DIRITTI CIVILI, EMANCIPAZIONE FEMMINILE e CRITICA SOCIALE In questa unità affrontiamo argomenti di grande interesse, che riguardano la vita degli individui e la felicità personale. In particolare, studieremo la prima affermazione dell’idea di rispetto delle libertà civili, per ogni individuo in quanto tale e, dunque, anche per le donne. Analizzeremo poi, una particolare forma di dispotismo moderno, rappresentata dal conformismo sociale e dall’adesione all’opinione della maggioranza. Si tratta di temi che nascono e si sviluppano soprattutto nel contesto della cultura anglosassone dell’Ottocento, e hanno in John Stuart Mill, Harriet Taylor e Alexis de Tocqueville i più lucidi e convinti sostenitori. Le tesi contenute nelle opere di questi autori sono oggi patrimonio comune degli Stati democratici e, pertanto, rappresentano in primo luogo un documento storico relativo alla stagione di riforme istituzionali del secondo Ottocento. Esse, però, costituiscono anche una pietra miliare del movimento per i diritti civili e del femminismo teorico contemporaneo. Alla base delle idee che presentiamo ci sono alcuni interrogativi fondamentali, attuali ancora oggi. Eccone alcuni: - Quali sono le libertà civili? In che cosa si differenziano dalle “libertà morali” o interiori? - La differenza sessuale può giustificare l’ineguaglianza tra uomini e donne nel godimento dei diritti politici e civili? - Quali sono i limiti del potere dello Stato sugli individui? - Le decisioni, negli Stati democratici, sono prese secondo il criterio della maggioranza. Quali sono i limiti di tali maggioranze in rapporto alle minoranze che presentino opinioni differenti? L’argomento che farà da filo conduttore delle nostre riflessioni sarà la libertà, declinata sia come libertà di pensiero sia come libertà di espressione e di azione; il nostro punto di partenza sarà costituito da alcuni saggi di John Stuart Mill, in particolare Sulla libertà (1859) e Sulla servitù delle donne (1869). Faremo riferimento inoltre al saggio L’emancipazione delle donne, scritto nel 1851 da Harriet Taylor, che fu compagna e moglie di Mill, legata a lui da un amore delicato e profondo, ispiratrice di tanta parte delle idee di emancipazione femminile elaborate dal filosofo inglese. Per quanto riguarda la questione della tutela delle minoranze nei regimi democratici ci richiameremo ad Alexis de Tocqueville, pensatore e uomo politico francese, a cui dobbiamo uno degli scritti più importanti sul modello politico americano, intitolato La democrazia in America (1840). LIBERTÀ E SPONTANEITÀ DELL'UOMO Il saggio Sulla libertà (1859) del filosofo inglese John Stuart Mill (1806-1873) è un "classico" del pensiero politico di tutti i tempi e uno dei punti di riferimento per qualsiasi discorso sul tema delle libertà civili dell'individuo. Per Mill la libertà rappresenta il bisogno prioritario ed essenziale dell'uomo. Una volta che siano assicurati i mezzi di sussistenza, la libertà e la possibilità di assecondare le tendenze e gli impulsi individuali si pongono come le esigenze fondamentali della natura umana. Scrive il filosofo: La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente. Probabilmente tutti ammetteranno che è auspicabile che gli uomini esercitino il loro intelletto, e che adeguarsi con intelligenza alle usanze, e talvolta persino discostarsene intelligentemente, è meglio che aderirvi ciecamente e meccanicamente. In una certa misura si ammette che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima disposizione ad ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di nostra competenza, o che avere impulsi propri, forti o deboli che siano, possa costituire altro che un pericolo o una tentazione. E tuttavia desideri e impulsi sono parti di un perfetto essere umano altrettanto quanto le sue convinzioni. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 68-69 Dunque la libertà si configura innanzitutto come esaltazione della spontaneità e manifestazione più genuina della natura umana, cioè nei termini entusiastici tipici del clima romantico, di cui Mill è partecipe e interprete. L'uomo, in tale prospettiva, non è più visto come un automa, subordinato a un sistema di leggi meccanicistiche e necessitanti, ma come un organismo che deve potersi esprimere e realizzare in modo armonioso e completo, senza costrizioni e secondo quelle che sono le sue più intime attitudini e inclinazioni. L'ATTENZIONE PER L'INDIVIDUO Mill nutre una sconfinata fiducia nell'individuo e nella libertà. La sua critica al pensiero socialista, che in quegli anni Marx ed Engels stavano elaborando, deriva proprio dal sospetto che esso possa causare una generale uniformazione degli individui, facendo scomparire le diversità, che sono la linfa più preziosa della libertà. Il sistema comunista - egli dichiara in un'altra opera, i Principi di economia politica - è incompatibile con lo sviluppo dei molteplici aspetti della natura umana e con le differenze tra gli individui, ad esempio per gusti, qualità e punti di vista, che rappresentano il principale fattore del progresso morale e intellettuale dei popoli. Ciò che impedisce a Mill di aderire al socialismo, di cui pure condivide la condanna delle ingiustizie sociali, è in definitiva proprio l'esigenza di salvaguardare in ogni modo, e al di sopra di tutto, la peculiarità e l'autonomia dell'individuo. L'EREDITÀ DI HUMBOLDT In questo interesse per la persona e i suoi diritti, Mill è influenzato - come egli stesso riconosce - da Wilhelm von Humboldt (1767-1835), un originalissimo filosofo tedesco, contemporaneo di Hegel, ma molto distante dalla prospettiva teorica di quest'ultimo. Una delle sue massime era: «Il più alto ideale della coesistenza umana sarebbe secondo me quello in cui ognuno si sviluppasse esclusivamente da se stesso e per se stesso» (Stato, società e storia, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 76). Nell'opera Idee di un saggio volto a determinare i limiti dell'attività dello stato (composta nel 1792, ma pubblicata integralmente postuma soltanto nel 1851), Humboldt individua con precisione quelli che considera i due tratti tipici dell'essere umano: la libertà e la diversità (delle opinioni e dei comportamenti). Si tratta di due caratteristiche che si implicano vicendevolmente, in quanto la mancanza dell'una comporta la soppressione dell'altra. In questo senso, il filosofo tedesco vede nel progresso della civiltà e della tecnica una minaccia per la libertà, poiché è messa in crisi la differenziazione dei gusti e delle opinioni individuali: il benessere diffuso porta come conseguenza negativa quella di "omogeneizzare" gli uomini, sacrificandone la creatività e la varietà. Un altro tema importante, strettamente congiunto a quanto appena detto, è secondo Humboldt quello dei rapporti tra gli individui e lo Stato moderno. Quest'ultimo tende a esorbitare dai suoi compiti, arrogandosi prerogative di controllo dei singoli. A differenza di Hegel, che in quegli stessi anni esaltava la priorità dello Stato rispetto all'individuo, Humboldt pensa che lo Stato sia «un male necessario». Di esso non si può fare a meno, pena il dissolvimento di ogni forma di convivenza civile; tuttavia è da considerarsi pur sempre «un male», a causa della tendenza a soffocare gli spazi di autonomia individuale. L'azione dello Stato deve essere limitata: la sua funzione è da ricondursi allo scopo per il quale è stato creato, cioè garantire la sicurezza dei cittadini, sia all'interno dei confini della nazione sia nei confronti di eventuali attacchi esterni. Tutti gli altri compiti che vanno al di là di questo dovere, come le questioni concernenti lo sviluppo fisico, economico, intellettuale e morale degli uomini, non sono di competenza dello Stato, bensì dei singoli. Come avremo modo di vedere, Mill condivide in buona parte queste posizioni, che possono essere considerate le premesse del pensiero liberale moderno, anche se non disconosce alcune importanti conquiste del socialismo. È per questo che le riflessioni di Mill, per quanto datate, costituiscono un fondamentale punto di sintesi tra le ragioni del liberalismo (con l'affermazione imprescindibile della priorità della libertà) e quelle del socialismo democratico (che prende in esame anche i problemi della solidarietà e della felicità degli uomini e delle donne). DIRITTI CIVILI ED EMANCIPAZIONE FEMMINILE Un altro importante nodo concettuale dell'opera di Mill è rappresentato dalla rivendicazione della parità dei diritti delle donne e degli uomini, in tutti i campi della vita civile, a iniziare dalla famiglia e dal matrimonio. A questo proposito risulta fondamentale l'incontro del filosofo inglese con Harriet Taylor, la donna che diventa sua compagna e quindi moglie (si sposeranno dopo la morte del marito di lei) e con la quale collabora alla stesura di numerosi testi. Si tratta di scritti sorprendenti per la lucidità e per la modernità delle argomentazioni. Se si eccettuano le opere di Mary Wollstonecraft - considerata l'iniziatrice del femminismo moderno -, e del marito William Godwin - che aveva definito nel 1793 il matrimonio come un «residuo barbarico», fondato su una frode, a causa dell'asimmetrica relazione tra il potere del marito e della moglie -, i testi di Mill e Harriet Taylor sono senza dubbio la prima e più compiuta affermazione teorica dell'emancipazione femminile, che troverà faticosa attuazione giuridica e istituzionale in Europa soltanto nel corso del Novecento. LE RAGIONI DELLA MINORANZA L'ultimo tema che affronteremo riguarda il rischio a cui sono esposte le società democratiche moderne, rappresentato dal dispotismo della maggioranza. La democrazia, infatti, se da un lato prevede il diritto di governare da parte della maggioranza, dall'altro deve garantire il diritto delle minoranze di esprimere il proprio dissenso e le proprie ragioni, perché altrimenti si corre il pericolo, appunto, di una tirannia ai danni di coloro che la pensano in modo difforme rispetto alla maggior parte dei cittadini. Ecco, a questo proposito, che cosa afferma lo scrittore contemporaneo Umberto Eco, rivolgendosi in una lettera aperta ad alcuni intellettuali italiani: vorrei [ ... ] ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare: l) democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare 2) democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia. Da www.repubblica.it, 2 luglio 2008 La riflessione sul potere delle maggioranze e sulla tutela del diritto dell'individuo alla critica e alla diversità ha origine nell'Ottocento, in particolare negli Stati Uniti d'America, dove era pienamente realizzata l'uguaglianza dei diritti e dei doveri: essa costituisce, a nostro avviso, un elemento fondamentale di quell'educazione alla cittadinanza democratica che lo studio della filosofia deve contribuire a consolidare. I TEMI E GLI ARGOMENTI Nella nostra trattazione, come abbiamo anticipato, ci occuperemo del tema della libertà, intesa come libertà di pensiero, di espressione e di azione. Cercheremo innanzitutto di chiarire e analizzare la posizione di John Stuart Mill, la cui opera Sulla libertà rappresenta un testo fondamentale della tradizione liberale occidentale. Quindi seguiremo l'appassionata difesa, da parte del filosofo e di Harriet Taylor, del principio della pari dignità civile e politica delle donne, importante passo sulla via dell'emancipazione femminile. Da ultimo prenderemo in considerazione, anche attraverso le idee di Alexis de Tocqueville, il tema del conformismo sociale. I paragrafi saranno pertanto organizzati nelle seguenti sezioni: 1. Mill: La libertà civile e politica; 2. Mill e Taylor: le prime rivendicazioni dei diritti delle donne; 3. Tocqueville: la democrazia e i suoi pericoli. 1. MILL: LA LIBERTÀ CIVILE E POLITICA La salvaguardia dell'individuo e della sua autonomia La libertà di cui intendiamo occuparci non è tanto la libertà intesa in senso "morale", cioè come libera auto determinazione del soggetto, quanto la libertà civile e politica. Ci stiamo interrogando, cioè, su che cosa debba contenere il "paniere dei diritti" di ogni cittadino in materia di libertà sia per quanto riguarda l'espressione del pensiero sia per ciò che concerne le azioni. Pubblicato nel 1859, il saggio di Mill Sulla libertà è riconosciuto come uno dei più lucidi e rigorosi manifesti del liberalismo moderno. Scopo del saggio è quello di indagare l'ambito del potere pubblico rispetto all'individuo e alla sua libertà d'azione, precisando le poche e sole ragioni che possono giustificare un'ingerenza della collettività nella sfera privata. Sebbene Mill riconosca allo Stato, espressione del volere della maggioranza dei cittadini, il potere di fare le leggi e di dettare le norme del vivere civile, tuttavia ritiene che tale potere non debba trasformarsi in una ingiustificata dittatura sulla minoranza. In altre parole, esiste un diritto inviolabile alla libertà - di pensiero e di azione - che spetta all'individuo e che nessuna autorità statale può reprimere o limitare. Fin dalle prime pagine del testo, Mill scrive: occorre proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norma di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo - e a prevenire, se possibile, la formazione - di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: trovarlo e difenderlo contro ogni abuso è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico. Saggio sulla libertà, cit., p. 6 Lo scopo della ricerca di Mill consiste quindi nella definizione di alcune norme essenziali tese a salvaguardare la libertà individuale e il diritto alla diversità da parte dei singoli che vivono nelle società democratiche moderne, le quali presentano una rischiosa tendenza all'omologazione, da cui la filosofia deve mettere in guardia. Secondo Mill, infatti, la verità non coincide con l'opinione dominante. La storia è piena di errori compiuti dalle maggioranze: Socrate fu condannato a morte da un tribunale popolare; Cristo fu ucciso mentre il popolo lo dileggiava, e gli esempi si possono moltiplicare. L'individuo deve essere perciò protetto sia contro il dispotismo dello Stato sia contro il conformismo di massa. Ecco perché la difesa della