FRANCESCO BARONE
Neopositivismo ed epistemologia
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A PROPOSITO DEL SAGGIO QUI PRESENTATO
«Mi sono soffermato sugli sviluppi dell’epistemologia postneopositivistica in un saggio approntato per un’opera
progettata dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (Il XX
secolo), saggio di una cinquantina di pagine, di cui corressi
anni fa le prime bozze. Rimando a quelle pagine (con
relativa bibliografia) per più ampi sviluppi dei temi qui solo
accennati, nella speranza che l’editore le pubblichi entro il
terzo millennio, scusandomi sin da ora con i lettori per non
aver potuto rivedere le seconde bozze. Cfr. anche, nel
frattempo, il mio volume Teoria ed osservazione nella
metodologia scientifica, Guida, Napoli 1990».
F. Barone
Padova, 12 settembre, 1994
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FRANCESCO BARONE
Neopositivismo ed epistemologia
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INDICE
1.
Precisazioni terminologiche ......................... 1
2.
Il Circolo di Vienna ...................................... 7
3.
Dibattiti e divergenze nel Wiener Kreis ..... 18
4.
Di là dal Wiener Kreis................................ 28
5.
Il razionalismo critico di Popper ................ 36
6.
Razionalismo critico e società .................... 49
7.
L’ultimo trentennio .................................... 58
8.
Sviluppi del falsificazionismo e filosofia
della scoperta .............................................. 62
9.
Un cambiamento di Gestalt
nell’epistemologia ...................................... 71
10. Varianza delle strutture scientifiche e
incommensurabilità delle teorie ................. 80
11. Lineamenti dell’epistemologia
evoluzionistica............................................ 91
Francesco Barone, dalla rivista “Gente”, anno XXV n.46
del 13 novembre 1981
1. Precisazioni terminologiche
L’epistemologia (o dottrina o filosofia della scienza) ha
delle origini lontane, come riflessione sulla conoscenza
rigorosa e di validità oggettiva (dal greco epistème =
«conoscenza scientifica»): già gli Analitici secondi di
Aristotele (384-322 a.C.) sono una vera e propria dottrina
della ricerca scientifica. Ed anche il Discorso sul metodo è
una trattazione epistemologica, incentrato com’è sulla
convinzione di Cartesio (1596-1650) di poter determinare le
«vie certissime della scienza», l’intuizione dei principii e la
deduzione univoca di conseguenze da essi.
Eppure la diffusione del termine epistemologia nel
linguaggio filosofico è tipicamente novecentesca. In tutta la
filosofia dell’Ottocento, un tema centrale era la «teoria
della conoscenza» (Erkenntnislehre), sebbene sin dalla
kantiana Critica della ragion pura, modello per tutta la
posteriore gnoseologia, fossero proprio i modi della
conoscenza scientifica ad essere presi in esame.
L’abbandono del termine gnoseologia a favore di quello di
epistemologia è dovuto, almeno in parte, all’affermarsi,
nella prima metà del nostro secolo, di quella particolare
riflessione sulla scienza che va sotto il nome di
neopositivismo. Una delle figure più significative di esso,
Rudolf Carnap (1891-1970), propose addirittura
l’abolizione della Erkenntnislehre, in quanto essa è
«un’oscura mescolanza di parti logiche e psicologiche»
(Carnap 1936, p. 36), per passare alla denominazione di
«logica della scienza» (Wissenschafts-logik), meglio
indicante l’attenzione per il contesto giustificativo delle
teorie scientifiche più che per quello della ‘scoperta’ di
esse.
È questo uno dei motivi per cui possono essere qui unite
le trattazioni del neopositivismo e dell’epistemologia. Tale
unificazione è tuttavia rafforzata anche da altre
considerazioni. Le svolte radicali in molti campi della
ricerca scientifica, che si ebbero tra Ottocento e Novecento
(indagini sui fondamenti della matematica, teoria ristretta e
generale della relatività, meccanica quantistica), misero in
questione l’immagine che la scienza moderna aveva avuto
di sé, come capacità di un progressivo accumulo di
certezze, mediante l’uso garantito di quelle che già Galileo
(1564-1642) aveva chiamato le «necessarie dimostrazioni»
e le «sensate esperienze». Tali svolte richiedevano che la
riflessione sulla scienza fosse particolarmente attenta alle
1
rivoluzionarie
svolte
contemporanee
di
questa.
L’epistemologia in senso stretto si imponeva al posto della
più generica gnoseologia. E fu proprio in questo senso che
si sviluppò la riflessione dei neopositivisti, che in gran parte
venivano da una formazione schiettamente scientifica. Essa
è epistemologica nel senso specifico di nascere da un
confronto diretto con la ricerca scientifica contemporanea.
Quale che sia la validità di tale riflessione, è fuori dubbio
che essa ebbe il merito di questo confronto diretto.
