FRANCESCO BARONE Neopositivismo ed epistemologia www.francescobarone.it A PROPOSITO DEL SAGGIO QUI PRESENTATO «Mi sono soffermato sugli sviluppi dell’epistemologia postneopositivistica in un saggio approntato per un’opera progettata dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (Il XX secolo), saggio di una cinquantina di pagine, di cui corressi anni fa le prime bozze. Rimando a quelle pagine (con relativa bibliografia) per più ampi sviluppi dei temi qui solo accennati, nella speranza che l’editore le pubblichi entro il terzo millennio, scusandomi sin da ora con i lettori per non aver potuto rivedere le seconde bozze. Cfr. anche, nel frattempo, il mio volume Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli 1990». F. Barone Padova, 12 settembre, 1994 www.francescobarone.it FRANCESCO BARONE Neopositivismo ed epistemologia www.francescobarone.it INDICE 1. Precisazioni terminologiche ......................... 1 2. Il Circolo di Vienna ...................................... 7 3. Dibattiti e divergenze nel Wiener Kreis ..... 18 4. Di là dal Wiener Kreis................................ 28 5. Il razionalismo critico di Popper ................ 36 6. Razionalismo critico e società .................... 49 7. L’ultimo trentennio .................................... 58 8. Sviluppi del falsificazionismo e filosofia della scoperta .............................................. 62 9. Un cambiamento di Gestalt nell’epistemologia ...................................... 71 10. Varianza delle strutture scientifiche e incommensurabilità delle teorie ................. 80 11. Lineamenti dell’epistemologia evoluzionistica............................................ 91 Francesco Barone, dalla rivista “Gente”, anno XXV n.46 del 13 novembre 1981 1. Precisazioni terminologiche L’epistemologia (o dottrina o filosofia della scienza) ha delle origini lontane, come riflessione sulla conoscenza rigorosa e di validità oggettiva (dal greco epistème = «conoscenza scientifica»): già gli Analitici secondi di Aristotele (384-322 a.C.) sono una vera e propria dottrina della ricerca scientifica. Ed anche il Discorso sul metodo è una trattazione epistemologica, incentrato com’è sulla convinzione di Cartesio (1596-1650) di poter determinare le «vie certissime della scienza», l’intuizione dei principii e la deduzione univoca di conseguenze da essi. Eppure la diffusione del termine epistemologia nel linguaggio filosofico è tipicamente novecentesca. In tutta la filosofia dell’Ottocento, un tema centrale era la «teoria della conoscenza» (Erkenntnislehre), sebbene sin dalla kantiana Critica della ragion pura, modello per tutta la posteriore gnoseologia, fossero proprio i modi della conoscenza scientifica ad essere presi in esame. L’abbandono del termine gnoseologia a favore di quello di epistemologia è dovuto, almeno in parte, all’affermarsi, nella prima metà del nostro secolo, di quella particolare riflessione sulla scienza che va sotto il nome di neopositivismo. Una delle figure più significative di esso, Rudolf Carnap (1891-1970), propose addirittura l’abolizione della Erkenntnislehre, in quanto essa è «un’oscura mescolanza di parti logiche e psicologiche» (Carnap 1936, p. 36), per passare alla denominazione di «logica della scienza» (Wissenschafts-logik), meglio indicante l’attenzione per il contesto giustificativo delle teorie scientifiche più che per quello della ‘scoperta’ di esse. È questo uno dei motivi per cui possono essere qui unite le trattazioni del neopositivismo e dell’epistemologia. Tale unificazione è tuttavia rafforzata anche da altre considerazioni. Le svolte radicali in molti campi della ricerca scientifica, che si ebbero tra Ottocento e Novecento (indagini sui fondamenti della matematica, teoria ristretta e generale della relatività, meccanica quantistica), misero in questione l’immagine che la scienza moderna aveva avuto di sé, come capacità di un progressivo accumulo di certezze, mediante l’uso garantito di quelle che già Galileo (1564-1642) aveva chiamato le «necessarie dimostrazioni» e le «sensate esperienze». Tali svolte richiedevano che la riflessione sulla scienza fosse particolarmente attenta alle 1 rivoluzionarie svolte contemporanee di questa. L’epistemologia in senso stretto si imponeva al posto della più generica gnoseologia. E fu proprio in questo senso che si sviluppò la riflessione dei neopositivisti, che in gran parte venivano da una formazione schiettamente scientifica. Essa è epistemologica nel senso specifico di nascere da un confronto diretto con la ricerca scientifica contemporanea. Quale che sia la validità di tale riflessione, è fuori dubbio che essa ebbe il merito di questo confronto diretto. Se la prima metà del nostro secolo, in campo epistemologico, è segnata soprattutto dal neopositivismo, l’epistemologia della seconda metà è ancora connessa ─ sia pure in senso polemico ─ con il neopositivismo. Mentre l’epistemologia di questo viene elaborata nel confronto diretto con la scienza contemporanea, l’epistemologia successiva nasce piuttosto dalla contrapposizione a quella neopositivistica. Così, se già nel 1967 si poteva dire (Passmore 1967, p. 56) che «il positivismo logico […] come dottrina di una setta si è disintegrato», non è possibile considerare l’epistemologia novecentesca successiva se non in controluce rispetto al neopositivismo. L’epistemologia del «razionalismo critico» popperiano, ad esempio, è così negativamente connessa con il neopositivismo, che il suo autore si vanta di averlo ucciso sin dal 1934 con la sua Logik der Forschung (Popper 1976; trad. it., pp. 69-70). Analogamente, l’epistemologia postpopperiana (la cosiddetta «nuova filosofia della scienza») sviluppa all’estremo certi temi antipositivistici di Karl Raimund Popper (n. 1902), sebbene uno dei suoi esponenti, Paul K. Feyerabend (n. 1924), si sia talvolta divertito a fingere di non sapere che cosa sia la filosofia di Popper, di cui pure è stato allievo (Feyerabend 1979; trad. it., pp. 3-4). Si tratta pur sempre di epistemologie che nascono da una polemica filosofica o da una polemica su una polemica. Data l’importanza diretta o indiretta del neopositivismo per l’epistemologia del Novecento, è ancora necessaria una precisazione terminologica circa il termine stesso di neopositivismo. E’ stato osservato (Haller 1986, p. 108) che nessuno dei membri di tale movimento si è etichettato come «neopositivista», designando piuttosto il movimento come «positivismo logico» o «empirismo logico» o «empirismo razionale». Il termine neopositivismo sarebbe allora qualcosa di introdotto dalla critica per suggerire un cliché interpretativo, che attribuisce unitariamente a tale movimento, ricco di figure assai diverse tra loro, alcune 2 teorie ben precise e determinate, che sono invece presenti solo in alcuni dei suoi rappresentanti e in particolari momenti del loro pensiero. Contro questa tesi, tuttavia, va ricordato che non furono solo gli avversari del neopositivismo ad usare tale denominazione, dal momento che, nel 1950, il ‘viennese’ Viktor Kraft (1880-1975), il quale sin dall’inizio aveva aderito al movimento, parlava a proposito di esso proprio di Neupositivismus. Quanto all’uso di espressioni come «positivismo logico» o «empirismo razionale» o «empirismo logico» o «neoempirismo», pur essendo state, almeno alcune di esse, usate dai membri fondatori o partecipanti del movimento, può anch’esso risultare ambiguo. Nella filosofia italiana, ad esempio, Alberto Pasquinelli (n. 1929), che pure fu allievo di Carnap a Chicago nei primi anni Cinquanta, intitolò Il neoempirismo la raccolta antologica in cui nel 1969 raccolse oltre a scritti dei neopositivisti anche scritti di autori come George Edward Moore (1873-1958) e di Popper di Willard Van Orman Quine (n. 1908), i quali, come si vedrà in seguito, sono fortemente critici verso fondamentali tesi neopositivistiche. Infatti, per «neoempirismo» Pasquinelli intende «un movimento di pensiero assai ampio, che congiuntamente al pragmatismo […] può venire considerato l’erede più significativo, nel mondo contemporaneo, della filosofia empiristica classicomoderna» (Pasquinelli 1969, p. 9; cfr. Barone 1978, pp. 24). D’altra parte, Paolo Filiasi Carcano (1911-1977), che fu tra i primi ad occuparsi in Italia di «neopositivismo», nello sviluppo del suo pensiero (cfr. Filiasi Carcano 1975) finì per indicare con tale termine una più generica filosofia del linguaggio, impegnantesi in una «battaglia per la chiarezza», comprendendo nell’estensione del termine stesso anche la filosofia analitica anglosassone oltre al neopositivismo in senso stretto. È proprio nell’intento di evitare tali genericità che Barone preferì per la sua opera del 1953 il titolo un pò ridondante di neopositivismo logico per una più determinata e precisa caratterizzazione del neopositivismo in senso stretto. Osservazioni analoghe possono essere fatte anche per la denominazione di «empirismo logico» fatta propria da Giulio Preti (1911-1972) nel suo scritto del 1954, Le tre fasi dell’empirismo logico, denominazione ripresa dal titolo dell’articolo di Feigl e Blumberg del 1931, che aveva 3 costituito la prima presentazione negli Stati Uniti dei temi caratteristici del neopositivismo. Anche Preti appartiene a quel gruppo di filosofi italiani che, nel dopoguerra, elaborarono la loro concezione personale attraverso un dialogo con il neopositivismo. Ma Preti, pur dichiarando di individuare l’empirismo logico come la dottrina «con il suo centro dottrinario» e la «sua problematica fondamentale» nel «principio di verificazione» (cfr. Preti 1954, p. 296), nella sua adesione ad esso vi innestò tali e tanti temi neocriticisti e fenomenologici, che la sua immagine dell’ «empirismo logico» è più interessante come prospettiva sua originale che quale fedele ricostruzione storica del neopositivismo. Tutto ciò risulta, ad esempio,assai chiaro dalle sue Lezioni di filosofia della scienza (1965-1966), pubblicate postume nel 1989. Si è così preferito talvolta designare tale movimento con un’etichetta meno teorica ma più legata alla sua collocazione storico-geografica, parlando di «Circolo di Vienna» (Wiener Kreis). Ma anche qui gli storici si sono presto accorti che si può addirittura parlare di due Circoli di Vienna, il primo situato all’inizio del secolo e il secondo (a cui parteciparono anche i membri del primo) attorno agli anni Venti (Haller 1986, pp. 111 segg.). In questa trattazione parleremo quindi, indifferentemente, di «Circolo di Vienna» o di «neopositivismo», nella convinzione che siano utilissime le ricerche storiografiche più recenti volte ad approfondire le personalità dei singoli partecipanti al movimento e la varietà di tendenze (ed anche di contrasti) al suo interno; ma anche convinti della possibilità di stabilire pure alcuni tratti generali del movimento: almeno secondo ciò che di esso fu recepito dai contemporanei nel periodo della piena vitalità del movimento stesso. Il peso culturale di un orientamento filosofico dipende anche dal modo della sua ricezione. E ciò vale in particolare per il neopositivismo, che è stato punto obbligato di riferimento per l’epistemologia posteriore. Ha quindi tuttora una sua validità l’immagine del neopositivismo tramandata da una ormai ampia bibliografia (Kaila 1930; Petzäll 1930; Feigl e Blumberg 1931; Weimberg 1936; Von Mises 1939; Geymonat 1945; Kraft 1950; Barone 1953 e 1978). Bibliografia 4 Barone, F., Il neopositivismo logico, Torino 1953, RomaBari 19863. Barone, F., (a cura di), Neopositivismo e filosofia analitica, in Grande antologia filosofica, vol. XXVII, Milano 1978, 19832, pp.1-449. Carnap,R.,Von der Erkenntnistheorie zur Wissenshafttlogik, in Actes du Congrès international de philosophie scientifique, Paris 1936, voI I pp. 36-41. Feigl GL, H., Blumberg, A.E., Logical positivism, «The journal of philosophy»,1931, XXVIII, pp. 281-296. Feyerabend, P., Über die Methode. Ein Dialog, in Radnitzky, G., Andersson, (a cura di),Voraussetzungen und Grenzen der Wissenschaft, Tübingen 1981, pp.175253 (trad. it. Dialogo sul metodo, Roma-Bari 1989). Filiasi Carcano, P., Antimetafisica e sperimentalismo, Roma 1941. Filiasi Carcano, P., La metodologia nel rinnovarsi del pensiero contemporaneo, Napoli 1957, 19702. Filiasi Carcano, Note sull’interpretazione del neopositivismo, «Cultura e scuola», XIV,1975, n. 56, pp.94-101. Sul pensiero di Filiasi Carcano e per la sua bibliografia, cfr.: Scienza, linguaggio e metafilosofia.Scritti in memoria di Paolo Filiasi Carcano, Napoli 1980. Geymonat, L., Studi per un nuovo razionalismo, Torino 1945. Haller, R., Wittgenstein était-il néopositiviste?, in Sebestik, J., Soulez, A. (a cura di), Le Cercle de Vienne. Doctrines et controverses, Paris 1986, pp. 103-118. Kaila, E., Der logistische Neupositivismus, Turku 1930 (trad.ingl. in Kaila, E., Reality and experience, DordrechtBoston 1979, pp. 1-58). Kraft V.,Der Wiener Kreis. Der Usprung des Neupositivismus, Wien 1950 (trad.it. Il Circolo di Vienna, Messina 1969). Mises, R. von, Kleines Lehrbuch des Positivismus, The Hague- Chicago 1939 (trad. it.Manuale di critica scientifica, Milano 1950). Pasquinelli, A., Nuovi principi di epistemologia, Milano 1964, 19746. Pasquinelli, A., Introduzione a Carnap, Roma-Bari 1972. Pasquinelli, A. (a cura di), Il neoempirismo, Torino 1969. 5 Passmore, J., Logical positivism, in Edwards,P. (a cura di), The Encyclopedia of philosophy, New York-London 1967, voI. V, pp. 52-56. Petzäll, A., Der logistische Neupositivismus, «Göteborgs Högskolas Ǻrsskrift», 1931, XXXVII, 3 pp. Popper,K.R., Uneded quest: an intellectual autobiography, London 1976 (trad.it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma 1976). Preti, G., Le tre fasi dell’empirismo logico, «Rivista critica di storia della filosofia», IX, 1954, 1, pp.38-51; rist. in Preti, G.,Saggifilosofici, vol.I : Empirismologico, epistemologia e logica, presentazione di M. Dal Pra, Firenze 1976, pp. 295-313 (da cui si cita). Preti, G., Saggi filosofici,voll.I e II, Firenze 1976. Preti, G., Lezioni di filosofia della sienza (1965-1966), a cura di F. Minazzi, Milano 1989. Sulla bibliografia di Preti e sul suo pensiero cfr.: Minazzi, F., Giulio Preti: bibliografia, Milano1984. AA.VV., Il pensiero di Giulio Preti nella cultura filosofica del Novecento, a cura di F. Minazzi, Milano 1990. Weinberg, J.R., An examination of logical positivism, London-New York 1936 (trad. it. Introduzione al positivismo logico, Torino 1950). Ulteriore bibliografia sulle questioni trattate qui e nei capitoli seguenti si trova in Barone F., Il neopositivismo logico, cit., in particolare nel voI. II dell’edizione del 1986. Per uno sguardo d’insieme sull’ epistemologia del Novecento si veda anche: Oldroyd, D., The arch of knowledge, New York- London 1986 (trad. it. Storia della filosofia della scienza, Milano 1989). L’opera di Oldroyd è equilibrata e ricca di un’ampia bibliografia, che ignora però gli studi italiani; non vi è nemmeno alcun cenno all’epistemologia evoluzionistica. 6 2. Il Circolo di Vienna Le origini del Circolo (o dei due Circoli) hanno le loro radici nella particolare tradizione filosofica dell’Impero austro-ungarico, nettamente diversa, nonostante la comunanza di lingua, dalla tradizione germanica. La filosofia austriaca (che ha nell’Ottocento i suoi centri soprattutto a Vienna ed a Praga) è chiusa di fronte al kantismo (Neurath 1935; Sebestik 1986), aperta invece a Leibniz (1646-1716) e alla sua valorizzazione della logica, soprattutto attraverso l’opera di Bernard Bolzano (17811848) e all’analisi delle strutture linguistiche sostenuta da Franz Brentano (1838-1917), fondatore a Vienna di una fiorente scuola dal 1874 al 1895. E proprio nel 1895 fu istituita a Vienna una cattedra di filosofia delle scienze induttive, alla quale venne chiamato Ernst Mach (1838-1916), già famoso come fisico, storico e metodologo della scienza (del 1883 è La meccanica esposta nel suo sviluppo storico-critico), ma anche noto come sostenitore dell’empiriocriticismo, cioè, per dirla con Otto Neurath (1882- 1945), di una «battaglia contro la metafisica della cosa in sé e del concetto di sostanza, [con] le sue indagini sulla formazione dei concetti scientifici a partire dai dati sensibili quali fattori elementari» (Hahn, Neurath, Carnap 1929; trad. it., p. 64). Anche Hans Hahn (18791934) guarda a Mach come al prosecutore della tradizione empiristica inglese per l’eliminazione delle «entità superflue» e quale sostenitore di un orientamento ‘mondano’ del pensiero, volto solo ad ammettere ciò che fa parte delle nostre esperienze vissute (Hahn 1929; trad. fr., p. 214). Analogamente, Philipp Frank (1884-1966) si ispira a Mach nell’affermare che «non è necessario presumere l’esistenza, accanto all’albero fruttifero della scienza, di una regione sterile, terra dei problemi eternamente insolubili» (Frank 1949; trad. it., p. 138). «Non ci sono confini tra la scienza e la filosofia, qualora i compiti della fisica si formulino secondo le dottrine di Ernst Mach, usando le parole di Carnap: ‘ordinare sistematicamente le percezioni, e dalle percezioni attuali trarre conclusioni intorno alle percezioni da attendersi’». Queste valutazioni del pensiero di Mach date da Hahn, Neurath e Frank hanno un particolare rilievo. Non solo perché testimoniano l’attenzione per Mach dei giovani che a Vienna si affacciavano all’attività scientifica all’inizio del 7 secolo (tutti e tre erano viennesi ed a Vienna avevano studiato); ma perché Hahn, Neurat e Frank furono appunto i membri del cosiddetto ‘primo’ Circolo di Vienna; ossia i partecipanti a quelle riunioni nei caffè viennesi, in cui, dal 1907 discutevano delle nuove problematiche scientifiche e dei problemi più generali che esse sollevavano. L’impronta machiana è fortissima su questi giovani. Forse non di tutto Mach, poiché è assai scarsa l’attenzione che essi prestano alle tesi machiane che fanno del processo conoscitivo un momento del processo naturale e biologico dell’evoluzione (tesi particolarmente evidenti in Erkenntnis und Irrtum del 1905); ma soprattutto del Mach che appare loro campione dello spirito illuministico e della ricerca positiva e antimetafisica. Vi era certo diversità di interessi e anche di prospettive tra il matematico Hahn, il fisico Frank e l’economista e storico dell’economia Neurath, molto sensibile agli aspetti ‘scientifici’ del marxismo. Ma li accomunava la loro interpretazione di Mach in senso illuministico, antimetafisico sino alla negazione di un’autonomia della filosofia rispetto alla ricerca scientifica. Sono già alcuni tratti che caratterizzeranno poi il neopositivismo, così come fu visto dai contemporanei. Nelle loro discussioni al caffè, ovviamente, quei giovani viennesi si aprivano anche alle suggestioni che, a proposito della scienza, venivano da altri Paesi: in particolare alle ricerche sui fondamenti della matematica e sulla logica ad opera dell’inglese Bertrand Russell (1872-1970) e alle riflessioni epistemologiche dei francesi Henri Poincaré (1854-1912) e Pierre Duhem (1861-1916), che evidenziavano l’importanza della convenzione nel determinare la validità delle argomentazioni. In effetti, il fenomenismo machiano si spingeva sino a ridurre teorie e concetti matematici a semplici strumenti di organizzazione delle sensazioni. Mentre i giovani viennesi approvavano «senza riserve l’indirizzo antimetafisico di Mach» e accettavano «volentieri come punto di partenza il suo empirismo radicale», non per questo erano «disposti a misconoscere la funzione primaria della matematica e della logica entro la struttura della scienza»: proprio quella funzione che, per loro, Mach «aveva trascurato» (Frank 1949; trad. it., p. 21). Descrivendo la maturazione delle sue idee durante la Prima Guerra Mondiale, Frank dice d’essersi persuaso che «la soluzione doveva ricercarsi partendo dalle idee di uomini come Mach e Poincaré». Il 8 tentativo di integrare l’interpretazione machiana dei principî scientifici, come descrizioni economiche abbreviate di fatti osservati, e l’interpretazione che Poincaré dava di essi «come libere creazioni della mente umana, che non dicono nulla intorno ai fatti osservati», fu «l’origine di ciò che più tardi venne definito empirismo logico» (Frank 1949; trad. it., p. 26). Il matematico Hahn, invece, cercava di ovviare alle debolezze machiane nel proprio campo guardando alla fondazione logistica della matematica operata da Bertrand Russell, soprattutto con i Principia mathematica, pubblicati tra il 1910 e il 1913 in collaborazione con Alfred North Whitehead (1861-l947): e nel suo insegnamento a Vienna egli tenne corsi di logica matematica a partire dal 1921. In questi sviluppi del primo Wiener Kreis si vengono così già delineando tratti salienti del ‘secondo’; a quest’ultimo, che si era costituito alla fine degli anni Venti e di cui Hahn, Frank e Neurath furono tra gli autorevoli fondatori, d’ora in avanti, più propriamente, ci riferiremo con la denominazione di Wiener Kreis. E, se consideriamo il programma delineato da Rudolf Carnap neI 1928 per La costruzione logica del mondo, l’opera che già indica l’orientamento del Wiener Kreis poco prima della sua nascita ufficiale (1929), vediamo una continuità con i suddetti sviluppi. «Il precedente empirismo sottolineava con ragione la prestazione dei sensi, ma non riconosceva l’importanza e la peculiarità delle formazioni logicomatematiche. Il razionalismo conosceva certamente questa importanza, ma credeva che la ragione fosse in grado non solo di dare la forma, ma anche di creare, traendolo da sé stessa (a priori), un contenuto nuovo». Attraverso l’influsso di Gottlob Frege (1848-1925) e di Russell, dice Carnap, «mi era divenuta chiara, da un lato, l’importanza fondamentale della matematica per la costruzione del sistema della conoscenza, ma, dall’altro, anche il carattere puramente logico, formale, della matematica, sul quale si basa l’indipendenza di questa scienza dalle accidentalità del mondo reale. Queste prospettive si posero alla base del mio libro» (Carnap 1928; trad. it., p. 72). Eppure, nel decennio successivo alla guerra, era pur capitato qualcosa, che va tenuto presente per capire come dall’orientamento generico dei giovani viennesi si sia passati all’effettivo Wiener Kreis. E questo qualcosa consta di due momenti: l’uno di carattere istituzionaleuniversitario, l’altro, più schiettamente teorico, legato alla 9 comparsa nel 1921 (e all’edizione con traduzione inglese a fronte del 1922) del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Joseph Wittgenstein (1889-1951). Ritrovatisi a lavorare a Vienna dopo la guerra, Hahn, Neurath e Frank — succeduto nel 1912 ad Albert Einstein (1879-1955) sulla cattedra di fisica teorica a Praga — si resero conto che il loro programma illuministico e antimetafisico aveva bisogno della collaborazione di un filosofo. Così Hahn sollecitò la chiamata, nel 1922, alla cattedra che era stata di Mach, del berlinese Moritz Schlick (1882-1936), che si era laureato con Max Planck (18581947) e che era ormai noto per i suoi studi sulla rilevanza filosofica della teoria einsteiniana della relatività e per una Teoria generale della conoscenza uscita nel 1918, in cui i temi empiristici e realistici erano usati in funzione critica del kantismo, in polemica con i neokantiani della Scuola di Marburg, soprattutto Ernst Cassirer (1874-1945). Fu paradossalmente proprio questa chiamata di un tedesco a far maturare le condizioni di fatto per la nascita del Wiener Kreis, arricchendo anche la tradizionale problematica viennese con il tema, tipicamente germanico, del confronto con Immanuel Kant (1724-1804), per mostrare come l’apriorismo kantiano sia inficiato dagli sviluppi contemporanei della fisica e della matematica. Attorno a Schlick, che ogni giovedì sera ospitava colleghi, assistenti e simpatizzanti, si andò così formando un gruppo di studiosi: dapprima i suoi collaboratori Friedrich Waismann (1896-1959) e Herbert Feigl (n. 1902) e poi, via via, i ‘vecchi’ viennesi Hahn, Neurat e Frank, assieme ad altri docenti dell’Università, come Kurt Reidemeister, Felix Kaufmann (1895- 1949), Victor Kraft, Karl Menger (n. 1902). DaI 1926, fatto chiamare a Vienna da Schlick come istruttore di filosofia, si aggiunse come figura di spicco Rudolf Carnap. Significativa della continuità con il passato è la costituzione, nel 1928, e sotto la presidenza di Schlick, della «Associazione (Verein) Ernst Mach» con l’intento di favorire e diffondere una «concezione scientifica del mondo». E fu a cura di tale Verein che l’anno successivo venne pubblicato il ‘manifesto’ del Circolo: Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis. Questo libretto, firmato da Hahn, Neurath e Carnap, fu steso per la prima volta da Neurath, ma poi rivisto da Carnap e Feigl (sintomo, ciò, della non perfetta unità d’intenti all’interno del Circolo, come apparirà di lì a poco) e venne offerto a Schlick, al suo 10 ritorno da Stanford, ove era stato visiting professor, come segno di riconoscenza per non aver accettato una chiamata all’Università di Bonn. Il Wiener Kreis si mette subito all’opera. Già nel settembre del 1929 partecipa, in posizione autonoma, alla riunione dei matematici e dei fisici tedeschi a Praga. E qui i suoi membri si incontrano con quelli della «Società per la filosofia empirica» di Berlino, tra cui Hans Reichenbach (1891-1953), Kurt Grelling, Walter Dubislav, Wolfang Köhler (1887-1967), Carl Gustav Hempel (n. 1905). Anche essi miravano a una «concezione scientifica del mondo», che tenesse conto, come dirà Reichenbach, della «disgregazione dell’a priori» (Reichenbach 1936, p. 28) ad opera della nuova fisica e della fondazione empirica della scienza sul modello dell’empirio-criticismo di Richard Avenarius (1843-1896) e di Mach, la cui tradizione era stata tenuta viva in Germania da Joseph Petzold (18621929), fondatore della «Gesellschaft für positivistische Philosophie», da