Scritti
varii di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da B. Croce, Laterza, Bari 1906, pp.
443-490, A. LABRIOLA, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV.
Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, ricostruzione di L. Dal
Pane, Cappelli, Bologna-Rocca S. Casciano-Trieste 1925. Vedi quindi da ultimo (dopo
14
15
170
Capitolo V
evidentemente in presenza della svolta dell’Ottocento nel Novecento e
con l’occhio rivolto al futuro.
Argomenti labrioliani oggetto di quelle lezioni, intanto: l’autobiografia, la storia, l’educazione, la didattica e la ricerca, l’intreccio e il non
intreccio di filosofia della storia, etica e pedagogia, i possibili rapporti
disciplinari con il più vasto campo della cultura, alcune significative
dimensioni disciplinari, la funzione della “scienza” e di ciò che è “scientifico” e “tecnico”, nell’università e nella società civile. Ancora: riforme
e rivoluzioni delle storia, la Rivoluzione francese, il nesso di presente,
passato e futuro, l’età liberale, la sua genesi, i suoi sviluppi, le sue contraddizioni, i rapporti tra Stato e Chiesa, le lotte per la nazionalità, concorrenza economica ed espansione coloniale, Paesi industriali e Paesi
agricoli, il crescere dello spirito scientifico e la rinascenza cattolica, la
scuola, la cultura, la scienza e la vita, l’Italia e il mondo, “popoli attivi” e
“popoli passivi”, pace e guerra… E inoltre, variamente presenti, le stesse nozioni di storia, secolo, mondo, nazione, religione, filosofia, educazione, pedagogia, scuola, ideologia, sociologia, psicologia, utopia, economia, cultura, razza, progresso, rivoluzione, libertà, giustizia, democrazia, socialismo ecc.
Chi era però Labriola? Chi era stato, nel corso della vita, questo autore, che pur facendo monograficamente il punto su un problema specifico (quei secoli, questi altri secoli), puntava invece scientificamente e
didatticamente a sollecitare la riflessione dei suoi studenti su temi culturali “di tanta ampiezza e di tale varietà”, sì da voler lasciare loro almeno “la impressione di un piccolo frammento d’un grande tutto”? Di
che marca era lo sfondo pedagogico dei ragionamenti di filosofia della
storia, che ora riformulando antichi pensieri, ora sperimentando il
“nuovo”, egli veniva finalmente proponendo e riproponendo?
È cioè possibile vedere, nella stessa oggettiva “frammentarietà” di
Da un secolo all’altro, una sintesi (“il precipitato”, come si esprime Labriola), della complessiva vicenda filosofica, pedagogica, etico-politica
dell’uomo di scienza, alla luce di un po’ tutta sua vita? In quale giro di
idee, in che contesto culturale si colloca, d’altra parte, la trattazione labrioliana “per secoli” (fermo restando, come viene detto, il carattere del
tutto convenzionale della nozione stessa di secolo), sì da consentire una
più ampia considerazione d’insieme, dell’autore, della sua opera, degli
effetti culturali ed educativi che, direttamente o indirettamente, ne derivano?
Una presentazione complessiva di Labriola, infatti, per quanto sommaria, non può prescindere dal carico unificante della sua intelligenza
critica, dal riconoscimento delle peculiarità della sua verve maieutica e
dal valore pedagogico aggiunto (per così dire) del farsi della sua particolare vicenda formativa. Dal fatto, cioè, che la sua opera, in un modo o
alcune altre riproposte, parziali o meno, dell’opera, a cura di E. Garin, V. Gerratana e
A. Guerra, B. Widmar), A. LABRIOLA, Saggi sul materialismo storico, introduzione di
A. Santucci, Editori Riuniti, Roma pp. 375-409.
Il Papuano
171
nell’altro, si allaccia dia logicamente, ma distintivamente, alla compresenza di familiari e maestri, colleghi e allievi e alla interferenza di uditori e interlocutori, oppositori e sodali, corrispondenti, editori, lettori
ecc.
Questi pertanto i nomi in tal senso più significativi, o almeno indicativi, nella biografia di Labriola: suo padre Francesco Saverio e l’abate-maestro Nicola d’Orgemont, Bertrando e Silvio Spaventa, Antonio
Tari e Augusto Vera, Francesco Fiorentino e Felice Tocco, Andrea Angiulli e Francesco Bonatelli, Saverio Francesco De Dominicis e Niccola
Fornelli, Luigi Ferri e Alessandro Chiappelli, Romolo Murri ed Ernesto
Buonaiuti, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Rodolfo Mondolfo, Luigi
Pirandello, Paolo Orano, Andrea Torre, Friedrich Engels, Georges Sorel, Filippo Turati, Karl Kautsky, Antonino De Bella, Georg Valentinovič
Plechanov, Tomas Garrigue Masaryk, Luigi Credaro, Teresa Labriola
ecc.17
Ma quali furono le idee principali, proprie e nuove, di Antonio Labriola, nel corso della propria formazione? Quali le sue categorie mentali caratterizzanti? Quali, in ultima analisi, i punti forti d’arrivo, delle
peculiarità pedagogiche labrioliane?
Conviene ritornare a Da un secolo all’altro, per supporre, come si
diceva, i termini di una possibile veduta critica d’insieme. Una sintesi
che, per quanto schematica e lacunosa, può forse risultare comunque
istruttiva.
Tra autobiografia, storiografia, educazione
Intanto, è Labriola stesso a legittimare l’ipotesi: perché seguendolo
noi lungo il filo dei suoi ragionamenti, ci si avvede subito di un certo
tono riepilogativo di esperienze scientifiche e didattiche precedenti. Un
racconto del “Sé”, mediante ricorrenti sortite autobiografiche, e rievocativo, al limite dell’auto-commemorazione.18
Si registra quindi, in presenza di ciò, l’esigenza di una delucidazione
degli intenti storiografico-metodologici, che va di pari passo con la presentazione delle diverse questioni critiche di tutto un percorso filosofico soggettivo, che viene supposto come obiettivamente dimostrativo e
intrinsecamente didattico. Ed è qui che a maggior ragione si conferma
la naturale disposizione labrioliana all’insegnamento: e la sua tendenza
all’esplicitazione e all’esemplificazione, nella chiave storico-personale,
auto-formativa suddetta.
17 Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Filosofia ed Università. Da Labriola a Vailati
1882-1902, Urbino, Argalìa, 1975 (seconda edizione, UTET Libreria, Torino 2003) e
ID., Studi sul Labriola, Argalìa, Urbino 1976 (ad nomen). Cfr. ora ID., Il padre di Antonio Labriola, in Antonio Labriola e la sua Università, cit., pp. 410-422.
18 Cfr. LABRIOLA, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV.
Da un secolo all’altro, Considerazioni retrospettive e presagi, cit., pp. 23 sgg.
Capitolo V
172
Si osserva cioè l’esigenza del professore, da un lato, di sostenere la coerenza e l’interna necessità delle proprie scelte scientifico-pedagogiche
(“Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia andrà per me
ora sperduto”19), da un altro lato, la consapevolezza hic et nunc della
relativa novità della proposta (“ma non uno ne ripeterò quest’anno”).
L’esigenza, esplicita, della restituzione genetica, nella dimensione temporale dei processi: e a monte e a valle di essi. Un’esigenza filosofica,
storiografica e, in quanto tale, educativa e autoeducativa.
Di modo che, se tra il passato e il presente non c’è alcuna soluzione
di continuità nella morfologia dei traguardi via via raggiunti dalla storia, tra il presente e il futuro si stabilisce, ancora morfologicamente,
quasi un’intesa ulteriore: il proposito, cioè, di interagire dialetticamente
con il passato e, così facendo, di “illuminare la scena attuale del mondo
civile”, per intervenirvi praticamente, ovvero pedagogicamente, quindi
socialmente e politicamente.
Scrive infatti Labriola, raccontandosi e autocitandosi, tra biografia,
filosofia ed educazione (tra vecchio e nuovo della propria esperienza):
Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia andrà per me ora
sperduto: ma non uno ne ripeterò quest’anno. Totalizzo, quasi, i risultati di
quelli in questa, dirò così, istantanea della fin di secolo. Ho spaziato per anni su
campi svariati. Una volta Vico ragguagliato alla scienza modernissima, un’altra
volta un raffronto metodologico fra storia e filologia. Un anno mi fermai a illustrare il variare dei rapporti fra Chiesa e Stato, un altro a ripigliare in esame la
preistoria del Morgan col raffronto coi più recenti studi. Due volte trattai documentariamente la storia del socialismo moderno, da Babeuf alla Internazionale,
e illustrai in un altro corso le origini della borghesia italiana, e la condizione
d’Italia sulla fine del secolo decimoterzo. Discorsi più volte della Rivoluzione
Francese – il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso, secondo
la boriosa espressione degli eruditi, di una specifica competenza […]20.
Per cui, da un punto di vista strettamente pedagogico e autopedagogico, tra autobiografia ed educazione, l’ultimo Labriola contiene per così dire tutto il se stesso precedente, in ogni senso possibile. Nel senso,
intanto, della ricerca della genesi del “nuovo”, in rapporto alle procedure dell’agire storiografico nel presente (lo stesso taglio autobiografico
obbedisce a questa spinta dell’attualità), e, dunque, nel senso di una vera e propria proposta pedagogica, addirittura didattica, in tema di insegnamento e apprendimento della competenza storica.
Si chiede infatti Labriola: “Al postutto, quale è il mezzo pratico per
misurare la nostra cultura storica?”.
E risponde:
19
20
Ivi, pp. 24-25.
Ibidem.
Il Papuano
173
Eccolo, è semplicissimo: – la nostra capacità a intendere il presente. Recatevi nelle mani i giornali dell’ultima quindicina.
Abbiate sott’occhi un passabile atlante geografico. Fate di avere libero maneggio delle ovvie cronache annuali riassuntive. Capite l’ultima notizia?
Che cosa è questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di resistenze dei
costumi e delle libertà endemiche contro l’universalismo inglese, questa ultima
obiezione armata del villano contro il capitalismo invadente?
E la Russia che rifà a rovescio l’invasione mongolica? E di quanto bisogna
retrocedere e di quanto bisogna addentrarsi per risolvere i fatti politici attuali
nei momenti e nei moventi, di remota preparazione quelli e di intima impulsione questi?21
In altre parole: come Labriola applica a se stesso il criterio autoeducativo del conoscersi autobiograficamente e del farsi conoscere biograficamente, al fine di risolvere, “adesso”, un problema educativo del presente e svolgere l’azione formativa più conveniente a ciò utile, così, più
in generale, egli propone di estendere l’uso di un metodo siffatto alla
conoscenza storica del presente. Di tutto il presente come parte del suo
presente, e, viceversa: del suo presente, come parte di tutto il presente.
Di qui l’idea, che per avvicinarsi a Labriola seguendo questa strada,
risulta essenziale usare tanto del metodo ascendente quanto del metodo
discendente (come egli stesso viene teorizzando in Dell’insegnamento
della storia)22: per applicarlo quindi agli stessi numerosi spazi autobiografici di cui l’opera labrioliana, in ogni suo momento, è ricca. Così, per
esempio:
Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che fu molto lodato dallo
Zeller, e son sempre un po’ socratico nella mia vocazione […]23.
A Napoli, privatamente dal 1840-60, e poi pubblicamente all’Università dal
1860-75, ci fu la rinascenza dell’Hegellismo. Il bravo Tari (del resto un uomo
geniale)24 deduceva gl’istrumenti musicali e la cupola di S. Pietro, e costruiva i
romanzi di Balzac. Il gran divulgatore Vera25 ha lasciato molti libri e molti scolari. Sopravvive ora il mio quasi coetaneo Mariano26, che insegna ancora a Napoli
Ibidem.
Cfr. A. LABRIOLA, Dell’insegnamento della storia. Studio pedagogico, Loescher, Torino-Roma-Firenze 1876, ora in ID., Scritti pedagogici, cit., pp. 244-346.
23 Questo brano e quelli che seguono sono tratti da varie opere di Labriola. La sequenza, con alcune varianti, è già presente in N. SICILIANI DE CUMIS, “L’autobiografia
come educazione”, in ID., Laboratorio Labriola, cit., pp. 13 sgg., cui in generale si
rimanda per i testi e per l’indicazione delle fonti labrioliane in nota. Quanto al luogo
testè utilizzato, cfr. A. LABRIOLA, “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone
ed Aristotele”, Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche, Stamperia della R.
Università, Napoli 1871, pp. VI-145. L’edizione più recente: ID., La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele (1871), in ID., Opere, a cura di L. Dal Pane, Feltrinelli, Milano 1961.
24 Antonio Tari, professore di Estetica e musicologo.
25 Augusto Vera, storico della filosofia e filosofo della storia.
26 Raffaele Mariano.
21
22
174
Capitolo V
dell’Hegellismo di estrema destra. Lo Spaventa27 (ottimo fra tutti, e taccio degli
altri) scrisse di dialettica in modo squisito, scovrì di nuovo Bruno e Campanella,
delineò la parte utile e utilizzabile di Vico, e trovò da sé (nel 1864!) la connessione fra Hegel e Darwin.
Sono nato in tale ambiente. A 19 anni scrissi una invettiva contro Zeller per
il ritorno a Kant (prolusione di Heidelberg)28. Tutta la letteratura hegelliana e
post-hegelliana ci era familiare. Ora quei libri son finiti, o nelle auzioni degli
antiquarii, o su le pancarelle. Studiai Feuerbach nel 1866-68, e poi la scuola di
Tubinga: ich habe, leider, auch Theologie studiert.
Tutto ciò è finito, perché questo nostro paese è come un pozzo della storia.
Ora domina il demimonde positivistico.
Forse – anzi senza forse – io sono diventato comunista per effetto della mia
educazione (rigorosamente) hegelliana, dopo esser passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Völkerpsychologie di Steinthal e altro29. Dunque nel leggere l’heilige Familie mi son trovato assai facilmente nella situazione di voi che la
scrivevate.30
[…] Per quanto io abbia per molti rispetti cambiato nel mio modo di concepire e d’insegnare, da che professo etica e pedagogia in questa Università, tengo
però sempre fermo nell’indirizzo herbartiano di considerare la metafisica, non
come veduta del mondo per totalità, ma come critica e correzione dei concetti,
che son necessari per pensare l’esperienza […]. Queste, o signori, sono le disposizioni d’animo e di mente, con le quali assumo l’ufficio temporaneo, affidatomi
dal Ministero col consenso dei miei colleghi, di dettar lezioni di filosofia della
storia […]. Queste disposizioni non sono veramente in me nuove, anzi risalgono
a un tempo quando io, lontano assai da pensare che insegnerei etica e pedagogia
in questa Università, in età relativamente giovane chiesi alla facoltà di Napoli la
libera docenza in questa disciplina, e nella prova pubblica, sostenni la disputa
con quell’ottimo interprete dell’hegellismo che fu il prof. Vera, sul tema seguente, da lui propostomi: se l’idea sia il fondamento della storia […]. Nello scrivere
estemporaneamente su cotesta tesi, e nella disputa che ne seguì, respinsi l’ipotesi inclusa nell’enunciazione, contrapponendo all’Hegel l’Humboldt, e lo Stenthal che ne deriva, e usando del Lotze, di cui avevo allora piena la mente. Ma
l’ottimo Vera mi fu liberale del suo voto favorevole, specie sulla lezione che tenni sul concetto della Scienza nuova di Vico.31
[…] Pubblicai nel 1881 un lavoro, che ha per titolo: Dell’ordinamento della
scuola popolare in diversi paesi (Prussia, Sassonia, Baviera, Austria, Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America, Belgio, Olanda). Non ebbi in animo di dar
27 Bertrando Spaventa, insigne professore di discipline filosofiche, storiche e teoretiche, il “maestro” di Antonio Labriola.
28 “Una risposta alla prolusione di Zeller”, ora in A. LABRIOLA, Scritti e appunti su
Zeller e su Spinoza (1862-1868), Feltrinelli, Milano 1959. Di qualche anno più tardi è
la monografia Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza (1866), in
ID., ibidem.
29 Su questo aspetto della formazione di Labriola, cfr. almeno N. SICILIANI DE
CUMIS, “Herbart e herbartiani alla scuola di Bertrando Spaventa”, in ID., Studi su
Labriola, cit., pp. 89-161.
30 Qui Labriola si sta rivolgendo a Friedrich Engels, e allude a Karl Marx e allo
stesso Engels.
31 Lezione dal titolo “Esposizione critica della dottrina di G.B. Vico”.
Il Papuano
175
consigli, né di offrire esempio all’imitazione. Avendo studiato sui documenti
diretti lo stato delle cose scolastiche in diversi paesi per rispetto alla coltura popolare, mi limitai, poi, nello scrivere, all’esposizione dei nudi fatti. Se qualcuno
ama di ritrarre da quello scritto, non solo delle notizie, ma anche degli ammaestramenti, ecco a che questi si riducono. Non si dà luogo nelle cose scolastiche,
come in nessun’altra di questo mondo, ai salti di punto in bianco, ciascun paese
ha fatto da sé, come poteva, secondo i mezzi suoi propri.32
[…] Son socialista a modo mio, e risoluto a non discostarmi d’una linea dalle
convinzioni scientifiche, a vincere le mie passioni, e non secondare quelle degli
altri. Non feci mai e non faccio la vita delle conventicole, delle associazioni e
delle leghe. Non credo a nulla di artificiale, e mi ripugna tutto ciò che è violento.
Son tre mesi appena che entrai nel Circolo radicale, ed è la prima volta in vita
mia che metto piede in un circolo. Non ho appreso il socialismo dalla bocca d’un
gran maestro, e quel che ne so lo devo ai libri. Mi ci ha condotto il disgusto del
presente ordine sociale, e lo studio diretto delle cose. Fin dal 1873 scrissi contro
i principi direttivi dell’ordinamento liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi in
questa via di nuova fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato
con gli studi e con le osservazioni negli ultimi tre anni. Ciascuno ha le sue vie e il
suo temperamento di spirito!
[…] Da alcuni anni in qua, ch’io mi professo pubblicamente socialista, dopo
d’aver maturata già innanzi, nella mente e nell’animo, cotesta dottrina e cotesta
persuasione, ho chiuso sempre gli orecchi alla critica poco seria, poco garbata,
poco ragionevole di quelli i quali credono di cogliere in fallo un uomo, se affermano, che le idee alle quali è giunto non sian quelle dalla quali è partito. A coteste accuse ho opposto sempre la secura coscienza che, se mai, il pensare diversamente a lungo scadere di anni, non è contraddirsi ma svolgersi, per non dire,
che di cotesti critici sciatti e scortesi io non so quanti sappiano, senza aver letto e
udito quello che ho scritto, insegnato e detto da venti anni in qua, da che punto
davvero io sia partito, e a che punto io sia davvero arrivato.33
[…] Ma v’ingannate quando credete che io non viva in contatto degli operai.
Ho menato a Roma vita assai agitata e anche rumorosa del 1888 al 1° maggio 91
– avrò fatto un duecento discorsi, ed ho preso parte a altrettante riunioni – ho
ideato circoli, federazioni e cooperative – ho regalato migliaia di lire e di opuscoli – e per ora e per un pezzo basta. Ho imparato abbastanza per dire con sicurezza: non bisogna affrettarsi. In questi quindici mesi che son succeduti al 1°
maggio 1891, ho avuto su le spalle imputati e loro famiglie, avvocati e testimoni,
e inoltre le spie e mi ricordo dell’impressione che feci sui giudici con la precisione delle mie informazioni. La mia casa è un va e vieni di operai d’ogni parte
d’Italia […]. Non c’è giornale o giornaletto o opuscolo di questi ultimi anni che
non mi sia passato per le mani – e tutto il tramenio segreto dei guastagiuoco mi
è trasparente in ogni particolare.34
32 Cfr. A. LABRIOLA, “Appunti sull’insegnamento secondario privato in altri stati”
e “L’ordinamento della scuola popolare in diversi paesi”, in ID., Scritti pedagogici,
cit., pp. 349-462.
33 Da una lettera aperta a Ettore Socci.
34 Da una lettera a Filippo Turati.
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Capitolo V
[…] Com’è risaputo, io entrai esplicitamente e pubblicamente nelle vie del
socialismo solo dieci anni fa35 […]. “Fin dal 1873 scrissi contro i principii direttivi del sistema liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi su questa via di nuova
fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato con gli studii e con
l’osservazione negli ultimi tre anni”. Così a p. 23 della mia conferenza: Del Socialismo, Roma, 1889. Quella conferenza, che era come una professione di fede
in istile popolare, fu da me completata con l’opuscoletto: Proletariato e Radicali, Roma, 1890 […]. Prima, insomma, di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo, opportunità e obbligo d’aggiustar le mie partite e i miei
conti col Darwinismo, col Positivismo, col Neokantismo, e con quanto altro di
scientifico si è svolto intorno a me, e ha dato a me occasione di svolgermi tra i
miei contemporanei, poiché tengo cattedra di filosofia all’Università dal 1871, e
per l’innanzi ero stato studioso di ciò che occorre per filosofare […]. Manco a
farlo apposta, la mia prima composizione filosofica, in data del maggio 1862, è
una: Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed.
Zeller.
[…] “Non faccio voto di chiudermi in un sistema come in una sorta di prigione”. Così scrivevo ventiquattro anni fa (Della Libertà Morale, Napoli 1873,
nella prefazione), e così posso ripetere ora. Quel libro contiene la trattazione per
disteso della dottrina del determinismo, e trovava allora il suo complemento in
un altro mio lavoro, dal titolo Morale e Religione, Napoli, 1873 […]. Sono venti
anni oramai che io ho in uggia la filosofia sistematica […]. E qui occorre che citi
me stesso: “Io non ero venuto in questa università, ventitré anni fa, qual rappresentante di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di novello sistema. Per
le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto
l’influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica, e ossia i sistemi di
Herbart e di Hegel” […]. Raccomanderei al lettore la mia relazione del 1887 sulle lauree in filosofia […]. Dissi a un dipresso cosa sia la concezione epigenetica
nello scritto che s’intitola: I Problemi della Filosofia della Storia, Roma 1887.
Questo scritto in parte suppone un altro molto più antico: Dell’insegnamento
della Storia, Roma, 187636.
La pedagogia dei popoli “attivi” e dei popoli “passivi”
La storia cioè, nelle sue parti, autobiograficamente “si tiene”. La filosofia e la storia si prolungano nell’insegnamento della storia (nel quale rientra quello della storia della filosofia), e nella filosofia della storia.
La storia, la filosofia, la pedagogia e la didattica sono infatti i momenti tecnicamente diversi di un processo conoscitivo e pratico-operativo
unitario. Anche se, secondo Labriola, occorre distinguere. E si tratta di
una distinzione carica di conseguenze, sia sul piano etico-politico 35 Cioè nel 1889. Il brano è tratto da A. LABRIOLA, “Discorrendo di socialismo e di
filosofia”, in ID., Saggi sul materialismo storico, cit., p. 228-229; e cfr. ID., Epistolario 1896-1904, introduzione di E. Garin, a cura di V. Gerratana e A. Santucci, Roma,
Editori Riuniti, 1983, pp. 780, 923, 1001-1002.
36 Il brano è tratto da A. LABRIOLA, “L’Università e la libertà della scienza” (18961897), in ID., Scritti pedagogici, cit., pp. 590-591.
Il Papuano
177
pedagogico, sia su quello teoretico-storico. Due piani pur diversi, ma
tra di loro continuativi, organici, inscindibili.
Per capire in che senso e con quali delimitazioni, conviene quindi ritornare al Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi: dove è subito notevole, per quanto dall’interno del nesso teoriapratica, la distinzione tecnica, disciplinare, operata da Labriola, tra la
materia del corso straordinario di Filosofia della storia e quella del corso ordinario di Etica e pedagogia. Ma vale la pena seguire l’intero ragionamento labrioliano, per vederne poi tutte le implicazioni e conseguenze.
Scrive infatti Labriola:
Ripiglio tutti gli anni sempre con viva emozione e con gran piacere questo
corso straordinario di filosofia della storia. I miei uditori potranno vedere e riconoscere essi stessi, come in queste lezioni nelle quali non rifuggo dalla oratoria e dall’intonazione pronta e facile della conferenza, io usi di uno stile di molto
diverso di quello che è proprio al mio corso ordinario di etica e pedagogia. In
questo io mi attengo rigorosamente alla serrata tecnica della lezione, come si
conviene ad argomenti che van trattati per compiere esplicitamente la funzione
precisa dell’ammaestrare e dell’insegnare. Qui siamo, invece, nel più vasto campo della cultura – qui si ha per mano una materia, che nessuno si argomenterebbe mai di disciplinare a scopo di esami, riducendola a mezzo di esercizi professionali. Sono poche – e poche devono essere – coteste materie, che segnano
come la estensione, e direi quasi la espansione dell’Università oltre ai termini di
ciò che è direttamente utilizzabile a intenti pratici immediati.37
In altre parole, secondo Labriola, dall’“ammaestrare e dall’insegnare” va escluso il “più vasto campo della cultura”, il quale – egli afferma
– non è disciplinabile, non è esaminabile, non è pratico, né per così dire
professionalizzabile: ma che, essendo disinteressato e libero per sua natura, non va contaminato dall’elemento immediatamente utilitario, che
resta invece al di qua del momento euristico, universitario espansivo,
“della libertà, della ricerca e della opinione”.
Labriolianamente parlando, si tratta allora di muoversi su piani distinti e diversi: l’uno (quello dell’insegnamento-apprendimento), che
comporta a priori un certo grado di dipendenza pedagogica e, di conseguenza, una didattica della subalternità e della passività rispetto al
“nuovo” della ricerca, l’altro (quello dell’indagine senza delimitazioni di
campo), che esige invece metodologicamente, da chiunque, coinvolgimenti culturali liberi, laboratoriali, ricercativi per una didattica della
padronanza e della non-passività.
Ed è ciò che Labriola riconosce positivamente, invece, soltanto a
proposito del corso di Filosofia della storia:
37 ID., Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo
all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, cit., p. 23.
Capitolo V
178
Ed ecco che io, infatti, in cotesto corso mi lascio andare di buon grado a una
certa agile combinatoria di elementi, e di cose e di idee, che la stringata classificazione delle discipline suol sempre tenere quasi pedantescamente distinte e
separate del tutto, uso in larga misura della libertà, della ricerca e della opinione, e rifacendomi d’anno in anno di nuove letture e di nuovi studi, miro in queste lezioni all’ampiezza e alla pienezza dell’esposizione: il che è ben diverso dalla
pretta esattezza didattica.38
Né è tutto. Perché questo ragionamento didattico-universitario ha
su un piano più largo, anche altri aspetti: filosofici, pedagogici ed eticopolitici. I quali, per schematizzare, da un lato rimandano a tutt’intera la
posizione teoretico-pratica del Labriola oggettivista, necessitarista (in
filosofia) e dunque fatalista e attendista (in politica)39, da un altro lato
rinviano ancora coerentemente alla celebre intervista Sulla questione di
Tripoli,40 e – ancor prima – all’altrettanto emblematica tirata pedagogica sul Papuano:
“Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi
scolari, tanti anni fa – credo circa trent’anni fa, – al prof. Labriola, in una delle
sue lezioni di pedagogia, obiettando contro l’efficacia della pedagogia.
“Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano
professore), lo farei schiavo, e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se ai suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad applicare qualcosa della
pedagogia nostra”41.
Un’uscita, com’è noto, radicalmente respinta da Antonio Gramsci
nei Quaderni del carcere:
Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla
questione coloniale (Libia) […]. Pare si tratti di uno pseudo-storicismo, di un
meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo
[…]. Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto
dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo […]. Nella intervista
sulla questione coloniale il meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola
appare anche più evidente. Infatti: può darsi benissimo che sia “necessario ridurre i papuani in schiavitù” per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono
determinate condizioni, che cioè questa è una necessità “storica” e non assoluta:
è necessario anzi che ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio la
condizione per cui i nipoti o pronipoti del Papuano saranno liberati dalla schiavitù e saranno educati con la Pedagogia moderna.42
Ivi, pp. 23-24.
Cfr. G. MASTROIANNI, Antonio Labriola e la filosofia italiana, Argalìa, Urbino
1976 (seconda edizione), pp. 7 sgg., 25 sgg., 51 sgg. e passim.
40 Cfr. A. LABRIOLA, “Tripoli, il socialismo e l’espansione coloniale. Giudizi di un
socialista”, Il Giornale d’Italia, 13 aprile 1902, intervista raccolta e firmata da Andrea
Torre, ora compresa in ID., Scritti politici 1886-1904, a cura di V. Gerratana, pp. 491499.
41 Cfr. B. CROCE, “Rivista bibliografica”, cit., supra, p. 21 n. 1.
42 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., vol. II, pp. 1366-1367.
38
39
Il Papuano
179
Sennonché, da un certo punto di vista, la risposta di Labriola sul
“Papuano” sembra essere proprio la stessa logica di Da un secolo all’altro. La logica della separazione di ciò che è pratica della cultura, alta
che sia, a fini pedagogici, da ciò che è pedagogia come cosa “altra” dalla
cultura: quasi sulla linea (diresti), che sarà dell’Odi profanum vulgus di
un Benedetto Croce e della scelta metodologica (politico-culturale) di
quest’ultimo, del “respingere violentemente le genti dalle soglie del
tempio della scienza, costringendole a restarne fuori finché non se ne
facciano degne”43.
Da una parte, allora, l’idea di un “concetto di cultura”, e dunque di
filosofia, appannaggio di pochi, esclusivi depositari. Da un’altra parte,
nei modi opportuni da decidere via via, la messa in atto di una “pratica
pedagogica”, di un’istruzione, destinabile ai molti. Guai però al pensiero e all’attività educativa, che non si accontentassero del loro ruolo preordinato. Guai a chi, volendo mediare tra i privilegi culturali di alcuni e
la domanda di crescita intellettuale dei molti, arrivasse a meritare
“l’unzione del propagandista, che vuol suscitare artificialmente l’interesse e persuadere, dolcemente incoraggiando e allettando, allo studio e
al pensiero”44.
Meglio non mescolare, invece, le attività del pensare e quelle
dell’educare. E distinguere, quindi, le diverse funzioni: e – proprio come fa Labriola in Da un secolo all’altro – attenersi alla separazione tra
le finalità universitarie elitarie, libere e disinteressate (così l’insegnamento della Filosofia della storia) e le finalità pratiche, utilitarie e di
secondo piano (quelle previste per la Pedagogia). Una distinzione di
ruoli, dunque, perfettamente in linea con l’ipotesi “didattica” ventilata
per il Papuano e la relativa “pedagogia del caso” (il farlo schiavo), che è
un portato necessario della storia.
Per il séguito, ma nello stesso ordine di idee, basta riflettere sulla
persuasione di Labriola dell’opportunità che lo stesso colonialismo
rappresenta, come strumento di correzione del “divario fra popoli attivi
e passivi”45. Divario, che non riguarda soltanto la distanza tra “gli Europei, e loro derivati d’America nel rapido ciclo della conquista tecnicocapitalistica del mondo e i non Europei”46, e quindi tra Oriente e Occidente, ma anche la contrapposizione esistente all’interno dell’Europa
stessa, tra il “suo proprio Oriente e Occidente”47.
Una contrapposizione che da un lato serve a capire la “posizione attiva […] sempre tenuta, alla fin delle fini e nel tutt’insieme, dai neogermani e dai neo-latini”48, da un altro lato vale a spiegare la dinamica
CROCE, loc. cit.
Ibidem.
45 LABRIOLA, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, cit., 346
sgg. e passim.
46 Ibidem.
47 Ivi, p. 347.
48 Ibidem.
43
44
Capitolo V
180
politica (una sorta di pedagogia della storia), che a un certo punto rende inevitabile la guerra, come guerra di conquista, di colonizzazione,
di… “pedagogizzazione”:
Qual meraviglia, dunque, se la politica della conquista, della supremazia,
della sopraffazione, dell’intervento di paese e paese, e della guerra, o fatta o soltanto minacciata, sia stata e rimanga l’inevitabile conseguenza, il potente assillo
e l’istrumento decisivo della espansione capitalistico-borghese?49
Di qui, secondo Labriola, il senso e il valore di un’educazione nazionale alla storia che, al di là di ogni verbalismo, è l’altra faccia dell’insegnamento della storia… La Storia, due volte magistra vitae: che, come
res gestae, soggettivamente insegna, e che, come historia rerum gestarum, viene oggettivamente raccontata dagli storici e insegnata a scuola.
La storia, come contenuto necessario della filosofia della storia. La
storia, come pratica educativa volta a illuminare le “differenze che effettivamente corrono fra le condizioni italiane e quelle degli altri paesi”: e
quindi di far capire, pedagogicamente, “la misura effettuale di ciò che
l’Italia è e può di fronte alla grandi correnti della storia attiva”, nel
“mondo dei popoli direttivi”, dunque non “passivi”50.
Tutti i materiali di Da un secolo all’altro, che avrebbero dovuto costituire il Quarto saggio sulla concezione materialistica della storia, sono in questo senso almeno due cose. Nella loro evidente frammentarietà e incompletezza, essi rappresentano infatti, da un lato, una trasparente ricostruzione del processo di una formazione storica, che corrisponde alla sostanza del mondo attuale nella sua genesi e nei suoi sviluppi, da un altro lato, una ricapitolazione, ora sottintesa ora esplicita,
dell’intera autobiografia intellettuale di Labriola nei suoi elementi (morfologici) essenziali.
Il socialismo? Il materialismo storico? Nient’altro che il portato necessario della storia, della società. Nient’altro – secondo Labriola – che
l’ultimo possibile anello di una catena, che ha da svolgersi storicamente, oggettivamente (morfologicamente) secondo determinate occorrenze
formali:
La caratteristica, che darò, è morfologica, ossia in essa ciò che si decide è la
forma del vincolo sociale. La società come fatto è il presupposto, poiché nulla
sappiamo dell’uomo ferus primaevus. La società come insieme è il prius, e in
essa le classi e gli individui appariscono, come messi dentro all’insieme e come
determinati dall’insieme. Aristotele definì infatti l’uomo animale politico. Per
questa via arriveremo a intendere come fondamento di tutto il resto sia la forma
della produzione, secondo la scoperta di Marx, la quale apparisce così, non come una creazione ex nihilo, ma come una soluzione finale di una serie di problemi. In codesta concezione marxistica si ha il superamento della concezione
49
50
Ibidem.
Ivi, p. 369.
Il Papuano
181
razionalistica, che costruisce la società con individui bell’e formati, o supposti
capaci di contrarre vincoli a disegno, volontari, di elezione.
[…] Ogni forma di società è un risultato, e questo risultato, come parte di un
processo, ha in sé le tracce del passato e i germi della sua propria negazione.
Perciò ogni società è un’insieme di antitesi, che nell’aspetto subbiettivo noi diciamo lotte e nelle quali consiste poi da ultimo tutta la storia.51
Ciò che più conta è quindi la serie dei processi di formazione, la progressione dialettica dei loro nessi e plessi. Nei quali anche la pedagogia,
e l’educazione, svolgono un ruolo. Anche se soltanto relativo, limitato,
subalterno alle cose, alla storia.
Volendo restare in questa sede agli aspetti pedagogici e autopedagogici precipui del problema-Labriola, basta scorrere ancora la “ricostruzione” di Dal Pane degli ultimi corsi universitari del “professore”. E ritrovare, per l’appunto qui, la stessa idea-forza di formazione, giacché,
più di altre, essa richiama variamente il concetto del morfologico, sia
sul piano del sociale, sia su quello dell’individuale: e sul piano, dunque,
della stessa formazione labrioliana, nella genesi delle sue proprie componenti (biografiche, intellettuali, culturali, filosofiche, morali, politiche, pedagogiche ecc.).
Componenti che, già largamente presenti nei precedenti Saggi sul
materialismo storico, è possibile vedere riassunte e riformulate pagina
dopo pagina in Da un secolo all’altro: per quanto solo provvisoriamente, e limitatamente alla novità del contesto del primo Novecento, che fa
da sfondo al Quarto saggio.
Si ritrova così una certa idea della scienza, che mutatis mutandis fa
ripensare all’incipit scientifico di Labriola (l’anti-Zeller, lo Spinoza, il
Socrate). Si rincontra il Vico, luogo comune di una cultura. La stessa
centralità dell’economia, nella chiave nazionale e internazionale, fa ripensare a non pochi degli scritti labrioliani del periodo giovanile. I supporti statistici, di cui tutti i ragionamenti storico-geografici si arricchiscono, anch’essi, sono tutt’altro che una novità.52
Egualmente è come se, alla luce di un po’ tutta la sua esperienza,
Labriola intendesse rivisitare le nozioni di progresso, di infanzia, di lavoro (e di divisione sociale del lavoro), di passione, di istruzione, di coltura
e cultura, di nazionalità e internazionalità, di politica, di coazione morale,
di natura, di pedagogia, di scuola, di enciclopedia, di sociologia, di psicologia, di linguistica, di tendenza, di cosa, di data, di necessità storica, di
filosofia della storia, di religione, di insegnamento-apprendimento ecc.
ecc.
E finalmente la nozione di prospettiva storica, connessa a quella di
istruzione politecnica, e di socialismo e di marxismo:
51 LABRIOLA, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un
secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, cit., pp. 53 e 54.
52 Cfr. per una conferma LABRIOLA, Scritti pedagogici, cit., passim. E sia quindi
consentito rinviare, dello scrivente, ai su citati Studi su Labriola e Laboratorio Labriola e ai rimandi bibliografici ivi contenuti.
182
Capitolo V
Non ho altro da aggiungere per ciò che riguarda il socialismo. Ne indicai i
motivi generali e inerenti alla forma moderna della società. Ne ho indicata
l’azione positiva o negativa su le fasi politiche del secolo. Mi fermai per un momento su la caratteristica del marxismo, non per esaltarlo come la nuova Bibbia
dell’umanità, ma come punto di convergenza dei vari motivi in una complessiva
veduta storica. Mi son fermato sulla storia dell’Internazionale, riducendola al
suo vero e genuino significato. E ciò per dare implicitamente o esplicitamente la
caratteristica del socialismo alla fine del secolo, il che è il punto di ragguaglio
del mio corso.53
Con quel che segue, ancora, sull’Italia, sulla condizione passiva e su
quella attiva che la concerne, sul tema della doppia questione fra Chiesa
e Stato, su quel bisogno che è per ogni uomo la religione. Sul tema infine
dell’educazione, in quanto si ricollega a quello dell’etica e della politica.
E dunque del socialismo, né più né meno – come spiega altrove –
che nei seguenti termini squisitamente (limitativamente) pedagogici:
Io ho inteso sempre il socialismo italiano come un mezzo: 1. per isviluppare
il senso politico nelle moltitudini, 2. per educare quella parte degli operai che è
educabile alla organizzazione di classe, 3. per opporre alle varie camorre che si
chiamano partiti una forte compagine popolare, 4. per costringere i rappresentanti del governo alle riforme economiche utili per tutti. Il resto della propaganda socialistica, nel senso specifico della parola, non può avere effetto pratico
quanto all’Italia che per le generazioni di là da venire.54
53 LABRIOLA, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un
secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, cit., p. 145.
54 ID., lettera a Pasquale Villari, 13 novembre 1900, in ID., Scritti politici 18861904, cit., p. 464.
VI
Trasmissione generazionale
1. Carte di famiglia: testamenti1
(Roma, 30 aprile 2003)
Testamenti
L’ipotesi di ricerca, che l’ultracentenario testamento qui di séguito
riproposto vorrebbe suggerire, è in breve questa: che nelle pieghe del
documento, insieme al motivo giuridico specifico della trasmissione di
un asse ereditario dal padre ai figli, possano trovarsi elementi “ideali” e
indicazioni morali di sicuro impatto pedagogico. E che, più in generale,
dallo studio delle fonti testamentarie, si possano far scaturire indagini
d’interesse storiografico-educativo, per la comprensione di aspetti significativi di una pedagogia familiare. Ma non solo.
Ci si chiede, in altri termini, se dalla considerazione di un determinato campione di atti notarili di questo genere non si possa variamente
ottenere un certo prospetto delle istanze domestiche, psicologiche, estetiche, sociali, economico-finanziarie, civili, etico-politiche ecc., proprie
di un ambiente culturale, anche al di là del fatto di legge cui i testamenti istituzionalmente rispondono. E ci s’interroga se non sia per l’appunto nella chiave pedagogica additata, che si evidenzi un ordito di situazioni familiari, di idee e di valori generazionali, tali da consentire
nella scuola un eventuale percorso formativo e didattico.
Un percorso, si vuol dire, di storia locale e al tempo stesso di storia
nazionale, in un quadro che potrebbe essere europeo: e magari, tra analogie e differenze, con comparazioni possibili su un piano internazionale più ampio. Un pretesto, quindi, per una riflessione su un argomento
controverso come la proprietà privata (il cosiddetto “terribile diritto”) e
la sua trasmissione, da un punto di vista forse insolito. Per esempio,
nell’ottica di un programma di “educazione alla legalità”.
E sarebbe anche un’occasione, questa, per ragionare criticamente di
noi stessi, del nostro modo di essere (“individualisti”? “familisti”?, “so 1
Da La Famiglia, maggio-giugno 2003, pp. 83-88.
184
Capitolo VI
ciali”? “etici”?), nello stato di diritto che storicamente ci concerne. Ed è
ciò che ci consentirebbe tra l’altro di richiamarci in qualche modo alle
radici medesime della nostra cultura testamentaria più remota, ai suoi
significati religiosi, sacrali, evocativi di un’”alleanza”, di un “patto” (per
es. nel Vecchio e nel Nuovo Testamento).
Un’alleanza e un patto che, nella “familiarità” del rapporto dell’umano con il divino, comporta sul piano storico una specialissima eredità di affetti, di valori, di abiti, di concezione del mondo, di idee pedagogiche, traduzioni didattiche ecc. Cose tutte da approfondire, proprio
nella dimensione testamentaria che qui interessa.
E sarebbe da cercare anche, per questa strada, la possibilità di un itinerario filosofico e pedagogico, circa le concezioni della vita e le azioni
personali e collettive, che costituiscono per così dire la filigrana teoretica e morale di questo o di quell’altro lascito testamentario, e la possibilità di uno studio sincronico-diacronico del cosiddetto “senso comune”
(dei differenti “sensi comuni”). Com’è pure da considerare l’eventualità
d’indagini di natura interdisciplinare, mediante osservazioni linguistiche, collegamenti di natura storica e geografica, e riferimenti ad altre
possibili materie scolastiche, nonché alle nozioni di giusto e ingiusto,
bello e brutto, vero o falso, utile e inutile ecc.
Sembra indubbio infatti che, come si accennava, dall’analisi puntuale di documenti di questo tipo, ben al di là della loro funzione giuridica
primaria, sia possibile intravedere contestualmente indicazioni culturali, rimandi estetici, paradigmi etici, istruzioni e ammaestramenti, nessi
ideologici e plessi motivazionali, più o meno espliciti, ma pur sempre
legati alla situazione storica. E dunque riconducibili, sia all’interno sia
all’esterno della dimensione familiare specifica, ai risvolti evidentemente educativi di essa.
Si vuol dire, cioè, che questa ipotesi di ricerca qui appena abbozzata
potrebbe risultare in prospettiva assai feconda di risultati conoscitivi in
qualche modo inediti. E, costruendo via via le sue concretizzazioni di
merito tra storia e microstoria, biografia e autobiografia, storiografia ed
educazione, diventare l’oggetto di un’attenzione metodologica ulteriore.
Il documento
Quanto al documento qui appresso pubblicato, esso non è che un
esempio, tra gli altri possibili, di testamento con precise valenze anche
educative. In particolare, si tratta di una copia notarile trascritta “in
conformità del suo originale alligato al verbale di apertura di testamento olografo del 28 aprile 1898 numero millecentodiciassette, rogato dal
notaio Tommaso Capocasale e registrato in Petilia Policastro [Catanzaro] il quattro maggio milleottocentonovantotto”.
Il testo viene ora restituito secondo tale trascrizione, senza alcuna
modifica se non minima di forma. La copia utilizzata si trova nell’“Archivio Vincenzo Colosimo”, attualmente alloggiato nell’abitazione di chi
scrive (Roma, via di Tor Fiorenza 41). L’originale olografo, non control-
Trasmissione generazionale
185
lato per impedimenti dell’ufficio, sta nell’Archivio Notarile Distrettuale
di Catanzaro (fondo del notaio Tommaso Capocasale).