Se la prima metà del nostro secolo, in campo
epistemologico, è segnata soprattutto dal neopositivismo,
l’epistemologia della seconda metà è ancora connessa ─
sia pure in senso polemico ─ con il neopositivismo. Mentre
l’epistemologia di questo viene elaborata nel confronto
diretto con la scienza contemporanea, l’epistemologia
successiva nasce piuttosto dalla contrapposizione a quella
neopositivistica. Così, se già nel 1967 si poteva dire
(Passmore 1967, p. 56) che «il positivismo logico […]
come dottrina di una setta si è disintegrato», non è possibile
considerare l’epistemologia novecentesca successiva se non
in controluce rispetto al neopositivismo.
L’epistemologia del «razionalismo critico» popperiano,
ad esempio, è così negativamente connessa con il
neopositivismo, che il suo autore si vanta di averlo ucciso
sin dal 1934 con la sua Logik der Forschung (Popper 1976;
trad. it., pp. 69-70). Analogamente, l’epistemologia postpopperiana (la cosiddetta «nuova filosofia della scienza»)
sviluppa all’estremo certi temi antipositivistici di Karl
Raimund Popper (n. 1902), sebbene uno dei suoi esponenti,
Paul K. Feyerabend (n. 1924), si sia talvolta divertito a
fingere di non sapere che cosa sia la filosofia di Popper, di
cui pure è stato allievo (Feyerabend 1979; trad. it., pp. 3-4).
Si tratta pur sempre di epistemologie che nascono da una
polemica filosofica o da una polemica su una polemica.
Data l’importanza diretta o indiretta del neopositivismo
per l’epistemologia del Novecento, è ancora necessaria una
precisazione terminologica circa il termine stesso di
neopositivismo. E’ stato osservato (Haller 1986, p. 108) che
nessuno dei membri di tale movimento si è etichettato come
«neopositivista», designando piuttosto il movimento come
«positivismo logico» o «empirismo logico» o «empirismo
razionale». Il termine neopositivismo sarebbe allora
qualcosa di introdotto dalla critica per suggerire un cliché
interpretativo, che attribuisce unitariamente a tale
movimento, ricco di figure assai diverse tra loro, alcune
2
teorie ben precise e determinate, che sono invece presenti
solo in alcuni dei suoi rappresentanti e in particolari
momenti del loro pensiero.
Contro questa tesi, tuttavia, va ricordato che non furono
solo gli avversari del neopositivismo ad usare tale
denominazione, dal momento che, nel 1950, il ‘viennese’
Viktor Kraft (1880-1975), il quale sin dall’inizio aveva
aderito al movimento, parlava a proposito di esso proprio di
Neupositivismus.
Quanto all’uso di espressioni come «positivismo logico»
o «empirismo razionale» o «empirismo logico» o
«neoempirismo», pur essendo state, almeno alcune di esse,
usate dai membri fondatori o partecipanti del movimento,
può anch’esso risultare ambiguo. Nella filosofia italiana, ad
esempio, Alberto Pasquinelli (n. 1929), che pure fu allievo
di Carnap a Chicago nei primi anni Cinquanta, intitolò Il
neoempirismo la raccolta antologica in cui nel 1969
raccolse oltre a scritti dei neopositivisti anche scritti di
autori come George Edward Moore (1873-1958) e di
Popper di Willard Van Orman Quine (n. 1908), i quali,
come si vedrà in seguito, sono fortemente critici verso
fondamentali
tesi
neopositivistiche.
Infatti,
per
«neoempirismo» Pasquinelli intende «un movimento di
pensiero assai ampio, che congiuntamente al pragmatismo
[…] può venire considerato l’erede più significativo, nel
mondo contemporaneo, della filosofia empiristica classicomoderna» (Pasquinelli 1969, p. 9; cfr. Barone 1978, pp. 24).
D’altra parte, Paolo Filiasi Carcano (1911-1977), che fu
tra i primi ad occuparsi in Italia di «neopositivismo»,
nello sviluppo del suo pensiero (cfr. Filiasi Carcano 1975)
finì per indicare con tale termine una più generica filosofia
del linguaggio, impegnantesi in una «battaglia per la
chiarezza», comprendendo nell’estensione del termine
stesso anche la filosofia analitica anglosassone oltre al
neopositivismo in senso stretto. È proprio nell’intento di
evitare tali genericità che Barone preferì per la sua opera
del 1953 il titolo un pò ridondante di neopositivismo logico
per una più determinata e precisa caratterizzazione del
neopositivismo in senso stretto.
Osservazioni analoghe possono essere fatte anche per la
denominazione di «empirismo logico» fatta propria da
Giulio Preti (1911-1972) nel suo scritto del 1954, Le tre fasi
dell’empirismo logico, denominazione ripresa dal titolo
dell’articolo di Feigl e Blumberg del 1931, che aveva
3
costituito la prima presentazione negli Stati Uniti dei temi
caratteristici del neopositivismo. Anche Preti appartiene a
quel gruppo di filosofi italiani che, nel dopoguerra,
elaborarono la loro concezione personale attraverso un
dialogo con il neopositivismo. Ma Preti, pur dichiarando di
individuare l’empirismo logico come la dottrina «con il suo
centro dottrinario» e la «sua problematica fondamentale»
nel «principio di verificazione» (cfr. Preti 1954, p. 296),
nella sua adesione ad esso vi innestò tali e tanti temi
neocriticisti e fenomenologici, che la sua immagine dell’
«empirismo logico» è più interessante come prospettiva sua
originale che quale fedele ricostruzione storica del
neopositivismo. Tutto ciò risulta, ad esempio,assai chiaro
dalle sue Lezioni di filosofia della scienza (1965-1966),
pubblicate postume nel 1989.