cui derivò la Società per la fìlosofia empirica, e direttore sino alla morte degli «Annalen der Philosophie». La scomparsa di Petzold fece si che il gruppo viennese e quello berlinese testimoniassero l’unità di intenti con la trasformazione degli «Annalen» in una nuova rivista, «Erkenntnis. Zugleich Annalen der Philosophie», diretta da Carnap e da Reichenbach. Così il neopositivismo aveva anche il suo organo ufficiale: la rivista uscì a Lipsia sino al primo fascicolo del volume VII, poi all’Aja (fascicoli 2-6 del volume VII, 1938-1939) e, con il nuovo titolo «The journal of unified science. (Erkenntnis)», volume VIII, 1940, diretta da un comitato di cui facevano parte, oltre a Frank e Neurath, anche il danese Joergen Joergensen (18941969), l’americano Charles Morris (1901-1979), il francese Louis Rougier (1889-1981) e l’inglese Lizzie Susan Stebbing (1885-1943). Era così testimoniata la diffusione internazionale raggiunta dal neopositivismo, cominciata nel 1930 a Oxford in occasione del VII Congresso internazionale di filosofia, ove Schlick aveva presentato la relazione The future of philosophy. Nel 1975, con il volume IX, presso l’editore Reidel di Dordrecht fu ripresa l’edizione della rivista (con la direzione di Hempel, Wolfang Stegmüller e Wilhelm Essler): ma il nuovo titolo — «Erkenntnis. An international journal of analytic philosophy» — già di per sé mostra che il neopositivismo è ormai finito come movimento. È significativo di ciò anche 11 il fatto che, dopo la guerra, non furono più riprese le due collane («Schriften zur wissenschaftliche Weltauffassung», diretta da Frank e Schlick, e «Einheitswissenschaft», diretta da Hahn, Carnap, Frank e Neurath) pubblicate a Vienna negli anni Trenta e che di fatto esponevano tesi e discussioni del Wiener Kreis e su di esso. Se questi sono gli eventi che trasformarono, con continue accessioni, il gruppo dei giovani viennesi d’inizio secolo nel Wiener Kreis e, attraverso l’adesione del gruppo dei berlinesi, nel movimento neopositivistico, vanno ancora chiariti gli elementi teorici che contribuirono alla fisionomia del movimento. Come già si è detto, questi sono dovuti alla comparsa del Tractatus logico-philosophicus del Wittgenstein. Nel manifesto Wissenschaftliche Weltauffassung del 1929, infatti, Wittgenstein è ricordato con Einstein e Russell come un sostenitore della concezione scientifica del mondo che ha esercitato «il maggior influsso sul Circolo di Vienna». In realtà, per tutti e tre questi personaggi è discutibile la paternità a loro attribuita dal Wiener Kreis. Einstein fu certo con la sua teoria della relatività (al cui significato filosofico oltre che fisico avevano dedicato studi importanti tanto Schlick che Reichenbach) tra coloro che piu fecero sentire l’ esigenza di una rinnovata epistemologia. Ma con il suo rifiuto dell’interpretazione empiristico-positivistica della meccanica quantistica si allontanò poi dall’empirismo radicale che fu proprio del Wiener Kreis, per cui invece simpatizzò, ad esempio, il fisico Werner Karl Heisenberg (1901-1976). Anche Russell, che con la sua opera di logico diede un contributo di fondo alla concezione scientifica del mondo ─ che in qualche modo auspicava quando diceva che la filosofia «mira soltanto a chiarire i concetti fondamentali delle scienze» (Russell 1928; trad. it., p. 66) ─ divenne poi in realtà assai polemico contro il neopositivsmo, i cui sviluppi sempre più formali gli parvero «celare i problemi invece di aiutare a risolverli» (Russell 1950; trad. it. p. 351). Ma fu senza dubbio Wittgenstein colui che venne adottato più arbitrariamente dal Wiener Kreis. Non solo perché nella seconda fase del suo pensiero, elaborata negli anni Trenta e testimoniata dalle Philosophische Untersuchungen (1953), egli pervenne ad una concezione del linguaggio e della sua significanza opposta a quella neopositivistica e tale da servire da spunto ad alcune forme dell’epistemologia anti-neopositivistica; ma già perché le 12 ultime proposizioni del Tractatus (trascurate dai neopositivisti) non miravano affatto ad una concezione scientifica del mondo («noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati»), (Wittgenstein 1922, 6.52). E nelle rare partecipazioni agli incontri a casa Schlick stupiva talvolta gli interlocutori recitando loro poesie di Rabindranath Tagore (1861-1941) anziché discutere di epistemologia (Waismann 1967; trad. it., pp. 4-5). Eppure, nonostante i fraintendimenti, più o meno voluti, del Tractatus, questo funzionò davvero come il catalizzatore che favorì l’incontro tra la tendenza empiristica machiana e la tendenza logica russelliana nella cosiddetta wissenschaftliche Weltauffassung: ed è da tale incontro che nacque il Wiener Kreis. È la lettura fatta a Vienna del Tractatus (nel 1922 Hahn gli dedicò un corso), che permise il rafforzamento di quella concezione scientifica del mondo già esemplificata in qualche modo dal Russell in Our knowledge of the external world (1914) e in Philosophy of logical atomism (1918), ma in cui la riduzione dell’apparato concettuale della scienza e della conoscenza a un insieme di costruzioni logiche sui dati di senso, era ancora impedita da una persistente metafisica ‘realistica’, in Russell, a proposito della natura degli enti logici e matematici. Realismo assai accentuato nei Principles of mathematics, in cui li si concepiva come un mondo di universali sussistenti indipendentemente dai fatti sensibili; ma mai del tutto abbandonato nemmeno a seguito delle critiche del Wittgenstein, di cui pure Russell tenne conto nella seconda edizione dei Principia mathematica. Una rinuncia a tale realismo degli universali è invece al centro del Tractatus, il cui tema principale, su cui si affisarono i neopositivisti, è l’indagine sul linguaggio e sulla sua capacità rappresentativa del mondo. Le lingue storiche ostacolano la visione della struttura logica che rende significante il linguaggio. Esso è tale perché, nella sua forma ideale, è immagine del mondo: la configurazione dei segni semplici (o nomi) nell’enunciato (o proposizione) corrisponde alla configurazione degli oggetti nei fatti reali. Così il significato di un enunciato è la sua capacità di raffigurare fatti possibili. E affinché il linguaggio della conoscenza e della scienza abbia la possibilità di dare un’immagine del mondo è indispensabile che vi siano 13 enunciati semplici (o atomici) raffiguranti fatti semplici. Quindi l’intero linguaggio significante poggia sulla base degli enunciati atomici, poiché le proposizioni non elementari sono soltanto connessioni di enunciati atomici mediante le costanti logiche: sono «funzioni di verità» di questi, poiché la loro verità o falsità dipende dalla verità o falsità degli enunciati atomici. Per il suo contenuto fattuale, la scienza è dunque l’insieme degli enunciati atomici e delle proposizioni molecolari. Gli enunciati logici e matematici, fondamentali per la conoscenza scientifica, non hanno invece significato fattuale: sono sinnlos, ossia sono analitici (o tautologici), poiché si tratta di mere trasformazioni di segni linguistici, e la loro validità dipende soltanto dalla forma intrinseca dei segni stessi. La validità universale della matematica non presuppone così qualcosa di metafisico: dipende solo dalla sua natura linguistica. Al di fuori delle proposizioni significanti fattualmente e delle tautologie ed equazioni non ci sono altre asserzioni gnoseologicamente significanti, ma solo connessioni insensate (unsinnig) di parole: tali sono per lo più le asserzioni filosofiche tradizionali. La filosofia, per Wittgenstein, non è conoscenza, ma attività di elucidazione delle strutture del linguaggio significante. Così anche le asserzioni del Tractatus sono unsinnig, poiché non dicono la struttura del linguaggio significante ma la mostrano, in quanto per ‘dirla’ bisognerebbe uscire dal linguaggio. Il Tractatus si chiude con una nota mistica: «Sopra ciò di cui non si può parlare bisogna tacere» (Wittgenstein 1922, prop. 7). Le tonalità mistiche furono trascurate dai neopositivisti, che si lasciarono sfuggire anche il fatto che per Wittgenstein fosse più importante ciò che non si può dire di ciò che si può dire, ossia il valore a cui la scienza non guarda. E, nella loro tradizione machiana, interpretarono gli enigmatici ‘oggetti’ e ‘fatti’, di cui parla il Tractatus, come percezioni o situazioni percettive. Così lo Schlick, che già nella Teoria generale della conoscenza, aveva distinto tra l’Erleben e l’Erkennen, tra l’esperienza vissuta immediata (Erlebnis) e la conoscenza (Erkenntnis), perché quest’ultima, di valore intersoggettivo, sorge soltanto quando agli Erlebnisse si coordinino le strutture simboliche delle scienze deduttive, ricava dal Tractatus lo spunto per una rielaborazione della sua gnoseologia in chiave di analisi del linguaggio. Nei saggi composti tra il 1926 e il 1936 (l’anno della morte) discusse in questa 14 prospettiva importanti questioni di metodologia scientifica (interpretazione della causalità come possibilità di predizione di eventi; critica delle interpretazioni spiritualistiche della meccanica quantistica, ecc.), ma soprattutto, attraverso il celebre «criterio empirico di significanza» («il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica» [Schlick 1938; trad. it., p. 340]), si soffermò sulla critica delle proposizioni metafisiche e filosofiche tradizionali, che, in base al suddetto criterio, o sono riportabili a proposizioni scientifiche o sono prive di senso. Di quest’ultimo tipo, ad esempio, sono le asserzioni contrapposte di realisti e idealisti circa la trascendenza o meno del mondo rispetto alla conoscenza di esso. Fu soprattutto nella veste critica della filosofia tradizionale che i contemporanei videro le dottrine del Wiener Kreis. Anche perché in tale direzione insistettero alcuni scritti del Carnap, che nel 1931 divenne professore di filosofia naturale all’Università tedesca di Praga. Il già ricordato Der logische Aufbau der Welt vuole ricostruire l’intero campo dei concetti conoscitivi «costituendoli» in ordine graduale come classi di proprietà e relazioni il cui significato è garantito dall’esperienza immediata personale. Ed è significativo che sempre nel 1928 egli pubblicasse gli Scheinprobleme in der Philosophie, il cui tema è ripreso nel noto articolo Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache del 1931, critico nei confronti di Essere e tempo di Martin Heidegger (1889-1976). Superare la metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio vuol dire individuare i modi con cui si costruiscono gli pseudoenunciati della metafisica: o usando parole senza significato empirico, o connettendo parole che singolarmente lo hanno ma sono connesse senza rispettare il criterio empirico di significanza. Per Carnap le frasi dei filosofi esprimono stati d’animo emotivi. I metafisici sono «musicisti senza capacità musicale» (Carnap 1931; trad. it., p. 531). Così cadono altri rami dell’albero tradizionale della filosofia: non solo non sono possibili asserzioni filosofiche di portata conoscitiva di là da quelle della scienza; ma è anche escluso che la filosofia possa trovare spazio nei «giudizi di valore». Bibliografia 15 Carnap, R., Der logische Aufbau der Welt, Berlin 1928, Hamburg 19612 (trad. it. La costruzione logica del mondo, Milano 1966; comprende anche la trad. degli Pseudoproblemi della filosofia, la cui ed. orig. è del 1928). Carnap, R., Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, 1931 (trad. it. Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica dei linguaggio, in Pasquinelli, A. (a cura di), Il neoempirismo, Torino 1969, pp. 504-532). Frank, P., Modern science and its philosophy, Cambridge, Mass., 1949 (trad. it. La scienza moderna e la sua filosofia, Bologna 1973). Hahn, H.,Überflüssige Wesenheiten (Occams Rasiermesser), Wien 1929 (trad. fr. in Soulez, S., (a cura di), Manifeste du Cercle de Vienne et autres écrits, Paris 1985, pp. 199-217). Hahn, H., Neurath, O., Carnap, R., Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929 (trad. it. La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Roma- Bari 1979). Mach, E., Erkenntnis und Irrtum, Leipzig 1905 (trad. it. Conoscenza ed errore. Torino 1982). Neurath, O., Le développement du Cercle de Vienne, et l’avenir de l’empirisme logique, Paris 1935 (trad. it. Il Circolo di Vienna e l’avvenire dell’empirismo logico. 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Sui rapporti tra Mach, il «primo» e il «secondo» Circolo di Vienna, cfr.: Barone, F., Ernst Mach e il neopositivismo logico, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1990, VIII, 1, pp. 73-83. 17 3. Dibattiti e divergenze nel Wiener Kreis Il tema unitario del neopositivismo è soprattutto in questa direzione polemica. Ma nemmeno due anni dopo la costituzione del Wiener Kreis venivano in luce le molteplici componenti, talvolta addirittura in contrasto, che si celavano sotto l’unitaria facciata polemica. Così ci sono in esso aspetti di dissoluzione teorica già prima che le vicende storiche esterne portassero alla sua dispersione di fatto. La morte colpì Hahn nel 1934; Schlick fu assassinato davanti all’Università da uno studente, poi liberato dal carcere dopo l‘Anschluss nazista. I primi ad essere colpiti dall’avvento del nazismo in Germania furono i ‘berlinesi’. Reichenbach lasciò la Gernania nel 1933 e, dopo aver insegnato a Istanbul, si trasferì negli U.S.A. nel 1938, ove già nel 1937 era giunto lo Hempel, dopo un triennio passato a Bruxelles; e Dubislav, trasferitosi a Praga vi morì nel 1937, mentre di Grelling, deportato dai nazisti, non si ebbero più notizie dopo il 1943. E ben presto cominciò anche la diaspora dei viennesi. Feigl vive tuttora negli U.S.A., dove era emigrato nel 1930; Carnap, trasferitosi a Praga nel 1931, emigrò anche lui neI 1935 oltre oceano, divenendo professore prima a Chicago e poi all’Università della California. Caduto il governo socialista in Austria, Neurath si era trasferito nel 1934 in Olanda e, nel 1940, in Inghilterra, ove già nel 1937 era giunto Waismann. Menger nel 1937 e Frank neI 1938 emigrarono invece negli Stati Uniti. Sicché, quando nel 1938 vi fu l’annessione nazista dell’Austria alla Germania, dei membri più noti del Wiener Kreis restava a Vienna solo il Kraft. Nei pochi anni di attività, il Circolo era stato tuttavia frequentato da stranieri che, tornati in patria, contribuirono a diffondere i temi neopositivistici. Così l’inglese Alfred Jules Ayer (1910-1989) fu a Vienna per qualche mese nel 1932 e nel 1936 pubblicò Language, truth and logic, un breviario del neopositivismo, divenuto a Oxford quasi ‘bibbia filosofica’. Qualcosa di analogo per i paesi scandinavi è dovuto al finlandese Eino Kaila (1890-1958), che frequentò le riunioni del Circolo dal 1929 al 1934, e sin dal 1930, con il saggio già citato (Der logistiche Neupositivismus), diede la prima trattazione del neopositivismo; ed allo svedese Ake Petzäll (1901-1957), presente nei semestri estivi del 1930 e del 1931 a Vienna, anche lui autore di un già citato studio d’insieme sul 18 neopositivismo. Anche Ludovico Geymonat (n. 1908), che con La nuova filosofia della scienza in Germania (1934) e i citati Studi per un nuovo razionalismo (1945) ebbe il maggior merito per la conoscenza del neopositivismo in Italia, frequentò Schlick a Vienna nel l934 (per Geymonat cfr. anche il paragrafo10). Pure alcuni giovani polacchi, come i coniugi Lindenbaum, vittime delle persecuzioni razziali, ma soprattutto Alfred Tarski (1901-1983), furono in contatto con membri del Wiener Kreis e fecero conoscere nel loro Paese le tesi neopositivistiche, anche non condividendole. Ma in particolare Tarski, con le sue concezioni logiche, diede spunti a Carnap per gli sviluppi americani del neopositivismo; ed anche a Popper per la sua polemica antineopositivistica. Nei pochi anni di attività il Circolo ebbe del resto la possibilità di diffondere le tesi neopositivistiche comuni attraverso la politica culturale, di cui soprattutto Neurath fu maestro. E ciò sia nei congressi internazionali di filosofia, sia nei congressi internazionali di filosofia scientifica, inaugurati da quello di Parigi del 1935, e che si tennero annualmente sino al quinto, apertosi a Cambridge nel Massachusetts due giorni dopo che la Germania aveva invaso la Polonia il 1°settembre 1939. L’impresa di maggior rilievo promossa dal Neurath fu tuttavia il progetto di una International encyclopedia of unified science (Morris 1960), di cui si cominciò a parlare al congresso di Parigi del 1935 progetto che procedette con molte difficoltà, che dovette ridurre le colossali dimensioni previste, e di cui il primo fascicolo uscì a Chicago nel 1938. Direttore dell’opera era Neurath, coadiuvato da Carnap e Charles Morris, un pragmatista americano, che aveva frequentato il Circolo di Vienna e che molto fece per la diffusione e il rinnovamento del neopositivismo negli U.S.A. (Morris 1937). Dell’Encyclopedia uscirono in tutto venti monografie (quelle sulle Foundations), raccolte poi in due volumi: e quasi a segnare la dispersione del neopositivismo è significativo che il saggio di Thomas Samuel Kuhn (n. 1922) su La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che fu l’ultimo a uscire nel 1962, sia in effetti considerato come un testo fondamentale della «nuova filosofia della scienza». Più interessanti delle contingenti vicende storiche sono tuttavia per i filosofi le vicende teoriche del Wiener Kreis, le quali mostrano la non sempre armonica coesistenza di prospettive di là dai temi della wissenschaftliche Weltauffassung e della critica antifilosofica. 19 Ciò vale già per l’atteggiamento assunto dai neopositivisti di fronte alla tradizionale distinzione tra scienze della natura e scienze dell’uomo. Mentre Neurath, che ha una particolare attenzione alla sociologia (Neurath 1931 e 1944), ritiene entrambi i campi come momenti della scienza unificata, con gli stessi criteri di significanza per le loro asserzioni, Schlick pur facendo dell’etica una scienza di fatti sul modello dell’empirismo classico, l’incentra sul valore dell’utilità sociale che meglio realizza, per lui, il senso gioioso della vita e le manifestazioni più alte della personalità (Schlick 1930). Molto lontano da tutto ciò è invece Carnap, che fa dei giudizi di valore mere espressioni di emozioni e rende impossibile così ogni argomentazione morale. Su questa linea si muove anche lo Ayer (Ayer 1936) e, fuori del neopositivismo, l’americano Charles Leslie Stevenson (1908-1979) in Ethics and language del 1944. Assai più rilevanti, per la prospettiva epistemologica, sono tuttavia le divergenze nell’ambito del neopositivismo a proposito delle inferenze induttive, della giustificazione dell’induzione e dell’interpretazione del concetto di probabilità, in quanto le inferenze induttive possono essere solo probabili, senza mai raggiungere la certezza delle deduzioni. Poiché la polemica anti-neopositivista di Popper giungerà a negare che esista un problema dell’ induzione, mentre invece nella prospettiva empiristica del neopositivismo l’induzione dai dati sensibili è indispensabile per pervenire alle asserzioni universali delle leggi scientifiche, merita delineare le posizioni principali sostenute in proposito dai membri del Wiener Kreis e dai simpatizzanti. All’interno del Wiener Kreis prevale la cosiddetta concezione logica della probabilità, rapidamente prospettata dal Wittgenstein nel Tractatus, e sviluppata da Waismann (Waismann 1930-1931). Waismann ritiene che il calcolo delle probabilità sia una teoria empirica nel senso che la frequenza relativa (per esempio, il numero delle volte che compare la faccia di un dado in un gran numero di lanci) viene stabilita per via empirica. Ma quando noi parliamo della probabilità di poter asserire una proposizione sulla base di un’altra o di altre, noi ci riferiamo soltanto a dei rapporti puramente logici stabiliti dalla forma stessa delle proposizioni. E a questa concezione logica che si rifarà Carnap, dopo il suo passaggio in America, nelle Logical foundations of probability, ove la probabilità è vista come 20 grado di conferma di un’ipotesi sulla base di premesse empiriche. La logica induttiva, di cui egli vuole costruire il sistema o i sistemi, è quindi analitica come quella deduttiva. Ovviamente il calcolo delle probabilità non può dirci se la relazione analitica di probabilità tra asserzioni varrà anche per il futuro: ma è proprio su ciò, sin dai tempi di David Hume (1711-1776), che verte la questione della «giustificazione dell’induzione». Così, alla fine degli anni Sessanta, Carnap, che pure aveva da empirista coerente sempre rifiutato l’ammissione della postulazione tradizionale di una «uniformità del mondo», finisce con l’ammettere una «intuizione induttiva» nella scelta degli assiomi dei sistemi di logica induttiva, intuizione che ci guida nello scegliere ciò che è induttivamente valido (Carnap 1968, p. 265). Quell’a priori contro cui il neopositivismo si era scagliato in nome della scienza contemporanea viene così in qualche modo reintrodotto: segno palese del venire meno all’interno dello stesso neopositivismo di uno dei suoi tipici cavalli di battaglia. La battaglia neopositivistica contro l’apriorismo nel campo dell’induzione ebbe tuttavia anche altre forme oltre quella della concezione logica della probabilità. Il berlinese Reichenbach si soffermò assai presto sulla mancanza nel Wiener Kreis di una teoria completa circa le proposizioni sul futuro. A questo egli intese ovviare con una serie di articoli, nelle prime annate di «Erkenntnis», sulla causalità e la probabilità e sui fondamenti logici del concetto di probabilità, in preparazione della Wahrscheinlichkeitslehre del 1935. Anche in Experience and prediction del 1938, egli, pur dichiarandosi fautore della wissenscaftliche Weltauffassung, precisa la sua differenziazione dal Circolo viennese. Sia perché insiste soprattutto, in nome dell’empirismo, sulla probabilità come frequenza relativa; sia perché dà una giustificazione pragmatica dell’inferimento induttivo a cui la ricerca scientifica di fatto non rinuncia. Si tratta di non cadere nello scetticismo, né di ammettere metafisicamente l’uniformità della natura. La nostra situazione è come quella di un uomo che «vuol pescare in una zona di mare non ancora esplorata. Non c’è nessuno a dirgli se li c’è del pesce oppure no [...] Bene, se vuol pescare in quella zona, io gli direi di gettare le reti, almeno di correre il rischio. E preferibile tentare anche in condizioni di incertezza, piuttosto che non tentare affatto ed essere certi di non prendere nulla» (Reichenbach 1938, pp. 362-363). 