CESARE ZAVATTINI
I POVERI SONO MATTI
introduzione di Renato Barilli
I LIBRI DI
CESARE ZAVATTINI
ISBN 978-88-452-6905-9
© 1937/2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano
I edizione Bompiani 1937
II edizione Tascabili Bompiani ottobre 2014
Introduzione
di Renato Barilli
Diversi anni fa, incaricato di scrivere un’introduzione a una raccolta complessiva di Opere di Zavattini, avvertivo come obbligo primario il tentare di avanzare un’ipotesi globale e
unitaria, capace di cucire con un flo coerente
le mille facce con cui Zavattini ha amato presentarsi al pubblico, e spesso scandalizzarlo.
In lui, come è noto, lo scrittore si è alternato al
soggettista cinematografco, e ora fnalmente al
regista di se stesso, nonché al pittore. Inoltre,
quanto vaga e generica appare l’espressione di
“scrittore”, se con essa si intendono designare
ruoli così diversi tra loro come quelli dell’umorista, del comico, del fumista che compare nei Tre libri, o invece del poeta dialettale,
dell’autore aristocratico e introverso, del moralista, del polemista, del diarista, e così via, in
una serie inesausta di apparizioni proteiformi,
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in cui ben presto si indovina che il progetto
unifcante è appunto quello di sorprendere, di
spiazzare le attese...
Infatti l’ipotesi globale che mi sentivo di
emettere era incentrata sull’immagine di uno
Zavattini quale smodato provocatore dell’evento, della sorpresa, sia col mezzo non del
tutto congeniale della scrittura, sia con altri
più acconci come la macchina cinematografca
o i materiali della pittura. Un’ipotesi, questa,
che comincia a funzionare con i Tre libri, negli
anni ’30, e nella forma più canonica e diretta.
Infatti il ricorso alla provocatorietà dell’evento
si identifca con l’effetto comico-umoristico,
soprattutto col primo. Basterà ricordare quanto aveva osservato, all’inizio del secolo Pirandello nel suo fondamentale Saggio sull’umorismo: il comico si presenta come “avvertimento del contrario”, quando un fatterello anche
modesto e minimo viene a turbare una normale sequenza di comportamenti, mandandone
all’aria l’economia prevista, lo scorrimento
abitudinario. Se poi allo scoccare dell’evento
nella sua materialità e accidentalità si accompagna una rifessione, da parte di chi lo propone (l’autore) o di chi vi assiste (il lettore, lo
spettatore), allora dalla comicità slittiamo verVI
so l’umorismo, cioè verso una condizione psicologica più complessa e approfondita.
Ebbene, posta una simile defnizione, lo Zavattini dei Tre libri, e in particolare di questo
I poveri sono matti (1937), si muove lungo la
pista che appunto dal comico porta all’umorismo, vale a dire, procura di inventare senza
posa fatterelli, colpi di scena che riscattino la
vita dal grigio della routine e dell’abitudine,
che ci facciano riassaporare i piaceri dell’imprevisto, dell’emozione. Ciò è tanto più necessario, in quanto nelle sue prime prove l’autore
si colloca nel mondo di una piccola borghesia
di impiegati sepolti sotto il peso di interminabili ore d’uffcio, posti di fronte al diffcile
compito di sbarcare il lunario, di far quadrare
i conti, di soddisfare alla scadenza delle cambiali, di placare le attese e i nervosismi della
famiglia, di difendersi dalle angherie del principale, del capuffcio e dei colleghi petulanti.
Un mondo cecoviano, crepuscolare, post-verista, insopportabile se appunto non venisse
riscattato dall’accendersi delle mille fammelle
dell’imprevisto.