Si è così preferito talvolta designare tale movimento con
un’etichetta meno teorica ma più legata alla sua
collocazione storico-geografica, parlando di «Circolo di
Vienna» (Wiener Kreis). Ma anche qui gli storici si sono
presto accorti che si può addirittura parlare di due Circoli di
Vienna, il primo situato all’inizio del secolo e il secondo (a
cui parteciparono anche i membri del primo) attorno agli
anni Venti (Haller 1986, pp. 111 segg.).
In questa trattazione parleremo quindi, indifferentemente,
di «Circolo di Vienna» o di «neopositivismo», nella
convinzione che siano utilissime le ricerche storiografiche
più recenti volte ad approfondire le personalità dei singoli
partecipanti al movimento e la varietà di tendenze (ed anche
di contrasti) al suo interno; ma anche convinti della
possibilità di stabilire pure alcuni tratti generali del
movimento: almeno secondo ciò che di esso fu recepito dai
contemporanei nel periodo della piena vitalità del
movimento stesso. Il peso culturale di un orientamento
filosofico dipende anche dal modo della sua ricezione.
E ciò vale in particolare per il neopositivismo, che è stato
punto obbligato di riferimento per l’epistemologia
posteriore. Ha quindi tuttora una sua validità l’immagine
del neopositivismo tramandata da una ormai ampia
bibliografia (Kaila 1930; Petzäll 1930; Feigl e Blumberg
1931; Weimberg 1936; Von Mises 1939; Geymonat 1945;
Kraft 1950; Barone 1953 e 1978).
Bibliografia
4
Barone, F., Il neopositivismo logico, Torino 1953, RomaBari 19863.
Barone, F., (a cura di), Neopositivismo e filosofia analitica,
in Grande antologia filosofica, vol. XXVII, Milano 1978,
19832, pp.1-449.
Carnap,R.,Von der Erkenntnistheorie zur Wissenshafttlogik, in Actes du Congrès international de philosophie
scientifique, Paris 1936, voI I pp. 36-41.
Feigl GL, H., Blumberg, A.E., Logical positivism, «The
journal of philosophy»,1931,
XXVIII, pp. 281-296.
Feyerabend, P., Über die Methode. Ein Dialog, in
Radnitzky, G., Andersson, (a cura di),Voraussetzungen
und Grenzen der Wissenschaft, Tübingen 1981, pp.175253 (trad. it. Dialogo sul metodo, Roma-Bari 1989).
Filiasi Carcano, P., Antimetafisica e sperimentalismo,
Roma 1941.
Filiasi Carcano, P., La metodologia nel rinnovarsi del
pensiero contemporaneo, Napoli 1957, 19702.
Filiasi Carcano, Note sull’interpretazione del neopositivismo,
«Cultura e scuola», XIV,1975, n. 56, pp.94-101.
Sul pensiero di Filiasi Carcano e per la sua bibliografia,
cfr.: Scienza, linguaggio e metafilosofia.Scritti in memoria
di Paolo Filiasi Carcano, Napoli 1980.
Geymonat, L., Studi per un nuovo razionalismo, Torino
1945.
Haller, R., Wittgenstein était-il néopositiviste?, in Sebestik,
J., Soulez, A. (a cura di), Le Cercle de Vienne. Doctrines et
controverses, Paris 1986, pp. 103-118.
Kaila, E., Der logistische Neupositivismus, Turku 1930
(trad.ingl. in Kaila, E., Reality and experience, DordrechtBoston 1979, pp. 1-58).
Kraft V.,Der Wiener Kreis. Der Usprung des
Neupositivismus, Wien 1950 (trad.it. Il Circolo di Vienna,
Messina 1969).
Mises, R. von, Kleines Lehrbuch des Positivismus, The
Hague- Chicago 1939
(trad. it.Manuale di critica
scientifica, Milano 1950).
Pasquinelli, A., Nuovi principi di epistemologia, Milano
1964, 19746.
Pasquinelli, A., Introduzione a Carnap, Roma-Bari 1972.
Pasquinelli, A. (a cura di), Il neoempirismo, Torino 1969.
5
Passmore, J., Logical positivism, in Edwards,P. (a cura di),
The Encyclopedia of philosophy, New York-London 1967,
voI. V, pp. 52-56.
Petzäll, A., Der logistische Neupositivismus, «Göteborgs
Högskolas Ǻrsskrift», 1931, XXXVII, 3 pp.
Popper,K.R., Uneded quest: an intellectual autobiography,
London 1976 (trad.it. La ricerca non ha fine. Autobiografia
intellettuale, Roma 1976).