21 Tale giustificazione pragmatica, che fu sostenuta anche da Feigl (Feigl 1979), pone tuttavia in questione la rigida limitazione neopositivistica delle asserzioni conoscitivamente ammissibili alle proposizioni sintetiche a posteriori ed alle tautologie, poiché la postulazione che è meglio tentare che non tentare non rientra né nelle une né nelle altre. Qualcosa di analogo accadeva, del resto, quando Schlick cercava di definire le leggi di natura, ritenute extrapolazioni da osservazioni singole, come «prescrizioni e regole di comportamento» per il ricercatore (Schlick 1931; trad. it., p. 68). E a ben vedere, era lo stesso «criterio empirico di significanza», che non rientrava né tra le proposizioni empiriche né tra le tautologie, a risultare, in base a sé stesso, insignificante, dal momento che i neopositivisti evitavano gli esiti mistici del Tractatus del Wittgenstein. Se tutte queste questioni rimanevano aperte nella prospettiva neopositivistica e diverranno argomento di riflessione e di polemica nell’epistemologia posteriore, la ‘crisi’ più drammatica del Wiener Kreis fu quella che si ebbe a proposito del ‘fisicalismo’ e della ‘polemica sui protocolli’. La wissenschaftliche Weltauffassung aveva sì ridotto le strutture matematiche della scienza a trasformazioni di simboli, ma per il contenuto della scienza faceva appello a qualcosa di extralinguistico, le esperienze vissute (gli Erlebnisse). E ciò agli scientisti più rigidi pareva far risorgere la metafisica dell’inesprimibile. D’altra parte, rinunciare all’appello al dato sensibile sminuiva la forza polemica del neopositivismo contro la filosofia tradizionale. Per questo Schlick difese sempre la posizione originaria del Wiener Kreis contro quei membri che volevano chiudersi all’interno degli enunciati linguistici della scienza, dimenticando che «la scienza non è il mondo» (Schlick 1935, p. 69). Ma all’interno del Circolo prevalsero le tesi attenuanti la componente empiristica per il timore della metafisica dell’inesprimibile. Cominciò Neurath già nel 1931, con l’articolo Physikalismus, seguito poi da una discussione su «Erkenntnis» tra lui e Carnap, dapprima ancora legato alle tesi della Costruzione logica del mondo, ma poi anch’egli fautore del ‘fisicalismo’ (Barone 1984). Una delle tesi del fisicalismo fu quella dell’unità della scienza, raggiungibile usando in ogni tipo di ricerca la terminologia propria della fisica (in cui compaiono solo nomi di cose e proprietà osservabili e determinazioni 22 spazio-temporali). Ma la conseguenza più importante di ciò fu per i fisicalisti l’eliminazione dal linguaggio scientifico di ogni riferimento a qualcosa di extralinguistico. Gli enunciati elementari o «protocolli», che costituiscono la base empirica della scienza, non fanno più riferimento agli Erlebnisse, ma sono espressi negli stessi termini delle proposizioni più complesse della scienza. Un protocollo (come, per esempio, «il signor X nel luogo y e al tempo z osserva W») non ha uno status particolare rispetto alle altre asserzioni della scienza, che si ritiene siano accettate o respinte a seconda che si accordino o meno con esso. Con il fisicalismo muta dunque nel Wiener Kreis lo stesso concetto di «verità»: vero non è l’enunciato che corrisponde all’esperienza, ma quello coerente con gli altri enunciati del sistema. La verità è intesa come coerenza di un sistema linguistico: un protocollo che non si accordi con il sistema può anche essere dichiarato falso, così come si può invece modificare il sistema perché sia compatibile con il protocollo. Nessun enunciato gode di un noli me tangere (Neurath 1933; trad. it., p. 173). La svolta fisicalista comportò anche una modificazione del criterio di significanza. Si preferisce parlare ora di «confermabilità» anziché di «verificabilità» (Carnap 19361937), dato che la verifica avviene sempre mediante un confronto di enunciati. E di fronte alla confermabilità «completa» degli enunciati che sono conseguenza di una classe finita di protocolli, c’è la confermabilità «incompleta» delle leggi scientifiche, che sono conseguenze di classi infinite di proposizioni con predicati osservabili. Ma quali siano i protocolli di una teoria e quale tipo di conferma si voglia per essa, tutto ciò non ha niente di assoluto e necessario: si tratta di decisioni convenzionali. Tra i fisicalisti acquista importanza sempre maggiore il tema del «convenzionalismo» che, nella sua forma matematica (Poincaré), aveva già attratto l’attenzione, all’inizio del secolo, del primo Wiener Kreis. L’elaborazione più raffinata del convenzionalismo si ha nel 1934 con la Logische Syntax der Sprache di Carnap. Poiché i fisicalisti non si interessano della possibilità che il linguaggio ha di significare qualcosa che non sia linguistico, la loro attenzione si concentra solo sulla struttura interna del linguaggio, ossia sulla sua «sintassi». Diversamente dalla logistica russelliana, che in virtù dell’attenzione per la dimensione semantica del linguaggio si preoccupava di determinare la «vera logica», Carnap fa 23 della logica l’insieme dei sistemi deduttivi, che sono diversi con il variare della loro sintassi, cioè delle regole di formazione (le combinazioni iniziali dei segni) e di trasformazione (passaggio da una data combinazione a quelle conseguenti). Le forme linguistiche si scelgono liberamente: «In logica non c’è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se egli vuole discutere con noi, deve solo indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche, invece di discussioni filosofiche» (Carnap 1934; trad. it., p. 45). Così, al momento della scomparsa in Europa del Wiener Kreis, la wissenschaftliche Weltauffassung — pur accentuando ancora di più la sua polemica contro la filosofia tradizionale, tanto che Carnap, sempre nella Sintassi, dice che «al posto dell’inestricabile groviglio problematico che si chiama filosofia compare la logica della scienza» (ibid., p. 204) — ha già preparato, attraverso le sue discussioni interne, delle prospettive che saranno poi riprese contro di essa dall’epistemologia postneopositivistica. Basti qui accennare che la tendenza dei fisicalisti a guardare soprattutto agli aspetti sintattici e formali del linguaggio scientifico, sì da rendere evanescente la distinzione tra i momenti teorici e i momenti empirici di esso, è stata apprezzata dall’anarchismo metodologico (Feyerabend 1976; trad. it., p. 137) come uno stimolo per arrivare, paradossalmente, alla negazione di quel metodo scientifico tanto celebrato dai neopositivisti. Bibliografia Ayer, A. 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Schlick, M., Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik,«Die Naturwissenschaftene», 1931, XIX, pp. 145193 (trad. it. in Schlick, M., Tra realismo e neopositivismo, Bologna 1974, pp. 37-68). Schlick, M., Facts and propositions, «Analysis», 1935, II, pp. 65-70. Stevenson, C., Ethics and language, New Haven-LondonOxford 1944 (trad. it. Etica e linguaggio, Milano 1966). Waismann, F., Logische Analyse des Wahrscheinlichkeitsbegriff, «Erkenntnis», 1930-1931, I, pp. 228-248 (trad. ingl. in Waismann, F., Philosophical papers, a cura di B. McGuinness, Dordrecht-Boston 1977, pp. 421). Dal 1973, presso l’editore Reidel (Dordrecht-Boston), è in corso la pubblicazione, nella traduzione inglese, di scritti di precursori, membri e simpatizzanti del Wiener Kreis: è la «Vienna Circle Collection», a cura di R.S. Cohen, B. 26 McGuinnes e H. Mulder. Sono già comparsi volumi di: H. Feigl, H. Hahn, E. Kaila, F. Kaufmann, V. Kraft, E. Mach, K. Menger, O. Neurath, H. Reichenbach, M. Schlick, E. Waismann. 27 4. Di là dal Wiener Kreis Abbiamo già anticipato in quello che precede alcuni sviluppi del loro pensiero da parte dei più rappresentativi neopositivisti dopo che essi avevano lasciato l’Europa. Prima di completare questo quadro, è tuttavia opportuno accennare agli «incontri» extraeuropei del neopositivismo, sia perché è a causa di essi che l’attenzione dell’epistemologia novecentesca si concentrò, magari polemicamente molto spesso, sul neopositivismo nella fase americana (sicché è prevalente nella seconda metà del secolo l’epistemologia di lingua inglese), sia perché a seguito di questo fenomeno ebbero una assai minore risonanza i tentativi epistemologici al di fuori del neopositivismo, come, per esempio, quello di Gaston Bachelard (1884-1962). I neopositivisti trasferitisi negli Stati Uniti trovarono qui alcune tendenze di pensiero congeniali. Assai vicina alla posizione originaria del Wiener Kreis fu l’epistemologia del fisico di Harvard, Percy Williams Bridgman (1882-1961), premio Nobel nel 1946 per le sue ricerche sulla fisica delle alte pressioni, autore sin dal 1927 della Logic of modern physics, in cui, ispirandosi alla teoria ristretta della relatività di Einstein, diede un’interpretazione «operazionale» delle teorie scientifiche. La validità delle asserzioni di esse consiste nella coordinazione univoca di esperienze concrete al simbolismo matematico, sicché il signiticato dei concetti scientifici consiste nella specificazione dei metodi (o «operazioni») per la loro applicabilità. Questa tesi fu poi sostenuta dal Bridgman anche in altri scritti, in cui lamentava che la teoria generale della relatività avesse abbandonato il principale principio «operativo». Ed è significativo che Einstein, adottato anche dai fautori della wissenschaftliche Weltauffassung, obiettasse a ciò che per fare di un sistema logico una teoria fisica non è necessario interpretare e verificare tutte le sue asserzioni «da un punto di vista operativo»; basta che esso «contenga affermazioni empiricamente verificabili in senso generale». (Einstein 1949, trad., p. 624). Accanto all’«operazionismo» avevano creato un’atmosfera simpatetica per il neopositivismo anche la cultura pragmatistica tipica degli Stati Uniti. L’appello all’empirismo c’era in Williams James (1842-1910) e in Charles Sanders Peirce (1839-1914) come in John Dewey 28 (1859-1952). E in Peirce, oltre l’interesse per la nuova logica si trovavano anche importanti contributi ad essa. Quanto a Dewey, poi, è vero che la sua dottrina della scienza era lontana dallo empirismo logico, poiché nel suo «strumentalismo» egli si opponeva alle dottrine che volevano fissare la concreta esperienza in teorie astratte e statiche; ma nel suo «naturalismo organicistico», che fa del linguaggio e dei simbolismo in genere un affinarsi evolutivo delle funzioni vitali, egli è aperto all’interesse neopositivistico per il linguaggio. Si comprende così il suo contributo al primo fascicolo dell’ International encyclopedia of unified science e la stesura, per essa, della Theory of valuation (Dewey 1938, 1939). Ai neopositivisti l’accomunava «la fede nell’atteggiamento scientifico», ma rifiutava la proposta in anticipo di «una base comune da accettare» (Dewey 1939; trad. it., pp. 61- 62). E si è già visto come il Morris, allievo a Chicago di George Herbert Mead (1863-1931), che era assai vicino a Dewey, sia stato l’effettivo tramite di collegamento tra il neopositivismo e il pragmatismo americano. È in particolare alla «semiotica» — la teoria del processo in cui qualcosa funziona come un segno e del funzionamento segnico del linguaggio — elaborata da Morris (Morris 1938, 1946) che si devono alcune radicali modifiche da parte di Carnap nella sua concezione sintattica della «logica della scienza». Egli adottò infatti la distinzione morrisiana tra la dimensione sintattica (relazioni formali dei segni tra loro), quella pragmatica (relazione dei segni con chi li interpreta) e quella semantica (relazione dei segni con gli oggetti designati). Ritorna cosi il problema (che il fisicalismo aveva preteso cancellare) del linguaggio che significa in quanto si riferisce a qualcosa di non linguistico. Lo stesso problema si riaffaccia del resto anche nella elaborazione della «semantica logica» del polacco Alfred Tarski, anch’egli emigrato nel 1939 negli Stati Uniti. Già in uno scritto in polacco del 1933, poi uscito in tedesco (Tarski 1936), egli aveva mostrato che nei linguaggi formali il concetto di «verità», come corrispondenza tra segno e designatum, è indispensabile ai fini di una teoria della deduzione. E sebbene Tarski, come matematico, tenga a sostenere che la definizione semantica di verità non dipende dalle prospettive filosofiche su tale concetto (Tarski 1944), è fuori dubbio che egli riproponga con urgenza quella concezione della verità come 29 corrispondenza che è tipica di una visione del mondo «realistica», nel senso che «c’è qualcosa» di cui la scienza parla. Carnap integra la sua sintassi con la semantica (Carnap 1942, 1947, 1950).Ma pretende che tale integrazione, che pur deve servirsi di entità astratte (come «classi», «relazioni», «proposizioni», (non sia in contrasto con l’empirismo neopositivistico e che le questioni ontologiche che paiono affiorare sono solo apparenti, dal momento che, come aveva detto nella Sintassi, si tratta soltanto di scegliere convenzionalmente la forma di linguaggio che vogliamo usare (Carnap 1950, 1963). L’antifilosofia non scompare nemmeno in quest’ultima fase del neopositivismo carnapiano. Carnap è tra i neopositivisti quello che più conserva le tendenze scientiste originarie pure nella fase americana del neopositivismo. Ciò è rilevabile anche nelle trattazioni ove pur c’è un’apertura innovativa. Così è nella sostituzione del vecchio progetto di «costituire» i concetti scientifici su base empirica con il progetto di «esplicazione», ossia di sostituzione di un concetto prescientifico vago con un explicatum più rigoroso ed esatto: nel caso della probabilità, per esempio, il sostituire al termine d’uso quotidiano quello o di frequenza relativa o di relazione di implicazione tra testimonianze ed ipotesi. Ma quando Carnap (Carnap 1966) tenta l’esplicazione del concetto di «causalità» ciò che lascia insoddisfatti è il rifiuto a prendere in considerazione i problemi filosofici sollevati dalla sua stessa analisi logica. Anche sul tema dei rapporti tra elementi empirici ed elementi teorici nella conoscenza scientifica, su cui si concentrò l’analisi dei neopositivisti in questo periodo, sin da Testability and meaning Carnap aveva avviato una «liberalizzazione» del rigido criterio empirico di significanza. Ma ancora nei Fondamenti filosofici della fisica egli si sforza di evitare le implicazioni ontologiche dei termini teorici, ossia «le fastidiose questioni metafisiche che affliggono la formulazione originaria delle teorie» (Carnap 1966; trad. it., p. 314). Chi invece conduce la liberalizzazione dell’empirismo sino all’abbandono dei presupposti scientistici è il ‘berlinese’ Hempel. Questi insiste sul fatto che non è ammassando risultati empirici e generalizzandoli induttivamente che si possono ottenere i principî con cui si spiegano e si prevedono fenomeni osservabili. «Lo scienziato deve inventare un insieme di concetti, i costrutti teorici, privi di significato empirico diretto» (Hempel 1952; 30 trad. it., p. 47). In base ad essi si tratta di formulare ipotesi che interpretino l’intera rete teorica: «E tutto ciò in una maniera che consenta di stabilire tra i dati dell’osservazione diretta connessioni profonde ai fini della spiegazione e della previsione». Agli studi di Hempel — e dell’americano Ernst Nagel (n. 1901), dapprima vicino a Bridgman — si deve anche l’elaborazione di quel modello di spiegazione scientifica noto come modello «nomologico-deduttivo»: un fatto è spiegato quando lo si «deduce» da un insieme di leggi e di specifiche condizioni iniziali (Hempel 1965, 1966). Quanto si sia ormai lontani dalle tesi neopositivistiche originarie è indicato anche dal fatto che tale modello è pure chiamato «modello Popper-Hempel»: e Popper è proprio colui che dice di avere ucciso il neopositivismo già nel 1934. E più di recente ancora (Hempel 1989, p. 66), Hempel mette addirittura in dubbio che il modello «nomologicodeduttivo» (che resta ancora legato allo schema giustificativo delle teorie già fatte, indagando le relazioni logiche tra enunciati e testimonianza empirica) riesca a rendere giustizia «alle diverse considerazioni extralogiche, che intervengono in modo significativo nella teorizzazione scientifica». La frenesia neopositivistica per la Wissenschaftslogik dà ora di nuovo spazio ai vecchi temi della Erkenntnistheorie. Intitolando questo capitolo «Di là dal Wiener Kreis», s’è detto, non si è inteso solo indicare come il neopositivismo nel periodo americano si sia lentamente dileguato e risolto nella nuova epistemologia, ma anche che tale fenomeno ha distolto l’attenzione da quelle forme di epistemologia contemporanee al Wiener Kreis e che rimasero originariamente fuori della dominante ‘moda’epistemologica. Vanno ricordati in questa prospettiva il matematico italiano Federigo Enriquez (1871-1946), il francese d’origine russa Alexandre Koyré (1892-1964), lo svizzero Ferdinando Gonseth (1890-1975), che presero posizione critica rispetto al neopositivismo, di cui discussero le tesi fondamentali: dall’empirismo radicale all’antimetafisica e alla trattazione nominalistica del simbolismo logico. Due figure di epistemologi meritano tuttavia qualche cenno più specifico. Gaston Bachelard, che ha lasciato in Francia una scuola di ricercatori di storia della scienza, ha insistito sin dagli anni Trenta sullo sviluppo della conoscenza scientifica non come un tutto organico e 31 razionale, bensì quale processo che perviene sempre a verità approssimate, attraverso il superamento di errori ed ostacoli opposti sia dalla realtà stessa che si vuol comprendere, sia dai pregiudizi delle nostre interpretazioni. Il formalismo e l’empirismo radicale dei neopositivisti gli paiono dunque inadeguati, nelle loro pretese normative, per comprendere l’effettivo processo della conoscenza scientifica. E se questo non è compreso anche da molte forme tradizionali di filosofia, non per ciò lo studio della scienza deve fare a meno dei presupposti metafisici e filosofici che accompagnano le varie visioni scientifiche del mondo. Un’apertura verso la conoscenza come processo ‘storico’, e quindi in contrappozione alla pura analisi logica del linguaggio scientifico condotta dai neopositivisti, c’è anche nello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980), che è stato fondatore a Ginevra di un Centro internazionale e interdisciplinsre di epistemologia genetica. Contrariamente alla tradizione epistemologica neopositivista, per Piaget non si tratta di analizzare le conoscenze già acquisite e formulate, bensi di individuarne genesi ed accrescimento. La risonanza del pensiero di Piaget si ebbe soprattutto in campo psicologico e pedagogico. Ma l’accentuazione dell importanza della prospettiva storica per l’epistemologia, che c’è tanto in lui quanto in Bachelard, è uno dei temi che ricompare nell’epistemologia post- neopositivistica anche al di fuori delle loro scuole. Bibliografia Bridgman, P.W., The logic of modern physic, New York 1927 (trad. it. La logica della fisica moderna, Torino 1952, 19772). Di Bridgman si ricordano anche: Bridgman, P.W., The nature of physical theory, Princeton 1936 (trad. it. La natura della teoria fisica, Firenze 1965). Bridgman, P.W., La critica operazionistica della scienza, raccolta a cura di B. Cermignani, Torino 1969. Carnap, R., Introduction to semantics, Cambridge, Mass., 1942. Carnap, R., Meaning and necessity, Chicago 1947 (trad. it. Significato e necessità, Firenze 1976). 32 Carnap, R., Empiricism, semantics and ontology, «Revue internationale de philosophie»,1950, IV, pp. 20-40 (trad. it. Empirismo, semantica e ontologia, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo Torino 1969, pp. 629-652). Carnap, R., Replies and systematic expositions, in Schilpp, P.A. (a cura di), The philosophy of Rudolf Carnap, La Salle 1963, pp. 859-1013 (trad. it. Risposte ed Esposizioni sistematiche, in Schilpp,P.A., (a cura di), La filosofia di R. Carnap, Milano 1964, voI. II, pp. 833- 944). 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Hempel, C.G., Fundamentals of concept formation in emipirical science, Chicago 1952 (trad. it. La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza, Milano 1961). Hempel, C.G., Aspects of scientific explanation, New York 1965 (trad. it. Aspetti della spiegazione scientifica, Milano 1987). Hempel, C.G., Philosophy of natural science, Englewood Cliffs 1966 (trad. it. Filosofia delle scienze naturali. Bologna 1968). Una traduzione italiana di saggi recenti di Hempel su induzione e teorie, la razionalità scientifica e circa il neopositivismo è in: Hempel, C.G., Oltre il positivismo logico. Saggi e ricordi, trad. it. di G. Rigamonti, Roma 1989. 33 Morris, CH., Foundations of the theory of signs, Chicago 1938 (trad. it. Lineamenti di una teoria dei segni, Torino 1955). Morris, CH., Signs, language and behavior, New York 1946 (trad. it. Segni, linguaggio, comportamento, Milano 1949). Su Morris, cfr.: Rossi-Landi, F., Charles Morris e la semiotica novecentesca, Milano 19752. Nagel, E.,The structure of science. Problems in the logic of scientific explanation, New York 1961 (trad. it. La struttura della scienza, Milano 1968). Su Nagel, cfr.: Tugnoli Pattaro, S., Sviluppi critici del pensiero scientifico moderno nella ricostruzione metodologica di E. Nagel, Bologna 1991. Tarski, A., Der Wahrheitsbegriff in der formalisierten Sprachen, «Studia philosophica», 1936, pp. 265-405 (trad. it. Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, in Rivetti Barbò, F., L’antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo, Milano 19642 pp. 391- 677). Tarski, A., The semantic conception of truth, «Philosophy and phenomenological research», 1944, IV, pp. 341-375 (trad. it. La concezione semantica della verità, in Linsky, L. (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano 1969, pp. 29-65). Per indicazioni bibliografiche su Enriques, cfr.: Atti del Convegno Internazionale sul tema: Storia, pedagogia e filosofia della scienza, a celebrazione del centenario della nascita di Federigo Enriques (Pisa, Bologna e Roma, 7-12 ottobre 1971), Roma 1973. Pompeo Faracovi, O. (a cura di), Federigo Enriques. Approssimazione e verità, Livorno 1982. Sugli epistemologi francesi: Vinti, C. (a cura di), contemporanea, Roma 1977. L’epistemologia francese Su Bachelard, le due antologie: Sertoli, G. (a cura di), La ragione scientifica, Verona 1974. Lo Piparo, F. (a cura di), Epistemologia, Roma-Bari 1975. 34 Su Gonseth: Bertholrt, E., La philosophie des sciences de Ferdinand Gonseth, Lausanne 1968. «Dialectica», 1990, 44, fasc. 3-4 (l’intero fascicolo della rivista – fondata da Gonseth nel 1947 – è dedicato al pensiero di Gonseth, in occasione del centenario della sua nascita). Su Piaget: Lerbet, G., Che cosa ha veramente detto Piaget, Roma 1972. 35 5. Il razionalismo critico di Popper La figura di Popper è così centrale per l’epistemologia novecentesca che, oltre ad occuparcene qui, dovremo ancora ritornarvi nell’ultimo capitolo dedicato all’«epistemologia evoluzionistica». Non che ci siano ‘due’ Popper, poiché il suo pensiero non ha soluzione di continuità: ma i temi del suo «razionalismo critico», a partire dal 1960 (Antiseri 1986), sono ripresi unitariamente in una prospettiva evoluzionistica del processo conoscitivo, così che per lui il darwinismo diventa un efficace «programma di ricerca metafisico» (Popper 1976; trad. it., p. 172). In questo capitolo ci soffermeremo soltanto sui temi originari del razionalismo critico. Il razionalismo è per Popper un atteggiamento che cerca di risolvere i problemi mediante il pensiero chiaro e il ricorso all’esperienza. Esso è quindi molto simile all’atteggiamento scientifico, purché sia «critico» e non radicale. Non presuma, cioè, di fondare esso stesso la validità dell’argomentazione e del ricorso all’esperienza. Se si vuole evitare il circolo vizioso, tale validità va preliminarmente accettata, come una credenza, una «fede irrazionale nella ragione» (Popper 1945; trad. it., voI. II, p. 304). Il razionalismo critico comporta quindi la rinuncia a un sapere che sia l’analogo di un punto di vista divino sul mondo; e la rinuncia, anche, al dogmatismo scientifico. A tale orientamento Karl Raimund Popper, nato a Vienna nel 1902, fu indotto dalle sue stesse esperienze giovanili nell’immediato primo dopoguerra, dall’attività in lavori manuali e come assistente di bambini abbandonati. Da ragazzino ammirava Amundsen (1872-1928) e avrebbe voluto diventare anche lui esploratore; e, in seguito, gli parvero esploratori i grandi scienziati, che cercano la verità elaborando teorie che tentano di dire com’è la realtà. Ma il cammino della scienza mostra che la verità non è la certezza, poiché è incerto e rivedibile ogni risultato acquisito. Fu tuttavia nel 1919 che maturarono per Popper le condizioni del suo razionalismo critico. Nella primavera egli simpatizzò per il piccolo partito comunista austriaco; ma, già nell’estate, una dimostrazione che finì con alcuni morti gli fece nascere il dubbio che fosse davvero ‘scientifica’, come proclamavano con sicurezza i marxisti, la tesi che quei morti servissero per sradicare i mali del capitalismo. E sempre nel 1919, Popper fu affascinato dal 36 modo in cui i fisici, a lungo restii, cominciarono ad accettare la teoria generale della relatività, in quanto, in occasione di un’eclisse solare, venne notato un lievissimo spostamento della posizione delle stelle in vicinanza del disco solare, confermando così la previsione della teoria einsteiniana per cui i raggi luminosi passanti in vicinanza del Sole sarebbero «piegati» dall’intenso campo gravitazionale di questo. Mettere alla prova una teoria scientifica significa controllare se alcuni eventi inferibili da essa sono confermati o falsificati dall’esperienza. Già nel 1916 Einstein aveva precisato questo criterio in Über die spezielle und allgemeine Relativitastheorie (gemeinverständlich). Dopo aver previsto in base alla sua teoria che i «raggi di luce si propagano in linea curva nei campi gravitazionali», egli precisava che «tale risultato può essere messo a confronto con la realtà» e che «l’esame della correttezza o non correttezza di questa deduzione è un problema della massima importanza, di cui ci si deve attendere dagli astronomi la prossima soluzione» (Einstein 1916; trad. it., p. 101). Ecco perché Popper considerò sempre Einstein tra i suoi maestri ideali, tanto più che il controllo delle teorie fisiche mediante l’esperienza metteva per lui in luce l’incertezza della ricerca scientifica autentica in confronto alle sicurezze di quelle che egli chiama «pseudoscienze»: e che il giovane Popper vedeva esemplificate nella teoria marxista della storia, nella psicanalisi e nella «psicologia individuale» di Alfred Adler (1870-1937), con cui aveva per qualche tempo collaborato nel seguire i ragazzi abbandonati. Ciò che l’aveva colpito negativamente era la tendenza adleriana a fare di ogni caso una conferma della teoria o direttamente o attraverso aggiustamenti di comodo di essa. La pseudoscienza nasce in primo luogo dalla presunzione di certezze acquisite. Con questo sfondo culturale il viennese Popper doveva inevitabilmente imbattersi nei temi del Wiener Kreis, pur non facendone mai parte (non è ricordato nel «Manifesto» del 1929), nonostante i rapporti personali con Hahn, Carnap, Feigl e Waismann, e il fatto che Neurath lo considerasse «l’opposizione ufficiale» del Circolo, avendone ascoltato una conferenza in cui Popper criticava la verificabilità come criterio del significato e la conseguente dichiarazione di mancanza di senso delle proposizioni non scientifiche (Neurath 1973, p. 55). Ma la 37 cosa più paradossale fu che la Logik der Forschung (uscita nel 1934, ma con la data del 1935) comparisse proprio nella collana «Schriften zur wissenschaftltiche Weltauffassung» diretta da Frank e Schlick. Anche questa pubblicazione fu tuttavia assai tormentata. Nel 1932 Popper finì la stesura di un libro Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie (Popper 1979), in cui aveva raccolto, su suggerimento di Feigl, le sue riflessioni sulla conoscenza scientifica; il lavoro venne letto da parecchi membri del Circolo e poi proposto da Schlick e Frank all’editore Springer nel 1933; ma fu ritenuo troppo ampio, e solo dopo un quasi dimezzamento operato da uno zio di Popper, a cui questi aveva affidato il testo, comparve finalmente la Logik der Forschung. I due problemi fondamentali della conoscenza, la cui soluzione costituiva per l’autore anche la determinazione di un metodo della scienza, erano quello dell’induzione e quello della demarcazione, o, come dice Popper, il «problema di Hume» ed il «problema di Kant». Da un lato: è possibile legittimare le asserzioni universali basandole su constatazioni di fatti singolari?; e dall’altro: quale criterio ci permette di distinguere tra le scienze empiriche ed i sistemi metafisici? E il problema della demarcazione è «il più fondamentale» (Popper 1935; trad it., p. 14). La via che Popper sceglie per la soluzione è sin dall’inizio in contrappo sizione alla wissenschaftliche Weltauffassung dei neopositivisti, perché «i positivisti, nella loro ansia di distruggere la metafisica, distruggono, con essa, la scienza della natura» (ibid., p. 16). Il criterio empirico di significanza adottato dai neopositivisti non serve infatti a demarcare tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, perché facendo dipendere il significato delle asserzioni dal metodo della loro verifica rende prive di significato anche le asserzioni universali, le leggi, della scienza. Per quanto siano numerose le asserzioni particolari che attribuiscono la proprietà a all’oggetto X, non è legittimato il «salto» all’affermazione universale che «tutti gli X sono a». Lo sforzo dei neopositivisti di eliminare la metafisica, dichiarandola priva di senso, mette in dubbio anche la possibilità della scienza. Se — come già aveva fatto Kant — si demarca il conoscere scientifico rispetto alla metafisica con il richiamo di tale conoscere all’esperienza sensibile, non è necessario, come invece fanno i neopositivisti, derivare tutte le nostre conoscenze da tale esperienza (dando per scontata la legittimazione, che non 38 può essere induttiva, del processo di induzione); né, tanto meno, trasformare il criterio di demarcazione in un criterio di significato. Ci possono essere asserzioni significanti, anche se non hanno il carattere di asserzioni scientifiche. Diversamente dai neopositivisti, Popper non vuole «uccidere la metafisica lanciandole improperi»; ed accanto ad idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della scienza (cioè del «razionalismo critico») ve ne sono altre, come l’atomismo speculativo, che l’hanno favorito. «Sono propenso a ritenere che la scoperta scientifica è impossibile senza la fede in idee che hanno una natura puramente speculativa, e che talvolta sono addirittura piuttosto nebulose; fede, questa, che è completamente priva di garanzie dal punto di vista della scienza e che pertanto, entro questi limiti, è ‘metafisica’» (ibid., p. 19). Escluso che il criterio di demarcazione sia un criterio di significanza, Popper propone anche la sostituzione del neopositivistico criterio di verificazione quale contrassegno della procedura scientifica. Mentre nell’ambito del Circolo si ha via via una «liberalizzazione» dell’empirismo, Popper, pur mantenendo l’istanza empirica del controllo delle asserzioni scientifiche, contrappone il criterio della «falsificabilità» delle asserzioni scientifiche a quello della loro «verificabilità». Vi è una asimmetria tra verificabilità e falsificabilità: mentre un’asserzione universale non sarà mai verificata da una serie per quanto grande di asserzioni particolari, essa può essere falsificata anche da una sola asserzione. Le constatazioni che ogni corvo che ho visto è nero non bastano a verificare l’universale «Tutti i corvi sono neri»; mentre mi basta constatare che un corvo non è nero per falsificarla. E poiché la falsificabilità è un criterio di scientificità ma non di significanza non c’è più nemmeno bisogno di accorgimenti, come quello di Schlick, che ammettono le leggi scientifiche non come asserzioni genuine, ma come regole per la trasformazione di asserzioni. Come già Popper aveva scritto in un articolo uscito nel 1933 su «Erkenntnis»: «Possiamo, in modo perfettamente coerente, interpretare le leggi naturali o le teorie sulla natura come asserzioni genuine parzialmente decidibili, come asserzioni, cioè, che per ragioni logiche non sono verificabili, ma, in modo asimmetrico, soltanto falsificabili: sono asserzioni che si controllano sottoponendole a tentativi sistematici di falsificarle» (Popper 1933; trad. it., p. 346). 