In particolare, dal punto di vista strettamente pedagogico, questi, di
primo acchito, i motivi del suo interesse:
1. Emilio Colosimo è un ricco proprietario terriero (classe 1830), che
già avanti negli anni aveva deciso di mettere su famiglia. Evidente
pertanto, nel testamento, la sua duplice preoccupazione di provvedere da un lato ai figli, da un altro lato di mantenere il più possibile unite le proprietà. Di qui, in prossimità della morte, le scelte testamentarie che egli viene operando rispetto ai beni da lasciare in eredità, all’uso non paritetico della “disponibile” e della “legittima”: e
quindi rispetto alla consuetudine del maggiorascato. Da cui discendono: le scelte che il genitore viene operando e le cautele che usa, per
tenere unita la famiglia, i modelli educativi che hanno ispirato la sua
vita e vuol trasmettere ai figli, la pedagogia, in ultima analisi, del
mantenimento e della crescita della ricchezza, anche mediante lo
studio, che positivamente ne deriva.
2. Da notare quindi, nella filosofia di questo testamento, il ruolo familiare ausiliario del fratello Luciano, quello di virtuale comprimario
del primogenito Vincenzo, quello gerarchicamente funzionale degli
altri due figli, e quell’altro decisamente subalterno della consorte/
“angelo del focolare” Giovannina. Quanto al desiderio che i figli, una
volta laureati, vogliano dedicarsi alla diplomazia e all’avvocatura,
questo si spiega, da un lato, per ragioni di contesto familiare (che –
s’informa – viene annoverando tra l’altro un importante uomo politico del tempo, Gaspare Colosimo), da un altro lato, perché la giurisprudenza, nell’amministrazione dei beni di famiglia, è comunque
garanzia di sicurezza e segno di stabilità e ricchezza ulteriore.
3. Importanti pertanto le diverse sottolineature pedagogiche, che a più
riprese, e soprattutto nella conclusione, si ritrovano nel testamento,
a proposito dell’unità dell’intento economico-finanziario e insieme
pedagogico e morale da perseguire. E dunque: quando si tratta della
necessità di evitare liti tra fratelli, dell’importanza delle tradizioni
“nobilissime” di famiglia, del rispetto da portare alla madre, del valore degli studi e delle laurea, dell’esemplarità dei comportamenti
amministrativi del “buon padre di famiglia”, del ruolo in certo qual
modo anche educativo che assume la casa d’abitazione. E ciò soprattutto in presenza (diresti) dell’esperienza della prossima morte del
vecchio capofamiglia e, contestualmente, della creazione di quanto
serve alla nascita e alla formazione del nuovo capofamiglia.
Il testo
Testamento di Emilio Colosimo fatto a 19/sett. 1897
Col presente mio testamento olografo scritto e sottoscritto di mio proprio
pugno, io Emilio Colosimo fu Vincenzo nato in Colosimi, domiciliato in Petronà,
186
Capitolo VI
ora che mi trovo sano di mente e di corso [sic], a evitar discordia tra li miei figli
ed eredi dopo la mia morte dispongo delle mie sostanze nel modo che segue:
1. Nomino mio erede universale e particolare su la disponibile il mio diletto
figlio primogenito Vincenzino, e su la legittima chiamo eredi li tre miei cari figli
Vincenzo, Nicola e Angelo.
2. In caso che Vincenzo, che nominato erede della disponibile non voglia e
non possa accettarla o muoia senza figli legittimi, prima di raggiungere la maggiore età, ci sostituisce il mio secondo figlio Nicola. Qualora poi nemmeno Nicola possa e voglia accettarla e muoia senza figli legittimi prima di raggiungere
alla maggiore età sostituisce il mio diletto figlio Angelo.
3. Avvalendomi delle facoltà concessemi dall’art. 1044 del Codice Civile, e
sempre con lo scopo di evitare liti fra li miei diletti figli ai quali raccomando di
vivere sempre in buona armonia fra di loro divido io stesso il mio asse.
4. Il testo di tutte le mie proprietà, ascende a lire novecentomila circa delle
quali lire seicentomila debbono formare la quota disponibile e la legittima di
Vincenzo, e lire trecentomila la quota di riserva dei figli Nicola e Angelo.
a. A mio figlio Vincenzo per quota disponibile assegno 1° la tenuta Cappella
che comprende li fondi Battaglia, Salinella (territorio di Petronà), Driale, Sinore, Canonici Forestello, Falese, Forestello, Poerio, Scordillo, Vignali, Fregale, S.
Domenico, Donatello, Piano della Cappella, Giardino della Cappella, Vignale
Giampietro con le Fabbriche, Trappeti, Giardini o Villa Ogliastro Migliari, Cirimotta, Olivetella, Torre delle Forestelle, Mastro Amato, Jordano, Vignale, Pollizzi, e Vignale Balonia, Fondo Lesci, e Caporrusso (territorio di Belcastro), Castaneti di Petronà. Per quota legittima li assegno li fondi Silani Manulata e Donaglia I° Petronà e 2° Cerva.
b. A mio figlio Nicola, per sua quota legittima assegno il fondo Antonio Mazza di recente comprato da Veraldi. Questo fondo, non si è ancora intieramente
pagato, dovendo pagare la retta fra li tre anni stabiliti nell’istrumento di acquisto. Detta resta di prezzo se all’epoca della mia morte non ancora sarà pagata
dovrà soddisfarsi con le rendite della porzione disponibile assegnate a Vincenzo.
Lascio pure a Nicola il piccolo uliveto Torre, vicino a Belcastro e mettà [sic] del
fondo di Balzata.
c. A mio figlio Angelo assegno per quota legittima li fondi Giordano, Seminario, S. Giacomo Giampaolo, Olessi, Visciglietto (Mesoraca), Lerose e ulivi Prestia (Marcedusa) Trombetta, Chiusa della Madonna, Jannicone, Gabalese, giardino di Andali, e tutti gli altri vignali vicini alle medesime (Andali) Serre di Castello (Belcastro). Lascio pure ad Angelo il mulino e orti e Torre di Belcastro, e
l’altra metà del fondo Balzata.
5. Tutto quello che si trova nella mia casa di abitazione sia mobilia ori, argenti e gioie e ogni altro oggetto prezioso tutto sarà diviso tra li miei figli in pro
dei diritti di ciascuno a secondo dell’art. I° del presente testamento. Voglio che
della metà disponibile assegnata a Vincenzo facciano parte tutte le argenterie, il
concerto di brillanti e perle e oro che si trovano, se il valore supererà la metà
disponibile Vincenzo dovrà darne in denaro i dappiù ai fratelli. Voglio che siano
attribuite a Vincenzo tutte le mie armi, il mio orologio, la lente di oro e i bottoni
di camicia petto e polsi e li speroni di argento.
6. [È] mia intenzione di completare la casa di abitazione in Petronà con la
costruzione degli altri due quarti già incominciati e mobiliarli decentemente.
Però se all’epoca della mia morte ciò non potrà essere, dovrà Vincenzo a sue
spese costruire li due quarti cominciati quando avrà raggiunto la maggiore età e
consegnarne per ciascuno fratello Nicola e Angelo, quali sino a che non sarà loro
consegnata la loro parte del nuovo fabbricato, avranno diritto ad abitare col fra-
Trasmissione generazionale
187
tello Vincenzo la casa attualmente da me abitata. Ciascun quarto da costruirsi,
sarà composto da N. 4 stanze oltre cucina e la sala da pranzo. Eseguita la consegna del nuovo fabbricato rimarrà di esclusiva proprietà e uso di Vincenzo, il
fabbricato ora esistente.
7. Tutti gli animali di qualunque specie, come le derrate di qualsiasi natura
dovranno dividersi in proporzioni dei diritti di ciascuno dei miei figli, in conformità dell’articolo 1°.
8. Escludo dall’usufrutto legale della madre li beni lasciati a mio figlio Vincenzo, su la disponibile voglio che le rendite della porzione disponibile di cui ho
disposto 1° e 2° di questo testamento, restino vincolate per servire alla esecuzione delle precedenti mie disposizioni, e la rimanenza sia depositata anno per
anno in una pubblica Cassa, per averlo mio figlio Vincenzo o quello a lui sostituito all’epoca della maggiore età.
9. Nomino per curatore il mio caro fratello Luciano, con l’incarico di amministrare da buon padre di famiglia le sostanze che io trasmetto a mio figlio Vincenzo, o all’altro a lui sostituito, come porzione disponibile, a condizione di non
portare in mia casa nissuno dei miei parenti come sorelle e nipoti.
10. Voglio che dopo la mia morte siano fittati tutti quei fondi che si possono, e che siano venduti gli animali a eccezione di quell’accessori alla coltura,
questa raccomandazione rivolgo tanto a mia moglie, quanto al curatore mio fratello deve tutto dirigere con sostituirmi.
11. Raccomando caldamente e vivamente a mia moglie Giovannina De Stefano di curare con ogni diligenza e con affetto materno l’educazione dei nostri
figli cari. È mio ardente desiderio che tutti tre ottenessero una laurea adibendosi alla Diplomazia, e uno particolarmente nella giurisprudenza per mantenere la
tradizione nobilissima della nostra famiglia.
12. Raccomando ai miei figli di amarsi fra loro e mantenersi sempre in buona armonia, e di abere [sic] per la madre quel rispetto e quei riguardi e quella
venerazione che le son dovute. Anco raccomando agli stessi tutto il rispetto come paterno al mio fratello loro zio Luciano quale e mia moglie debbono abitar la
casa di Petronà e della Cappella. Voglio sperare che li miei figli rispetteranno le
mie ultime volontà. Ma ove mai crederanno lesi i loro diritti desidero che per
quanto sia possibile evitino tra di loro giudizio e ricorrono all’opera amichevole
dell’affettuosa famiglia Scalfaro per comporre le questioni che potranno insorgere. Annullo qualsiasi altro precedente testamento.
Atto sottoscritto di mio proprio pugno = A. Petronà oggi diciannove del mese di
Settembre 1897 = Firmato: Emilio Colosimo fu Vincenzo.
2. L’anziano come fonte di trasmissione culturale2
(30 giugno 2004)
C’è un momento, nella vita di un uomo anziano che voglia riflettere
sul problema della trasmissione culturale in chi è più giovane di lui, in
cui la memoria tende variamente a mescolarsi con le proprie visoni del
futuro. È un momento in cui il presente, nutrendosi insieme di ricordi e
di progetti, viene quasi a distribuirsi tra il ieri e il domani: e ciò che si
2
Da Pedagogia e Vita, gennaio-febbraio 2005, pp. 78-95.
188
Capitolo VI
dice prospettiva, come un Giano bifronte, appare in tutta la sua ambivalenza semantica, sia come veduta del passato sia come prefigurazione
dell’avvenire.
Age rem tuam, si dice il vecchio, e gli viene da raccontarsi e da raccontare una storia che è la sua storia. Una storia, in cui la differenza tra
res gestae e historia rerum gestarum tende ad assottigliarsi, fino a sparire o quasi. Perché il racconto della propria vita, almeno nelle intenzioni, viene a coincidere con un’azione pedagogica e autopedagogica
molto complessa, dove l’autobiografia si fa educazione e la cultura storica la condizione imprescindibile dell’ipotetica trasmissione culturale.
Succede allora che l’anzianità, uscendo dalle angustie dei propri
confini temporali e decentrandosi, cerchi il suo doppio: e, nel passaggio
dall’egocentrismo senile alla ricerca dell’altro, più giovane, può anche
accedere che il vecchio finisca con lo indirizzarsi una lettera per interposta persona. Magari scegliendo il proprio padre come interlocutore.
Di figlio in padre
(Roma, 10 gennaio 2004)
Caro Papà, perdonami se tutte le volte che vengo a farti visita al cimitero, con i miei soliti pochi fiori freschi e l’immancabile piantina
grassa, resto poi quasi niente a riflettere accanto a te su quello che a un
uomo della mia età può capitare ancora di pensare di suo padre. Di te e
di me, voglio dire, in rapporto a noi, alla nostra vita insieme dal 1943 al
1972, genitore e figlio nell’avvicendarsi delle generazioni.
Perdonami, quindi, della brevità delle mie escursioni mentali che ti
riguardano (monologhi o dialoghi che siano), soprattutto adesso che,
avendo io ormai raggiunto i sessant’anni, mi vado lasciando sempre più
alle spalle i tuoi definitivi cinquantasette: tanti quanti ne avevi tu, quando trentadue anni fa ci lasciasti improvvisamente. Sicché immaginandoti ora accanto a me, tu padre e io figlio, padre a mia volta dei tuoi nipoti (Daria che ha trent’anni, Lidia di ventisette e Matteo ventiduenne),
mi trovo paradossalmente a ricordare te come un pater familias senza
dubbio più anziano di me, ma che a mano a mano che il tempo passa,
per uno strano gioco delle parti, vedo quasi ringiovanire rispetto a se
stesso. E a me.
Di qui, forse, questa curiosa, non naturale sensazione di essere in
qualche modo subentrato nel tuo ruolo di padre, di essere io l’anziano,
il più vecchio rispetto a te. E di trovarmi adesso nella situazione pedagogica, tutta da indagare, del passaggio del testimone da te a me: sicché
ora sarei io, e non tu, ad aprire la strada, io a farti da guida, e, dunque,
quasi a trasmetterti qualcosa di culturalmente mio, nel modo in cui tu,
in quanto padre, una volta, mi trasmettevi te stesso, la tua cultura. E
questo, appunto, mediante un improbabile avvicendamento del ruolo
del padre: e al di là delle immancabili resistenze individuali, per le differenze di carattere, di formazione, di mentalità, indipendentemente
dalle rispettive esperienze personali e sociali pedagogicamente influen-
Trasmissione generazionale
189
ti, e nonostante i salti e magari i conflitti generazionali, i condizionamenti storici e d’ambiente, le interferenze del contesto, le modificazioni
del costume, e insomma, i nostri differenti modi di essere.
Ecco perché, papà, invitato a dire la mia in tema di “anzianità come
fonte di trasmissione culturale”, come prima cosa, mi è venuto spontaneo di riferirmi a te e alle nostre ricorrenti conversazioni mentali, quelle brevi brevissime del camposanto ma non solo quelle. E di provare a
dirti di me, senza fretta e quasi ritornando sui miei passi: come se tu
potessi e dovessi ascoltarmi, e io parlarti del nostro problema in tutta
calma, riconoscendo a me, adesso, quella saggezza che tanti anni fa tu
avresti certo voluto che io riconoscessi a te, ma che, per immaturità o
presunzione, non mi è riuscito mai di considerare come una risorsa di
cui tenere positivamente conto. Non so se dolermene.
Perché, come sai, ho avuto anch’io i miei “freudismi”. Con tutta la
mia voglia di crescere “per me”, puntavo a essere infatti qualcosa di diverso da te, piuttosto che a rassomigliarti. Un po’ per principio un po’
per difesa, mi piaceva troppo l’idea di costruire in un “io” totalmente
mio, culturalmente “altro”, che si differenziasse dal tuo “io”, cercando
così d’inventare un me futuribile che ti si contrapponesse di pianta, per
lasciarti alle spalle come si lascia il passato.
Ed eccomi qui, invece, a ripensare al te di allora, per dare un senso
ulteriore alla mia vita di adesso. Alle mie nuove domande. Come se, ora, essendo io vecchio come te e più di te, da anziano ad anziano, noi
due si potesse stare meglio con noi stessi, al passo dei nostri tempi generazionali finalmente non sfasati. E diciamo pure, un po’ più alla pari.
Il ricordo del futuro
(18 gennaio 2004)
Così mi chiedo, se te lo saresti mai immaginato, papà, che un bel
giorno ci saremmo trovati a parlare in questo modo di noi. Che avremmo potuto ragionare insieme, tra me e te, di un’ulteriore, comune congiuntura generazionale, e dunque – come ci chiedono di fare – dell’“anziano come fonte di trasmissione culturale”.
Che ne avresti detto tu, trenta e passa anni fa, di una cosa del genere, proprio non serve immaginare. So però che i miei pensieri di adesso,
quali che siano, sono un po’ anche i tuoi, e che su questo tu non potresti
non essere d’accordo con me ed esserne contento. Ricordo infatti benissimo le tue parole, le tue massime, i tuoi aneddoti e “sfoghi” su genitori
e figli, sul senso della continuità tra gli uni e gli altri (cui tenevi moltissimo), e mi chiedo che cosa penseresti di me in veste di anziano, oggi
che tanta acqua è passata sotto i nostri ponti, e che io mi trovo sia pure
per finta a fare le tue veci di padre.
L’argomento “trasmissione culturale” – devi ammettere – è davvero
suggestivo, coinvolgente, ma è un tema enorme, non facile da gestire, e,
nei suoi vari aspetti, impossibile da circoscrivere a un solo ambito di
considerazioni. Nel senso che, a parte le sconfinate bibliografie, emero-
190
Capitolo VI
grafie, sitografie internet che si potrebbero mettere assieme, a parte
l’inesauribilità dei punti d’osservazione culturali nei diversi ambiti di
esperienza (ma che vogliono dire, in ultima analisi, i termini trasmissione, generazione, cultura?), vedrei subito infiniti modi di parlarne.
O di non parlarne: giacché, per quel che ne so (ripenso al Palomar di
Italo Calvino), anche il silenzio può diventare oggetto di trasmissione
culturale. Perché il trasmettere cultura, nel passaggio tra le generazioni,
concerne naturalmente anzitutto l’infanzia (lo stato cioè di chi non ha
ancora voce), ma l’infanzia non è un recipiente vuoto da riempire. Non
è passiva ed è, essa stessa, il futuro: un futuro però che, nella misura in
cui affonda le proprie radici in un presente del passato, va intanto menzionato, rievocato e inteso come tale, tra prospettiva storica e prospettiva avvenire.
Ma perché limitare in proposito la nostra immaginazione? Se è di
cultura, di trasmissione culturale, che si tratta, anche la fantascienza vi
ha un posto, ed è un posto di tutto rispetto. Chi non ricorda, infatti, gli
uomini-libro di Fahrenheit 451 da Ray Bradbury a François Truffaut? O
gli strateghi della memoria e della dimenticanza nel Pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner? Oppure il finale ri-generativo, al cospetto
dell’Immutabile Monolite (forse l’immagine di Dio), di 2001 Odissea
nello spazio di Stanley Kubrick?
E non è un caso che proprio il tema della trasmissione culturale a
opera degli anziani, nel passaggio tra le generazioni, occupi nella mitologia, nella religione, nella storiografia, nelle scienze, nella letteratura,
nelle arti plastiche e visive, nel cinema, nella televisione, in internet
ecc., uno spazio ideale virtualmente moltiplicabile all’ennesima potenza. Uno spazio ideale (e ideologico) internamente mobile, inquieto, contraddittorio. Impossibile da ridurre a formula o a schema.
Di modo che, seguendo questa linea di ragionamento, l’infinità di
modi possibili d’intendere immediatamente il problema è ancora niente
rispetto alle vertigini dell’immaginario. Perché, oltretutto, la trasmissione
culturale tra le generazioni la puoi trovare dove meno te l’aspetti, ben al
di là delle intenzioni. Certo al di là della pedagogia, nella vita stessa.
Di qui la ragione per cui, papà, tra le tante, tantissime strade possibili da prendere, io ho imboccato questa del diario, tra pubblico e privato. Una strada che, come sai, i nostri avi talvolta percorrevano “a futura
memoria” (qualcosa ne rimane negli archivi di famiglia), che tu hai variamente condiviso: e che ritrovo nelle tue lettere ai figli, ma non solo,
in ciò che di tanto in tanto scrivevi e ci facevi leggere, e perfino in molte
pagine delle tue agende personali… E dopo la tua morte, per interposta
persona, nel Diario di Nonna Gio’ (cioè di mamma). Ma di questo ti
parlerò un’altra volta.
Trasmissione generazionale
191
Vecchi e bambini, insieme
(31 gennaio 2004)
Intanto, però, non per passare di palo in frasca, ma per raccontarti
della mia vita dopo la tua morte, voglio dirti di Cesare Zavattini (quello
di Ladri di biciclette, ricordi?). Il quale, una volta, conversando con me
di bambini e adulti, di vecchi e bambini insieme, mi raccontava di un
suo progetto diaristico, estremamente ambizioso: cioè di un “diario”
(mai pubblicato, che io sappia), dal titolo sorprendente Diario dell’arteriosclerotico. Un diario “bambino”, soggiungeva, perché diario di
un… ottuagenario.
Questa, in breve, l’idea del vecchio, incredibile, Za: l’idea che l’arteriosclerotico, ragionando appunto per intervalla insaniae e disponendo
non della pienezza del Sé, ma solo degli spazi vuoti della propria disabilità psichica, viene però a trarre un vantaggio dalla sua stessa perdita di
contatto con una condizione umana negativa, intellettualmente disperante, e – come sottolineava – moralmente compromessa. Che significa: intrinsecamente inabile, piuttosto che per una patologia delle arterie, per la fisiologia del suo essere uomo del proprio tempo.
Il che per Zavattini voleva dire, soprattutto, essere per la guerra. La
guerra, causa ed effetto del male “umano assoluto”, da cui ogni altro
male discende, e che non fa che perpetuarsi e trasmettersi di generazione in generazione, come il segno immodificabile della compromissione e come un limite intrinseco alla cultura degli adulti (degli “intellettuali”). Non dei bambini, però. I quali, prima di diventare “grandi”,
rassomigliano in effetti un po’ ai vecchi: con la loro caratteristica impazienza, la loro analoga incoscienza, la loro identica distanza mentale e
morale dall’età adulta (sorpassata o da raggiungere), e che possono
quindi giovarsi degli stessi barlumi pre- e post-razionali dei vecchi arteriosclerotici.
In questi ultimi difatti (come nei bambini, per la ragione opposta),
secondo Zavattini, accade proprio questo di straordinario e di paradossale: che tra tutti gli altri uomini “sani”, solo all’arteriosclerotico, e per
l’appunto in forza dell’intermittenza della sua attività celebrale quanto
a memoria e capacità d’intendere e di volere, capita la fortuna di non
arrivare più a padroneggiare la realtà, che è sempre e comunque organica alla guerra. Ne prende invece le distanze, in virtù dell’andirivieni
di attivazioni e disattivazioni dei flussi sanguigni e delle conseguenti
funzionalità/disfunzionalità celebrali, fino a staccarsene mentalmente e
moralmente, fino a disimparare la guerra mediante la neutralizzazione
dei congegni di “comprensione” e “giustificazione”, riuscendo così a cogliere nel buio della malattia almeno i “lampi”, le “illuminazioni” di una
realtà “altra”, del tutto simile a quella propria dei bambini.
Di qui, papà, l’idea che, nei processi di trasmissione culturale, vecchi e bambini siano in effetti sullo stesso piano etico, prima ancora che
sul piano logico, cronologico e storico. Gli uni e gli altri (fortuna loro!)
impotenti nel comunicare e tramandare i termini dell’essere umana-
Capitolo VI
192
mente compromessi. Gli uni e gli altri (prima della morte i vecchi, prima che crescano i bambini), egualmente disponibili per un ipotetico
salto di qualità culturale e umana. E dunque per un’eventuale diversa
possibilità di trasmissione culturale.
Se tu vivessi oggi, papà, non avresti ancora novanta anni. Sarebbe
quindi bello poterti osservare qui in mezzo a noi, a Roma, magari accanto alla piccola Eva e all’ancor più piccolo Rufo, e cercare di capire
cosa mai potreste dirvi voi tre, un po’ come il vecchio signore e i bambini di quella storiella di Gianni Rodari, che coi loro “brif, bruf, braf”,
“maraschi, barabaschi, pippirimoschi”, si capiscono perfettamente (alla
faccia dell’irriducibile vecchia signora, incapace d’intendere il loro linguaggio).
Cose e uomini
(5 febbraio 2004)
Lo ho detto a mamma, che ti sto scrivendo, papà, e la mamma, lì per
lì, mi è sembrata un po’ gelosetta. Poi ha mostrato l’intenzione di volersi mettere in mezzo, citando la Commedia dantesca, raccontando storie
a lei note “per li rami” e parlandomi della sua raccolta di giornalini e
ritagli, di quando era bambina. “Tale madre, tale figlio”, ha concluso,
per sostenere di essere stata lei, assai prima che io nascessi, a coltivare
il gusto delle raccolte emerografiche, che sostiene di avermi trasmesso.
E che – chi mi conosce lo sa – riempiono le mie giornate.
Ha quindi tirato fuori dal cassetto alcuni suoi versi di qualche anno
fa, che ora trascrivo per te. Perché qui, in questi versi, valore poetico a
parte, mi sembra di ravvisare nella mamma proprio la voglia di trasmettere ai più giovani idee e valori, di giudicare chi sta intorno e di intervenire nel mondo. Alla sua maniera:
Cose ed uomini
Amo
le piccole cose
di poco valore
talvolta inutili
ma così tenere.
Amo
i fiori del campo
fragili e caduchi
e così gentili
cui posso
donare altra vita
tra i fogli di un libro
a me tanto caro.
Trasmissione generazionale
193
Amo
le foglie dell’albero
e quelle spontanee
che spuntan sul prato
di forma e di segno perfetti.
Amo
il dono gentile
e senza pretese
offerto con gioia
da chi mi vuol bene,
e l’umile uomo
che tende la mano
sperando
di trovare un fratello
e non mi chiedo perché
né domando chi sia.
Non amo
i ricconi
superbi, protervi
che san calpestare
il lor simile
per avere di più,
senza scrupolo alcuno.
Eppure
mi fan compassione
forse…
non han pace nel cuore,
forse…
non sanno amare.
Homo homini magister
(6 febbraio 2004)
Per cui mi chiedo, papà, se non sia proprio qui, in pensieri come
questi della mamma, come in certi tuoi discorsi di quand’ero bambino,
la radice del mio attuale modo di essere. Ricordo benissimo, per esempio, certe tue tirate moralistiche su questo e su quell’altro argomento, le
tue conversazioni con gli amici al bar, le tue lezioni di etica ai figli, la
mattina presto nel tuo studio, la tua insistenza sul tema dei “valori”,
della “ricerca di nuovi valori”…
E poi, ancora prima (avrò avuto sì e no otto anni), non mi avevi fatto
imparare a memoria, per farmela recitare e ri-recitare a parenti e amici,
quella poesiola che Giovanni Pascoli aveva composto per lo zio poeta,
suo allievo prediletto? Anche in questo caso uno, più “anziani”, come
“fonte di trasmissione culturale”. Ricordo ancora perfettamente la tua
voce che si mescola alla mia, e quei versi letti da te e ripetuti da me, un
po’ come le preghiere del mattino e della sera:
Capitolo VI
194
A Luigi Siciliani
O figlio caro! O caro figlio!
o il più Gigi de’ miei Gigi!
Tu vuoi dal babbo un buon consiglio?
Fa di seguire i miei vestigi.
Ma quando troverai gli estremi
allora non fermarti… Va!
Non voglio che tu pianga e tremi
su quello che riposerà…
Allora, avanti! Avanti, allora!
A me il tramonto, a te l’aurora
(Giovanni Pascoli)
Ebbene, non so come e perché ciò possa avvenire: ma questo ricordo di più di mezzo secolo fa s’intromette adesso, con forza, nei miei
pensieri di oggi. E mi fa pensare a te, papà, come a un pedagogo senza
età, e a me, come a un tuo vecchio allievo che, imparata la lezione, si
appresti a sua volta a riproportene le imprevedibili varianti professorali. Mettiamo, in tema di educazione e di educabilità umana, a proposito
dell’espressione homo homini magister, su cui vado ragionando da un
po’ e che vorrei illustrarti. Così.
Da uomo di scuola che nutre ancora una discreta fiducia nell’“educabilità”, mi sembra che la formula dello homo homini magister riesca
a esprimere assai bene il “dover essere” (in partibus infidelium)
dell’“uomo maestro per l’altro uomo”: e, dunque, a condensare efficacemente l’ipotesi di una mutazione storico-culturale dello hobbesiano
homo homini lupus, con radici, forse, nel biblico maledictus homo qui
confidit in homine, e in antitesi al proverbiale ànthropos anthròpou
daimònion, riproposto poi nel suo latino da Cecilio Stazio, e variamente
ritradotto da Plauto, Cicerone, Plinio il Vecchio, Seneca, fino a Goethe
ecc. Per arrivare quindi al più articolato e aperto Homo homini lupus,
homo homini deus di un epigramma di John Owen, che può servire forse meglio, a introdurre il nostro homo homini magister (con quel che
segue).
Quasi a dire che nell’uomo alberga (tra l’altro) una natura anfibia,
che si traduce nella possibilità di scelta, che gli è data, tra il farsi “lupo”
e il farsi “dio” per l’altro uomo. Un’alternativa che, se esaminata adesso
nell’ottica dello homo homini magister, induce a considerare il caso
dell’affiorare o meno, in lui, di un’inclinazione ora “lupesca” ora “divina”: la prima, di cui si può avere conferma nelle connaturate prevaricazioni culturali, e direi nel particolare tipo di ferinità pedagogica che,
magari con le migliori intenzioni, finiscono con l’esercitare sui loro destinatari le didattiche tendenzialmente monologanti, autoreferenziali,
egocentriche. Le didattiche, che direi del privilegio culturale e dell’avarizia intellettuale e morale.
La seconda inclinazione, quella che avvicinerebbe il magister al
“dio”, pare manifestarsi invece come forza spirituale evoluta, non sce-
Trasmissione generazionale
195
vra di una sua peculiare religiosità, fatta d’imprescindibile preparazione
disciplinare, controllate aperture interdisciplinari, costante attenzione
verso gli altri, effettiva disponibilità comunicativa, cura sollecita dell’allievo, accortezza dialogica. Una sorta di pietas pedagogica, insomma, che tende a coincidere con la cosiddetta vocazione dell’insegnare
agli scolari ad apprendere da sé, e dell’insegnare a se stessi, in quanto
educatori, a rimettersi dialogicamente in gioco e, così facendo, a rifare
per sé e per gli altri la propria educazione.
Sennonché il problema dello homo homini magister, nei suoi termini storici, educativi e politici, appare più sfaccettato e complesso di
quanto non possa sembrare a prima vista. Perché investe le sfere del
filosofico, dello scientifico e del culturale (in senso ampio), dell’educativo e del didattico, dei mezzi e dei fini, della quantità e della qualità,
del valore e del disvalore ecc.: ed è ciò che risulta intanto, almeno in
parte, dalle stesse tematiche riproposte in chiave ora di dialogologia ora
di dialogosofia e, se si potesse dire, di diasofia.
Si tratta allora di osservare le diverse situazioni educative, riportandole storicamente ai rispettivi contesti ora monologici ora dialogici. E,
caso per caso, di interrogarsi sul “chi è” del magister e sui suoi “perché”, sull’“insieme a chi” viene a svolgersi la sua azione “magistrale” e
dunque sulla destinazione (il “per chi”) del suo insegnamento disciplinare (inteso proprio come in-segnamento, come un “mettere a segno”).
E tenendo conto che il termine “disciplina”, giacché proviene da didàsko, concerne insieme l’insegnamento, l’apprendimento, l’insegnamento a imparare da sé: e chissà se non pure, scavando nella storia dei significati, l’insegnare a insegnare e l’imparare a imparare.
Imparare a imparare, in presenza e in forza del “Sé”, per le vie di un
ipotetico dialogo e dei suoi problemi. Per le vie dell’incontro (o meglio,
come si usa sottilizzare, dell’in-contro) di “maestri” e “allievi”, nei diversi ambiti d’esperienza. E già in famiglia, con i nostri figli, ancor prima che all’università…
Kahlil Gibran docet:
I vostri figli non sono figli vostri: sono i figli e le figlie della forza stessa della
Vita. Nascono per mezzo di voi […] ma non da voi. Dimorano con voi e tuttavia
non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo ma non alla loro anima, perché la loro anima
abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a
voi, perché la vita non torna indietro né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal
quale come frecce vive i vostri figli sono lanciati in avanti.
Valori di famiglia
(20 febbraio 2004)
Eppure, papà, io mi sento, adesso più che mai tuo figlio. Soprattutto
nella mia nota indipendenza da te, che eri un uomo indipendente. Per
196
Capitolo VI
aver scelto cioè la mia strada, tutto sommato, contro di te. Per questo
non so se ti sarei piaciuto adesso, così come sono diventato, con i miei
pregi e i miei difetti, con accanto la stessa Annamaria che hai conosciuto ragazza e con i nostri tre figli, e, all’università, centinaia di studenti
da servire...
Ma saresti stato certamente contento di sapere che su una rivista di
pedagogia, La Famiglia, tengo una la rubrica dal titolo “Carte di famiglia”, che va avanti a bimestri alterni ormai da un paio d’anni. Ed è un
archivio di documenti familiari i più diversi, “multilaterali”, “enciclopedici”, a più voci, ma concernenti comunque l’istituzione famiglia, nelle
sue componenti specifiche e nei suoi aspetti pedagogicamente caratterizzanti. Un archivio di situazioni familiari indicative, tra presente, passato e futuro. Tra trasmissione, mediazione e produzione culturale, con
riferimento alle generazioni, in cui l’anziano gioca un certo ruolo.
Perché proprio questo è il punto. Se l’anziano vuol trasmettere qualcosa di sé, deve a mio parere farsi altro da sé. E farsi strumento per gli
altri più giovani di lui. Uno strumento di ricerca. E lasciarsi usare come
una sorta di archivio-parlatorio, di salotto-laboratorio, di schedario
concettualmente flessibile, volutamente aperto, lacunoso e instabile.
Un catalogo elastico, mutevole nei contenuti, uno scrigno di testi e contesti e pretesti d’indagine, un’arca di sentimenti e idee. Un campionario
per l’appunto cumulativo ma non esaustivo (“consummatorio”, direbbe
John Dewey), integrabile, rinnovabile alla luce delle esigenze di chi volesse farne uso.
Un vecchio, in altre parole, tanto più riuscirà a trasmettere qualcosa
di sé ai non vecchi, quanto più saprà farsi testimone e garante di uno
scambio di opinioni e di esperienze non solo personali ma anche sociali.
Filologo di se stesso e degli altri nell’ottica della propria “filologia vivente” (alla maniera di Antonio Gramsci). E promotore di un I care, tra
intenzioni e attuazioni, tra essere, dover essere e diventare in via di ipotesi migliori, di generazione in generazione, di trasmissione culturale in
trasmissione culturale.
Tra cronaca e storia, soggettivamente e oggettivamente, l’anziano
non può che aspirare a essere niente di più, dunque, che un documentario del proprio essere stato ed essere in atto. Un documentario, quindi, proprio nel senso di documentum (dal verbo latino docēre), vivente
ed esemplare, e appunto in forza della peculiare “tavola di valori” e
“concezione del mondo”, che la sua vita ha rappresenta per sé e rappresenta per gli altri più giovani di lui. Una vita degna di essere stata primamente vissuta, e quindi rivissuta nell’atto della trasmissionericezione culturale.
Così, ancora per esemplificare, mi torna in mente il commosso e
commuovente Itinerario della memoria nulla dies sine linea tra Catanzaro e San Vito (Carello, Catanzaro 2000) di Maddalena Barbieri,
su “papà e mamma maestri di sempre”, su “l’adulto-maestro” ecc. Scrive infatti l’autrice alle pp. 175-177:
Trasmissione generazionale
197
Quanto sono cresciuta per merito dei giovani! Grazie a loro mi ritrovo non
più manichea, più disponibile al rispetto della realtà dell’altro, più preparata a
sostenere l’impatto con ogni possibile conflittualità […]. Guidata dai giovani,
scoprii che la scuola non poteva rimanere “scuola dell’ascolto” ma doveva farsi
“scuola dell’agire”. L’agire dei giovani imponeva all’adulto l’assunzione di nuove, imprevedibili difficoltà […]. Per loro ho imparato a denunciare le mie ignoranze, con loro ho cercato nuove vie per sollecitare l’attenzione, promuovere la
riflessione, individuare la “parola” […]. Dai ragazzi ero, ironicamente, indicata
come “la signorina perché”. Loro ignoravano che, spesso, il perché proposto a
loro, in effetti, stava a denunciare una mia ricerca interiore che le loro diverse
voci mi hanno aiutato a portare a compimento […]. Oggi, lungo il tramonto della vita, mi è di grande conforto rincontrare quei giovanetti fattisi uomini e donne, professionisti e padri di famiglia che venendomi incontro sottolineano lo
sforzo, fatto insieme, per acquistare, ognuno nel rispetto della propria personalità, quella libertà che ove fossero rimasti “allievi” non avrebbero mai potuto
conoscere.
E conclude: “Non insegnate pensieri ma insegnate a pensare. Nessuna scuola di pensiero potrà proporre, più sinteticamente e significativamente di questo consiglio di Kant, le ragioni stesse dell’aprirsi al
mondo”. E il senso ultimo, direi, della trasmissione culturale nel passaggio tra le generazioni.
“Mazze e panelli fannu i figghi belli”
(28 febbraio 2004)
Non a caso, papà, la rubrica di cui ti parlavo, “Carte di famiglia”, è
incominciata con un dialogo cultural-generazionale tra una madre e un
figlio (cfr. “Lettera di Natale”, La Famiglia, 2003, 218, pp. 85-88). Un
dialogo epistolare che, nella chiave che qui interessa, ne richiama un
altro: quello del 5 dicembre 1986 tra Marta Baraldi e Nonna Gio’, su
“L’educazione dei figli” (cfr. le lettere a direttore nel settimanale Gente,
stessa data).
Eccolo:
Con piacere ho ritrovato, sulle pagine di Gente, le pagine in cui il filosofo Nicola Abbagnano ci parla della saggezza della vita. Anche questa volta, Abbagnano ha affrontato un problema di vasto interesse: l’educazione dei figli. Sappiamo
tutti quanto sia difficile essere dei buoni genitori. Se si è troppo permissivi, si
rischia di far sentire i giovani abbandonati a se stessi. Se si è troppo severi si
rischia di creare dei ribelli. Insomma come si fa, si sbaglia. E quella giusta via di
mezzo che consiste nel cercare di stare vicino ai figli senza far sentire il peso di
un’invadenza troppo marcata nella loro vita, è un traguardo difficile da raggiungere.
Una cosa però vorrei dire. Oggi mi pare che molti genitori abbiano abdicato
al loro compito in nome di un malinteso rispetto per la libertà dei figli, evitano
di prendersi ogni responsabilità, non mettono più in pratica il loro dovere di
educatori e lasciano che siano le mode o gli amici a formare i loro ragazzi. Questo atteggiamento passivo, secondo me, è assolutamente da evitare sia perché
rivela una sfiducia nelle proprie capacità sia perché può diventare un alibi di
198
Capitolo VI
comodo. Dire: “Non ti educo perché non voglio limitare la tua libertà” è un atto
di egoismo, non di generosità. Un padre o una madre devono rischiare, intervenendo con decisione, anche a costo di sembrare noiosi. Più tardi, i figli gliene
saranno grati.
E Nonna Giò:
Una battuta in un vecchio film, mi pare fosse Padri e figli di De Sica, che
suonava più o meno così: – […] Ma se a voi qualcuno insegna a “fare” i figli, a
noi chi ci ha insegnato a “fare” i genitori? –. Arte o mestiere, certo tra i più difficili, e, in ogni tempo, tra i più suscettibili di errori.
A me personalmente, poco più di quarant’anni fa, il buon Dio mandò due
bellissimi e pestiferi figli che più pestiferi non si può, fino a sedici anni coi libri
avevano l’idilliaco rapporto del diavolo con l’acqua santa e una ne pensavano e
cento ne facevano, non si contavano le loro “trovate” e soprattutto i pestaggi.
E io a distribuire “sberle”, qualche volta anche alla cieca, senza volere ascoltare torti o ragioni, ed era sbagliato, lo so, ma qualcosa deve pura aver funzionato se i frutti che ho raccolto sono davvero dei migliori.
Grazie, mamma, ma non esageriamo con i complimenti!… Però anche
Benedetto Croce, in fatto di scappellotti, ti avrebbe dato ragione. Diceva
infatti che fossero necessari. D’un altro parere invece Anton S. Makarenko: il quale, nonostante i tre famigerati schiaffi a Zadorov, sfuggitigli di
mano in un momento di disperazione, nel Poema pedagogico non teorizza mai alcuna violenza pedagogica. E lo dice, con grande chiarezza.
Vi si oppone, anzi, senza mezzi termini, criticando aspramente la
pedagogia delle case di correzione di prima della rivoluzione. E se quella volta con Zadorov gli succede di menar le mani, egli considera ciò
una sconfitta dell’educatore. Lo “scoppio d’ira” del Makarenko personaggio del Poema, infatti, non è che l’estrema variante, non voluta, dello scoppio pedagogico (oggetto di teoria). Non sono, le botte, una tappa
necessaria del processo educativo e, come tale pedagogicamente legittima, esse sono invece solo qualcosa di accidentale, di sostanzialmente
non voluto, e quindi di non sostenibile come metodo educativo. Anche
se, in concreto, risultano essere funzionali (letterariamente, drammaturgicamente) alla narrazione.
Un problema, papà, questo della resa letteraria in rapporto a quella
pedagogica, che anche io, si parva licet, sto ponendomi mentre ti penso
e parlo. Un problema che – lo ricordo benissimo – anche tu ti ponevi,
scrivendo e riscrivendo le tue operette. E mi ritornano in mente i tuoi
pomeriggi e le tue notti insonni a stendere lettere, relazioni, memorie,
versi… Cosa darei per ritrovarli, quei testi.
Testamento
(Roma, 1 marzo 2004)
Invece, papà, devo accontentarmi di ciò che, ai miei figli, vado scrivendo io, magari, come qui di seguito, nella forma del testamento:
Trasmissione generazionale
199
Carissimi Daria, Lidia e Matteo,
è da tanto che cercavo un’occasione per parlarvi della mia “fissazione” di collezionista di ritagli-stampa (della mia “emerotomania”, come la mamma dice un
po’ per sfottere): e spiegarvi il perché di tutti questi fogli e cartelle e cumuli di
quotidiani per casa, mucchi grandi mucchi piccoli di carta, che inzeppano le
stanze, tanto da renderle pressoché indecenti, e intasano i nostri pensieri e discorsi, fino al limite dell’incomprensione. Ma vorrei riuscire a ragionare con voi
e a essere capito da voi… E anzitutto da te, Daria, che sei la primogenita, classe
1974… Proprio dell’anno in cui (lo ricordo come se fosse ora) io ho incominciato
la mia prima raccolta, ritagliando e classificando articoli su “Bambini in prima
pagina”, “Bambini in cronaca”, “Bambini nelle pagine culturali”, “Scrittori e i
bambini”, “Arte e bambini”, “Bambini nella pubblicità”, “Cinema e bambini”,
“Bambini e vignette”, “Bambini nelle lettere dei lettori”, “Scritture bambine”
ecc. Un’esperienza straordinaria, davvero indimenticabile. Certamente autoeducativa, ancor prima che educativa.
Nel 1977 poi, quando sei nata tu, Lidia, ho incominciato a raccogliere articoli
sulle “Fiabe”, e su “Ragione” e “Fantasia”, mettendo in piedi una specie di ideario enciclopedico, articoli su articoli su “Famiglia”, “Cultura”, “Scuola”, “Insegnanti”, “Studenti”, “Libri” e “Libri di testo”, “Giornali”, “Giornale in classe”, “Musica”, “Danza”, “Arte”, “Cinema”, “Televisione”, “Teatro”, “Scrittori per l’infanzia” ecc. Un riflesso del “pubblico” (pensavo) nella nostra vita privata. Una sorta
di diario collettivo o enciclopedietta generazionale. Uno “stile di pensiero” familiare e sociale, bello e pronto a dare il benvenuto anche te, Matteo, quando sei
arrivato tra noi nel 1982: quando cioè le mie documentazioni avevano preso già
un’altra piega, con i fascicoli su “Città” e “Cultura e Intercultura”, “Date significative”, “Europa”, “Geografia”, “Filosofia”, “Italia”, “Lavoro”, “Letteratura”, “Località varie”, “Pace e Guerra”, “Ricerca”, “Scienza”, “Storia”, “Terrorismo”, “Storia”, “Università” ecc.
Ormai mi era chiaro. Adesso che eravate in tre, vivendo insieme a voi, io vi
vedevo ascoltavo parlavo conoscevo amavo due volte: una prima volta per la via
paterna naturale, familiare, colloquiale immediata, una seconda volta per la via
culturale, cartacea, razionalizzante, mediante i giornali. Quelle pagine e ritagli
di giornali che, proprio per la funzione educativa e autoeducativa che vi riconoscevo, venivano allargandosi a macchia d’olio con nuovi fascicoli, e approfondendosi su “Autobiografia”, “Biografia”, “Casa”, “Critica e Autocritica”, “Dignità”, “Figli”, “Futuro”, “Giovani”, “Madre”, “Memoria”, “Morale”, “Padre”, “Quotidianità”, “Sentimenti”, “Valori” ecc. La critica dei mass media come invenzione di una massa critica. Come supremo valore personale e interpersonale. Se
volete, il mio bravo testamentino spirituale: da prendere o lasciare, e senza alcun “beneficio d’inventario”.