Preti, G., Le tre fasi dell’empirismo logico, «Rivista critica
di storia della filosofia», IX, 1954, 1, pp.38-51; rist. in
Preti, G.,Saggifilosofici, vol.I : Empirismologico,
epistemologia e logica, presentazione di M. Dal Pra,
Firenze 1976, pp. 295-313 (da cui si cita).
Preti, G., Saggi filosofici,voll.I e II, Firenze 1976.
Preti, G., Lezioni di filosofia della sienza (1965-1966), a
cura di F. Minazzi, Milano 1989.
Sulla bibliografia di Preti e sul suo pensiero cfr.: Minazzi,
F., Giulio Preti: bibliografia, Milano1984.
AA.VV., Il pensiero di Giulio Preti nella cultura filosofica
del Novecento, a cura di F. Minazzi, Milano 1990.
Weinberg, J.R., An examination of logical positivism,
London-New York 1936 (trad. it. Introduzione al
positivismo logico, Torino 1950).
Ulteriore bibliografia sulle questioni trattate qui e nei
capitoli seguenti si trova in Barone F., Il neopositivismo
logico, cit., in particolare nel voI. II dell’edizione del 1986.
Per uno sguardo d’insieme sull’ epistemologia del
Novecento si veda anche:
Oldroyd, D., The arch of knowledge, New York- London
1986 (trad. it. Storia della filosofia della scienza, Milano
1989).
L’opera di Oldroyd è equilibrata e ricca di un’ampia
bibliografia, che ignora però gli studi italiani; non vi è
nemmeno alcun cenno all’epistemologia evoluzionistica.
6
2. Il Circolo di Vienna
Le origini del Circolo (o dei due Circoli) hanno le loro
radici nella particolare tradizione filosofica dell’Impero
austro-ungarico, nettamente diversa, nonostante la
comunanza di lingua, dalla tradizione germanica. La
filosofia austriaca (che ha nell’Ottocento i suoi centri
soprattutto a Vienna ed a Praga) è chiusa di fronte al
kantismo (Neurath 1935; Sebestik 1986), aperta invece a
Leibniz (1646-1716) e alla sua valorizzazione della logica,
soprattutto attraverso l’opera di Bernard Bolzano (17811848) e all’analisi delle strutture linguistiche sostenuta da
Franz Brentano (1838-1917), fondatore a Vienna di una
fiorente scuola dal 1874 al 1895.
E proprio nel 1895 fu istituita a Vienna una cattedra di
filosofia delle scienze induttive, alla quale venne chiamato
Ernst Mach (1838-1916), già famoso come fisico, storico e
metodologo della scienza (del 1883 è La meccanica esposta
nel suo sviluppo storico-critico), ma anche noto come
sostenitore dell’empiriocriticismo, cioè, per dirla con Otto
Neurath (1882- 1945), di una «battaglia contro la metafisica
della cosa in sé e del concetto di sostanza, [con] le sue
indagini sulla formazione dei concetti scientifici a partire
dai dati sensibili quali fattori elementari» (Hahn, Neurath,
Carnap 1929; trad. it., p. 64). Anche Hans Hahn (18791934) guarda a Mach come al prosecutore della tradizione
empiristica inglese per l’eliminazione delle «entità
superflue» e quale sostenitore di un orientamento
‘mondano’ del pensiero, volto solo ad ammettere ciò che fa
parte delle nostre esperienze vissute (Hahn 1929; trad. fr.,
p. 214). Analogamente, Philipp Frank (1884-1966) si ispira
a Mach nell’affermare che «non è necessario presumere
l’esistenza, accanto all’albero fruttifero della scienza, di una
regione sterile, terra dei problemi eternamente insolubili»
(Frank 1949; trad. it., p. 138). «Non ci sono confini tra la
scienza e la filosofia, qualora i compiti della fisica si
formulino secondo le dottrine di Ernst Mach, usando le
parole di Carnap: ‘ordinare sistematicamente le percezioni,
e dalle percezioni attuali trarre conclusioni intorno alle
percezioni da attendersi’».
Queste valutazioni del pensiero di Mach date da Hahn,
Neurath e Frank hanno un particolare rilievo. Non solo
perché testimoniano l’attenzione per Mach dei giovani che
a Vienna si affacciavano all’attività scientifica all’inizio del
7
secolo (tutti e tre erano viennesi ed a Vienna avevano
studiato); ma perché Hahn, Neurat e Frank furono appunto i
membri del cosiddetto ‘primo’ Circolo di Vienna; ossia i
partecipanti a quelle riunioni nei caffè viennesi, in cui, dal
1907 discutevano delle nuove problematiche scientifiche e
dei problemi più generali che esse sollevavano. L’impronta
machiana è fortissima su questi giovani. Forse non di tutto
Mach, poiché è assai scarsa l’attenzione che essi prestano
alle tesi machiane che fanno del processo conoscitivo un
momento del processo naturale e biologico dell’evoluzione
(tesi particolarmente evidenti in Erkenntnis und Irrtum del
1905); ma soprattutto del Mach che appare loro campione
dello spirito illuministico e della ricerca positiva e
antimetafisica.