libertà di pensiero e di discussione è il principio da cui si deve partire. La tutela della libertà d'opinione e d'espressione Se tutti gli uomini meno uno - sostiene Mill - avessero la medesima opinione, non avrebbero maggior diritto di mettere a tacere quell'unica persona di quanto ne avrebbe quell'uno di far tacere l'umanità intera. Impedire a un individuo di esprimere la pro- pria opinione è un crimine grave sotto diversi aspetti: significa non solo commettere un'ingiustizia nei confronti dell'individuo, ma anche derubare l'umanità di un contributo importante. Infatti, argomenta Mill, se l'opinione di quell'uomo fosse giusta, la civiltà verrebbe privata di un contributo fondamentale; se fosse sbagliata, perderebbe un beneficio ancora più grande, vale a dire la percezione più chiara della verità, che risalta meglio dal confronto con l'errore. In generale, gli uomini hanno la tendenza a mettere in dubbio le idee condivise da pochi, mentre hanno fiducia nella verità delle opinioni sostenute dalla maggioranza, spesso giudicata infallibile. La fede nell'''autorità collettiva" non è scossa neppure dalla considerazione che altri popoli hanno (o hanno avuto nel passato) idee del tutto diverse su identiche questioni e che alcuni professano il cattolicesimo o il protestantesimo, e non ad esempio il buddismo o il confucianesimo, soltanto perché sono nati in Europa e non in India o in Cina. L'obiezione che si può sollevare verso le argomentazioni contrarie all'autorità collettiva, osserva Mill, è che le opinioni ritenute erronee possano rappresentare un pericolo per la comunità e che quindi vietarle sia un nostro dovere. La risposta di Mill è netta e precisa: tutte le opinioni debbono poter essere espresse. Infatti, perché le idee possano manifestare la loro forza di verità è necessario che siano paragonate con quelle altrui, anche contrarie, in una conversazione pacata ma rispettosa delle diversità. L'esperienza e la pratica della discussione sono elementi indispensabili per la conquista della verità; le opinioni sbagliate cederanno gradualmente il passo, a mano a mano che saranno messe a confronto con i fatti e gli argomenti più convincenti. Il fondamento teorico di questa posizione, tesa a mantenere sempre vivo il dibattito, viene indicato dal filosofo inglese nella natura stessa dell'intelletto, che forma le proprie nozioni soltanto attraverso il raffronto tra le varie prospettive, che vengono integrate e corrette le une con le altre. L'imposizione di un'opinione, fosse anche vera e giusta, è contraria alla natura "dialogica" della conoscenza: «se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton - dice ancora il filosofo - gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono io» (Saggio sulla libertà). La critica del dogmatismo La verità che non ammette di essere criticata è un dogma; con il tempo inaridisce e perisce. Anche sotto il profilo educativo, un sapere che non riconosca la possibilità di essere smentito rappresenta un pregiudizio e pertanto contraddice la natura della conoscenza e della ricerca scientifica. Se si eccettuano le verità matematiche, che sono costruite a priori e hanno la caratteristica di essere evidenti e di non ammettere obiezioni, tutte le altre si costruiscono attraverso l'accostamento dialettico di proposizioni opposte. In tutti i campi - dalle scienze naturali alla morale e alla filosofia - la verità dipende dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti. Chi conoscesse soltanto i propri argomenti, ignorando quelli contrari, conoscerebbe davvero molto poco. Se la verità accettata supinamente e senza contraddittorio è sempre una mezza verità, si deve ammettere di conseguenza che il criterio dell'unanimità - secondo cui tutti devono condividere la medesima opinione -, inattendibile negli affari politici, è addirittura dannoso nella vita morale e spirituale; infatti, per quanto possa apparire paradossale, «la mancanza di unanimità è una condizione indispensabile per il vero sapere» (Saggio sulla libertà). Non appena una verità trionfa definitivamente nella storia, continua Mill, allora inizia a morire. Certo, con il progredire dell'uomo vi sono nel mondo sempre più conoscenze sicure e consolidate, e ciò rappresenta un vantaggio per la società, che altrimenti sarebbe costretta a iniziare sempre da capo, senza poter migliorare. Sotto il profilo dell'intelligenza, però, l'esclusione del conflitto e del contrasto rappresenta un grave errore, perché impedisce la valutazione di un problema o di un argomento da tutti i punti di vista, limitandosi a una sua considerazione parziale. Nel passato, osserva Mill, il dialogo socratico o le dispute medievali avevano la funzione di mantenere vivo il dibattito e di educare i giovani al confronto critico. Nell'epoca contemporanea, invece, tutto sembra appiattirsi nel conformismo di massa e l'educazione non stimola all'esercizio di un pensiero autonomo. C'è da registrare, poi, un'ulteriore ragione a favore del confronto tra idee divergenti: essa consiste nel fatto che le dottrine contrastanti non sono mai una vera e l'altra falsa, perché quasi sempre contengono entrambe elementi di verità; ne sono un esempio, a detta di Mill, le eresie, le quali, seppure condannate dal dogmatismo delle religioni ufficiali, presentano motivi interessanti, che andrebbero accolti e considerati. Dal punto di vista politico il valore del contraddittorio emerge nell'indispensabile confronto democratico tra partiti diversi, che esprimono, ad esempio, da un lato l'esigenza dell'ordine e della conservazione, e dall'altro quella dello sviluppo e del progresso. Il vantaggio della presenza di due o più partiti consiste proprio nel fatto che la loro reciproca opposizione garantisce l'equilibrio e la razionalità dell'intero sistema: le minoranze, in questa prospettiva, hanno la funzione di controllare l'operato del governo e di rappresentare interessi e bisogni che altrimenti rischierebbero di essere sottovalutati o dimenticati, pur essendo importanti per il benessere di tutti1. 1 La democrazia parlamentare e la “rappresentanza” John Stuart Mill è stato senza dubbio il precursore di molte proposte politiche, che solo in seguito avrebbero avuto diffusa attuazione. Tra esse vogliamo ricordare l'ideale della "democrazia parlamentare", un istituto giuridico che trova nel parlamento il luogo in cui, nella visione di Mill, il popolo sovrano assume decisioni di rilevanza pubblica, ossia stabilisce le leggi che regolano la convivenza dei cittadini, dopo aver liberamente dibattuto e ragionato. A tal proposito, si parla di "assemblea parlamentare" per intendere una struttura collegiale fondata non sul principio gerarchico (uno o più individui collocati in una posizione di superiorità rispetto agli altri), ma su quello egualitario: tutti i membri, alla pari, prendono la parola e manifestano la propria scelta esprimendo un voto. Mill era un'eccezione quando nell'Ottocento teorizzava la necessità di creare un simile organismo politico. Non che mancassero in Europa i parlamenti -‐ in Inghilterra, Francia, Germania e Italia -‐, ma non erano basati sulla sovranità popolare. La novità della democrazia parlamentare, invece, consiste proprio nel fatto che è sancita da una Costituzione, condivisa dal popolo sovrano, che riconosce al parlamento eletto democraticamente il diritto-‐ dovere di legiferare. Nelle società contemporanee la sovranità popolare viene esercitata attraverso il principio della "rappresentanza". I poteri decisionali dell'assemblea parlamentare, cioè, vengono conferiti a un ristretto numero di persone eletto dal popolo. Tutte le democrazie parlamentari sono, pertanto, "democrazie rappresentative". Come afferma l'articolo 1 della Costituzione italiana, «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Concretamente, il popolo esercita la propria sovranità principalmente con il voto, con il quale viene periodicamente chiamato a eleggere i rappresentanti del Parlamento-‐ in Italia i 630 membri della Camera dei deputati e i 315 esponenti del Senato della Repubblica -‐, ma anche quelli a livello John Stuart provinciale Mill è stato e senza dubbio il precursore di mil olte proposte politiche, che solo in seguito avrebbero regionale, comunale. Sempre attraverso voto, alle successive elezioni potrà confermare il avuto diffusa attuazione. Tra esse vogliamo ricordare l'ideale della "democrazia parlamentare", un istituto consenso dimostrato alle persone elette o revocarlo, qualora non abbiano rispettato il programma con cui si giuridico che trova nel parlamento luogo din cui, nella visione di Mill, il popolo sovrano assume decisioni di sono presentate o abbiano tradito la il fiducia egli elettori. rilevanza pubblica, ossia stabilisce le leggi che regolano la convivenza dei partiti, cittadini, dopo aver liberamente Questi ultimi eleggono i candidati che sono stati inseriti nelle liste dai vari i quali, una volta nominati, dibattuto e ragionato. A tal proposito, si parla di "assemblea parlamentare" per intendere una struttura collegiale fondata non sul principio gerarchico (uno o più individui collocati in una posizione di superiorità rispetto agli altri), ma su quello egualitario: tutti i membri, alla pari, prendono la parola e manifestano la propria scelta esprimendo un voto. Mill era un'eccezione quando nell'Ottocento teorizzava la necessità di creare un simile organismo politico. Non che mancassero in Europa i parlamenti -‐ in Inghilterra, Francia, Germania e Italia -‐, ma non erano basati sulla sovranità popolare. La novità della democrazia parlamentare, invece, consiste proprio nel fatto che è sancita da una Costituzione, condivisa dal popolo sovrano, che riconosce al parlamento eletto democraticamente il diritto-‐ dovere di legiferare. Nelle società contemporanee la sovranità popolare viene esercitata attraverso il principio della "rappresentanza". I poteri decisionali dell'assemblea parlamentare, cioè, vengono conferiti a un ristretto numero di persone eletto dal popolo. Tutte le democrazie parlamentari sono, pertanto, "democrazie rappresentative". Come afferma l'articolo 1 della Costituzione italiana, «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Concretamente, il popolo esercita la propria sovranità principalmente con il voto, con il quale viene periodicamente chiamato a eleggere i rappresentanti del Parlamento-‐ in Italia i 630 membri della Camera dei deputati e i 315 esponenti del Senato della Repubblica -‐, ma anche quelli a livello La libertà d'azione La libertà non si riferisce soltanto alla sfera delle opinioni, ma riguarda anche le azioni. Mill non pretende che l'agire umano possa essere considerato libero quanto il pensiero, ma la libertà umana sarebbe priva di significato se non si estendesse anche a tale ambito. In linea di massima, il filosofo stabilisce che vanno vietate soltanto le azioni che risultano dannose per gli altri. Al di là di questo limite, ogni altra attività dell'individuo deve essere consentita, anche se svantaggiosa per chi la compie, e l'interferenza della società sulle scelte private deve ridursi al minimo. La società ha certo le sue regole, ma esse non devono ostacolare inopportunamente l'agire individuale. D'altronde, oltre alle leggi la comunità ha altri mezzi per disincentivare un comportamento, come l'educazione o, nei casi estremi, il disprezzo. Ad esempio, nessuno potrà impedire a un uomo di dilapidare nel lusso il suo patrimonio, ma con ogni probabilità egli perderà la stima degli amici. Anche i vizi, come la malizia, l'insincerità, l'egoismo, l'irascibilità, l'invidia, non possono essere oggetto di divieto da parte delle leggi, finché si mantengono nella sfera privata e non danneggiano gli interessi legittimi degli altri, ma potranno suscitare la riprovazione dell'opinione pubblica. La legge non può colpire neppure la sporcizia, la pigrizia o l'ubriachezza, qualora non incidano sulla collettività. La massima fondamentale del saggio Sulla libertà è dunque la seguente: L'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà di azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittima- mente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per evitare danno agli altri. Saggio sulla libertà, cit., p. 32 Mill ritiene, pertanto, che occorra distinguere i comportamenti dannosi soltanto a livello individuale da quelli che hanno un'incidenza negativa anche sulla società. Riferendosi al caso dell'ubriachezza, egli sostiene che nessuno deve essere punito in quanto commette un abuso nel bere (benché ciò comporti un danno per la sua persona), ma soltanto se il suo stato può influire negativamente e direttamente sugli altri. Un poliziotto o un soldato, ad esempio, devono essere sanzionati se sono ubriachi mentre stanno svolgendo il loro servizio, in quanto funzionari incaricati dell'ordine pubblico. E così si dica, oggi, per chi guidi un'automobile in stato di ebbrezza; in questo caso la possibilità di danneggiare gli altri è molto elevata, e dunque la legge deve difendere il diritto all'incolumità dei cittadini. In breve, quando siamo in presenza di un rischio concreto per la comunità, allora la libertà di agire dell'individuo deve essere subordinata alla legge, che difende il benessere di tutti. Negli altri casi, la libertà di azione va salvaguardata. regionale, provinciale e comunale. Sempre attraverso il voto, alle successive elezioni potrà confermare il consenso dimostrato alle persone elette o revocarlo, qualora non abbiano rispettato il programma con cui si sono presentate o abbiano tradito la fiducia degli elettori. Questi ultimi eleggono i candidati che sono stati inseriti nelle liste dai vari partiti, i quali, una volta nominati, hanno l'obbligo di rispettare i regolamenti parlamentari, ma per il resto agiscono liberamente secondo la propria coscienza. I cittadini non hanno quindi la possibilità di influire sull'esercizio del loro mandato o di imporre a questodei vincoli. L'articolo 67 della Costituzione italiana è tassativo: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione, ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Il popolo, insomma, non può intervenire direttamente nel processo