E se ora ve ne parlo, non è tanto per un eccesso di zelo educativo e di pallosità pedagogica (le voci “Pedagogia” ed “Educazione”, nella mia raccolta, continuano a crescere a vista d’occhio): quanto invece per darvi la prova che non è
vero che io vi trascuri, a causa del mio lavoro sui giornali. È vero, se mai, il contrario: che cioè sono proprio le tante ore che trascorro con i giornali e sui giornali, a permettermi di occuparmi più seriamente di voi. È proprio dalla mia annosa rassegna quotidiana delle quaranta e passa testate giornalistiche italiane e
straniere, che a me pare di attingere il “meglio” della mia vita di uomo e di padre. È proprio da questo mio stare a captare, ritagliare, schedare, classificare,
raccogliere la quotidianità riflessa sui giornali, che imparo ciò che forse varrà la
pena che voi apprendiate da me.
200
Capitolo VI
Pensate un po’ che ricchezza. Altro che massime e proverbi, altro che tà biblìa e “buoni consigli” su questo o su quell’altro aspetto dell’esistenza. Non è un
consiglio che io so darvi, ma solo la prova della mia coerenza e resistenza. Finché a me riuscirà di essere felice tra i miei giornali, anche in voi, forse, crescerà
il desiderio di esserlo, felici, nelle vostre proprie scelte di vita. Se io dico a me
stesso che questa è la mia passione (scoprire, raccogliere, ritagliare, collezionare, ordinare, catalogare, leggere, esaminare, confrontare, raccontare… ritagli
stampa), anche a voi verrà probabilmente la voglia di dire l’identica cosa, additando le vostre passioni, quali che siano: il teatro? L’architettura? La pubblicità?
Altro?
È vero, ragazzi, che la maggior parte degli esseri umani non ha mai conosciuto una simile felicità: una felicità, che è stata ed è di pochi, e che sfiora appena la vita di una minima parte dei sei miliardi e passa di uomini di questa terra. Tuttavia potrà forse servire a qualcosa e a qualcuno il renderne testimonianza. Il poter dire io a voi, voi a me, e voi e io insieme a quante altre persone ci
riuscirà di dirlo: viviamo intensamente, se ci riesce, la nostra passione. La vita
di ciascuno in questo senso, nella sua “normalità”, può giovare alla vita degli
altri. Figli compresi.
Ecco perché forse (ma che c’entra?), negli ultimi tempi le mie emerografie si
sono come specificate e condensate attorno al prisma, infinito nelle sue sfaccettature, delle “Notizie straordinarie”. Ovvero sugli “Usi propri e impropri” di alcune nozioni elementari: come “Acqua”, “Alberi”, “Alfabeto”, “Aria”, “Brainstorming”, “Creatività”, “Dio”, “Euro”, “Gioco”, “I care”, “Idee”, “Mafia”, “Mani”,
“Mondo”, “Murales” “Onda”, “Pane”, “Quarto stato”, “Sesso”, “Spazzatura”, “Umorismo”, “Uomo seduto”, “Uovo”, “Utopia”, “Vita”, “Zero”… Mi piacerebbe parlarne
con voi.
Come ne parlo con te, papà, che mi hai lasciato in eredità tutto un
archivio di ritagli e raccolte di giornali: e la voglia di lavorarci su. Il desiderio, cioè, di trasformare la cronaca nella storia, l’effimero in uno dei
volti della complessità, un dettaglio nell’immagine stessa di Dio.
Anche un saluto, un arrivederci, un addio o un semplice ciao, in una
storia di “trasmissione culturale”, in un’occasione per riflettere sull’“educativo”.
Chi muore, chi resta
(5 marzo 2004)
Non a caso l’ultimo saluto a un parente, a un amico che se n’andava,
papà, era qualcosa che ti coinvolgeva come forse nessuna altra cosa al
mondo. Fosse telegramma o epitaffio, ricordo epistolare od orale, articolo di giornale o altro, trascorrevi ore e ore a rifinire il tuo testo
d’addio, che poi ci facevi ascoltare…
Ora è toccato a me di dire addio a un caro amico, Umberto Di Mario, nell’Aula magna della Facoltà di Medicina della mia Università.
L’ho fatto, con profondo dolore, parlando da anziano ai colleghi, agli
amici, ai familiari dello scomparso. Ho pensato anche a te, papà, e avrei
voluto potessi ascoltarmi:
Trasmissione generazionale
201
Anche io, come chi mi ha preceduto, leggerò le mie parole, dovendo fare i
conti non solo con la mia emozione, ma anche con quella degli amici, parenti e
colleghi di Umberto, a nome dei quali, per la ragione dell’età, parlo.
Ieri, discorrendo di Umberto con Elio e Antonio e altri amici, ci chiedevamo
in che consistesse la “marcia in più”, che abbiamo sempre pensato appartenere
a Umberto… Una “marcia in più”, non rispetto a questa o a quell’altra persona
(Umberto non amava le “personalizzazioni”, i confronti), ma piuttosto rispetto
alle situazioni della vita di tutti i giorni e ai vari compiti che la vita quotidianamente gli affidava: nel lavoro, a casa, negli sport, nei momenti di condivisione
che ce lo hanno reso caro.
Era uomo straordinario, Umberto, in tutto quello che faceva… I suoi convegni internazionali, i suoi viaggi di lavoro in un po’ tutto il mondo, il suo modo di
esserti medico e amico, la sua predilezione per il “pubblico” della sanità piuttosto che per il “privato”, il suo affetto per la corsia… Il privato, lo trovavi invece
nell’attenzione alla propria persona, nel senso fortissimo della famiglia,
dell’amicizia, nelle gite organizzate alla perfezione, nelle memorabili cene con
più di cento invitati sul terrazzo di casa sua, complice Patrizia, con familiari e
sodali ai suoi ordini, Antonio e Mimma in prima fila, tutti impegnati a fare qualcosa, tra cucina e terrazzo… Su quel terrazzo, che Umberto s’era montato con le
sue mani, con la stessa perizia con cui, assieme agli amici, imbottigliava ed etichettava il vino acquistato all’ingrosso…
Non voglio dire dell’Umberto scienziato, medico, docente, organizzatore di
ricerche e politico dell’università (c’è chi già questa mattina ha incominciato a
farlo, con la necessaria competenza)… Ma facendo un po’ come lui, quando per i
suoi cinquant’anni ci riservò la sorpresa di un significativo album di ricordi visivi, provo a srotolare alla moviola il film della nostra amicizia, a riviverne questo
o quell’altro episodio, a ritrovare i tratti essenziali del suo modo di essere per gli
altri. L’uomo della cura, l’ingegnere del propria e dell’altrui professionalità,
l’apostolo della ricerca, disincantato, ironico e autoironico, e al tempo stesso
ricco d’immaginazione. Il pedagogo di un “dover essere”, che ritrovi magari nella battuta di uno dei suoi figli, in tema di desideri dei bambini: “Vorrei che non
morisse più nessuno”…
Il nostro Umberto, di vent’anni e passa di amicizia, è quello che non potremo mai dimenticare. L’Umberto con o senza bicicletta, che incontravamo a Villa
Paganini, assieme a Patrizia, Silvia, Livia e Alessandro, e a cui i nostri figli volevano bene per la sua imponenza, dolcezza e severità, l’Umberto perfezionista,
ma spettatore indisciplinato o attore avventizio, nelle recite di casa Testoni.
L’Umberto ospite impeccabile così nella sua casa di Roma, come in quella di
Picciame, con Elio e Lucia, Alberto e Marisa, Emilio ed Eliana, Antonio e Vittoria, me e Annamaria. L’Umberto che in agosto, quando meno te l’aspetti, ti fa
un’improvvisata sulla spiaggia, in Calabria, arrivando dal mare, con una canoa:
e che, dopo la rimpatriata, solo per sgranchirsi un po’ le gambe, si mette a fare
di corsa qualche chilometro di battigia, pretendendo che faccia anche tu come
lui. L’Umberto che ti controlla di peso con un’occhiata e che ti avverte con una
smorfia del sovrappeso. L’Umberto, educatore di educatori (diresti), che ti consegna in custodia per qualche mese un computer portatile, solo per toglierti tutti
gli alibi per il non imparare a usarlo: e che poi ti fa anche l’esame, per accertare
se e come sei progredito. L’Umberto che, se ti viene una colica renale a casa sua,
sloggia dal proprio letto e ti c’infila dentro, semplicemente per fare stare meglio
l’amico sofferente…
Una dura e singolare conferma: giacché Umberto, nel curare se stesso ai limiti dell’impossibile, ha continuato a fare il medico, sperimentando tra l’altro
Capitolo VI
202
cure di frontiera che, se non a lui, avrebbero potuto giovare agli altri. Se non
adesso, più in là.
È stato proprio così: Umberto se ne è andato da par suo. Con lo stile consentito, preteso dalla sua “marcia in più”. Che in lui era il senso della prospettiva,
l’urgenza di un futuro da non smettere da progettare comunque, una novità da
far nascere e far vivere già nel presente. Subito.
Il vecchio-bambino
(5 aprile 2004)
Rileggo le pagine di questa mia lettera a te, papà, anche alla luce
delle cose che vado dicendo agli studenti del corso di Pedagogia generale del secondo semestre. A lezione, rileggendo il Poema pedagogico di
Makarenko, ho imparato delle cose importanti. Parlandone con gli studenti, mi sembra di avere capito qualcosa anche sul tema dell’anziano
come fonte di trasmissione culturale. In particolare a proposito di un
personaggio, cioè del vecchio Kalina Ivanovič Serdjuk. Che Makarenko
presenta con queste parole:
Kalina Ivanovič divenne il primo oggetto della mia attività educativa. La cosa che più m’impensieriva era la sua capacità di esprimere le convinzioni più
svariate. Imprecava con lo stesso gusto contro i borghesi, i bolscevichi, i russi,
gli ebrei, contro la nostra trasandatezza e contro la precisione tedesca. Ma i suoi
occhi azzurri brillavano di un tale amore per la vita ed era così vivace e ricettivo
che non mi dispiaceva riservargli una piccola parte della mia energia pedagogica. E cominciai la sua educazione fin dai primi giorni, fin dal nostro primo colloquio.3
Fin qui, nel Poema pedagogico, l’ipotesi educativa rappresentata
dal Kalina Ivanovič Serdjuk al suo ingresso nel romanzo. Il personaggio, eletto da Makarenko a primo oggetto della sua pedagogia. Tuttavia,
una figura di educando anziano un po’ speciale, non priva di aperture e
contraddizioni: che, se desta preoccupazione nel pedagogo per la variabilità e l’instabilità del giudizio, tuttavia lo induce ottimisticamente a
bene sperare per la sola vitalità dello sguardo, che promette ancora vivacità intellettuale e docilità di carattere.
È il tema della educabilità, che assieme a quello della prospettiva,
consente a Makarenko di procedere con Kalina Ivanovič come con qualunque altro rieducando della colonia. E l’esperimento, nel corso della
narrazione, non mancherà di dare i suoi frutti. Perché anche l’anziano
Serdjuk, personaggio essenziale del poema-romanzo di formazione, subirà una trasformazione. Da quel vecchio uomo che era si farà anche
lui, al pari di Zadorov, Karabanov, Veršnev, gli altri, un uomo nuovo.
Un uomo nuovo allo stadio iniziale, infantile, della sua evoluzione personale (e simbolica).
3
A.S. MAKARENKO, Poema pedagogico, Raduga, Mosca 1985, p. 11.
Trasmissione generazionale
203
Un uomo nuovo, quindi, anche lui “novellino” e in qualche modo
bambino: ma che, nel collettivo, non mancherà di crescere come individuo e di sollecitare la crescita di chi gli sta intorno. Un personaggio,
questo di Kalina Ivanovič, che non a caso, alla fine del suo percorso
formativo nel Poema pedagogico, prendendo l’iniziativa di una convincente argomentazione, saprà farsi egli stesso inizio della nuova fase della colonia Gor’kij (quella del trasferimento da Trepke a Kuriaž).
Addirittura, lui che al suo apparire all’inizio del romanzo, di pedagogia dice di non saperne e di non volerne sapere, finirà col sostituire
pedagogicamente Makarenko. Meglio: anche lui come Makarenko, saprà interpretare le istanze del collettivo al più alto livello delle sue possibilità. E, così facendo, riuscirà a essere l’artefice qualificato di una trasmissione culturale tra le generazioni dei colonisti. Una memorabile
operazione pedagogica, che il vecchio-bambino Kalina Ivanovič, prima
di scomparire di scena, affida alle seguenti parole:
Tra il consenso generale prese la parola Kalina Ivanovič, col suo vecchio
cappotto addosso, ma fresco e rasato come sempre. Kalina Ivanovič soffriva
moltissimo di doversi separare dalla colonia e, nei suoi occhi azzurri in cui balenava incerta la luce della vecchiaia, vedevo ora una gran pena umana.
Ecco, allora, come stanno le cose, – esordì Kalina Ivanovič con calma –,
anch’io non verrò con voi, e quindi anch’io vedo le cose dall’esterno, ma in modo diverso. Il luogo dove volete andare voi e quello dove vi porterà la vita sono
diversi […]. E ora davanti a voi spunta Kurjaž, e voi ve ne state lì seduti a pensarci su. E che cosa c’è da pensare? Siete uomini d’avanguardia, non vi accorgete che trecento vostri fratelli, altri trecento “Maksim Gor’kij” come voi, stanno
andando in rovina? […] Io vi dico: andate e basta! E Maksim Gor’kij dirà: guardali, i miei ragazzi, sono andati, non hanno paura di niente!4
Ecco, papà, proprio così: ancora adesso, il nostro problema continua
a essere il coraggio, il progetto, la prospettiva. Tu questo lo hai sempre
saputo, ne hai provato gli effetti. Ora tocca a me renderne testimonianza e, per quel che mi riesce, riparlartene.
Il tuo vecchio figlio.
4
Ivi, pp. 352-353.
VII
Intercultura e bambini
1. Zavattini, bambini e dintorni1
(25 gennaio 2000 )
Una premessa
Carissimi studenti di Storia e critica del cinema della “Sapienza”,
supponiamo per un momento che Cesare Zavattini, dovendo parlarvi
“tanto di sé” dall’8 novembre dello scorso millennio al 31 gennaio del
Duemila (sono le date a quo e ad quem di questo seminario), decidesse
di usare una volta di più, con voi, il genere epistolare da lui prediletto.
Lo farebbe probabilmente incominciando con il ringraziare qui e ora,
adesso, il professor Caldiron, per la sua idea di avergli dato pubblicamente per tanti giorni di seguito dello “sconosciuto”, e di aver proposto
1 È del testo per gli Atti (in preparazione) di una lezione dallo stesso titolo, tenuta
il 25 gennaio 2000, nell’àmbito del seminario “Zavattini questo sconosciuto”, a cura
di Orio Caldiron, Cattedra di Storia e critica del cinema, Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tra gli altri relatori: Caldiron (coordinatore
dei lavori) e Walter Pedullà, Giacomo Gambetti, Franca Angelini, Guido Conti, Virgilio Tosi, Maurizio Nichetti, Silvana Cirillo, Gian Carlo Ferretti, Pietro Clemente, Adolfo Chiesa, Roberto Nanni, Francesco Maselli ecc. L’intervento che qui ripropongo
recepisce in particolare alcune osservazioni, integrazioni e domande, oltre che dello
stesso Caldiron, Arturo Zavattini e Paolo Nuzzi, di alcuni studenti (Valentina Pompili, Rosetta Maiuri, Daria Siciliani de Cumis ed altri), che hanno partecipato al seminario. Quanto ai contributi a stampa utili a completare l’esposizione, accanto a quelli
menzionati via via nel testo, ricordo: N. SICILIANI DE CUMIS, Zavattini e i bambini.
L’improvviso, il sacro e il profano, con una postfazione di A. Santoni Rugiu, Argo,
Lecce 1999 (cui rimando per tutti i riferimenti bibliografici e testuali di e su Zavattini, concernenti il tema specifico della trattazione); P. NUZZI, O. IEMMA, De Sica &
Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma 1997; Archivio audiovisivo
del movimento operaio e democratico/Archivio Cesare Zavattini, Roma-Reggio Emilia/Comune di Reggio Emilia-Assessorato Istituzioni culturali Ufficio cinema, Una
straordinaria utopia: Zavattini e il non film. I cinegiornali liberi, a cura di R. NANNI, Reggio Emilia, 6-7 marzo 1998 (collaborazione di V. Di Bitonto e A. Giannarelli);
Este Cinema Incontri, Rassegna Internazionale, Omaggio a Cesare Zavattini. Testi
di G.C. Argan e altri, Este [Studio Pi-Tre, Cremona] 1999; F. A. GISONDI, Dialoghi con
Zavattini, Gangemi, Roma s.d. [ma 2000].
206
Capitolo VII
a tutti noi di conoscerlo, coinvolgendo proprio lui, Zavattini stesso,
nell’impresa.
In effetti – direbbe Za – “io non mi conosco”: ma accetterebbe generosamente, alla sua maniera, di mettersi in gioco, e di porsi insieme a
noi alla ricerca del suo “Sé ignoto”, con riferimento al presente, alla hora, al subito di questo incontro. In altri termini, Zavattini credeva davvero nella necessità che si formassero e nascessero e crescessero un po’
“come i bambini” dei collettivi iniziali di pensiero: e che siffatti “nuclei
elementari di ragionamento” (come egli li chiama) comportassero un
allargarsi della prospettiva e un coinvolgimento via via ulteriore. Zavattini “pietra nello stagno”, insomma, e al tempo stesso “onda di risonanza”…
Ecco perché mi permetterei di sciogliere quel “dintorni” di Bambini
e dintorni del titolo della lezione di oggi, facendo la proposta di un sottotitolo esplicativo, che forse non sarebbe dispiaciuto a Zavattini. A
Bambini e dintorni, aggiungerei cioè qualcosa del tipo esercizi di ricerca o prove di laboratorio. Nel senso che, più che discorrere di Zavattini
per così dire monograficamente a tutto tondo, preferirei consegnarvi
nient’altro che una procedura d’indagine, un insieme d’interrogativi e
di tematiche zavattiniane aperte su risposte possibili: e più che aperte,
direi spalancate, proprio come la bocca di Za quando certe volte ti guardava in faccia tra l’esclamativo e l’interrogativo, o come le bocche di
quella cinquantina di bambini con cui Zavattini una volta avrebbe voluto fare un film senza trama, dicendo loro semplicemente in dialetto:
“ver la boca da peu”, “apri la bocca un po’ di più”…
Che voglio intendere? Più o meno questo: che il contenuto bambini
– cioè i bambini nella materialità elementare della loro presenza e incisività – si ritrovano innanzitutto nei toni e nel calore della voce dello
Zavattini che ne tratta via via. Quasi a spiegare che, nel paese (di Totò il
buono) dove “buongiorno vuol dire finalmente buongiorno”, anche
“bambino vuol dire effettivamente bambino”. I bambini, nel rispetto dei
princìpi d’identità e di contraddizione, non sono che bambini: così come la fame è fame, il pane è pane, l’acqua è acqua, gli adulti sono adulti,
i poveri non sono ricchi, i matti non sono savi e i vecchi… un momento!
Perché qui le cose si complicano: giacché i vecchi – magari arteriosclerotici –, non è detto che siano puramente e semplicemente vecchi, arteriosclerotici e basta. Niente affatto. Perché i vecchi arteriosclerotici,
zavattinianamente parlando, mediante quelle particolari “illuminazioni” della mente che pur intervengono per intervalla insaniae, sono
un po’ “come i bambini”: essi arrivano cioè a cogliere una realtà che
non è, come che sia, la realtà, ma piuttosto un’altra realtà, una realtà
“altra”.
Semplicità e complessità dell’infanzia
I bambini di Zavattini, certo, incominciano con l’essere per noi, tali
e quali, quelli della lunga lunghissima serie dei bambini, che hanno
Intercultura e bambini
207
riempito la sua vita e la sua opera di scrittore, giornalista, direttore editoriale, soggettista, sceneggiatore, pittore, saggista, ideologo ecc. Lo
stesso “Zavattini bambino”, quando lui stesso se ne ricorda da grande,
non è che uno dei suoi “bambini”: un sé bambino altro da sé, che Za ricorda con papà e mamma o con Silvia, la maestra giardiniera “seconda
mamma”, mentre gli mette in scena Pinocchio… (libro formativo, importante, decisivo per Za: un’opera – come egli dice – “compiuta, perfetta, assoluta. Un capolavoro”).
Non a caso del resto, nel volume del ‘97 Parliamo tanto di noi, a cura di Paolo Nuzzi e Ottavio Iemma (cercatelo nei tipi degli Editori Riuniti, uno degli ultimi risultati editoriali zavattiniani più significativi, con
testi di Zavattini e De Sica), si ritrova un Alberto Savinio che, scrivendo
a Za di Totò il buono nel luglio del ’43, lo accosta per l’appunto a Pinocchio (“un Pinocchio vicino a noi, un Pinocchio nostro”). Ed è lo stesso
De Sica poi, nella medesima antologia, a portare il discorso sui bambini
di Zavattini, mentre ancora di bambini si tratta in alcune delle illustrazioni di quello stesso volume (per es. in un disegno di Franco Gentilini
per il soggetto di Miracolo a Milano o la fotografia di Cristian e Manuel
De Sica da bambini, con dedica “al padrino Zavattini”). Sono cose sfuggite fin qui alla mia attenzione, ma che ben si collegano a quelle documentate nel libro su Zavattini e i bambini.
E restano poi da aggiungere, accanto ai bambini di Al macero (dal
1927 in avanti), i bambini zavattiniani riscoperti di recente sulla Gazzetta di Parma da Giovanni Negri e Guido Conti. Per cui ringrazio Arturo Zavattini di avermi trasmesso in fotocopia i testi del Rifugio dei
bambini, la rubrica di questo giornale all’insegna del motto “Bambini di
tutto il mondo unitevi” (novembre 1927). Proprio Conti, d’altronde, ha
rimesso in circolazione sul quadrimestrale di letteratura Palazzo Sanvitale (n. 1/99, pp. 131-132) un testo del ’29, Primo amore, che è importante, giacché introduce alla complessità del tema zavattiniano del rapporto dei bambini con la morte.
Tuttavia, dalla fine degli anni Venti al 1989, i personaggi bambini di
Zavattini sono davvero un’infinità: il piccolo che nel 1870 a Gottinga
assiste alla gara mondiale di matematica, i bambini di Hollywood, i
bambini che “ci” o “vi” guardano e riguardano, i bambini di I poveri sono matti e Totò il buono (da bambino), i bambini di Sciuscià, Ladri di
biciclette, Bellissima, Prima comunione, Amore in città, L’oro di Napoli,
I misteri di Roma ecc. ecc. Bambini che evocano altri bambini direttamente e indirettamente zavattiniani: così per es. quelli dei film The quite
one/Il tranquillo di Sidney Meyers del ’48 o Una proposta di pace di
Luigi Di Gianni, del ‘69, con disegni di bambini di tutte le nazionalità.
E d’altra parte ci sono, variamente significativi, i bambini della propria esperienza di uomo (figli, nipoti, conoscenti, incontri occasionali
ecc.), i bambini delle pagine di diario e delle lettere, i bambini poeti e
artisti, i bambini con la macchina da presa, i bambini dei fumetti e
quelli dei cartoni animati, quegli altri della radio e della televisione, i
bambini fotografati (di cui Za discorre per es. con Guido Aristarco) e i
208
Capitolo VII
bambini fotografi, i bambini dei giornali, i bambini-“politici” della Lettera ai bambini italiani del ’75, i bambini e i loro diritti, i bambini che
fanno teatro di Francesco Gisondi, e che per consiglio di Zavattini recitano Hiroshima, i bambini che interrogano Za su pace e guerra e su
mille altre cose della vita, i bambini che nei libri di scuola, con i loro
volti, illustrano testi zavattiniani, i bambini dei film di ieri e di oggi con
tematiche riconducibili a Zavattini ecc. ecc. Ma non è tutto.
Se il termine “infanzia” rimanda etimologicamente a chi ancora
“non parla”, ben al di là di quello letterale c’è anche un significato metaforico del termine (in relazione alla condizione umana e alla sua ipotetica crescita, all’infanzia di un popolo, all’infanzia della dimensione
morale infantile individuale e/o sociale ecc.). Il discorso pertanto necessariamente si allarga. E Zavattini si colloca sì sulla linea di chi vuol
dare voce a quanti per una ragione o per l’altra non hanno la parola
(uomo piccolo o grande, singolo o collettivo che sia), ma ciò che più
conta è che per lui, storicamente e antropologicamente, c’è insieme un
“vecchio uomo” da rimuovere alla radice, e un “uomo nuovo” da inventare di sana pianta. Un neonato da far nascere e un vecchio (a partire
da Zavattini stesso) da far rinascere, magari con l’aiuto, con il “soccorso” (Za si esprime così) dei bambini.
Perché, con i loro difetti e pregi, i bambini sono il futuro che si prospetta nelle luci e nelle ombre di un presente in atto, e che talvolta
sembra tuttavia anticipare un tempo radicalmente diverso e in via di
ipotesi altro e migliore. In questo senso, rispetto agli adulti, i bambini
sono in un certo qual modo un “altrove”. Si muovono cioè tra l’essere e
il dover essere di un’umanità di là da venire. Sono, essi stessi, un “fuori
luogo”, un non-luogo, un’utopia. In certo qual modo, per citare lo stesso Michail M. Bachtin menzionato a più riprese nel corso di queste lezioni (per es. da Conti e da Pietro Clemente), i bambini sollecitano, impongono una sorta di procedimento dialogico tra il vecchio e il nuovo
uomo, invitano a una specie d’interiore portarsi all’esterno del Sé adulto, arrivano quindi a mostrare ai “grandi” i barlumi e gli effetti, evidenti
finché durano, dei loro “lampi” e “illuminazioni”.
Un po’ alla maniera dei vecchi arteriosclerotici (che, come dicevo
prima, l’infermità allontana da una razionalità adulta, biograficamente
compromessa dalla negatività del loro vissuto “storico”, in atto), anche i
bambini, finché ce la fanno (finché cioè non diventano grandi), tendono
a tenersi fuori dalla consapevolezza irreparabilmente deviata di
un’adultità invischiata, coinvolta, e per così dire responsabile della propria persistente irresponsabilità (come spiegare altrimenti l’attualità
della guerra?). Di qui la necessità di una scepsi radicale totale, che riuscirebbe forse a farsi valere nelle sue conseguenze rigeneratrici, soltanto se riuscisse a precedere i guasti prodotti dalla crescita della “normale” capacità dell’intendere e del volere, e dunque come aperta possibilità di un azzeramento e di un’inversione di tendenza. Il che, almeno fino
a un certo punto, è appannaggio solo della condizione infantile. Ovvero
– come dicevo – dei vecchi cerebralmente disfunzionanti.
Intercultura e bambini
209
Tra pedagogia e antipedagogia
La proposta zavattiniana delle Cento parole che fanno e disfanno il
mondo, da questo punto di vista, rassomiglia un po’ a un giocattolo cui
un bambino vuol guardare dentro, un giocattolo da smontare e da rimontare (e magari rompere), per il piacere delle mani e dell’intelligenza, ed è perfettamente organica all’altra idea di Zavattini dell’uso del
dialetto, lingua bambina, ma poeticamente espressiva al massimo. Ecco
perché poi diviene la cosa più naturale del mondo il fatto che siano
proprio alcuni bambini, con la collaborazione di Za, a diventare essi
stessi poeti, incisori, artisti. I bambini che, con nelle mani gli strumenti
giusti, potrebbero farsi sociologi, fotografi, autori di film. I bambini
uomini potenziali, altrimenti umani. I bambini quasi come reattivo
mentale e dimensione ideale, regolativa, di una morale ignota. Una morale con al centro il comandamento non diciamo della pace, che in realtà nessuno sa che cosa sia, ma almeno della non-guerra non impossibile
da sperimentare nell’educazione dei bambini (vedi la celebre proposta
zavattiniana di sostituire istituzionalmente, a scuola, “l’ora di religione”
con “l’ora della pace).
Di qui forse, come accennavo, l’attenzione particolare che Zavattini
riserva in più occasioni al tema dei bambini e la morte (Mio figlio… mi
vien voglia di morire ora che è piccolo – quasi a insinuare: per non dovere vederlo crescere “come uomo”, cioè come un male). E non è un caso che l’argomento venga riproposto da Eugenio Curiel nel ‘37, recensendo I poveri sono matti sul Bò – quasi a suggerire: guardatevi, guardiamoci in faccia quanto siamo negativi, gli adulti, e allontaniamo, allontaniamo chi non c’entra, i bambini, da questa mortifera atmosfera
che tutt’intorno ci opprime.2 Ed è una tematica, questa della morte e dei
bambini nei loro possibili intrecci, che porta lontano: conducendo, tra
l’altro, alla misura più squisitamente filosofica del discorso di Zavattini.
Zavattini, “filosofo” (tra virgolette) di una sorta di “filosofia morale”
– filosofo preciserei, di una “filosofia morale bambina” –, da ricercare
nella filigrana di tutto il suo modo di essere… Mi ritornano così in mente, per esempio, come espressione anche fisica di una siffatta filosofia,
quei telegrammi di pubblico dominio che Za scriveva su Paese sera, assieme a quegli altri da lui inviati privatamente a Eugenio Garin ai tempi
dell’Almanacco Bompiani (me ne hanno raccontato entrambi). E mi
chiedo se vi sia un qualche rapporto pedagogico di scambio tra il caratteristico parametro della quotidianità “neonata” e/o “neonascente” (il
“subito”, l’“immediato”, l’“improvviso”) di Zavattini, e la dimensione variamente “cronachistica” (il “presente” dello “ieri”, l’“attualità” del “passato”, la “prospettiva” dell’“oggi”) della storiografia filosofica di Garin.
Non mi arrischio ovviamente a rispondere mediante facili semplificazioni. Mi limito soltanto a fornire qualche elemento forse utile all’inda 2 Cfr. E. CURIEL, Scritti 1935-1945, a cura di F. Frassati, prefazione di G. Amendola, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 85-87.
210
Capitolo VII
gine: e cioè, a sottolineare da un lato l’attenzione, che nell’opera di Garin è documentabile, per i bambini (vedi l’antologia del ’44 su L’anima
del fanciullo, i contributi alla storia dell’infanzia nell’Umanesimo e nel
Rinascimento, il ricordo che Garin serba ancor oggi dei suoi primi “scolaretti”, i “ragazzini” di una scuola media di Fucecchio in Toscana ecc.),
e da un altro lato l’atteggiamento gariniano verso la guerra, la bomba
atomica, l’educazione alla pace, la scuola come luogo di formazione del
pensiero e della capacità critica già nei bambini. Sennonché, volendo
approfondire, occorrerebbe analizzare un po’ tutta la posizione sia di
Zavattini sia di Garin nei confronti della storia umana e dei suoi controversi insegnamenti. Nei confronti della necessità e della libertà
dell’agire. Della rigidità e della flessibilità delle scelte. E dunque la posizione di entrambi verso gli intellettuali e le loro responsabilità.
Alcuni dei colleghi che sono intervenuti prima di me hanno d’altra
parte lambito l’argomento filosofico che qui interessa, in un caso, si è
addirittura fatto il nome di Martin Heidegger (vi ricordo il concetto di
“gettatezza”, tirato in ballo da Clemente). Ebbene, leggendo Zavattini,
anche a me è capitato di soffermarmi a riflettere sugli espliciti richiami
zavattiniani a S. Agostino, Jean-Jacques Rousseau, Antonio Gramsci,
Michail M. Bachtin, e, specialmente, sull’insistito riferimento a Socrate
(sul “Socrate” – precisa Za nel ’76 – della laterziana Introduzione a Socrate di Francesco Adorno, che è del ’70). Un riferimento che andrebbe
forse spiegato, anche al di là del motivo culturale generico e quasi di
maniera nel ricorso ai soliti luoghi comuni “socratici” sulla scepsi e sul
dialogo, sulla torpedine, sul tafano, sulla maieutica ecc. Una cosa da fare immediatamente, tuttavia, sarebbe quella di trovare per Zavattini un
posto (il suo posto) nel novero dei cineasti-filosofi: e cioè accanto (cito
alla rinfusa, e pur sapendo delle peculiarità oltre che generazionali “poetiche” e “filosofiche” dell’uno e degli altri) a Sergej M. Ejzenštejn, Charlie Chaplin, Ingmar Bergman, Robert Bresson, Stanley Kubrick, Gianni
Amelio ecc.
Mi fermo un attimo su Kubrick e Amelio. Per chiedermi, ad esempio, se ci sia o meno un qualche rapporto tra i celebri “ovali” autobiografici dello Zavattini pittore (il concetto di uovo-uomo/uomo-uovo che
se ne ricava rinvia probabilmente a una idea di genesi, a un’idea del
non-ancora-nato e/o del ri-nato, che invita a riflettere non poco) e –
poniamo – quell’ultima sequenza di 2001 Odissea nello spazio, in cui il
vecchio astronauta si rigenera per l’appunto ab ovo, ritornando allo stato prenatale. Ma, per il confronto che qui interessa, è ancora la sostanza
morale di quel film (vedi la sequenza iniziale sull’origine dei conflitti tra
gli uomini) e di altre opere kubrickiane come Arancia meccanica, Full
Metal Jaket o Eyes Wide Shut a far pensare. Sicché scopri analogamente, in Zavattini come in Kubrick, la presenza della violenza, della guerra, come dimensione umana interiore, costitutiva, e cogli in entrambi,
in tutta la sua durezza, la sproporzione che c’è tra la “normalizzazione”
dell’umanità deformata, mostruosa che è in noi, e il suo drammatico
dover essere altrimenti, e arrivi ad avvertire che tutti quanti, nessuno
Intercultura e bambini
211
escluso, siamo in qualche modo parte in causa, intimamente coinvolti,
moralmente compromessi.
Su un altro registro, ma con analoghe attinenze morali, Amelio. La
trilogia Il ladro di bambini, Lamerica, Così ridevano conduce in effetti
a una problematica di natura squisitamente etico-pedagogica che, ferma restando la centralità esplicita del tema dell’infanzia, è tuttavia, paradossalmente, tanto più zavattiniana, quanto più poi si allontana da
Zavattini. Ma in che starebbe il paradosso? Sta innanzitutto nel principio che la lezione di Za, di per sé metodologicamente innovativa, è a
suo modo non ripetibile: e se pur finisce con il ritrovarsi variamente in
Amelio (uno studio serio, sistematico, sul tema dell’infanzia nei due autori mi sembra che manchi), ciò è tanto più notevole quanto più l’esperienza poetica zavattiniana viene tradotta e originalmente rivissuta…
Non è per caso del resto che Zavattini e Amelio, così uguali così diversi,
siano stati messi accanto, qualche mese fa, in Calabria, nelle attività e
nello stesso catalogo del Festival internazionale dei Circoli del cinema,
egualmente, e per più ragioni, non è possibile non pensare a Zavattini
per un’esperienza documentaristico-antologica come quella ameliana
recente di Poveri noi (per la serie televisiva Alfabeto italiano, di Rai
Tre), ed ha un significato preciso il fatto che a Capodanno del Duemila
Amelio, per tutto il giorno (diciotto ore di trasmissione), abbia collaborato a un programma di Radiorai/Tre con una sezione dal titolo I bambini ci guardano: e l’ha fatto rivisitando da par suo quell’idea già zavattiniana del Quaderno a colori, cioè delle interviste a bambini di varie
parti del mondo sul tema dei loro desideri (vedi, di Zavattini, la lettera
inedita a Massimo Fichera del febbraio del ‘78, da me ristampata in Zavattini e i bambini)3.
Ragionamenti non dissimili si potrebbero fare anche per certa recente cinematografia russa, brasiliana, cinese, iraniana ecc. Non sto a
farvi l’elenco dei film, che hanno come protagonista l’infanzia, in cui mi
è capitato spesso di ritrovare elementi zavattiniani (cito solo, a mo’ di
esempio, film tra di loro pur assai diversi come Central do Brasil di
Walter Salles, Non uno di meno di Zhang Yimou,4 e ora – per quel che
se ne può sapere dai giornali – Lavagne di Samira Makhmalbaf)…
Mi sembra più utile ritornare invece su un altro aspetto del problema, che si è affacciato a più riprese nel corso di questo seminario: e cioè
sul tema dell’essersi realizzate oggi (o meno) alcune delle idee dello Zavattini di ieri (aperte come erano verso il futuro). Per esempio, nella
nostra televisione, con i programmi del tipo Telegiornale dei bambini,
3 Cfr. ora, su “Cesare il buono”, G. AMELIO, “I poveri volano”, nel settimanale
Film tv, 14 maggio 2000, p. 25; e, per estensione del ragionamento, ID., Guardare un
bambino, in Associazione Amici di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano di V. De
Sica. Testimonianze, interventi, sceneggiatura, a cura di G. De Santis e M. De Sica,
Editoriale Pantheon, Roma 1999, p. 25.
4 Cfr. quindi N. SICILIANI DE CUMIS, “‘Telesubito’ da Cesare Zavattini a Zhang Yimou”, Ora Locale. Lettere dal Sud, aprile-maggio 2000, p. 16.
212
Capitolo VII
Giochi dell’infanzia in piazza, Inchieste sulla condizione infantile con
l’apporto degli stessi bambini ecc.
Ebbene, è possibile che a monte di certe “trovate” – se ne abbia consapevolezza o meno – ci sia un qualche ascendente zavattiniano, però
attenzione! Attenti a non tralasciare questi due aspetti del problema: il
primo, che il contesto in cui Zavattini si è trovato a maturare determinate idee e a formulare le sue dirompenti proposte pedagogiche era assai diverso da quello nostro di oggi (tanto è vero che i suoi progetti più
rivoluzionari di allora, spesso e volentieri, sono rimasti lettera morta
nel cassetto dei funzionari Rai-Tv), il secondo aspetto, è che gli odierni
richiami a Zavattini risultano spesso e volentieri solo esterni e di maniera (di modo che chi li fa ora finisce obiettivamente con il servirsene
solo quanto basta per perpetuarne l’inefficacia.
Le prospettive dell’indagine
In ogni caso, tuttavia, occorre non perdere di vista la peculiarità del
“fatto” Zavattini, e distinguere accuratamente tra le caratteristiche specifiche della sua personalità, delle sue proprie fonti culturali e di esperienza (anche in tema di bambini), e le altrui modalità di uso e fruizione
dei risultati della complessiva attività intellettuale zavattiniana (anche
in funzione educativa). Così si è detto, per esempio, del debito formativo di un giovane scrittore dei nostri giorni come Guido Conti, e si è discorso della tradizione culturale specifica (con ascendenze futuriste),
che sta alle spalle di Conti e, prima, di Zavattini. E poi, relativamente
all’opera zavattiniana, si è distinto tra ciò che in Zavattini è tecnico, e
ciò che si colora di significato morale e valore ideale (ai limiti dell’utopia). Sono temi da approfondire variamente…
Così per fare un esempio, prendiamo il futurismo (quello italiano ed
europeo e quello emiliano e parmigiano, di cui si è parlato in una lezione precedente). Io non avrei dubbi, sul fatto che Zavattini sia in qualche
modo debitore, oltre che del surrealismo (vedi la lezione di Silvana Cirillo), di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi adepti: e tanto sul piano
del linguaggio, del nonsense, quanto su quello della costruzione del
proprio immaginario. Sul terreno delle rispettive concezioni del mondo,
invece, andrei cauto. Il futurismo, il marinettismo sono una cosa (cfr.
almeno F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De
Maria, Mondadori, Milano 19963), Zavattini è un’altra cosa. Direi anzi
che Zavattini, nei suoi scritti, sembra “giocare” con i testi dei futuristi (a
cominciare da quelli marinettiani, e un discorso a parte farei qui per
Aldo Palazzeschi), ma va poi per la sua strada ricca di diverse suggestioni letterarie e di ben altri ideali.
E, a proposito, ecco una bella domanda cui provare a rispondere:
quali i nessi tra le figurazioni zavattiniane dell’infanzia e le (eventuali)
analoghe rappresentazioni futuriste? È evidente che una problematica
del genere, se affrontata ai suoi vari livelli, risulta molto complessa:
perché si tratterebbe di esaminare, sul tema che interessa, i differenti
Intercultura e bambini
213
futurismi dagli anni Venti agli anni Quaranta e le loro conseguenze nella cultura italiana del Novecento… Così pure, allargando l’ambito della
ricerca sui “dintorni” dei bambini zavattiniani, si arriverebbe a significativi confronti con Alberto Savinio, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini…
E naturalmente con Gianni Rodari: il quale, se com’è noto deve per suo
conto parecchio agli sperimentalismi letterari primo-novecenteschi, anche per questa strada sembra avere proprio in Zavattini una sua fonte
essenziale.
E non è tutto. Dipende probabilmente da quell’originario rimescolamento delle “logiche” e “non-logiche”, che negli anni prima e dopo la
Grande guerra, hanno avuto una parte non secondaria nella formazione
di Za, o forse è a causa dell’esercizio dialettico cui Zavattini ci costringe,
tutte le volte che dialoghiamo con lui e discorriamo di lui, oppure è
semplicemente il tema dello “sconosciuto” (“Zavattini, questo sconosciuto”), che ha contraddistinto il presente ciclo di lezioni: certo è che
nel nostro seminario zavattiniano, data la complessità dell’argomento,
è consigliabile che la filologia proceda di conserva con l’immaginazione,
e che ad avere l’ultima parola siano proprio le domande, anche quelle
più peregrine, e gli irrisolti problemi di ricerca e le ulteriori questioni
formative insorgenti.
Continueremo a riflettervi certamente, anche dopo la chiusura dei
lavori, e intanto, nella forma del seguente, provvisorio questionario:
– Come collocare Zavattini, alla luce di quanto detto, nel rapporto letteratura per l’infanzia letteratura tout court?
– Quale peso dare al tema della multimedialità zavattiniana (linguaggio a suo modo “infantile”), in relazione all’opera e alla centralità della
tematica dei bambini?
– C’è un nesso, e di che tipo, tra le problematiche dei “valori” (e dei
“disvalori”) nell’opera di Zavattini, e le sue modalità di rappresentazione dell’infanzia?
– L’impegno-disimpegno di Zavattini in politica ha a che fare, o no,
con la sua idea di “infanzia” come sproporzione tra l’“essere” e il
“dovere essere” dell’uomo?
– A spiegare l’idea zavattiniana di “improvviso” può servire, alla luce
dei “bambini” di cui tratta nelle opere, la relativa concezione
dell’infanzia che ne deriva?
– Il cinema/”arte-bambina” (arte della “coautorialità”, e dunque della
autolimitazione funzionale dell’“io”) può essere una chiave per intendere tutto Zavattini?
– Il “gioco delle parti” che si stabilisce tra i bambini-adulti e gli adultibambini di film zavattiniani tipo Ladri di biciclette può tradursi nei
termini di una “teoria”?
– Quanto incidono nei testi (in senso lato) di Zavattini sull’infanzia gli
elementi storici di contesto (quelli del tempo di Za, quelli del nostro
tempo)?
214
Capitolo VII
– I bambini narrativamente (diegeticamente) “senza futuro” di un film
come Sciuscià consentono di svolgere un qualche discorso pedagogico di prospettiva?
– Si può dire, o no, di una sorta di agnosticismo zavattiniano, di fronte
ai temi dell’insegnamento della storia e dell’educabilità umana (fin
dall’infanzia)?
– I “collettivi”, le “masse”, i mass media, in relazione ai bambini, che
ruolo rivestono in questo stesso ordine di pensieri?
– Si può dare una lettura stricto sensu pedagogica (con specifica attenzione al tema del “gioco”) di opere come I bambini ci guardano,
Sciuscià ecc.?
– Il concetto di “bambino educatore” in che misura, e con quali modalità espressive, incide in tutta quanta l’opera di Zavattini?
– Quante e quali scienze dell’educazione (sociologia, psicologia, antropologia, storia delle idee ecc.) possono aiutare a far capire l’infanzia
secondo Zavattini?
– Il termine “rivoluzione” può essere spiegato, e in che modo, alla luce
dei tipi umani bambini, che Zavattini mette in scena nella sua opera?
– La “realtà”, se è zavattinianamente “ben più straordinaria dell’immaginazione”, come rassomiglia all’infanzia che, secondo Za, è più
prodigiosa dell’età adulta?
– Ma Zavattini, pensandosi e autorappresentandosi (negli scritti, nei
dipinti, nel film La veritàaaa ecc.), continua in qualche misura a rivedersi come un “bambino”?
– Si trasformano in qualche modo nel tempo, in Zavattini, anche e soprattutto in rapporto all’infanzia, l’idea di “verità”, l’idea di “bugia”?
– Può accostarsi all’“infanzia” l’interesse di Zavattini per Socrate, proprio in quanto questo filosofo cerca e non trova verità assolute, questo “autore” non è un autore?
– C’è in ultima analisi in Zavattini un “modulo antropologico” originale, che può dirsi “d’infanzia”, alla base della sua propria, unitaria,
concezione del mondo?