E già un buon biglietto da visita in questo
senso è offerto dalla prefazione al libretto, ove
l’autoreprotagonista (che non ha alcuna diffVII
coltà a rivelare la coincidenza delle due fgure)
si presenta alla porta di casa sua chiedendo
di se stesso, come se fosse un estraneo, e sottoponendo così l’esterrefatta consorte a una
specie di vivifcante agopuntura, introducendo un “evento” arcano, misterioso, allarmante, così da rendere memorabile una giornata
altrimenti “grigia” e monotona come tante
altre. Un gioco, uno scherzo, che però viene
proposto come terapia da praticarsi in misura sistematica; e infatti i brevi racconti che si
susseguono offrono come altrettante applicazioni di un simile ricorso dell’agopuntura. Per
esempio, più avanti il narratore propone di
chiedere a bruciapelo ai propri partner: “che
cosa pensi in questo momento?”, oppure consiglia di pronunciare a voce alta una parolaccia. Ogni mezzo è buono per turbare le acque
stagnanti, per imprimere alla vita uno scatto
supplementare di energia. Occorre insomma
porsi in condizioni tali per cui ci sembri che
“Tutti gli uomini sono Dei”, o si possa dichiarare che “Quello che fanno gli altri pare sempre straordinario”. I tecnici dell’estetica hanno da tempo proposto dei termini precisi, per
indicare il sorgere di un tale effetto; si potrà
parlare di “straniamento”, di “spaesamento”,
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di “epifania”, e via dicendo. Certo è che Zavattini ricorre a tutti questi possibili effetti, li
cattura insaziabilmente nel proprio carniere,
li mette in opera indiscriminatamente. La prova per argomento contrario proviene dalla sua
altrettanto acuta consapevolezza che non c’è
evento, per quanto eccezionale e sconvolgente, che resista a una sua proliferazione; la ripetizione annulla la singolarità dei fatti e li porta
inesorabilmente alla regola, all’abitudine: “se i
morti fossero due, tre, cento, il dolore si esprimerebbe diverso?” La risposta, ovviamente, è
positiva, a quel punto, di fronte a una proliferazione smodata di morti, il dolore cesserebbe
del tutto, così come verrebbe meno anche la
scarica di adrenalina che accompagna in noi
l’aggressione del fatto insolito.
Si potrà obiettare però che fn qui si è incasellato Zavattini in una categoria, o in un
genere letterario, di tutto riguardo, quello del
comico-umoristico, distruggendone però la
singolarità, con palese contraddizione rispetto
al proposito di partenza. Non per niente si è
dovuto fare un rinvio al caso illustre di Pirandello. Occorrerà allora precisare subito che
nel nostro autore perfno l’evento è presentato
in modo “eventico”, o meglio ancora, diciaIX
mo che appunto esso è “presentato”, piuttosto che rappresentato. Zavattini in altre parole
cerca di suscitare l’evento nella scrittura stessa,
evitando che questa lo fltri attraverso le sue
strutture appannanti. Si capisce allora come
mezzi più diretti e immediati quali la cinepresa
e il pennello facciano altrettanto bene, o ancor
meglio, al caso suo.
Già quel fatterello minimo, quello scherzocampione proposto nella prefazione alla raccolta si distingue perché più che essere un
brano di narrazione, ha la natura dello sketch,
dell’appunto da realizzare al vivo, nell’azione
concreta. E in effetti un tratto distintivo della
“scrittura” di Zavattini è la sua magrezza, la
sua brevità, il che ce la fa apparire come un
surrogato, come un copione, una notazione
che qualcuno (l’autore stesso, il lettore, l’animatore) dovrà “eseguire”, convertire in valori
tattili, motori, sonori. Gli inglesi direbbero che
bisogna affrettarsi a trarne una performance.
Insomma, il puro e semplice elenco di parole,
frasi, costrutti, in Zavattini è appena una spoglia, un cadavere, se non interviene una scossa
salutare ad animarlo, a restituirlo alla vita. E
intanto, quella spoglia si distingue per la sua
brevità. Si veda, appunto come questi racconX
tini, aneddoti, sketches, abbozzi, aforismi se
ne stiano chiusi nel giro di poche righe, o di
poche pagine al massimo, pungolati da un’ansia interna di “fare presto”, di scorrere a uno
stato magmatico, di non lasciarsi rapprendere
in forme troppo stabili e rigide.
Ma c’è di più: la fretta, la brevità, il giocare al risparmio si impadroniscono perfno dei
nomi dei protagonisti, o meglio di quei rapidi e
fugaci fatus vocis cui a turno è affdato il compito di dare uno scatto alla macchina narrativa,
di farne sprizzare qualche scintilla. Il temuto
capuffcio è Dod, il protagonista più ricorrente si chiama Bat, e poi vengono ancora Bob,
Gec, Suk, Matter. Oltre l’assillo del “far presto”, interviene, nel concepirli, la solita ricerca
di straniamento. Quei monosillabi, infatti, totalmente estranei al gusto della nostra lingua,
vengono piuttosto dal mondo anglosassone
degli allora nascenti fumetti, o dagli eroi dei
romanzi gialli e polizieschi. Un modo, insomma, per conferire mistero, suspense, emozione
alla grigia nomenclatura dei nostri “mezze maniche” e “colletti bianchi”.
Ecco una provocazione “concreta”, realizzata cioè dentro la scrittura, cui molte altre se
ne accompagnano. Di frequente, infatti, questi
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