decisionale e legislativo, se non in due casi ammessi dalla Costituzione: l'iniziativa legislativa popolare (che però è decisamente poco utilizzata) e il referendum popolare, che è il principale strumento di democrazia diretta di cui dispongono i cittadini per pronunciarsi su questioni specifiche. Il referendum, tuttavia, presenta dei limiti, in quanto la Costituzione, all'articolo 75, prevede che abbia carattere unicamente abrogativo: «È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali»; non è ammesso un referendum "propositivo", per introdurre una nuova legge o modificarne una già in vigore (nel 1974, ad esempio, la maggioranza degli italiani si espresse contro l'abrogazione della legge sul divorzio in vigore dal 1970). Inoltre, non tutte le leggi possono essere abrogate con il referendum popolare, essendo esclusa la materia che riguarda i tributi, il bilancio, i trattati internazionali, l'amnistia e l'indulto, oltre alle leggi costituzionali. Particolare attenzione Mill riserva alla libertà del consumatore, che deve essere garantita contro ogni forma di proibizionismo. La società e lo Stato devono essere abbastanza forti e previdenti da permettere e tollerare anche comportamenti autolesionisti - come l'utilizzo di farmaci, droghe, alcolici ... -, purché non nuocciano direttamente agli altri. Il loro compito deve essere piuttosto quello di investire nell'educazione e nella formazione dei giovani, che devono essere messi in guardia dai rischi degli abusi e dei comportamenti sbagliati. Questa forma di prevenzione, secondo Mill, è più utile di qualsiasi legge o divieto. Anche il commercio, che è un'attività sociale, deve essere lasciato alla libera iniziativa (liberismo). Il consumatore, infatti, è maggiormente tutelato rispetto ai prezzi e alla qualità delle merci in un contesto di libera concorrenza - in cui il prodotto scadente viene superato da quello migliore - piuttosto che in un regime di monopolio dello Stato, che condiziona e limita la scelta degli acquirenti. Lo Stato deve vigilare sulle frodi e le adulterazioni e proteggere con idonee leggi l'igiene e la salute dei cittadini, ma non imporre vincoli alla vendita dei prodotti (alcool, tabacco, armi, veleni... ) che siano ritenuti nocivi se impiegati in modo inopportuno o per fini criminosi. L'unico intervento che si può ammettere riguarda alcune limitazioni: concedere la licenza di vendita soltanto a persone rispettabili, regolamentarne gli orari, ritirare la licenza in casi di violazione delle leggi e dell'ordine pubblico. 3. TOCQUEVILLE: LA DEMOCRAZIA E I SUOI PERICOLI Alexis de Tocqueville nacque a Parigi nel 1805 da una famiglia di antica nobiltà: suo padre era stato un alto funzionario di Luigi XVIII e poi di Carlo X. Tuttavia, quando nel 1830 i Borboni furono cacciati in seguito alla Rivoluzione di luglio, il giovane Alexis aderì al governo di Luigi Filippo d’Orléans, non per opportunismo, ma perché convinto che non si potesse tornare indietro e che le riforme liberali fossero necessarie. Proprio in quegli anni, con l’amico Gustave de Beaumont egli compì un viaggio negli Stati Uniti, dove soggiornò per nove mesi tra il 1831 e il 1832. La democrazia in America, costituito di due parti scritte rispettivamente nel 1835 e nel 1840, rappresenta il resoconto di quanto osservato in America e degli studi compiuti subito dopo il ritorno in patria. Tocqueville fu più volte eletto deputato (nel 1839, nel 1842 e nel 1846); fu membro dell’Assemblea Costituente (1848) e ministro degli Esteri (1849). La sua carriera politica terminò con il colpo di Stato del 1851 da parte di Luigi Napoleone Bonaparte, con il quale Tocqueville si era scontrato in riferimento alla volontà di quest’ultimo di riformare l’articolo della Costituzione sulla rieleggibilità del presidente. Dopo questo fatto si ritirò dalla vita politica e si dedicò alla stesura di L’ancien Régime e la Rivoluzione (1856), opera rimasta incompiuta. Morì a Cannes nel 1859. L'omologazione degli individui La critica del conformismo sociale costituisce un altro tema importante della riflessione di Mill, un argomento su cui egli torna spesso nel suo saggio Sulla libertà. In che cosa consiste il conformismo? Nella tendenza degli uomini a seguire le opinioni comuni e i costumi di massa, perfino nel tempo libero e negli svaghi. Tale conformismo "piega" le facoltà umane superiori, l'intelligenza e la creatività, dal momento che gli uomini sottostìmano i gusti individuali e l'originalità dei comportamenti. Secondo il filosofo, il rischio è che l'opinione della maggioranza venga a costituire, nel prossimo futuro, la nuova guida politica degli uomini generando una vera e propria forma di «dispotismo dell'opinione pubblica». Le cause di tale fenomeno vanno ricercate in tre fattori, che sono tipici delle società moderne: a) lo sviluppo dell'industria manifatturiera (e del mondo produttivo, in generale), che, diffondendo il godimento dei benefici materiali, tende a innalzare (e omologare) il livello di aspirazione di tutte le classi sociali; b) l'istruzione, che, offrendo le stesse conoscenze e informazioni a tutti, contribuisce a creare una visione del mondo univoca e condivisa (laddove non sia alimentata un'adeguata capacità critica); c) la politica, che, attraverso il sistema democratico, dà l'illusione che tutti siano uguali. Mill non intende rinnegare le grandi conquiste della civiltà moderna e tantomeno la diffusione della cultura, del commercio e dei mezzi di comunicazione, ma vuole mettere in guardia contro i pericoli connessi a una forma di progresso che si attua a spese della libertà individuale. Lo dimostra, argomenta Mill, la storia dell'Europa, che ha sempre tratto beneficio dalla diversità dei caratteri, delle lingue e delle culture dei popoli. Sia gli individui sia i popoli dell'Europa hanno percorso le più disparate strade sulla via del progresso, custodendo gelosamente le proprie peculiarità, pur senza sottrarsi alla comunicazione e al dialogo. Anzi, il dialogo e la reciproca conoscenza si sono rafforzati proprio in virtù della presenza di forti identità nazionali e di personalità di rilievo, a differenza del mondo orientale. È il caso, ad esempio, della Cina, che agli occhi di Mill appare come una nazione immensa, ma fatta di individui omologati. Toccando un argomento decisamente attuale per noi oggi, il filosofo afferma che nel futuro dell'Europa esiste la possibilità di diventare come questo grande paese, dimenticando gli elementi ideali e culturali che contraddistinguono le diverse tradizioni nazionali e, alloro interno, le singole persone. Il modello americano di democrazia nelle analisi di Tocqueville Il tema della tirannide della maggioranza e dell'opinione pubblica come uno dei principali rischi a cui è esposta la moderna democrazia compare in un celebre libro di Tocqueville, La democrazia in America, prima ancora che nella ferma denuncia di Mill. L'opera di questo illustre pensatore e uomo politico francese rappresenta il più acuto e lungimirante saggio sulla democrazia americana, considerata non tanto come un esempio da ammirare o seguire, quanto come un modello per capire il presente e il futuro delle società moderne. Come ha osservato uno storico del liberalismo , Tocqueville «non fu solo un eminente studioso della società e della politica, fu anche un profeta, nel significato positivo e realistico, e non negativo e irrealistico, di questa parola» (G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 180). L'America viene assunta dal filosofo francese quale esempio per studiare la democrazia, dal momento che non c'era in quel periodo altro paese al mondo in cui tale forma di governo fosse più sviluppata. Tocqueville non intende soddisfare un suo interesse personale, né esaltare la bontà di quel sistema, che pure gli appare irreversibile, nel senso che la marcia dei popoli verso la democrazia è inarrestabile: «Confesso che nell'America ho visto qualcosa più dell'America; vi ho cercato un'immagine della democrazia, del suo carattere, dei sui pregiudizi, delle sue passioni e ho voluto studiarla per sapere quello che noi dobbiamo sperare o temere da essa» (La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1996, p. 28). Procedendo per ordine, prima di esaminare i vantaggi e i rischi della democrazia, cerchiamo di capire che cosa Tocqueville intende per democrazia e quali sono i tratti specifici che essa assume in America. Il "trionfo" dell'uguaglianza Tra gli elementi che attirano maggiormente l'attenzione del filosofo durante il suo soggiorno in America, uno, in particolare, gli appare fondamentale: l'uguaglianza delle condizioni. Scrive Tocqueville: Vi è effettivamente una passione maschia e legittima per l'eguaglianza, che porta gli uomini a voler essere tutti forti e stimati. Questa passione tende a elevare i piccoli al rango dei grandi; ma nel cuore umano si trova anche un gusto depravato per l'eguaglianza, che porta i deboli a voler attirare i forti al loro livello e che riduce gli uomini a preferire l'eguaglianza nella servitù all'ineguaglianza nella libertà. La democrazia in America, cit., p. 63 Non che gli americani disprezzino la libertà - che era stato uno dei motivi per i quali i loro progenitori agli inizi del XVII secolo avevano abbandonato la madre patria inglese per stabilirsi nel Nuovo mondo -, ma assegnano un valore ancora maggiore alla parità, non solo nella ricchezza e nel grado di partecipazione alla vita politica del paese, ma anche nel livello culturale: Si è stabilito in America un livello medio di istruzione in modo che tutti gli spiriti si sono avvicinati, gli uni elevandosi, gli altri abbassandosi. È facile incontrare un’immensa moltitudine di individui aventi la stessa quantità di cognizione in materia di religione, di storia, di scienze, di economia politica, di legislazione, di politica. L'ineguaglianza intellettuale proviene direttamente da Dio e nessuno può impedire che essa seguiti a sussistere sempre; ma, da quello che abbiamo detto, si deduce che le intelligenze, pur restando ineguali come il Creatore ha voluto, trovano a loro disposizione mezzi eguali. La democrazia in America, cit., p. 62 Infatti in America tutti usufruiscono dell'istruzione primaria, mentre quasi nessuno prosegue con l'istruzione superiore. Essendo agiati dal punto di vista economico, accedono all'istruzione di base, ma all'età di quindici anni in genere interrompono la loro formazione per intraprendere l'attività lavorativa. Coloro che continuano lo studio preferiscono orientarsi comunque verso indirizzi pratici e utili, rifuggendo dalla cultura umanistica o generale. Un altro tratto della confederazione americana che Tocqueville sottolinea è che in essa il "dogma" della sovranità popolare è pienamente rispettato: l'uguaglianza dei diritti e dei doveri pervade, più che in qualsiasi parte dell'Europa, il costume, la mentalità e le leggi. Già a partire dagli inizi del Seicento e per tutto il secolo XVII, tale principio aveva ispirato e guidato i padri fondatori della maggior parte delle colonie americane. Certo, la legislazione di quegli Stati risentiva del carattere moralistico e intransigente tipico del puritanesimo (il movimento sorto nell'ambito del protestantesimo calvinista inglese, i cui esponenti erano stati costretti a emigrare nel New England, formando uno dei primi nuclei degli Stati Uniti d'America): ad esempio, l'adulterio era punito con la pena capitale dalla legge del Massachusetts (1648), dove parecchie persone furono effettivamente giustiziate per questo crimine. La legge del Connecticut, poi, attingeva dai testi sacri alcune sue norme, giungendo a comminare la pena di morte «a chiunque adorerà un altro Dio che il Signore». In altri casi si arrivava a punire la pigrizia e l'ubriachezza e a costringere ad assistere alle funzioni religiose sotto minaccia di ammenda, dimenticando la libertà giustamente reclamata nella madrepatria. Sotto questo profilo la legislazione delle nuove colonie segnava un passo indietro rispetto ai principi di tolleranza e di libertà in vigore in Inghilterra, ma nel campo della partecipazione alla vita politica era la più avanzata del mondo quanto a diritti riconosciuti ai cittadini. Il popolo collaborava alla formulazione delle leggi scegliendo i legislatori, alla loro applicazione scegliendo i detentori del potere esecutivo: «Il popolo - esclama Tocqueville - regna nel mondo politico americano come Iddio regna nell'universo. Esso è la causa e il fine di ogni cosa: tutto esce da lui e tutto finisce in lui» (ivi, p. 66). Accentramento politico e decentramento amministrativo Una caratteristica positiva della società americana è poi l'efficienza delle amministrazioni locali Ci comuni, le contee), che è la fonte principale dell'attivismo di cui abbiamo parlato: ogni cittadino ha modo di collaborare personalmente alla migliore riuscita delle condizioni di vita. Se per assurdo il potere centrale dovesse entrare in crisi, sarebbero i cittadini medesimi ad assumersi la responsabilità di ricondurre le cose alla normalità. Lo stesso sistema federativo assicura l'unità del vastissimo paese e il rispetto delle esigenze amministrative locali. Il governo centrale provvede infatti a definire le leggi comuni fondamentali, mentre le amministrazioni locali, in cui l'azione legislativa e governativa è più vicina ai cittadini, si interessano degli affari regionali: Proprio nel comune risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole primarie sono per la scienza: esse la mettono alla portata del popolo e, facendogliene gustare l'uso, l'abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali una nazione può darsi bensì un governo libero, ma non ha ancora lo spirito della libertà. La democrazia in America, cit., p. 70 Dunque, negli Stati Uniti il più forte accentramento politico, legato alla vigile presenza di un solido governo centrale, si accompagna al più ampio decentramento delle funzioni amministrative a livello locale: le due cose combinate insieme, secondo Tocqueville, spiegano la grandezza della democrazia americana. I rischi della democrazia americana Tocqueville, facendo vibrare la sua più profonda anima di intellettuale