– La stessa idea di autobiografia secondo Zavattini, da un siffatto punto di vista genetico-infantile, può tradursi dialogicamente, collettivamente, in filosofia?5
5 Cfr. ora, a questo riguardo, le pregevoli ricerche tra “fotografia” e “filosofia” in
Zavattini, di cui è autore A. DEMARTIS, FotoZagrafando. Cesare Zavattini fotografo
di realtà “altre”, postfazione di C. Crescentini, Aracne, Roma 2005.
Intercultura e bambini
215
2. “Che ne pensano i bambini” 6
(12 luglio 2001)
Giro girotondo
quanto è bello il mondo
quanto è bella la terra
tutti giù per terra!
(da una canzone popolare per bambini)
Ah! le mani, le mani, le mani…
Al G-8 di Genova, niente bambini! I care?
(Il G-Eco della Apmats, luglio 2001)
In premessa
Vorrei richiamarmi alle ultime parole di Rosella Frasca circa il tipo
degli apporti di ciascuno dei relatori nel corso d’aggiornamento in cui
siamo impegnati, facendo subito notare, con riferimento alla locandina
del programma, che le virgolette del titolo della mia conversazione di
oggi (“Che ne pensano i bambini”), non sono dettate da un casuale eccesso grafico o da incuria tipografica. Le virgolette non sono un di più.
Vorrebbero essere invece la consapevole sottolineatura di un limite
soggettivo e oggettivo dell’indagine: nel senso che nella mia lezione,
nella migliore delle ipotesi, mi riuscirà di lambire appena l’argomento,
potendo semplicemente alludere all’aspetto interculturale che interessa, per svolgerlo solo in minima parte, e per giunta tra molti dubbi sulla
stessa sostenibilità della scelta tematica concordata. Io posso cioè soltanto provare a esporre quel che a me pare di recepire dei pensieri
dell’infanzia sul “multiculturale” e sul “multietnico”, sulla base di un
certo numero di citazioni dirette e/o indirette di bambini: tentando
quindi, più precisamente, di commentare cosa hanno da esprimere quei
piccoli, e soltanto quelli, che sarò riuscito in qualche modo a “contattare” nel corso delle mie indagini su libri, riviste, giornali, oppure mediante televisione, cinema, audiovisivi di diverso tipo, Internet ecc. Del
pensiero di tutti gli altri bambini del mondo (la quasi totalità), e di ciò
che, alla loro maniera, essi sentono e intendono dell’intercultura, niente
da raccontare. O quasi.
Anche a provarci, d’altra parte, nessuno riuscirebbe a farsi davvero
portavoce di ciò che tutti i ragazzini della Terra, in ciascun angolo di
6 Da I Problemi della Pedagogia, 2001, pp. 37-61, volume monografico dal titolo
“L’infanzia multiculturale e multietnica”, Atti del V corso universitario di Educazione
allo sviluppo promosso dalla Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli
Studi di L’Aquila, dall’UNICEF Italia e dal Comitato provinciale UNICEF di L’Aquila, a
cura di P. Ciagnacovo e A. Vaccarelli.
216
Capitolo VII
essa, pensano effettivamente della “multiculturalità”. La cosa, nella situazione attuale, non sembra davvero possibile: per quanto la questione
sia eticamente, pedagogicamente e politicamente pressante, sebbene
essa emerga nella sua complessità da talune analisi antropologiche “localizzate”, molto stimolanti e ricche di spunti pedagogici (del tipo di
quella di Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997), e nonostante il fatto che come genere umano, solo a volerlo, potremmo disporre qui e ora, per le diverse situazioni planetarie infantili (spesso
drammatiche, spessissimo tragiche), di formidabili strumenti di informazione e di interventi formativi ad hoc.
Come raggiungere allora, e fare comunicare con il mondo, i milioni
e milioni di bambini che nel mondo potrebbero pur esprimersi su ciò
che si vedono intorno, su ciò che essi vengono scoprendo di se stessi e
degli altri, ma per cui attualmente non hanno voce alcuna per farlo? Ecco perché, data la difficoltà, ci si deve intanto accontentare di un’immagine del reale, solo approssimativa e astratta: e, come dicevo, soltanto
allusiva dei termini del problema (“Che ne pensano i bambini”, per
l’appunto tra virgolette).
Termini del problema che a parte subiecti, data l’oggettiva carenza
della politica, dell’etico-politico nel senso mondialistico che più servirebbe, proverei intanto a sintetizzare soggettivamente (con mortificazione personale e dolore), servendomi di una citazione di Diogene Laertio su Eraclito di Efeso, del seguente tenore:
Pregato dai concittadini di dar leggi alla città, rifiutò perché essa era già caduta in balìa della cattiva costituzione […]. Ritiratosi nel tempio di Artemide,
cominciò a giocare a dadi con i fanciulli e agli Efesi che gli vennero intorno disse: “Di che vi meravigliate, o inetti? Non è meglio giocar coi bambini che occuparsi di politica in mezzo a voi?”. E infine, non sopportando più gli uomini, si
ritirò a vivere sui monti, cibandosi di erbe e di foglie. Ma questo lo fece ammalare di idropisia ed egli ritornò quindi in città e domandò ai medici con parole enigmatiche se potessero ridurre a siccità l’abbondanza delle acque. Ma i medici
non capivano e allora si seppellì da sé in una stalla sotto lo sterco, sperando che
il calore avrebbe prosciugato l’acqua. Ma neppure questo gli portò giovamento
ed Eraclito morì a sessanta anni d’età...7
Tuttavia (lasciando da parte i problemi d’interpretazione e, quanto a
me, le suggestioni perfino autobiografiche del brano), per spiegarmi
meglio sui limiti dell’indagine (su quelli almeno di cui posso essere consapevole), e sulle peculiari modalità del mio contributo, ricorrerei anche a un riferimento storico-metodologico di altro tipo.
È noto cioè che tra i progetti artistici non realizzati, o realizzati solo
frammentariamente da Johann Wolfgang von Goethe, ce ne è uno: il
progetto di un romanzo epistolare per bambini in più lingue, un ro 7 I presocratici. Frammenti e testimonianze I. La filosofia ionica – Pitagora e
l’antico pitagorismo – Senofane – Eraclito – La filosofia eleatica, introduzione, traduzione e note di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958, p. 157.
Intercultura e bambini
217
manzo di formazione, che avrebbe dovuto assemblare creativamente
cultura locale e realtà geografica del personaggio, e dunque rappresentare narrativamente un’azione di educazione planetaria, interculturale
(come si dice) in tempo reale. In Poesia e verità, libro IV, Goethe scrive
tra l’altro:
Per questa forma straordinaria [di romanzo epistolare plurilingue per bambini] cercai un po’ di contenuto, studiando la geografia delle regioni dove stavano i miei personaggi e inventando per quelle aride località ogni sorta di umane
vicende, che avevano una certa parentela col carattere delle persone e la loro
occupazione […]8.
Ora, io non vi sto confidando (incautamente) di voler riprendere
ambiziosamente in mano l’antico, straordinario e (per quel che ne so)
fin qui irrealizzato progetto goethiano, né magari (su altre coordinate
letterario-formative) di aspirare a tradurre nello specifico infantile
l’idea, altrettanto stimolante e ardua, di Italo Calvino e Umberto Eco,
della metà degli anni Ottanta, di far scrivere a diversi autori (che nel
nostro caso sarebbero giocoforza autori-bambini) un romanzo planetario multiculturale, corale, a più teste, mani e tastiere informatiche. Voglio soltanto ipotizzare invece, nei limiti del mio immaginario pedagogico, una forma non-romanzesca di ricerca, dove a faire le livre non sia
un autore “individuale” adulto, ma piuttosto (per così dire) un collettivo di pensiero “bambino”, capace di offrire materiali inizialmente adatti a mettere pedagogicamente in scena una qualche espressione interculturale, pubblica, dell’infanzia.
Un’esigenza diffusa
Proprio Giovanni Micali, presidente del Comitato italiano per
l’UNICEF e referente UNICEF in questo Corso d’aggiornamento, sul periodico il Mondodomani del dicembre 2000 (e in esplicito accordo con
Kofi A. Annan) esprime la sua opinione al riguardo, in un editoriale dal
titolo “Per cominciare ascoltiamo i bambini”, dove tra l’altro si legge
(ivi, p. 3):
In sintesi, l’Agenda globale deve sottolineare e sostenere in modo fermo tre
obiettivi fondamentali in favore di tutti i bambini e le bambine del mondo, perché possano: iniziare la vita nel modo migliore possibile, avere la possibilità di
frequentare una buona scuola di base, avere la possibilità di partecipare pienamente alla vita della loro comunità e alle decisioni che li riguardano.
Proprio per testimoniare che la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti è possibile e che non possiamo aspettare una palingenesi futura, dobbiamo cominciare subito ad ascoltare i bambini, a rispettare la loro vita e le loro
speranze.
8
J. W. GOETHE, Opere, vol. II, Sansoni, Firenze 1963, p. 691.
218
Capitolo VII
Così pure Nelson Mandela e Graça Machel, in un’altra pubblicazione monografica UNICEF su La condizione dell’infanzia del mondo 2001/
Prima infanzia (a p. 7) insistono: “Uniamo le nostre voci alle voci dei
bambini”… Con quel che segue, e che esigerebbe adesso, come dicevo,
una specifica azione pedagogica. Più azioni pedagogiche.
Tra noi uomini di scuola e studiosi di scienze dell’educazione, d’altra
parte, l’interesse per questa dimensione del problema certo non manca:
ma le nostre ricerche storico-culturali e didattico-educative, al punto in
cui sono arrivate (cioè non troppo lontano dal loro luogo di partenza),
per diventare una cosa seria, devono ancora vincere una grande quantità di resistenze ideologiche e inerzie metodologiche, e inventare quasi
per intero, nel senso che qui interessa, un loro campo di ricerca qualitativamente “alto” (e scientificamente “altro”). Occorrerebbero, come dicevo, una politica culturale e un progetto educativo di proporzioni immense: e dunque un impegno personale e sociale finalizzato, enorme.
Politica e propositi pedagogici individuali e collettivi “di base”, locali e
planetari, che non ci sono… Che io almeno non riesco a vedere, e che
provo a stento a suppore.
Dove cercare allora in una qualche forma sistematica, vuoi dall’interno della dimensione “filologica”, vuoi nella prospettiva di una didattica innovativa, i testi multiculturali e multietnici, produttivamente pedagogici, dei bambini? Nelle pubblicazioni UNICEF certamente, tanto
per rimanere “in casa” (anche se con scarsezza di resa documentativa,
per quel che ho potuto vedere fino a oggi, e nonostante la disponibilità
dei funzionari UNICEF che ho interpellato a Roma). Ma occorre volgere
lo sguardo pure altrove, a più livelli d’indagine e di esperienza, mettendo ordine per quanto possibile in altre carte, voci, videoregistrazioni e
cd-rom di espressioni infantili, e facendo luce in sentimenti e pensieri
adulti che non mi risultano essere nel mondo propriamente consueti.
Difatti è proprio dalla massa degli elementi testuali d’infanzia pur
dispersi e destinati a perdersi del tutto, e messi adesso programmaticamente assieme mediante un non usuale criterio storiografico-educativo,
che occorre incominciare: e ciò sul presupposto che vi sia, già relativamente allo “ieri”, una sorta di “arretrato collettivo” di ascolto, e nell’ipotesi che noi adulti di “oggi” – una volta ammessi i nostri tradizionali,
stratificati difetti di attenzione verso i bambini, accumulati nel tempo e
perpetuati nel presente – non si voglia continuare a restare sordi, o
quasi, alle esigenze interculturali di un’infanzia che è invece tutta da far
parlare e da ascoltare, da leggere e rileggere e recensire criticamente.
Insomma, da documentare mondialmente, storicizzare nella dimensione del “subito”, e usare funzionalmente, oserei dire, quasi alla stessa
maniera dei “classici” della pedagogia…
Ebbene, per quanto assai difettosamente e pur nel pochissimo tempo ora a nostra disposizione, vorrei informarvi di un mio personale inizio di “ascolto”, pedagogico in tal senso. E dirvi: ecco, è questa l’antologia di espressioni d’infanzia che sono riuscito a raggiungere e selezionare per noi, questa sera, sul tema dell’intercultura. Queste le voci
Intercultura e bambini
219
bambine, che sottoporrei quindi alla vostra attenzione: però allo scopo
di non accontentarci subito, com’è ovvio, del primo risultato che viene,
e con l’intento, invece, di allargare e approfondire l’indagine, di individuare ben altre fonti di documentazione, e di mostrare un percorso metodologico e di merito tale da stimolarne di infinitamente di più e di assolutamente nuovi e migliori.
E ciò, a partire da un primo e pur provvisorio ragionamento di massima, funzionale a una qualche contestuale utilizzazione didattica: e
tuttavia in varia misura coinvolgente, personalmente coinvolgente, perché collocabile in stretto rapporto con l’autobiografia... L’autobiografia
che, chiamando in gioco dialogicamente (dialetticamente) adulti e bambini, rimanda subito al tema dell’autostima, e rinvia di conseguenza,
quanto ai bambini e agli adulti coinvolti, alle tematiche dei “valori”, delle “idee”, del “sé” e del “noi”, in relazione agli “altri”, tra cultura di appartenenza e intercultura…
Un esempio per incominciare, tra gli altri possibili (esempi pur numerosi, certamente, ma che sono pressoché ininfluenti o quasi, se riflettiamo sulla sproporzione tra il già fatto e il da-farsi, nel senso
dell’ascolto collettivo dell’infanzia che qui ci interessa): il dossier monografico, cui in misura e forme diverse hanno anche collaborato alcuni
dei miei studenti romani di quest’anno (Marzia D’Alessandro, Paolo
Franzò, Francesca Fusiani, Chiara Ludovisi, Rosetta Maiuri, Angela
Marchese, Daniela Serra), che ringrazio. Un dossier costituito da innumerevoli voci di bambini che si raccontano, di bambini che, con parole
e disegni, narrano della loro vita e della vita di coetanei stranieri, bambini che, così facendo, passano da un naturale egocentrismo autobiografico a una sorta di decentramento storiografico, interculturale…
Tra autobiografia e storiografia educativa
Argomento complesso e delicatissimo, questo dell’autobiografia come
“genere” storiografico-educativo, in rapporto dialogico con le altre autobiografie multiculturali infantili: perché chiama immediatamente in
causa, e in qualche maniera tende a mettere in crisi, luoghi comuni psicologici consolidati… Ma non voglio invadere adesso il campo degli psicologi dell’età evolutiva, che hanno molto da insegnare al riguardo (penso in particolare all’insistenza tematica di una studiosa come Maria Serena Veggetti, sul concetto vygotskijano di “zona di sviluppo prossimale”, e sulle sue conseguenze pratico-operative nella crescita della personalità infantile nella chiave mondialistico-interculturale bruneriana).
Conviene tuttavia rammentare qui, non a sproposito, l’etica testamentaria e il lascito di idee “a futura memoria” di Cesare Zavattini, che
si concentrano nel suo “dar retta ai bimbi” (cfr. quindi il mio Zavattini
e i bambini. L’improvviso, il sacro e il profano, cit.); e dunque soffermarsi ulteriormente a ragionare sul rovello zavattiniano della mancata
rivoluzione morale del nostro mondo informatizzato e telematizzato…
E chiederci: ma a quante autobiografie infantili potremmo attingere, se
220
Capitolo VII
noi lo volessimo, in tempo reale? A quanti “discorsi bambini”, se noi lo
decidessimo, ci riuscirebbe di arrivare, in un po’ tutti i luoghi della Terra? A quante possibilità d’incontri multiculturali potremmo in ultima
analisi fare riferimento, noi, se non fosse a bloccarci il nostro stesso
conservatorismo mentale e morale, e cioè etico-politico-pedagogico?
Dicevo: un mondo tecnologicamente avanzato, e tuttavia moralmente arretrato, un mondo umano decisamente in ritardo rispetto a se stesso, rispetto agli stessi valori umani veicolati dalle parole dei bambini
che arrivano a esprimersi su intercultura e dintorni, che riescono a comunicare i loro desideri universali, a parlare di sé ad altri bambini della
Terra. Come coltivare allora, in quanto adulti “salvati dai ragazzini”, e
magari senza che se ne avvedano (per non disturbarli, giacché è nel
presente, che i bambini vivono), il senso del domani, della prospettiva?
Sennonché è proprio nell’intreccio di adultità e di infanzia, proprio
all’incrocio dei distanti livelli di età (anche dei più distanti, poniamo la
vecchiaia e la prima primissima infanzia), che può talvolta determinarsi
criticamente e autocriticamente la possibilità (interculturale) del contatto e del cambiamento. Di qui pertanto il senso delle seguenti schegge
documentative, tra “indagini scientifiche” e “senso comune”, tra testo e
interpretazione, tra riconoscimento di alcuni degli aspetti del problema
filologico e ipotesi di trasformazione pedagogica.
Adulti
“Una volta disegnavo come Raffaello, ma mi ci è voluta un’intera vita per disegnare come i bambini”, scrisse Picasso. Ed è una battuta che
pone questioni diverse (sull’arte del Novecento e su quella dei “primitivi”, sul nesso adulti-bambini/bambini-adulti, sulle scritture, pitture,
musiche dell’infanzia ecc.)…
E ricorderei qui pure a questo stesso proposito, come un unicum teoretico-pratico, il solito Zavattini (ivi, pp. 128-129):
Sullo iato tra bambini e adulti specula chi amministra millenarie ingiustizie,
la nuova vita non sarà l’interruzione tra bambini e adulti, sarà la saldatura.
Certo che ci sono delle differenze enormi tra un bambino e un adulto, però
insignificanti rispetto ai grandi dolori, ai grandi bisogni, alle grandi ansie che
sono di tutti, anche dei ciechi e dei sordi e dei muti e dei neonati e dei nascituri
[…]. Ma chi siamo noi? Dove andiamo? Cosa vogliamo? Ci si è impedito nelle
scuole di affrontare queste fondamentali domande e di aggiornarle di fronte agli
ultimi accadimenti, vietati ai minori. Noi siamo nati bene e finiti male, come
diceva il grande ginevrino, siamo nati male e continuiamo male perché non ci
danno mai gli strumenti per conoscere che cosa è necessario fare per trasformarci…
Però procederei anche oltre: ripensando non solo agli “adulti” che
(come Zavattini) sanno farsi “bambini”, ma anche, nell’attuale scenario
mondiale, allungando la vista sulla viva presenza emigrativa/immigrativa
d’interi popoli-bambini (i soggetti reali di una “globalizzazione” non
Intercultura e bambini
221
addomesticata dall’ideologia dominante). Approfondirei quindi l’analisi, ben oltre le cosiddette “metafore dell’infanzia”, e riflettendo piuttosto su chi sia davvero “grande”, e su chi non lo sia, ai diversi livelli di
competenza e attività: ai vertici politici, tra i produttori di ricchezza, tra
gli scienziati, tra gli artisti, tra gli uomini di media alta bassa cultura,
tra i mediatori di civiltà, tra gli educatori e i soggetti di educazione, nella cosiddetta “gente comune” ecc.
AIDS
La storia del piccolo Xolani Nkosi (undicenne di Johannesburg).
Una vicenda pedagogica a suo modo esemplare. I pensieri “interculturali” di un bambino, che parlando agli adulti di sé e della sua tragedia
personale, mette il mondo di fronte a se stesso, a un suo specifico “male”, e alle sue proprie responsabilità: “Per favore…” – sono state le sue
più celebri parole, ad Atlanta, l’anno scorso, durante la Conferenza
mondiale sull’AIDS…
Per favore aiutate i malati di AIDS, sosteneteli, amateli, abbiatene cura […].
È triste vedere tanta gente malata. Vorrei che non si ammalasse nessuno […]. Io
avrei voluto essere bianco, perché non ho mai visto un bianco ammalato di AIDS
[…].
Nkosi, che in lingua zulù significa “signore” o “re dei re”, ora è morto.
Bisognerebbe saperne di più. Della sua storia, di lui: sapere di più dei
suoi pensieri, delle sue parole, delle sue espressioni d’infanzia (dovrebbero essercene arrivate, di un qualche tipo: in esposizioni scritte e orali,
in foto e disegni, nei giornali e nei video ecc.)… Ma passiamo ad altro.
Alimentazione
Il bambino affamato e il bambino obeso. Nonostante le pur evidenti
differenze (la morte dei bambini per fame resta una tragedia non comparabile), si tratta tuttavia delle due facce di una medesima condizione
umana (interculturale) d’abbandono dell’infanzia. Quale al riguardo
(posto che ce ne sia uno), il punto di vista dei bambini?
Mi fermerei, per rispondere, a una informazione e a una considerazione.
L’informazione consiste pertanto, puntualmente, nell’indicazione
del sito internet www.wfp.org, a cura delle Nazioni Unite e relativo alla
cosiddetta “Mappa della fame”, che viene ora aggiornata periodicamente rivolgendosi essenzialmente e interattivamente alle scuole (cfr. quindi anche il World Food Programme/Programma alimentare mondiale, Rep Publications, Cristina Ascone, via G.C. Viola 68, 00148 Roma).
La considerazione, poi, è che il problema della “fame”, quando riesce a essere espresso pubblicamente per bocca dei bambini, risulta un
tema intrinsecamente ipercomplesso e sfaccettato, e, accanto al motivo
222
Capitolo VII
gastronomico, nelle parole dell’infanzia, vengono fuori immediatamente ben altri elementi di natura culturale e interculturale: casa, salute,
sport, viaggi, pubblicità, consumi, lavoro, bellezza, piaceri di vario tipo,
arte, amore, fama, informatica, la stessa elementare produttività storico-critica, il senso della giustizia ecc.
Proprio Rosella Frasca ha parlato qui d’intercultura come “valore
aggiunto”: come rapporto dialettico, osmotico, come dialogo, alterità
viva, come risorsa e scambio e non come perdita di vitalità, e cioè come
acquisizione nuova di sé attraverso l’altro… Ebbene, gli stessi bambini,
quando raccontano della fame, quando cioè non si trovano a essere abbastanza denutriti da essere impediti nel farlo, sono portati spontaneamente a complicare il quadro di riferimento “alimentare” (interculturale) e a introdurre spunti di riflessione di evidente maggiore complessità (culturale, estetica, sociale, morale, religiosa ecc.).
Arte
Pensieri interculturali di bambini espressi mediante disegni e dipinti. Artisti e bambini, insieme in esperienze interculturali tra età ed esperienze e competenze diverse.
Ancora Zavattini… ma ricorderei il caso di Aldo Cibaldi di Rezzato
(Brescia), che ha raccolto 4.500 opere di bambini di tutto il mondo sui
temi dell’intercultura… E avrei da raccontare allo stesso proposito di
bambini “artisti”, di bambini che, da cultura a cultura, si fanno in qualche modo critici d’arte, di bambini di un determinato paese della Terra,
che hanno imparato a fare da guida turistico-culturale nei musei di altri
paesi del mondo…
Né dimenticherei il fatto che, tra l’altro, intercultura significa talvolta anche fecondità di rapporti reciproci, e scambio culturale nei due
sensi, tra la produttività artistica più qualificata e l’infanzia che vuol
(deve) essere esteticamente educata. Farei quindi, da un lato, i nomi di
Klee, Chagall, Mirò, Matisse, Kandinskij… da un altro lato, direi di mostre di bambini ispirate a questi o ad altri autori classici, ovvero, guidate da artisti adulti. Sicché rammenterei a questo proposito, tra le altre
possibili che mi riguardano, un’esperienza didattica molto coinvolgente
di qualche anno fa in una scuola elementare di Cosenza, in collaborazione con Tonino Sicoli, e, di questi giorni, la mostra romana su Keith
Haring: un artista che sembra ispirarsi variamente ai linguaggi infantili, e che viene quindi recensito dai bambini delle scuole elementari e
delle medie, con temi sul “gioco”, sull’“amicizia”, sulla “fratellanza”, sul
“razzismo”, sul “dover essere del mondo”, sulla “perfezione da perseguire” ecc.
Né a tal proposito (avendo tirato in ballo Zavattini, ma non solo per
questo motivo) dimenticherei il cinema, tra arte del film e intercultura,
tra produzione d’autore e fruizione dello spettatore, tra rappresentazione delle realtà dell’infanzia e pedagogia. Gli esempi non mancano, ci
sarebbe, se mai, soltanto l’imbarazzo della scelta: e citerei, ancora sul
Intercultura e bambini
223
piano interculturale e immediatamente didattico, Zavattini e la sua idea
dei “bambini con la macchina da presa”, e, da un diverso punto di vista,
Lamerica di Gianni Amelio (ma tutta quanta l’opera di Amelio offre
spunti interculturali diversi: adulti/bambini, viaggio/emigrazione, Nord/
Sud, morale dominante/nuova moralità, lingua/dialetti, scritture bambine/”quaderni e colori”, interferenza diretta di bambini nella stessa
opera creativa del regista ecc.), oppure, a vari livelli di riuscita pedagogica, alcuni cartoni animati a loro modo “filosofici”, del tipo di Babe,
maialino coraggioso, A Bug’s Life, Kirikou ecc. Su questi film, e su altri
film variamente “interculturali”, ho avviato discorsi e ricerche personali
e interpersonali assieme ad adulti e a bambini: li ho avviati con Cesare
e Daria, e poi Lidia e Matteo, con Irene e ancora Matteo, su Cinema
Nuovo, con Maurice, su Vita dell’infanzia, con nonno Franco, autore di
affascinanti favole “biologiche” e Giorgia, nipotina incantata che disincanta, sulla spiaggia e tra i fiori cantautori e gli insetti poeti di Rivachiara a Sellia Marina di Catanzaro, e dunque: con Annamaria, Giovanna, Elio, Lucia, Patrizia, Umberto, Domenico, Guido, Teresa, Maria,
Laura, Mimmo, Marco Antonio, Alessandro, Rosetta, Chiara, Marzia,
Paolo, Aldo, Giuseppe, Felice, Francesco e Vittorio… e chissà con quanti
altri, in pubblico o in privato, uscendo dal cinema, lavorando all’Università, o agendo altrove… Ho quindi avuto da molti di loro, e ancora
attendo da tutti loro conferme e obiezioni…
L’intercultura (che ne pensino i bambini) passa autobiograficamente anche da qui...
Cantastorie
I bambini diventano cantastorie d’intercultura. Un percorso plurivalente, interdisciplinare, basato sulla conoscenza di sé e sul rapporto con
le storie degli altri. Alla scuola media “A. Gramsci” di Roma, un progetto sperimentale triennale (con la collaborazione di Franco Trincale)…
Sennonché, sono gli stessi bambini “del mondo” oggetto di riflessione da parte dei cantautori più autorevoli, a suggerire pensieri ulteriori.
Così nel caso di Francesco De Gregori, che su l’Unità del 25 marzo
1995, in un intervento dal titolo “Sono i bimbi i negri del mondo”, ha
scritto:
Sono i bambini, oggi i negri del mondo. Assaliti e indifesi, avviliti e stuprati,
usati, abusati. Scippati del diritto al gioco e allo studio. Oppure esibiti in tristi
fiere televisive ad affogare nella pornografia catodica i loro tre o sei o quindici
anni.
A ballare. A indovinare. A imitare. E ancora – per ora lontano da qui – selvaggina stanziale per i vari e sempre più numerosi squadroni della morte, esercito di consumatori di droga e di merendine, giovani capobanda in attesa di promozione, vittime designate, sequestratori e ostaggi. Dietro le sbarre di un carcere minorile, in un tinello borghese, in un bar dove si spaccia, in una scuola dove
non si impara, in una società dove non sono previsti.
Sono i bambini i negri del mondo […].
224
Capitolo VII
Concorsi
Concorsi di scrittura per bambini, su tematiche inerenti all’intercultura, testi d’infanzia variamente significativi… E mi limiterei adesso a
menzionare, della mia esperienza, le ripetute collaborazioni con il
CIES/Centro informazione e educazione allo sviluppo, lungo l’arco dei
trascorsi anni Novanta: e in particolare la collaborazione all’“Incontramondo” (cfr. quindi gli “atti” dei convegni, i materiali delle mostre, i
volumi a stampa variamente prodotti nel corso di un decennio e ciò
che, se non è andato perduto, dovrebbe restarne: e cioè, dal punto di
vista dell’Italia, un enorme archivio di vive espressioni interculturali
d’infanzia, e la prospettiva di un ampliamento degli orizzonti della ricerca a livello di un po’ tutto il mondo).
Riprenderei le mosse da qui… Dai miei corsi universitari (quelli soprattutto su Dewey e Gramsci, su Piaget e Vygotskij, sul “concetto di
cultura”, su Labriola e Gramsci, su Labriola e Makarenko, su Labriola e
Yunus, quindi sull’“idea di sviluppo”: e ora, per l’anno venturo, ancora
su Labriola e Yunus e in tema di “sviluppo”, di “globalizzazione” e dunque di “Economia, educazione, filosofia”…). E farei d’altra parte riferimento a tutta una serie di tesine e tesi di laurea e di dottorato, variamente organiche ai detti corsi accademici (cfr. quindi L’università, la
didattica, la ricerca. Primi studi in onore di Maria Corda Costa, a cura
di N. Siciliani de Cumis, Sciascia, Caltanissetta 2000). Tesine e tesi in
espansione per quantità e qualità, e per l’appunto nell’ottica del nesso
intercultura-infanzia (in senso stretto e in senso lato): su Labriola,
Gramsci, Dewey, don Milani, Vygotskij, Piaget, Garin-Pico, Yunus, Berio-Calvino ecc. (cfr. quindi le informazioni e i materiali aggiornati, a
disposizione nel sito web www.cultureducazione.it).
Ma c’è di più. Giacché proprio in prossimità della suddetta attività
universitaria, c’è stata e c’è da parte mia (e nonostante i limiti soggettivi
e oggettivi di cui dicevo all’inizio) una tensione filologica di fondo e il
proposito di una chiamata in gioco del “ruolo”, che ha comportato e
comporta, anche e soprattutto dal punto di vista delle espressioni multiculturali dei bambini, attenzione costante all’infanzia e alla sua quotidianità (nei diversi significati della parola “quotidianità”, “quotidiano”,
“giornale” ecc.).
Congressi
Bambini a congresso (a convegno) su noti notissimi e spesso drammatici tragici aspetti esistenziali infantili (primo fra tutti l’“abbandono
dell’infanzia”, i “bambini di strada” di un po’ tutte le parti del mondo) e
problemi di vario tipo concernenti l’intercultura (cfr. su questo tema e
dintorni, per le informazioni anche bibliografiche che raccoglie nella
prospettiva di ulteriori ricerche, il citato L’università, la didattica, la
ricerca e l’altro mio libro recente Italia-URSS/Russia-Italia. Tra culturologia e educazione 1984-2001, con la collaborazione di V. Cannas, E.
Intercultura e bambini
225
Medolla, V. Orsomarso, D. Scalzo, T. Tomassetti, Quaderni di “Slavia”/
1, Roma, 2001).
E rientrano nel quadro delle suddette attività “congressuali” dei bambini, le loro attività a pieno titolo civili, in qualche misura politiche… A
parte i bambini montessoriani in assemblea di Carmela Alberano e di
Daria Egidi, già prima, i miei scolari di Belcastro (Cz) in consiglio comunale: e ora gli esemplari nostri concittadini di questo Le bambine e i
bambini trasformano le Città. Progetti e buone pratiche per la sostenibilità ambientale nei comuni italiani, Le Città sostenibili delle bambine
e dei bambini, Ministero dell’Ambiente, novembre 2000: con notevoli
interventi sul tema “Se io fossi sindaco”, “Una città accogliente, aperta e
solidale”, “Bambine/i al governo della città” ecc.
Ecologia
Tematica ricorrente e frequentissima nei pensieri dei bambini di
tutto il mondo sull’intercultura… Per cui ci sarebbe solo l’imbarazzo della
scelta nel segnalare, nel ritagliare, nell’interpretare espressioni infantili
su questo argomento: mi limiterei quindi a ritornare sul terreno
dell’autobiografia e a segnalare il numero unico di un giornalino scolastico dal titolo Il delfino, del 2000, con una storiella ecologica raccontata da una bambina, Federica: “Vi racconto la mia storia di gabbiano,
triste e solo in un paradiso distrutto”.
Ed è un raccontino che la dice lunga in fatto di valori ecologici, difesa della Terra, mondialismo infantile:
Sono un gabbiano e volo nel mio paese, mi riposo e pesco sull’acqua perché
so che il mio mare è pulito. Un giorno passò una nave piena di petrolio che affondò e da quel giorno il mare era un foglio nero e noi gabbiani non ci potemmo
più riposare o pescare sul mare. Quell’onda nera ci impediva anche di mangiare.
Se mi fossi buttato mi sarei sporcato tutto il mio sedere di quella sporca e inutile
sostanza. Vedevo anche tantissime balene che stavano in difficoltà nel saltare le
onde […]. Mi sentivo stranissimo, non sapevo cosa fare. Sarebbe molto brutto e
inutile morire così giovani per una distesa di petrolio. Perché distruggere il mare con così tanti animali? […].
Film
Cinema, film documentario e bambini. I bambini con la macchina
da presa e il racconto multiculturale e multietnico dell’intercultura.
Anche qui, l’imbarazzo della scelta… Si tratterebbe, se mai, di pianificare ricerche di titoli e di opere, soprattutto cartoni animati, e di frequentare, ovvero progettare e costruire cineteche. Mettere assieme filmografie tematiche di scuola e di classe, su aspetti relativi all’intercultura… Tuttavia il problema didattico non è solo quello del “leggere” dei
film: è nondimeno quello di produrre filmati interculturali in classe, nel
quadro di una normale programmazione di apprendimento e d’inse-
Capitolo VII
226
gnamento, il problema cioè di osservare, sollecitare, registrare e far
pensare l’infanzia nella chiave mondialistica (cfr. quindi il prossimo
convegno nazionale intitolato “Dai Pokémon a Kirikou. Il mondo dei
cartoni animati tra multiculturalità e intercultura”, a cura dell’AVISCO/
Associazione per l’audiovisivo scolastico, del CIAS/Coordinamento italiano audiovisivi a scuola e del Ministero della Pubblica istruzione, Brescia, Teatro S. Carlino, dal 30 al 31 maggio 2001).
Ho seguito e sto seguendo, a questo proposito, l’elaborazione di diverse tesine di studenti e tesi di laurea molto interessanti: sull’audiovisivo (d’animazione, documentario, di fiction ecc.) in generale, e in particolare, una tesi di Valentina Pompili (anche) sul “visivo” della Grammatica della fantasia di Gianni Rodari, con esplicito riferimento al tema dell’intercultura nell’opera letteraria e pedagogica dell’autore (tra
l’altro) di La freccia azzurra (non a caso tradotta in un film d’animazione), sui “pensieri bambini” passibili di diversificate traduzioni filmiche a più livelli formativi (per esempio nella non comune creatività didattica di una maestra montessoriana, nella cura degli handicap mediante le attività scolastiche e parascolastiche di un teatro “integrato”,
nelle dimensioni interculturali del cinema di Gianni Amelio ecc. E ce
n’è infine un’altra, di tesi, che è a buon punto, su Zavattini e gli scolari
“cineasti in proprio”… Silvia Di Biasio, che ne è autrice, sta scoprendo
cose importanti (non solo su Zavattini e i bambini), e sta mettendo a
punto un originale strumento didattico, assai utile per innovative possibilità d’intervento educativo a scuola e fuori della scuola (anche e soprattutto, in più sensi, sul piano interculturale)9.
Gioco
Giochi e giocattoli. Il loro più che evidente portato comunicativo e
interculturale. Il gioco della guerra. La guerra dei bambini come nongioco (per es. a Sarajevo, in Ruanda, in Birmania, in alcuni luoghi del
Sud Italia…).
Giocattoli “multietnici” (cfr. la notizia del Corriere della sera del 7
dicembre 2000, “Anche il giocattolo è multietnico. Vanno a ruba la
Barbie nera e ‘the man in black’”). Il gioco della politica, dell’amministrazione di una città, con attenzione ai problemi dell’immigrazione.
Giochi di ruolo (cfr. a questo proposito in particolare G. Recchia, “Solo
andata. Il ‘ritorno’ dal viaggio interattivo riletto sui Quaderni della Mostra”, in Solo andata. Un viaggio diverso dagli altri. Dossier conclusivo, realizzazione a cura del CIES, Roma 1998, pp. 15-34).
Dell’illuminante resoconto filologico-critico di Recchia, cito di seguito i titoli dei didatticissimi paragrafi (chi volesse saperne di più può
cercare nel citato sito web www.cultureducazione.it):
9
Si tratta di un lavoro avviato, ma che non è stato portato a termine.
Intercultura e bambini
227
1. La mostra come esperienza conoscitiva e di condivisione. 2. Visitatori
stranieri. 3. Le emozioni suscitate dal percorso interattivo. 4. Proposte per migliorare la mostra. 5. Critiche e suggerimenti. 6. Superamento di stereotipi in
tema di intercultura. 7. Frasi, citazioni, battute significative. 8. La “poesia” di “Sola andata”. 9. Entusiasmo ed elogi per l’esperienza vissuta. 10. La mostra come
percorso educativo e catartico. 11. Incontrare gli altri diversi da noi. 12. Da me a
te, da noi a voi: una strada verso il decentramento dall’egocentrismo. 13. Solidarietà ingannevole? 14. Nei panni di uno straniero. 15. Il lontano così vicino. 16.
“Solo andata”: tra realtà e finzione. 17. Immedesimarsi negli attori della mostra.
18. “Grazie” alla mostra e agli organizzatori. 19. Imparare giocando: l’aspetto
ludico della mostra. 20. Il valore culturale, etico, sociale, politico della mostra.
Giornali
– I giornali degli adulti, come straordinario veicolo dei pensieri dell’infanzia sull’intercultura.
– Storia del giornalino scolastico.
– Giornalini scolastici (il sito web del Ministero della Pubblica istruzione con documentazioni sul tema).
– Bambini-giornalisti. “Erasmo”/“Il mio primo quotidiano”.
– Lettere di bambini sull’intercultura.
– Lettere di bambini sul razzismo.
– Lettere di bambini su pace e guerra.
– Concorsi liberi di scrittura per bambini, veicolati dai giornali.
– Concorsi a tema, dello stesso tipo.
– Concorsi di disegno, pittura ecc., come sopra.
Di rilievo al riguardo, negli ultimi tempi, la serie delle intere pagine
redazionali aperte alla collaborazione di adulti e bambini, nel quotidiano russo Izvestija, sul tema del “Facciamo insieme il giornale…” (un po’
sullo stile di ciò che nei recenti anni Settanta e Ottanta hanno proposto
in Italia Paese sera, Il Secolo XIX, Avvenire ecc.).
Lavoro
Lavori minorili e intercultura.
Pensieri di bambini sul tema del lavoro e dello sfruttamento
dell’infanzia.
Un mondo di cose “interculturali” da dire e da ascoltare, a questo riguardo, per bocca dei bambini.
Un mondo, dicono i bambini, da cambiare.
(Cfr. infra quanto detto in precedenza, soprattutto a proposito di
concorsi, congressi, gioco, giornali, e su ciò che si dirà nella conclusione).
Lettere/e-mail
Corrispondenze di bambini in chiave multiculturale e multietnica.
Anche mediante Internet.
228
Capitolo VII
La lettera, le lettere, quante più lettere è possibile, di bambini del
mondo, e la lettera, le lettere, “una, cento mille lettere” (come diceva
Zavattini) scritte e da scrivere. La lettera impossibile da scrivere, e che
ciascuno di noi vorrebbe aver scritto al destinatario che non c’è…
Non avrei dubbi sul fatto che si potrebbe tirar fuori, in tempi brevi,
un libro molto bello e istruttivo di letterine di bambini sul tema dell’intercultura… Mi piacerebbe proporlo a un editore italiano o straniero: con la prefazione di… Goethe. Giacché tutto sommato, per quanto in
un’altra chiave espressiva, si tratterebbe proprio della realizzazione di
quella sua idea di cui dicevo all’inizio… (e che, poniamo, potrebbe avere
intanto un suo incipit nei documenti epistolari raccolti e studiati da
Paula Benevene, nel suo libro L’alienazione dell’infanzia in Brasile,
premessa di A. Farina, Melusina Editrice, Roma 1996, pp. 233 sgg.).
Libri/lingua
Pensieri di bambini d’ogni razza, lingua e cultura sull’intercultura,
in opere scolastiche di adulti e bambini (e già a partire, per esempio,
dagli stessi Fiori di banco a cura di Ada Trerè Ciani, oppure dal più celebre Io speriamo che me la cavo di Marcello D’Orta: dove gli spunti
non mancano)… Libri di testo addirittura, e per esplicito interculturali,
redatti insieme da bambini e adulti: così per esempio quel prezioso
manualetto bilingue del 1994, Direttissimo Italia-Polonia. Un viaggio
lungo un anno, a cura del Sistema bibliotecario Castelli romani/Centro
documentazione di letteratura per l’infanzia.
E citerei qui su diversi piani, ma tutti comunque utili ai fini della
presente trattazione, i risultati di inchieste giornalistiche e ricerche
scientifiche tematicamente linguistico-interculturali: cfr. quindi, a titolo di sommaria esemplificazione, Vinicio Ongini, Lo scaffale multiculturale, Mondadori, Milano 1999 (e a proposito, ID., “I dieci, cento linguaggi dei bambini”, il Mondodomani, marzo 2000, pp. 16-17, ma vedi
pure, per una utilizzazione immediatamente didattica, Marina Terragni,
con foto di Vincenzo Cottinelli, “Viaggio nell’Arabo veneto”, Io donna/
Corriere della sera, 17 febbraio 2001, pp. 68-70), e ora, tra ricognizioni
storico-culturali, tecnologie educative e sperimentazioni pedagogicointerculturali, l’impegnativo contributo di Alessandro Vaccarelli, L’italiano e le lingue altre nella scuola multiculturale. Fattori culturali e
psico-socio-pedagogici negli apprendimenti linguistici degli studenti
immigrati, postfazione di M. Corda Costa, ETS, Pisa 2001.
Un lavoro, questo di Vaccarelli, che – ferme restando le qualità delle
sue attuali, peculiari caratteristiche scientifiche, – se riuscisse anche a
tradursi in un laboratorio apertamente collettivo di documentazioni,
idee e progetti multiculturali e multietnici, con apporti tecnici e di “senso comune” di tipo multilinguistici e interdisciplinari, monograficamente ed enciclopedicamente “mirati”, risulterebbe essere assai più che
una finestra sul mondo, e piuttosto, lo stesso mondo alla finestra che si
racconta storicamente e inventa criticamente per bocca di bambini dal-
Intercultura e bambini
229
la pelle bianca, gialla, nera, caffelatte ecc. Anche Goethe, se fosse possibile, non potrebbe che dichiararsi in ciò pienamente d’accordo… Così
pure, approverebbe da par suo Eraclito: il “dialettico”, “oscuro”, “negativo” Eraclito…
Mutatis mutandis, tuttavia, linguaggi ed espressioni variamente
multietniche e multiculturali possono pur essere, per esempio, il deciso
“no” della “sposa bambina tunisina” di undici anni alla proposta di matrimonio di “convenienza sociale” offertole in Europa (vedi Corriere
della sera del 28 agosto 1997), oppure i numerosissimi “suicidi” di piccoli indios brasiliani guaranì, come conseguenza di disgregazione sociale, malattie, malnutrizione, perdita di proprietà e identità (vedi Corriere della sera del 3 dicembre 2000), l’interessante lavoro dei bambini
delle elementari e medie del Convitto nazionale “P. Galluppi” di Catanzaro, svolto assieme agli adulti, su alcune delle dimensioni anche linguistiche cittadine, e rientra certamente nel quadro la ricerca che, sul
bilinguismo dei bambini albanesi in Italia, viene ora svolgendo Paola
Gagliarducci (maestra elementare e studentessa di filosofia nell’Università di Roma “La Sapienza”).
Makarenko/mondo
Filosofia morale e pedagogia della prospettiva negli anni Venti e Trenta
in URSS. La prima infanzia dell’“uomo nuovo” (“comunista”). Una critica del razzismo (esercitato contro gli ebrei). Dall’Ucraina all’intera Unione Sovietica, al mondo. I bambini di Makarenko. L’argomento Mondo
come tramite di pensieri multiculturali infantili. Makarenko oltre Makarenko.
Alcuni spunti di ricerca: 1. il “gioco” come fatto interculturale tra
educatori ed educandi nella colonia “M. Gor’kij”, tra generazioni diverse di rieducandi, tra bambino e bambino nella società civile, tra genitori
e figli, nei rapporti con gli estranei ecc.; 2. l’esperienza del “teatro” come strumento di intercultura, tra lavori manuali e attività intellettuali,
come possibilità di crescita della cultura del corpo in relazione alla cultura della mente (e viceversa), come elemento di raccordo tra la cultura
del collettivo ristretto della colonia e l’apertura alla cultura della società
civile; 3. il nesso “quantità”/”qualità” come categoria della crescita interculturale, tra il collettivo ristretto, i suoi graduali ampliamenti e la
possibilità di non mettere praticamente fine, in prospettiva, al processo
dell’accrescimento storico-culturale interno/esterno alla colonia.