39 Diventa così possibile una soluzione del «problema di Hume», ossia dell’induzione: con quale diritto le scienze empiriche formulano asserzioni universali? Come Popper dirà nella prefazione alla traduzione italiana della Logik (Popper 1935, trad. it.), attraverso il criterio della falsificabilità diventa solubile il problema dell’induzione: «non c’è induzione, perché le teorie universali non sono mai deducibili da asserzioni singolari. Ma le teorie possono essere confutate da asserzioni singolari, da descrizioni di fatti osservabili» (Popper 1935, p. XIV). Sull’eliminazione dell’induzione, considerata quale metodo della scienza, Popper ritornerà anche in seguito, come si vedrà nel capitolo sull’epistemologia evoluzionistica: ma la falsa impostazione del problema di Hume è per lui legata all’errata soluzione del problema della demarcazione, cioè, alla convinzione che la scienza si distingua dalla pseudoscienza per un metodo che dà conoscenze vere e sicure e che consiste nel procedimento induttivo. Accettato come criterio scientifico quello della falsificabilità, come procedono i tentativi di falsificazione delle proposizioni universali e delle teorie? Anche su questo punto le tesi di Popper hanno un’affinità problematica con la polemica sui «protocolli» allora viva nell’ambito del Circolo. Pure Popper, come i fisicalisti, vuole evitare che le asserzioni che servono come controllo — e che egli chiama «asserzioni-base» (Basissätze) — siano mera espressione del dato immediato: ogni asserzione scientifica, per quanto elementare, oltrepassa sempre il contenuto puntuale di esperienza e assume il carattere di una ipotesi. Le asserzioni-base — che di solito hanno la forma «nel luogo spazio-temporale x c’è il processo y» — sono infatti deducibili da ipotesi più generali e teorie, e concernono eventi intersoggettivi e ripetibili. Così Popper trova che Neurath ha ragione nel dire che «gli enunciati protocollari non sono inviolabili», ma obietta che Neurath non fissa regole che limitino la possibilità di «cancellare» o «accettare» arbitrariamente un asserto-base, e che in tal modo «butta l’empirismo dalla finestra» (ibid., p. 90). Popper, invece, pur ritenendo che il riconoscere quelle che si ammettono come asserzioni di base sia una decisione convenzionale, introduce delle condizioni formali per la loro ammissione e la condizione materiale che esse corrispondano a dei fatti e siano controllabili intersoggettivamente. 40 Quando negli anni successivi Popper verrà a conoscenza della teoria semantica della verità di Tarski, la farà sua assumendo che l’idea di una verità oggettiva, o verità come corrispondenza, è un’idea «regolativa» della ricerca (Popper 1982-1983; trad. it., vol. I, p. 55). Cosicché sarebbe un grave errore pensare che il carattere profetico e congetturale di una teoria «sminuisca in qualsiasi maniera la sua pretesa implicita di descrivere qualcosa di reale» (Popper 1962; trad. it., p. 201). Diventerà allora molto chiaro che Popper è in netta opposizione a quegli orientamenti fisicalistici del Wiener Kreis che portavano alla riduzione della verità a coerenza. Ma quando uscì la Logik tutto il dibattito sulla «falsificabilità» e sulle Basissätze (tanto simili ai «protocolli») indusse nei neopositivisti l’idea che l’opera di Popper rientrasse nel dibattito interno al Circolo. Ancora nel 1950, Hempel considerava le tesi popperiane come un primo tentativo, non ancora soddisfacente, per la liberalizzazione del criterio empirico di significanza e, sempre nello stesso anno, Bela Von Juhos (1901-1971) annoverava Popper tra gli «ipotetisti» (i sostenitori del carattere ipotetico di ogni proposizione empirica), unitamente ai fisicalisti, e in contrapposizione a Schlick. Non si faceva altro che riprendere ciò che nel 1932 aveva detto Carnap (sulla base di una lettura del testo ancora inedito della Logik) di dovere a Popper l’idea di una interpretazione radicalmente convenzionalistica dei protocolli (Carnap 1933, p. 224). Anche Neurath, che, in un articolo del 1935, era stato recensore severo della Logik (soprattutto perché gli sembrava caratterizzare la falsificazione come metodo generale della scienza, mentre per Neurath non c’è una regola per ridurre automaticamente a zero la fiducia in una teoria, anche se i risultati negativi del suo controllo possono scuotere la fiducia in essa), riconosceva che il libro era «vicino all’empirismo scientifico del Circolo di Vienna» (Neurath 1935; trad. it., p. 171); sebbene l’assolutismo della falsificazione gli sembrasse mostrare che la «via della scienza non è ancora libera da certi residui di solida metafisica». Ciò che urtava Neurath erano soprattutto le affermazioni in cui Popper sosteneva che «il metodo scientifico presuppone l’immutabilità dei processi naturali [ ...] la fede metafisica nell’esistenza di regolarità nel nostro mondo (fede che io condivido, e senza la quale l’azione pratica è quasi inconcepibile)» (Popper 1935; trad. it., p. 277). 41 Tutto ciò mostra come l’interpretazione che a lungo ha fatto di Popper un neopositivista non fosse del tutto priva di ogni fondamento. Nella Logik parecchi punti potevano indurre a questo modo di pensare, se ci si lasciavano sfuggire gli spunti che pur c’erano, ma che solo in seguito divennero evidenti: ossia, l’opzione metafisica per il «realismo», dopo aver esclusa la mancanza di senso della metafisica. Quando Popper diceva che «le teorie sono reti gettate per catturare quello che noi chiamiamo ‘il mondo’» (ibid., p. 43), in realtà si contrapponeva all’interpretazione, che da Hume arrivava sino ai neopositivisti, del cosiddetto «principio dell’empirismo», tipico della scienza moderna: inizialmente tale principio aveva rappresentato per gli scienziati moderni il canone di distinzione degli enunciati scientifici, caratterizzati dall’essere controllabili sul piano dell’osservazione e dell’esperimento. Ma nell’interpretazione dell’empirismo filosofico tale principio era diventato un canone di significanza degli enunciati in genere e un tentativo di derivazione genetica di tutte le strutture conoscitive e di tutti gli elementi contenutivi della conoscenza dal dato sensibile. Popper con il suo antiinduttivismo e il suo falsificazionismo rigetta tutto ciò: all’origine della scienza (e della conoscenza) non c’è un accumulo di «dati», ma l’esigenza di risolvere i problemi in cui ci imbattiamo; e «i soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate» (ibid., p. 310). È questa convinzione, assieme a quella che la base empirica delle scienze oggettive non ha nulla di assoluto, che fa affermare a Popper che l’ardita struttura delle teorie della scienza si «eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto giù nella palude [...]; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da reggere la struttura» (ibid., pp. 107-108). Ci sono qui già tutti gli elementi, anche se non ci sono ancora i termini, per parlare della conoscenza come un processo di congetture, per risolvere problemi, e confutazioni, cioè il controllo rigoroso di tali congetture: sono questi i due termini che danno il titolo al volume in 42 cui Popper raccoglie saggi che vanno dal 1940 al 1960, e la cui tesi di fondo è che «la stessa confutazione di una teoria [...] è sempre un passo avanti che ci porta più vicino alla verità. È questo il modo in cui possiamo imparare dagli errori». E il poter discutere sulla pretesa delle teorie «di risolvere i problemi meglio delle concorrenti [è ciò] che costituisce la razionalità della scienza» (Popper 1962; trad. it., p. 4). Sono ormai delineati i tratti del «razionalismo critico». E la primalità che in esso hanno le congetture indica che si tratta di un vero rovesciamento della prospettiva neopositivistica, di una reinterpretazione del «principio dell’empirismo», non più secondo Hume bensì secondo Kant. Popper ritiene che Kant colga appieno, ed eviti, le difficoltà in cui si invischiava l’interpretazione humiana dell’induzione. I difetti del kantismo non stanno nell’ammissione di un momento a priori della conoscenza: stanno piuttosto nel fare delle forme a priori non già delle congetture bensì un sistema completo e necessitante (il sistema delle «categorie»), annullando quindi la distinzione tra ciò che è geneticamente e psicologicamente a priori e ciò che è «valido» a priori. «Kant volle dimostrare troppo. Nel tentativo di illustrare come è possibile la conoscenza, propose una teoria che aveva la conseguenza inevitabile di stabilire che la nostra esigenza di conoscere è sempre sicuramente soddisfatta, il che evidentemente non è esatto. Quando Kant affermò: ‘il nostro intelletto non trae le proprie leggi dalla natura, ma le impone ad essa’, era nel giusto. Ma sbagliava nel ritenere che dette leggi fossero necessariamente vere, o che noi riuscissimo senz’altro ad imporle alla natura. La natura, assai spesso, si oppone molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le nostre leggi in quanto confutate; ma, finché viviamo, possiamo riprovarci ancora» (Popper 1962; trad. it., pp. 8687). Si intravvedono già qui gli orientamenti evoluzionistici in cui proprio negli anni Sessanta Popper stava inserendo il suo realismo in una concezione della conoscenza come tentativo di adeguamento biologico (e, per l’uomo, anche culturale) ai fini della sopravvivenza nel proprio ambiente. Ma per ora interessa soprattutto sottolineare come il «razionalismo critico», nei tratti delineati, renda conto della consapevolezza propria della ricerca scientifica contemporanea di non possedere certezze senza tuttavia rinunciare all’istanza di verità. E questo carattere è il pregio 43 del pensiero di Popper, di là dalle difficoltà specifiche riscontrabili in alcune sue posizioni. Si è visto che già Neurath (e ciò sarà in seguito ripetuto da altri critici) obiettava che la pratica della ricerca contrasta all’assolutezza attribuita da Popper alla falsificabilità come criterio della scientificità. E, d’altra parte, se è giusta la polemica popperiana contro l’erezione del metodo induttivo a metodo della scienza, pare tuttavia paradossale la negazione che nella conoscenza comune e nella scienza l’induzione non abbia importanza alcuna. L’uomo tenta «congetture» nell’affrontare le soluzioni di problemi. Ma in che modo formula le sue congetture? Perché ne formula alcune e altre no? Non gioca forse in ciò anche l’analogia con casi precedenti? Ma in tal modo si reintroduce l’induzione. Come Popper obiettava a Neurath la mancanza di regole nell’accettare o respingere i protocolli, così c’è bisogno di regole anche per proporre questa o quella congettura, tale cioè da prestarsi alla falsificabilità. Ma tali regole richiamano in ballo l’induzione. La scelta delle congetture non è solo questione psicologica, ma concerne anche l’impianto logico dell’epistemologia. Sono difficoltà effettive a cui non pare che anche in tempi più recenti Popper abbia risposto in modo soddisfacente nella critica ai suoi critici. Forse esse meritano d’essere riprese nella prospettiva dell’epistemologia evoluzionistica. Ma non per questo il razionalismo critico può essere liquidato dicendo che la «base del sistema non è salda» (Ayer 1982; trad. it., p.134). Ciò che conserva validità (quando si rinunci all’illusione delle «basi salde») è l’impostazione epistemologica del razionalisno critico che è tra le acquisizioni filosofiche più significative del secolo. I tre volumi del Postscript ne mostrano la fertilità nell’affrontare importanti questioni della scienza contemporanea e della sua metodologia. In essi si ribadisce innanzi tutto la fede realistica di Popper. Anche le teorie dei maggiori rappresentanti della fisica atomica — come Niels Bohr (1885-1962), Werner Karl Heisenberg e Wolfang Pauli (1900-1958) — sono per lui «il risultato di tentativi di comprendere la struttura del mondo fisico e di criticarne gli esiti». Così sono le loro stesse teorie a contrapporsi a quanto essi, ed altri positivisti e neopositivisti, ci dicono circa la natura della scienza: «Che non possiamo in linea di principio, mai sperare di comprendere alcunché della 44 struttura della materia; [...] che la scienza non è che uno strumento, privo di ogni interesse filosofico e teorico, che ha un’importanza solo ‘tecnologica’, ‘pragmatica’ o ‘operazionale’. Io non credo una parola di questa dottrina post-razionalistica» (Popper 1982-1983; trad. it., voI. III, p. 179). Il suo non è però un realismo deterministico, o laplaciano, dominante nella fisica sino alla formulazione, nel 1927, del principio di indeterminazione della meccanica quantistica. L’introduzione che così avvenne del principio di indeterminismo in fisica mostra che il determinismo laplaciano, che asserisce essere ogni stato futuro del mondo già contenuto negli stati passati di esso, non è affatto «scientifico» quanto, piuttosto «metafisico» in senso popperiano. Einstein, che credeva in un «universo-blocco a quattro dimensioni immutabile come l’universo-blocco tridimensionale di Parmenide» (Popper 1982-1983; trad. it.,vol. II, p. 98), pare a Popper un novello Parmenide: ed è questo il punto in cui egli non ne accetta il magistero, poiché tale metafisica non è imposta né dalla fisica «classica» né da quella contemporanea. La metafisica realistica di Popper ammette invece l’esistenza di un universo «aperto», in cui il passato non determina il futuro, ma pone solo dei limiti, magari severi, ma tali da non impedire un ventaglio di possibilità realizzabili. Così il secondo volume del Poscritto è «una sorta di prolegomeno al problema della libertà e creatività umana e lo legittima fisicamente e cosmologicamente» (ibid., p. 17). Ciò comporta anche un ripensanento della «probabilità». Nella Logik, Popper aveva sostenuto l’interpretazione frequentista della probabilità: ora, anche per rafforzare la sua critica alle interpretazioni soggettivistiche (che fanno della probabilità solo la misura di uno stato soggettivo di conoscenza), egli integra l’interpretazione frequentista con l’interpretazione «propensionale», così da fare della probabilità la misura delle tendenze fisiche o «propensità» a realizzare un determinato stato di cose. «Le frequenze relative si possono, pertanto, considerare come i risultati, o le manifestazioni esteriori, o le apparenze, di una disposizione fisica, o tendenza, o propensità, nascosta e non direttamente osservabile» (Popper 1982-1983; trad. it., voI. I, p. 298). Anche su questo punto Popper si oppone dunque ai tentativi neopositivistici di costruzione di una logica induttiva: il tormentoso enigma che affligge questa (come spiegare il fatto «che ogni sequenza registrata di lanci di 45 una moneta, o di un dado, esibisce, da un lato, un carattere tipicamente casuale e, dall’altro, una frequenza relativa stabile che sembra tendere a un limite») può essere «completamente risolto se assumiamo l’interpretazione propensionale del calcolo delle probabilità» (ibid., p. 404). La concezione metafisica di un universo aperto e l’introduzione del concetto di «propensità» permettono una reinterpretazione indeterministica del programma deterministico einsteiniano e, al tempo stesso, una reinterpretazione oggettivistica e realistica della teoria quantistica. «È molto più ragionevole respingere tutte le concezioni di un universo chiuso — quella di un universo chiuso causalmente come quella di un universo chiuso probabilisticamente; respingere, quindi, l’universo chiuso immaginato da Laplace (1749-1827), al pari di quello immaginato dalla meccanica ondulatoria. Il nostro universo è in parte causale, in parte probabilistico e in parte aperto: esso è emergente» (Popper 1982-1983; trad. it., voI. I, p. 131). Bibliografia Per la bibliografia di e su Popper, le cui opere principali sono tutte tradotte in italiano, cfr.: Antiseri, D., Popper, in Questioni di storiografia filosofica, Brescia 1978, vol. V, pp. 457-494. Pera, M., Popper e la scienza su palafitte, Roma-Bari 19822. Sono da vedere anche le due raccolte di saggi: Levinson, P. (a cura di), In pursuit of truth. Essays on the philosophy of Karl Popper on the occasion of his 80th Birthday, Atlantic Highlands, New Jersey, 1982. Schilpp, P. A. (a cura di), The philosophy of Karl Popper, La Salle 1974, 2 volI. Antiseri, D., Epistemologia evoluzionistica: da Mach a Popper, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1986, IV, 1, pp. 52-66. Ayer, A. J., PhilosophY in the twentieth century, London 1982 (trad. it. La filosofia del Novecento, Roma-Bari 1983). Carnap, R., Über Protokollsätze, «Erkenntnis», 1933, III, pp. 215-228. 46 Einstein, A., Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie(gemeinverständlich), Braunschweig, 1916. (trad. it. Relatività: esposizione divulgativa, Torino 1967). Hempel, C. G., Problems and changes in the empiricist criterion of meaning, «Revue internationale de philosophie», 1950, IV, II, pp. 41-63 (trad. it.Problemi e mutamenti nel criterio empiristico di significato in Linsky, L. (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano 1969, pp. 209-238). Juhos, B. von, Die Erkenntnis und ihre Leistung. Die naturwissenschaftliche Methode, Wien 1950 (dello Juhos, come volume VIII della «Vienna Circle Collection», sono usciti nel 1976 i Selected papers on epistemology and physics). Neurath, O., Pseudorationalismus der Falsifikation, «Erkenntnis», l935, V, pp. 353-365 (trad. it. in Fistetti, F., Neurath contro Popper. Otto Neurath riscoperto, pref. di R. Haller, Bari 1985, pp. 153-171). Neurath, O., Empiricisn and sociology, a cura di M. Neurath e R.S. Cohen, Dordrecht-Boston 1973 (è il voI. I della «Vienna Circle Collection»: in questo volume sono raccolte anche testimonianze di amici e conoscenti di Neurath, tra cui quella di Popper). Popper, K.R., Ein Kriterium des empirischen Characters theoretischer Sätze, «Erkenntnis», 1933, III, pp. 426-427 (trad. it. in Popper, K.R., Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, pp. 344-348). Popper, K.R., Logik der Forschung, Wien 1935 (di quest’opera uscì a cura di Popper una edizione riveduta e ampliata in inglese, con il titolo The logic of scientific discovery, London 1959, e su questa è condotta la trad. it. da cui citiamo, Logica della scoperta scientifica, cit.). Popper, K.R., The open society and its enemies, London 1945, 2 voll. (trad. it. La società aperta e i suoi nemici, Roma 1973-1974). Popper, K.R., Conjectures and refutations; the growth of scientific knowledge, New York 1962, 19693 (trad. it. Congetture e confutazioni, Bologna 1972). Popper, K.R., Unended quest: an intellectual autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma 19862). Popper, K.R., Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie, Tübingen 1979 (trad. it. I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, Milano 1987). 47 Popper, K.R., Postscript to the logic of scientific discovery, a cura di W.W. Bartley, London 1982-1983, 3 voll. (trad. it. Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Milano 1984: I. Il realismo e lo scopo della scienza, II. L’universo aperto, III. La teoria dei quanti e lo scisma della fisica); quest’opera fu elaborata da Popper negli anni 1951-1956 e pensata come una serie di appendici alla trad. ingl. della Logik; difficoltà varie ne rinviarono la pubblicazione finché Popper ne consentì l’edizione ad opera del Bartley; ogni volume, di per sé autonomo, è la critica a vari aspetti degli approcci positivistici e soggettivistici della conoscenza fisica e illustra la peculiarità dell’approccio realistico popperiano alla conoscenza. 48 6. Razionalismo critico e società È evidente come questa concezione del mondo riconosca anche all’uomo una sia pur limitata «libertà». Così il razionalismo critico diventa anche strumento di analisi dell’uomo e della società. Esso postula la rinuncia al dogmatismo di una fondazione assoluta del nostro sapere: è il razionalismo di Socrate (470-469 a.C. - 399 a.C.), che dichiarava di sapere di non sapere, e che viene da Popper contrapposto allo pseudorazionalismo di Platone (428-427 a.C. - 348-347 a.C.), all’immodesta fiducia nelle «proprie superiori doti intellettuali», alla «pretesa di essere degli iniziati, di conoscere con certezza e autorità» (Popper 1945; trad. it., vol. II, p. 299). Così come avviene nelle scienze della natura, che procedono per congetture e confutazioni, anche «nel campo sociale abbiamo idee e teorie. Elaboriamo teorie per eliminare i mali della società, tentiamo di valutarne le conseguenze e in base a queste giudichiamo poi le teorie formulate» (Stark 1971; trad. it., p. 61). Contro i profeti delle rivoluzioni radicali della società che, in nome di una sapienza assoluta di cui si sentono depositari, sono disposti a sacrificare anche i propri simili per realizzare le loro utopie, Popper si richiama alla modestia intellettuale di chi sa quanto spesso si sbaglia anche nella scienza, il sapere per eccellenza, e come si dipenda dalla discussione critica con gli altri delle nostre tesi. «La fede nella ragione, anche nella ragione degli altri, implica l’idea di imparzialità, di tolleranza, di rifiuto di ogni pretesa auto ritaria» (ibid., p.62). È stato osservato che talvolta Popper pare non riconoscere la schietta autonomia dell’atto di fede morale con cui decidiamo di attribuire pari dignità ai nostri simili anche quando, difatto, essi sono molto diseguali, in quanto egli invece cerca di derivare questa fede morale dalla fede teorica che ci fa accettare l’uso non assoluto della ragione. Ma, anche se, per il rispetto degli altri, una qualche nuova opzione morale va aggiunta a quella per il razionalismo critico, è fuori dubbio che questo porta alla critica di tutte quelle concezioni della società che presuppongono una conoscenza assoluta delle sue leggi e delle leggi del divenire storico. Ed è in questa prospettiva che si collocano le due opere di Popper La miseria dello storicismo (19441945) e La società aperta e i suoi nemici (1945). 