Vi era certo diversità di interessi e anche di prospettive tra
il matematico Hahn, il fisico Frank e l’economista e storico
dell’economia Neurath, molto sensibile agli aspetti
‘scientifici’ del marxismo. Ma li accomunava la loro
interpretazione di Mach in senso illuministico,
antimetafisico sino alla negazione di un’autonomia della
filosofia rispetto alla ricerca scientifica. Sono già alcuni
tratti che caratterizzeranno poi il neopositivismo, così come
fu visto dai contemporanei.
Nelle loro discussioni al caffè, ovviamente, quei giovani
viennesi si aprivano anche alle suggestioni che, a proposito
della scienza, venivano da altri Paesi: in particolare alle
ricerche sui fondamenti della matematica e sulla logica ad
opera dell’inglese Bertrand Russell (1872-1970) e alle
riflessioni epistemologiche dei francesi Henri Poincaré
(1854-1912) e Pierre Duhem (1861-1916), che
evidenziavano l’importanza della convenzione nel
determinare la validità delle argomentazioni. In effetti, il
fenomenismo machiano si spingeva sino a ridurre teorie e
concetti matematici a semplici strumenti di organizzazione
delle sensazioni. Mentre i giovani viennesi approvavano
«senza riserve l’indirizzo antimetafisico di Mach» e
accettavano «volentieri come punto di partenza il suo
empirismo radicale», non per questo erano «disposti a
misconoscere la funzione primaria della matematica e della
logica entro la struttura della scienza»: proprio quella
funzione che, per loro, Mach «aveva trascurato» (Frank
1949; trad. it., p. 21). Descrivendo la maturazione delle sue
idee durante la Prima Guerra Mondiale, Frank dice
d’essersi persuaso che «la soluzione doveva ricercarsi
partendo dalle idee di uomini come Mach e Poincaré». Il
8
tentativo di integrare l’interpretazione machiana dei
principî scientifici, come descrizioni economiche
abbreviate di fatti osservati, e l’interpretazione che Poincaré
dava di essi «come libere creazioni della mente umana, che
non dicono nulla intorno ai fatti osservati», fu «l’origine di
ciò che più tardi venne definito empirismo logico» (Frank
1949; trad. it., p. 26). Il matematico Hahn, invece, cercava
di ovviare alle debolezze machiane nel proprio campo
guardando alla fondazione logistica della matematica
operata da Bertrand Russell, soprattutto con i Principia
mathematica, pubblicati tra il 1910 e il
1913 in
collaborazione con Alfred North Whitehead (1861-l947): e
nel suo insegnamento a Vienna egli tenne corsi di logica
matematica a partire dal 1921.
In questi sviluppi del primo Wiener Kreis si vengono così
già delineando tratti salienti del ‘secondo’; a quest’ultimo,
che si era costituito alla fine degli anni Venti e di cui Hahn,
Frank e Neurath furono tra gli autorevoli fondatori, d’ora in
avanti, più propriamente, ci riferiremo con la
denominazione di Wiener Kreis. E, se consideriamo il
programma delineato da Rudolf Carnap neI 1928 per La
costruzione logica del mondo, l’opera che già indica
l’orientamento del Wiener Kreis poco prima della sua
nascita ufficiale (1929), vediamo una continuità con i
suddetti sviluppi. «Il precedente empirismo sottolineava
con ragione la prestazione dei sensi, ma non riconosceva
l’importanza e la peculiarità delle formazioni logicomatematiche. Il razionalismo conosceva certamente questa
importanza, ma credeva che la ragione fosse in grado non
solo di dare la forma, ma anche di creare, traendolo da sé
stessa (a priori), un contenuto nuovo». Attraverso l’influsso
di Gottlob Frege (1848-1925) e di Russell, dice Carnap,
«mi era divenuta chiara, da un lato, l’importanza
fondamentale della matematica per la costruzione del
sistema della conoscenza, ma, dall’altro, anche il carattere
puramente logico, formale, della matematica, sul quale si
basa l’indipendenza di questa scienza dalle accidentalità del
mondo reale. Queste prospettive si posero alla base del mio
libro» (Carnap 1928; trad. it., p. 72).
Eppure, nel decennio successivo alla guerra, era pur
capitato qualcosa, che va tenuto presente per capire come
dall’orientamento generico dei giovani viennesi si sia
passati all’effettivo Wiener Kreis. E questo qualcosa consta
di due momenti: l’uno di carattere istituzionaleuniversitario, l’altro, più schiettamente teorico, legato alla
9
comparsa nel 1921 (e all’edizione con traduzione inglese a
fronte del 1922) del Tractatus logico-philosophicus di
Ludwig Joseph Wittgenstein (1889-1951).
Ritrovatisi a lavorare a Vienna dopo la guerra, Hahn,
Neurath e Frank — succeduto nel 1912 ad Albert Einstein
(1879-1955) sulla cattedra di fisica teorica a Praga — si
resero conto che il loro programma illuministico e
antimetafisico aveva bisogno della collaborazione di un
filosofo. Così Hahn sollecitò la chiamata, nel 1922, alla
cattedra che era stata di Mach, del berlinese Moritz Schlick
(1882-1936), che si era laureato con Max Planck (18581947) e che era ormai noto per i suoi studi sulla rilevanza
filosofica della teoria einsteiniana della relatività e per una
Teoria generale della conoscenza uscita nel 1918, in cui i
temi empiristici e realistici erano usati in funzione critica
del kantismo, in polemica con i neokantiani della Scuola di
Marburg, soprattutto Ernst Cassirer (1874-1945).