Pace/guerra
Uno dei binomi più presenti nelle modalità espressive dei bambini,
in relazione a se stessi e al Mondo, così come lo recepiscono e come lo
vorrebbero.
Tra i milioni, e non esiterei a dire miliardi, di testimonianze infantili
possibili sul tema, sceglierei di rivedere e di commentare a scuola le in-
230
Capitolo VII
terviste di cui consta il reportage di Amelio dalla Bosnia, all’indomani
della terribile guerra di qualche anno fa… E incomincerei dalla discussione del reportage ameliano: Non è finita la pace, cioè la guerra… (o
che sia Non è finita la guerra, cioè la pace…?)
Lascio però a voi il compito di dirimere la complessa questione (linguistica, storica, psicologica ecc.) del titolo, avvertendo che l’accoppiata
pace-guerra, e il lapsus e il dubbio che ne conseguono, la dicono comunque lunga in entrambi i casi: la cultura, meglio l’intercultura della
guerra-pace e della pace-guerra, risultano in fin dei conti interiormente
(tragicamente) convertibili. Di modo che, tanto l’iperrealistica poetica
interculturale (bambina) dell’autore del filmato, quanto le surrogate
modalità (culturali adulte) di fruizione da parte dello spettatore, finiscono qui e ora con l’essere contestualmente (drammaticamente) tirate
in ballo. Compromesse (direbbe Zavattini) (cfr. quindi P. Finn, “Gianni
Amelio e i bambini di Sarajevo”, in L’università, la didattica, la ricerca,
cit., pp. 139-143).
Poesia
Forme di scrittura in versi, anche su tematiche concernenti l’intercultura (se pure non c’è la parola, almeno c’è il concetto)…
Zavattini, ancora Zavattini, che scrive la prefazione al libro di un
bambino-poeta, Antonio Fortichiari, edito da un importante editore (e
ora, in un capitolo significativo, nel cit. Zavattini e i bambini)… Il piccolo Fortichiari, che così si esprime (interculturalmente) sul mondo:
O tu mondo
ti fai cullare
dall’antico sole caldo
e giri e giri
ma cosa cerchi?
Cerco l’ombra fresca
e faccio riposare i bimbi
che vivono nella mia grossa bocca
e faccio svegliare i dormiglioni.
Questo è il mio lavoro.
Altri versi di bambini nella chiave interculturale, dunque, nel supplemento della Gazzetta del Sud del 19 ottobre 2000. E, su un piano
diverso, il bambino-strillone di… poesia: il bambino del disegno, che sui
giornali di questa mattina – nemmeno a farlo apposta – fa da “logo” al
primo Slam Poetry, cioè alla prima Giornata mondiale della poesia,
presentata a Roma presso la “Casa delle letterature” da Edoardo Sanguineti e proclamata nel 2000 dalla Conferenza generale dell’Unesco
(cfr. per es. la nota di Dina D’Isa, “Arriva il primo slam di poesia: i finalisti li sceglierà il pubblico”, Il Tempo, 21 marzo 2001).
Intercultura e bambini
231
Questione meridionale/razzismo
Nord e Sud d’Italia. Sud del mondo. Pensieri dei bambini sull’argomento. Il loro punto di vista sul razzismo. Intere biblioteche a riguardo. Tre sole indicazioni di pubblicazioni recenti, da cui prendere
metodologicamente le mosse tra filosofia, storiografia e letteratura, antropologia ed educazione, pedagogia e didattica: a. Paola Tabet, La pelle giusta, cit., con una notevolissima scelta di testi di bambini, b. Tahar
Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, traduzione di E. Volterrani, nuova edizione accresciuta. Cosa ne pensano ragazzi e insegnanti, Bompiani, Milano 1999 (da cui traggo, a p. 90, il seguente, pedagogico aneddoto, raccontato dalla signora Danielle Aird, Ontario/Canada, e
in parte significativamente ripreso nella quarta di copertina):
Quando mia figlia aveva quattro anni, durante una passeggiata nella nostra
cittadina dove, all’epoca, non incontravamo mai persone di ascendenza africana, abbiamo visto venire verso di noi un bell’uomo, di statura molto alta, dai
lineamenti africani, con la pelle quasi color dell’ebano. Dopo esserci incrociati e
quando si è trovato qualche passo dietro a noi, mia figlia mi ha chiesto se pensavo che fosse un olandese. Ero sorpresa dalla domanda: non avevo visto che
lineamenti africani e una pelle di colore molto scuro. “Perché pensi che sia olandese?” le chiesi. “Be’“, mi dice, “perché porta gli zoccoli”. Mi volto indietro e,
in effetti, il giovanotto portava gli zoccoli. La cosa mi ha riscaldato il cuore.
c. Un fascio di testi giornalistici, sui pensieri dei bambini sul razzismo. Testi da leggere e rileggere, testi da integrare con altri testi, testi
da studiare… d. due volumi non recentissimi e tra loro assai diversi, ma
sempre utili da avere entrambi presenti: P. Angeli Bernardini et al., Lo
straniero ovvero l’identità culturale a confronto, a cura di Maurizio
Bettini, Laterza, Roma-Bari 1992, e Studi e documenti degli Annali della Pubblica istruzione, L’educazione interculturale degli alunni stranieri, Le Monnier, Firenze 1995.
Religione
Un aspetto della vita che si presta anche a essere tradotto nelle tematiche tipiche dell’intercultura, e che coinvolge talvolta anche le scritture d’infanzia. Con le seguenti tematiche ricorrenti:
– diverse religioni, diverse culture,
– intercultura come risorsa “umana” e partecipazione al “divino”,
– tendenziale identificazione del mondialismo con ciò che è “religioso”,
– la “buona fede” come presupposto dialogico, quale che sia il “credo”,
– la religiosità come laboratorio d’intercultura (e viceversa),
– la “divinità” della natura, come prova della necessità della tolleranza,
– l’idea di “Dio” come garanzia del rispetto del rapporto tra le culture,
– “preghiera” come “poesia”.
Capitolo VII
232
(Anche qui Zavattini: la sua idea di sostituire l’“ora di religione” a
scuola, con l’“ora della pace”… Ecco un altro tema multiculturale e multietnico per adulti e bambini, un tema, su cui anche i bambini hanno
detto la loro: e su cui si potrebbero produrre nuove, non irrilevanti documentazioni).
“Ulisse”
Concetto-limite, che serve subito a segnalare alcune esperienze culturali, interculturali e didattiche a loro modo esemplari: e per così dire
“di punta” (e “di rottura”). Dalle quali, nella prospettiva che qui interessa, derivano tra l’altro singolari espressioni bambine.
Da segnalare pertanto, in questa direzione, l’interessante resoconto
di Daniela Pasquinelli, “Per mare con Ulisse: itinerario mediterraneo
alla scoperta dell’altro. Proposta didattica per la scuola dell’obbligo”, il
Mondodomani, aprile 1995, pp. 32-35. E ora, l’intrigante Ulissea
(l’Odissea secondo noi), a cura delle scuole dell’infanzia Bazzano-S. EliaTempera, in collaborazione con la Regione Abruzzo-Agenzia per la promozione culturale, L’Aquila 2001 (Biblioteca dell’infanzia/Il libro vagabondo).
Yunus/Zavattini
Muhammad Yunus, Vers un mond sans pauvreté (1997), quindi in
Italia con il titolo Il banchiere dei poveri, con la collaborazione di Alan
Jolis, nuova edizione ampliata, traduzione di E. Dornetti, Feltrinelli,
Milano 2000 (cioè il racconto della sua straordinaria esperienza finanziaria e pedagogica)... Quest’anno vi sto svolgendo un corso di lezioni
per gli studenti di prima annualità, che tra l’altro stanno mettendo a
punto, come scrittura collettiva, il testo di una Lettera a Yunus...10 Zavattini è invece quello dei “poveri” che sono “matti” (come i “bambini” e
i “vecchi”, matti e poveri anche loro). Ci sarebbe molto da dire, qui, in
tema di “pensiero bambino” e “intercultura dell’infanzia”.
Tuttavia, ben oltre le analogie e le differenze: Yunus oltre Yunus,
Zavattini oltre Zavattini.
Il microcredito, la finanza etica, la fiducia nell’educabilità dell’uomo
(e nell’operosità delle donne), sul presupposto filosofico del macrocredito
garantito dalle enormi potenzialità umane. E dunque: la filosofia del
“dar retta ai bimbi”, e le conseguenti tematiche enciclopedico-educative,
antropologiche, pedagogiche, socio-psicologiche, metodologiche, eticopolitiche (antipedagogiche). Una nuova idea dell’“infanzia”, un’idea “altra” di intercultura. I poveri, i vecchi, i bambini. I matti. Vecchi e bambini insieme. Zavattini, Yunus, la cultura e l’intercultura dell’“improv-
10
Cfr. supra, parte IV, cap. 1.
Intercultura e bambini
233
viso”, dell’“istante”, dell’“immediato” del “subito”… Ma di ciò in un’altra occasione.
In conclusione
C’è del resto in questo nostro mondo di contraddizioni (talvolta inaudite), un’altra immediatezza, e una subitaneità istantaneità urgenza
“altre”, che proprio i pensieri, e le azioni, dei bambini sull’intercultura
riescono a mettere bene in evidenza.
Ecco perché forse, in conclusione, mi viene in mente la storia di
Iqbal, la storia di Iqbal Masih. Che la dice lunga…
Ma chi era Iqbal?
Iqbal Masih era uno dei sette milioni di bambini pakistani, che per
dodici ore al giorno lavorano incatenati come schiavi ai telai.
Iqbal aveva solo quattro anni, quando suo padre lo vendette per dodici dollari a un fabbricante di tappeti.
Fu riscattato, e, una volta libero, Iqbal cominciò la sua battaglia contro i mercanti di bambini.
Il mondo intero si accorse di lui, quando nella primavera del 1995, a
Boston, gli fu dato il “Premio Gioventù in azione per i diritti umani”.
In questa occasione egli disse così la sua, in tema di intercultura:
Oggi qualcuno mi ha parlato di un grande uomo americano: il suo nome era
Abramo Lincoln.
Io voglio fare per la mia nazione quello che lui ha fatto per voi. Voglio dare
la libertà agli schiavi.
Voi siete liberi, e finalmente oggi sono libero anch’io.
Vi porto i saluti di tutti i ragazzi della mia nazione.
Non si risolvono i problemi dei paesi poveri facendo lavorare i bambini.
Noi abbiamo dei diritti. Siamo persone anche noi.
Ci sono duecento milioni di bambini tenuti in schiavitù nel mondo.
Hanno diritto di divertirsi, di stare con le loro famiglie, il diritto di essere
bambini anche loro esattamente come lo sono i vostri.
Dobbiamo dire no, dire no ai tappeti fabbricati dai bambini, no ad ogni prodotto del lavoro dei bambini, di qualunque parte del mondo.
Userò i soldi di questo premio per studiare. Voglio diventare un avvocato
per aiutare i bambini.
Vi ringrazio.
Iqbal Masih non diventerà avvocato.
Poco tempo dopo aver pronunziato queste parole, il giorno di Pasqua del 1995, mentre tornava in bicicletta al suo villaggio, la mafia locale l’ha ucciso a colpi di pistola (la storia di Iqbal ha ispirato un film
per la televisione, regista Cinzia Torrini, andato in onda su Raidue il 22
dicembre 1998. Le parole dell’intervento di Iqbal a Boston, di cui sopra,
sono state trascritte dalla versione filmica citata).
Bisognerebbe conoscere e far conoscere di più e meglio i pensieri
più propri e nuovi, e le parole, le parole appartenute a Iqbal nella sua
234
Capitolo VII
breve esistenza. Bisognerebbe ricostruire, pensare e ripensare tutti, nella loro drammaticità quotidiana, le poche migliaia di giornate di questa
vita di bambino, spezzata e indimenticabile. E delle idee di Iqbal, dei
suoi pensieri. Dei suoi quaderni, si potrebbe, si dovrebbe fare un libro
di testo. Un libro con un’ epigrafe. Non un’epigrafe, un motto qualsiasi,
però.
Proporrei Goethe: quella sua frase da me citata prima, sul romanzo
epistolare plurilingue per bambini (con allusione polemica, fortemente
polemica, al fatto di Iqbal, nel mondo, ce ne stanno tanti, troppi).
Oppure, un esergo da Diogene Laerzio (senza bisogno di ulteriori
spiegazioni): riprenderei alla lettera la stessa citazione su Eraclito di
Efeso… Su quell’Eraclito che, a un certo punto, negandosi oppositivamente (politicamente) alla politica, trovò preferibile mettersi a giocare
a dadi con i bambini nel tempio di Artemide…
Che ne dite?
3. Domande a Giorgia su A Bug’s Life11
(27 agosto 2001)
A Bug’s Life. Megaminimondo (1997, Walt Disney Pictures, diretto
da John Lasseter, codiretto da Andrew Stanton, visionato insieme a
Franco e Santino il 16 agosto 2001, a Sellìa Marina (Cz)).
– In generale, Giorgia, A Bug’s Life ti è piaciuto sì o no? Vuoi fare la
prova a spiegare i perché?
Prova a raccontare in 10-15 righe che cosa succede di bello e di brutto nel film, dal principio alla fine: e, dopo aver riassunto la storia di
Flik, dell’Isola delle formiche-schiave, delle cavallette-schiaviste e di
tutti gli altri personaggi, sottolinea gli aspetti del racconto che ti sono
sembrati i più importanti.
Se poi avessi notato una cosa curiosa qualsiasi, un aspetto che ti ha
colpito, un dettaglio interessante, parlane pure subito, e cerca di darne
una spiegazione.
Non dimenticare, però, che il riassunto della storia è tuo e che tu,
nel parlarne, puoi scegliere di farlo come ti pare meglio: e che puoi aggiungere e togliere ciò che vuoi, puoi aprire parentesi, fare paragoni con
personaggi e situazioni di altre storie a te note, e che insomma, se credi,
puoi perfino modificare il film.
– Quante volte hai potuto visionare A Bug’s Life? Lo rivedresti ancora
una volta? In particolare, quale parte del cartoon ti piacerebbe rivedere domani o dopodomani? Perché?
– Mentre guardavi questo film, poi, è capitato che te ne venissero in
mente altri? Se sì, quali, e secondo te per quali ragioni?
11
Inedito. Giorgia, Giorgia Foresta, è una bambina di otto anni.
Intercultura e bambini
235
– Magari ti è tornato alla memoria qualche programma televisivo, o
della radio, oppure hai ripensato a qualche pagina di libro, o a qualche storia raccontata da papà e mamma, dai nonni, o dai tuoi insegnanti, o anche da qualche amico o compagno di scuola… A Bug’s
Life, insomma, se ne sta solo soletto nella tua memoria, oppure ti
viene da metterlo vicino a qualche altra tua lettura o esperienza (televisiva, cinematografica, radiofonica, di lettura, via Internet, di raccolta di figurine, di gioco ecc.)?
– Puoi dirmi che cosa ti è rimasto più impresso, che cosa ricordi di più
di un po’ tutto il film?
– Questa volta, però, non voglio che tu dica la prima cosa che ti venga
in mente (come nella prima domanda). Vorrei invece che ci riflettessi
un po’ e che parlassi di un momento, di una sequenza, di un’inquadratura, di un personaggio, di una situazione che quasi quasi ti viene
incontro staccandosi da tutto il resto… Come te lo spieghi?
– C’è una situazione, un personaggio, un momento del film di cui tu
vorresti sì parlare in particolare… ma per modificarlo, per cambiarlo?
– Se ti va, fa’ la prova a inventare, accanto alle situazioni del film altre
situazioni di tuo gusto… Se invece A Bug’s Life, così com’è, secondo
te non deve essere cambiato in niente, lascialo stare…
– Quale è, secondo te, il personaggio più simpatico del film? Perché?
Però vorrei che tu rispondessi alla domanda, ben sapendo che gli
autori del film hanno già fatto in modo di renderti più simpatico questo
o quell’altro personaggio…
– Su Flik, in particolare, ci sarebbe molto da dire a questo proposito…
Tu conosci qualcuno che gli rassomiglia? Che ne pensi?
– Qual è il personaggio più antipatico del film? Perché?
– Se ce ne fossero più d’uno, di personaggi antipatici, fa’ la prova e
metterli in ordine di importanza e di… antipatia.
– Ce ne è uno o più di uno, di personaggi del film, che ti è sembrato
non importante, e che avrebbe perfino potuto non esserci?
– È certo cioè che in A Bug’s Life, accanto ai diversi “protagonisti”, ci
sono personaggi anche “minori” (pensa a tutto il “popolo” delle formiche, a come si rassomigliano tutte, a come si muovono e lavorano
insieme). Ma come cambierebbe la storia, se eliminassimo la “massa”
delle formiche anonime? Potrebbe andare avanti egualmente, oppure no? Perché?
– I diversi personaggi del film rassomigliano a persone che tu conosci?
Se sì, per quale motivo?
– Conosci per esempio qualcuno, che rassomiglia a Flik?
– Qualcun altro, che rassomiglia ad Atta, o al “capo” delle cavallette,
oppure alla cavalletta un po’ scemotta, all’uccellino predatore ecc.?
– Però, a pensarci bene, tutti i personaggi di A Bug’s Life hanno loro
caratteristiche specifiche: ognuno è diverso dagli altri, non si confonde con gli altri (anche se fa parte di un gruppo: di quello delle
formiche, delle cavallette, dei comici ecc.). Come ne parleresti? Chi ti
piacerebbe avere come amico, chi non vorresti nemmeno conoscere?
236
Capitolo VII
– Nella storia raccontata in A Bug’s Life, qual è, secondo te, l’aspetto
più importante? Perché?
– Tutta la vicenda delle formiche e delle cavallette, nel suo insieme,
cosa vuol comunicare? C’è insomma (come si dice) una morale della
favola?
– Quando Flik parte alla ricerca di aiuto, esclama: “Per la colonia, per
le formiche oppresse di tutto il mondo”. Cosa ti fa pensare questa
frase?
– Ti sei accorta che nel film, accanto alla natura degli animali-personaggi, c’è anche la natura delle piante, degli alberi, delle erbe? A
questo riguardo, ti è capitato di fare qualche osservazione interessante? Le foglie, per esempio, che ruolo svolgono? E l’acqua, gli alberi, gli arbusti, la pioggia, il fuoco… Quanti altri elementi naturali importanti (esterni ai personaggi) ci sono, nel film, che pure intervengono nella storia, che la fanno andare avanti, che la spingono verso
una certa direzione? Tra natura vegetale e natura animale (gli animali che rassomigliano agli uomini) che rapporti hai notato?
– A un certo punto, una cavalletta dice: “Le idee sono pericolosissime”.
Tu che ne pensi, Giorgia?
– Fa’ la prova e cercare sul vocabolario parole come “utopia”, “creatività”, “progetto”, “giustizia”, “collettività”… Secondo te, queste parole,
c’entrano o non c’entrano nel film? Se sì, in che senso?
– C’è una pianta, un insetto che tu conosci, che nel film non c’è, e che
tu avresti voluto vedere rappresentati dentro la storia raccontata in A
Bug’s Life?
– A partire dalle piante che, assieme agli insetti, animano la storia sapresti raccontare altre storie inventate da te, e parallele a quella
principale del film?
– Servendoti magari di altri film (per es. Il Re Leone o Zeta, la formica, oppure Bambi o Fantasia ecc.), inventeresti una favola tutta tua,
con altri personaggi, con una trama analoga o diversa da quella di A
Bug’s Life?
– Ti sei accorta che il lavoro, nel film, svolge una parte importante? Ci
hai riflettuto?
– Hai notato come alcuni personaggi (le formiche, i comici) lavorano,
le cavallette invece no? Che te ne pare?
Nel film ci sono i “padroni” e i “servi”… però poi le cose si complicano. Che te ne sembra?
– Il finale del film ti ha fatto pensare a qualcosa di particolare, o no
(non solo rispetto al mondo degli animali, ma anche rispetto al
mondo degli uomini)?
– Ti è venuto in mente qualche argomento di storia, studiato a scuola?
Se sì, quale e in che senso?
– Chi, secondo te, è “buono”, chi “cattivo”, nel film?
– Sapresti parlare degli uni e degli altri, spiegando di volta in volta i
motivi della “cattiveria” e della “bontà” di ciascuno?
Intercultura e bambini
237
– Ci sono poi personaggi né buoni né cattivi, personaggi che potremmo
dire di contorno, quasi superflui, perché non incidono sulla storia,
anche se risultano simpatici, antipatici, se fanno ridere, divertire
ecc.?
– Che cosa è “giusto”, che cosa è “ingiusto”, nella storia di A Bug’s
Life?
Fa’ degli esempi di personaggi “giusti” e “ingiusti”…
Fa’ degli esempi di situazioni “giuste” e “ingiuste”…
Fa’ degli esempi di come tu avresti voluto (eventualmente, in qualche punto) cambiare la storia…
– Che cosa significa, secondo te, il titolo del film? Come lo tradurresti?
E poi: come lo spiegheresti, come lo commenteresti, se dovessi parlarne con una tua compagna di scuola, che non avesse ancora visto il
film?
– Quale altro film ti è venuto in mente, vedendo un film come A Bug’s
Life?
– Sono film che gli rassomigliano? Se sì, perché?
– Sono film invece diversi? In che senso?
– Vuoi parlarne, facendo qualche confronto?
– Quale domanda, di quelle che ti ho fatto, ti è piaciuta di più? Quale
di meno? Perché?
– C’è una domanda, più domande, che non ti ho fatto, e che avresti voluto ti facessi?
– Fa conto di essere me, formula questa/e domanda/e, e rispondi…
– Quali domande, eventualmente, ti piacerebbe farmi?
(Se le domande fossero più d’una, fa’ la prova a seguire il mio stesso
questionario: e inventa le tue domande).
Ti prometto che risponderò.
Nino
Sellìa Marina (Cz), Ferragosto 2001
4. Bambini che recensiscono bambini12
(22 gennaio 2002)
Da un primo libro dal titolo Nel cuore di Catanzaro (2000), degli
insegnanti e alunni della scuola elementare e media “Convitto Pasquale
Galluppi” di Catanzaro, discende ora quest’altro libro, degli stessi autori: Sfogliando Catanzaro. Storia di una città attraverso le immagini e
le testimonianze (Ursini, Catanzaro 2001). Perché non scriverne ancora, di libri così, qui a Roma e altrove? In Afghanistan, magari…
12 Inedito, in collaborazione con gli scolari di due classi della scuola elementare
Montessori di “Villa Paganini” di Roma.
238
Capitolo VII
Nell’opera, i piccoli catanzaresi di “oggi” raccontano la loro città di
“ieri”. E le scrivono una lettera (alle pp. 13-15): “Cara Catanzaro… in te
vengo a cercar ciò che più mi appartiene e ciò che ho perso”. E la lettera
alla città si conclude con una favola:
C’era una volta… Catanzaro, coi suoi venditori ambulanti, i personaggi caratteristici, il suo teatro, le sue porte, la tranvia, le carrozze davanti al Tribunale.
Aveva una comunità laboriosa che produceva preziosi damaschi, ben ostentati
durante le processioni, sui balconi delle nobili famiglie, aveva gente semplice,
cordiale e indulgente che invitava a non “appricarsi”, a non prendersela mai
troppo… Cara, vecchia Catanzaro, tutto è intatto nel ricordo e nel rimpianto ma
tutto si fa nuovo, al presente, nell’amore e nell’orgoglio di appartenerti.
Grazie amici.
La classe V sez. A e B della scuola elementare Montessori di “Villa
Paganini”, Roma
VIII
Il Makarenko transculturale*
1. I bambini di Makarenko e Artek. Pagine di diario 2003-2008
(Roma, luglio 2003)
Abbozzo di un progetto didattico per il Centro internazionale per
l’infanzia “Artek” e per l’organizzazione filantropica internazionale “Educazione senza frontiere”.
Premessa
L’esperienza di insegnamento-apprendimento proposta consiste
nella invenzione in progress di un comportamento didattico individuale e collettivo non usuale. Un comportamento siffatto si basa sulla utilizzazione di una significativa quantità di espressioni infantili relative ai
“valori dell’infanzia”. Su queste basi, il linguaggio infantile sarà il pretesto per la costruzione di un comportamento didattico, che fa lega con
una ricerca di prima mano su un argomento specifico: per esempio, intorno a un albero oppure a una fiaba, a un racconto, a una favola (Pi * Si tratta, qui di seguito, di materiali didattici di diverso tipo, variamente funzionali allo svolgimento dei corsi di Pedagogia generale nell’Università degli Studi di
Roma “La Sapienza” (Facoltà di Filosofia, Corsi di Laurea “triennale” in Scienze
dell’educazione e della formazione e di Laurea “magistrale” in Pedagogia e scienze
dell’educazione e della formazione), nell’a.a. 2008-09. Nuclei tematici principali dei
suddetti materiali didattici: il Centro internazionale per l’infanzia “Artek” (Yalta) e la
relativa l’organizzazione filantropica internazionale “Educazione senza frontiere”;
quindi, a proposito del libro di G. CONSOLI, il Poema pedagogico di A.S. Makarenko,
come oggettiva esemplificazione di un nuovo paradigma del racconto (tra antiletteratura e antiopedagogia).
Due dimensioni d’indagine che, per quanto tra di loro assai diverse per argomento e tipo dell’impegno disciplinare, si coordinano e completano vicendevolmente
alla luce della medesima didattica universitaria: la quale, da un lato, vorrebbe costitutivamente sostanziarsi di ricerche makarenkiane ulteriori, in via d’ipotesi innovative e, dall’altro, tende a orientarsi verso l’incontro tra le culture (quella italiana e
quelle dell’est europeo in specie) e nella direzione di concrete pratiche di tolleranza e,
ancor più, di reciproco rispetto tra i popoli, mediante – tra l’altro – una costruttiva,
lungimirante interdisciplinarità.
240
Capitolo VIII
nocchio?), oppure intorno a un film, a un giornale, ovvero intorno ai
lavori di altri bambini (preferibilmente di bambini stranieri) ecc.
Questo comportamento didattico diventerà quindi oggetto di studio,
con un gruppo d’interlocutori (scolari, studenti universitari, insegnanti
ecc.), dal punto di vista della pedagogia e di alcune scienze dell’educazione, o loro aspetti: e ciò, per proporre un ipotetico modello formativo.
Nelle esperienze di apprendimento/insegnamento “senza frontiere”,
infatti, un criterio non tradizionale d’interazione didattica può essere
proprio questo: la scelta preliminare e prioritaria di dar ascolto ai soggetti di insegnamento-apprendimento, a proposito dei cosiddetti “valori” (“il bene e il male”, “i buoni e i cattivi”, “le opere buone e le opere
malvagie” ecc.). E dunque, con riferimento alla presente proposta didattica in progress: la scelta di prendersi filologicamente cura delle parole pronunciate dai bambini e testi d’infanzia, e cioè la scelta, per questa strada, di dedicare attenzione ai bisogni dei bambini, alle loro motivazioni, desideri, urgenze. Motivazioni, desideri, urgenze, spesso rivelatori, creativi, poetici.
Questo potrebbe essere un criterio rivelatore dei “valori d’infanzia”,
e cioè dei moduli morali a cui la personalità si conforma nel corso della
sua crescita; e un criterio-guida, nel corso di un’attività didattica normale.
Per di più, l’eventuale alterazione dei comportamenti nell’apprendimento, dovuta all’intervento di adulti di una diversa cultura, può spiegare diverse angolazioni del problema. Occorre pertanto controllare il
processo d’interferenza comportamentale e registrare plausibili reazioni, spiegazioni e interpretazioni. I fattori culturali e interculturali risultano decisivi, e perfino la dimensione transcultuarle si arricchisce mediante ulteriori informazioni, significati e valutazioni. Anche l’incidenza
di errori o comportamenti negativi svolge una funzione importante.
La crescita umana dipende anche da ciò. Lo stesso concetto di “zona di sviluppo prossimale” (nel significato che risale a L.S. Vygotskij)
estende il suo ambito di senso e si combina con il complessivo campo
della cultura e dell’educazione. Il che è un tema di grande momento, e
riguarda il concetto dell’infanzia come metafora.
La funzione educativa dell’insegnante viene a modificarsi. Se gli insegnanti cioè sono direttamente coinvolti nell’esperienza educativa, con
l’obiettivo di un risultato di ricerca da conseguire, la variazione del risultato didattico può essere considerevole.
L’ipotesi è dunque questa: che il mettersi personalmente in gioco
come insegnante-ricercatore sia una radicale innovazione (come il mettersi personalmente in gioco come un adulto insieme a dei bambini,
come uomo di scienza insieme agli ignoranti, come persona ricca assieme ai poveri).
Il Makarenko transculturale
241
Princìpi didattici e proposta educativa
1. I maestri elementari, gli insegnanti di scuola media e i professori universitari, nell’esercizio delle loro funzioni tecniche, hanno le stesse
responsabilità. Le funzioni tecniche consistono nella conoscenza delle materie specifiche di insegnamento-apprendimento, nella conoscenza degli allievi, nella conoscenza della società, nella conoscenza
dei metodi. Le responsabilità consistono in azioni didattiche dirette
soprattutto alla liberazione di energie intellettuali, alla costruzione di
abilità tecniche, all’invenzione di valori individuali e sociali. I mezzi,
gli strumenti sono materia di indagine, esperienza e sperimentazione
e sono inscindibili dalle funzioni tecniche e dalle responsabilità e finalità dell’insegnamento-apprendimento.
2. Le più importanti ed evidenti tra le caratteristiche individuali e sociali di tutti gli esseri umani, tranne che nei casi di patologie gravi (e
nemmeno in tutte), sono:
a. l’infinita capacità e l’illimitato potenziale di creatività, che ciascun
uomo possiede;
b. il bisogno enorme d’immaginazione, che hanno ciascun uomo e la
comunità umana;
c. la sproporzione enorme tra il potenziale di attività intellettuale, di
esercizio della volontà, di funzionamento del senso estetico, creatività, immaginazione, padronanza nella capacità di giudizio, di
decisione, di ricerca, e l’uso effettivo e generalizzato di queste originarie e frustrate e spesso annullate potenzialità e qualità umane;
d. l’esigenza (magari inespressa) di progettare e produrre pensieri,
sentimenti, cose e fatti importanti, risultati positivi oggettivabili,
opere storicamente significative.
Obiettivo specifico della modalità pedagogica suggerita
In particolare, la proposta consiste nell’ascoltare la voce degli scolari, nel mettersi nella giusta relazione con loro, nel suscitare reazioni in
varie maniere e nel raccogliere e analizzare documenti prodotti dai ragazzi (lettere, autobiografie, pagine di diario, versi, canzoni, disegni,
disegni animati, filmati, scritti, manoscritti, manifesti, brevi esposizioni
di problemi, piccoli saggi ecc.): documenti che, una volta dibattuti insieme, diventano pubblicazioni, come libri, giornali, riviste, diari scolastici, foto, manifesti, registrazioni video-audio, Internet ecc.
Metodi e tecniche
Il metodo di ricerca didattica da parte dell’insegnante, che egli mette in comune con gli allievi, è quello stesso dell’indagine storicofilologica e della critica testuale (raccolta di documenti, analisi di testi,
collazione, esame delle occorrenze, classificazioni, comparazioni, lettu-
242
Capitolo VIII
ra critica ecc.), con specifica attenzione ai differenti contesti, alla attendibilità delle fonti, alla tipologia del destinatario ecc.
Questo metodo, e le tecniche che ne derivano, fanno leva, operativamente, sui seguenti aggregati di concetti (qui schematicamente annotati come promemoria):
Tipi di creatività. Strumenti di produzione creativa
– potenziale – mettersi in gioco
– derivata – brainstorming
– intenzionale – sdrammatizzazione dell’errore
– condizionata – contaminazioni disciplinari
– osservativa – enciclopedia pedagogica
– formativa – competenze specifiche
– traduttiva – stato dell’arte
– dialogica – novità di contenuto
– collettiva – esemplificazioni significative
– ripetitiva – qualità/quantità
– produttiva – documento-risultato
– comunicativa – tradizione, stili di pensiero
– indottiva – educazione indiretta
– moltiplicativa – fare, far insieme, far fare
– il punto di vista
– la prospettiva
Testi individuali e/o collettivi. Modo di pensare
– diario – filosofia del “come se”
– verbale – educabilità umana
– lettera – il “dato” e l’“assunto”
– intervista – il gioco
– giornalino di classe – la domanda e l’offerta
– documentari – l’intenzione
– egocentrismo/decentramento
– teatro, “messa in scena” – la mediazione
– film – il dover essere
– cd-rom – trasformazione
– mostre (evoluzione, rivoluzione)
– concorsi – pedagogia/antipedagogia
– produzioni “bambine” – attività/passività
– l’elementarmente umano
– il prodotto di “novità”
– uguale/diverso
– convergenza/divergenza
– tema della “vita”
Il Makarenko transculturale
243
Terminologia caratterizzante. Luoghi d’acculturazione
– provare – scuola materna
– errare – scuola elementare
– pasticciare – scuola media
– inventare – scuola secondaria superiore
– contare – università
– accreditare – società
– pubblicizzare – famiglia
– profittare – qui, lì
– valutare – mondo
– investire
Concretizzazioni. Il documento tra didattica e ricerca
– tesine d’esame – le parole accendi-ricerca
– tesi di laurea – binomi, trinomi d’invenzione
– il testo che non c’è – scrittura individuale
– il film che non c’è – scrittura collettiva
– il cd-rom che non c’è – il testo come test
– servizi di consulenza – il testo come pretesto
– costruzione di documenti – lo strumento prospettiva
– integrazioni bibliografiche – i perché-domanda
– integrazioni emerografiche – i perché-risposta
– spot pubblicitari – perché di perché
– finali multipli
– pensiero critico
Estensione del concetto di “prossimale”. Concetto di “collettivo misto”
– valore pedagogico della prossemica
– scienze della distanza e della vicinanza
– tra uomo e uomo
– tra adulto e bambino
– tra adulti e vecchi
– tra vecchi e bambini
– tra uomo e natura
– tra parole e cose
– tra parole e parole
– tra cultura e cultura
– tra disciplina e disciplina
– tra didattica e ricerca
Autori di riferimento:
Antonio Labriola, Collodi, Pinocchio (le “pinocchiate”), Maria Montessori, Lev S. Vygotskij, Antonio Gramsci, Anton S. Makarenko, John
244
Capitolo VIII
Dewey, Bertolt Brecht, Jerome Bruner, Cesare Zavattini, Eugenio Garin, Claude Lévi Strauss, Gianni Rodari, Italo Calvino, Charlie Chaplin,
Mario Lodi, Giovanni Mastroianni, Aldo Visalberghi, Guido Aristarco,
Muhammad Yunus, Gianni Amelio, Miloud Oukili, Franco Ferrarotti,
Claudio Magris ecc.
Artek 30 settembre 2003
In viaggio con Kant
10 agosto, mezzanotte. Stanco del viaggio da Catanzaro, me ne sto
finalmente ad Artek, in riva al Mar Nero, tranquillamente disteso sulla
famosa spiaggetta della dacia di Čechov. E contemplo il cielo, alla ricerca di stelle cadenti e di sogni da realizzare… Magari un altro viaggio,
per chissà dove…
Quando all’improvviso, vicino a me, viene a sedersi Kant che, parlando un po’ in tedesco un po’ in dialetto catanzarese, incomincia a
dirmi del “cielo stellato sopra di me e della legge morale in me”. Io però
lo ascolto e non lo ascolto, perché penso ai miei viaggi presenti e futuri.
Kant mi invita a fare due passi tra gli scogli che, sotto i nostri piedi,
diventano case e strade: le strade e le case di Köningsberg, le case e le
strade di Artek. E di Catanzaro.
C’è anche una chiesa, con campanile e orologio. Sul quadrante
dell’orologio, nessuna lancetta: solo numeri e numeri, corrispondenti
alle ore di tutti i Paesi del mondo in sincronia.
Mi lascio prendere sotto braccio da Kant; e, mentre passeggio con
lui, le vie cittadine diventano nuvole. Nuvole, che mi pare di guardare
dall’alto, come dal finestrino di un aereo.
Kant racconta dell’unico, emozionantissimo viaggio, di tutta la sua
vita: quello del luglio 1789, per andare incontro al messo che arrivava
da Parigi con la notizia della presa della Bastiglia.
Poi, quasi d’incanto, Kant e io ci troviamo nell’aula dove il filosofo fa
lezione di geografia e antropologia. Parla di viaggi e viaggiatori. E viene
a dire della lingue, che viaggiano per il mondo con le ali della traduzione. Ragiona del traduttore, che è un tipo particolare di viaggiatore...
Partenza di buon mattino dalla propria lingua, con carta, penna e vocabolario. Arrivo a notte inoltrata, ancora e sempre nella propria lingua:
però dopo un lungo viaggio nella lingua dell’altro…
Cammina, cammina, il traduttore è ora dentro la testa dell’autore da
tradurre: viaggia tra le sue parole e i suoi silenzi; discute con lui se dire,
non dire, come dire; se usare o meno questo o quest’altro termine; e,
insomma, sul modo di viaggiare verso la testa del lettore... Il lettore,
pure lui un viaggiatore: dalla propria lingua a quella dello scrittore,
passando per la lingua del traduttore.
Kant, finita la lezione, si dirige verso casa; e io con lui, giacché sono
suo ospite a pranzo. Il professore guarda e riguarda l’orologio: vuole
Il Makarenko transculturale
245
essere puntuale con i königsberghesi, che l’aspettano per mettere a posto le lancette al suo passaggio. Io non ho l’orologio e la cosa mi disturba molto…
Al mio risveglio, sulla spiaggetta di Artek, fa freddo. Ma le stelle, cadendo dal cielo, viaggiano ancora verso il mio sogno di un viaggio di sogno…
A Heidelberg? Ad Artek? A Catanzaro?
Artek 29 settembre-7 ottobre 2005
Frammenti di conversazione per il Centro internazionale per
l’infanzia “Artek” e per l’organizzazione filantropica internazionale “Educazione senza frontiere”.
– Mi scuso se non parlo nella vostra lingua (l’ukraino, la prima lingua
di Gogol’ e di Makaranko), ma la mia voce sarà quella di due belle e
brave studentesse del vostro Paese: e questo fa essere me fortunato e
tutti noi felici, credo, per la singolare circostanza interculturale che
viviamo.
– Sono d’altra parte molto contento di ritrovarmi qui assieme a colleghi che, grazie a Maria Serena Veggetti, ho avuto modo di conoscere
a Roma; ed emozionato per essere nella terra di Anton Semënevič
Makarenko… Vorrei provare a dire in che senso… E, per farlo, sono
costretto a parlare di me.
– Compio quest’anno il mio 35° anno di insegnamento. Infatti ho cominciato la professione del professore nel 1969, in un’università del
Sud d’Italia; e ho continuato nella scuola media, inferiore e superiore; quindi nell’università. Non conoscevo Makarenko, ma ho imparato a conoscere e a mettere didatticamente in pratica altri momenti
della pedagogia, che hanno per così dire preparato il terreno per
l’incontro con il Poema pedagogico (che è avvenuto solo all’inizio
degli anni Novanta):
– Antonio Labriola (il fondatore della cattedra romana di Pedagogia,
educatore insigne e grande studioso della psicologia dei popoli);
– Antonio Gramsci (che, pur senza conoscere Makarenko, fa discorsi
molto simili ai suoi sull’infanzia, su libertà e disciplina, su individuale e collettivo ecc.);
– John Dewey (importante per i concetti di “matrice biologica” e “matrice culturale” dell’esperienza, di “indagine scientifica” e “senso comune”, di “interazione” e “transazione”);
– Jean Piaget e Lev Semënovič Vygotskij (il primo, in generale, per i
concetto di “stadio di sviluppo” e per la sua idea di genesi, di epistemologia genetica; il secondo, in particolare, per l’importanza che dà
alla dimensione storico-culturale, ai contesti d’esperienza, alla plasticità della crescita mentale e morale degli individui e dei collettivi);
246
Capitolo VIII
– Mastery learning: che, com’è noto, è una tecnica didattica proposta da
alcuni autori di cultura anglosassone; una tecnica che, sulla base della
lettura di Labriola, Gramsci, Dewey (ma anche di Piaget, Calvino, Rodari, don Milani ecc.), io ho provato ad adattare all’ambiente montanaro, calabrese, culturalmente deprivato, in cui mi trovavo a operare.
Per schematizzare:
1. Motivazione, interessi
Potenziale critico,
sconosciuto, infinito:
Muhammad Yunus
Brainstorming
Autobiografia come educazione
2. Gioco (mettersi in gioco)
Lavoro (come gioco)
Ludiforme (Visalberghi)
Fattore tempo
Tempo soggettivo, oggettivo
La storia, materia privilegiata
Indagine scientifica
e senso comune (o buon senso)
3. Educazione estetica
Emozione
Handicap come risorsa
Prospettiva
Didattica/ricerca-ricerca/didattica
Applicazioni possibili
4. Coinvolgimento dei competenti
Zona di sviluppo prossimale
Produzione di un risultato
individuale socialmente
controllabile
Comunicazione critica
Divulgazione scientifica
30 novembre 2005
EUROPEAN COMMISSION
Directorate-General for Education and Culture
Culture and Communication
Culture
Oggetto: Progetto del prof. Nicola Siciliani de Cumis – Cultura 2000,
per l’anno 2006.
Il Makarenko transculturale
247
Il sottoscritto prof. Nicola Siciliani de Cumis, ordinario di “Pedagogia generale e sociale” nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, d’accordo con il Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della medesima Università (vedi l’allegato verbale del Consiglio di Dipartimento), porge domanda per accedere ai finanziamenti
finalizzati al Progetto Cultura 2000, per l’anno 2006.
Tale domanda è innanzi tutto sostenuta dall’Archivio centrale dello
Stato di Roma, specificamente interessato ai contenuti del progetto e ai
suoi sviluppi (vedi l’allegata lettera d’intenti). Archivio centrale dello
Stato che, in caso di finanziamento, sarebbe la sede istituzionale dell’archiviazione emerografica, su cui si fonda il progetto.
Progetto che coinvolge i seguenti partner internazionali: 1. Centro
internazionale per l’infanzia Artek (Yalta); 2. Istituto universitario umanistico di Artek (Yalta); 3. Università Dragomanov di Kiev.
Tuttavia sono anche altri i soggetti pubblici che, in Italia e all’estero,
si sono avvalsi e si avvalgono dell’opera del proponente, in quanto oggettivamente supportata dalle documentazioni emerografiche proposte
ai sensi del progetto.
Così in particolare:
– Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”;
– Centro interdipartimentale servizi – Biblioteca di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”;
– Fondazione Gentile, Università “La Sapienza” di Roma;
– Fondazione Istituto Gramsci di Roma;
– Archivio di Stato di Roma;
– Associazione “Slavia” di Roma;
– Università dell’Accademia russa dell’istruzione di Mosca;
– Centro internazionale dell’infanzia di Artek (Ucraina);
– Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico”, di Roma;
– Opera Montessori di Roma;
– Università di Castel Sant’Angelo per l’educazione permanente dell’UNLA (UCSA), di Roma;
– Archivio nazionale del diario di Pieve Santo Stefano (Arezzo);
– Archivio Cesare Zavattini di Roma;
– Opera “Don Guanella” di Roma;
– Comunità montana della Presila catanzarese, di Taverna (Catanzaro);
– Liceo classico “P. Galluppi” di Catanzaro.
Quanto alla specificità dei contenuti di cui tratta il Progetto, si rinvia
pertanto al testo dell’allegato Progetto di costituzione e funzionamento
di un Archivio-laboratorio per l’acquisizione di testi e competenze idonee alla conservazione, alla fruizione e all’uso di documentazioni emerografiche tra Novecento e Duemila. E, per ognuna delle fasi di attuazione, se ne sottolineano la rilevanza culturale, scientifica, archivistica,
nonché le evidenti ricadute di carattere formativo, educativo e sociale.