49 Risaliva intatti al 1919 il suo distacco dalla pretesa marxista di aver penetrato il divenire necessario della storia, distacco che aveva avviato Popper verso le tesi della Logik; e quest’opera era appena uscita quando, nel 1935-1936, Popper si recò per la prima volta in Inghilterra, uscendo dall’Austria, «dove allora era al potere una dittatura relativamente mite», ma ove si sentiva pesare la minaccia della Germania nazista. «Nella libera atmosfera d’Inghilterra potevo tirare un respiro di sollievo. Era come se fossero state aperte le finestre. L’espressione ‘societa aperta’ trae origine da questa esperienza» (Stark 1971 trad. it.; p. 39), Trasferitosi nel marzo 1937 in Nuova Zelanda, ove gli era stata offerta una cattedra a Christchurch (e solo nel 1946 tornerà in Europa per insegnare alla London School of Economics), fu là raggiunto dalla notizia dell’annessione nazista dell’ Austria e poi dallo scoppio della guerra. E in Nuova Zelanda compose La miseria dello storicismo e la Società aperta, che egli considera la sua «fatica di guerra». «Pensavo che la libertà potesse ancora una volta diventare un problema centrale, soprattutto per la rinnovata influenza del marxismo. […] Per tale ragione questi libri furono intesi come una difesa della libertà contro le idee totalitarie e autoritariste ed anche come un ammonimento contro i pericoli delle superstizioni storiciste» (Popper 1976, p. 118). Già nel saggio Che cos’è la dialettica?, comparso su «Mind» nel 1940, Popper faceva presente che mentre il metodo dialettico (tesi, antitesi, sintesi) ha alcune affinità con il metodo per prova ed errore, l’interpretazione che della dialettica è stata data da Hegel (1770-1831) e poi dal marxismo fa sì che il metodo dialettico sia diventato uno strumento di difesa dogmatica del proprio sistema, rendendolo sufficientemente elastico per sfuggire alle critiche. «La dialettica ha dunque svolto un ruolo assai infelice non solo nello sviluppo della filosofia, ma anche in quello della teoria politica» (Popper 1940; trad. iL, p. 568). Qualcosa di analogo si può dire, per Popper, anche a proposito dello «storicismo», il termine con cui egli designa tutte quelle dottrine (a sfondo teologico o anche non teologico, come lo storicismo dialettico) che hanno la pretesa di cogliere le leggi di sviluppo della storia umana, sì da prevederne gli sviluppi futuri. In quanto «metodologia» — che si contrappone nelle scienze sociali al criterio della falsificabilità delle scienze naturali — lo storicismo mostra di essere «un metodo povero, incapace di dare i risultati 50 promessi» (Popper 1944-1945; trad. it., p. 63). Non c’è infatti la possibilità di predire con metodi scientifici lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica. Quindi la pretesa storicistica di cogliere le leggi dello sviluppo futuro non è altro che profezia: sia perché non si può confondere l’indicazione di tendenze della società con la determinazione di leggi, sia perché la storia (in un universo «aperto») non ha di per sé un senso, al di fuori di quello che le assegniamo noi. Lo storicismo, d’altra parte, non può essere un metodo scientifico, perché pretende di avere una comprensione globale (olistica) della storia e della società, mentre le nostre congetture teoriche concernono solo aspetti parziali della realtà e sono quindi molte e sempre falsificabili. La conclusione è allora che «tutte le scienze teoretiche e generalizzanti fanno uso dello stesso metodo, siano esse scienze naturali o sociali» (ibid., p. 118). Se la conoscenza scientifica è sempre una conoscenza parziale, vanno respinte anche le conseguenze pratiche dello storicismo: l’utopismo e il totalitarismo, la convinzione di poter calcolare e dominare tutte le conseguenze (non intenzionali) delle nostre azioni intenzionali e la convinzione che chi conosce le supposte leggi della storia possa imporre agli altri la propria pratica politica. Le scienze sociali si sviluppano perché conducono indagini volte ad accertare se una certa azione politica o economica produca un risultato desiderato; caduta la prospettiva storicista, il rapporto corretto tra la metodologia sociale e la pratica sociale è quello che fa di quest’ultima un intervento tecnologico saltuario e non globale sulla situazione che si vuole modificare. Il politico è allora un «ingegnere sociale», che, diversamente da quanto crede lo storicista, sa che i fini ultimi della società sono fuori della sua portata e che solo poche istituzioni sociali sono progettate, mentre la gran parte di esse sono «cresciute come risultato non premeditato di azioni umane» (ibid., p. 68). Anche il politico, ovviamente, può avere ideali che riguardano la società come un tutto, ma la consapevolezza della parzialità di ogni nostra conoscenza, che rende possibile solo una riparazione tecnologica «a spizzico» (piecemeal tinkering), deve preservarlo dalla tentazione di riplasmare la società nella sua totalità come un tutto unico. Si evita cosi anche il totalitarismo a cui conduce l’olismo storicista. Quando si vuole realizzare un progetto globale di trasformazione della società si è costretti ad organizzare anche gli impulsi umani: «Alla richiesta di costruire una 51 nuova società adatta agli uomini e alle donne che vi dovranno vivere, si sostituisce la richiesta che questi uomini e queste donne siano ‘plasmati’ per adattarli alla nuova società» (ibid., p. 72). Tutto al contrario, l’ingegnere sociale, rifuggendo dal mito della perfezione, non si batte per il più grande bene ultimo della società, ma per adottare i metodi idonei a combatterne i mali più gravi e urgenti. Per lui l’esigenza importante della vita non è tanto «di essere resa felice, perché non ci sono mezzi istituzionali atti a rendere un uomo felice, quanto l’esigenza di non essere resa infelice, nei casi in cui l’infelicità può essere evitata» (Popper 1945; trad. it., vol. I, pp. 222-223). La critica dello storicismo comporta quindi anche quella ai «nemici» della società aperta. E anche la stesura delle due opere fu di fatto, intrecciata; anzi, il primo volume di La societa aperta, dedicato al «fascino di Platone», nacque addirittura come ampliamento di una sezione della Miseria dello storicismo (Popper 1976, pp. 118 e 122). Il secondo volume, invece, tratta dell’«alta marea della profezia»: Hegel, Marx (1818-1883) e le gravi conseguenze della «filosofia oracolare» in rivolta contro la ragione critica. Per quanto concerne Marx, tuttavia, Popper, come già in Che cos’è la dialettica?, ritiene valida la sua insistenza sul «materialismo» per bandire quelle teorie che, appellandosi alla natura razionale o spirituale dell’uomo, fondano la sociologia su basi idealistiche o spiritualistiche o sulla pura analisi della ragione. La base materiale dell’uomo ha importanza per la sociologia; ed anche la comprensione dello sviluppo delle idee deve far riferimento alle condizioni in cui esse si sono originate: e tra queste condizioni l’aspetto economico è assai rilevante. Tuttavia Popper respinge l’unilateralità dell’economicismo marxiano; non solo: Marx, adottando la convinzione hegeliana che lo sviluppo sociale deve essere spiegato in termini dialettici, abbandona, secondo Popper, il suo originario antidogmatismo e diventa un profeta, con profezie errate. Le varie forme della filosofia «oracolare» sono dunque i nemici della «società aperta». Ma è lo stesso concetto di «società aperta» (e del suo contrario, la «società chiusa») che nel corso dell’opera acquisisce varie connotazioni, di là da quella legata al senso di sollievo destato in Popper dalla democratica Inghilterra, e all’avversione suscitata in lui dagli orrori della guerra per le dittature. Una di queste connotazioni è di carattere «evoluzionistico»: il passaggio 52 dalla società chiusa a quella aperta sarebbe connesso ad un più generale progresso dell’umanità da una fase magicoirrazionale (in cui prevale la tribù, il gruppo) ad una fase razionale, in cui emerge e si impone l’individuo. V’è già in questa caratterizzazione qualche germe dell’epistemologia evoluzionistica che Popper sosterrà in seguito. Ma è ovvio che se la tesi evoluzionistica può in qualche modo (e con qualche forzatura) valere per l’imputazione popperiana a Platone di essere ancora sostenitore di una concezione politica propria della società chiusa, la tesi stessa è difficilmente applicabile all’età moderna, in cui anche i nemici della societa aperta appartengono al momento razionale e non più a quello magico-irrazionale dell’umanità. Ecco perché acquista rilevanza primaria la connotazione della società aperta, di là dalle vicende storiche dell’umanità, attraverso l’uso tentativo e fallibilistico della ragione, sempre pronta a rivedere e correggere le proprie ipotesi, in contrapposizione all’uso tracotante di essa, che non solo mira a capire come le cose stanno, ma pretende di arrivare a certezze assolute e definitive. La società aperta è quindi il risvolto pratico del razionalismo critico, anche se l’umanitarismo, il valore irripetibile di ogni individuo umano, è un’opzione assiologica che s’aggiunge a quella per il valore della ragione e della discussione critica. La connessione con il razionalismo critico appare chiaramente in una delle caratteristiche indicate da Popper per la società aperta, nell’intervista rilasciata nel 1971 in parallelo ad un’analoga intervista rilasciata dal «rivoluzionario» Herbert Marcuse (1898-1979). Tale caratteristica è che «in una società aperta è possibile la libera discussione e questa discussione esercita un’influenza sulla politica» (Stark 1971; trad. it., p. 39). Non certo disgiunta da questa, ma dipendente anche dall’opzione umanitaria, è la seconda caratteristica: l’esistenza, nella società aperta, di «istituzioni per la protezione della libertà e degli svantaggiati». La tecnologia delle riforme deve tendere a migliorare tali istituzioni, «che proteggono il cittadino economicamente debole da quello economicamente forte». E quello che importa, in una società, «non è tanto chi governa, ma in che modo coloro che governano possono essere influenzati e controllati» (ibid., pp. 39-40). «Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza, cioè giungere alla 53 soppressione fisica dei suoi componenti» (Popper 1945; trad. it., voI. II, pp. 210-211). Le conseguenze politiche che Popper trae dal suo razionalismo critico e, soprattutto, la critica del metodo dialettico in sociologia lo portarono a una polemica con la Scuola di Francoforte. Il tema del convegno della Società tedesca di sociologia, svoltosi a Tubinga nell’ottobre 1961, fu dedicato alla «logica delle scienze sociali», e fu aperto dalle relazioni di Theodor W. Adorno (1903-1969) e Popper (Popper 1962), a cui seguirono le relazioni di Hans Albert (n. 1921) e di Jurgen Habermas (n. 1929), che continuarono poi la discussione, dal punto di vista «razionalistico» e da quello «dialettico», anche dopo il convegno. È significativo che, quando nel 1969 gli atti di quel convegno e di quelle discussioni vennero pubblicati, sia stato dato ad essi dai curatori il titolo di La polemica sul positivismo nella sociologia tedesca, ingenerando così l’impressione, falsa, che il razionalismo critico fosse una semplice appendice del positivismo o del neopositivismo. In realtà, l’autonomia della ricerca scientifica, difesa dai razionalisti critici contro la pretesa dei dialettici di contrapporle una più «profonda» conoscenza filosofica, ha ben poco a che fare con i temi vecchi e nuovi del positivismo. Di là da queste imputazioni, l’esigenza autentica dei «dialettici» è piuttosto quella di evitare che la fredda neutralità della ricerca scientifica renda impotente la sociologia a comprendere le questioni morali di valutazione e di scelta. La polemica contro il presunto positivismo dei razionalisti critici è, indirettamente, una polemica contro la sociologia weberiana, che aveva rivendicato d’essere «libera dal valore» per essere pura descrizione di fatti. Ma anche Max Weber (1864-1920), in effetti, come Popper non esclude affatto le scelte morali, anche se le vede proprie della responsabilità del singolo. Ciò che viene escluso è solo la pretesa storicistica (ma di uno storicismo sapienziale, ben diverso da quello di Weber) di trovare attraverso la dialettica una «legittimazione oggettiva» dell’attività pratica: ossia il far rivivere quel mito dell’assolutezza a cui la scienza d’oggi ha rinunciato. Assai vicino alle posizioni popperiane a proposito delle scienze sociali, a cui è pervenuto indipendentemente, è anche il premio Nobel per l’economia Friedrich August Von Hayek (n. 1899), la cui critica al razionalismo «costruttivista» (la tesi che tutte le istituzioni sociali sono 54 frutto di un progetto deliberato) e da lui stesso accostata alla critica popperiana al razionaismo dogmatico (Hayek 1982; trad. it., p. 42). Così quella che Hayek, mutuando l’espressione da Adam Smith (1723-1790), chiama «la grande società», viene da lui identificata con la popperiana «società aperta», quella in cui milioni di uomini interagiscono, al di fuori delle leggi profonde che gli storicisti s’illudono d’avere scoperto. E in essa «si puo soltanto modificare un insieme nelle sue parti ma non riprogettarlo completamente» (ibid., p. 212). E ciò significa, in politica, seguire quel popperiano piecemeal social engineering con cui Hayek concorda pienamente, sebbene non ami tale espressione (ibid., p. 547). Direttamente legato al pensiero di Popper nel campo della metodologia sociale è Hans Albert (n. 1921), che sin dal 1960 usò l’espressione «razionalismo critico» — introdotta da Popper in La società aperta — per indicare nel complesso il pensiero popperiano (Albert l960). E Albert ha sviluppato i temi del razionalismo critico sia nella polemica con Habermas, a metà degli anni Sessanta, sia nel Traktat über kritische Vernunft del 1968. In quest’opera Albert si propone di superare la «neutralità del pensiero analitico» e contrappone «all’impegno totale delle problematiche teologiche e quasiteologiche, e alle sue connotazioni antiliberali, un impegno critico per un pensiero razionale, e per la ricerca disinteressata della verità e di soluzioni aperte di problemi che permettano una revisione alla luce di nuovi punti di vista» (Albert 1968; trad. it., pp. 14-15). Hanno certo ragione i dialettici nel ritenere che le scienze sociali non possono fare a meno di operare con enunciati che hanno per oggetto delle valutazioni, ma il razionalismo critico, in opposizione al positivismo, mette appunto in luce che sempre il processo cognitivo è guidato da norme, valutazioni e decisioni: «siamo noi che scegliamo i nostri problemi, che privilegiamo alcune soluzioni rispetto ad altre, in base ad una decisione che non è certo esente da componenti valutative» (ibid., p. 79 ). Ciò, tuttavia, non impedisce, nella prospettiva falsificabilista della scienza, di fare oggetto di conoscenza (cioè di analisi oggettiva) relazioni e nessi tratti dalla problematica valutativa. La critica alle ideologie non significa dunque per i criticisti la purificazione degli usi linguistici mediante una (impossibile) eliminazione dei termini di valore, come volevano i positivisti vecchi e nuovi. Si tratta piuttosto di 55 «mitigare l’irrazionalità della vita sociale col mettere a disposizione i risultati e i metodi del pensiero critico rendendoli, così, fecondi per la formazione della coscienza sociale e quindi dell’opinione pubblica; il compito, insomma, dell’illuminismo» (ibid., p. 113). In campo politico, gli utopisti vedono solo i difetti del sistema attuale e perorano il suo rovesciamento radicale. Qualcosa di analogo a ciò che fanno i conservatori, i quali si accontentano dell’esistente, in quanto scorgono nelle alternative radicali solo l’utopia. La politica razionale, a cui mira il criticismo, non ignora che in ogni società esistono stati di fatto criticabili. Ma richiede che quando gli ideali intervengono nella considerazione politica essi si traducano in alternative concrete. Ci si può «confrontare criticamente nel pensiero politico — così come nella conoscenza scientifica — con la tradizione, vale a dire con le strutture sociali che ci sono state tramandate. Si considererà la tradizione come un insieme di tentativi fatti, e in parte istituzionalmente consolidati, in vista della soluzione di problemi sociali e politici, relativamente ai quali ci si deve domandare in che misura tali tentativi abbiano provato il loro valore e dove stiano i pregi e i difetti delle soluzioni proposte» (ibid., p. 219). Anche in sociologia e in politica, dunque, servendoci del titolo dell’autobiografia popperiana, si può dire che «la ricerca non ha fine». Bibliografia Per un più ampio esame delle tesi di Popper circa la metodologia delle scienze sociali e della politica, cfr. i due seguenti volumi: Popper, K.R., Il pensiero politico, a cura e con vasta introd, di A.M. Petroni, Firenze 1981. La sfida di Popper, Roma 1981 (volume miscellaneo con scritti di D. Antiseri, M.Baldini, F.Barone, M. Martini, V. Mathieu, L. Pellicani, M. Pera e F. Tarantini). Albert, H., Der kritische Rationalismus Karl Raimund Poppers, «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», 1960, XLVI, pp. 391-415 (già nel 1959 Adrienne Koch aveva intitolato «razionalismo critico» la scelta di brani da La società aperta, nella sua antologia Philosophy for a time of crisis, New York 1959). 56 Albert, H., Traktat über kritische Vernunft, Tübingen 1968 (trad. it. Per un razionalismo critico, Bologna 1973). Hayek, F. A., Law, legislation and liberty, London 1982 (trad. it. Legge, legislazione e libertà, Milano 1986); le tre parti di cui consta l’opera: «Regole e ordine», «Il miraggio della giustizia sociale», «Il sistema politico di un popolo libero», erano già uscite separatamente, prima dell’ed. del 1982, rispettivamente nel 1973, nel 1976 e nel 1979. Popper, K.R., What is dialectic?, «Mind», 1940, XLIX, pp. 403-426 (trad. it. in Popper, K.R., Congetture e confutazioni, Bologna 1972 pp. 531-570). Popper, K.R., The poverty of historicism, comparso in tre puntate su «Economica», 1944, XI-1945, XII (trad. it., in volume, con il titolo Miseria dello storicismo, Milano 1954; e poi in nuova ed., da cui si cita, Milano 1975). Popper, K.R., The open society and its enemies, London 1945, 2 voll. (trad. it. La società aperta e i suoi nemici, Roma 1974). Popper, K.R., Die Logik der Sozialwissenschaften, «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 1962, II, pp. 233-248 (il saggio fu poi ristampato in Maus, M., Fürstemberg, F. (a cura di), Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Neuwied-Berlin 1969; di questo volume esiste la trad. it. Dialettica e positivismo in sociologia, Torino1972). Popper, K.R., Unended quest: an intellectual autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma l986). Stark, F., Revolution oder Reform? Herbert Marcuse, und Karl Popper. Eine Konfrontation, München 1971 (trad. it. Marcuse, H., Popper, K.R., Rivoluzione o riforme? Un confronto, trad. di P. Massimi, Roma 1977). 57 7. L’ultimo trentennio Questo capitolo e il suo titolo, come già è stato per il capitolo primo, hanno funzione di chiarimento terminologico. E valgono come giustificazione del fatto che si è ritenuto opportuno trattare partitamente, nei vari capitoli che seguono, le varie dottrine epistemologiche affacciatesi in quest’ultimo trentennio (a partire cioè dagli anni Sessanta), indicando via via i rapporti con le dottrine epistemologiche di cui già si è trattato ed i nuovi problemi che sono stati affrontati. Come tutte le indicazioni cronologiche, anche «l’ultimo trentennio» ha un valore puramente indicativo, da non prendersi in senso rigido. In esso sono infatti comparse sia opere di neopositivisti (tra cui abbiamo ricordato quelle di Carnap e di Hempel) sia opere di Popper. E, d’altra parte, vi sono opere di autori diventati rappresentativi dell’ultimo trentennio, le quali sono state pubblicate prima del 1960. I Patterns of discovery di Norwood Russell Hanson (19241967) sono del 1958; del 1953 è Philosophy of Science di Stephen Toulmin (n. 1922), e Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache di Ludwik Fleck (18961961) è addirittura del 1935, cioè dei tempi della fioritura del Wiener Kreis. Ma, analogamente a quel che si è detto a proposito del termine «neopositivismo», anche l’espressione «ultimo trentennio» ha una sua utilità, perché indica l’immagine che i contemporanei si sono fatta dell’epistemologia di tale periodo: un’immagine che la contrappone o la differenzia rispetto all’epistemologia precedente, sia neopositivistica sia popperiana. Si è anche proposta, in merito, l’espressione «epistemologia post-popperiana». Ritengo però preferibile la convenzione puramente cronologica che ho indicato sopra, perché essa, non essendovi un riferimento specifico a Popper, evita di far pensare che tutta l’epistemologia più recente sia in funzione polemica contro il «razionalismo critico». Non c’è dubbio che tale polemica ci sia stata e ci sia: Thomas Kuhn e Paul Feyerabend ne sono i principali alfieri e, in alcuni ambienti culturali, soprattutto su essa si è soffermata l’attenzione. Ma il panorama di tale epistemologia è assai più variegato e vi sono in essa tendenze importanti che riprendono e rielaborano temi del razionalismo critico: così è in Imre Lakatos (1922-1974) e in John Watkins (n.1920), e in tutte le rielaborazioni 58 dell’istanza «realistica» della conoscenza comune e scientifica. D’altra parte, l’epistemologia degli ultimi trent’anni non è qualcosa di conchiuso, come invece di fatto è per il neopositivismo del Wiener Kreis e per il razionalismo critico nei loro tratti di fondo. È un’ epistemologia tuttora in itinere, per cui è difficile staccarsi dalla cronaca per darne una ricostruzione storiografica che ne ordini gli eventi, in una qualche prospettiva, secondo una linea unitaria. Tale situazione non impedisce tuttavia di individuare alcune questioni attorno a cui si è accentrata la discussione e alcune tendenze di soluzione. Ma, in questi tentativi di ricostruzione dell’attualità, giocano le propensioni e le scelte teoriche di chi li attua in modo assai più incisivo di quanto ciò non avvenga già nella ricostruzione di scenari storici lontani. Ecco perché nell’abbozzare una storiografia dell’epistemologia più recente conviene guardarsi dall’indulgere a troppo sicure ricostruzioni. Dalla sicurezza di chi scorge in tale epistemologia una «svolta radicale», una «rivoluzione», rispetto tanto all’empirismo logico quanto al razionalismo critico: ossia il passaggio a un nuovo concetto di «scienza», cioè dell’oggetto stesso dell’epistemologia. Ma anche dalla sicurezza di chi, negando che ci sia stata tale rivoluzione a partire dagli anni Sessanta, interpreta gli eventuali mutamenti solo come ripresa ed approfondimento di problemi già ampiamente trattati. Non conviene mai abusare, a proposito della scienza e della riflessione su di essa, di quel termine «rivoluzione», che ha fatto fortuna in campo politico; e non conviene tuttavia nemmeno disconoscere l’effettiva efficacia culturale di alcune idee «nuove», dilettandosi nel ricercarne le anticipazioni lontane, che tale efficacia culturale non ebbero. Le vicende storiche sono sempre mescolanze di vecchio e di nuovo. Ma il gioco delle «anticipazioni» va giocato con prudenza. Altrimenti si rischia, come s’e visto nel capitolo primo, di disconoscere la posizione culturale del neopositivismo, trovandovi già la nuova filosofia della scienza, che poi è liquidata come non nuova proprio perché già c’era nel neopositivismo. E la conclusione è che un’epistemologia così stagnante serve a ben poco. Una conclusione disarmante, al pari di quella, appentemente contraria, di coloro che ad ogni momento vedono una 59 «rivoluzione» epistemologica e finiscono in tal modo di svalutare, considerandoli «superati», i momenti precedenti. 60 Bibliografia Mi limito qui ad indicare alcuni scritti documentanti le interpretazioni dell’epistemologia degli ultimi trent’anni, o come «rivoluzione» dell’epistemologia precedente, o come mera «ripetizione» di temi già presenti in quella. Per la prima alternativa: Hesse, M., Revolutions and reconstructions, Brighton 1980. Jacob, P., L’empirisme logique: ses antécédents, ses critiques, Paris 1980. Per la seconda alternativa, in polemica con la prima: Rossi, P., I rapporti fra storia della scienza e filosofia della scienza, in Agazzi, E. (a cura di), La filosofia della scienza in Italia nel ‘900, Milano 1986, pp.303-316. Rossi, P., I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, Bologna 1986. Per una discussione sull’ unilateralità delle due posizioni: Barone, F., Epistemologia e storia della scienza, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1987, V, 3-4, pp. 49-58. 