aristocratico, rileva (e condanna) anche i limiti della democrazia americana, in particolare quel vero e proprio dispotismo della maggioranza a cui si piega perfino il Presidente della confederazione, il quale, se vuole essere rieletto, non può trascurare di compiacere l'opinione pubblica. Tocqueville ritiene che in politica sia necessario rispettare il principio di maggioranza: il partito che ottiene la maggioranza dei consensi alle elezioni governa; la minoranza assume la funzione dell'opposizione. Per quanto tale sistema sia utilizzato dalla maggior parte delle democrazie, perché considerato il più valido, l'autore ne sottolinea i rischi e le imperfezioni, ad esempio il pericolo costituito dal potere tirannico che la maggioranza può arrivare a esercitare sulle minoranze, per cui ogni aspetto dell'organizzazione sociale, e perfino individuale, viene a sottostare alle sue preferenze. Quando ciò si verifica l'individuo perde la propria libertà. Il rischio è insito nel fatto che si considera una maggioranza di governo, costituita per far fronte alle esigenze della gestione della cosa pubblica, come qualcosa di assoluto, per cui le minoranze vengono di fatto messe a tacere. Quando la maggioranza non viene moderata con un contrappeso istituzionale e sociale che salvaguardi anche le minoranze, allora si assiste a una nuova forma di dispotismo, meno evidente di quello antico, ma proprio per questo più strisciante e pervasivo, che non manca di frustrare gli uomini nella loro intelligenza e volontà. Per Tocqueville la democrazia è un paradosso: ha innalzato gli uomini al ruolo di cittadini, ha cercato di renderli uguali dal punto di vista economico e politico, ma rischia di abbrutirli, massificandoli. Essa, infatti, ha instaurato un nuovo sistema paternalistico, in cui ogni ambito della vita individuale e sociale è regolamentato e tutelato, in cui si provvede alla sicurezza e al soddisfacimento dei bisogni, ma in cui gli uomini vengono poco per volta "infiacchiti", ridotti a «una massa di animali timidi e industriosi», privati di ogni creatività, originalità e autonomia. Tale sistema tende a creare una società anonima, uniformata per quanto riguarda il gusto e le abitudini, orientata alla ricerca di un benessere soltanto materiale. Il materialismo e la spersonalizzazione, secondo l'acuta e profetica analisi di Tocqueville, sono dunque i tragici esiti della moderna democrazia, se gli individui non saranno in grado di bloccarne in tempo lo sviluppo, che tuttavia ai suoi occhi appare inevitabile. 4. Percorsi testuali Proponiamo alla riflessione e alla discussione tre percorsi testuali, che possono offrire spunti per ulteriori ricerche su temi ancora oggi di grande interesse. Faremo riferimento a testi di notevole chiarezza dal punto di vista del linguaggio e delle argomentazioni, ma anche di grande passione civile e morale. Essi rappresentano una lezione di educazione alla cittadinanza e saranno suddivisi nelle seguenti sezioni: a. Le libertà civili b. Differenza sessuale ed emancipazione femminile c. Il dispotismo della maggioranza A. Le libertà civili L'argomento delle libertà civili - la libertà di opinione, di espressione, di stampa, di associazione ecc. - si intreccia inevitabilmente con quello dei limiti dell'azione dello Stato rispetto alla sfera di azione dei singoli. I brani che seguono sono tratti dal celebre saggio di John Stuart Mill Sulla libertà. Una nuova concezione della libertà Nella Prefazione, di cui proponiamo un estratto, l'autore illustra lo scopo dell'opera, consistente nella difesa dell'assoluta autonomia dell'individuo nell'ambito personale e delle sue legittime libertà civili. da Mill, Sulla libertà Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale dell'opinione pubblica. Il principio è che l'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su un qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o a non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente. Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l'azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causar danno a qualcun altro. Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano2. È forse superfluo aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza della loro facoltà. Non stiamo parlando di bambini o di giovani che sono per legge ancora minori di età. Coloro che ancora necessitano dell'assistenza altrui devono esser protetti dalle proprie azioni quanto dalle minacce esterne. Per la stessa ragione, possiamo tralasciare quelle società arretrate in cui la razza stessa può esser considerata minorenne. Le difficoltà che inizialmente si oppongono al progresso spontaneo sono così grandi che raramente si può scegliere tra diversi mezzi per superarle: e un governante animato da intenzioni progressiste è giustificato a impiegare ogni mezzo che permetta di conseguire un fine forse altrimenti impossibile. Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con i barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo reale conseguimento3. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 12-13 Elogio della libertà di opinione Il brano seguente, anch'esso tratto dal saggio Sulla libertà, illustra i motivi per cui l'esercizio della libertà di opinione costituisce un bene non soltanto per l'individuo, ma anche per l'intera società. Inoltre rivendica i diritti delle minoranze, che devono essere rispettati e salvaguardati, e spiega quali sono le regole di un corretto e fecondo dibattito tra opinioni divergenti. da Mill, Sulla libertà Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre 2 Mill afferma una nuova concezione della libertà, secondo cui l'individuo ha il diritto di perseguire quello che ritiene il proprìo utile e la propria felicità. Nessuno può intervenire dall'esterno e costringerlo a pensare o a comportarsi diversamente, neanche se ritiene di operare per il suo bene. L'unica restrizione alla libertà della persona è che le sue azioni non arrechino danno agli altri. A parte questa eventualità, l'uomo è sovrano assoluto di se stesso, del proprio corpo e della propria mente. t interessante notare come Mill ritenga di dover difendere la libertà individuale non soltanto dalle ingerenze dello Stato («sotto forma di pene legali»), ma anche dalla tendenza collettiva all'omologazione («la coazione morale dell'opinione pubblica»). Si tratta di un tema importante, che si collega alla dottrina gnoseologica del filosofo, contrario a ogni dogmatizzazione e assolutizzazione della conoscenza. L'individuo deve essere libero di agire, di esprimersi e di pensare, anche se le sue opinioni divergono da quelle della maggioranza. 3 Secondo Mill la piena libertà individuale non può essere estesa ai bambini e ai minori, che devono essere protetti non solo dai pericoli esterni, ma anche dalle minacce rappresentate dalle loro stesse azioni. La restrizione è applicata dal filosofo anche alle popolazioni che vivono in condizioni di arretratezza, presso le quali è ammissibile un regime dispotico, che abbia come obiettivo il loro progresso e che impieghi mezzi adeguati a questo scopo. speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l'esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una soltanto ha un difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata4. Abbiamo quindi riconosciuto la necessità, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente. In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai, l'intera verità, è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali. Non solo, ma, quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o di svanire, e perderà il suo effetto vitale sul carattere e sul comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale5. Prima di abbandonare la questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche parola a chi afferma che la libera espressione di tutte le opinioni va consentita a condizione che si discuta educatamente, senza oltrepassare i limiti della moderazione. Vi sarebbero molte ragioni per sostenere che è impossibile definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di definizione è l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate, ritengo per esperienza che essi si offendano ogni volta che l'attacco è vigoroso e va a segno, e che ogni oppositore che li incalzi e renda loro difficile replicare sembri smodato se ha idee chiare e le difende. Ma questa considerazione, anche se importante sotto l'aspetto pratico, rientra in un'obiezione più fondamentale. Senza dubbio il modo in cui si asserisce un'opinione, anche se vera, può essere molto sgradevole e venire giustamente e severamente riprovato. Ma in questa sfera le scorrettezze principali sono di tale natura che è quasi impossibile dimostrarle, a meno che chi le commetta non si tradisca accidentalmente. [ ... ] Per quanto concerne ciò che comunemente si intende per discussione smodata - invettive, sarcasmi, attacchi personali e così via - la denuncia di questi mezzi riceverebbe più simpatie se si proponesse di vietarne l'impiego a entrambi i contendenti: ma ciò che si vuole evitare è che vengano usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo possono essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li usa viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E tuttavia i danni derivanti dall'uso di tali mezzi sono maggiori quando i bersagli sono relativamente indifesi; e ogni tipo di vantaggio sleale derivante da questo stile di argomentazione è quasi esclusivamente un vantaggio per l'opinione comunemente accettata. [ ... ] In generale, le opinioni minoritarie possono sperare di essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente moderato ed evitando con ogni cura di offendere inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima deviazione da questa linea; mentre, impiegato dal lato dell'opinione prevalente, il 4 In questo passaggio Mill riconosce nella pluralità delle prospettive una delle condizioni fondamentali della ricerca della verità. La soppressione delle visioni contrastanti, infatti, secondo l'autore porta al pregiudizio e alla dogmatizzazione, che soffocano la conoscenza. Quest'ultima presuppone il confronto critico, in quanto ogni prospettiva contiene sempre una parte, seppur minima, di verità, e deve dunque poter essere espressa e ascoltata. 5 Vi sono quattro distinte ragioni per cui bisogna promuovere la libertà di espressione e di opinione: la prima è che impedendo l'espressione di una particolare opinione, senza conoscerla, potremmo impedirei l'accesso alla verità stessa. La seconda è che l'opinione repressa potrebbe contenere una parte di verità accanto all'errore, e questa ci sarebbe preclusa dalla sua eventuale censura. La terza è che la verità necessita della contestazione per rafforzarsi, altrimenti rischia di passare per mero pregiudizio. L'ultima è che, impedendo al dissenso di manifestarsi, la verità stessa si affievolisce e perde la sua influenza sulle persone. Questi quattro punti riprendono i capisaldi dell'epistemologia e della pedagogia di Mill: innanzitutto quello relativo alla struttura cognitiva dell'uomo, che non può raggiungere in modo assoluto e incondizionato il sapere senza il confronto e il dibattito; poi quello che riguarda la struttura stessa della verità, che essendo complessa non si offre mai allo sguardo semplice e unilaterale; infine, quello relativo alla dinamica dell'educazione, secondo cui non si può ammettere una verità in modo dogmatico senza avvilire la dignità dell'intelligenza umana. vituperio più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni non conformiste e dall'ascoltare chi le professa. Di conseguenza, ai fini della verità e della giustizia, è molto più importante che venga represso questo secondo tipo di invettiva; e ad esempio, se la scelta si ponesse, sarebbe molto più necessario scoraggiare gli attacchi calunniosi al paganesimo che alla religione cristiana. È comunque ovvio che non è compito della legge o dell'autorità scoraggiare nessuno dei due, mentre l'opinione dovrebbe, caso per caso, pronunciarsi sulla base delle circostanze specifiche - condannando chiunque, da qualunque parte stia, il cui modo di argomentare manifesti insincerità, malignità, fanatismo o sentimenti di intolleranza; ma non deducendo queste pecche dall'opinione di chi viene giudicato, anche se è opposta alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da qualunque parte stia, sia così sereno da vedere, e così onesto da descrivere, i suoi oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni che li discreditino e menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere a loro favore. Questa è la vera morale del dibattito pubblico: e anche se spesso viene violata, sono lieto di pensare che molti polemisti la rispettano in larga misura, e molti di più si sforzano coscienziosamente di rispettarla6. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., pp. 60-63 La libertà nell'istruzione Il brano seguente pone in evidenza come l'autore metta in guardia dal pericolo che l'istruzione venga «istituita e fondata» dallo Stato, perché in questo modo essa diventa il veicolo di un unico modello «gradito al potere dominante». Secondo Mill, invece, occorre garantire la libertà e l'autonomia della cultura e del sapere. da Mill, Sulla libertà Un'educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere dominante - sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la maggioranza dei contemporanei - quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quello sul corpo. Un'educazione istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un esperimento in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca a mantenere un certo livello qualitativo generale. Soltanto quando la società in generale è a uno stadio così arretrato che non sarebbe in grado di crearsi istituzioni educative adeguate se lo Stato non se ne assumesse il compito, il governo può, scegliendo tra due mali il minore, incaricarsi della gestione di scuole e università, come potrebbe fondare delle società per azioni se l'iniziativa privata del paese non fosse abbastanza sviluppata da intraprendere grandi attività industriali. Ma in generale se un paese contiene un numero sufficiente di persone qualificate a svolgere la funzione educativa sotto il patrocinio dello Stato, esse sono disposte e in grado di fornire un'educazione altrettanto buona su basi volontarie, purché sia loro garantita la remunerazione da una legge che renda obbligatoria l'istruzione, insieme con sovvenzioni statali agli allievi non in grado di affrontare le spese scolastiche7. Gli strumenti per attuare la legge non potrebbero essere altro che esami pubblici, estesi a tutti i bambini a partire dall'infanzia. Si potrebbe fissare un'età in cui è obbligatorio un esame che stabilisca se 6 In questa parte del brano Mill espone le sue idee in merito alla «vera morale del dibattito pubblico», il quale presenta alcune regole generali che dovrebbero essere rispettate indipendentemente dall'opinione che si sostiene. La prima regola è quella di discutere educatamente, senza oltrepassare i limiti della moderazione. Si tratta di un principio che dovrebbe essere seguito da tutti i partecipanti a una disputa, ma la cui infrazione, solitamente, viene meglio tollerata se è compiuta da parte di coloro che stanno dalla parte della maggioranza. Mill riconosce, cioè, che spesso non vengono rispettate le posizioni delle minoranze e chi le accusa utilizza gli strumenti dell'invettiva, del sarcasmo, dell'attacco personale, senza essere rimproverato adeguata- mente, ma anzi, venendo lodato per la legittima indignazione. La posizione di Mill è che bisogna condannare chiunque si esprima in modo insincero, maligno e fanatico, manifestando sentimenti di intolleranza, da qualunque parte egli stia; mentre è da lodare chiunque sostenga le proprie opinioni con serenità, onestà e correttezza, basandosi su argomentazioni razionali e senza discreditare l'avversario. 7 In questo passo Mill sottolinea che l'«educazione di Stato», cioè un sistema di istruzione istituito dal governo e da esso dipendente, comporta un duplice rischio: da un lato tende inevitabilmente a creare individui omologati, perché tutti dotati delle medesime conoscenze; dall'altro instaura una forma di «dispotismo» sulla mente, perché veicola attraverso l'educazione un modello ideologico e una visione del mondo conformi a quelli del potere dominante. Mill auspica a questo proposito che l'esercizio della funzione educativa venga svolto da soggetti diversi, in competizione tra loro, e che l'unica prerogativa dello Stato consista in una legge che imponga l'obbligatorietà dell'istruzione e garantisca la remunerazione degli insegnanti. In questo modo verrebbero salvaguardate la pluralità dei metodi educativi e nello stesso tempo la diffusione dell'alfabetizzazione. Soltanto nelle circostanze in cui tale obbligo non potesse essere rispettato, ad esempio quando famiglie indigenti non avessero la possibilità di provvedere alla scolarizzazione dei figli o le condizioni del paese fossero così arretrate da non poter istituire scuole e università, allora lo Stato dovrebbe prendersi carico della gestione dell'istruzione, intervenendo con sovvenzioni opportune (ad esempio in aiuto dei poveri). un bambino sa leggere. Se il bambino si rivela analfabeta, il padre, a meno che non presenti adeguate giustificazioni, potrebbe essere punito con una lieve ammenda - pagabile, se necessario, con prestazioni d'opera - e il bambino potrebbe essere mandato a scuola a sue spese. Una volta all'anno l'esame andrebbe ripetuto, su una gamma di argomenti gradatamente ampliata, in modo da rendere virtualmente obbligatorio per tutti acquisire e, ciò che è più, mantenere un certo minimo di cultura generale. Oltre ad esso, dovrebbero esistere esami volontari su tutte le materie, che conferiscano un certificato a chiunque dia prova di un certo livello di conoscenze8. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., pp. 122-123 B. Il dispotismo della maggioranza Il percorso verte sul problema spinoso dei rapporti tra la maggioranza di governo e la minoranza nell'ambito della democrazia moderna. Il tema si articola e complica ulteriormente se si pensa alla tendenza delle società democratiche a omologare gli uomini sotto molti aspetti, dalle preferenze nell'abbigliamento al modo di pensare e di vivere. I testi che proponiamo sono tratti dal saggio di Mill Sulla libertà, e dall'opera di Tocqueville La democrazia in America. La tendenza dell'Europa all'omologazione Con accenti preoccupati Mill prospetta il rischio che nel prossimo futuro l'Europa segua l'esempio della Cina, trasformandosi in un desolato panorama fatto di uomini tutti uniformati. da Mill, Sulla libertà La tendenza attuale dell'opinione pubblica presenta una caratteristica particolarmente adatta a renderla intollerante di qualsiasi spiccata dimostrazione di individualità. La media degli uomini è moderata, non solo nell'intelletto ma nelle inclinazioni; non hanno gusti o desideri abbastanza forti da spingerli ad azioni insolite, e di conseguenza non capiscono chi li ha, e lo classificano tra le persone squilibrate e smodate, cui sono abituati a sentirsi superiori. Basta combinare questo fenomeno, che è generale, con l'ulteriore ipotesi che si formi un movimento moralista e il risultato è facilmente prevedibile. Oggi siamo in presenza di un movimento di questo genere; i comportamenti si sono molto uniformati e gli eccessi vengono scoraggiati con decisione; e aleggia uno spirito filantropico che non trova per esercitarsi campo più invitante del miglioramento della moralità e della prudenza dei nostri simili. Queste tendenze del pubblico fanno sì che il pubblico sia più disposto di quanto non lo fosse in generale nel passato a prescrivere norme generali di condotta e a sforzarsi di far conformare tutti al criterio comunemente accettato. [ ... ] Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso qualcosa che sia migliore dell'abitudine, chiamata, a seconda delle circostanze, spirito di libertà o di progresso o di innovazione. Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà è l'unico fattore infallibile e permanente di progresso, poiché fa sì che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui9. 8 Attraverso il sistema degli esami pubblici lo Stato potrebbe controllare il raggiungi mento degli standard minimi di conoscenza nei bambini e nei giovani. Tali esami, sostiene Mill più avanti, non devono rappresentare tuttavia un'interferenza sulle opinioni degli individui. A tal proposito le verifiche, specialmente nei livelli più avanzati, devono riguardare unicamente i fatti e «da scienza positiva»: «Gli esami riguardanti religione, politica o altri argomenti controversi non dovrebbero vertere sulla verità o falsità delle varie opinioni, ma sul fatto che date opinioni sono sostenute, in base a date argomentazioni, da dati autori, scuole o chiese» (ivi, p. 123). Con questo metodo, i giovani sarebbero liberi di aderire a qualsiasi forma di religione - sarebbero, ad esempio, «anglicani o dissenzienti» -; lo Stato li renderebbe «anglicani o dissenzienti istruiti» (ivi, p. 123). Tutti i tentativi statali di influenzare le opinioni dei cittadini penalizzano la libertà individuale; lo Stato dovrebbe limitarsi, attraverso gli esami finali, ad accertare che le varie opinioni siano possedute sulla base di conoscenze e argomenti documentati: «uno studente di filosofia trarrebbe vantaggio dall'essere in grado di affrontare un esame sia su Locke sia su Kant, indipendentemente dal fatto che condivida le idee dell'uno, dell'altro o di nessuno dei due; e non vi è ragione di obiettare al fatto che un ateo venga esaminato sulle prove dell'esistenza di Dio, purché non si esiga che professi di credervi» (ivi, p. 124). 9 Mill, il quale aveva precedentemente affermato che l'unanimità delle convinzioni non è un valore, perché tende a soffocare i punti di vista delle minoranze e a impoverire in definitiva tutta la società, sottolinea come l'opinione pubblica stia diventando pericolosamente intollerante nei confronti di ogni manifestazione di anticonformismo individuale. La maggior parte degli uomini professa ormai idee moderate e vive in modo tale da evitare eccessi e atteggiamenti inusuali, ma, quel che è peggio, tale maggioranza comincia a elaborare una forma di moralismo, secondo [ ... ] A mio giudizio l'Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme; ma è una dote che si sta riducendo in misura considerevole. L'Europa sta decisamente avanzando verso l'ideale cinese di rendere gli uomini tutti uguali. Il signor de Tocqueville, nella sua ultima importante opera, osserva che i francesi di oggi si rassomigliano molto di più di quelli anche solo della generazione precedente. Un inglese potrebbe dire lo stesso, e a molto maggior ragione. In un passo citato, Wilhelm von Humboldt indica due condizioni necessarie allo sviluppo umano - perché necessarie per differenziare gli uomini -, la libertà e la varietà delle situazioni. In questo paese, la seconda condizione svanisce ogni giorno di più. Le circostanze in cui vivono classi e individui diversi, e che ne formano i caratteri, diventano di giorno in giorno più simili. Una volta, strati sociali, comunità locali, mestieri e professioni diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi diversi: oggi il mondo è in buona misura lo stesso per tutti. Relativamente parlando, oggi la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi posti, spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e le stesse possibilità di farle valere. Per quanto grandi siano le differenze che ancora sussistono tra gli uomini, non sono nulla in confronto a quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione continua: lo favoriscono tutti i mutamenti politici di questo periodo, che tendono senza eccezione a innalzare chi sta in basso e viceversa10. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., pp. 80-82, 84 Una nuova tirannide Il brano che segue è tratto da La democrazia in America di Tocqueville. L'opera fu composta al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti d'America, durato nove mesi, durante i quali il pensatore studiò attentamente le istituzioni democratiche di quel paese, che mostravano, già a metà dell'Ottocento, tutti i vantaggi e i rischi delle democrazie moderne. Sono particolarmente interessanti le riflessioni contenute nella prima parte del brano, in cui l'autore afferma di essere rimasto meravigliato non dall'eccesso di libertà del sistema americano, ma dalla scarsa garanzia che dà contro la tirannide dell'opinione pubblica. da Tocqueville, La democrazia in America Io considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto; tuttavia pongo nella volontà della maggioranza l'origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso? [ ... ] Cos'è mai la maggioranza, presa in corpo, se non un individuo che ha opinioni e spesso interessi contrari ad un altro individuo che si chiama minoranza? Ora, se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò anche per la maggioranza? Gli uomini, riunendosi, mutano forse il carattere? Divenendo più forti, divengono più pazienti di fronte agli ostacoli? Per parte mia, non posso crederlo; e non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi11. Non già che io creda che per conservare la libertà si possano unire parecchi princìpi diversi in un solo governo, in modo da opporli l'uno all'altro. Il cosiddetto governo misto mi è sempre sembrato una chimera. [ ... ] Quando una società giunge ad avere veramente un governo misto, vale a dire esattamente cui è deprecabile ogni comportamento che non sia conforme al costume diffuso. Il «dispotismo della consuetudine» è un ostacolo al progresso, perché impedisce ogni spinta dell'individuo alla novità e ogni sua trovata alternativa rispetto alla tradizione. 10 Il valore dell'Europa risiede nel carattere poliedrico della sua tradizione culturale, che si è sviluppata su molti fronti grazie a personalità uniche e "geniali". Questo aspetto positivo, tuttavia, sta scomparendo, a causa dell'omologazione che trasforma poco per volta la società occidentale, rendendola molto simile a quella cinese. Citando Tocqueville e von Humboldt, Mill mette dunque in guardia contro il conformismo di massa: se condizioni del progresso sono la libertà e la varietà delle situazioni, il fatto che le differenze tra gli individui siano sempre meno evidenti («la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi posti, spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e le stesse possibilità di farle valere»), e siano scoraggiati i comportamenti "originali", costituisce un grave pericolo per la civiltà. 