Non è un caso, infatti, che già nella fase della loro graduale raccolta, i materiali emerografici ora proposti per un’archiviazione sistematica ai sensi del progetto siano variamente risultati essenziali per tutta
248
Capitolo VIII
una serie di qualificate attività universitarie e culturali. Delle quali si
fornisce qui un elenco sommario:
1. Pubblicazione di libri, saggi, articoli, cataloghi di mostre, dossier di
diverso tipo, sia da parte del proponente, sia da parte di suoi collaboratori e altri quadri di ricerca nello stesso ambito universitario, ovvero di altre università;
2. Preparazione di tesi di laurea e di dottorato di ricerca, poi diventate
apprezzate pubblicazioni in collane editoriali e riviste accademiche;
3. Integrazione, scientificamente indispensabile, di ricerche storiche
d’archivio, bibliografie, emerografie e sitografie internet;
4. Supporto didattico, a esplicita valenza euristica. per corsi universitari e d’istruzione superiore;
5. Documentazioni significative, per ricerche scolastiche d’ogni ordine
e grado;
6. Contributo a iniziative nazionali, regionali e locali sul “giornale in
classe”, come strumento di didattica e di ricerca;
7. Materiali originali per mostre documentarie e didattiche in diversi
ambiti;
8. Informazioni di tipo enciclopedico, utilizzabili in una gamme pressoché infinita di ricerche.
Con osservanza,
prof. Nicola Siciliani de Cumis
Roma, 13 marzo 20071
Per una giornata di studio su “Artek”, a Roma “La Sapienza”
Sono personalmente lieto e professionalmente onorato di partecipare a questo incontro con il rettore Viktor Andrushenko, i colleghi Boris
Novozhilov, Olga Griva, Giuseppe Boncori e Maria Serena Veggetti.
Mi piace quindi sottolineare l’eccezionalità della esperienza di Artek, da diversi punti di vista: da quello, intanto, dei suoi 82 anni di storia, nelle varie fasi della sua crescita, tra continuità e discontinuità; da
quell’altro, della sua natura pedagogica, tra educazione e scienze dell’educazione…
Sottolineerei, quindi, l’idea che a mio parere è l’idea più significativa
di tutta l’impresa formativa di Artek: l’idea cioè dei “gruppi misti”. Ed è
ciò che rende possibile gli ottimi risultati ottenuti… Gruppi misti per
1 Si tratta del testo di un intervento svolto il 13 marzo 2007, in occasione di una
giornata di studi sul tema “Orientamento e scelte scolastico-occupazionali. Prima
indagine sperimentale in Italia, Ucraina, Crimea, Russia”, coordinata dai colleghi
Giuseppe Boncori e Maria Serena Veggetti. Cfr. quindi: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Facoltà di Filosofia. Corso di laurea in Scienze dell’Educazione e
della Formazione. Corso di Laurea Specialistica in Pedaogia e scienze dell’educazione
e della formazione, Scambi internazionali, rapporti accademici, relazioni di ricerca,
a cura di G. Boncori e M.S. Veggetti, Nuova cultura editrice, Roma 2007, pp. 13-14.
Il Makarenko transculturale
249
età, cultura, nazionalità, competenze… Ed è un’idea che viene da lontano; e che, per quanto in una diversa situazione pedagogica, io ritrovo
già nell’opera di Makarenko.
Direi, quindi, che il segreto del successo del modello “interculturale” proposto oggi da Artek, nella prospettiva di una grande casa comune
europea, sta proprio nel “gioco” delle differenziazioni e delle omogeinizzazioni delle competenze, dalla scuola elementare all’università; e,
su un altro piano, nel “gioco” che ne risulta, tra la specificità delle nostre distinte tradizioni culturali e pedagogiche e la ricerca di tradizioni
comuni europee.
In questo senso, sarebbe importante riprendere la pratica del Concorso internazionale di didattica di Artek…
Essenziali sono risultati poi i tirocinii dei nostri studenti ad Artek.
E, sempre sull’argomento “Artek”, disponiamo degli elaborati scritti di
laurea di alcuni nostri laureati… Del dottorato di ricerca di Igor Rivnyj,
molto impegnativo e produttivo, si è detto. E, a proposito di ciò che ci
informava il rettore Andrushenko dell’Università Dragomanov di Kiev,
aggiungo che anche qui da noi abbiamo tesi di laurea sulle canzoni, lo
sport e altro ancora… Sarebbe quindi molto interessante potere confrontare i risultati dei nostri prodotti universitari.
Anche per questo, adesso, aspettiamo la “reciproca”: e di avere qui
da noi, come attivi visitatori, gli studenti tirocinanti di Artek. E, dunque, i necessari riscontri critici, da parte dei ricercatori russi e ucraini
interessati all’indagine universitaria romana curata dai proff. Boncori e
Veggetti, con la collaborazione della dott. Chiara Maddaloni e del prof.
Giuseppe Ferrara… Un’indagine, questa, che, per ciò che le mie competenze mi consentono di dire, a me pare assai seria e ricca di prospettive.
Ai colleghi ospiti mi permetto, con l’occasione, di segnalare alcuni
siti Internet, dove è possibile, o sarà possibile presto, leggere delle nostre attività scientifiche e didattiche su Artek:
http://www.slavia.it
http://www.makarenko.it
http://www.cultureducazione.it
http://www.eroemaicantato.it
http://www.piccologenio.it
http://www.uniroma1.it
http://www.nextly.org/educational/profsiciliani.html
Luglio-agosto 2008
Corrispondenze telefoniche Ucraina-Italia.
Per un Catalogo ragionato sul Museo di Artek
1. Gent.mo Prof. Siciliani,
sono Francesco Tamburrino, proprio oggi ho parlato con Olga Moiseeva del catalogo e mi ha detto che non ci sono problemi, a giorni farò le
250
Capitolo VIII
foto. Non smetterò mai di ringraziarLa per aver permesso insieme alla
Gent.ma Prof.ssa Veggetti questa meravigliosa avventura!
A presto, Francesco Tamburino
Messaggio ricevuto il 20.07.2008
RISPOSTA: Si goda fruttuosamente l’esperienza. Mi saluti affettuosamente Ol’ga e tutti gli altri.
Aff.te N.S. 20 Luglio 2008
2. Gent.mo Prof. Siciliani de Cumis,
sono Tamburrino. Volevo informarLa che ho iniziato il lavoro da Lei
richiesto, le stanze sono 5, per questo lavorerò tutta la prossima settimana!
Cordialmente Francesco Tamburino
Messaggio ricevuto il 26.07.2008, ore 14.05
RISPOSTA: Buon lavoro, un saluto.
3. Gent.mo Prof. Siciliani de Cumis,
sono Tamburrino! Volevo dirLe che se non ci sono problemi domani
terminerò il lavoro al museo! Per quanto riguarda il mistero della quinta stanza ne ho parlato con Olga Moiseeva e domani spero di lavorare
su quella!
Cordialmente Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 4.08.2008
RISPOSTA: Bravo.
4. Grazie! Sto rileggendo Makarenko ed è ancora più entusiasmante
farlo qui!!!
Messaggio ricevuto il 4.08.2008
5. Gent.mo Prof.,
sono nella misteriosa quinta stanza… Ho fatto una foto mentre una
gentile signora mi stava aprendo la porta!
Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 5.08.2008
RISPOSTA: Fotografi, fotografi anche il cuore della signora e tutto
della stanza.
6. Ho fotografato centimetro per centimetro tutta la stanza, è stato leggermente difficile “fotografare” il cuore della signora…!!!
Il Makarenko transculturale
251
Messaggio ricevuto il 5.08.2008
7. Gent.mo Prof.,
non riesco a capire perché in tutto il museo di Artek esiste la foto di
Gorkij e non quella di Makarenko! Sono leggermente deluso, anche
perché il ragazzo e la ragazza che mi hanno accompagno le prime volte
non mi hanno saputo dare una risposta!
Cordialmente, Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 6.08.2008
RISPOSTA: Nel nostro catalogo la foto ci sarà, con il suo messaggio meravigliato e la mia risposta… Al vecchio Anton la cosa non dispiacerebbe..
8. Vedendoci, mi ricordi di darle la foto di Makarenko ad Artek. Una
vera sorpresa!
Messaggio mandato il 6.08.2008
Non vedo l’ora di vedere la foto in questione… E anche di rivedere
Lei Gent.mo Prof. Siciliani, temo che le ore del ricevimento non basteranno per raccontarLe la meravigliosa esperienza vissuta in questo incantevole Centro Pedagogico!!
Con affetto il suo studente Tamburrino
Messaggio ricevuto il 6.08.2008
9. Gent.mo Prof. Siciliani de Cumis,
La informo che lunedì farò l’ultima visita al museo, per controllare
tutto il lavoro fatto in questi giorni. Parto per Roma mercoledì 13!
Cordiali saluti, Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 9.08.2008
RISPOSTA: Mi raccomando la numerazione progressiva delle singole foto; e foto delle pareti. E informazioni sui contenuti di ciascuna
foto. Tutte le foto vanno datate. Pensi fin d’ora a didascalie. E scriva i
nomi, i cognomi e i patronimici.
Un saluto a tutti..
10. Penso di aver fatto tutto quello che Lei mi ha chiesto! Singole foto,
foto pareti ecc… Le informazioni su ogni singola foto le ho in russo
sempre fotografate.
Messaggio ricevuto il 10.08.2008
RISPOSTA: Bene!
252
Capitolo VIII
11. Gent.mo Prof. Siciliani,
Olga Moiseeva mi ha dato una dispensa sul vecchio Anton per Lei!
Io sono a Kiev, ho il volo per Roma alle 17, ma non vorrei prenderlo…
Cordialmente Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 13.08.2008
RISPOSTA: Pensi fermamente che ritornerà!
12. Gent.mo Prof. Siciliani de Cumis,
leggendo il Corriere della sera di oggi ho appreso tante atroci notizie,
mi riferisco alla situazione che sussiste tra Russia e Georgia. Un mese fa
bambini russi e della Georgia ad Artek sventolavano insieme le loro
bandiere, con un sorriso meraviglioso sui loro volti, ora quel sorriso sarà traviato da quella “BESTIA FEROCE”, non riesco a credere alla triste realtà, a volte penso che questo viaggio sia stato solo un bel sogno!
Cordialmente, Francesco Tamburrino
Messaggio ricevuto il 20.08.2008
RISPOSTA: Il nostro compito è quello di agire come se le guerre
non ci fossero, ma anche di capirne l’atroce perché.
2. A proposito di un volume di Gianluca Consoli2
Indice generale del libro3
Premessa
Tra narratologia e metodo storico-critico
Introduzione
Finzione, poiesis, praxis
1. Per una nuova interpretazione
2. Canoni ermeneutici per il Poema pedagogico
3. Realtà e finzione
4. Poema e poiesis
5. La soggettività astratta
6. Un mondo deprivato di senso
7. Le avanguardie
8. Romanzo e soggettività
9. Un meccanismo che gira a vuoto
9
13
16
24
29
32
35
38
45
47
2 Romanzo e rivoluzione. Il Poema pedagogico di A.S. Makarenko come nuovo
paradigma del racconto, ETS, Pisa 2008.
3 La numerazione che segue a ogni paragrafo ripropone quella del volume di G.
CONSOLI, op. cit.
Il Makarenko transculturale
253
10. L’altra via: il collettivo
11. Tra rivoluzione politica e innovazione letteraria
51
57
Capitolo primo
Il Poema pedagogico: una nuova tipologia del romanzo
di formazione
1. Realismo e umanesimo
2. Biografia ed extralocalità
3. La formazione del collettivo
4. Oltre il romanzo
5. Una nuova tecnica di narrazione
63
69
75
80
86
Capitolo secondo
La prima parte del Poema pedagogico: dal racconto
tradizionale alla polifonia del collettivo
1. Un nuovo paradigma del racconto
e la sua autorappresentazione
2. I due centri del racconto
3. La genesi della nuova forma
4. La polifonia del collettivo
91
94
99
134
Capitolo terzo
La terza parte del Poema pedagogico e la configurazione
della fine: un problema irrisolto
1. Il potere strutturante della conclusione
2. Le difficoltà di chiudere
3. La configurazione della fine
4. Il regresso del racconto
145
147
151
186
Conclusione
Forma letteraria e forma pedagogica
1. La concordanza tra forma letteraria e forma pedagogica
2. La forma pedagogico-letteraria: da Rousseau a Makarenko
193
194
L’esperienza e la forma, di Nicola Siciliani de Cumis
203
Bibliografia
213
Indice delle tematiche
Indice dei nomi
219
223
L’esperienza e la forma
Sono più d’una le ragioni per le quali si vorrebbe che questo libro di
Gianluca Consoli fosse letto e discusso, proprio a partire dal punto di
vista “paradigmatico-letterario” prescelto dall’autore, nei limiti espliciti
dell’indagine e considerati gli obiettivi scientifici perseguiti. Ciò che ne
254
Capitolo VIII
risulta, è quindi, innanzi tutto, una propedeutica alla lettura del Poema
pedagogico di Anton Semënovič Makarenko tra rivoluzione, letteratura
e pedagogia: e, dunque, un osservatorio in fieri su un’attività di ricerca
educativa, narrativa ed etico-politica “eminentemente sperimentale”,
nel gioco di “novità euristica” e “paradigma di concordanza”, “avanzamenti della prospettiva” e “arretramenti della narrazione”.
Egualmente, sarebbe auspicabile che proprio il modo durevolmente
difettoso in cui l’opera di Makarenko è circolata fin qui nella cultura italiana nell’arco di oltre mezzo secolo (basta un rapido confronto delle
due traduzioni nostrane esistenti del Poema pedagogico con la recente
edizione critica di Marburgo, per rendersene subito conto)4, traesse ora
i necessari motivi di chiarimento e, come sembra, di risarcimento,
non attraverso un’operazione ermeneutica meramente ripetitiva, ma rinnovando l’interpretazione che per lo più si è data dello stesso Poema pedagogico […]
attraverso l’applicazione di alcune categorie euristiche della tradizione estetica,
linguistica, semiotica e della critica letteraria,
sì da mettere in luce
che il Poema pedagogico rappresenta uno dei momenti più alti della letteratura
del Novecento. […] Dall’onniscenza e dall’onnipotenza al dubbio e alla responsabilità, dalla fissità al divenire, dalle illusorie certezze dell’astrazione alle fragili
costruzioni della prassi: questo è il paradigma di concordanza sviluppato dal
Poema pedagogico, paradigma che lega insieme, in un’unità inscindibile, la
nuova forma pedagogica e la nuova forma letteraria (pp. 15 e 202).
Ciò che si augura, in altri termini, è che il saggio monografico di
Consoli (assieme ai recenti, significativi contributi italiani su Makarenko, di Agostino Bagnato, Bruno Bellerate, Franca Chiara Floris, Emiliano Mettini, Domenico Scalzo) collabori a smuovere le acque stagnanti
degli studi makarenkiani in Italia, nella direzione invece di un Makarenko scrittore ed educatore finalmente a tutto tondo. Il quale risulti,
nella sua specificità, tanto più vitale, veritiero e ricco di sensi, quanto
più sia contestualmente restituito alla “letteratura” ma in presenza
dell’“educativo”, al “pedagogico” perché in prossimità del “letterario”, e
all’uno e all’altro però alla luce dello “storico-politico”, e dunque tenendo d’occhio i diversi registri di questo romanzo di formazione, nella sua
unitarietà e complessità poematica: vale a dire sia compositiva, per ciò
che attiene all’azione dello scrittore Makarenko e alla peculiarità antiletteraria della sua poetica; sia trasformativa, con riferimento al portato antipedagogico della creatività indotta del Poema, come messa in
scena dell’arte del fare (e del far fare) e del fare (e del far fare) con arte:
4 Cfr. A.S. MAKARENKO, Pedagogičeskaja poema, Čast’ 1, 2, 3, in Gesammelte
Werkb. Marburger Ausgabe. Herausgegeben von Leonhard Froese, Götz Hillig,
Siegfried Weitz, Irene Wiehl, Makarenko-Referat der Forschungsstelle für Vergleichende Erziehungswissenschaft, Philipps-Universität Marburg (Band 3, 4, 5), 1982.
Il Makarenko transculturale
255
ovverosia dell’agire, del fabbricare, del costruire, del lavorare, del comporre, del formare, del plasmare, del produrre, del trasmettere, del celebrare, dell’inventare, del creare creatività.
In questo senso, l’interesse del lavoro di Consoli sta proprio nel tentativo di riavvicinare oggi la materia letteraria sui generis del Poema
pedagogico al portato di una sensibilità storico-critica intrinsecamente
innovativa. Ed è significativo che ciò avvenga con l’ausilio di una ricca
gamma di riferimenti diretti e/o indiretti a noti paradigmi del romanzesco e del pedagogico: i quali adesso, in presenza del plurivoco Makarenko, sembrano quasi costituire una sorta di prismatico “reparto misto”
(“la più importante delle mie invenzioni pedagogiche”, secondo Makarenko), con la partecipazione straordinaria, diresti, di Hegel, Balzac,
Stendhal, Sade, Melville, Dostoevskij, Lev Tolstoj, Zola, Tozzi, Musil,
Proust, Joyce, Kafka, Pirandello, Gramsci, Lukács, Adorno-Horkheimer,
Benjamin, Heidegger, Sartre, Šklovskij, Merleau-Ponty, Faulkner, Dos
Passos, Camus, Virginia Woolf, Moravia, Pasternak, Solženicyn, Beckett,
Jonesco, Stridberg, Bachtin, Debenedetti, Barthes, Gadamer, Lotman,
Ricoeur, Habermas, Rorty, Platonov, Calvino, Strada, Freire, Visalberghi, Bellerate, Garroni, Eco, Brooks, Magris, Montani, Di Giacomo, Moretti ecc.
Riferimenti storico-critici di una possibile “polifonia del collettivo”
(tra Bachtin e Makarenko), di un virtuale “stile di pensiero” (tra Ludwig
Fleck e Makarenko), che garantendo a monte solidità e flessibilità ermeneutica alla lettura di Consoli, favoriscono variamente la novità
dell’approccio interpretativo ulteriore. Che consiste innanzitutto nel
proposito metodologico di accostarsi al Poema pedagogico “secondo il
Poema pedagogico”: e non, come spesso è accaduto e accade, per l’estrinseca incidenza di idòla, che hanno ridotto Makarenko ora a ferrivecchi dello stalinismo, ora a cantore di un’inesistente utopia…
Proprio a Makarenko doveva capitare: proprio a lui che, avendo in
odio la nostalgia (un caso particolare di stasi), finì col muoversi in una
prospettiva pedagogica, letteraria ed etico-politica tutt’altro che staliniana o utopica, anche se dall’interno di una congiuntura biografica e di
una temperie ideologica, che sono quelle della Rivoluzione d’Ottobre e
della costruzione dello homo novus sovietico. Di qui la proposta di una
rilettura del Poema pedagogico, niente di meno e niente di più, che un
“romanzo d’infanzia”: il romanzo o, meglio, il poema dell’infanzia dell’“uomo nuovo comunista”5.
Ecco perché è da sottolineare l’utilità e la fecondità dell’attuale tentativo di Consoli di assemblare in un unico discorso differenti istanze
critiche, tuttavia puntualmente convergenti nell’unico obiettivo di
un’equanime considerazione del Poema pedagogico, all’incrocio di urgenze etico-politico-pedagogiche rivoluzionarie e teoria e pratica del
romanzo di formazione. In particolare, si vuol evidenziare la pertinenza
5 Per un’interpretazione in tal senso, sia consentito rinviare al mio I bambini di
Makarenko. Il Poema pedagogico come “romanzo d’infanzia”, cit.
256
Capitolo VIII
di certe analisi o supposizioni o illazioni, rivolte a sottolineare il fatto
che, se il Makarenko educatore è uno sperimentatore di forme pedagogiche affatto nuove, in presenza del “vecchio” che resiste e coesiste, egli
è però anche uno scrittore che sperimenta un ordito narrativo e drammaturgico “altro”, “eversivo”, “esplosivo”, del tutto coerente con l’assunto “antiletterario” e “antipedagogico” del romanzo (“l’arte è ‘figlia
dell’esplosione’”, citando Lotman).
Di qui, probabilmente, quella sorta di eroismo poematico double
face, diresti, dello scrittore e dell’educatore Makarenko, che nella misura in cui si alimenta del formativo in letteratura, finisce col conferire
alla forma letteraria una costitutiva, intrinseca capacità pedagogica. Infatti:
A differenza di quanto Adorno rileva in generale a proposito del realismo
socialista, l’atteggiamento di fondo che sorregge il Poema pedagogico, la ricerca
di una nuova immanenza di senso, si lega a una corrispondente e inevitabile riformulazione delle strutture narrative, una trasformazione così profonda da assumere i tratti di una vera e propria ri-fondazione del genere romanzo su nuove
basi formali […]. Anche seguendo questa linea del pensiero di Ricoeur, occorre
riconoscere che Makarenko si colloca a pieno titolo in quel movimento di sperimentazione tipico del romanzo moderno e contemporaneo. Se si tiene presente come le strutture della narrazione si modifichino nel corso del testo, configurando per larga parte del romanzo modalità narrative assolutamente inedite,
salta agli occhi come il paradigma di ordine sotteso al Poema pedagogico sia
“raffinato” e “labirintico”, per riprendere due aggettivi di Ricoeur. […] Anche se
raramente è stato sostenuto, il Poema pedagogico è un romanzo eminentemente sperimentale. Come si è ampiamente dimostrato nel corso dell’indagine, nel
testo di Makarenko si assiste a una radicale riconfigurazione delle modalità della narrazione secondo prospettive che la letteratura occidentale non ha mai intrapreso (pp. 54, 147, 189).
Pedagogia e letteratura (ma meglio sarebbe parlare di antipedagogia
e antiletteratura), nell’opera di Makarenko, finiscono infatti organicamente (sperimentalmente) col coincidere. Di modo che nel romanzo
come work in progress, anche quando ci si trova di fronte a una impasse creativa (e ciò accade puntualmente in concomitanza di precisi momenti di stasi etico-pedagogica), tale impasse tende a farsi essa stessa
“poema”: perché i meccanismi compositivi avviati e fatti agire da Makarenko, nel raffigurare le due “fronti” del proprio Giano “pedagogico” e
“letterario”, sono tali da risultare elasticamente, cioè funzionalmente,
una cosa sola. Il Makarenko scrittore, tra realtà e invenzione, che fa
parlare il pedagog “personaggio uomo” (Debenedetti), con tutte le sue
contraddizioni storiche e i suoi squilibri pedagogici, psicologici, ideologici, letterari ecc., va visto pertanto sempre unitariamente, nelle sue ibridazioni e limitazioni, nelle sue possibilità e virtualità poematiche.
Così nell’Epilogo del Poema pedagogico, a proposito del quale
Consoli esprime le sue riserve:
Il Makarenko transculturale
257
La fine, tuttavia, non è al livello di ciò che la precede. Più radicalmente: la
fine tradisce non solo il contenuto politico e pedagogico del romanzo, ma anche
lo statuto sperimentale del testo (ibidem).
In realtà, pur tra le effettive difficoltà narrative e, quasi, le impossibilità espressive che l’operazione comporta, Makarenko intende rappresentare contemporaneamente (dialetticamente) una situazione di
stasi e un’affermazione della prospettiva (sia come dimensione “storica”, sia come “gioia del domani”). In questo senso, si tratta di una “conclusione” della vicenda, che potrebbe anche essere un “inizio” della storia: un po’ come succede negli “epiloghi” della parte prima e parte seconda dello stesso Poema pedagogico; e come accade in capitoli del tipo
“Sulle strade accidentate della pedagogia”, “Ai piedi dell’Olimpo” ecc.
Makarenko è anche qui, invece, due volte se stesso: lo è come “eroe”
di una qualche “storia conclusa”, tra dolore individuale e soddisfazione
del collettivo, e lo è come “autore”, nella stessa dichiarata, sofferta difficoltà di rappresentazione. E lo si può ascoltare, nella sua ambivalenza,
perfino nei silenzi che accompagnano sapientemente la sovrabbondanza di parole sulla “fine” o, meglio, sulla “fine della fine”. E lo si ritrova
addirittura, se così si può dire, nella peculiare carenza di maieutica della prospettiva: e, dunque, nel medesimo scontento letterario e pedagogico indotto, che produce nel lettore; meglio, nell’anti-lettore, anche lui,
in un certo senso parte in causa nell’addio ai ragazzi, al Poema, a Makarenko, all’infanzia dell’“uomo nuovo”.
È pertanto lo stesso concetto di “epilogo”, letterariamente funzionale all’anti-letteratura del “poema”, a essere in tal modo, se così si può
dire, anti-pedagogicamente makarenkiano (cioè pedagogicamente antimakarenkano), perché espressione letteraria negativa, ovvero positiva
negazione pedagogica del concetto di “prospettiva” (contenuto e forma). Ed è nella reale contraddittorietà dei processi di rappresentazione
del collettivo, che si consuma il dramma umano, etico-politico, letterario, educativo, filosofico ecc., del Makarenko uno e molteplice, “autore”
ed “eroe” del Poema pedagogico.
Per l’appunto, in tema di collettivo (elemento strutturante del paradigma narrativo ancorché etico-politico-pedagogico makarenkiano), c’è
un brano, non compreso fin qui nelle traduzioni italiane del Poema, che
aiuta forse a penetrare meglio l’intreccio implicito-esplicito di stasi,
scoppio, prospettiva, rischio, riformulato da Makarenko nell’Epilogo.
Un brano che aiuta, tra l’altro a capire le difficoltà, lo spessore e insieme l’ineffabilità del finale, come narrazione della fine (la conclusione
della storia) ed esposizione del fine (lo scopo ulteriore) della storia.
Dopo aver raccontato degli ex colonisti della “Gor’kij”, di quelli di
cui negli ultimi sette anni aveva potuto conoscere la sorte e degli altri
ragazzi finiti chissà dove, “persi” forse per sempre, Makarenko viene a
dire contemporaneamente della “morte del collettivo gor’kijano” protagonista del Poema pedagogico e del “collettivo della “comune Dzeržinskij”“, che “vive tuttora una vita piena, sulla quale si potrebbero scrive-
258
Capitolo VIII
re diecimila poemi” (del tipo di Bandiere sulle torri, dello stesso Makarenko). Segue quindi una presa di posizione polemica dello scrittoreeducatore contro l’andazzo prevalente nell’”Olimpo pedagogico”, che è
al tempo stesso una dichiarazione di fiducia nell’intelligenza del “paese
dei collettivi”:
Nel paese sovietico si scriveranno libri sul collettivo, perché il paese sovietico è essenzialmente un paese dei collettivi. E si scriveranno certamente libri più
intelligenti di quelli scritti dai miei amici dell’Olimpo, che erano capaci di dare
simili definizioni del collettivo:
“Il collettivo è un gruppo di individui interagenti i quali reagiscono unanimemente a determinati stimoli”.
E continua:
Provate a chiedere agli autori di questa fandonia: come si fa a distinguere un
collettivo da una colonia di polipi? No, altre persone forniranno nuove definizioni del collettivo e innanzi tutto scriveranno come bisogna conservarlo, educarlo alla lotta e come valorizzare la sua vita felice.
I collettivi sono come gli individui: possono morire non solo di vecchiaia,
ma possono venire meno anche nel pieno fiorire delle loro forze, delle loro speranze, dei loro sogni, nell’arco di un giorno soffocato dai batteri che possono
soffocare anche una singola persona. E nei libri del futuro si possono trovare i
tipi di medicine e disinfettanti contro tali batteri. Tutt’ora è noto che anche la
minima dose di NKVD,6 in casi simili, ha un ottimo effetto. Io stesso ho avuto la
possibilità di osservare con quale rapidità morì il professore Čaikin quando da
lui si avvicinò un agente autorizzato dal GPU.7 Come presto si raggrinzò la sua
mantiglia da intellettuale, come l’aureola dorata cadde dal suo capo rotolando e
risuonando sul pavimento, e come facilmente il professore si trasformò in un
comune bibliotecario. Ebbi la fortuna di vedere come l’”Olimpo” incominciò a
formicolare e a disperdersi, salvandosi dai medicinali efficaci e dalle disinfezioni
della ČEKA.8 Come le sottili zampette dei singoli coleotteri cominciarono a dibattersi, come giunsero a morire lungo la via verso le fessure e verso un angolo umido, senza neppure pronunciare una singola sentenza. Io non provai dispiacere, non mi contorsi dalla compassione: ciò che rappresentava l’Olimpo non era
niente altro che il nido di batteri, che qualche anno prima aveva sterminato la
mia colonia.
La nostra vita è più forte senza batteri. Anche se il collettivo dei gor’kijani è
morto, al suo posto sulle fondamenta di Kurjaž sono nati nuovi collettivi, alcuni
dei quali non ce la hanno fatta a crescere sul terreno inquinato dei batteri; però
il collettivo dei gor’kijani non è morto senza lasciare alcuna traccia. Come le
6 Sta per Narkomvnudel, cioè Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del (Commissariato popolare degli affari interni).
7 Sta per Gepeù, cioè Gosudarstvennoe Političesckoe Upravlenie (Direzione politica statale), che operò in URSS dal febbraio al dicembre 1922.
8 Era la polizia segreta: la Črezvyčajka, cioè la Črezvyčajnaja Komissija po bor’be
s kontrrevoljuciej i sabotažem (Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio).
Il Makarenko transculturale
259
persone anche i collettivi hanno i loro eredi, i quali vivono meglio, più belli, più
ricchi e più felicemente dei loro genitori.9
È per l’appunto in brani “conclusivi” dell’Epilogo come questo, che
Makarenko, rinviando da par suo anche “a una formula educativa monologica valida in maniera universale”, non “smentisce”, se mai enfatizza, “la multiformità dell’esperienza, la pluralità della soggettività, l’essenziale ruolo formativo che ha il legame tra l’educatore e l’educando e
quello tra l’educando e il collettivo”. Non c’è dubbio che, “con il solito
procedimento delle allusioni, tutti i capisaldi della nuova pedagogia
scoperti con fatica nel corso del romanzo vengono mandati in crisi”; e
che “l’arretramento di stampo letterario e pedagogico è, inevitabilmente, anche un arretramento politico” (p. 188). Ma è proprio questo il
punto.
Intanto il finale tradisce non solo il contenuto politico e pedagogico
del romanzo, ma anche lo statuto sperimentale del testo, in quanto
all’uno e all’altro Makarenko (il Makarenko personaggio, il Makarenko
scrittore e educatore e politico) non intende affatto rinunziarvi. Non è
solo che, per usare le parole di Peter Brook ricordate da Consoli, “quando il finale sopraggiunge, ci troviamo di fronte a uno stallo, piuttosto
che a una vittoria” (p. 189): questo c’è, e come se c’è. Però c’è anche il
fatto che, nell’Epilogo, lo stallo, la stasi nella lingua di Makarenko, è
contemporaneamente un triplice stallo: oltre che letterario, pedagogico
e politico.
Siamo sì alla fine (controversa) dell’avventura pedagogica; alla fine
(difficoltosa) della rappresentazione letteraria; ma siamo pure all’inizio
(doloroso) della fine di un’epoca. Makarenko scrive nel 1935. Nel dicembre del 1934, il “delitto Kirov” (Sergej Kostrikov Kirov), assai più
che un campanello d’allarme, è l’incipit della destabilizzazione della rivoluzione nata dall’Ottobre. L’anti-pedagogia e l’anti-letteratura di Makarenko non possono onestamente non risentirne. Come? Anzitutto
come rappresentazione di una scepsi: rappresentazione, cioè, dell’ambiguo riaffacciarsi “del paradigma pedagogico-letterario basato sull’onniscenza e sull’onnipotenza”, della consapevole messa in crisi della
“piena circolarità tra pedagogia e letteratura” per le avances dell’”educatore onnipotente” e del “narratore onniveggente” (p. 148).
Per quanto in presenza di un agire pedagogico senza più ulteriorità
pedagogica, e nell’ambito di un racconto ormai destituito delle sue ragioni poetiche, la narrazione venga radicalmente a stravolgersi; per
quanto in assenza delle polivalenze del “poematico”, i ruoli del Makarenko narratore e del Makarenko educatore arrivino ad assottigliarsi fin
quasi ad annullarsi; per quanto le azioni e i pensieri dell’“autore” Makarenko si prolunghino e si sublimino nelle illusioni di certezze politico-culturali senza fondo dell’“eroe” Makarenko; e per quanto le specifiche analisi di Consoli risultino sempre pregevoli, sono tuttavia le sue
9
MAKARENKO, op. cit., Čast 3, pp. 251-252.
260
Capitolo VIII
conclusioni ultime sull’intero Poema pedagogico, piuttosto che le penultime sul desinit improprio dell’opera, a fornire la chiave di una lettura makarenkiana senz’altro appropriata e ricca di sensi:
In una piena circolarità tra pedagogia e letteratura, tutto muta, tutto è sottoposto al principio del divenire, la pedagogia e i suoi contenuti, i personaggi e
le sue relazioni, la narrazione e le sue strutture. Non esiste che l’esperienza effettiva e concreta, quella dimensione che tiene integralmente occupato il pedagogista, che non si lascia trascendere dal personaggio-narratore, che determina
la trasformazione della modalità della narrazione. Ogni aspetto si sviluppa a
stretto contatto con la prassi, gli atti e la riflessione dell’educatore, il racconto
del personaggio-narratore, le azioni dei protagonisti. Si perde ogni certezza illusoria e ogni garanzia mistificante per lasciar imporre solo l’impegno e la responsabilità, l’incertezza e il dubbio (p. 201).
“Scienza complessa la pedagogia”, “la più dialettica di tutte le scienze”,
aveva scritto Makarenko in un luogo centrale del Poema pedagogico.
Attività davvero ipercomplessa, quella dello scrittore-educatore/educatorescrittore Makarenko…
Ecco perché, in ultima analisi, non sembra arrischiato ipotizzare
che il pedagog Anton Semënovič lo si trovi forse assai di più nella dimensione letteraria della sua opera, che non in quella esplicitamente,
immediatamente pedagogica. Allo stesso modo, nello scrittore Makarenko, si può azzardare che vi sia probabilmente assai più pedagogia
che non nell’esperienza educativa effettivamente vissuta; e che, di politica, di “grande politica” (ripensando a Gramsci), se ne rintracci non
solo e non tanto nelle pagine polemiche contro l’“Olimpo pedagogico” e
le burocrazie del regime, quanto anche e di più che nel Makarenko educatore, nel romanziere Makarenko.
Roma, “La Sapienza”, settembre 2007
Nicola Siciliani de Cumis
3. Ferrarotti filosofo del “senso del luogo”10
La filosofia di una sociologia
Vorrei dire di questo libro di Franco Ferrarotti, Il senso del luogo,
Roma, Armando, 2009, come di un libro di filosofia: perché anzitutto –
essendosi Ferrarotti variamente occupato del “senso della sociologia”11,
10 Ciò che segue corrisponde, con alcune modifiche e aggiunte, a quanto detto da
chi scrive nel corso di due presentazioni in pubblico del libro di Ferrarotti, nel luglio
del 2009, in due occasioni: a Roma, piazza del Popolo, Festa dell’editoria, e a Tarquinia, Società tarquiniense d’arte e storia.
11 Cfr. F. FERRAROTTI, Il senso della sociologia e altri saggi, Solfanelli, Chieti
2008, che raccoglie e aggiorna scritti degli anni Sessanta.
Il Makarenko transculturale
261
del “senso del tempo”, del “senso della storia” e delle “storie di vita”12,
del “senso della comunicazione”, dell’“intercultura”, dell’“acculturazione” e dell’“inculturazione”, del “senso dell’agire educativo”13 ecc. – mi
chiedo se non sia piuttosto del senso del senso, che egli voglia cogliere
un significato filosofico sui generis (“ultimo” o “primo” che sia), delle
cose della vita. Una sorta di “sesto senso” sociologico tra il qui e l’altrove, al di qua e al di là della stessa filosofia.
La sociologia generale, del resto (e quella di Ferrarotti in specie),
proprio in quanto scienza epistemologicamente autonoma, storicamente consolidata, ha un DNA intrinsecamente filosofico: e il suo albero genealogico ha radici nella filosofia, nelle filosofie di ogni tempo e luogo.
In questo senso, c’è un “senso del luogo sociologico”, un Genius Loci
della sociologia, che anche nella prospettiva ferrarottiana si configura
come apertamente, sapientemente filosofico. Fin dal principio: una sorta di “terza via”, tra sociologia e filosofia, che ha nelle dimensioni della
“critica” e dello “autocritico” i suoi originali punti di forza. Come spazio
infinito, ma determinato; come luogo illimitato, però individuato; come
un “qui” aperto al mondo e come localizzato laboratorio d’indagine sulle cose sociali umane, sui fatti e sulle idee, sui valori e sui disvalori, sui
mezzi e sui fini, che vi si riconnettono.
Una filosofia, insomma, della sociologia del luogo culturale e interculturale specifico, tra esperienza immediata del “dove” e riflessione sui
“perché”, tra domande certe e risposte possibili... Sì, la mia ipotesi di
lettura di Il senso del luogo è proprio questa: che non vi sia, in un modo
o nell’altro, una sola pagina del libro, che non riguardi in qualche modo
la “filosofia” (con e senza le virgolette). Fin nel titolo, Il senso del luogo,
che “apre” a un altrove, attraverso l’indicazione di una direzione, la prefigurazione di uno spostamento, un viaggio insomma, al di là del libro,
nella sua filigrana. Negli spazi tra lo scritto e il non scritto, nelle conferme e negli scarti di rotta.
Ma in che senso? Attraverso quali possibili movimenti? Dove,
quando, come, perché? E da chi e per chi? Secondo quali prospettive
umane, immediatamente umane? E, per rispondere a queste domande,
prenderei le mosse da quel luogo dibattutissimo tra i traduttori e gli interpreti della kantiana Kritik der reinen Vernunft (“Estetica trascendentale”, sullo “Spazio” e sul “Tempo”), che concerne il “fenomeno”, la
“sensibilità”, il nesso cioè tra “senso interno” e “senso esterno”. Dunque, lo spazio temporalizzato e il tempo spazializzato. E mi ci accosto,
12 A parte quelle, molto note, consegnate in tanti anni in libri nei tipi degli editori
Laterza, Liguori, Donzelli ecc., cfr. in particolare il volume di C. TOGNONATO, Tornando a casa. Conversazioni con Franco Ferrarotti 1990-2002, Edizioni associate,
Roma 2003, qui tenuto specialmente presente.
13 Cfr. F. FERRAROTTI, “Sul ‘Poema pedagogico’ di A.S. Makarenko”, in A.S. MAKARENKO, Poema pedagogico. A cura di N. Siciliani de Cumis. Con la collaborazione di
F. Craba, A. Hupalo, E. Konavalenko, O. Leskova, E. Mattia, B. Paternò, A. Rybčenko, M. Ugarova e degli studenti dei corsi di Pedagogia generale I nell’Università di
Roma “La Sapienza” 1992-2009, l’Albatros, Roma 2009, pp. XVII-XXI.
262
Capitolo VIII
assieme a Ferrarotti: con lui prendendo le necessarie distanze (storicocritiche, tra analogie e differenze), sia da Kant, sia dal kantismo e dal
neokantismo di scuola... Weber e il “destino” della “ragione impura”,
compresi... Ah la storia, quando si dice “la storia”! E la politica...
Però è proprio da qui, che sorgono alcune questioni formative, genetiche (ma sarebbe forse meglio dire “epigenetiche”, sulla traccia del
vecchio Labriola)14: e sul presupposto che, in Ferrarotti, non è mai
dell’individuo puro e semplice che si tratta, ma del sociale personificato; del sociale, in cui s’individualizza e, direi, si drammatizza un qualche individuo radicalmente interculturale, storico e politico, ibrido e
ipercomplesso, tra “scienze della cultura” e “scienze della natura”, tra
“struttura” e “sovrastruttura”. È così che, sulla scorta dei propri riferimenti filosofici e sociologici e, di più, in presenza di concrete circostanze e precise istanze umane, si svolge in Ferrarotti, tra polemiche e consensi, la “critica della critica” e quel suo particolare “rovesciamento” del
kantismo-neokantismo: Ferguson, Saint-Simon, Comte, Marx-Engels,
Spencer, Durkheim, Simmel, Weber, Pareto, Veblen; e poi: Lombroso,
Tarde, Tawney, Sombart, Mosca, Mannheim, Gurvitch, Horkheimer...
Vorrei dire, in altre parole, che il “senso del luogo” e i luoghi del
senso, evocati dal sociologo Ferrarotti rinviano comunque filosoficamente alle facoltà, plurime, del sentire e alle capacità, molteplici, del
ricevere sensazioni e di produrre alterazioni sensibili nel conoscere e
nell’agire umani a opera di oggetti interni ed esterni: tra i quali oggetti
esterni e interni, spaziosi, sono da collocare in prima fila la natura, la
società, il “sé” e l’“altro”, l’intera sfera individuale e sociale delle operazioni dell’approccio al reale, comprensive sia della logica e della cultura,
sia degli appetiti, degli istinti, delle emozioni; la capacità di ricevere
sensazioni e di reagire consapevolmente agli stimoli...
Un discorso filosofico pertanto, questo di Ferrarotti, che si ritrova
tutt’intero da un tempo all’altro della sua vicenda sociologica: e che
procede di filato, anche se tra “intermittenze del cuore”, nelle sue varie
opere a stampa (e numerose ristampe): da La sociologia come partecipazione (1961) a Max Weber e il destino della ragione (1964), dal Trattato di sociologia (1968) a Storia e storie di vita (1981), fino ad arrivare
a La perfezione del nulla (1997), ai Lineamenti di storia del pensiero
sociologico (2002), a Pane e lavoro! (2004) ecc. E, ora, a Il senso del
luogo. E, di questo libro, penso in particolare al capitolo dal titolo “Il
14 Su Antonio Labriola, cfr. quindi, in particolare, F. FERRAROTTI, “Per una tesi di
laurea, relatore Labriola”, in Antonio Labriola e la sua Università. Mostra documentaria per i settecento anni della “Sapienza” (1383-2003) a cento anni dalla morte di
Labriola (1904-2004), a cura di N. Siciliani de Cumis, Aracne, Roma 2005 (seconda
edizione 2006), pp. 541-542; e, dello stesso Ferrarotti, i contributi compresi sia nel
volume (gli interventi su “Antonio Labriola e le scienze sociali”), sia nell’allegato dvd
(la relazione per l’inaugurazione della mostra e la presentazione del su citato catalogo), in Antonio Labriola e “La Sapienza”. Tra testi, contesti, pretesti 2005-2006, a
cura di N. Siciliani de Cumis, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Edizioni
Nuova cultura, Roma 2007, pp. 65-80.
Il Makarenko transculturale
263
respiro del bosco”, che non a caso sta proprio al centro del volume: un
testo, del quale anche i pastelli, le tempere e gli olii di Giovanni Ferrarotti sono parte integrante (benché, o forse proprio perché, la figura
umana non vi compare punto)... Giacché, a farne parte, è in ogni caso
l’uomo, Giovanni, che ha prodotto quei quadri, gli uomini che hanno
lavorato quei campi dipinti e piantato quegli alberi oggetto di rappresentazione artistica; e, dunque, noi stessi, destinatari e fruitori di quelle
opere pittoriche e del loro spazioso contesto...
D’altra parte, il senso del luogo, nell’intreccio di senso morale e di
sensibilità estetica, è secondo Ferrarotti inscindibile dalle umane capacità di giudizio e di valutazione. Di qui le naturali e nondimeno culturali
attività di compartecipazione interumana, le transazioni emotive, lo
scambio di competenze tra sensori e recettori, le visioni oggettivamente
localizzate e le localizzazioni soggettivamente visive, tra piccoli spazi e
grandi spazi…
Mi viene in mente, a questo proposito, una straordinaria parola russa, raduga, che vuol dire insieme arcobaleno e iride, oggetto e soggetto
della stessa visione multicolore... Goethe, del resto (il Goethe di cui il
Ferrarotti di Il senso del luogo viene a dire cose molto istruttive a proposito del suo celebre viaggio a Roma), è grande teorico della natura dei
colori e dei colori della natura; e si era ben accorto, Goethe, di queste
problematiche spaziali, iridescenti e arcobalenanti... E perfino il chiacchierato frammento goethista, e a dire dello stesso Goethe non goethiano, sulla natura della natura (del 1783), induce a pensare “non come
uomini, bensì come natura”, infonde bisogni che si collegano a un qualche movimento, stimola a ragionare dell’alterità che si dirige “verso un
altro da sé”, attinge a un’evanescenza del soggetto rispetto all’oggetto,
dell’autore rispetto al lettore, in un determinato “spazio” (vedi in particolare il capitolo su “La realtà evanescente”).
Quali e quante filosofie
Ferrarotti “filosofo”? Filosofo, direi subito, degli stessi dubbi che ingenera e che aiuta a togliere. In che senso e luogo, ancora? Ricorderei a
tal proposito quella volta che Eugenio Garin, massimo storico della filosofia del secolo scorso, in polemica con l’illustre teoretico Giulio Preti,
si trovò a rispondere alla difficile domanda sul che fosse da intendere
per filosofia e sul chi fossero i filosofi. Facendolo nei seguenti termini:
In parte almeno si potrebbe rispondere alla difficoltà considerando “filosofia” e “filosofo” quanto, nei vari tempi, si è chiamato appunto “filosofia” e “filosofo”. Fu filosofia, volta a volta, rispondere a specifici problemi naturali, e perfezionare l’arte della disputa, o dissertare di Dio, o elaborare tecniche della saggezza. Non variarono solo i metodi, o gli oggetti; mutarono le forme complessive, il tutto della filosofia. La nota contrapposizione stabilita da Marx tra nuova
filosofia e filosofia “scolastica” è caratteristica; ma, almeno in partenza, la rottura tra Atene e Gerusalemme, fra l’Accademia e la Chiesa, non fu meno radicale.