61 8. Sviluppi del falsificazionismo e filosofia della scoperta Che ci possa essere innovamento senza rivoluzione risulta dall’opera di Imre Lakatos (1922-1974), che esplicitamente si connette con il razionalismo critico popperiano. Lakatos (pseud. di Lipschitz), di famiglia ebrea ungherese perseguitata dai nazisti, aderì al marxismo e studiò in Ungheria con Árpád Szabo, che l’avviò alla conoscenza degli scritti di matematica e filosofia della matematica del suo maestro George Polya (1887-1985), di cui Lakatos tradusse opere in ungherese, e di cui condivise l’attenzione per l’importanza dell’ ars inveniendi in matematica, che non è solo dimostrazione rigorosa, ma anche procedimento ipotetico «fondato su congetture» (Polya 1945; trad. it., p. 124). Incarcerato per il suo antistalinismo, Lakatos abbandonò il marxismo e l’Ungheria dopo la rivolta del 1956 e, trasferitosi in Inghilterra, si addottorò a Cambridge e, poi, divenne professore di logica e filosofia della matematica alla London School of Economics, ove entrò in contatto con Popper. Nella sua tesi inglese di dottorato, che poi divenne la base del suo saggio su Proofs and refutations del 19631964, Lakatos dichiarava il suo debito verso Polya; e tutta la sua successiva ricerca sulla filosofia della matematica fu una rivendicazione dell’irriducibilità della matematica alla sua formalizzazione. Non che Lakatos negasse l’importanza della teoria della dimostrazione o la potenza tecnica della metamatematica come sintassi del linguaggio matematico (nel senso carnapiano della sintassi); ma egli mostrava l’insostenibilità del dogmatismo formalistico sia con riferimenti alla matematica greca (Pappo, fine III sec. d.C.) sia con riferimenti alla matematica ottocentesca: una «dimostrazione può essere rispettabile anche senza essere impeccabile». Di là dal campo delle ferree dimostrazioni, v’è posto anche in matematica per congetture il cui credito dipende dai retroterra culturali e scientifici del tempo. Con questa concezione della matematica, Lakatos si scostava non solo dalla tradizione neopositivistica (fondata sulla rigida distinzione di sintetico/analitico), bensì anche dal razionalismo critico di Popper, che pur aveva teorizzato il procedimento di «congetture/confutazioni», ma solo a proposito delle scienze empiriche. Popper, infatti, 62 rifacendosi alla distinzione di Reichenbach tra «contesto della scoperta» e «contesto della giustificazione», riteneva che la prima procedura, quella del trovare un’ipotesi, «non poteva essere ricostruita razionalmente» (Popper 1935; trad. it., p. 349). Nel razionalismo critico c’era dunque una persistenza del concetto di «ragione» come procedura deduttivistica, sicché la matematica conservava ancora il volto di un insieme di verità necessarie. L’estensione della congettura al procedimento matematico, dava anche a questo le caratteristiche della storicità e della fallibilità. Era del tutto giustificato che, nella tesi di dottorato, Lakatos indicasse tra le «fonti» della sua ricerca anche la filosofia critica di Popper oltre all’ «euristica matematica di Polya» (ossia una logica della scoperta). Attraverso l’attenzione alla matematica c’era sì un «innovamento» ma non una «rivoluzione» nei confronti di Popper. A cui, del resto, Lakatos dovette anche l’abbandono della sua iniziale convinzione che la dialettica hegeliana fosse una forma di fallibilismo utile per comprendere lo sviluppo del pensiero matematico. Egli farà sua la critica popperiana, sicché gli parve che la dialettica spieghi «il mutamento senza la critica» e che, per l’hegelismo, «il mutamento dei quadri concettuali è un processo predeterminato e inevitabile, in cui la creatività individuale o la critica razionale non svolgono un ruolo essenziale» (Lakatos La falsificazione, 1976; trad. it., p. 27n). Qualche tema hegeliano continuò tuttavia ad influenzare Lakatos: l’approccio storico al problema della conoscenza, sia di quella matematica sia di quella empirica. Contro i popperiani troppo ortodossi egli osserverà addirittura d’essere fermamente convinto che persino «la miseria dello storicismo è meglio della sua completa assenza — sempre provvedendo, naturalmente, che sia maneggiato con la cura necessaria, allorché si ha a che fare con degli esplosivi» (Lakatos 1978; trad. it., vol.II, p. 6l). Anche la «metodologia dei programmi di ricerca scientifica», che è il contributo di maggior risonanza dato da Lakatos all’epistemologia, nasce come una ripresa critica del falsificazionismo popperiano: il tema è ancora quello della demarcazione della scienza dalla non-scienza. Si tratta quindi, per Lakatos, di delineare un criterio metodico di scientificità, che abbia tuttavia nei confronti del falsificazionismo popperiano una maggior elasticità nel rendere conto dell’effettivo procedere della ricerca scientifica e che sia in grado di obiettare alle critiche degli 63 anti-popperiani, che scorgono in tale procedere una smentita ad ogni pretesa di criteri metodologici che non siano pragmatici e che, come vedremo, Thomas Kuhn identifica con le decisioni o convenzioni della comunità scientifica, e Paul Feyerabend addirittura con le imposizioni delle élites più potenti e prepotenti. Tra gli estremi dell’induttivismo neopositivista (che traformava la questione della demarcazione in una questione di significanza) e la distruzione dell’epistemologia attuata da coloro che respingono il problema della demarcazione, in quanto vedono nella scienza qualcosa di intrinsecamente non diverso dall’ideologia, Lakatos si pone in una posizione mediatrice attraverso la rielaborazione in senso dinamico del criterio popperiano di demarcazione. V’è un falsificazionismo dogmatico, che ritiene le congetture confutabili mediante falsificazioni infallibili: ed è caratteristico dell’empirismo radicale degli induttivisti. V’è un falsificazionismo metodologico ingenuo, che Lakatos scorge nella Logik popperiana, per cui la falsificazione non è infallibile, data la natura delle asserzioni-base, che secondo Popper hanno anch’esse il carattere di ipotesi. Anche tale falsificazionismo, non è tuttavia soddisfacente perché, in contrasto con l’effettivo sviluppo della ricerca scientifica, rappresenta questa come una serie di duelli tra una teoria ed i fatti. La proposta di Lakatos è quella di un falsificazionismo metodologico sofisticato, in cui il confronto è sempre tra almeno due teorie rivali ed i fatti. Ciò rende conto del perché in genere gli scienziati non lascino cadere subito una teoria se qualche fatto la falsifica, ma la abbandonino soltanto quando dispongono di un’altra teoria che spieghi i fatti spiegati dalla prima, oltre il fatto che falsificava quella. Da qui viene l’idea di fondo dell’epistemologia di Lakatos che la scienza sia stata e debba essere una competizione tra programmi di ricerca rivali. Popper (Popper 1976; trad. it., p. 224 n. 242) dice che l’espressione «programma di ricerca metafisico» fu da lui usata a lezione fin dal 1949 e che poi passò nelle bozze dell’ultimo capitolo del Postscript da lui messo a disposizione dei colleghi fin dal 1957. E Lakatos non nega che il suo concetto di «programma di ricerca» si collochi in questa tradizione. Ma egli ne dà uno sviluppo assai articolato, con l’intento di determinare un criterio logico della scientificità, che sia in condizione di rendere conto più adeguatamente della dinamica storica della scienza. 64 Un programma di ricerca è un complesso articolato in vari elementi. Vi è un «nucleo», la dottrina originaria (come le tre leggi della dinamica nella concezione newtoniana della gravitazione), che si decreta non essere confutabile da parte di esperienze contrarie. Ed attorno al nucleo v’è un’«euristica negativa» ed un’ «euristica positiva». La prima è conseguenza della decisione sull’inconfutabilità del nucleo, e mira a far sì che le eventuali anomalie le quali sembrano mettere in questione il programma, portino a cambiamenti solo nella «cintura ‘protettiva’ delle ipotesi ausiliarie, delle ipotesi ‘osservative’ e delle condizioni iniziali» (Lakatos, La falsificazione, 1976, trad. it., pp. 6263). Con l’euristica negativa si riconosce il peso del convenzionalismo nella ricerca scientifica; ma con un limite: che il nucleo di un programma può essere difeso solo finché il programma stesso non «cessa di anticipare fatti nuovi» (ibid., p. 64). Entra così in gioco l’euristica positiva, la quale traccia «un programma che configura una catena di modelli sempre più complicati che simulano la realtà» (ibid.). In tal modo il nucleo originario genera una serie di teorie, tale che ogni teoria avanzata spieghi le anomalie della precedente: e la serie è «progressiva» se ciascuna teoria ha un contenuto empirico superiore a quelle precedenti e permette di «scoprire» fatti nuovi. Mediante questa complessa ricostruzione razionale della ricerca, Lakatos può distinguere tra programmi di ricerca «progressivi» e «regressivi» o «in stagnazione», cioè tra programmi scientifici e non scientifici. «Un programma di ricerca si dice progressivo fin quando la sua crescita teorica anticipa la sua crescita empirica, ossia fin quando continua a predire fatti nuovi con un certo successo [...]; è in stagnazione [invece] quando si limita a dare spiegazioni post hoc di scoperte casuali o di fatti anticipati, nell’ambito di un programma rivale» (Lakatos, La storia della scienza, 1976, trad. it., p. 143). La metodologia dei programmi di ricerca dà così una risposta al problema della demarcazione tra scienza e non scienza. Mentre persiste la possibilità della demarcazione, contro la tesi degli irrazionalisti, che una rivoluzione scientifica sia una specie di conversione religiosa o di cambiamento di fede, è tuttavia evitata la rigidezza del falsificazionismo popperiano che pretendeva la controllabilità di principio e l’esclusione di ogni aggiustamento teorico ad hoc . Popper, secondo Lakatos, trascura il fatto che gli scienziati hanno la pelle dura e non 65 abbandonano una teoria solo perché alcuni fatti la contraddicono. La demarcazione si può fare se si tiene presente la caratteristica di tutti i programmi di ricerca progressivi: predicono fatti nuovi, fatti che o non erano stati immaginati o erano addirittura contraddetti in programmi precedenti o rivali. Così è stato per il programma newtoniano, che riuscì a prevedere esistenza e l’esatto moto di piccoli pianeti mai osservati prima. O per il programma della relatività einsteiniana, che predisse nel 1916 la deviazione dei raggi di luce passanti vicino al campo gravitazionale del Sole, deviazione controllata poi nel 1919. Al contrario, i programmi di ricerca regressivi o pseudoscientifici inventano teorie solo al fine di accogliere i fatti noti. E il caso del marxismo che non ha mai predetto con successo un fatto nuovo e sorprendente. Ha invece fatto famose predizioni fallite. Ha predetto l’impoverimento assoluto della classe operaia. Ha predetto che la prima rivoluzione socialista avrebbe avuto luogo nelle società industrialmente più sviluppate. Ha predetto che non si sarebbero realizzate rivoluzioni nelle societa socialiste. Ha predetto che non ci sarebbe stato alcun conflitto di interessi tra i paesi socialisti. Cosi le prime predizioni del marxismo erano audaci e sorprendenti ma fallirono. I marxisti hanno spiegato tutti questi fallimenti. Hanno spiegato i miglioramenti degli standard di vita della classe operaia per mezzo di una teoria dell’imperialismo; hanno spiegato anche perché la prima rivoluzione socialista ebbe luogo nella Russia industrialmente arretrata. Hanno ‘spiegato’ il 1953 di Berlino, il 1956 di Budapest e il 1968 di Praga. Hanno spiegato il conflitto russo-cinese. Ma le loro teorie ausiliari erano tutte inventate con il senno di poi, per proteggere la teoria marxiana dai fatti. Il programma newtoniano condusse a fatti nuovi; quello marxiano è rimasto indietro rispetto ad essi e ha corso veloce mente per raggiungerli» (Lakatos 1979, I, p.9). Anche a proposito del marxismo, dunque, Lakatos riprende la polemica popperiana, inserendo tuttavia originalmente l’antistoricismo di questa nella sua metodologia dei programmi di ricerca. Le critiche di Lakatos alla forma popperiana del «razionalismo critico» sono quindi tutt’altro che marginali. Anche sull’anti-induttivismo popperiano egli ha delle riserve e avanza un appello per un «pizzico di induttivismo» in nome della stessa concezione popperiana 66 della verità come corrispondenza e per evitare l’interpretazione scettica della sua epistemologia (cfr. Lakatos 1974). Ma, nonostante tutte queste critiche, Lakatos conserva del razionalismo critico la fondamentale assunzione della distinguibilità della ricerca scientifica da altre forme culturali e il presupposto «realistico» che è a base di tale assunzione. Essa diventa possibile solo in una prospettiva metafisica realistica, nel senso di interpretare il processo concettuale e linguistico del conoscere come inteso a capire, sia pur parzialmente, un qualcosa che non è riducibile al processo stesso. Attraverso l’opera di Lakatos, come attraverso quella di altri pensatori che si possono considerare quali prosecutori del «razionalismo critico», si riesce a scorgere nell’istanza del realismo uno dei contrassegni tipici per uno dei filoni dell’epistemologia di questi ultimi trent’anni. L’altro filone (su cui torneremo) poggia invece sulla negazione dell’istanza realistica. Il problema del «realismo», sulle cui soluzioni si continua a discutere, può quindi essere indicato come la questione centrale di tale epistemologia. Una conferma di ciò la si ha anche dall’esame delle tesi epistemologiche di alcuni popperiani «ortodossi», che non sono tuttavia dei semplici glossatori di Popper, in quanto ne discutono tesi centrali. Mi riferisco a Joseph Agassi (n. 1929), che ha conseguito il dottorato a Londra con Popper ed insegna alla Boston University, ed a John Watkins, che di Popper è il successore alla London School of Economics. Per quanto essi insistano più di Popper sull’importanza della metafisica per la ricerca scientifica, respingendo l’identificazione di metafisica e pseudoscienza, tanto Agassi quanto Watkins tengono saldo, pur nelle variazioni, il tema «realistico». Agassi, ad esempio, ritiene che l’identificazione popperiana della razionalità con il dibattito critico vada integrata con l’indicazione dello scopo specifico del dibattito. E tale scopo, per la scienza «è favorire la vera spiegazione dei fenomeni — ma solo in parte. Essa non si vuole occupare di tutti i fenomeni contemporaneamente; cerca però di fornire la vera visione del mondo, il vero piano metafisico dell’universo. La scienza pertanto non si limita a proporre spiegazioni da esaminare, ma è inizialmente associata a teorie metafisiche entro cui inserire le teorie scientifiche in forme che possono a loro volta essere criticamente esaminate» (Agassi 1963; trad.it., p. 55). 67 Analogamente, per Watkins, «l’oggettivismo costituisce una rilevante tendenza di tutta la filosofia di Popper»; e tale oggettivismo nasce dalla combinazione di due idee. «La prima idea è quella del realismo, vale a dire l’assunto che il mondo esista ‘là’, largamente indipendente dalle nostre attività. La seconda idea è quella che la scienza anch’essa esista ‘là’, largamente indipendente dai nostri processi mentali». E non solo perché teorie ed esperimenti sono registrati in più libri di quanti una persona possa leggere; ma perché «il contenuto, ossia il significato oggettivo di una teoria scientifica resa di pubblica ragione, deve trascendere la comprensione che di essa qualunque persona può avere». Quindi, «la scienza esiste oggettivamente e concerne un mondo che esiste oggettivamente» (Watkins 1981, pp. 145-146). E, in un volume recente, criticando la tesi popperiana della Logik, secondo cui la scelta di uno scopo della scienza «oltrepassa l’ambito di una discussione razionale», fa presente che, per sconfiggere lo scetticismo nei confronti della razionalità, vi sono alcuni requisiti irrinunciabili da parte di qualsiasi scopo proposto o proponibile per la scienza: «essere coerente; essere praticabile, guidarci nella scelta fra teorie o ipotesi rivali; essere imparziale; avere a che fare con l’idea di verità» (Watkins 1984; trad. it., p. 18). «Dire che la verità non fa parte dello scopo della scienza è un po’ come dire che guarire non fa parte dello scopo della medicina, o che il profitto non fa parte dello scopo del commercio», (ibid., p.2l). Ciò non ha nulla a che vedere con l’acquisizione di certezze. «Le teorie scientifiche, per quanto meravigliose, nel migliore dei casi sono soltanto possibilmente vere. Esse sono soggette al controllo negativo dell’esperienza; questo controllo è molto severo ma non dà loro nessun sostegno positivo, nessun appiglio induttivo, e le lascia navigare nell’oceano dell’incertezza» (ibid., p. 192). Bibliografia Agassi, J., Towards an historiography of science, ‘sGravenhage 1963 (trad. it. La filosofia dell’uomo libero. Verso una storiografia della scienza, Roma 1978). Agassi, J., Epistemologia, metafisica e storia della scienza, con introd, di M.Baldini, Roma 1978 (comprende gli articoli: Scienza in divenire. Note a Popper, del 1968; Della 68 novità, del 1968; La confusione tra fisica e metafisica nella storiografia convenzionale della scienza, del 1964; La confusione tra scienza e tecnologia nella filosofia convenzionale della scienza, del 1966). Agassi, J., Le radici metafisiche delle teorie scientifiche, Roma 1983. Lakatos, I., Proofs and refutation, «British journal for the philosophy of science, 1963-1964, XIV, pp.1-25, 120-139, 221-243, 296-342; ed.critica a cura di J. Worrall e E. Zahar, Cambridge 1976 (trad.it. Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica, Milano 1979). Lakatos, I., La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976, pp. 164-276 (e in Lakatos, I., Scritti filosofici, I: La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Milano 1985, pp. 11-130, da cui si cita). Lakatos, I., La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, cit., pp. 366-408 (e in Lakatos, I., Scritti filosofici, cit., voi, I, pp. 131-176, da cui si cita). Lakatos, I., Popper on demarcation and induction, in Schilpp, P. A. (a cura di), The philosophy of Karl Popper, La Salle 1974, pp. 241-273 (trad. it. in Lakatos, I., Scritti filosofici, cit., vol. I, pp. 177-213). Lakatos, I., Philosophical papers, I: The methodology of scientific research programmes, Vol. I, Cambridge-New York 1978 (trad. it. Scritti filosofici, I: La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Milano 1985). Lakatos, I., Philosophical papers, II: Mathematics, science, and epistemology, VoI. II, Cambridge-New York 1978 (trad. it. Scritti filosofici, II: Matematica, scienza ed epistemologia, Milano 1985). Su Lakatos, cfr.: Linguiti, G. L., Imre Lakatos e la «filosofia» della scoperta, Lucca 1981. Polya, G., How to solve it. A new aspect of mathematical method, Princeton 1945 (trad. it. Come risolvere i problemi di matematica, Milano 1976). Polya, G., Mathematical discovery: on under standing, learning and teaching problem solving, New York 1962- 69 1965, 2 voll. (trad. it. La scoperta matematica, Milano 1970 -1971, 2 voll.). Popper, K.R., Logik der Forschung, Wien 1935 (trad. it. Logica della scoperta scientifica, Torino 1970). Popper, K. R., Unended quest: an intellectual autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma 19862). Watkins, J., Libertà e decisione, con introd. di M. Baldini, Roma 1981 (comprende: The human condition, del 1976; Imperfect rationality, deI 1970; Towards an unified decision theory, del 1977; The unity of Popper ‘s thought, del l974; Three wiews concerning human freedom, del 1975). Watkins, J., Tre saggi sulla metafisica, Roma 1983. Watkins, J., Science and scepticism, London 1984 (trad. it. Certezza e verità. Per un’epistemologia postpopperiana, Roma-Bari 1986). 70 9. Un cambiamento di Gestalt nell’epistemologia Già si è visto, a proposito di Lakatos, com’egli accantonasse la distinzione, che Popper accettava da Reichenbach, tra «contesto della giustificazione» e «contesto della scoperta». Quando la rinuncia a tale distinzione venne enfatizzata, in modo che neopositivismo e razionalismo critico, pur diversissimi, furono visti convergere nell’attenzione esclusiva per il «contesto della giustificazione», si ebbe in campo epistemologico una «svolta», in cui gradualmente divenne dominante e talvolta esclusivo l’interesse per il «contesto della scoperta». Kuhn ha parlato di un «diverso orientamento gestaltico» (Kuhn 1976, trad. it., p. 71). E’ noto agli studiosi della Gestaltpsychologie che si possono vedere «forme» diverse (ad es. la testa di un’anatra col becco o il muso di un coniglio con le orecchie) in uno stesso insieme di linee. E su questo salto qualitativo nel percepire si era soffermato anche il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (1953). Qualcosa di analogo sarebbe dunque accaduto nella considerazione degli aspetti della ricerca scientifica: mentre prima vi si vedeva solo l’ «oggettivo» della «logica della conoscenza», ora si vede invece d’un tratto il «soggettivo» della «psicologia della conoscenza». È ovvio che il mutamento gestaltico dipende da impliciti presupposti teorici circa la «natura» della scienza. Nel condizionamento di questa svolta gestaltica entrarono in gioco molti fattori. Tra essi vi fu certamente l’attenuazione del contrasto tra «teorico» e «empirico» nella dottrina fisicalistica dei «protocolli», attenuazione ch’è presente anche nella tesi popperiana del carattere «ipotetico» delle «asserzioni-base». A ciò si aggiunge la sopra ricordata concezione della visione come interpretazione, sostenuta dal Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. E sempre in quest’opera Wittgenstein con la teoria dei «giochi linguistici» aveva proposto una dottrina del significato sia dei termini sia degli enunciati come l’uso che di essi si fa all’interno di un contesto.E signicativo che il riferimento al «secondo Wittgenstein» (in contrasto con l’esclusivo interesse dei neopositivisti per il Tractatus) sia ben presente nei realizzatori del nuovo orientamento epistemologico. Stephen Toulmin (n. 1922), ad esempio, che di Wittgenstein fu allievo a Cambridge, si richiama 71 esplicitamente a lui sin da The philosophy of science del 1953, in cui (p.12) si parla del passaggio da una teoria scientifica ad un altra come di «una sostituzione di linguaggio». Analogamente anche Hanson in Patterns of discovery (1958), si rifà alla teoria wittgensteiniana della visione come interpretazione; ed alle Ricerche filosofiche si riferiscono spesso tanto Kuhn quanto Feyerabend. Ma si può spingere ancora oltre la ricerca delle «fonti» del nuovo orientamento. Kuhn stesso, per esempio, riconosce su di sé l’influsso di Michael Polanyi (18911976), che sin da Science, faith and society (1946) sviluppa temi epistemologici poi ripresi soprattutto in Personal knowledge (1958) in contrasto con la rigidità e il formalismo della metodologia neopositivistica. Non c’è per Polanyi la possibilità di far accettare una teoria scientifica mediante prove «obiettive»: «operazioni formali che si basino su un quadro interpretativo non possono dimostrare un enunciato a persone che si basino su un altro quadro» (Polanyi 1958, p.15l). E Kuhn riconosce ancora un debito anche più lontano nei confronti di Ludwik Fleck (18961961) il medico e microbiologo ebreo-polacco, che dallo studio della diagnosi della sifilide aveva, in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico (1935), elaborato una teoria generale dello «stile» e del «collettivo» del pensiero scientitico, in cui la ricerca appare fortemente condizionata dalla psicologia della scoperta e dalle convinzioni collettive di comunità e gruppi scientifici. «Ogni scoperta empirica può perciò essere concepita come una integrazione dello stile di pensiero, oppure come una sua trasformazione o evoluzione» (Fleck 1935; trad. it., p. 167). Come già si è osservato nel paragrafo 7, sarebbe però pericoloso indulgere troppo nella ricerca delle «fonti» del mutamento di orientamento gestaltico in epistemologia, correndo il rischio di non percepirne la specificità e il peso culturale, che si ha solo quando le varie «anticipazioni» confluiscono in una nuova forma percepita dal pubblico come tale. Nel caso nostro, d’altra parte, questa nuova forma è così variegata, in conseguenza degli «stili» diversi dei vari autori che hanno contribuito a costituirla, che sarebbe altrettanto pericoloso pensare che il riorientamento gestaltico dell’epistemologia sia frutto di una «scuola». I rappresentanti della «nuova filosofia della scienza» sono così eterogenei che, ancor meno che per i neopositivisti, è opportuno parlare di «scuola» nei loro riguardi. In proposito è esemplare il caso di Polanyi, che Kuhn cerca di assimilare 72 alla propria dottina dei paradigmi, cioè dell’importanza degli imperativi socio-psicologici delle comunità scientifiche per la ricerca, mentre la «conoscenza tacita» o «personale» su cui insiste Polanyi si oppone tanto alla pretesa neopositivistica di fissare regole e definizioni in generale per la scienza, quanto ai «nuovi filosofi», che nel passaggio dal contesto della giustificazione a quello della scoperta polemizzano sì contro le generalizzazioni neopositivistiche, ma per introdurne altre. Ciò che Polanyi vuole sottolineare è l’importanza dell’atteggiamento personale del ricercatore (non definibile in generale), tutto permeato di assunzioni assiologiche, atteggiamento non riducibile alle regole logiche o sociali, pur necessarie, della giustificazione o della scoperta. Con questa duplice avvertenza, di non prendere troppo alla lettera né le riduzioni storiografiche al passato né l’appiattimento nell’ uniformità del riordinamento gestaltico, si possono tuttavia indicare alcuni tratti comuni tra i «nuovi filosofi della scienza», tratti che spiccano nella ricezione culturale da parte dei contemporanei. La miglior ricetta contro le generalizzazioni unilaterali rimane non di meno sempre quella della lettura diretta delle opere di tali autori. Un tratto caratteristico del suddetto riordinamento, oltre a quello già ricordato del privilegiamento del contesto della scoperta, è stato il riconoscimento della stretta connessione tra epistemologia e storiografia della scienza. Nel modello della giustificazione, infatti, l’epistemologia si presentava fortemente normativa, poiché accoglieva l’istanza di fissare con rigore, il metodo della ricerca, indipendentemente dal suo effettivo procedere storico. D’altra parte, anche la ricerca storiografica sulla scienza si atteneva tacitamente al modello normativo secondo cui la scienza deve guardare ai fatti senza «pregiudizi» e da essi trarre le teorie: di qui un privilegiamento della storia «interna» della scienza. Non erano certo mancati studi sulla storia «esterna» della scienza, specie da parte marxista, che vedevano nella ricerca scientifica un momento sovrastrutturale condizionato dalle strutture sociali ed economiche; non erano mancati nemmeno i richiami all’importanza del pensiero filosofico per lo sviluppo della scienza: nel 1924 uscirono The metaphysical foundations of modern physical science di E.A. Burtt e nel ‘23 Arthur O. Lovejoy (18731962) aveva con alcuni colleghi costituito a Baltimora il 73 «Club