11 Tocqueville ritiene che in politica sia necessario rispettare il principio del governo della maggioranza, assolutamente legittimo. Ciò che secondo l'autore non è accettabile è che ogni aspetto dell'organizzazione sociale e della sfera privata venga a sottostare al potere tirannico di tale maggioranza. Quest'ultima, infatti, può essere considerata come un individuo, il quale ha idee e interessi propri, a volte contrari a quelli degli altri. Ora, come in nessun caso è giusto ammettere che una persona imponga la propria volontà, allo stesso modo non si può accettare che "i più" abusino del loro potere, calpestando i diritti delle minoranze. diviso tra princìpi contrari, essa entra in rivoluzione o si dissolve. Bisogna sempre, dunque, porre in qualche parte un potere sociale superiore a tutti gli altri, ma la libertà è in pericolo quando questo potere non trova innanzi a sé alcun ostacolo che possa rallentare il suo cammino, dandogli il tempo di moderarsi. L'onnipotenza in sé mi sembra una cosa cattiva e pericolosa; il suo esercizio è superiore alle forze dell'uomo, chiunque esso sia; solo Iddio può essere onnipotente senza pericolo, perché la sua saggezza e la sua giustizia sono sempre eguali al suo potere. Non vi è dunque sulla terra autorità, tanto rispettabile in se stessa o rivestita di un diritto tanto sacro, che possa agire senza controllo e dominare senza ostacolo. Quando, dunque, io vedo accordare il diritto o la facoltà di fare tutto a una qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o re, democrazia o aristocrazia, si eserciti essa in una monarchia o in una repubblica, io dico: qui è il germe della tirannide; e cerco di andare a vivere sotto altre leggi. Ciò che rimprovero di più al governo democratico, come è stato organizzato negli Stati Uniti, non è, come molti credono in Europa, la debolezza, ma al contrario la sua forza irresistibile. Quello che più mi ripugna in America, non è l'estrema libertà, ma la scarsa garanzia che vi è contro la tirannide12. Quando negli Stati Uniti un uomo o un partito soffre di qualche ingiustizia, a chi volete che si rivolga? All'opinione pubblica? È essa che forma la maggioranza. Al corpo legislativo? Esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza ed è un suo strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza rivestita del diritto di pronunciare sentenze: i giudici stessi, in alcuni stati, sono eletti dalla maggioranza. Per quanto la misura che vi colpisce sia iniqua o irragionevole, bisogna che vi sottomettiate. Supponete, al contrario, un corpo legislativo composto in modo tale che esso rappresenti la maggioranza senza essere necessariamente lo schiavo delle sue passioni; un potere esecutivo che abbia una forza propria e un potere giudiziario indipendente dagli altri due poteri; avrete ancora un governo democratico, ma non vi sarà più pericolo di tirannide. Io non dico che attualmente si faccia in America un uso frequente della tirannide; dico che non vi è contro di essa alcuna garanzia e che le cause della mitezza del governo devono essere cercate nelle circostanze e nei costumi, piuttosto che nelle leggi13. [ ... ] Durante il mio soggiorno negli Stati Uniti avevo notato che uno stato sociale democratico simile a quello degli americani può offrire una facilità singolare allo stabilirsi del dispotismo; al mio ritorno in Europa vidi che quasi tutti i nostri sovrani si erano già serviti delle idee, dei sentimenti, dei bisogni che questo stato sociale fa nascere per estendere la cerchia del loro potere. Ciò mi indusse a credere che le nazioni cristiane finiranno forse per sentire un'oppressione simile a quella che un tempo pesò su molti popoli dell'antichità. Un esame più particolareggiato dell'argomento e cinque anni di nuove meditazioni non hanno diminuito i miei timori, ma ne hanno cambiato l'oggetto. Nei secoli passati non si è mai visto un sovrano tanto assoluto e potente che abbia voluto amministrare da solo, senza l'aiuto di poteri secondari, tutte le parti di un grande impero, né che abbia tentato di assoggettare indistintamente tutti i suoi sudditi ai particolari di una regola uniforme e che sia disceso a fianco di ognuno di essi per reggerlo e guidarlo. [ ... ] Al tempo della massima potenza dei Cesari, i diversi popoli che abitavano il mondo romano avevano ancora conservato usi e costumi diversi: la 12 Secondo Tocqueville in un governo non possono coesistere tanti principi diversi, che entrerebbero in contrasto l'uno con l'altro; nella democrazia, ad esempio, è giusto che il potere venga esercitato dalla maggioranza, attraverso i suoi legittimi rappresentanti. Tuttavia, è auspicabile che tale potere sia moderato da altre forze o istituzioni, che limitino la sua «onnipotenza». La tirannide trova il suo fondamento proprio in un sistema politico - sia esso monarchico, democratico o oligarchico - che esercita un'autorità priva di controllo. Secondo Tocqueville la società americana non è sufficientemente tutelata da tale rischio. 13 Negli Stati Uniti, osserva il filosofo, non sono garantiti i diritti delle minoranze; coloro che subiscono un'ingiustizia, ad esempio, non trovano né nella società civile né nelle istituzioni figure di riferimento sufficientemente forti per far valere le loro istanze: il parlamento, cioè il «corpo legislativo», è dominato dalla maggioranza, che detiene la maggior parte dei seggi; il governo, cioè il «potere esecutivo», è anch'esso espresso dalla maggioranza parlamentare e quindi è conforme, nel proprio operato, alle sue direttive; l'esercito è comandato dal Ministero dell'Interno e quindi ancora dalla maggioranza parlamentare; il potere giudiziario stesso, secondo il filosofo, non gode della necessaria autonomia, perché applica norme espresse dal parlamento, il quale, in alcuni Stati americani, elegge i giudici. Collegandosi alla tradizione liberale di Montesquieu, Tocqueville sostiene che l'unica garanzia di libertà per i cittadini risiede nella divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Secondo l'autore, in America non vi sono, in effetti, condizioni evidenti di dispotismo da parte della maggioranza; quello che egli intende sottolineare è tuttavia che i cittadini americani non sono sufficientemente protetti da questo rischio e che le istituzioni che li governano hanno un carattere mite e rispettoso dei diritti non perché sono state stabilite regole precise a tutela della libertà e dell'autonomia dei poteri, ma perché gli stessi «costumi» delle persone sono talmente civili da garantire di per sé un alto livello di giustizia e di correttezza politica. maggior parte delle province, benché sottoposte allo stesso monarca, erano amministrate a parte; in esse fiorivano municipi potenti e attivi e, sebbene il governo dell'impero fosse accentrato nelle sole mani dell'imperatore, il quale era sempre all'occorrenza l'arbitro di ogni cosa, i particolari della vita sociale e dell'esistenza individuale sfuggivano generalmente al suo controllo. Gli imperatori possedevano, è vero, un potere immenso e senza contrappesi, che permetteva loro di abbandonarsi liberamente a qualsiasi stranezza e di soddisfarla con la forza dello stato; così che accadeva spesso che abusassero di questo potere per togliere arbitrariamente a un cittadino i beni o la vita; ma la loro tirannide, pur gravando straordinariamente su qualcuno, non si estendeva sulla maggioranza; essa si fissava su alcuni oggetti principali e trascurava il resto: era nello stesso tempo violenta e ristretta. È probabile che il dispotismo, se riuscisse a stabilirsi presso le nazioni democratiche del nostro tempo, avrebbe un altro carattere: sarebbe più esteso e più mite e degraderebbe gli uomini senza tormentarli. Non dubito che in tempi di civiltà e di eguaglianza come i nostri, i sovrani riescano più facilmente di quel che siano riusciti a fare quelli dell'antichità a riunire tutti i poteri pubblici nelle loro mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nella cerchia degli interessi privati. Ma quella stessa eguaglianza, che facilita il dispotismo, lo tempera; abbiamo visto come, via via che gli uomini diventano più eguali, i costumi divengano più umani e miti; inoltre, quando nessun cittadino dispone di grande potere e di grandi ricchezze, la tirannide non trova più occasione né campo di azione su cui esercitarsi. Siccome tutte le fortune sono mediocri, le passioni sono naturalmente contenute, l'immaginazione limitata, i costumi semplici. Questa moderazione universale modera anche il sovrano e pone un limite allo slancio disordinato dei suoi desideri. [ ... ] I governi democratici possono diventare violenti e anche crudeli in certi momenti di grande effervescenza e di pericolo, ma queste crisi saranno rare e passeggere. Quando penso alle piccole passioni degli uomini del nostro tempo, alla mollezza dei loro costumi, all'estensione della loro cultura, alla mitezza della loro morale, alla purezza della loro religione, alle loro abitudini laboriose e ordinate, alla moderazione che quasi tutti conservano nel vizio come nella virtù, non temo che essi troveranno fra i loro capi dei tiranni, ma piuttosto dei tutori. Credo, dunque, che la forma di oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l'hanno preceduta nel mondo, i nostri contemporanei non ne potranno trovare l'immagine nei loro ricordi. Invano anch'io cerco un'espressione che riproduca e contenga esattamente l'idea che me ne sono fatto, poiché le antiche parole dispotismo e tirannide non le convengono affatto. La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, poiché non è possibile indicarla con un nome14. Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all'autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l'unico agente e regolatore; provvede 14 Tornando in Europa, Tocqueville rielabora le osservazioni compiute nel suo viaggio e arriva alla conclusione che l'adozione di istituzioni democratiche simili a quelle americane può costituire un rischio, in quanto esse possono creare condizioni favorevoli all'instaurarsi del dispotismo. A questo proposito il filosofo sottolinea le differenze tra la tirannide del passato e quella che minaccia le società moderne. Innanzitutto rileva che i sovrani dell'antichità non esercitavano il potere da soli, ma si appoggiavano a governi locali che in qualche modo garantivano il mantenimento degli usi e dei costumi dei vari paesi assoggettati. È il caso ad esempio dei Romani, che avevano affidato l'amministrazione delle province dell'impero ai governatori, i quali rispondevano all'imperatore, ma di fatto gestivano la situazione in modo relativamente autonomo, affrontando i problemi («i particolari della vita sociale e individuale» con metodi e sensibilità differenti in relazione alle tradizioni e alle caratteristiche delle popolazioni. L'enorme potere dell'imperatore poteva travolgere alcuni individui, in quanto spesso egli ne abusava, ma non creava una forma di dipendenza generale perché la grande maggioranza delle genti sottomesse in realtà continuava a vivere secondo i propri principi e le proprie abitudini; esso riusciva dunque a risultare estremamente violento, ma tutto sommato poco pervasivo. Il dispotismo moderno è invece certamente meno violento, più «mite», esente da metodi repressivi palesi come le costrizioni fisiche e materiali, ma colpisce in modo subdolo la mente stessa delle persone, esercitando un condizionamento continuo e inesorabile sul loro modo di pensare, sulla maniera di comportarsi, arrivando a modificare perfino l'immaginario dei cittadini, orientati verso un'esistenza mediocre, moderata, tollerante, omologata. La nuova forma di dispotismo è così diversa da quella antica che Tocqueville dichiara di avere difficoltà perfino a designarla con un termine preciso. alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l'uso del libero arbitrio, restringe l'azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l'uso di se stesso. L'eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio. Così, dopo aver preso a volta a volta nelle sue mani potenti ogni individuo ed averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull'intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all'ombra della sovranità del popolo15. A.de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1996, pp. 257-259 e 731-733 C. La democrazia che non c’è (Paul Ginsborg) Prologo Questa storia ha inizio a Londra, nella primavera del 1873. È una serata piovosa, ma non particolarmente fredda, e la città è avvolta nella bruma. Due uomini di mezza età, cinquantaquattro anni l'uno, sessantasei l'altro, si incontrano per la prima volta. Il più anziano ha invitato a cena il più giovane nella sua casa di Albert Mansions, in Victoria Street. Entrambi sono accompagnati, l'uno dalla figlia Eleanor, l'altro dalla figliastra Helen. Il più giovane è il più trasandato. Malvestito, bronchitico, ha un'immensa barba brizzolata non perfettamente pulita. Parla inglese con un pesante accento tedesco. È tedesco, infatti. L'altro è inglesissimo, anche se per motivi di salute trascorre gran parte dell'anno nel clima più mite di Avignone. Tanto l'inglese è cortese e freddo quanto il tedesco inquieto e irascibile. L'uno è un levriero intellettuale, l'altro un toro. Sono, escludendo Charles Darwin, le due menti più insigni dell'era vittoriana. All'inizio regna una fredda diffidenza, dato l'impressionante contrasto tra le due personalità. In seguito l'atmosfera si scalda e la curiosità reciproca prende il sopravvento. Il più anziano, John Stuart Mill, il massimo pensatore liberale del suo tempo (e forse di ogni tempo), aveva maturato un interesse sempre più spiccato per il socialismo, se non per il comunismo. Nel 1848 aveva plaudito alla rivoluzione di Parigi, esprimendo l'auspicio che i Francesi, a suo giudizio sempre all'avanguardia nella sperimentazione sociale e politica, mantenessero l'istituto della proprietà privata, ma favorissero «ogni 15 Tocqueville cerca di descrivere i caratteri della nuova tirannide, attribuendola innanzitutto al principio di uguaglianza che diventa dominante nella società democratica: tutti sono uguali di fronte alla legge, nei diritti fondamentali, nelle prerogative, ma anche nelle conoscenze (impartite da un sistema di istruzione centralizzato che trasmette un messaggio uniforme e moderato), nei desideri (che vengono contenuti e soddisfatti da oggetti materiali facilmente raggiungibili), nello stile di vita (individualistico e atomistico, per cui ciascuno si occupa del benessere della propria ristretta cerchia familiare, rimanendo indifferente alle sorti del paese). Questo ripiegamento dell'individuo nel privato e la sua trasformazione in consumatore appagato sono favoriti dalla politica, che ha tutto l'interesse a creare una massa di persone facilmente controllabili e dominabili. Il potere democratico assume il carattere di un potere paternalistico, preoccupato più di garantire il benessere materiale dei cittadini - mantenuti in una sorta di perenne adolescenza - che di stimolare la loro autonomia, il senso critico, l'indipendenza, la crescita interiore. A questo scopo si occupa di tutto, dalla gestione dell'economia all'amministrazione dei beni, dall'organizzazione dei servizi alla garanzia della sicurezza ecc. ogni aspetto della vita civile viene regolamentato, tanto che l'autore si interroga ironicamente sul momento in cui i cittadini verranno sollevati dalla «fatica di pensare e dalla pena di vivere». Questo sistema, per quanto apparentemente funzionale e "benefico", provoca esiti sconcertanti, come ad esempio quello di limitare il libero arbitrio degli individui, incapaci ormai di organizzare in modo autonomo la propria esistenza, resi dipendenti perfino nei