Fu paradossalmente proprio questa chiamata di un
tedesco a far maturare le condizioni di fatto per la nascita
del Wiener Kreis, arricchendo anche la tradizionale
problematica viennese con il tema, tipicamente germanico,
del confronto con Immanuel Kant (1724-1804), per
mostrare come l’apriorismo kantiano sia inficiato dagli
sviluppi contemporanei della fisica e della matematica.
Attorno a Schlick, che ogni giovedì sera ospitava
colleghi, assistenti e simpatizzanti, si andò così formando
un gruppo di studiosi: dapprima i suoi collaboratori
Friedrich Waismann (1896-1959) e Herbert Feigl (n. 1902)
e poi, via via, i ‘vecchi’ viennesi Hahn, Neurat e Frank,
assieme ad altri docenti dell’Università, come Kurt
Reidemeister, Felix Kaufmann (1895- 1949), Victor Kraft,
Karl Menger (n. 1902). DaI 1926, fatto chiamare a Vienna
da Schlick come istruttore di filosofia, si aggiunse come
figura di spicco Rudolf Carnap. Significativa della
continuità con il passato è la costituzione, nel 1928, e sotto
la presidenza di Schlick, della «Associazione (Verein) Ernst
Mach» con l’intento di favorire e diffondere una
«concezione scientifica del mondo». E fu a cura di tale
Verein che l’anno successivo venne pubblicato il
‘manifesto’ del Circolo: Wissenschaftliche Weltauffassung.
Der Wiener Kreis. Questo libretto, firmato da Hahn,
Neurath e Carnap, fu steso per la prima volta da Neurath,
ma poi rivisto da Carnap e Feigl (sintomo, ciò, della non
perfetta unità d’intenti all’interno del Circolo, come
apparirà di lì a poco) e venne offerto a Schlick, al suo
10
ritorno da Stanford, ove era stato visiting professor, come
segno di riconoscenza per non aver accettato una chiamata
all’Università di Bonn.
Il Wiener Kreis si mette subito all’opera. Già nel
settembre del 1929 partecipa, in posizione autonoma, alla
riunione dei matematici e dei fisici tedeschi a Praga. E qui i
suoi membri si incontrano con quelli della «Società per la
filosofia empirica» di Berlino, tra cui Hans Reichenbach
(1891-1953), Kurt Grelling, Walter Dubislav, Wolfang
Köhler (1887-1967), Carl Gustav Hempel (n. 1905). Anche
essi miravano a una «concezione scientifica del mondo»,
che tenesse conto, come dirà Reichenbach, della
«disgregazione dell’a priori» (Reichenbach 1936, p. 28) ad
opera della nuova fisica e della fondazione empirica della
scienza sul modello dell’empirio-criticismo di Richard
Avenarius (1843-1896) e di Mach, la cui tradizione era
stata tenuta viva in Germania da Joseph Petzold (18621929), fondatore della «Gesellschaft für positivistische
Philosophie», da cui derivò la Società per la fìlosofia
empirica, e direttore sino alla morte degli «Annalen der
Philosophie».
La scomparsa di Petzold fece si che il gruppo viennese e
quello berlinese testimoniassero l’unità di intenti con la
trasformazione degli «Annalen» in una nuova rivista,
«Erkenntnis. Zugleich Annalen der Philosophie», diretta da
Carnap e da Reichenbach. Così il neopositivismo aveva
anche il suo organo ufficiale: la rivista uscì a Lipsia sino al
primo fascicolo del volume VII, poi all’Aja (fascicoli 2-6
del volume VII, 1938-1939) e, con il nuovo titolo «The
journal of unified science. (Erkenntnis)», volume VIII,
1940, diretta da un comitato di cui facevano parte, oltre a
Frank e Neurath, anche il danese Joergen Joergensen (18941969), l’americano Charles Morris (1901-1979), il francese
Louis Rougier (1889-1981) e l’inglese Lizzie Susan
Stebbing (1885-1943). Era così testimoniata la diffusione
internazionale raggiunta dal neopositivismo, cominciata nel
1930 a Oxford in occasione del VII Congresso
internazionale di filosofia, ove Schlick aveva presentato la
relazione The future of philosophy. Nel 1975, con il volume
IX, presso l’editore Reidel di Dordrecht fu ripresa
l’edizione della rivista (con la direzione di Hempel,
Wolfang Stegmüller e Wilhelm Essler): ma il nuovo titolo
— «Erkenntnis. An international journal of analytic
philosophy» — già di per sé mostra che il neopositivismo è
ormai finito come movimento. È significativo di ciò anche
11
il fatto che, dopo la guerra, non furono più riprese le due
collane («Schriften zur wissenschaftliche Weltauffassung»,
diretta da Frank e Schlick, e «Einheitswissenschaft», diretta
da Hahn, Carnap, Frank e Neurath) pubblicate a Vienna
negli anni Trenta e che di fatto esponevano tesi e
discussioni del Wiener Kreis e su di esso.