264
Capitolo VIII
E non si dica che fu condanna di ogni filosofia; perché la nuova fede polemizzando con la filosofia come anti-filosofia, si poneva in realtà come nuova filosofia nel punto in cui intendeva assumerne il posto.15
Più drastica tuttavia, e immediatamente più vicina alla posizione di
Ferrarotti, la soluzione di Gramsci del medesimo problema (che pure
aiuta a comprendere non poco della precedente soluzione gariniana):
Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un ‘filosofo’, un artista, un uomo di gusto, partecipa di
una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.16
Se cioè non tutti gli uomini sono attualmente filosofi, “in senso tecnico”, lo sono comunque, tutti, in senso filosofico sostanziale... Tutti gli
uomini, per Ferrarotti come già per Gramsci, sono e possono essere filosofi. Tutti, cioè (è questo il tipo del “socratismo” di entrambi), pensano di fatto il mondo, le loro condizioni di vita e il senso della loro esistenza e, quindi, i modi di essere e di funzionare della società. Per entrambi, non c’è vita umana che non sia un “luogo” che non abbia un
“senso”. Il rendersene conto è di per sé, davvero, una pratica sociologica, in quanto è una pratica biologica, culturale e filosofica quotidiana
tale da trasformare (antipedagogicamente) chi è governato in soggetto
autonomo e autodeterminantesi. Padrone di sé e non eterodiretto, non
passivo, non subalterno rispetto a chi governa. Agli intellettuali di professione. Agli stessi sociologi “in vendita” (che Ferrarotti, senza mezzi
termini, denuncia)... In tale ottica, non si può “pensare nessun uomo
che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è il
proprio dell’uomo come tale” (Gramsci). Nel suo tempo e nel suo spazio
specifici.
Di qui allora, secondo Ferrarotti, “il senso del luogo” come senso
dell’essere umano che sa orientarsi su se stesso e promuovere se stesso
come luogo naturalmente e culturalmente sensibile alla natura. Alla
cultura (non solo alle colture) che la natura produce e trasmette. Al “se
medesimo” di ognuno, che è al tempo stesso natura e cultura. Spazialità
e temporalità.
Se infatti – sottolinea Ferrarotti – “la natura guarda gli uomini
mentre gli uomini la guardano”, ciò accade perché “il senso del luogo”
non è che lo stesso “senso dell’esistenza umana”. Il cui pensiero è lo
stesso che pensare il significato della relazione con l’altro, della compartecipazione dialogica come strumento plurimo di costruzione dell’io:
di un io aperto e funzionalmente co-costitutivo di rapporti sociali umani, lungo l’arco di tutta vita individuale, fin dalla primissima infanzia di
qualsiasi “io” e di qualsiasi “tu”, ma anche di tutti quanti “noi”, “voi”,
15 E. Garin, La filosofia come sapere storico, Laterza, Bari 1959, all’inizio del nono paragrafo del primo capitolo.
16 GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., vol. III, pp. 1550-1551 e passim.
Il Makarenko transculturale
265
“loro”, prodotti e produttori di un intreccio di relazioni sociali, culturali
e affettive molteplici. Multiple. Per così dire, ulteriormente ampie. Spaziosamemente tempestive.
Il senso del luogo è, in tale ottica, lo stesso processo (l’accelerazione
del processo) degli atti umani, in quanto tali, nel farsi della relazioni
interpersonali e delle comunicazioni sociali; e consuma, per questa
strada, il pathos di ogni filosofia riduttivamente individualistica, qualsiasi visione atomizzata e non relazionale dell’io. Ne consegue la persuasione del valore intrinseco dei luoghi della vita vissuta e da vivere, in
tutta la loro ricchezza naturale, culturale e interculturale, con tutte le
loro contraddizioni, eppure trasparenti, nelle loro infinite, ulteriori potenzialità di miglioramento.
Non c’è nessuno, da questo punto di vista, che ad avviso di Ferrarotti (con buona pace dello storicismo idealistico e neoidealistico, nelle varie sue espressioni e trasformazioni) non abbia in sé medesimo tutte
quelle potenzialità che lo fanno pervenire a una scelta liberamente condivisa, ma autonoma, di ciò che è “buono”, “bello”, “giusto”, “utile”. Di
qui il senso delle storie di vita come moltiplicatrici del nesso qualitàquantità: anche questo debitore, in qualche misura, al principio gramsciano che tutti gli uomini sono filosofi, che cioè “tra i filosofi professionali o “tecnici” e gli altri uomini non c’è differenza “qualitativa” ma
solo “quantitativa”“...
Tra la vita biologica e la vita culturale degli uomini, insomma, non
può e non deve esserci soluzione di continuità. Il luogo “materiale” è un
luogo “spirituale”, e viceversa. Ciò che conta è la costruzione della capacità di progettare la propria vita nei suoi rapporti con le altre vite nell’ambito di un vissuto individuale e sociale, di un comune pensare critico-autocritico, consapevole dei processi decisionali e dei meccanismi di
controllo dei governanti da parte dei governati. Per fare questo, il cittadino, potenziale filosofo, deve acquisire conoscenze e saperi e competenze utili alla comprensione e alla gestione del bene pubblico nell’interesse di tutti.
C’è difatti, nella matrice biologica e culturale, biografica e autobiografica, di Il senso del luogo una vera e propria fenomenologia delle
pluralità filosofiche, che conviene rendere esplicita... E incomincerei
coll’accennare ai puntuali riferimenti di Ferrarotti a Eraclito, Socrate,
Platone (al Platone del Simposio e a quello delle Leggi, in particolare);
a Francis Bacon e Diderot, ai “filosofi della vita” e del “vissuto”; a Proudhon, Stuart Mill, Marx-Engels, a Nietzsche, Lukács, Simmel (al Simmel della “filosofia del denaro”: il denaro, la “maledetta puttana” di
Marx); in filograna, a Dewey; e quindi a Weber, a Popper, ad Habermas, ai mentalisti-storicisti e ai filosofi-valutativi, a Sartre, a Simone
Weil, a Cesare Pavese, a quell’Adriano Olivetti, ingegnere, “allievo” di
un certo Heidegger, oltre che di Mounier, Maritain, Weil, Mumford...
alla scoppiettante “bolla speculativa della tecnologia” e alla “bolla”, rumorosamente scoppiata, della “speculazione finanziaria”... E intanto –
sottolinea il moralista Ferrarotti, alle pp. 21-23 di Il senso del luogo –
266
Capitolo VIII
“s’avverte l’allegra musichetta dell’orchestra che suona, imperterrita e
inconsapevole, sul ponte del Titanic”.
Mentre cioè su tutto e su tutti sembra oggi imporsi il “pensiero unico” (la “sola logica” dell’“imperativo tecnologico, ossia di una perfezione priva di scopo, mossi da un unico fine: la massimizzazione del profitto nel più breve tempo possibile”), il sociologo-filosofo Ferrarotti ritrova il suo proprio Genius Loci, oltre che nel mecenate Olivetti (filosofo in incognito), nel filosofo (sociologo in nuce) Nicola Abbagnano: dai
Quaderni di sociologia alla Critica sociologica (in collaborazione con lo
stesso Ferrarotti)...
Abbagnano che, non a caso, nella sua opera forse più celebre e adoperata, il Dizionario di filosofia, sembra quasi spianargli la strada con
la collaborazione di Varrone e Agostino, di Kant e Schelling, di Pascal e
Kierkegaard... Tutto un tema da esplorare, da svolgere, questo del
Genius filosofico in loco, del Ferrarotti nei rapporti con Abbagnano. Un
tema che, tra l’altro, induce a dire pure dell’opera di Franco Lombardi
(altro filosofo creditore-debitore di Ferrarotti) e, in particolare, del saggio “Discorrendo di Filosofia e di Sociologia e di altre poche cose”: un
intervento di Lombardi su filosofia e sociologia, nel quale proprio Ferrarotti sembra avere l’ultima parola con Talcott Parsons, Edward Shill,
Ralf Dahrendorf, Robert K. Merton17
Sennonché, se la filosofia del sociologo Ferrarotti si ritrova certamente, e a ragion veduta, là dov’è di “filosofia” e di “filosofi” che egli
parla, la sua filosofia, la sua vera filosofia, è soprattutto nella sua opera
di sociologo, là dove meno egli viene da discorrere del filosofico, in senso riduttivamente “tecnico”... Se in altri termini, gramscianamente, da
un lato ci sono i filosofi di professione (con le loro concezioni del mondo, le loro “esclusività”, le loro forme e i loro precipui contenuti di ricerca) e, da un altro lato, ci sono tutti gli altri uomini con le loro inespresse filosofie, con le loro idee della vita, con i loro valori e disvalori,
le idee di vero e di falso, di bello e di brutto, di male e di bene, di utile e
d’inutile (non per fare il verso al Croce e al suo “difensore d’ufficio”
Carlo Antoni, con cui Ferrarotti polemizza francamente e ferreamente):
in mezzo agli uni e agli altri, c’è per l’appunto Ferrarotti, con la sua
proposta compartecipativa, la sua terza via e la sua sociologia critica e
autocritica, le sue prese di posizione antisociologiche, antipedagogicamente “socratiche”, direi, se il termine “socratico” non fosse di per sé
inflazionato e non inducesse agli equivoci di una certa tradizione di
pensiero e di azione, “individualistica” (anti-sociale e anti-sociologica),
idealistica e eurocentristica, spazialmente sacrificata, da cui Ferrarotti
prende fermamente le distanze...
17 Cfr. F. LOMBARDI, “Discorrendo di Filosofia e di Sociologia e di altre poche cose”, estratto dal volume La filosofia di fronte alle scienze (1), Adriatica, Bari 1962,
pp. 46-47.
Il Makarenko transculturale
267
Genius philosophiae extra philosophiam
Ferrarotti e Socrate. Intendiamoci allora: non il Socrate concettualmente paludato, moralmente ingessato, accademico “scrio scrio”
(come direbbe Labriola) e specchio deformato e deformante delle varie
accademie filosofiche succedutesi nel tempo, ma il Socrate umano tra
gli umani, il Socrate di Senofonte... Il Socrate che lo stesso Labriola preferisce come propria fonte biografica e autobiografica, rispetto a quella
rappresentata da Platone, da Aristotele e delle tradizioni “concettualistiche” che ne derivano... Senofonte come primo esempio, diresti, di
“sociologo” che costruisce per se stesso e per gli altri “storie di vita”. Un
Senofonte cronista intelligente non della pura e semplice coscienza socratica (riduttivamente individuale), ma dei rapporti inter-umani (interculturali, transculturali) che la rendono possibile e la costituiscono
socialmente, collettivamente. Storicamente nuova, apertamente spaziosa.
Ecco perché, in questo rapido e sapido schizzo di etica applicata, che
è Il senso del luogo, il Genius Loci appare, scompare e traspare, come
filosofia della sociologia, in quasi tutte le pagine del libro. E, allo stesso
modo in cui ciò che è tecnicamente filosofico vi rimane quasi sempre
fuori, egualmente il Genius Loci sposta altrove se stesso e i propri eventuali discorsi, filosofici o sociologici che siano. È esso stesso l’altrove,
l’implicito “non qui”, il “fuori di sé” del discorso interiore in quanto tale: quella sorta di empatia creativa “altra”, che sembra essere la radice
stessa della creatività, la base di un’ipotetica, ulteriormente alternativa
e compartecipata teoria della creatività sociologica. E filosofica.
Ed è qui che si ritrova, con l’approccio fenomenologico allo studio
dell’ambiente (alla Olivetti), l’interazione di “ambito fisico” e “identità
umana”, l’interferenza del “sociale” e del “culturale”, del “linguaggio” e
delle “abitudini”, e dunque l’insieme delle caratteristiche che “fanno” il
“genio” di un determinato “luogo”. Di qui, su un piano diverso, ma che
è lo stesso piano del “locale” e del “globale” (come oggi si usa dire, del
“glocale”) la “trasversalità dell’architettura” (secondo lo stesso Olivetti).
Il Genius del Genius Loci ferrarottiano.
Basta, del resto, leggere la quarta di copertina del volume, per cogliere, in sintesi, ciò che il libro analiticamente disvela: il suo Genius
Loci bibliografico medesimo. E dunque:
“La crisi finanziaria si è fatta economica. Crescono i disoccupati e i cassintegrati. Chiudono le fabbriche e i ristoranti. È in crisi il commercio. Tornano i poveri”. “Abbiamo di vivere in un mondo in movimento. Non c’è solo lo sbarco sulla luna. Ci sono i fortunosi, spesso tragici, sbarchi degli immigrati del Terzo e
del Quarto mondo sulle sponde delle società tecnicamente progredite”. “È il capitalismo. Ha vinto la sfida col socialismo. […] Ma una grande vittoria è un
grande pericolo. Resta il mistero delle origini”. “All’interno della sua logica, nel
quadro delle sue coordinate essenziali, il capitalismo non è possibile trascenderlo. Lo si può solo riformare dal di dentro. Ma basterà? Può solo superarsi da sé.
Ma fino a che punto?”. “Scrivendo della globalizzazione, ciò che più meraviglia è
che sia passata sotto silenzio la sua falla più grave: la a-territorialità”. “Il ‘Genius
268
Capitolo VIII
Loci’ è oggi dimenticato. Il luogo ha perso l’aura, la connotazione specifica, il
clima e l’atmosfera che lo definiva in maniera unica, non interscambiabile, non
fungibile. […] Possiamo certamente dimenticarlo, ma il ‘Genius Loci’ non ci abbandona. Io guardo il paesaggio, ma il paesaggio guarda me che lo guardo”.
Singole frasi messe sapientemente assieme per la finalità editoriale
specifica. Citazioni estrapolate dal testo e assemblate unitariamente per
la funzionalità di una quarta di copertina. Frammenti di ragionamenti
che rinviano alla compiutezza di un capitolo, all’intera fisionomia del
libro. Alla planetaria, multilaterale filosofia dell’autore. Al “Dio” che è
nel “dettaglio”.
Postfazione a due voci
Silvia Lanzetta e Nicola Siciliani de Cumis
SILVIA LANZETTA, fresca di dottorato in Australia, presso il Dipartimento di Sociologia della Macquarie University di Sydney, in cotutela
con il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze,
ha vissuto per tre anni e mezzo in Australia, lavorando a una tesi dal
titolo Postmodern Wittgenstein? che presenta un’esegesi dell’opera
wittgensteiniana in confronto critico con alcune teorie postmoderne.
L’idea di questo lavoro è stata progettata gradualmente, grazie a un
confronto di proposte tra l’autrice, i suoi ex collaboratori italiani e i
successivi collaboratori australiani. Si è trattato quindi di un progetto
già di per sé nato sull’onda di uno scambio interculturale, un connubio
tra interessi più strettamente esegetico-filosofici e interessi più sociologici. Questo incontro, inizialmente informale, ha portato successivamente all’accordo di cotutela tra due dipartimenti diversi di due università collocate ai lati opposti del mondo. All’impronta teoretica si è unita
un’impronta più applicativa.
L’ansia conoscitiva che tutto abbraccia, in Wittgenstein, attraverso
genio e linguaggio, è stata in parte soddisfatta grazie a uno sguardo antropologico e interculturale in terra australiana. La tesi esplora il dibattito attuale sul postmodernismo concentrandosi sulla metamorfosi della dottrina dei giochi linguistici di Wittgenstein, dalla concettualizzazione di forme di vita che possono comunicare al situazionalismo di
giochi linguistici incommensurabili. Il significato di una ricerca del genere risiede nel fatto che questo aspetto del pensiero di Wittgenstein
non è stato studiato in profondità, dal momento che il situazionalismo
del filosofo viennese è stato considerato in modo sbrigativo come una
caratteristica della sua teoria originale dei giochi linguistici. La tesi fornisce una panoramica delle possibili origini del pensiero postmoderno
in Wittgenstein alla luce di una periodizzazione del postmodernismo
come corrente di alcuni decenni a lui posteriore. L’argomentazione
principale è che ciò che fa di Wittgenstein un precursore del postmodernismo è la trasmutazione che avviene nel Della certezza1 della teoria
1 Il riferimento è a L. WITTGENSTEIN, Über Gewissheit, a cura di G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright, tr. ingl. D. Paul e G.E.M. Anscombe, On Certainty, Blackwell,
270
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
dei giochi linguistici inizialmente sviluppata nelle Ricerche filosofiche.2
Partendo dall’ipotesi che la componente verbale dei giochi linguistici è
di fatto puramente accessoria nelle Ricerche, si mostra come in Della
certezza essa è componente essenziale. Nonostante le sue ambiguità,
Della certezza può considerarsi come la prima opera di filosofia che anticipa molti dei modi d’espressione che diverranno dominanti in epoca
postmoderna, compresi quelli legati all’incommensurabilità originata
da un rigido ingabbiarsi del linguaggio. In particolare, il ritratto che
viene fatto del linguaggio in Della Certezza fallisce nel trovare una possibile applicazione al dialogo tra diverse forme di vita intese come culture, dal momento che si sviluppa secondo una cornice concettuale che
non tiene conto del fatto che la realtà culturale esige la risoluzione di
conflitti e la loro trasformazione in interrelazione.
Dal momento che, nella sua parte finale, la tesi è un saggio di antropologia, se non addirittura di sociologia, post-wittgensteiniane, molteplici sono le prospettive che essa apre: un’espansione del lavoro nella
direzione della filosofia e della sociologia post-wittgensteiniane nella
ridefinizione di concetti come differenza e integrazione e della loro delicata dinamica, oppure un’indagine della relazione tra fenomenologia
husserliana e wittgensteiniana da una parte (un ampio capitolo della
tesi è dedicato alla fenomenologia di Wittgenstein) e il tema interculturale dell’arte aborigena australiana dall’altra.
L’AUTORE di I figli del Papuano sa bene che il libro, come fatto culturale e bibliografico specifico, restituisce solo in parte la concretezza
delle situazioni educative, che stanno a monte del suo attuale faire le
livre. E mentre egli ripensa alle circostanze interculturali (scientifiche e
didattiche), da cui sono scaturiti questi testi ancora in tuta di lavoro,
riflette se far loro mutar abito, o meno… Così ricorda, tuttora dialogicamente, le centinaia di studenti, colleghi, familiari, amici, mittenti e
destinatari di diverso tipo, che lungo l’arco dell’ultimo trentennio sono
stati all’origine dell’impegno pedagogico e interculturale qui e ora documentato. La “tirata” di Gramsci contro Labriola è certo il motivo storico, teorico-pratico originario, di tutto il libro; ma è soprattutto nel
mestiere dell’insegnante che avviene la traduzione di un determinato
“concetto di cultura” (per dirla con il Pietro Rossi di un’indimenticabile
antologia) in consapevole attività interculturale…
In questo senso, è dell’autore la persuasione che l’apprendimento
precede l’insegnamento e che la stessa educazione del “Papuano” possa
e debba essere contestualmente tale, sia nel significato oggettivo, sia nel
significato soggettivo del genitivo. Insegnando, un insegnante impara
Oxford 1969¹, 1974², tr. it. di M. Trinchero, Della certezza, a cura di A.G. Gargani,
Einaudi, Torino 1978.
2 Il riferimento è a L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, a cura di
G.E.M. Anscombe, Basil Blackwell, Oxford 1953, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero,
Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967¹ (1995²),
Postfazione a due voci
271
sempre un’infinità di cose dai propri allievi; e da se stesso, nei suoi rapporti con loro. Guai, infatti, a smettere d’imparare dalla novità e dalla
complessità della situazione di insegnamento-apprendimento in cui ci
si trova coinvolti. Perché tutto il sapere tecnico di un professore ha didatticamente un senso, se produce in ciascuno dei suoi studenti un
qualche altro sapere tecnico… Un sapere tecnico in progress: perché al
di là dei contenuti di una determinata ricerca (sempre essenziali, irrinunciabili), ciò che si trasmette è l’abito del ricercatore, la forma stessa
del ricercare. Il gusto dell’indagine.
Di qui, il rapporto stretto-strettissimo tra questo libro e le centinaia
di libri coevi prodotti dagli studenti del docente-autore di I figli del Papuano: libri a stampa, ormai numerosi, in collane editoriali fornite di
ISBN, e comunque redatti con le regole di una dignitosa pubblicabilità in
print on demand… Insomma: tra I figli del Papuano, frutto di una ricerca universitaria personale e collettiva e la didattica collegiale e individualizzata che vi si connette, pur con tutti i limiti e i rischi dell’operazione “epistemologica”, tende a non esserci soluzione di continuità.
SILVIA LANZETTA: Eppure, può valere forse la pena tirare le fila di un
discorso così radicato nel tempo, così sperimentato in prima persona e
in rapporto a tante altre persone: un discorso per ciò stesso interculturale, che se da un lato rinvia a precisi campi di studi (Gramsci, Labriola,
Makarenko, Vygotskij, Freinet, Dewey, Garin, Bachtin, Yunus, ecc.), da
un altro lato, si mette interlocutoriamente in gioco… Quasi a partire da
zero…
NICOLA SICILIANI DE CUMIS: Trovo certo interessante tirare assieme a
te le fila del percorso seguito fin qui, dis-chiudendo questo libro, tappa
e non approdo, chiusura provvisoria e possibile apertura di nuovi discorsi... La prospettiva – insomma –, la “prospettiva chiara, fresca e
ben condita” di Ratatouille!... Da Makarenko a Ratatouille: questo sì,
che potrebbe essere un’ulteriore argomento di ricerca, per un libro che
nasce di proposito come un insieme spezzato di pezzi tenuti uniti da un
discorso esplicito ovvero da una filigrana di discorsi impliciti. Vorrei
quindi concludere senza concludere, seguendo la stessa linea seguita fin
qui, offrendo nuovi esempi – come quello di un’esperienza di studio agli antipodi, che include un lato pedagogico apertamente interculturale.
SILVIA: Mi sono accorta, nel leggerti, che una domanda si è insinuata
tra me e le pagine a me di fronte, strisciando fuori all’improvviso dalle
mie “viscere metafisiche” come un serpente arcobaleno – il mitico serpente arcobaleno degli indigeni d’Australia, che passa sulla Terra e contribuisce a darle vita. Ecco la Domanda: non è che tutti dovremmo aspirare a diventare figli, quantomeno adottivi, del Papuano?
NICOLA: Proprio così, almeno in un certo senso… Ho appena finito
di rileggere Tristi tropici di Claude Lévi Strauss, un vero e proprio clas-
272
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
sico dell’antipedagogia interculturale, un manuale dell’adozione planetaria “altra” del Papuano (del Papuano adottato, che finisce con l’adottare)… I figli del Papuano, si parva licet, non è che una prima, lacunosa traduzione sui generis di Tristi tropici nel mio proprio dialetto culturologico… Una koinè di stilemi, provenienti da Corrado Ricci e Maria
Montessori, Pinocchio e Stephen J. Gould, Stanley Kubrick e Miloud
Oukili...
SILVIA: Anche quel capolavoro che è Ratatouille è il prodotto di un
felicissimo approccio ermeneutico all’alterità: la consapevolezza – che
ugualmente t’ispira – della necessità di muovere dai pregiudizi eurocentrici ed ego-centrici (e, perché no, italocentrici). Ebbene sì: il concetto di “integrazione” ha dei limiti paurosi, di fronte alla valorizzazione
delle diversità. In I figli del Papuano tu critichi gli approcci paternalistici alla pedagogia, proponendo una dimensione planetaria delle
discipline storiche e sottolineando l’importanza degli elementi extracurriculari nella formazione di programmi adeguati. Tale spirito critico
ti ha guidato nel collaborare alla mostra “Solo andata”3, e non poteva
prescindere da una rigorosa discourse analysis applicata ai quaderni
compilati dai visitatori. Non posso fare a meno di pensare all’esperienza toccante che ho vissuto al Museo dell’immigrazione di Melbourne:
l’esperienza del migrante non è solo migrazione da tradizioni, ma anche
di tradizioni (questo vale per le popolazioni nomadi ancor più che per
altre): ciascun individuo migrante porta con sé un mondo, unico e prezioso. Poni quindi l’accento sul legame profondo e pericoloso che, nel
rapporto tra educatore ed educato, si può innescare tra paternalismo e
schiavitù (e razzismo).
NICOLA: Si tratta di un argomento molto delicato, complesso, direi
meglio ipercomplesso... Perché, da un lato, come uomo dei tempi e degli spazi storico-geografici in cui ti è stato dato di vivere, non puoi e non
devi in nessun modo uscire dalla tua pelle culturale, storicamente evoluta, in via di ipotesi avanzata, progredita, competente, dunque inevitabilmente “professorale”; da un altro lato, e a maggior ragione se sei un
insegnante, devi metterti in gioco, ammettere la tua insufficienza morale e pedagogica di fronte ai problemi del mondo in cui vivi; e farti dunque apprendista delle novità culturali umane che hai di fronte… Farti
scolaro, in qualche modo, proprio del “Papuano”… Anche la tua esperienza australiana, del resto, in un’ottica siffatta, così complicata e contraddittoria, deve esserti risultata molto istruttiva…
SILVIA: Nel corso delle mie esperienze d’insegnamento in Australia
non ho potuto fare a meno di ammirare il metodo: si dà ampio spazio
alla partecipazione da parte degli studenti, ai laboratori, agli esperi 3
Cfr. supra, pp. 85 sgg.
Postfazione a due voci
273
menti pratici in aula, anche nelle discipline sociali di cui mi occupavo
io. Lo studente non viene mai visto come un ricettore passivo, come un
essere ancora informe da plasmare. L’equilibrio che si crea tra didattica
attiva del docente e didattica partecipativa è qualcosa che ancora non si
trova nella stessa misura in Italia. Questo, certo, va a discapito di un
approfondimento a carattere più teoretico ma, se lo studente è volenteroso e s’impegna a sufficienza, l’aspetto “libresco” e nozionistico può
coniugarsi perfettamente a creatività e iniziativa (i saggi che alcuni dei
miei studenti scrivevano erano davvero innovativi).
Si dice spesso che noi italiani siamo culla di cultura; gli altri – australiani compresi – ammirano questa nostra apparente potenza culturale. Tuttavia la plasticità, la facilità con cui proprio gli australiani affrontano problemi pratici a lezione, l’apertura che hanno, il vedere risorse dove noi vedremmo dei limiti (in primis: nella grande varietà etnica del corpo docente, oltre che di quello studentesco) sono il frutto
del loro approccio splendidamente dinamico alla didattica.
Tra le tue pagine mi sono imbattuta nella bella citazione di Gibran:4
quel piccolo gioiello, io lo tengo nella mia libreria e mi rendo conto che
andrebbe riletto costantemente, per la vitalità che trasmette, la positività, la saggezza (farne propri gli insegnamenti, purtroppo, è così difficile): egli, in fondo, ci invita a tornare all’Infanzia…
NICOLA: In effetti, io sto costruendo da tempo una mia idea di “infanzia”… Questo libro è in certo qual modo il terzo di una trilogia imperfetta (come imperfetto è il mio concetto d’infanzia), dopo Zavattini e i
bambini. L’improvviso, il sacro, il profano5 e dopo I bambini di Makarenko. Il Poema pedagogico come “romanzo d’infanzia”6… Un’idea incompiuta d’infanzia, la mia, indotta da alcune esperienze di ricerca tra
loro molto diverse (Zavattini, Makarenko), eppure strettamente collegate proprio in senso interculturale… In I figli del Papuano c’è ampia
traccia di una siffatta connessione… Ma è dei tuoi risultati di ricerca,
che ora vorrei sapere di più...
SILVIA: Come ti dicevo, ho concluso da poco il mio dottorato di ricerca in Australia. Parte della mia tesi valorizza l’esperienza vissuta degli indigeni australiani e le narrazioni che essa porta con sé, nell’ambito
di tradizioni orali che sono componenti fondamentali delle conoscenze
indigene, sostenendo la possibilità di superare l’isolamento attraverso
un cambiamento epistemologico: dal considerare la conoscenza come
contenuto astratto, o dal considerarla puramente come pratica, al
prendere atto che c’è conoscenza solo dove l’uno e l’altra s’incontrano.
A questo scopo, il mio lavoro presenta un’idea d’interrelazione ben più
ampia di quella d’integrazione, attraverso alcuni esempi di strumenti
Cfr. supra, p. 195.
Op. cit.
6 Op. cit.
4
5
274
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
che possono favorirla, tra i quali nuove forme di istruzione che siano
basate su ideali d’interculturalità. Culture diverse possono imparare
l’una dall’altra se i modelli d’insegnamento vengono adattati alle reciproche differenze. Una forma di vita può imparare dall’altra nel momento
in cui essa è libera di passare dal proprio contesto conoscitivo a quello,
meno noto, dell’altra – in altre parole, quando ciascuna tradizione incontra gradualmente l’altra a partire dalla propria base cognitiva. Ho
cercato così di entrare in relazione con alcune delle culture indigene australiane, imparando che testo e natura – ‘racconto’ e ‘realtà’ – possono
connettersi a una profondità tale che esclude come un nonsenso filosofico la stessa idea di opposizione tra relativismo e assolutismo epistemologico – due posizioni che hanno per vie opposte come risultato una
visione comunque disincarnata della conoscenza…
NICOLA: Molto interessante, vuoi spiegarti meglio?
SILVIA: Nel corso di una conferenza internazionale di didattica nel
Northern Territory australiano7 ho appreso che il mantenimento della
diversità linguistica è un valido strumento al fine del superamento della
incommensurabilità, in quanto permette la valorizzazione delle espressioni delle singole comunità, culture, identità, situandole in dialogo tra
loro. L’adozione di una prospettiva interculturale in ambito didattico,
nelle comunità dove vi è multilinguismo, come quelle dove convivono
indigeni e non-indigeni, è ciò che consente, al contempo, l’ampliamento
delle reti sociali e il mantenimento di un’identità inscindibile dalla lingua. La struttura delle lingue aborigene rivela un abisso tra le culture
occidentali, che tendono a oggettificare le cose come idealisticamente o
materialisticamente altre rispetto al soggetto pensante, e quelle aborigene, che tendono a soggettificare il mondo, rendendolo soggetto “pensante”, recuperando la Terra, e ponendo la scienza al suo servizio. Cultura e natura non divorziano, come invece accade, costantemente, da
noi.
Ho imparato, grazie ai “Papuani”, che l’epistemologia aborigena non
è poi così antitetica a quella occidentale, e può a essa integrarsi. Nel
corso degli anni Novanta, in alcune comunità del Northern Territory,
sono stati sviluppati programmi didattici a partire dalle chiavi aborigene di lettura del mondo.8 L’apprendimento, in Occidente, lo si è sempre
visto come la scoperta soggettiva di qualcosa che è nascosto. Per gli aborigeni apprendimento è, in primis, concerto, riunione, e contatto con le
7 Il rinvio è agli atti dell’International Symposium on Keeping Language Diversity Alive, svoltosi ad Alice Springs nel luglio 2008, contenuti in J. LO BIANCO et al.,
Keeping Language Diversity Alive, Teachers of English to Speakers of Other Languages, Inc., Alexandria, Virginia 2008.
8 Cfr. R. MARIKA, M. CHRISTIE, “Yolngu Metaphors for Learning”, The International Journal of Social Languages, No. 113, 1995, pp. 59-62, e R. Marika, “Milthun
Latju Wänga Romgu Yolngu: Vaing Yolngu Knowledge in The Education System”, A
Journal of Australian Indigenous Issues, Dec. 1999, pp. 107-119.
Postfazione a due voci
275
proprie radici ultime (la Terra). Esso è fluido, non statico: poggia
sull’insegnamento degli antenati totemici, incessantemente e dinamicamente riadattato al presente a partire dall’accordo tra i presenti; è un
ripercorre le orme degli Esseri Creatori (che crearono il mondo percorrendolo) con le “gambe” del presente; è acquisizione delle storie passate
riadattate al mondo moderno. L’apprendimento non può prescindere
dalla propria lingua nativa: essa narra il mondo nel modo unico in cui il
mondo stesso è stato plasmato: il mondo acquista pienezza di significato nella misura in cui la pienezza della lingua indigena di appartenenza
viene mantenuta. Apprendimento è accostarsi al mondo ri-percorrendo
attivamente, ri-creandolo, le Vie dei Canti che l’han creato.
Nel Northern Territory è stato sviluppato un programma d’insegnamento della matematica che risultasse il più possibile familiare ai
bambini indigeni. Sono stati creati laboratori dove si fa matematica a
partire dai sistemi di parentela, dalle particolari divisioni del territorio,
dalla struttura dei clan, dalla mappatura del territorio. La matematica è
costruita, di conseguenza, su ciò che gli studenti già sanno (l’aritmetica,
nello specifico, tiene conto delle concettualizzazioni diadiche presenti
nelle strutture di parentela).
L’approccio alla scienza e alla conoscenza sono, in ogni cultura, impregnate della visione del mondo che tale cultura offre e incarna: ecco
un principio che dovrebbe ispirare una metadidattica effettivamente
improntata sull’alterità.
NICOLA: Questo riferimento all’infanzia non solo in senso cronologico-evolutivo, ma anche in senso metaforico-culturologico è intrigante...
Mi viene in mente la “sociologia come partecipazione” di Franco Ferrarotti, le sue “storie di vita”, il suo metodo dialogico (fenomenologico?).
Ho poi una persuasione (che qui in Italia ha scarsissimo séguito): che i
risultati della didattica debbano essere comunicati, pubblicati, con la
stessa cura con cui comunichiamo, pubblichiamo i risultati scientifici....
Che, in altri termini, il nostro contributo intenzionale di docenti conta
in ogni caso di meno degli effetti indotti nei nostri interlocutori, studenti o studiosi che siano. Anche nel rapporto tra ricerca e didattica, in
fondo (o in principio?), si dà intercultura… Una forma d’intercultura
non asportabile, tanto meno esportabile, ma traducibile, con tutti i crismi e le cautele che una traduzione, qualunque traduzione, esige…
SILVIA: Il mio riferimento all’infanzia ha certamente una valenza interculturale: i bambini australiani di alcune scuole hanno appreso concetti e nozioni seguendo un metodo che tiene conto della loro particolare lettura del territorio e del loro particolare rapporto con il tempo.
Questo è un ottimo spunto, se si pensa a quanti problemi sorgono nelle
scuole italiane quando si tratta di lavorare con bambini stranieri. Sono
stata, di recente, a vedere il film Australia, sapendo benissimo che si
sarebbe trattato del solito pastone hollywoodiano, ma con il preciso intento di rimanere irretita dal paesaggio dei Kimberley, con le sue gole
276
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
superbe e il suo Outback, e dagli occhi del bambino protagonista, aborigeno. Insomma, è stato come fare una piccola visita nostalgica in Australia senza curarmi troppo delle banalità che facevano da trama al
film. Se non altro, esso si è occupato del tema della Stolen Generation,9
ed è per questo che ha avuto una buona pubblicità da parte degli aborigeni, in barba alla mediocrità del film. Hanno molto bisogno, e diritto,
di rendere pubblici i misfatti subiti, e questo fa parte del processo di
guarigione (che mai si compirà del tutto: la colonizzazione li ha sradicati nel profondo, fino alle viscere metafisiche, se mi si passa l’ossimoro).
Da un punto di vista ideologico e politico, è, questo dialogo, anche un
dar voce alla loro dignità. Questo mio riferimento, inoltre, vuole essere
un invito ad allargare la nostra prospettiva seguendo un filo che unisce
tutti, dal bambino australiano, a quello italiano, a quello che è ancora in
noi e che non smetterà mai di apprendere… A proposito, da dove comincia la storia del “Papuano”?
NICOLA: Essa comincia da un pezzo di mare, sempre lo stesso, ma
inconsumabile... il Mar Jonio. E l’agosto, l’agosto, da che sto in vita, è
una specie di viaggio dantesco. Il luogo e il tempo della mia “fenomenologia interculturale”... rinnovabile. Come l’energia. Uno dei punti fenomenologicamente più alti, forse il più alto, di quelli che io conosco
per esprimere uno stato di coscienza interculturale... Provo a tradurlo
in comportamenti individuali e collettivi, che giostrano tra il locale, il
nazionale e l’internazionale, dell’esperienza... Ne intravedo le virtualità
storiografiche ed educative, ne avverto le spinte euristiche, provo a tradurne in concreto le valenze umane multilaterali, dialogiche, prospetticamente infinite. Vorrei, a questo proposito, re-citare (quasi a memoria) Bachtin:
Una cultura straniera solo agli occhi di un’altra cultura si rivela più pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno anche
altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più). Un senso rivela le sue
profondità, dopo essersi incontrato ed essere entrato in rapporto con un altro
senso, straniero: fra di essi comincia una specie di dialogo, che supera la chiusura e l’unilateralità di questi sensi, di queste culture. Noi poniamo alla cultura
straniera nuove domande, quali essa stessa non si poneva, cerchiamo in essa
risposta a queste nostre domande, e la cultura straniera ci risponde, scoprendo
9 Il riferimento è alla sottrazione forzata di decine di migliaia di bambini aborigeni da parte di ufficiali del governo australiano a partire dall’inizio del secolo scorso
fino a circa il 1970, principalmente al fine di assimilarli nella società bianca e solo in
minima parte allo scopo di sottrarli ad abusi familiari. Molti bambini, sottratti fino
all’età di sedici anni e collocati in orfanatrofi o famiglie di bianchi, persero la propria
lingua madre, la propria cultura, la connessione con la propria terra d’origine, e non
rividero mai più i propri genitori. Il 13 febbraio 2008 il neo-eletto primo ministro
Kevin Rudd ha chiesto ufficialmente scusa in Parlamento al popolo aborigeno per
queste e altre nefandezze commesse dai colonizzatori: un riconoscimento, questo,
altamente simbolico, atteso da moltissimo tempo, e indispensabile per una vera riconciliazione che comunque non potrà mai restituire il passato.
Postfazione a due voci
277
davanti a noi nuovi suoi aspetti, nuove profondità di senso. Senza nostre domande (ma certo, domande serie, autentiche) non si può creativamente capire
niente di altro e di straniero. In tale incontro dialogico di due culture esse non si
fondono e non si confondono, ognuna conserva la sua unità e aperta interezza,
ma esse si arricchiscono reciprocamente.10
SILVIA: Devo dire che anche per me, in qualche senso, l’Italia è sempre la stessa, ma inconsumabile, e anche la Calabria, che conosco intimamente. Solo che ora, con l’Italia, ci litigo sempre più spesso. E, nella
mia fenomenologia interculturale, qualcosa mi strappa alla mia nuova
convivente interiore, l’Australia. Ci si può dividere tra due realtà così
diverse e così amate? Sarò davvero poi italiana, adesso, o non sono
piuttosto diventata molto più affezionata al mondo in generale? Più
leggo di arte aborigena11 e di paesaggi interiori australiani, più sento
che c’è ancora tanto, troppo, da capire, a livello essenziale ed esistenziale. Come inizio di settembre, confuso tra vento e sole, non c’è male!
NICOLA: Io sono persuaso che tutto il meglio di noi si può esprimere
dovunque; che, dovunque noi stiamo, possiamo costruire qualcosa di (in
via d’ipotesi) positivo per tutto il mondo. Che l’intero mondo è nelle nostre mani. Che tra responsabilità individuali e corresponsabilità collettive lo spazio è assai sottile. Che c’è tanto da fare qui e ora con le persone che ci stanno accanto e che abbiamo scelto di amare. Nel mio scritto
su Ferrarotti, mi scopro su ciò che è per me filosofia (“come sapere storico”), non come privilegio di pochi ma come dimensione reale di tutti
gli esseri umani, in quanto tali. La tecnica filosofica, il rigore, la disciplina della materia specifica ecc. servono a diventare professionisti della filosofia... Il che non toglie che tutti gli uomini abbiano dei valori,
una testa per pensare, una capacità di giudizio e di azione per stare al
mondo.
SILVIA: È una visione simile alla mia. Si mostra, fin dall’inizio di
questo libro, come il dialogo fra culture diverse non porti necessariamente all’annientamento, bensì all’arricchimento di ciascuna. È un tema fondamentale anche delle mie ricerche. Nel tuo libro la prospettiva
si allarga, e il concetto di “intercultura”, come direbbe Wittgenstein,12 si
Cfr., supra, p. 22.
Per una dettagliata panoramica introduttiva consiglio, di S. MCCULLOCH ed E.
MCCULLOCH CHILDS, Contemporary Aboriginal Art. The Complete Guide, McCulloch
& McCulloch Australian Art Books, Fitzroy, Vic 19991, 20094.
12 Cfr. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, cit., in particolare parte
I, § 67 (mie le osservazioni in corsivo tra parentesi quadre): “Non posso caratterizzare queste somiglianze [tra entità che possono ricadere sotto lo stesso concetto] meglio che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le varie somiglianze che
sussistono tra i membri della stessa famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello
stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare,
temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i ‘giuochi’ formano una famiglia.
10
11
278
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
mostra come famiglia concettuale, più che con una definizione stretta.
Intercultura “racchiude” l’apertura a una prospettiva dialogica, ermeneutica, maieutica ed euristica, invitando al rischio e alla scommessa;
una prospettiva che rivela la bellezza dell’apertura all’altro innanzitutto
nell’apertura in quanto tale, come nella “scommessa da giocare fino alla
sua estrema inconseguenza” del nuotatore della poesia di Calabrò:13 egli
si dirige verso l’orizzonte sapendo benissimo che non potrà afferrarlo. È
così nell’amore, e così dovrebbe essere in ogni rapportarsi all’altro da
noi abbracciato e accolto senza imprigionarlo. Intercultura non significa infatti paternalismo, ma interdipendenza ai fini di una crescita. Una
crescita interculturale, lo si ricava da questo testo, nasce da una dialettica che, anche grazie a un approccio interdisciplinare, tende al superamento di dicotomie consolidatesi in situazioni di isolamento culturale, come l’opposizione tra “l’essere e il dover essere degli storicismi”14, o
tra ricerca e didattica; e se crescita è crescita interculturale e dialogica,
essa non potrà non auspicarsi fenomeno riguardante il più alto numero
di esseri umani possibile.
Intercultura è comunicazione. La comunicazione tra culture, quando non è veicolata da una lingua “franca” come può essere l’inglese, si
realizza, in determinati ambiti, per mezzo della traduzione. L’elemento interpretativo ed ermeneutico è parte integrante di essa,15 e nessun computer raggiunge la consapevolezza interpretativa dell’uomo. Il computer non sente la sfida dell’ignoto e del rischio, non “va verso l’avvenire a
cuor leggero”16 e pur tuttavia “portando con sé il bagaglio pesante delle
storia”17; un computer non sente la sfida poetica che, solo se accolta,
porta a gustare i frutti del paradiso, e non può quindi dirlo, traducendolo ad esempio in calabrese, come solo può dirlo l’umano: “Sulu cu va a lu
futuru senza pisi subb’u cori/senza ma si lassa i pisi pesanti d’a storia/po’
ma senta, ‘nta sta vita sua stissa, u fruttu du paradisu"18. ‘Intercultura’
E allo stesso modo formano una famiglia, ad esempio, i vari tipi di numero. Perché chiamiamo una certa cosa “numero”? [nel nostro contesto, possiamo chiederci:
perché definiamo come ‘intercultura’ una determinata realtà?] Forse perché ha una –
diretta – parentela con qualcosa che finora si è chiamato numero; e in questo modo,
possiamo dire, acquisisce una parentela indiretta con altre cose che chiamiamo anche così. Ed estendiamo il nostro concetto […] così come, nel tessere un filo, intrecciamo fibra con fibra. E la robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre
per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una all’altra.
Se però qualcuno dicesse: ‘Dunque c’è qualcosa di comune a tutte queste formazioni, – vale a dire la disgiunzione di tutte queste comunanze’ – io risponderei: ‘Qui
ti limiti a giocare con una parola’. Allo stesso modo si potrebbe dire: un qualcosa percorre tutto il filo – cioè l’ininterrotto sovrapporsi di queste fibre”.
13 Cfr., supra, pp. 39-40.
14 Cfr., supra, p. 56.
15 A questo proposito, cfr. H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 19601, 19864, tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000.
16 Cfr., supra, p. 67.
17 Ibidem.
18 Cfr., supra, p. 68.
Postfazione a due voci
279
vuole dire emersione grazie al fatto che si aiutano gli altri a emergere, e
poggia sul principio karmico che senza il tuffo nel sociale non vi è progresso individuale.