per la storia delle idee». Ma tutto ciò non suscitava l’interesse degli scienziati e degli epistemologi. Ha bene osservato Toulmin, che, sino a metà del secolo, «gli assunti di base della storia della scienza» si avvicinavano «a quelli della filosofia della scienza di orientamento empirista». «Se il compito della filosofia era quello di stabilire l’organo formale della scienza, il compito della storiografia scientifica consisteva nel mettere a punto le ‘ricostruzioni razionali’ delle conquiste scientifiche del passato» (Toulmin 1977; trad. it., pp.l07-l08). Fu solo attraverso il variegato riorientamento gestaltico dell’epistemologia che ci si rese gradualmente conto che storici e filosofi della scienza non potevano più procedere parallelamente, e che le loro strade si intrecciavano. Si trattava quindi di vedere come i canoni formali dell’epistemologia potessero essere utilizzati nella vita reale della pratica scientifica. I problemi del rapporto tra storia e filosofia della scienza, che erano stati sino ad allora tabù, apparivano ora importanti. Secondo un’efficace immagine di Toulmin, «era stato manifestamente tolto il contatto alla sedia elettrica e ciascuno si affrettava a mettersi in fila per sedervisi», (ibid., p. 110). Data la complessità del quadro che abbiamo delineato, non è possibile indicare colui che ha tolto il contatto: forse questo è venuto meno per il convergere di molte circostanze: si pensi, per esempio, all’opera di Alexandre Koyré (1892-1964). Ma è indubbio che, per gli epistemologi, Thomas Kuhn è stato quello che ha almeno aperto la cabina dove c’era la leva. L’attenzione sul carattere dinamico e storico della ricerca scientifica fu infatti richiamata soprattutto dalla comparsa, nel 1962, di La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Quando il quarantenne Kuhn pubblicò questo libro, veniva già, dopo la sua formazione in fisica, da una serie di ricerche specifiche in storia della scienza. Tra esse, The Copernican revolution del 1957; poiché, a causa della sua complessità, «la rivoluzione copernicana offre un’occasione ideale per scoprire in che modo e con quale effetto concezioni peculiari di molti e differenti campi del sapere sono intrecciate in una singola costruzione di pensiero» (Kuhn 1937; trad. it., p. XV). Ed alla ricerca storica Kuhn è tornato anche di recente con il suo libro sulle origini della fisica contemporanea: ma egli si rese conto che «per quanto l’esperienza come storico possa insegnare con l’esemplificazione la filosofia, gli insegnamenti svaniscono nel saggio storico, una volta che questo è concluso» (Kuhn 74 1977; trad. it., p.VII): di qui l’esigenza del libro del 1962, per chiarire la concezione della scienza che si era venuta formando attraverso l’ermeneutica dei testi degli scienziati del passato. Per Kuhn, lo sviluppo della ricerca scientifica può essere schematizzato nel seguente modo. Quando la ricerca, in un campo determinato, è all’inizio, vi sono «scuole» rivali, ciascuna avvalentesi di propri principi nell’interpretazione dei fenomeni. Poi, però, le varie scuole cedono il campo ad un’unica comunità di scienziati che si occupano di quel campo specifico: si ha così un momento di scienza «normale», e la caratterizzazione sociologica della comunità in questione, che diventa l’unica «competente» a giudicare della ricerca in quel campo, è di grande importanza. Anche perché la comunità si costituisce attraverso l’accettazione, più o meno esplicita, di un «paradigma» o (come più di recente dirà Kuhn Riflessioni 1976, trad. it., p. 357) di una «matrice disciplinare» comune, cioè di un intreccio di generalizzazioni simboliche, tecniche sperimentali, convinzioni metafisiche e assiologiche, mediante cui i membri della comunità riescono a risolvere i problemi specialistici ritenuti urgenti. L’accettazione di un paradigma condiziona il tipo di lavoro della scienza «normale», che cerca di «forzare la natura entro le caselle prefabbricate e relativamente rigide fornite dal paradigma». La scienza «normale», per Kuhn, non cerca nuove varietà di fenomeni o nuove teorie: essa, anzi, è spesso intollerante verso le novità. Ma questa limitazione di prospettiva induce ad approfondire, secondo il paradigma, lo studio dei fenomeni di quel campo. «Rompicapi» sono chiamati da Kuhn i problemi caratteristici della scienza «normale», siano essi di natura strumentale, concettuale, matematica: e la denominazione richiama l’ingegnosità del ricercatore, perché la solubilità di tali problemi, per quanto ardua, è già presupposta nell’orizzonte del paradigma. La soluzione dei «rompicapi» vede tuttavia bloccato il suo progressivo accumulo di conoscenze dal sorgere di qualche anomalia: si apre allora un momento «rivoluzionario» della scienza, una «crisi», che si risolve solo quando, attraverso la discussione di una, più o tutte le componenti della vecchia «matrice disciplinare», si giunga ad elaborare un nuovo paradigma, mediante cui si sia in grado di risolvere il problema prima risultato anomalo, oltre, naturalmente, gran parte dei rompicapi già risolvibili 75 secondo il paradigma precedente. Quando ciò avvenga, e spesso faticosamente attraverso ostacoli e difficoltà sollevati all’interno della comunità stessa degli scienziati, subentra allora un nuovo momento «normale», e così via. Questa schematizzazione dello sviluppo scientifico si è prestata a molte obiezioni. Tra esse quelle di Popper, che però per Kuhn s’è soffermato soltanto sui momenti «rivoluzionari», arbitrariamente elevandoli a modello di tutta la scienza. Popper obietta di rimando che lo scienziato «normale», come lo descrive Kuhn, è un individuo che «è stato male istruito. E’ stato educato in uno spirito dogmatico: è vittima dell’indottrinamento» (Popper 1976; trad. it., p. 123). Probabilmente non è qui il punto più critico del riorientamento gestaltico nella considerazione della scienza suggerito dalle tesi kuhniane. Poiché se, da un lato, pare troppo schematica la considerazione che Kuhn fa, nell’opera del 1962, dei momenti «normali» e «rivoluzionari» quasi come periodi temporalmente separati, mentre invece l’attività concreta di ricerca, per usare un’espressione più tarda dello stesso Kuhn (1977; trad.it., pp. 244 segg.) è sempre permeata da una «tensione essenziale» tra tradizione e innovazione; d’altro lato, è altrettanto forzata la tesi di Popper che lo spirito critico sia solo nel lavoro rivoluzionario e non già in quello «normale» volto a sviluppare e perfezionare le conseguenze di un paradigma (cfr., in proposito. Ziman 1984, trad. it., pp. 12933). Il punto davvero critico sta nelle conseguenze (o, se si preferisce, nei presupposti) più direttamente epistemologici della kuhniana ricostruzione dinamica e storica della ricerca scientifica. La questione diventa allora quella se si può ancora parlare di razionalità e di progresso nella scienza. Bibliografia Per l’ inquadramento delle questioni trattate in questo capitolo e ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. i saggi di P. Feyerabend, Th. S. Kuhn, I. Lakatos, M. Masterman, K. Popper, S. Toulmin, J. Watkins, L. Pearce Williams, compresi in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976. 76 Degli autori qui trattati ecco le opere principali: Fleck, L., Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache: Einführung in die Lehre vom Denkstil und Denkkolletiv, Basel 1935, Frankfurt a. M. 19802 (trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Bologna 1983). Hanson, N. R., Patterns of discovery, Cambridge 1958 (trad. it. I modelli della scoperta scientifica, Milano I978). Hanson, N. R., Perception and discovery, a cura di W.C. Humphreys, San Francisco 1969. Kuhn, TH. S., The Copernican revolution. Planetary astronomy in the development of western thought, Cambridge, Mass., 1957 (trad. it. La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Torino 1972). Kuhn, TH. S., The structure of scientific revolutions, Chicago-London 1962, 19702 (trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969, 19782). Kuhn, TH. S., Logica della scoperta o psicologia della ricerca?, in LAKATOS, I., MUSGRAVE, A. (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976, pp. 69-93. Kuhn, TH. S., Riflessioni sui miei critici, ibid., pp. 313-365. Kuhn, TH. S., Note su Lakatos, ibid., pp. 409-418. Kuhn, TH. S., The essential tension: selected studies in scientific tradition and change, Chicago-London I977 (trad. it. La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza, Torino 1985). Kuhn, TH. S. Black-body theory and the quantum discontinuity. 1894-1912, Oxford 1978 (trad. it. Alle origini della fisica contemporanea. La teoria del corpo nero e la discontinuità quantica, Bologna 1981). Polanyi, M., Science, faith and society, Chicago 1946, 19642. Polanyi, M., Personal Knowledge.Towards a post-critical philosophy, London 1958 (trad.it. La conoscenza personale.Verso una filosofia post-critica, a cura di E. Riverso, Milano 1990). Polanyi, M., The tacit dimension, Garden City 1966 (trad. it. La conoscenza inespressa, Roma l979). Polanyi, M., Knowing and being: essays, London1969 (trad. it. Conoscere e essere, Roma 1988); è una raccolta di saggi usciti tra il 1959 e il 1968. 77 Toulmin, S.,The philosophy of science, London-New York 1953 (trad. it. Che cos’è la filosofia della scienza, Roma 1968). Toulmin, S., Foresight and understanding, Bloomington l96l (trad.it. in Toulmin, S., Previsione e conoscenza, Roma 1982, pp. 16-94). Toulmin, S., Human understanding, Princeton 1972. Toulmin, From form to function, 1977 (trad. it. in Toulmin, S., Previsione e conoscenza. cit., pp. 95-126). Per altre opere e autori citati: Burtt, E.A., The metaphysical foundations of modern physical science, London 1924, 19322. Lovejoy, A.O., The great chain of being. A study of the history of an idea, Cambridge, Mass., 1936 (trad. it. La grande catena dell’essere, Milano 1966). Lovejoy, A. O., Essays in the history of ideas, Baltimora 1948, New York 1960 (trad. it. L’albero della conoscenza, Bologna 1982). Popper, K.R., La scienza normale e i suoi pericoli, in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976, pp. 121-128. Ziman, J., An introduction to science studies. The philosophical and social aspects of science and technology, Cambridge 1984 (trad. it. Il lavoro dello scienziato, RomaBari 1987). Di Ziman (n. 1925) cfr. anche: Ziman, J., Reliable knowledge. An exploration of the grounds for belief in science, Cambridge 1978 (trad. it. Si deve credere alla scienza?, Roma-Bari 1984). Un’importanza del tutto particolare per la comprensione delle procedure intellettuali adottate dalla scienza nel suo sviluppo storico ha l’opera di Alexandre Koyré, che ha una sua autonomia rispetto al filone neopositivismo – razionalismo critico – nuova filosofia della scienza, ed è tuttavia ricordato da Kuhn. Tra gli scritti di Koyré: Koyré, A., Études galiléennes, Paris 1939 (trad. it. Studi galileiani, Torino 1976). 78 Koyré, A., From the closed world to the infinite universe, Baltimore 1957 (trad. it. Dal mondo chiuso all’ universo infinito, Milano 1976). Koyré, A., Études d’histoire de la pensée philosophique, Paris 1961, (del cap. «Les philosophes et la machine» di questo volume P. Zambelli ha curato la trad. it. in Koyré, A., Dal mondo del pressappoco all’ universo della precisione, Torino 1967. Koyré, A., La révolution astronomique. Copernic, Kepler, Borelli, Paris 1961 (trad. it. La rivoluzione astronomica, Milano 1966). Koyré, A., Newtonian studies, Cambridge 1965 (trad. it. Studi newtoniani, Torino 1972). Koyré, A., Études d’histoire de la pensée scientifique, Paris 1973. Per indicazioni bibliografiche su Koyré, cfr.: Vinti, C., Alexandre Koyré lettore di Copernico e di Galileo, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1987, V, 2, pp. 29-44. 79 10. Varianza delle strutture scientifiche e incommensurabilità delle teorie La posizione di Kuhn nel dibattito su accennato ha una qualche ambiguità. Così si presta a interpretazioni divergenti. Da un lato, infatti, vi è chi ritiene che la posizione di Kuhn — poiché «non è disponibile un’unità di misura appropriata con cui valutare i pregi di paradigmi alternativi: essi sono incommensurabili» (Barnes 1982; trad. it., p. 102) — porti inevitabilmente un esito relativistico; cosicché «da una prospettiva sociologica non ha valore una distinzione di fondo tra ‘scienza’e ‘ideologia’» (ibid., p. 161). Ed è su questa via che si muove il pensiero di Feyerabend. Ma è Kuhn stesso, d’altro lato, che non accetta d’essere un relativista nel senso che, per ciò che normalmente fanno gli scienziati, una teoria valga quanto un’altra. Ciò che egli esclude è solo il presupposto che vi sia una vera e completa spiegazione della natura verso cui teleologicamente si muoverebbe la scienza nel suo sviluppo. Questo non toglie però che egli veda lo sviluppo scientifico, come l’evoluzione biologica, «unidirezionale e irreversibile» (Kuhn 1976, p. 350). Se quindi è vero che paradigmi diversi generano una variazione del significato dei termini teorici che vengono usati, ed è altrettanto vero che durante le rivoluzioni scientifiche gli scienziati vedono cose diverse anche quando guardano ciò che avevano già visto prima (theory-ladennes dell’osservazione), Kuhn ritiene che tale varianza non conduca all’irrazionalismo ed al relativismo. Ciò che essa richiede è solo la rinuncia a un modello assoluto di ragione. L’incommensurabilità delle teorie non è assoluta, perché si può cercare la traduzione, sebbene non totale, dell’una nell’altra; perché sono pur gli stessi gli stimoli di coloro che rischiano, con teorie diverse, di rompere la comunicazione; perché il sistema nervoso degli interlocutori, per quanto condizionato socialmente e culturalmente, è ancora lo stesso; e perché, infine, salvo una piccola area di esperienza «la programmazione dev’essere la stessa, in quanto le persone coinvolte condividono una storia [...], il linguaggio, il mondo quotidiano, e la maggior parte di quello scientifico» (ibid., pp. 362-363). È quindi opportuno, nel considerare la posizione di Kuhn, tener conto di queste sue dichiarazioni e non unificare Kuhn e Feyerabend come espressione 80 dell’irrazionalismo e relativismo della «nuova filosofia della scienza». Questo è talvolta stato fatto, anche da autori molto perspicaci nel dibattere gli argomenti in questione. Così Larry Laudan in Progress and its problems, nel delineare una sua concezione della scienza come tentativo di «soluzione di problemi», anziché ricerca della verità, pare porre anche Kuhn tra coloro che, non disponendo di un modello ben preciso di razionalità, ritengono irrazionali le decisioni sulle teorie scientifiche. E già s’è visto che Lakatos ha una posizione analoga nel leggere Kuhn; e lo stesso si può dire di The justification of scientific change (1971) di Carl R. Kordig; e di Representing andintervening (1983) di Ian Hacking. Kuhn tenta vie intermedie tra l’assolutismo della ragione e il totale irrazionalismo. È significativo che, nel difendere la sua teoria dell’incommensurabilità delle teorie, egli si richiami all’indeterminatezza della traduzione da una lingua ad un’altra teorizzata da Willard Van Orman Quine (cfr.Kuhn 1976; trad. it., pp. 354-355). Nato nel 1908 ad Akron nell’Ohio, Quine fu in contatto in Europa con il Carnap, negli anni in cui questi preparava la Logische Syntax der Sprache: e di qui nacque il suo interesse per la logica formale a cui diede contributi personali (Quine 1934, 1940, 1941, 1950, 1963, 1966). Ma egli fu attratto anche dalle tesi «filosofiche» del neopositivismo di cui criticò alcuni dogmi: la netta dicotomia tra «analitico» e «sintetico», e l’empirismo radicale, che pretende di ridurre ai dati di senso ogni asserzione significante (Quine 1951). Quine è invece fautore di una tesi più liberalizzata dell’empirismo, per cui la scienza è «una struttura linguistica poderosa, un tessuto di termini teorici legati da ipotesi, un tessuto connesso qua e là agli eventi osservativi» (Quine l982 p.116). In questa prospettiva — che Quine svilupperà poi nell’ambito del naturalismo elaborato dal Dewey nell’ultima parte della sua vita: «Con Dewey sostengo che la conoscenza, la mente e il significato sono parte del medesimo mondo con cui hanno a che fare e che devono essere studiati nel medesimo spirito empirico che anima la scienza naturale. Non c’è posto per una filosofia prima» (Quine 1969; trad. it., p. 59) — Quine si trova ad affrontare temi assai vicini a quelli dei «nuovi filosofi della scienza». V’è quindi uno stretto parallelismo tra le difficoltà di traduzione da una teoria scientifica ad un’altra (incommensurabilità) e quella che Quine chiama 81 «indeterminatezza della traduzione» da una lingua ad un’altra:ci sono sempre ipotesi alternative per la traduzione di termini ed enunciati di una lingua sconosciuta nella nostra. E non c’è modo per stabilire come assolutamente giusta una di tali ipotesi. Ma Quine (ed è questo il motivo per cui Kuhn lo sente in sintonia con sé) non ritiene che per ciò ci si debba abbandonare al relativismo irrazionalistico. «Nel mio naturalismo io non riconosco alcuna verità più alta di quella che la scienza fornisce o cerca. Lo scienziato è in effetti creativo, pone gli oggetti fisici e avrebbe forse potuto produrre un sistema diverso, che si sarebbe adattato altrettanto bene a tutti i dati passati e futuri. [...] Queste verità illuminano la metodologia della nostra scienza, ma non falsificano la nostra scienza né ne prendono il posto. [...] Parliamo sempre all’interno del nostro sistema corrente quando attribuiamo la verità; non possiamo parlare altrimenti. Il nostro sistema certo cambia. Quando cambia non diciamo però che la verità cambia con esso; diciamo che erroneamente abbiamo supposto vero qualcosa e che abbiamo imparato meglio. Fallibilismo è la parola d’ordine, non relativismo. Fallibilismo e naturalismo» (Quine 1981, p. 34). Il tema del realismo, che vediamo qui riaffiorare come in Kuhn, instaura dunque, nonostante le evidenti differenze, un certo orientamento epistemologico comune con quello già riscontrato in Popper e nei fautori del razionalismo critico. Un orientamento del tutto diverso è invece quello che si trova in Paul Feyerabend, che spinge all’estremo sia la tesi dell’ incommensurabilità delle teorie sia quella del relativismo irrazionalistico. Sicché non è da lui messa in dubbio soltanto la concezione cumulativa del progresso scientifico, ma è lo stesso concetto di scienza che viene ridotto a «un mito tra altri miti, appariscente, sciovinistico, con alcuni vantaggi e molti svantaggi» (Feyerabend,1978, p.181; cfr. tra. it., p. 57). La scienza ha così solo la forza di un’autorevole chiacchiera, ed è del tutto infondata da parte sua la messa al bando delle cosiddette pseudo-scienze come l’astrologia, poiché è mera presunzione la pretesa di parlare in nome della razionalità scientifica: la scienza è superiore alle pseudo-scienze solo «per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di Stato e Chiesa 82 dovrebbe essere integrata dalla separazione di Stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa» (Feyerabend 1976; trad. it., p. 240). Con Feyerabend l’epistemologia diventa paradossalmente una disciplina inutile (Feyerabend 1978; trad. it., p. 93), perché «non esiste alcun ‘metodo scientifico’, non esiste un procedimento unico, una regola unica, non esiste un criterio di eccellenza che sia alla base di ogni progetto di ricerca e che lo renda scientifico e perciò fidato» (ibid., p. 150). Le teorie sono ideologie e gli stessi «fatti sono costituiti da ideologie anteriori» (Feyerabend 1976; trad.it.,pp. 46). Così per chi non ignora il materiale fornito dalla storia né lo impoverisce per compiacere alla «brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’‘obiettività’, della ‘verità’, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (ibid., p.25). È questo il succo del libro più famoso di Feyerabend: Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Quest’opera provocatoria ha certo esaltato alcuni dei motivi più stimolanti dell’apertura epistemologica verso il «contesto della scoperta»: la polemica contro la pretesa di fissare in regole rigide il «metodo» scientifico e contro il disinteresse per le procedure storicamente affermatesi; l’importanza della libertà inventiva nella ricerca, libertà che richiama quella dell’invenzione di «stili» nell’arte. Ma questa esaltazione è sfociata in una forzatura deformante, che solleva difficoltà ancora più gravi di quelle che l’anarchismo metodologico vorrebbe evitare. Se, infatti, sta nella storia della scienza la confutazione della possibilità di una qualsiasi metodologia, ciò presuppone che vi siano «fatti» storici «oggettivi». E come può Feyerabend ammettere l’esistenza di tali «fatti» quando per lui i «fatti scientifici» sono mere ideologie? Ad essere anarchicamente conseguenti, anche per la storiografia della scienza dovrebbe valere il principio «tutto va bene». E non rimarrebbe altra possibilità che il silenzio o quella dell’ imposizione della propria ideologia. In scritti più recenti ( Feyerabend 1990, p.27) lo stesso Feyerabend pare attenuare queste conclusioni paradossali a cui porta la sua identificazione di «scienza» e «ideologia», quando afferma : «Il mio punto di vista è che questi risultati 83 [ della scienza ] non sono fondati in una natura ‘oggettiva’, ma provengono da una complessa interazione tra una materia malleabile (che, tuttavia, non è senza resistenza) e ricercatori attivi (che sono influenzati e cambiati dal contatto con la materia». Sicché pare che Feyerabend inclini ora a negare solo la staticità e non l’essere del mondo, considerato «un essere dinamico e con molte facce, che influenza e riflette l’attività dei suoi esploratori» (ibid., p.28). Era infatti uno strano destino quello a cui andava incontro la feyerabendiana rivendicazione totale di libertà che dimentica i condizionamenti naturali e culturali a cui è sottoposta la ricerca scientifica come ogni altra attività umana. È pur vero che tanti delitti sono stati commessi in nome della presunta «assolutezza» della ragione; ma si andrebbe incontro a mali non minori se davvero, come crede Feyerabend, anche nella scienza «fatti» e «ragione» fossero relegabili in soffitta: rimarrebbe solo la strada irrazionale della forza. C’è qui in gioco qualcosa che trascende le pure discussioni epistemologiche, in cui talvolta, come non di rado capita ai filosofi, ci si lascia così prendere dai propri giochi concettuali, da giungere a dimenticare che se la scienza è un gioco linguistico, ha tuttavia l’intento di capire come stanno davvero le cose che non dipendono soltanto da tale gioco. È contro questa illusoria dimenticanza che si levano le interpretazioni «moderate» (alla Kuhn e alla Quine) circa la varianza delle strutture scientifiche e la «incommensurabilità» delle teorie. Ed è la stessa direzione in cui si muovono le sfaccettate rivendicazioni del «realismo», tra cui quella dell’epistemologia evoluzionistica. A proposito del tema del «realismo» — oltre a ciò che si dirà nel paragrafo 11 su posizioni e autori vicini all’«epistemologia evoluzionistica» — merita attenta considerazione il pensiero di alcuni epistemologi italiani contemporanei. In primo luogo Ludovico Geymonat (n. 1908), che fu nel 1956 il primo titolare di una cattedra di filosofia della scienza a Milano. Geymonat ─ come già si è detto nel paragrafo 3 ─ sin dagli anni Trenta (cfr. Geymonat 1934, 1945) fece conoscere in Italia le dottrine del Wiener Kreis, rivendicando il valore conoscitivo della scienza in opposizione alle tematiche neoidealistiche e sviluppando gradualmente un «neorazionalismo», in cui si è venuto accentuando un’epistemologia dinamica in stretta 84 connessione con la storia della scienza. È la storicità della scienza (cfr. Geymonat 1957, 1960) che viene così in luce, il che implica la rinuncia a verità «assolute» per verità storicamente relative. Ma la «‘storicizzazione delle scienze’ continua ad attribuire alla scienza la capacità di conoscere il reale» (Geymonat 1987, p. 101).E tale «realismo» è da Geymonat connesso con il materialismo dialettico marxista, in quanto il processo della conoscenza scientifica gli pare un processo dialettico, nel «senso che c’è la ‘negazione’ di una teoria la quale non porta all’abbandono totale della teoria stessa ma ne genera un approfondimento» (ibid. ). Anche a prescindere da tale connessione con il marxismo (in cui pare riaffiorare la nostalgia se non per le «verità» assolute almeno per l’ «assoluta» garanzia del cammino della scienza), la postulazione filosofica del realismo resta ben salda nel pensiero di Geymonat, confortata pure dalla sua accentuazione dell’incidenza che scienza e tecnica hanno avuto ed hanno nella vita individuale e sociale degli uomini. Un’analoga insistenza sull’importanza del «realismo» per la conoscenza scientifica si trova anche in Evandro Agazzi (n. 1934), nel senso che, come per Geymonat, con cui ha condotto un dibattito (cfr. Agazzi 1989), anche per lui «la realtà» non è riducibile al pensiero (Agazzi 1991, p. 20): «Certamente la realtà non è estranea al pensiero (ossia il pensiero è in grado di coglierla), e tuttavia non ogni forma di realtà è identificabile con il pensiero stesso» (ibid.). Ma questo presupposto filosofico viene poi sviluppato da Agazzi in una visione del mondo di impronta religiosa e di elaborazione neoscolastica nel senso che in essa si afferma che «accanto alla realtà empiricamente conoscibile [.. .] esistono altri tipi o livelli di realtà non empirici» (ibid., p.31). Sono tipi di realtà «trascendenti» la fusis, ossia «non direttamente accessibili mediante l’esperienza sensibile» (ibid., p. 32). È a proposito di questi tipi di realtà metaempirica, che Agazzi rivendica uno «statuto epistemologico» della filosofia, quale è intesa nell’accezione della metafisica classica. E sebbene egli giustamente accusi di dogmatismo la pretesa che le vie conoscitive si riducano alla constatazione empirica, resta assai vaga la sua indicazione delle «credenziali conoscitive» del realismo metafisico, quando afferma che «il senso dei valori, il senso della trascendenza, il senso del divino, sono dimensioni a cui tutti siamo aperti in varia misura, ma che non tutti frequentiamo allo stesso modo» 85 (Agazzi 1989, p. 159), sicché «una persona intelligente, ma priva di consuetudine con questi problemi, non ‘vede’ certe cose» (ibid.). Indipendentemente da questi sviluppi metafisici, la trattazione del tema «realistico» nell’ «epistemologia oggettualista» di Agazzi ha indubbiamente un vivo interesse. Assai piu critica nei confronti del postulato del realismo appare la posizione di Marcello Pera (n. 1943), che ha dapprima analizzato il pensiero epistemologico di Popper (Pera,1981), per poi discutere i punti di forza e le debolezze nella reazione all’empirismo della «nuova filosofia della scienza», che ha portato al dilagare dell’irrazionalismo nell’epistemologia più recente (Pera, Apologia, 1982), sfociando infine, nella sua opera più recente, Scienza e retorica (1991), in una concezione della scienza che ─ diversamente dalle tradizionali metodologie, le quali concepiscono la «ricerca scientifica come una partita a due: la natura e il ricercatore che, grazie al metodo, la interroga e la legge» (Pera 1991, p.X) ─ considera la ricerca come una «partita a tre: occorre la natura, chi la interroga e chi (uditorio o comunità), interrogandola anch’egli, dibatte con gli altri interroganti» (ibid.). In tale concezione «retorica» della scienza, la tesi di Pera a proposito della verità è molto più vicina alle tesi pragmatistiche o della verità come coerenza anziché a quella della verità come corrispondenza (cfr. Pera 1991, pp.189-l98). Ma basta il fatto che nella concezione retorica della verità non si accetti che sia solo la realtà a decidere il valore di verità delle nostre pretese cognitive, e che la verità di esse sia corrispondenza alla realtà, per esorcizzare il postulato del «realismo»? Tanto più che Pera stesso dice: «Chiaramente accetto la tesi ontologica» che «esiste una realtà indipendente da noi stessi». (Pera 1990, pp. 25-26). Basta la prospettiva retorica a spiegare i motivi di quel «chiaramente»? O essi non rimandano a qualcosa di più corposo e duro della retorica? Bibliografia Per la discussione di alcuni dei temi qui trattati, e per ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr.: Agazzi, E., Introduzione ai problemi dell’assiomatica, Milano 1961. 