Se questi sono gli eventi che trasformarono, con continue
accessioni, il gruppo dei giovani viennesi d’inizio secolo
nel Wiener Kreis e, attraverso l’adesione del gruppo dei
berlinesi, nel movimento neopositivistico, vanno ancora
chiariti gli elementi teorici che contribuirono alla
fisionomia del movimento. Come già si è detto, questi sono
dovuti alla comparsa del Tractatus logico-philosophicus del
Wittgenstein.
Nel
manifesto
Wissenschaftliche
Weltauffassung del 1929, infatti, Wittgenstein è ricordato
con Einstein e Russell come un sostenitore della concezione
scientifica del mondo che ha esercitato «il maggior influsso
sul Circolo di Vienna». In realtà, per tutti e tre questi
personaggi è discutibile la paternità a loro attribuita dal
Wiener Kreis. Einstein fu certo con la sua teoria della
relatività (al cui significato filosofico oltre che fisico
avevano dedicato studi importanti tanto Schlick che
Reichenbach) tra coloro che piu fecero sentire l’ esigenza di
una rinnovata epistemologia. Ma con il suo rifiuto
dell’interpretazione
empiristico-positivistica
della
meccanica quantistica si allontanò poi dall’empirismo
radicale che fu proprio del Wiener Kreis, per cui invece
simpatizzò, ad esempio, il fisico Werner Karl Heisenberg
(1901-1976). Anche Russell, che con la sua opera di logico
diede un contributo di fondo alla concezione scientifica del
mondo ─ che in qualche modo auspicava quando diceva
che la filosofia «mira soltanto a chiarire i concetti
fondamentali delle scienze» (Russell 1928; trad. it., p. 66)
─ divenne poi in realtà assai polemico contro il
neopositivsmo, i cui sviluppi sempre più formali gli parvero
«celare i problemi invece di aiutare a risolverli» (Russell
1950; trad. it. p. 351).
Ma fu senza dubbio Wittgenstein colui che venne
adottato più arbitrariamente dal Wiener Kreis. Non solo
perché nella seconda fase del suo pensiero, elaborata negli
anni Trenta e testimoniata dalle Philosophische
Untersuchungen (1953), egli pervenne ad una concezione
del linguaggio e della sua significanza opposta a quella
neopositivistica e tale da servire da spunto ad alcune forme
dell’epistemologia anti-neopositivistica; ma già perché le
12
ultime proposizioni del Tractatus (trascurate dai
neopositivisti) non miravano affatto ad una concezione
scientifica del mondo («noi sentiamo che, anche una volta
che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto
risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur
toccati»), (Wittgenstein 1922, 6.52). E nelle rare
partecipazioni agli incontri a casa Schlick stupiva talvolta
gli interlocutori recitando loro poesie di Rabindranath
Tagore (1861-1941) anziché discutere di epistemologia
(Waismann 1967; trad. it., pp. 4-5).
Eppure, nonostante i fraintendimenti, più o meno voluti,
del Tractatus, questo funzionò davvero come il
catalizzatore che favorì l’incontro tra la tendenza
empiristica machiana e la tendenza logica russelliana nella
cosiddetta wissenschaftliche Weltauffassung: ed è da tale
incontro che nacque il Wiener Kreis.
È la lettura fatta a Vienna del Tractatus (nel 1922 Hahn
gli dedicò un corso), che permise il rafforzamento di quella
concezione scientifica del mondo già esemplificata in
qualche modo dal Russell in Our knowledge of the external
world (1914) e in Philosophy of logical atomism (1918), ma
in cui la riduzione dell’apparato concettuale della scienza e
della conoscenza a un insieme di costruzioni logiche sui
dati di senso, era ancora impedita da una persistente
metafisica ‘realistica’, in Russell, a proposito della natura
degli enti logici e matematici. Realismo assai accentuato
nei Principles of mathematics, in cui li si concepiva come
un mondo di universali sussistenti indipendentemente dai
fatti sensibili; ma mai del tutto abbandonato nemmeno a
seguito delle critiche del Wittgenstein, di cui pure Russell
tenne conto nella seconda edizione dei Principia
mathematica.
Una rinuncia a tale realismo degli universali è invece al
centro del Tractatus, il cui tema principale, su cui si
affisarono i neopositivisti, è l’indagine sul linguaggio e
sulla sua capacità rappresentativa del mondo. Le lingue
storiche ostacolano la visione della struttura logica che
rende significante il linguaggio. Esso è tale perché, nella
sua forma ideale, è immagine del mondo: la configurazione
dei segni semplici (o nomi) nell’enunciato (o proposizione)
corrisponde alla configurazione degli oggetti nei fatti reali.
Così il significato di un enunciato è la sua capacità di
raffigurare fatti possibili. E affinché il linguaggio della
conoscenza e della scienza abbia la possibilità di dare
un’immagine del mondo è indispensabile che vi siano
13
enunciati semplici (o atomici) raffiguranti fatti semplici.