desideri o nella scelta degli svaghi e dei divertimenti. Nella conclusione del brano l'autore utilizza una metafora molto efficace per rappresentare la massa delle persone infiacchite e indebolite da questo "regime", invisibile ma distruttivo: esse sono ridotte a una «mandria di animali timidi ed industriosi», di cui il governo «è il pastore». La considerazione finale di Tocqueville è che, per quanto possa sembrare paradossale, la tirannide descritta può instaurarsi proprio in quei paesi nei quali regna un'apparente libertà e sono affermate istituzioni democratiche; in ciò risiede il più grande pericolo, perché in una situazione di benessere è molto più difficile tenere vivo lo spirito critico. possibile esperimento per farne a meno ricorrendo all’associazione». Mill era sempre disposto a mettere in discussione i principi fondamentali dell'organizzazione sociale. Guardava con scetticismo alle soluzioni proposte dai socialisti "rivoluzionari", come avrebbe dimostrato il suo Chapters on Socialism, pubblicato postumo. Ma nel luglio 1870 aveva comunque espresso il suo assenso a un documento pubblicato dal Consiglio Generale della Prima Internazionale allo scoppio della guerra francoprussiana. Ne era autore il secondo protagonista di questa storia, e non è difficile indovinare la sua identità. Esprimendosi a nome della Prima Internazionale, Karl Marx sottolineava la necessità che le classi lavoratrici dei due paesi, Francia e Germania, fraternizzassero, invece di combattere. Mill concordava. Entrambi i personaggi, seppur in ambienti diversi e con diversa intensità, avevano avuto parte attiva nella politica britannica. Mill era stato parlamentare liberale dal 1865 al 1868. Aveva presentato un importante emendamento al disegno di legge di riforma parlamentare del 1867 sostituendo il termine "uomo" con "persona", con l'intento di concedere il diritto di voto alle donne sulla base degli stessi requisiti previsti per gli elettori maschi. L'emendamento fu appoggiato da settantatré parlamentari. Mill aveva inoltre contribuito a evitare scontri tra manifestanti delle classi lavoratrici e 1'esercito dopo la bocciatura del progetto di legge di riforma del suffragio elettorale, avanzato da Gladstone nel 1866. Benché solidale con la causa dei lavoratori, Mill aveva persuaso i loro leader a rinunciare all'idea di una manifestazione di massa a Hyde Park: «Nessun altro, a mio avviso, - scrisse fiero in seguito, possedeva al momento l'ascendente necessario a frenare le classi operaie, fatta eccezione per Gladstone e Bright, entrambi non disponibili». Quanto a Marx, si era adoperato con pazienza e tenacia assieme agli artigiani e ai sindacalisti britannici per costruire la struttura rozza ma del tutto originale della Prima Internazionale dei Lavoratori (1864-76). Durante le tre ore del loro colloquio, quella sera di marzo del 1873, i due toccarono una pluralità di argomenti, facendo emergere convergenze e divergenze. Marx non era un interlocutore facile. Negli anni Sessanta dell'Ottocento i suoi figli facevano con lui il gioco della verità, un passatempo in voga nelle famiglie borghesi dell'epoca vittoriana. Colore preferito: "rosso". Pietanza preferita: "pesce". Cos'è la felicità?: "lottare". Cos'è l'infelicità: "essere sottomessi". Un elemento di netta divergenza tra i due era l'economia, ma forse non nei termini che potremmo di primo acchito immaginare. Marx aveva grande fede nei vantaggi e nelle potenzialità di progresso insite nella produzione capitalista. Per capirlo basta leggere il famoso brano del Manifesto Comunista in cui rende omaggio agli straordinari successi economici della borghesia che, in un secolo scarso, aveva «assoggettato le forze della natura all'uomo» e «creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche». Per Marx la borghesia moderna aveva creato forze di produzione più imponenti di quanto avessero fatto tutte le generazioni precedenti messe insieme. Proprio per questa ragione pensava che fosse prossima una fase nuova e cruciale della storia mondiale - quella della rivoluzione proletaria. Le basi economiche erano già state poste. Mill era più cauto e, potremmo dire, più moderno. Cercò di spiegare a Marx che la crescita illimitata rappresentava un rischio reale. Nei paesi capitalisti avanzati bisognava invece determinare una "stasi" dell'economia, per frenare la crescita inutile. Mill citò almeno tre motivazioni per agire in tal senso: bisognava impedire l'eccessiva urbanizzazione e il sovraffollamento, evitare che la natura venisse usata in maniera totalmente strumentale, «sradicando ogni siepe e ogni albero superfluo», e non attribuire eccessivo valore alla prosperità materiale. Mill odiava quelli che definiva i «cacciatori di dollari», non discostandosi in questo molto da Marx. È anche vero che i due pensatori, come ha indicato Paul Smart, benché provenienti da tradizioni diversissime, idealista l'uno, pragmatica l'altro, avevano un comune concetto della natura umana che metteva in risalto la capacità dell'uomo di agire attivamente e intenzionalmente sulle condizioni della sua esistenza". Marx rimase molto colpito dal fatto che Mill avesse inserito nella terza edizione (quella del 1852) del suo Principles of Political Economy un passaggio sulle cooperative dei lavoratori, considerandole l'auspicabile futura forma di organizzazione della produzione industriale. Ma della loro discussione a me interessa in questo contesto la parte riguardante la democrazia. Per correttezza va detto, benché si tratti di una questione molto controversa, che nessuno dei due era democratico fino in fondo. Mill credeva nella democrazia rappresentativa e nel 1861 aveva pubblicato un importante saggio sull'argomento, Considerazioni sul governo rappresentativo. Al termine del terzo capitolo scriveva che «in definitiva nulla è più auspicabile dell'ammissione di tutti ad avere parte attiva al potere sovrano dello stato. Ma poiché in una comunità che ecceda le dimensioni del piccolo centro urbano è impossibile che tutti partecipino in prima persona se non in misura assai ridotta all'attività pubblica, ne consegue che il modello ideale del governo perfetto deve essere rappresentativo». E, come abbiamo visto, voleva che in tale democrazia rappresentativa il diritto di voto fosse concesso sia agli uomini sia alle donne. Tuttavia, ed è qui che le sue credenziali democratiche si rivelano più carenti, Mill aveva anche la netta impressione che gli uomini e le donne delle classi lavoratrici non fossero ancora pronti, né sufficientemente istruiti, per l'esercizio della democrazia. Temeva la tirannia di una maggioranza mal informata e affetta da pregiudizi e insistette, quanto meno in una certa fase, su un sistema elettorale in cui ai voti dei cittadini venivano attribuiti pesi diversi, per conferire maggiore rappresentatività alle classi colte. Non basta. Mill era inoltre convinto che «la direzione effettiva della cosa pubblica» dovesse essere affidata a un'élite non eletta - «un piccolo numero di uomini eminenti; esperimentati, preparati da una educazione e da una esperienza particolare, personalmente responsabili di fronte alla nazione». Marx, al contrario, credeva nella democrazia diretta o partecipativa, basata sul coinvolgimento di tutti i cittadini di una data nazione. Considerava la democrazia rappresentativa un imbroglio, «il sofisma dello stato politico», come la definì in La questione ebraica (1833-34); un sistema in cui tutti gli uomini erano all'apparenza politicamente liberi e uguali, ma in realtà restavano profondamente divisi da disparità di reddito e da un accesso differenziato al potere. L'emancipazione dell'uomo poteva trovare realizzazione solo nel momento in cui il profondo divario tra l'uomo politico e l'uomo sociale, tra l'astratto "citoyen" e l'uomo reale («der wahre Mensch» nelle parole di Marx), fosse stato efficacemente sanato. Tornerò in seguito sulla tesi fondamentale di Marx del necessario legame tra democrazia politica e democrazia economica. Nel 1871, due anni prima dell'incontro tra Marx e Mill a Londra, Marx aveva colto nella Comune di Parigi, la breve insurrezione radicale che aveva travolto la capitale francese nel periodo immediatamente successivo alla guerra franco-prussiana, l'embrione di un nuovo, più avanzato sistema di organizzazione politica. La Comune, in definitiva, scrisse Marx nel suo pamphlet La guerra civile in Francia, «fornì alla repubblica la base di istituzioni realmente democratiche». Era «la forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro». Il potere veniva decentralizzato, una milizia popolare si sostituiva all'esercito, i cittadini partecipavano attivamente al processo decisionale, i delegati (non rappresentanti) avevano retribuzioni pari al salario degli operai e potevano essere rimossi dall'incarico dai loro elettori. Agli occhi di Marx la Comune di Parigi era la dimostrazione che la democrazia diretta, lungi dall'essere attuabile solo in un piccolo centro, come sosteneva Mill, poteva essere realizzata in una grande città, e il modello parigino avrebbe potuto essere imitato in una nuova Francia federalista. Nella Comune di Parigi la democrazia economica non aveva avuto realizzazione ma la sfera politica, quella si, era stata avvicinata ai bisogni e al controllo della popolazione nel suo complesso. Di Marx, come di Mill, si può dire tuttavia che non aveva credenziali democratiche impeccabili, in quanto utilizzava due modelli di possibile futura democrazia. La fedeltà al concetto della «dittatura del proletariato», espressione che serpeggiava minacciosa nella sua corrispondenza senza aver mai avuto sviluppo sistematico, non era affatto di buon auspicio in termini democratici". Né è presente nei suoi scritti evidenza che i due modelli - la dittatura del proletariato e la Comune di Parigi - fossero in rapporto diacronico; Marx, in altre parole, non presentava la dittatura del proletariato come prologo necessario ma temporaneo a una democrazia partecipativa, popolare e decentralizzata. Essa era semplicemente un modello diverso e contrastante di organizzazione politica, assai più centralizzante, esclusiva e autoritaria della Comune di Parigi. Poiché Marx non lavorò mai con sistematicità sul tema della democrazia – esso era contemplato nel suo ambiziosissimo programma di ricerca e scrittura ma per trattarlo esaurientemente gli sarebbero forse stati necessari oltre cent'anni di vita - non fu mai chiaro se preferisse l'uno o l'altro di questi modelli, né in che modo fossero collegati. Né Marx né Mill, quindi, si potrebbero definire democratici puri, quanto meno in base agli standard, se non dei loro, dei nostri tempi. Vale la pena infatti di sottolineare che entrambi tendevano ad attribuire status politico privilegiato e funzioni di leadership a una sola classe, con la fondamentale differenza che per Mill la classe designata era la borghesia illuminata, per Marx il proletariato industriale. Non erano neppure universalisti, nel senso che non consideravano tutti i popoli e le nazioni candidati a pari merito alla democrazia. Mill, sulla base della lunga esperienza maturata nella pubblica amministrazione indiana, non esitò a condannare gli atteggiamenti dei coloni europei che «considerano gli abitanti del paese alla stregua di fango sotto i piedi», ma non aveva dubbi sul primato della Gran Bretagna e sulla sua missione civilizzatrice. E Marx, pur esortando tutti i lavoratori del mondo a unirsi, non esitò a esprimere giudizi altamente sferzanti sulle capacità e caratteristiche di certi popoli, razze e nazioni. Quella sera a Londra, dopo più di un bicchiere di Porto, Marx attaccò Mill su una serie di punti chiave in riferimento alla democrazia "immaginata", quella che entrambi desideravano vedere nel futuro. Egli considerava del tutto inaccettabile il desiderio di Mill di escludere gli analfabeti dal voto e la sua insistenza nell'attribuire ai voti diverso peso. Marx trovava inoltre strano che Mill non si fosse mai soffermato a riflettere sul significato democratico della Comune di Parigi del 1871, quando nel 1848 aveva acclamato la rivoluzione e gli elementi socialisti in essa contenuti. Mill rispose con calma e nel classico stile liberale. Ammise di non aver prestato sufficiente attenzione alla Comune, ma si disse convinto che il sistema federale suggerito dai comunardi era probabilmente la migliore via di progresso per la Francia. Ammoni tuttavia Marx che la democrazia e la dittatura del proletariato non avevano nulla in comune. «Le classi lavoratrici, - diceva Mill, - o chi per esse istituirebbero un'economia centralizzata, schiaccerebbero ogni opposizione dimostrando un'insensibilità nei confronti delle sofferenze altrui di cui neppure Robespierre e Saint-just furono capaci». Ma poi per addolcire la pillola, e accattivarsi Marx, plaudi al discorso tenuto da quest'ultimo di fronte a una platea operaia ad Amsterdam solo sei mesi prima, 1'8 settembre 1872: «Non neghiamo, - aveva detto Marx, che esistono paesi come 1'America, l'Inghilterra e, aggiungerei, l'Olanda, se solo conoscessi meglio le vostre istituzioni, in cui i lavoratori possono raggiungere il loro obiettivo attraverso mezzi pacifici». Per Mill, quest'ultima era la via luminosa da percorrere insieme. Era quasi mezzanotte quando Karl ed Eleanor Marx lasciarono casa Mill. Accompagnando Marx alla porta, a conforto di due intellettuali anziani ma ancora desiderosi di discutere e di apprendere, Mill citò alcuni versi tratti da The two part Prelude del suo poeta preferito, William Wordsworth: Many are the joys of youth, but oh, what happiness to live When every hour brings palpable access Of knowledge, when all knowledge is delight, And sorrow is not there, Mill sarebbe morto da lì a un mese appena. Tornò con Helen in Francia ma si ammalò dopo una lunga spedizione botanica nelle campagne intorno a Orange con il suo amico entomologo Jean Henri Fabre. Marx, che non aveva tempo, opportunità o inclinazione per la botanica, gli sopravvisse per altri dieci anni. L'incontro che ho narrato non ha mai avuto luogo. Faccio ammenda con gli studiosi di Marx e Mill per essermi preso alcune libertà, creando forse in loro qualche