All’atto pratico, questo può dispiegarsi anche attraverso una mondializzazione di ogni prospettiva locale, così come una localizzazione
del mondiale. Ciò che accade a livello locale, in ambito ambientale, economico, ma non solo, ha un impatto, per quanto minimo, sul sistema
mondiale, e viceversa. In ambito culturale, progresso si ha anche grazie
a operazioni letterarie a più voci, come le tante, ricchissime, presentate
nel testo, così come nel fare propri, da parte di discipline apparentemente opposte, gli strumenti l’una dell’altra. Ci può essere così una
banca etica non solo in senso economico, ma anche in senso pedagogico, se il capitale umano è visto, fin dalla sua più piccola espressione,
come bacino potenzialmente illimitato di ricchezza culturale su cui
quindi investire con fiducia. Questo, a livello educativo, come c’insegna
l’anti-pedagogia di Makarenko, comporta sovente un rovesciamento di
ruoli, per cui il docente, adulto, impara dal discente, bambino. Il bambino è patrimonio prezioso di vitalità e, mi si passi il riferimento a Husserl, è sicuramente più ancorato al mondo della vita, a quelle forme preconoscitive che sono, come ci mostra Husserl ne La crisi delle scienze
europee,19 alla base della scienza più rigorosa, base che in Occidente
abbiamo progressivamente trascurato.
Esperienze come quelle di ricerca e di didattica con le comunità indigene australiane sono un esempio concreto del recupero del precategoriale, dal quale una scienza all’autentico servizio dell’uomo non può
prescindere. Questo mi fa ricollegare alle pagine che tu dedichi a Gould,
il cui approccio alla scienza è basato su una chiara consapevolezza della
necessaria integrazione tra dimensione nomotetica (che cerca di pervenire a una comprensione e classificazione universale e prevede quantificazioni, generalizzazioni e test) e una dimensione idiografica che persegue la comprensione dell’individuo nella sua unicità e richiede intuizione e capacità di trascendere le generalizzazioni nosografiche). Questo medesimo approccio (malauguratamente sempre più negletto, ad
esempio, da molta psichiatria contemporanea riduzionista in nome di
un rigido fisicalismo), veniva anche usato in psichiatria dal filosofo e
psichiatra wittgensteiniano Maurice O’Connor Drury,20 che ho studiato
a fondo.21 Qualche decennio ci divide da Drury e Gould, ma spesso,
19 Cfr. E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Martinus Nijhoffs Bökhandel en Uitgeversmaatschappij, Den Haag 1959, tr. it. di E. Filippini, a cura di E. Paci, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961.
20 Cfr. M. O’CONNOR DRURY, The Danger of Words and Writings on Wittgenstein, edited and introduced by D. Berman, M. Fitzgerald and J. Hayes, Thoemmes
Press, Bristol, 19731, 19962.
21 Cfr. S. LANZETTA, “Uno psichiatra allievo di Wittgenstein. L’etica, l’indicibile, la
cura negli scritti di Maurice O’Connor Drury”, in S. CAVELL et al., Linguaggio, sog-
280
S. LANZETTA, N. SICILIANI DE CUMIS
nell’approcciarsi all’educazione, alla psicologia, e ad altre scienze umane, ci si dimentica che i pregiudizi più grandi verso la persona nascono
dall’affidarsi acritico a classificazioni astratte, che non tengono conto,
ad esempio, del contesto di provenienza dell’individuo.
NICOLA: T’interrompo facendo riferimento al paragrafo (cfr. supra,
nella quasi-Introduzione di questo libro) sui bambini di Makarenko e
Artek, dove scrivo testualmente: “Nelle esperienze di apprendimento/
insegnamento ‘senza frontiere’ infatti, un criterio non tradizionale di
interazione didattica può essere proprio questo: la scelta preliminare e
prioritaria di dare ascolto ai soggetti di insegnamento-apprendimento, a
proposito dei cosiddetti ‘valori’” e, aggiungo, visioni del mondo; o dove
scrivo: “L’ipotesi è dunque questa: che il mettersi personalmente in
gioco come insegnante-ricercatore sia una radicale innovazione (come
il mettersi personalmente in gioco come un adulto insieme a dei bambini, come uomo di scienza insieme agli ignoranti, come persona ricca
insieme ai poveri”… “I mezzi, gli strumenti sono materia di indagine,
esperienza e sperimentazione e sono inscindibili dalle funzioni tecniche
e dalle responsabilità e finalità dell’insegnamento-apprendimento”.
SILVIA: Ecco come siamo quindi giunti, grazie alla prospettiva di una
pedagogia innovativa, al profilarsi di una terza via che si pone come
alternativa, da una parte, a ogni approccio filosofico che, pur proponendosi come chiave di lettura del sociale, si rivela astratto, astorico e
individualistico e, dall’altra, a ogni approccio sociologico che, entrando
in contraddizione di termini con se stesso, resta spazialmente angusto
ed eurocentrico. La terza via consiste nell’ancoraggio a un’etica applicata da parte di discipline (come la sociologia e determinati settori della
filosofia) che non possono prescindere dal riconoscimento che il senso
ultimo di ogni ricerca applicata al sociale si mostra nell’apertura interculturale all’alterità.
NICOLA: Buon lavoro, Silvia.
getto, e forme della filosofia, edited by L. Handjaras, A. Marinotti, M. Rosso, Clinamen, Firenze 2008.
Indice dei nomi1
Abbagnano N., 197, 266
Abramo S., 107-109
Acri F., 60
Adorno F., 210
Adorno T.W., 255-256
Agassiz L., 148, 154, 162, 164
Agostino d'Ippona (santo), 266
Aird D., 231
Ait L., 97
Albarano C., 99
Alighieri D., 192
Alleva E., 148
Amatucci D., 53
Ambrogio A., 147
Amelio G., 19, 50, 70, 71-81, 115, 131,
138 n, 210-211 e n, 223, 226, 230,
244
Amendola G., 219
Ammaja (cliente e operatrice della
Grameen Bank), 126
Anders G., 139, 142 e n
Andi E., 67
Andreozzi V., 51
Andrushenko V., 248-249
Anedda A., 38
Anelli P., 23 n, 37
Angela P., 157
Angeli Bernardini P., 231
Angelini F., 205 n
Angiulli A., 171
Annan K.A., 217
Anscombe G.E.M., 269-270 n
Anselmi M., 139
Antonelli Q., 81, 83
Antoni C., 266
Arbasino A., 50
Argan G.C., 205 n
Aristarco G., 207, 223, 244
Aristarco T., 223
Aristotele, 173 n, 180, 267
Ascone C., 221
Asor Rosa A., 155
Assmuth M., 97
Axmann G., 67
Babeuf F.N., 172
Bacchi M., 83
Bachtin M.M., 22 e n, 51, 128, 208,
210, 255, 271, 276
Bacone F., 265
Bagnato A., 254
Balzac H. (de), 255
Bandini F., 38
Benedetti M., 38
Banfi E., 83
Baraldi M., 197
Barbieri M., 196
Bardet J.P., 84
Barillari S., 111
Barthes R., 255
Basile G.M., 102
Beckett S., 255
Becchi E., 81 e n, 82-84
Begum S., 121 n
Bellerate B.A., 254, 255
Ben Jelloun T., 231
Benedetti M., 38
Benedetto da Norcia (san), 27
1 Il presente indice non menziona le ricorrenze dei riferimenti all’autore del
volume.
282
Indice dei nomi
Benevene P., 50, 228
Benjamin W., 81-85, 255
Bentham J., 150
Benvenuto G., 52
Berbeglia P., 50-51, 53
Bergman I., 210
Berio L., 224
Berlinguer L., 53
Berman D., 279 n
Berrini A., 123
Bettini Mar., 103-106
Bettini, Mau., 231
Biagini E., 38
Bierlaire F., 84
Bilardi G., 97
Binet A., 153-161
Blandano P., 29, 97
Boero P., 83
Bogdanov (Malinovskij) A.A., 102
Bonatelli F., 171
Boncori G., 18 n, 65, 223, 248-249
en
Bondioli A., 83
Bono M., 149
Bradbury R., 190
Bresson R., 210
Brjusov V.J., 102
Broca, 165
Brocca B. (programmi), 54-55
Brook P., 259
Brooks P., 255
Bruner J., 244
Bruno G., 174
Bubbo S., 34, 58-59
Bubbo V., 34, 58
Buffolano M., 50
Buffoni F., 37-39
Buonaiuti E., 171
Burt C., 153
Bury I.B., 151 e n, 155
Cacioppo G., 136 n, 137
Calabrò C., 38-39, 278
Calamandrei P., 45 n
Caldiron O., 205 e n
Calvino I., 52, 57, 59, 69, 139-140 e n,
190, 213, 217, 224, 244, 246, 255
Callari Galli M., 46 e n
Campanella T., 174
Camus A., 255
Cannas V., 71 n, 131 n, 138 n, 225
Cantalini F., 97
Cantalini G., 97
Capellini G., 162
Capellupo P., 58-59, 62
Capocasale T., 184-185
Carlini P., 51
Carlone M., 97
Castelnuovo Frigessi D., 10
Cattaneo C., 158
Cavell S., 279-280 n
Čechov A.P., 244
Chagall M., 6, 107-109, 222
Chaplin C., 210, 244
Chassagne S., 84
Chiappelli A., 171
Chiesa A., 205 n
Chiesa F., 67
Christie M., 274 n
Cibaldi di Rezzato A., 222
Cicerone M. T., 194
Cirillo S., 205 n, 212
Clavenna P., 67
Clemente P., 205 n, 208, 210
Collodi C. (Lorenzini C.), 98-99, 243
Colosimo A., 186
Colosimo E., 35, 184-187
Colosimo G., 185
Colosimo L., 185, 187
Colosimo N., 186
Colosimo V. sen., 185
Colosimo V., 35, 184-187
Colosimo De Stefano G., 185, 187
Comte A., 262
Condorcet M.-J.-A. Caritat (marchese
di), 149, 151
Consoli G., 6, 239 n, 252-260
Conte G., 38
Conte T., 100
Conti G., 205 n, 207-208, 212
Contreras N., 67
Corda Costa M., 138 n, 157, 224, 228
Cordin P., 83
Corsini C.A., 84
Cortellazzo M. A., 83
Cosco T., 110
Cottinelli V., 228
Credaro L., 156, 271
Crescentini C., 214 n
Crisafulli F., 99
Crisanti C., 93
Croce B., 7, 21 n, 43, 169 n, 171, 178 n,
179 e n, 198, 266
Cucchi M., 38
Indice dei nomi
Curcio A. , 110
Curiel E., 209 e n
Cuscona M.B., 98
D’Alessandro M., 127, 219, 223
D'Arcangeli M.A., 223
Dall'Orto I., 100
D'Elia G., 38
D’Isa D., 231
D'Orgemont N., 171
D’Orta M., 228
Dal Pane L., 169 n, 173 n, 181
Damiani C., 38
Dante (vedi Alighieri)
Dahrendorf R., 266
Darwin C., 147 n, 148-149, 152, 157158, 168, 174, 176
De Angelis M., 38
De Bella A., 171
De Dominicis S.F., 171
De Filippo E., 35
De Gregori F., 34, 223
De Maria L., 212
De Nicola A., 125
De Sica C., 207
De Sica M., 211
De Sica V., 198, 205 n, 207, 211 n
De Signoribus E., 38
Declich A., 51
Dekker J.J.H., 84
Del Buono O., 111
Demartis A., 139, 214 n, 223
Dervishaj N., 67
Dewey J., 44, 47, 51, 84, 113, 133-134,
136, 139, 156-157, 161-162, 196,
224, 243-246, 265, 271
Di Biasio S., 226
Di Bitonto V., 205 n
Di Filippo V., 29, 97
Di Giacomo G., 255
Di Gianni L., 207
Di Gregorio A., 93
Di Mario (famiglia), 200-202, 223
Di Mario U., 200-202
Diderot D., 265
Diogene Laerzio, 216, 234
Dojcinovski D., 67
Dolci D., 136-143 e n
Dornetti E., 22 n, 232
Dos Passos J.R., 255
Dostoevskij F.M., 255
Down J.L., 148
283
Durkheim E., 262
Eatherly C., 139
Eccles J., 168 n
Eco U., 217, 255
Egidi D., 225
Ejzenštejn S., 210
El Charki D., 67
Engels F., 53, 171, 174 e n, 262, 265
Eraclito di Efeso, 216 e n, 229, 234, 265
Erba L., 38
Ewers H. H., 84
Eysenck H., 157
Farina A., 228
Faron O., 84
Fattori M., 156
Feliciani F., 127
Fellini F., 84
Ferguson A., 262
Ferrara G., 249
Ferrari M., 83
Ferrarotti F., 5-6, 9-15, 244, 260-268,
275, 277
Ferrero G., 149
Ferretti G.C., 205 n
Ferri E., 154
Ferri L., 171
Festa F., 51
Feuerbach L., 174
Ficcadenti G., 97
Fichera Mar., 103-106
Fichera Mas., 211
Filippini E., 279 n
Finn P., 230
Finzi E., 159
Fiorentino F., 171
Fiorenzano G., 97
Fiori U., 38
Fitzgerald M., 279 n
Fleck L., 255
Floris F. C., 254
Foraboschi D., 83
Foresta G., 6, 223, 234-237 e n
Foresta S., 234
Fornelli N., 171
Fortichiari A., 230
Foschini L., 129
Frabboni F., 44
Frabotta B., 38
Franzò P., 127, 219, 223
Frasca G., 38
284
Indice dei nomi
Frasca R., 215, 222
Frassati F., 209 n
Freinet C., 271
Freire P., 52, 255
Freud S., 151, 156
Froese, L., 254 n
Fugazzola A., 53
Fusiani F., 219
Gabriele F., 97
Gabriele V., 139
Gadamer H.- G., 255
Gaetano G., 131 n
Gaetano (padre), 97
Gagliarducci P., 229
Galilei G., 151
Galton, 165
Gambetti G., 205 n
Gandiglio M., 51
Gandini R., 98
Garcea A., 104, 196
Gargani A.G., 270 n
Garin E., 84, 163, 170 n, 176 n, 209210, 224, 244, 263-264 e n, 271
Garin M., 82
Garini G., 120
Garroni E., 255
Genovese A., 13
Gentile G. (anche riforma Gentile e
Fondazione “G. Gentile” di Roma),
44, 164, 171, 247
Gentilini F., 207
Georgescu-Roegen N., 113
Gerratana V., 164 n, 169-170 e n,
176 n, 178 n, 264 n
Gesualdi F., 123 n
Giannarelli A., 205
Gibran K., 195
Giovannelli F., 29
Giovannini E., 29, 93, 97
Gisondi F. A., 205 n, 208
Gissing G., 110
Giudici G., 38
Gnisci A., 51
Goddard H.H., 153-154, 166
Gogol' N.V., 245
Goethe J.W. von, 194, 216-217 e n,
228-229, 234, 263
Goodich M., 84
Gorbačëv M., 103
Gordimer N., 168
Gor'kij M. (anche Colonia “M. G.”),
93, 143, 203, 229, 245, 257-258
Gould S.J., 6, 147-168 e n, 272, 279
Gramsci A. (e Fondazione “Istituto
Gramsci” di Roma), 44, 47, 51, 56,
84, 102, 113, 135, 139, 162-164 e n,
178 e n, 196, 210, 223-224, 243, 245247, 255, 260, 264 e n, 265-266,
270-271
Gregory T., 156
Grifoni M.L., 93
Griva L., 30
Griva O., 248
Guanella L. (Opera “Don L. Guanella” di Roma), 247
Guerra A., 169-170 e n
Guerrini I., 83
Gurvitch G., 262
Habermas J., 255, 265
Hajeera (cliente e operatrice della Grameen Bank), 126
Handjaras L., 280 n
Haring K., 222
Havelock Ellis H., 151
Hawkins D., 152 n, 166
Hayes J., 279 n
Hébrard J., 83
Hegel G.W.F., 9, 52, 174, 176, 255
Heidegger M., 210, 255, 265
Herbart J.F., 174 e n, 176
Herrnstein R., 168
Herskovits Melville J., 17-18 e n
Hillig G., 254 n
Horkheimer M., 255, 262
Husserl E., 139, 142, 270, 279 e n
Iemma O., 205 n, 207 n
Iqbal Masih, 233-234
Ivanov V.Vs., 137 n
Jensen A.B., 153, 155, 157
Jolis A., 22 n, 232
Jolly L., 152 n
Jonesco E., 255
Joyce J., 255
Julia D., 81 e n, 83-84
Jung G., 137, 151
Kadarè I., 81
Kafka F., 255
Kamin L., 157
Indice dei nomi
Kandinskij V. V., 222
Kant I., 149, 151, 163, 174, 176, 197,
244, 261-262, 266
Kautsky K., 171
Kierkegaard S., 266
Klapisch-Zuber C., 84
Klee P., 222
Kubrick S., 210, 272
Kurosawa A., 30
Labriola A., 6, 7, 9-10, 19, 21, 43 e n,
45, 135-136, 163-164, 169-182 e n,
224, 243, 245-246, 262 e n, 267,
271
Labriola F.S., 171
Labriola T., 171
Lacis A., 81-82, 84-85
Laeng M., 169 n
Laffi C., 67
Lamarque V., 38
Lanaro S., 163
Lanati L., 83
Landucci G., 158
Lanzetta S., 6, 269-280 e n
Lasseter J., 234
Lastrucci E., 52
Latina L., 67
Lavagna R., 99
Le Bon G., 151
Le Brun J., 84
Lebreton T., 84
Lejeune P., 83
Lenin N., 103
Leontjev A.N., 137 n
Lessona M., 162-163
Leverkühn A., 139
Levi Strauss C., 244, 271
Lhaimar A., 67
Lincoln A., 233
Lippmann W., 161
Lo Bianco J., 274 n
Lo Conte C., 67
Lodi M., 244
Loi F., 38-39
Lombardi F., 266 e n
Lombroso C., 149 n, 151, 162-166,
262
Lombroso P., 149, 151
Lotman J., 255-256
Lovejoy, 151, 155
Luc J.-N., 84
Lukács G., 255, 265
285
Ludovisi C., 127, 139, 219, 223
Luzzati Em., 100
Luzzati En., 120 e n
Machiavelli N., 139
Machel G., 218
Maddaloni C., 249
Magistretti S., 158
Magli L., 108
Magrelli V., 38
Magris C., 244
Maiuri R., 50, 127, 205 n, 219, 223
Makarenko A.S., 5-6, 19, 50-51, 79, 84,
93-96 e n, 102, 113-127 e n, 198, 202203 e n, 224, 229, 239-280 e n
Makhmalbaf S., 211
Malinin N., 37-39
Mandela N., 218
Manganelli G., 99-100
Mann T., 139
Mannheim K., 262
Manson M., 84
Mantegazza P., 150 n, 158
Marchese A., 219
Marconi S., 100
Mariani E., 127
Mariano R., 157 e n, 173 e n
Marika R., 274 n
Marinetti F.T., 212
Marinotti A., 280 n
Maritain J., 265
Marta C., 53
Martin H.-J., 82
Marx K., 53, 84, 174 n, 180, 262-265
Masaryk T.G., 171
Maselli F., 205 n
Masih (vedi Iqbal)
Mastroianni G., 22 n, 102, 128, 166,
178 n, 244
Matisse H., 222
Mazzarino S., 13
Mazzoni G., 38
Mazzonis D., 148
McCulloch S., 277 n
McCulloch Childs E., 277 n
Medolla E., 71 n, 136-139 e n, 143
Melandri E., 46-47, 53
Melville H., 255
Merton R. K., 266
Merini A., 38
Merleau-Ponty M., 255
Mettini E., 254
286
Indice dei nomi
Micali G., 217
Michels R., 158
Milaneschi V., 97
Milani L. (don), 51, 133, 139, 224,
246
Mill J.S., 151, 265
Minestrini W., 69
Miró J., 222
Modugno D., 29-33
Modugno M., 33
Moiseeva O., 249-252
Moloise B., 168 n
Mondolfo R., 171
Montani P., 255
Montessori M. (e Opera Montessori),
51, 99, 139, 151, 165, 225-226, 237238 n, 243, 247, 272
Moravia A. (Pincherle A.), 255
Moratti L. (riforma), 135
Moretti G., 255
Morgan L.H., 172
Moro R., 124-126
Morton S.G., 155, 159, 165
Mosca G., 262
Mounier E., 265
Mourad Z., 67
Mumford L., 265
Mungo M.T., 49
Murri R., 171
Musil R., 255
Musiu G., 97
Mussapi R., 38
Musso M.P., 138 n, 139
Mussolini B., 149
Oliverio A., 149 n
Olivetti A., 265-267
Ongini V., 228
Oukili M., 244
Orano P., 171
Orsomarso V., 71 n, 138 n, 225
Owen J., 194
Nanni R., 205 n
Nardi D., 5, 17-19 e n, 21-22
Natali D., 97
Neraudau J.-P., 84
Negri G., 207
Neri G., 38
Nichetti M., 205 n
Nicolai G.M., 102-103
Nisbet R.A., 155
Nkosi X., 221
Nove A., 38
Novozhilov B., 248
Nuriahan (cliente e operatrice della Grameen Bank), 118
Nuzzi P., 205 n, 207
Pace G.M., 150 n
Paci E., 279 n
Palazzeschi A., 212
Pangrazi T., 139
Parsons T., 266
Pascal B., 266
Pascoli G., 193-194
Pasolini P.P., 213
Pasquali G., 44, 45 n
Pasquinelli A., 216 n
Pasquinelli D., 232
Pasternak B.L., 255
Paul D., 269 n
Pavese C., 265
Pedullà W., 205 n
Peluso D. R., 58, 63
Petraroli R., 93
Piaget J., 46-47, 156, 224, 245-246
Picasso P., 220
Picella F., 127
Pico della Mirandola G., 133, 224
Piersanti U., 38
Pino V., 139
Piovesan R., 270 n
Pirandello L., 171, 255
Pisarra P., 80
Platone, 149-151, 154, 163-164, 173 n,
265, 267
Platonov A.P., 255
Plauto T.M., 194
Plechanov G.V., 171
Plinio il Vecchio, 194
Pluviano M., 83
Pompili V., 205 n, 226
Popper K., 265
Pramila (cliente e operatrice della Grameen Bank),126
Preti G., 263
Propp V.J., 52
Proudhon P.-J., 265
Proust M., 255
Pusterla F., 38
O'Connor Drury M., 279 e n
Raffaello Sanzio, 220
Indice dei nomi
Raicich M., 45 n
Ravenni G. B., 83
Reagan R., 124
Recchia G., 51, 139, 226-227
Reggio S., 102, 143
Riccardi A., 38
Ricci C., 272
Ricoeur P., 255-256
Risi N., 38
Risso M., 10
Rivnyj I., 249
Rodari G., 30, 52, 67, 192, 213, 226,
244, 246
Romano G., 150 n
Rorty R., 255
Rosati C., 83
Rossi P., 18 n, 151 n, 168, 270
Rosso M., 280 n
Rotella M., 107-109
Rousseau J.J., 210, 253
Ruberti A., 168
Ruffilli P., 38
Runci S., 97
Russell B., 156
Sade (de) D.A.F., 255
Saint-Simon C.-H. (Rouvroy, conte
di), 262
Salerni A., 52
Salles W., 211
Samà V., 67
Sandrucci R., 136-143 e n
Sanguineti E., 38, 231
Santagata S., 58
Santagostini M., 38
Santi F., 38
Santoni Rugiu A., 205 n, 219
Santopolo F., 223, 234
Santucci A., 170 n, 176 n
Sanzio R. (vedi Raffaello Sanzio)
Sanzo A., 138 n, 223, 262 n
Sartre J.P., 255, 265
Sasso G., 155
Savinio A., 207, 213
Savo S., 110, 119
Scalfaro (famiglia), 187
Scalzi A., 34, 58
Scalzi F., 35, 58, 60
Scalzi G., 58
Scalzo D., 71 n, 115, 138 n, 223, 225,
254, 262 n
Scandura C., 100-102
287
Schaffner F.J., 190
Scheler M., 142
Schelling F.W.J., 266
Scibilia G., 84
Segrè G., 49
Seif M., 67
Seneca L.A., 194
Senofonte, 173 n, 267
Sergi G., 149
Serra D., 219
Shill E., 266
Siciliani L., 194
Siciliani de Cumis D., 188, 199-200,
205 n, 223
Siciliani de Cumis Fel., 187-203
Siciliani de Cumis Fel. jr., 223
Siciliani de Cumis Fr., 223
Siciliani de Cumis L., 188, 199-200, 223
Siciliani de Cumis M., 188, 199-200, 223
Siciliani de Cumis V., 223
Siciliani de Cumis Colosimo G., 190,
192, 197-198
Siciliani de Cumis Fersini A., 8, 196,
199, 201, 223
Sicoli T., 222
Simmel G., 262, 265
Sinatra F., 93, 96
Šklovskij V. B., 255
Socci E., 175
Socci L., 38
Socrate, 44, 78, 173 e n, 181, 210, 214,
265, 267
Solženicyn A. S., 255
Sombart W., 255
Sorel G., 171
Spaventa B., 163-164, 174 e n
Spaziani G., 29, 93-97
Spaziani M.L., 38
Spearman C., 153
Spencer H., 151, 262
Spinelli F., 58
Spinoza B., 142, 174 n, 181
Stakanov A.G., 27
Stanciu I., 67
Stanton A., 234
Stazio C., 194
Stendhal (Beyle H.-M.), 255
Strada V., 255
Strasberg L., 97
Stridberg A.S., 255
Stuart Mill J., 265
Szpunar G., 139
288
Indice dei nomi
Tabet P., 216, 231
Tabucchi A., 50
Tacito P.C., 151
Talarico E., 58-59, 62
Talarico M., 58
Tall A., 120
Tallini D., 108-109
Tamburrino F., 249-252
Tarde G., 262
Tari A., 171, 173 e n
Tawney R.H., 262
Terman L.M., 153-154, 161
Terragni M., 228
Testoni (famiglia), 201, 223
Testoni I., 98
Thatcher M., 124
Thomas M.H., 157
Thurston L.L., 153
Tocco F., 163, 171
Tognonato C., 261
Tolstoj N.L., 255
Tomassetti T., 51, 71 n, 138 n, 139,
225
Torre A., 171, 178 n
Torrini C., 234
Tosi V., 205 n
Tozzi F., 255
Toulmin S., 167
Touraine A., 149 n
Trerè Ciani A., 228
Trincale F., 223
Trinchero 270 n
Trotta D., 128 n
Truffaut F., 190
Turati F., 153, 159
Turco L., 87
Vaccarelli A., 51, 215 n, 228
Vailati G., 171 n
Valduga P., 38
Varrone M.T., 266
Vassalli S., 168 n
Vattimo G., 278 n
Veblen T., 262
Veggetti M.S., 65, 219, 245, 248-250
e n,
Veltroni W., 125
Vera A., 171, 173-174 e n
Veraldi (proprietario), 186
Vial M., 84
Viana L., 52
Vico G.B., 172, 174 e n, 181
Vignes V., 83
Villalta G.M., 38
Villari P., 182 n
Visalberghi A., 140 e n, 152 n, 154-156,
168, 244, 246, 255
Visalberghi E., 148
Vittorini E., 139
Vivanti C., 163
Viviani C., 38
Volpicelli L., 139
Volterrani E., 231
Vygotskij L.S., 47, 51, 136-137 e n,
141-142 e n, 219, 224, 240, 243,
245, 271
Walcott D., 10
Washington T.T., 155
Weber K., 23
Weber M., 262, 265
Weil S., 265
Weitz S., 254
Widmar B., 170 n
Wiehl I., 254 n
Wilson J., 168
Wittgenstein L., 269-270 e n, 277, 279
en
Woolf V., 255
Wright G.H., 269 n
Yerkes R. M, 153
Yimou Z., 211 e n
Yunus M., 6, 19, 22 e n, 37-40, 113-146
e n, 224, 232-233, 244, 246, 271
Zaffina F., 107-109
Zani A., 147
Zanotelli A., 124-125
Zanzotto A., 38
Zavattini A., 205 n, 207
Zavattini C. (e Archivio “C. Zavattini”
di Roma), 6, 52 e n, 54, 139, 191-192,
205-214 e n, 219-223, 226, 228,,
230, 232-233, 244, 247, 273
Zeller E., 173-174 e n, 176, 181
Ziglio C., 149
Zola E., 255
Zuccato E., 38-39
Indice analitico
Adulti, 17-19, 51-52, 69, 83-85, 91,
110, 165-167, 191, 206-209, 213,
218-223, 227-229, 240, 243
Antipedagogia, 21-33, 37-39, 44,
54-56, 72-73, 128, 132, 139, 209212, 242, 256, 272
Anziani (Vecchi), 10, 17, 19, 30-32,
35, 43-44, 51-52, 69, 74, 84, 127,
134-135, 142-145, 157, 164, 167,
172, 183-203, 205-214, 220, 232233, 238, 243, 251-252, 255-256,
258, 262
Appartenenza, 61, 85-93, 127-131,
214, 219, 231-232, 275
Apprendimento, 12, 28, 47-48, 52,
56, 97, 105, 140-141, 153-156, 160,
166, 172, 177, 181, 195, 226, 239241, 270-271, 274-275, 280
Attività, 17, 26, 34, 36, 39, 46, 4849, 51, 55, 58-60, 62, 64, 68-69,
73, 75, 82, 101, 104, 115-116, 119,
121, 127, 130, 135, 142, 165, 169,
179, 191, 202, 211-212, 221, 224226, 229, 240-242, 248-249,
254, 260, 263-264, 270
Autobiografia (Biografia), 7, 21, 29,
54-55, 58-63, 66-70, 84-98, 103112, 128, 131-143, 169-203, 205214, 215-234, 239-253, 269-280
Bambino/Bambini (Infanzia), 9-16,
17-20, 21-41, 50-52, 66-70, 71100, 127-131, 138, 145, 165, 168,
170, 176-182, 190, 193-195, 197198, 199-200, 202, 205-214, 215238, 239-245, 247, 255, 257, 264,
273, 275-276
Biblioteca (Emeroteca), 35, 49, 5863, 110, 228, 232, 247, 258
34-36, 58-63, 66-70, 71-81, 1
Calabria (Catanzaro, Petronà, Sellìa
Marina), 107-111, 128-129, 132,
166, 183-203, 211, 223, 229, 234,
237-238, 244-245, 247, 276-277
Cinema (Film), 19, 33, 54, 67, 71-81,
84, 101, 107, 110, 114-115, 129, 131132, 190, 199, 201, 205-215, 222226, 230, 233-237, 240-243, 275276
Collettivo/i (Individuale/Collettivo,
Collettivo/i misto/i), 21-41, 43-70,
71-97, 105, 107-112, 113-127, 128131, 136-146, 191-192, 199-200, 203,
205-214, 217-219, 228-229, 239268, 268-280
Computer, 24, 49, 57-58, 62, 167-168,
201, 278-279
Comunicazione, 9-15, 26, 72-73, 8486, 97-98, 133, 246, 261, 278-280
Conflitto (Guerra/Pace, Dialettica,
Stasi/Scoppio), 45, 93, 98, 123, 143,
159-160, 170, 172-176, 181, 193, 199,
207-210, 227, 230, 232, 255-260
Contesto (Testo/Contesto), 12, 15,
22, 30, 34, 39, 41, 48-49, 54-55, 58,
68, 81-84, 93-94, 100-108, 115-117,
127, 130-139, 148, 152-165, 170,
178, 181-201, 212-213, 220, 228,
232, 239, 243, 247-248, 256-259,
263, 268, 274, 278-280
Coscienza (Falsa coscienza, Ideologia, Critica dell'ideologia), 11, 14,
45, 47, 53, 95, 122, 140, 147-168,
175, 191, 267, 276
290
Indice analitico
Creatività, 19, 25-26, 40, 46, 52, 60,
63, 97, 121, 130, 133, 134, 139,
143, 200, 226, 236, 241-242, 254255, 267, 273
Criminalità, 163-165, 166-168
Critica/Autocritica (vedi Ideologia)
Cultura/Culture (Multiculturalismo,
Intercultura/interculture, incultura /acculturazione, transculturalità ecc.), 9-15, 17-19, 21-41, 4370, 71-106, 107-112, 113-146, 147182, 183-203, 205-238, 239-268,
269-280
Dialogo, 12, 14, 22, 39, 49-54, 7181, 85-93, 127, 131-136, 193-195,
197, 210, 222, 249-252, 269,
274-280
Didattica/Ricerca-Ricerca/Didattica (vedi Educazione e relative
tematiche), 5, 10, 15, 18, 21, 2526, 29, 44-57, 60, 65-66, 70, 74,
94, 99, 102, 105, 108, 110, 128,
132-133, 136, 138-141, 151-157,
163-172, 176-179, 183-184, 188,
193, 196-197, 199, 201, 206, 209,
213, 217-219, 222-232, 236, 239249, 254, 256, 266, 266, 269,
271-275, 278-280
Differenza (Analogia), 14, 37, 43, 4546, 47, 75, 93, 95, 98, 128, 136137, 143, 145, 154, 158-159, 162,
188, 256, 265, 270
Diritti (Doveri, Diritti umani, Diritto di stampa, Diritto alla diversità, Il “terribile diritto” ecc.),
45, 47, 52, 64-66, 88-89, 91, 118,
121, 124-125, 183-187, 208, 217,
223, 233, 276
Donne (Questione femminile), 25,
32, 51, 80, 82, 118-121, 126-129,
150, 153, 159, 165, 168, 197, 232
Editoria (vedi Diritti/Diritto di stampa, Multimedialità e voci relative), 65-66
Educazione/Autoeducazione (vedi
Critica/Autocritica, Diseducazione, Pedagogia/Antipedagogia), 1012, 18, 28-29, 37, 43-48, 51-57, 7173, 82-85, 88, 92-93, 102-103,
116, 132-136, 138-139, 142-143,
147, 149, 154, 156, 164-173, 176,
180-182, 188, 194-195, 197, 199,
202, 209-20, 214-215, 217-218,
221, 224, 235, 227, 231, 239, 240,
242, 245-249, 270, 280-281
Famiglia (Carte di famiglia), 13, 69,
80, 82, 84, 104, 110-111, 169, 183203, 243, 277-278
Fiducia (Microcredito/Macrocredito),
9-15, 17-19, 21-41, 69, 71-106, 107112, 113-146, 169, 147-182, 183203, 215-238, 239-268, 269-280
Figli/Genitori, 3, 7, 9-15, 18-19, 21,
27-28, 31, 33, 77, 80, 83, 97, 111,
116, 124, 126, 149, 171, 183-203, 233
Filosofia/Filosofie, 3, 9-15, 17-19, 2141, 43-70, 71-106, 107-112, 113-146,
147-168, 169-182, 203, 205-238,
239-240, 260-268, 269-280
Futuro (Prospettiva, Gioia del domani), 14, 21-23, 26-27, 29-30, 3334, 46, 52, 56-62, 66-67, 73-76,
80, 87, 94, 104, 108-110, 115, 127,
132, 134, 140-143, 150, 170, 172,
181, 184, 187-190, 196, 199, 202220, 224-225, 229, 232, 242-249,
254-260, 261-268, 269-280
Gioco (Giocattoli, Giochi di ruolo,
Ludico, Ludiforme; ma vedi anche
Lavoro), 15, 25-26, 30, 33, 54, 57,
60, 64, 67, 82, 85-93, 94-95, 105106, 109, 126, 139, 141, 149, 167,
188, 195, 200, 206, 213-214, 217,
219, 222-225, 226, 229, 235, 240,
242, 246, 249, 254, 271-272, 280
Giornali (Giornalismo, Quotidiani, Quotidianità), 10-11, 14, 17, 21-41, 4445, 48-50, 53, 56, 64-65, 73, 76,
82, 161, 107-108, 111, 123, 135, 144,
149, 155, 158-161, 168-169, 173,
175, 178, 192, 199-201, 205-208,
209, 211, 215, 221, 224-225, 227228, 231, 234, 240-242, 248, 249252, 264
Globalità (Globalizzazione, Mondo,
Mondialismo, Incontramondo), 915, 17-19, 21-41, 35, 43-70, 71-106,
107-112, 113-146, 147-182, 183-203,
205-238, 239-268, 269-280
Indice analitico
Handicap/Disabilità (vedi Risorsa),
63, 84, 94, 109, 226, 246
Identità (vedi Differenza, Analogia),
10, 14, 47, 72, 92, 206, 229, 231,
267, 274, 269-280
Ideologia (Critica dell'ideologia), 6,
43, 127, 147-169, 170, 221
Insegnanti/Insegnamento (vedi anche Studenti, Apprendimento),
12, 22-23, 28, 46-48, 50-54, 5661, 67, 70, 73, 87, 91-92, 99, 107,
110-111, 116, 129-130, 133-137141, 149, 153, 163-164, 169-181,
195, 197, 199, 207, 210, 214, 219,
226, 231, 255, 237, 239-240, 245,
270-275, 279-280
Integrazione, 10, 18, 45-46, 49, 51,
67, 98, 101, 104, 106, 154, 196,
205, 226, 231, 243, 248, 260,
263, 267, 269-280
Intercultura (vedi Cultura, Identità,
Differenza/Analogia, Straniero)
Interdisciplinarità, 18, 55, 66, 148,
239
Libertà (Disciplina), 17-18, 32, 4748, 53, 55, 66, 78, 91, 94, 99, 101,
106, 108, 119, 132, 139, 148, 155,
164, 166, 170, 173-174, 176-178.
184, 195, 197-198, 201, 210, 223,
229, 233, 239, 242-243
Marxismo (Materialismo storico,
Filosofia della prassi), 12-13, 84,
128, 163, 169-182, 262-263
Mercato (vedi Scambio), 53, 78,
79, 121, 124
Microcredito/Macrocredito (vedi Fiducia)
Mondo (vedi Globalità e tematiche
connesse)
Multimedialità (vedi Giornali, Cinema, Teatro, Televisione, Computer, Musica, Editoria), 52, 56, 213
Musica (vedi Multimdialità), 29-34
Nazionalità, 170, 181, 207, 249
Pace/Guerra (vedi Conflitto)
Partecipazione, 9-15, 69, 78, 109,
231, 255, 260-268
291
Pedagogia/Antipedagogia (vedi anche Educazione/Diseducazione) 56, 7, 10-12, 18, 21-48, 51-57, 71-73,
82-85, 88, 92-94, 102-103, 105116, 120-139, 142-149, 154-157,
163-188, 190-199, 202-203, 209210, 214-215, 217-218, 221-224, 235,
227, 229, 231, 239, 240, 242, 245249, 254-261, 270-280
Pinocchio, 95-100, 139, 207, 243,
272
Potenzialità, 62, 115-119, 122, 128, 140,
167, 232, 241, 265
Povertà, 14, 22, 37, 80, 111, 115-136,
146, 165, 207-211, 232-233, 240,
267, 280
Pregiudizi, 43, 87-89, 147-168, 272,
280
Progetto, 46, 53, 61, 67, 77-78, 9394, 97, 99, 104, 116-117, 122, 129,
191, 203, 216-218, 223, 236, 239,
246-247, 269
Progresso, 9, 12-13, 72, 151, 155, 170,
181, 279
Prospettiva, 14, 21-23, 27, 33-34, 46,
52, 54-58, 62, 66, 73-74, 76, 87,
94, 104, 109, 115, 127, 132, 134,
142-143, 150, 181, 184, 188, 190, ,
202-203, 206, 209, 214, 218, 220,
224-225, 229, 232, 242-243, 246,
249, 254-257, 261, 271, 274-280
Questione meridionale, 21-41, 49-54,
58-63, 71-81, 85-93, 103-106, 107112, 127-136, 147-168, 169-182,
183-203, 215-233, 237-238, 239248, 269-280
Razza/Razzismo (vedi anche Cultura, Globalità, Identità, Integrazione, Pregiudizi, Questione meridionale, ecc., e voci connesse), 24, 4445, 51, 64, 72, 74, 86-87, 90-91,
112, 121, 147-170, 201, 270-280
Recensione, 9-15, 17-19, 29-34, 3741, 51, 66-70, 71-81, 81-85, 85-93,
93-95, 100-102, 102-103, 103-106,
107-109, 110-111, 113-127, 127-131,
136-146, 147-168, 215-234, 234237, 237-238, 253-260, 260-268,
269-280
292
Indice analitico
Responsabilità, 52, 57, 66, 72, 94,
122, 125, 127, 132, 135, 142, 162,
197, 208, 210, 221, 241, 254,
260, 277, 280
Ricerca/Didattica-Didattica/Ricerca e attinenze relative), 5, 10, 15,
18, 21, 25-26, 29, 44-57, 60, 6566, 70, 74, 94, 99, 102, 105, 108,
110, 128, 132-133, 136, 138-141,
151-157, 163-172, 176-179, 183184, 188, 193, 196-197, 199, 201,
206, 209, 213, 217-219, 222-232,
236, 239-249, 254, 256, 266,
266, 269, 271-275, 278-280
Risorsa, 28, 53, 94, 105, 109, 111,
189, 222, 231, 246
Rispetto (versus Tolleranza), 64,
76, 86, 92-93, 105, 108, 125, 149150, 168, 185, 187, 190, 197, 206,
232, 239
Scambio (vedi anche Mercato, Fiducia, Microcrdito/Macrocredito, Risorsa, Comunicazione, Cultura e
altre tematiche connesse), 10, 17,
19, 25, 53, 55, 77-79, 96-97, 121,
124, 196, 209, 222, 263, 269
Scuola (vedi Insegnanti, Studenti e
tematiche connesse)
Società (S0ciologia), 9-15, 46, 5657, 77, 82, 86, 91, 93, 99, 117118, 121, 140-141, 148, 151-153,
155, 165-170, 180-182, 224, 229,
241-243, 260-268
Sogno, 29-34, 49, 60, 100, 102, 107109, 136-146, 244-245, 252
Storia, 12, 25, 28-31, 4648, 51-52,
54-61, 67, 76, 78, 80-84, 87-89,
91-93, 98-100, 102-103, 106,
108, 111, 121, 124-128, 135-136,
148-149, 151-152, 155, 157-162,
168-188, 195-196, 199-200, 205210, 214, 221,225, 227, 233, 234238, 246-248, 257, 260-262,
276-278
Storicismo, 54-56, 164, 178, 265
Straniero (vedi Cultura, Identità,
Differenza) 22, 86, 89, 91-93, 227228, 231, 276
Studenti (vedi Scuola, Apprendimento, Università, Insegnanti e altre tematiche variamente collegabili), 17-18, 23, 48-50, 54, 57-60,
65, 68, 70, 91, 100, 107, 113, 115,
120, 127, 130, 132-133, 136, 150,
162, 168, 170, 196, 119, 202, 2º5,
219, 226, 228-229, 232, 240, 245,
249, 251, 261, 270, 271, 275
Teatro (vedi Multimedialità e tematiche relative), 29, 33, 36, 75, 8184, 92-94, 97-101, 110, 199-200,
208, 226, 229, 238, 242
Televisione (vedi Multimedialità), 54,
75, 129, 190, 199, 207, 211, 215, 234
Testamento, 169, 183-187, 198-199,
219
Tolleranza (vedi Rispetto)
Tradizioni, 89, 93, 111, 117, 185, 249,
267, 272-273
Trasmissione culturale, 73, 129, 158,
183-187, 187-203
Università (vedi anche Scuola, Studenti, Insegnanti/Insegnmento e
altre voci variamente collegabili),
12, 14-15, 18, 22-23, 43-45, 50, 54,
60, 65-66, 100, 109, 116, 120, 128129, 132-133, 135-136, 138, 156,
163, 165, 169-178, 181, 195, 199201, 205, 215, 223-225, 229-230,
239-249, 254, 261-262, 269, 271
Utopia, 28, 54, 57, 74, 76, 78, 170,
200, 205, 208, 212, 236, 255
Vita, 11, 17-28, 30-35, 39, 45, 54, 59,
61-64, 67-69, 76-80, 82-83, 85-88,
92, 94-95, 99, 103-106, 111, 116,
122-123, 130, 132, 134, 140-144,
147-148, 151, 153, 160, 164-165,
169-170, 175-176, 180, 184-185, 187192, 195-197, 199-203, 206, 208,
217, 219-220, 222, 231, 234, 242,
244, 257-258, 261-262, 264-267,
269-280
Zingari, 54, 96
(segue volumi pubblicati nella collana):
25. G. Campani, Dalle minoranze agli immigrati. La questione del pluralismo culturale e religioso in Italia
26. C. Betti (a cura di), Don Milani fra storia e memoria. La sua eredità
quarant’anni dopo
27. E. Macinai, Bambini selvaggi. Storie di infanzie negate tra mito e realtà
28. L. Bravi, Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dell’educazione
dei rom e dei sinti in Italia
29. C. Covato, M.I. Venzo (a cura di), Scuola e itinerari formativi dallo Stato pontificio a Roma capitale. L’istruzione secondaria
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Nicola Siciliani de Cumis - I figli del papuano (testo volume)