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Feyerabend, P., Una lancia per Aristotele: osservazioni sul postulato dell’aumento di contenuto, in Radnitzky, G., Andersson, G. (a cura di), Progresso e razionalità della scienza, Roma 1984, pp. 121-161. 87 Feyerabend, P., Scienza come arte, con introd. di M. Pera e replica di P. Feyerabend, Roma-Bari 1984. Feyerabend, P., Il realismo e la storicità della conoscenza, «Nuova Civiltà delle Macchine» 1990, VIII,2/3, pp. 21-28. Geymonat, L., La nuova filosofia della natura in Germania, Torino 1934. Geymonat, L., Studi per un nuovo razionalismo, Torino 1945. Geymonat, L., Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, Torino 1947. Geymonat, L., Galileo Galilei, Torino 1956, 19809. Geymonat, L., Filosofia e filosofia della scienza, Milano 1960. Geymonat, L., Scienza e realismo, Milano 1977, 19802. Geymonat, L., Prospettive di testimonianza e di dibattito nella filosofia della scienza italiana, in La scienza tra filosofia e storia in Italia nel Novecento, a cura di F. Minazzi e L. 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Sull’opportunità della considerazione di filosofi della scienza anche fuori delle «mode» epistemologiche dominanti: Witkowski, L., On the phenomenon of marginality in epistemology: Gonseth and his tradition,«Dialectica», 1990, 44, fasc. 3-4, pp. 313-322. Witkowski, L., Against marginality Federigo Enriques’ epistemology, in La filosofia della scienza oggi (Europa 1993), a cura di F. Minazzi, Napoli 1991, pp. 221-238. 90 11. Lineamenti dell’epistemologia evoluzionistica Nel paragrafo 5 già si è accennato come la forma più matura del razionalismo critico di Popper si collochi in una prospettiva evoluzionistica. Ed è sintomatico che la stessa denominazione di «epistemologia evoluzionistica» compaia come titolo del saggio pubblicato da Donald T. Campbell nel volume miscellaneo in onore di Popper, The Philosophy of Karl Popper, pubblicato nel 1974 a cura di P.A. Schilpp. In questo saggio, Campbell precisa che il requisito minimo per cui un’epistemologia può chiamarsi «evoluzionistica» è che «essa consideri la condizione umana un prodotto dell’ evoluzione biologica e sociale» (Campbell 1974; trad. it., p. 63); ma, in realtà, quella che oggi si indica con tale denominazione ha pretese ulteriori: cioè, che l’evoluzione, già nei suoi aspetti biologici, sia un processo «conoscitivo» in senso lato, e che il paradigma della selezione naturale si possa estendere dal processo conoscitivo in senso biologico alle attività epistemiche quali l’apprendimento, il pensiero e la memoria. Campbell stesso indica antecedenti ottocenteschi di questo orientamento epistemologico (in particolare Herbert Spencer, 1820-1903), che all’inizio del nostro secolo trovò espressione in Erkenntnis und Irrtum (1905) di Ernst Mach (cfr. in proposito Antiseri 1986); ma afferma pure che lo si deve ai lavori di Popper se un’epistemologia basata sulla selezione naturale può oggi essere praticata. Tanto Campbell quanto lo stesso Popper indicano che già nella Logik der Forschung, con l’elaborazione di una teoria della conoscenza attraverso tentativi ed eliminazione degli errori, c’era un richiamo ad un processo simile alla selezione darwiniana ed una critica all’istruzione lamarckiana, in quanto veniva respinta la tradizionale concezione dell’induzione come metodo della scienza. Ma, in effetti, l’attenzione specifica di Popper per l’epistemologia evoluzionistica va collocata nel 1961, quando egli tenne a Oxford la Herbert Spencer Memorial Lecture su Evolution and the tree of knowledge. Questo scritto (assieme con altri, come la Compton Lecture del 1966, Of clouds and clocks) fu poi ripubblicato in Objective knowledge.An evolutionary approach del 1972. È dunque quest’opera, assieme agli scritti popperiani posteriori, che costituisce un caposaldo dell’attuale 91 epistemologia evoluzionistica. Ma non è il solo. Lo stesso Popper ricorda (Popper 1976, cap. 10) l’importanza per l’epistemologia evoluzionistica dell’opera di Konrad Lorenz (1903-1989), lo zoologo ed etologo che sin dal 1937 elaborò la teoria dell’imprinting, ossia del meccanismo innato che i giovani animali hanno per arrivare a conclusioni determinate di comportamento in situazioni normali, indipendentemente dalle loro esperienze individuali. Ovviamente la situazione della conoscenza umana è diversa perché essa si vale del linguaggio ed è momento dell’evoluzione culturale e non solo biologica; ma essa non sarebbe tuttavia comprensibile se «le categorie e le forme concettuali dell’apparato conoscitivo umano» non fossero qualcosa «di acquisito nel corso della filogenesi; qualcosa cioè che ‘sta’ agli elementi della realtà extrasoggettiva come lo zoccolo di un cavallo sta alla steppa o la pinna di un pesce all’acqua» (Lorenz 1973; trad. it., p. 75). Anche Campbell, del resto, che pur attribuisce a Popper il maggior merito nell’affermazione dell’odierno orientamento evoluzionistico in epistemologia, può essere considerato come un esponente di punta di tale tendenza. Anzi Campbell, studioso di psicologia, sin dalla metà degli anni Cinquanta pubblicò una serie di studi volti a delineare i tratti di una «epistemologia descrittiva» intesa non tanto a chiedersi se la conoscenza è possibile, quanto piuttosto come essa si presenta e sviluppa effettivamente «dai livelli più bassi della vita sino a quello della conoscenza scientifica». Contro le tendenze dominanti dell epistemologia «analitica», Campbell estende il significato di «conoscenza» ricomprendendovi, «all’interno di una generale prospettiva realistica, tutti i comportamenti adattativi degli organismi più elementari al loro ambiente» (Cfr., per le tesi di Campbell, l’introduzione di Massimo Stanzione a Campbell 1974; trad. it., pp. 7-62). Anche se ci si sofferma soltanto su questi momenti (Campbell, Lorenz, Popper) dell’epistemologia evoluzionistica, tralasciando le discussioni più recenti (di cui si darà tuttavia l’indicazione bibliografica), risulta in primo luogo evidente una comunanza di orientamento: contro le tendenze epistemologiche proprie del neopositivismo e di tutte le correnti post-neopositivistiche che vogliono considerare la conoscenza iuxta propria principia come un fenomeno a sé (sia che si insista sul contesto della giustificazione o su quello della scoperta), 92 senza presupposti ontologici, nella nuova prospettiva, in cui la conoscenza è considerata nell’ambito dei processi di sopravvivenza degli organismi, il presupposto ontologico realistico diventa un momento essenziale. Se il «conoscere», in senso lato, è un modo per sopravvivere, adattandosi al meglio al proprio ambiente, è ovvio che in tale concezione si dà per scontato che vi sia una «realtà» indipendente da noi, nel senso che per sopravvivere dobbiamo fare i conti con essa. Non si tratta certo di una realtà con una struttura stabilita una volta per tutte. Come osserva Popper (1976, trad. it., p. 133), il realismo ch’è proprio della concezione evoluzionistica della conoscenza ha come punto cruciale «la realtà del tempo e del cangiamento». Tuttavia, nella prospettiva epistemologica evoluzionistica non è possibile ridurre la conoscenza a un mero universo concettuale o linguistico, a qualcosa di puramente soggettivo, alla sola esistenza di stati mentali, di soggetti, di intuizioni individuali. Una conoscenza «oggettiva» è certo quella che può essere controllata o discussa. Ma il significato dell’oggettività si coglie quando ci si rende conto che sono «oggettivi» i problemi che ci inducono a congetture conoscitivo-scientifiche allo stesso modo in cui sono problemi di adattamento che il nostro organismo risolve inconsapevolmente. Anche l’ameba, come Einstein, usa il procedimento del tentativo e della eliminazione dell’errore nel processo di adeguamento all’ambiente (che di per sé è sempre mutevole): solo che per l’ameba l’errore è quasi sempre letale, mentre non è così per Einstein (o, fuori di metafora, per quell’animale «culturale» che è l’uomo): infatti le congetture conoscitive o le teorie scientifiche che l’uomo mette alla prova sono «linguistiche». Chi rischia è la teoria, non l’uomo. Ed è sulle teorie che si esercita la critica. «Si può dire che la critica continui l’opera della selezione naturale ad un livello non genetico (esosomatico): essa presuppone l’esistenza della conoscenza oggettiva nella forma di teorie formulate. È dunque esclusivamente attraverso il linguaggio che diventa possibile la critica cosciente. È questa, a mio avviso, la ragione principale dell’importanza del linguaggio, e ritengo che sia il linguaggio umano il responsabile della peculiarità dell’uomo (incluse anche le sue produzioni nelle arti non linguistiche, come ad esempio la musica)» (Popper 1976; trad. it., p. 145). 93 In questa prospettiva della cultura come proseguimento dell’evoluzione biologica, il «realismo» acquista anche una nuova connotazione. Le teorie linguisticamente formulate sono certo un prodotto della mente umana (che Popper chiama «Mondo 2» per evidenziarne la psichicità in contrapposizione alla fisicità delle cose, da lui indicate come «Mondo 1»). Ma tali teorie hanno «oggettività», sicché esse possono venir discusse: ed una volta che siano state prodotte hanno una loro struttura propria, autonoma rispetto alla mente che le ha congetturate sì da creare conseguenze non prestabilite e imprevedibili. E questa loro autonomia che permette di attribuire «realtà» alle teorie. Ecco perché Popper parla in proposito di «Mondo 3»: il mondo «dei problemi, delle teorie e degli argomenti critici come il mondo dei risultati dell’evoluzione del linguaggio umano, e come un mondo che retro agisce su questa evoluzione» (Popper 1976; trad. it., p. 192). Ora, è vero che il Mondo 1 e il Mondo 2 possono interagire e che possono interagire tra loro anche il Mondo 2 e il Mondo 3, mentre il Mondo 1 e il Mondo 3 non possono interagire direttamente, bensì soltanto attraverso il Mondo 2 come intermediario. Nondimeno il Mondo 3 « è altrettanto reale quanto gli altri prodotti umani, altrettanto reale quanto un sistema di codificazione ─ un linguaggio; altrettanto reale quanto (e forse ancor più reale di) un’istituzione sociale, come un’università o un corpo di polizia. E il Mondo 3 ha una storia. È la storia delle nostre idee; non solo una storia della loro scoperta, ma anche una storia di come le abbiamo inventate. [...] Questo modo di considerare il Mondo 3 ci permette anche di inscriverlo nell’ambito di una teoria evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale. Ci sono dei prodotti animali (come i nidi) che possiamo considerare come precursori dell’umano Mondo 3» (ibid.). La concezione popperiana del Mondo 3 richiama, per la sua componente «realistica» altre concezioni novecentesche della «cultura», come quella di Nicolai Hartmann (18821950), che parla in proposito di «spirito obiettivato». Essa tuttavia è fortemente contrassegnata per il suo inserimento nella prospettiva dell’epistemologia evoluzionistica, che a sua volta risente del «darwinismo come programma di ricerca metafisico». Si tratta di un’evoluzione emergente della realtà, per cui i piani reali più complessi, pur necessitando del supporto dei piani meno complessi, hanno nondimeno rispetto a questi ultimi una «novità» irriducibile. Sicché il condizionamento «causale» non è 94 solo dal basso verso l’alto, ma può pure essere dall’alto verso il basso. Si pensi all’azione che la cultura esercita, tramite la mediazione degli uomini, nelle trasformazioni radicali anche dell’ambiente fisico. Popper afferma chiaramente che «da un punto di vista evoluzionistico» egli pensa «alla mente autocosciente come ad un prodotto emergente dal cervello, in modo simile a quello in cui il Mondo 3 è un prodotto emergente della mente. Il Mondo 3 emerge insieme con la mente, ma ciò nonostante emerge come un prodotto della mente, per interazione reciproca con essa» (Popper, Eccles 1977; pp. 668-669). A suo avviso, tuttavia, «la coscienza umana di sé trascende ogni pensiero puramente biologico»; sebbene molti animali superiori siano coscienti, egli ritiene che «soltanto un essere umano in grado di parlare possa riflettere su sé stesso». Tutti gli organismi hanno un programma, però soltanto un essere umano può «prendere coscienza di parti di questo programma e rivederle criticamente». È vero che la maggior parte degli organismi, se non tutti, è programmata per esplorare il proprio ambiente, correndo i rischi a ciò inerenti: ma non lo fanno coscientemente, perché pur avendo l’istinto di conservazione non sono consapevoli della morte. «Soltanto l’uomo potrà affrontare coscientemente la morte nella sua ricerca della conoscenza». «In tutte queste faccende la differenza è costituita dall’ancoraggio dell’io al Mondo 3. Alla sua base troviamo il linguaggio umano, che ci dà la possibilità di essere non soltanto soggetti, centri di azione, ma anche oggetti del nostro stesso pensiero critico, del nostro giudizio critico» (Popper, Eccles 1977; trad. it.,pp. 178-179). È noto come nel secolo scorso le discussioni circa l’evoluzione biologica si siano accentrate attorno alla contrapposizione tra lamarckismo e darwinismo a proposito degli aspetti finalistici dell’ evoluzione e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti e come solo negli anni Trenta del nostro secolo, dopo lunghe polemiche tra lamarckiani e darwiniani, neolamarckiani e neodarwiniani, sia stato elaborato il modello della «teoria sintetica dell’evoluzione» (Mayr, Simpson, Huxley, Dobzhansky), in cui si interpretano in termini neodarwiniani (ossia antilamarckiani) sia i cosiddetti fenomeni teleonomici sia i modi ed i tempi evolutivi che ancora Darwin (1809-1882) non riteneva spiegabili con i meccanismi delle mutazioni casuali e della selezione da parte dell’ambiente, così da 95 richiedere un’influenza (lamarckiana) del «soma» sul «gene». Orbene, benché l’evoluzione culturale, rispetto a quella biologica, abbia indubbi aspetti lamarckiani, l’epistemologia evoluzionistica nella corrente rappresentata dall’etologo Lorenz, dallo psicologo Campbell e da Popper si muove in sintonia con la teoria neodarwiniana dell’evoluzione. Popper, ad esempio, afferma che è superficiale ritenere che il darwinismo non attribuisca «alcun effetto evolutivo alle innovazioni di comportamento [behaviorali] adattive (preferenze, desideri, scelte) del singolo organismo». «Ogni innovazione behaviorale nel singolo organismo muta la relazione tra questo e il suo ambiente: questo mutamento consiste nell’adozione, od anche nella creazione, da parte dell’organismo, di una nuova nicchia ecologica. Ma una nuova nicchia ecologica significa un nuovo complesso di pressioni selettive, selettive in ordine alla nicchia scelta. [...] L’adozione di un nuovo modo d’agire, o di una nuova aspettazione (o ‘teoria’), apre per così dire un nuovo sentiero evolutivo» (Popper 1976; trad. it., p. 185). Tuttavia, l’epistemologia evoluzionistica non è necessariamente legata al modello neodarwiniano della «teoria sintetica dell’evoluzione». Come osserva Vittorio Somenzi (1985, pp. 317-318), nell’epistemologia evoluzionistica «lo sganciamento dalla realtà biologica del modello darwiniano è avvenuto ogni volta che si sia voluto differenziare il ritmo del progresso conoscitivo dal ritmo del progresso biologico. Se le rivoluzioni scientifiche di cui parla Kuhn vengono esaminate [...] al rallentatore, si vede che esse non hanno affatto il carattere di salti quantici ‘senza durata’, e che la continuità predomina sulla discontinuità». Non ispirati al modello neodarwiniano, ad esempio, sono gli studi di Jean Piaget sul comportamento; e critici rispetto a tale modello sono anche molte ricerche di paleobiologia. Un’epistemologia evoluzionistica — che, nella prospettiva di un «naturalismo critico», qual è sostenuto da Francesco Barone (n. 1923), si richiami alle istanze del realismo e dell’origine e storia naturale della mente umana — non è obbligata a seguire i destini di una corrispondente teoria biologica. Non mancano anzi tentativi di usare in biologia modelli affermatisi nello studio dell’evoluzione culturale. L’epistemologia evoluzionistica, nello stadio attuale della ricerca, presenta dunque una problematica aperta. 96 Quali che ne siano in futuro gli sviluppi, è tuttavia già ora efficace il richiamo ch’essa fa a non indulgere troppo all’attenzione prevalente, o quasi esclusiva, che molta epistemologia novecentesca ha prestato alla scienza come produzione culturale, come se conoscenza e scienza fossero qualcosa di avulso dalla natura nei suoi strati fisico ed organico. Ciò che è comune alle varie tendenze dell’epistemologia evoluzionistica, di là dalle specificazioni proprie delle singole dottrine evoluzionistiche, è l’accentuazione dell’intentio recta del nostro conoscere, intentio che è costitutiva dell’uomo nel suo sforzo, essenziale per la sopravvivenza, di orientarsi nel mondo (Cfr. Barone 1988).Ed è in questa prospettiva generale dell’evoluzionismo epistemologico che diventa possibile sia individuare le «fibre» che danno continuità alla ricerca scientifica, pur nella variabilità storica e culturale di questa, sia di far tesoro delle analisi dell’epistemologia contemporanea, che privilegia l’intentio obliqua, evitando tuttavia i paradossi a cui tale privilegiamento porta. FRANCESCO BARONE Bibliografia Campbell, D.T., Evolutionary epistemology, in Schilpp, P.A. (a cura di), The philosophy of Karl Popper, La Salle 1974, vol, I pp. 413-463 (trad. it. Epistemologia evoluzionistica, a cura di M. Stanzione, Roma 1981). Per l’epistemologia del Campbell sono utili le indicazioni date da Massimo Stanzione nella sua Introduzione (pp. 762) a tale traduzione; per gli antecedenti dell’ epistemologia evoluzionistica, cfr., sempre nella stessa traduzione, le indicazioni bibliografiche alle pp. 125-130. Sull’importanza di Erkenntnis und Irrtum (1905) di E. Mach in tali antecedenti, cfr.: Antiseri, D., Epistemologia evoluzionistica: da Mach a Popper, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1986, IV, 1, pp. 52-66. Per la concezione evoluzionistica di Konrad Lorenz, cfr.: 97 Lorenz, K., Die Ruckseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, Munchen, 1973 (trad. it. L’altra faccia dello specchio.Per una storia naturale della conoscenza, Milano 1974). Lorenz, K., Die Naturwissenshaft von Menschen.Eine Einfuhrung in die Vergleichende Verhaltens forschung. Das «Russische Manuscript» (1944-48),R. Piper, Munchen 1992 (trad. it.: La scienza naturale dell’uomo: il manoscritto russo. Mondadori, Milano 1993). Altri saggi di Lorenz sono raccolti in: Evans, R.I., Konrad Lorenz. The man and his ideas, New York-London 1975 (trad. it. Lorenz allo specchio, con pref. di V Somenzi, Roma 1977). Su Lorenz, cfr.: Wieser, W., Konrad Lorenz und seine Kritiker, Munchen 1976 (trad. it. Konrad Lorenz e i suoi critici, Roma 1989). Le due ultime opere citate contengono ulteriori indicazioni bibliografiche. Per gli scritti popperiani di carattere epistemologicoevoluzionistico: Popper, K. R.,Objective knowledge: an evolutionary approach, Oxford 1972 (trad. it. Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma 1975). Popper, K.R., Unended quest: an intellectual autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma 1986). Particolare interesse per la concezione evoluzionistica popperiana hanno le parti I e III dell’ opera: Popper, K.R., Eccles, J., The self and its brain. An argument for interactionism, Berlin-Heidelberg- LondonNew York, 1977 (trad. it. L’io e il suo cervello, Roma 19862, 3 voll.: il voI. I, Materia, conoscenza e cultura, è opera di Popper; il vol. II, Strutture e funzioni cerebrali, di Eccles; il vol. III comprende I dialoghi aperti tra Popper ed Eccles). 98 Per le discussioni evoluzionistica: odierne sull’epistemologia Somenzi, Epistemologia, evoluzionismo e scoperta scientifica, in Mangione, C. (a cura di), Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat, Milano 1985, pp. 312-330. Somenzi, V., L’epistemologia evoluzionistica, in Gava, G. (a cura di), Un’’introduzione all’epistemologia contemporanea, Padova 1987, pp. 197-207. Evoluzione e modelli. Il concetto di adattamento nelle teorie dei sistemi biologici, culturali e artificiali, con scritti di B. Continenza, R. Cordeschi, E. Gagliasso, A. Ludovico, M. Stanzione e pref. di V. Somenzi, Roma 1984. Oliverio, A., Storia naturale della mente. L’evoluzione del comportamento, Torino 1984. Per alcuni aspetti del «naturalismo critico» pertinenti all’epistemologia evoluzionisnca, cfr.: Barone, F., Immagini filosofiche della scienza, Roma-Bari 1983,19852. Barone, F., Temi di un naturalismo critico, «Filosofia oggi», 1988, XI, 4, pp. 653-670. Barone, F., Science et tecnologie: un rapport entre deux ambiguités «Fundamenta Scientiae», 1989, X , 1, pp.115123. Barone, F., Per un’istanza realistica della conoscenza , in Traditionen und Perspektive der analytischen Philosophie. Festschrift für Rudolf Haller a cura diW.L.Gomboez, H. Rutte, W.Sauer, Wien 1989, pp.539-553. Barone, F., Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Napoli 1990. Barone, F., La filosofia della scienza nella prospettiva di un naturalismo critico, in Filosofia della scienza oggi (Europa 1993), a cura di F. Minazzi, Napoli 1991, pp. 5967. 99 NOTIZIE SULL’AUTORE Il Prof. Francesco Barone (Torino 1923 – Viareggio 2001) è stato dal 1957 al 1987 ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Pisa, ove dal ’59 al ‘74 ha tenuto anche l’insegnamento di Filosofia morale e presso la Scuola Normale Superiore dal ’64 al ’67 quello di Storia e Filosofia della scienza. Dal 1987 è stato ordinario di Filosofia della scienza sempre nell’Università di Pisa e distaccato presso il Centro interdisciplinare dell’Accademia dei Lincei. Direttore dell’Istituto di Filosofia di Pisa dal 1960 al 1980, nel 1967-68 è stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Socio nazionale dell’Accademia delle Scienze di Torino e Corrispondente della Società di Scienze, Lettere e Arti di Napoli, Barone è stato presidente del Consiglio scientifico del Centro C.N.R. per gli studi sul pensiero filosofico del cinquecento e del seicento, membro del Consiglio direttivo dell’ Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, oltre che membro dei Consigli scientifici di vari enti italiani e stranieri. Nel 1976 gli è stata conferita la medaglia d’oro di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. Tra le sue opere principali: Il neopositivismo logico (1953, 19863); Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento (1957); Logica formale e logica trascendentale, 2 voll. (1964 e 1965, 19992 e 20002); L’età tecnologica (in collab. con S. Ricossa) (1974); Neopositivismo e filosofia analitica (1978); Pensieri contro (1983); Immagini filosofiche della scienza (1983, 19852); Per un naturalismo critico (1988); Teoria e osservazione nella metodologia scientifica (1990). Ha curato l’edizione italiana di: G.W.Leibniz, Scritti di logica (1968,19922) e N. Copernico, Opere (1979). Collaboratore dal 1968 al 1990 del quotidiano “La Stampa” di Torino, ha fondato e diretto dal 1983 al 1998 la rivista “Nuova Civiltà delle Macchine”. 100 Finito di stampare nel mese di Febbraio 2014 www.francescobarone.it