istante di disorientamento e disappunto. Ogni parola e posizione attribuita ai due personaggi è però tratta direttamente dai loro scritti. E vero che Mill plaudi alla dichiarazione di Marx del 1870 sulla guerra franco-prussiana, Marx affermò realmente nel settembre 1872 che nei paesi capitalisti avanzati la classe operaia poteva andare al potere con mezzi pacifici, Mill scrisse davvero che il federalismo era la migliore via di progresso per la Francia, il suo poeta preferito era proprio William Wordsworth, e cosi via. L'incontro avrebbe potuto tranquillamente aver luogo nella realtà, ma cosi non fu. Quell'ultimo marzo a casa Mill la vita sociale si svolse secondo i ritmi consueti, con gli ospiti invitati a cena alle sette in punto. Quanto a Marx, negli ultimi anni della sua vita divenne quasi socievole, al punto da accettare un invito a pranzo in un club per gentiluomini da parte di un altro parlamentare liberale niente affatto proletario, sir Mountstuart Elphinstone Grant-Duff. Ho inventato l'incontro per introdurre l'argomento di questo piccolo saggio: natura e potenzialità dell'odierna democrazia. Importanti questioni dividevano Marx e Mill nel 1873 - la composizione dell'elettorato, il ruolo politico delle diverse classi sociali, la natura della democrazia economica. Ma numerosi erano anche i punti di contatto - «l'ammissione di tutti ad aver parte del potere sovrano dello stato», per dirla con Mill, la necessità che uomini e donne fossero soggetti attivi in politica come nel sociale, la possibilità per le classi lavoratrici di conquistare il potere politico con mezzi pacifici. Nessuno di questi obiettivi è stato realizzato. Inoltre nei successivi cento anni le due grandi tradizioni intellettuali del liberalismo e del marxismo, destinate a dominare la politica mondiale nel xx secolo, lungi dal convergere in alcun modo, come il mio incontro fittizio cautamente auspicava, si distaccarono radicalmente. Liberalismo e comunismo unirono la loro forza militare per sconfiggere la terribile minaccia del fascismo e del nazismo internazionale, ma oltre non seppero andare. Nel 1989 la democrazia liberale trionfò senza riserve sul suo, ormai impresentabile, avversario. Ma, nel momento della vittoria globale, molte delle prassi fondamentali della democrazia liberale si sono rivelate carenti e molti dei suoi più orgogliosi vanti infondati. Oggi la democrazia liberale è, almeno in parte, un re nudo. Per vestirlo adeguatamente urgono dibattito teorico e innovazione pratica. Partendo da Marx e Mill e, a dire il vero, senza mai perderli di vista, questo saggio affronta alcune delle questioni piii pressanti sorte nella storia della democrazia, rapportandole alle possibilità e ai pericoli dei nostri giorni. Ciò in riferimento alla democrazia in generale, ma con attenzione particolare alle democrazie europee e al destino dell'Unione Europea. E lo fa con un problema preciso in mente - la necessità di inventare nuove forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda. La democrazia ha molti nemici in attesa tra le quinte, politici e movimenti per il momento costretti a giocare secondo le sue regole ma il cui intento reale è tutt'altro - populista, di manipolazione mediatica, intollerante e autoritario. Conquisteranno molto spazio, se non riformeremo rapidamente le nostre democrazie. E non c'è ambito in cui questa riforma sia più necessaria che in seno alla stessa Unione Europea. Finale semi-serio Epoca: I nostri giorni Scenario: Una nuvola sopra l'Europa. La parte superiore della nuvola è piatta, quasi come un palcoscenico. Entra in scena John Stuart Mill, da destra. Indossa scarpe da passeggio ed è reduce da una lunga spedizione botanica con il suo amico entomologo Jean Henri Fabre. Entra in scena Karl Marx, da sinistra. È appena stato promosso in Paradiso dal Purgatorio e finalmente è guarito dai foruncoli. Ha in mano un testo che annota in margine con piglio energico. Entrambi i personaggi hanno con sé un potente binocolo per osservare come è cambiato il mondo. Mill: - My dear Karl (se dopo tanti anni mi è concesso chiamarti per nome), sono davvero lieto di trovarti così in forma! Marx, citando subito il suo amato Dante, dal canto IV del Paradiso: Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate più conformato, e quel ch'e' più apprezza, fu de la volontà la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e sole, fuoro e son dotate. Mill: - Oh, come concordo!! Marx: - Sono ansioso di riprendere la discussione che abbiamo interrotto nel 1873. Mi sembra, lieber John Stuart, se è così che posso rivolger mi a te, che in termini economici avessimo entrambi sia ragione sia torto. Devo ammettere di aver confuso la nascita del capitalismo con la sua agonia. Il saggio del profitto (si schiarisce la voce imbarazzato) non dà segnali chiari di caduta. I lavoratori non si ribellano con sempre maggior forza, né si organizzano come classe rivoluzionaria. Ach! Sembrano più interessati all’appropriazione che all'esproprio!! Laggiù parlano di tardo capitalismo, tarda modernità, tardo tutto... ma come fanno a sapere se è presto o tardi? Come fanno a leggere l'orologio del capitalismo? Non negherai, spero, che avevo previsto molti aspetti del capitalismo odierno, non da ultimo la sua sempre maggiore concentrazione e rapacità su scala globale. Mill: - Ora che ho avuto il tempo di leggere tutti i tuoi scritti, my dear Karl, posso confermare senza dubbio alcuno che la tua è la più rivelatrice delle analisi del capitalismo. Quanto a me, c'è poco da dire. Ho sovrastimato (si schiarisce la voce imbarazzato) le conseguenze virtuose della concorrenza e le capacità del mercato di autocorreggersi. Tutto ciò che è recentemente accaduto su scala globale nel nome del liberalismo mi lascia esterrefatto. Non è cosi che l'umanità può sperare di creare un ordine mondiale pacifico e prospero. Sembra che gli individui abbiano perduto ogni senso di sobrietà materiale e di responsabilità collettiva... (Mill si interrompe e riprende il binocolo). Mill: - Cosa vedono le mie pupille? (ridacchiando). Siamo proprio noi su quel libriccino? Ci mettono a confronto. Marx appare subito preoccupato. Mill (mettendo l'immagine a fuoco): - Si, ci mettono a confronto. Good gracious - in che strana compagnia ci troviamo. Il libretto si intitola La vera storia italiana. È pieno zeppo di fotografie di Silvio Berlusconi - forse hai seguito la sua carriera quando eri in Purgatorio. È quell'uomo d'affari italiano passato in politica che si paragona a Napoleone, hai capito chi? Marx: - In caso direi che ricorda più Napoleone III! Mill: - Hai ragione. Che cosa avrà da dire a nostro riguardo? E un inserto, corredato dai nostri ritratti, intitolato Pensieri a confronto. (Inizia a leggere e subito si rabbuia). A quanto sembra il ruolo dell'eroe spetta ancora una volta a me. Ma su quali basi? My good God! Senti un po' che cosa mi hanno messo in bocca: «Fra l'individualismo e il socialismo occorre aderire al primo, che garantisce la libertà individuale senza impedire la lotta all'ingiustizia sociale». Ma che dicono? Non sanno che le mie ultime parole pubblicate sono queste: «La società ha pieno titolo di abrogare o alterare qualsiasi particolare diritto di proprietà, che in base ad adeguata riflessione reputi ostare al bene pubblico. E certamente il terribile atto di accusa che, come abbiamo visto in un capitolo precedente, i socialisti sono stati in grado di montare contro l'attuale ordine economico della società richiede piena considerazione di tutti i mezzi attraverso i quali l'istituzione della proprietà privata possa essere fatta funzionare in maniera più proficua per quella ampia porzione della società che attualmente benefici a in minima parte dei suoi diretti vantaggi». Marx: - La tua memoria a quanto sembra non è stata intaccata dal passare degli anni. E a me che cosa fanno dire? Mill: - «Il rifiuto delle forme istituzionali dello stato borghese si realizza nella dittatura del proletariato» . Marx: - Mmmmm. Mill: - Proprio cosi. (Segue un lungo silenzio) Mill (titubante): - Si tratta forse del tuo più grave errore? Marx (ritrovando l'antica veemenza): - Non ne sono affatto certo. Credi davvero che se le classi lavoratrici fossero andate al potere, pur pacificamente e attraverso mezzi parlamentari, chi aveva perso il controllo della società avrebbe reagito dicendo, come fate voi inglesi dopo una di quelle incomprensibili partite di cricket: «Bella prova, amici. Avete segnato più punti, quindi la vittoria è vostra! » Certo che no! La tragica esperienza della Comune di Parigi non ti ha insegnato nulla? Puoi star certo che anche in assenza di violenza diretta il capitalismo internazionale avrebbe rovesciato il nuovo governo dei lavoratori. Nein, dobbiamo tutelare le nostre vittorie, per poche che siano, con la violenza e la dittatura se necessario. Mill: - Ssssh. Gli angeli potrebbero sentirti. Marx: - Che sentano pure. Mill: - Non pensi ai tuoi foruncoli? Marx: - Meglio che non sentano. Mill (cambiando tattica): - Concordo, mio malgrado, che non esistono risposte semplici, o risposte in sé, al dilemma che hai appena descritto. E io non sono più pacifista di te (si volta guardingo) ... Ma se tu avessi dedicato più tempo alla politica e meno all' economia? Se tu avessi spiegato meglio che cosa intendevi per dittatura del proletariato? Non riesco a credere che tu intendessi alludere alla dittatura del partito o di un solo uomo. Marx: - Infatti non era così. In tal senso non sono un marxista, semplicemente Karl Marx (sorride). Ma se io non sono un marxista ortodosso, nemmeno tu sei un liberale ortodosso, perbacco! Mill (a bassissima voce): - Forse sono nel posto meno adatto per dire quello che sto per dire ma Dio ci scampi da ogni sorta di ortodossia (riprendendo il tono normale) E ora, my dear Karl, vuoi che ti mostri gli uccelli del paradiso, davvero magnifici qui. Marx: - Ti seguo, ma non in tutto. Fine. 5. SINTESI In questa unità abbiamo trattato tre temi strettamente collegati: l'affermazione delle libertà civili; le rivendicazioni del primo movimento femminista, con particolare riguardo alla corrente liberale di Harriet Taylor e John Stuart Mill; la critica del dispotismo della maggioranza. Il filo conduttore dell'intero percorso ci è stato offerto dal saggio di Mill Sulla libertà, pubblicato nel 1859. Abbiamo poi fatto riferimento all'altro suo saggio intitolato Sulla servitù delle donne, scritto con la collaborazione della moglie Harriet, ma uscito nel 1869, undici anni dopo la morte della donna. Ripercorriamo in ordine i tre temi. Mill: la libertà civile e politica Il saggio Sulla libertà ci ha offerto lo spunto per chiarire i seguenti concetti: innanzitutto la libertà di cui abbiamo trattato non è da intendersi né in senso metafisico né in senso morale, ma piuttosto in senso civile, ossia come l'insieme dei diritti inviolabili della persona umana, per quanto riguarda il pensiero, l'espressione delle opinioni e le azioni. Tra le libertà prese in considerazione spicca quella relativa al libero confronto delle idee e delle opinioni, anche in vista dello sviluppo della conoscenza. L'importanza della discussione libera e critica è stata colta come uno dei cardini della modernità. il tema della libertà, inoltre, è stato analizzato anche in relazione alla sfera dell'azione, in cui secondo Mill occorre attenersi all'idea che ognuno è libero di fare quello che vuole, purché non leda i legittimi diritti degli altri. Mill e Taylor: le prime rivendicazioni dei diritti delle donne Le riflessioni di Mill e di sua moglie Harriet Taylor hanno evidenziato altri aspetti, non meno importanti: in primo luogo la condizione di subordinazione in cui la donna è relegata nella famiglia, nella società e nella vita politica, che non è dovuta a cause di tipo "biologico" o "naturale", ma è frutto delle convenzioni sociali e dell'educazione. Si tratta di un'esclusione voluta dagli uomini e camuffata spesso sotto le sembianze dell'affetto, dell'amore o del sentimento. In realtà, tale subalternità costituisce un vero e proprio dispotismo esercitato dagli uomini sulle donne, un dispotismo paternalistico e "suadente", che però non muta la sostanza di ingiustizia in cui le donne sono costrette. La condizione di inferiorità femminile, nel quadro del progresso moderno in cui è stata abolita la schiavitù, risulta essere un triste retaggìo del passato, duro a morire. Le donne devono farsi protagoniste della propria liberazione, che costituisce un progetto di maggiore felicità per loro e un arricchimento per tutta la società, la quale potrebbe avvalersi dell'intelligenza e delle doti tipiche del mondo femminile, stimolando, inoltre, lo spirito di competizione e quindi il desiderio di miglioramento degli esponenti del sesso maschile. È un vero peccato che ciò non avvenga e che l'umanità escluda un così determinante apporto. Ciò è particolarmente vero se si pensa che il carattere peculiare della modernità è proprio l'acquisizione del principio dell'autodeterminazione dell'individuo, secondo cui gli esseri umani non possono essere vincolati a una condizione esistenziale unica e prefissata. Tocqueville: la democrazia e i suoi pericoli Per quanto riguarda il tema della tirannide della maggioranza e del dispotismo dell'opinione pubblica, sulla base delle opere di Mill e di Tocqueville (autore quest'ultimo di un importante saggio su La democrazia in America) abbiamo osservato come esso costituisca un rischio concreto nei sistemi democratici moderni, in cui lo sviluppo dell'industria manifatturiera tende a innalzare (e omologare) il livello di aspirazione di tutte le classi sociali, l'istruzione, offrendo le stesse conoscenze e informazioni a tutti, contribuisce a creare una visione del mondo univoca e condivisa, la politica, attraverso il sistema democratico, dà l'illusione che tutti siano uguali. Quando la maggioranza non viene moderata con un contrappeso istituzionale e sociale che salvaguardi anche le minoranze, si instaura una nuova forma di dispotismo, meno evidente di quello antico, ma più strisciante e pervasivo, che non manca di frustrare gli uomini nella loro intelligenza e volontà.