Quindi l’intero linguaggio significante poggia sulla base
degli enunciati atomici, poiché le proposizioni non
elementari sono soltanto connessioni di enunciati atomici
mediante le costanti logiche: sono «funzioni di verità» di
questi, poiché la loro verità o falsità dipende dalla verità o
falsità degli enunciati atomici.
Per il suo contenuto fattuale, la scienza è dunque
l’insieme degli enunciati atomici e delle proposizioni
molecolari. Gli enunciati logici e matematici, fondamentali
per la conoscenza scientifica, non hanno invece significato
fattuale: sono sinnlos, ossia sono analitici (o tautologici),
poiché si tratta di mere trasformazioni di segni linguistici, e
la loro validità dipende soltanto dalla forma intrinseca dei
segni stessi. La validità universale della matematica non
presuppone così qualcosa di metafisico: dipende solo dalla
sua natura linguistica.
Al di fuori delle proposizioni significanti fattualmente e
delle tautologie ed equazioni non ci sono altre asserzioni
gnoseologicamente significanti, ma solo connessioni
insensate (unsinnig) di parole: tali sono per lo più le
asserzioni filosofiche tradizionali. La filosofia, per
Wittgenstein, non è conoscenza, ma attività di elucidazione
delle strutture del linguaggio significante. Così anche le
asserzioni del Tractatus sono unsinnig, poiché non dicono
la struttura del linguaggio significante ma la mostrano, in
quanto per ‘dirla’ bisognerebbe uscire dal linguaggio. Il
Tractatus si chiude con una nota mistica: «Sopra ciò di cui
non si può parlare bisogna tacere» (Wittgenstein 1922,
prop. 7). Le tonalità mistiche furono trascurate dai
neopositivisti, che si lasciarono sfuggire anche il fatto che
per Wittgenstein fosse più importante ciò che non si può
dire di ciò che si può dire, ossia il valore a cui la scienza
non guarda. E, nella loro tradizione machiana,
interpretarono gli enigmatici ‘oggetti’ e ‘fatti’, di cui parla
il Tractatus, come percezioni o situazioni percettive. Così
lo Schlick, che già nella Teoria generale della conoscenza,
aveva distinto tra l’Erleben e l’Erkennen, tra l’esperienza
vissuta immediata (Erlebnis) e la conoscenza (Erkenntnis),
perché quest’ultima, di valore intersoggettivo, sorge
soltanto quando agli Erlebnisse si coordinino le strutture
simboliche delle scienze deduttive, ricava dal Tractatus lo
spunto per una rielaborazione della sua gnoseologia in
chiave di analisi del linguaggio. Nei saggi composti tra il
1926 e il 1936 (l’anno della morte) discusse in questa
14
prospettiva importanti questioni di metodologia scientifica
(interpretazione della causalità come possibilità di
predizione di eventi; critica delle interpretazioni
spiritualistiche della meccanica quantistica, ecc.), ma
soprattutto, attraverso il celebre «criterio empirico di
significanza» («il significato di una proposizione è il
metodo della sua verifica» [Schlick 1938; trad. it., p. 340]),
si soffermò sulla critica delle proposizioni metafisiche e
filosofiche tradizionali, che, in base al suddetto criterio, o
sono riportabili a proposizioni scientifiche o sono prive di
senso. Di quest’ultimo tipo, ad esempio, sono le asserzioni
contrapposte di realisti e idealisti circa la trascendenza o
meno del mondo rispetto alla conoscenza di esso.
Fu soprattutto nella veste critica della filosofia
tradizionale che i contemporanei videro le dottrine del
Wiener Kreis. Anche perché in tale direzione insistettero
alcuni scritti del Carnap, che nel 1931 divenne professore di
filosofia naturale all’Università tedesca di Praga. Il già
ricordato Der logische Aufbau der Welt vuole ricostruire
l’intero campo dei concetti conoscitivi «costituendoli» in
ordine graduale come classi di proprietà e relazioni il cui
significato è garantito dall’esperienza immediata personale.
Ed è significativo che sempre nel 1928 egli pubblicasse gli
Scheinprobleme in der Philosophie, il cui tema è ripreso nel
noto articolo Überwindung der Metaphysik durch logische
Analyse der Sprache del 1931, critico nei confronti di
Essere e tempo di Martin Heidegger (1889-1976). Superare
la metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio vuol
dire individuare i modi con cui si costruiscono gli
pseudoenunciati della metafisica: o usando parole senza
significato empirico, o connettendo parole che
singolarmente lo hanno ma sono connesse senza rispettare
il criterio empirico di significanza. Per Carnap le frasi dei
filosofi esprimono stati d’animo emotivi. I metafisici sono
«musicisti senza capacità musicale» (Carnap 1931; trad. it.,
p. 531). Così cadono altri rami dell’albero tradizionale della
filosofia: non solo non sono possibili asserzioni filosofiche
di portata conoscitiva di là da quelle della scienza; ma è
anche escluso che la filosofia possa trovare spazio nei
«giudizi di valore».
Bibliografia
15
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Milano 1966; comprende anche la trad. degli
Pseudoproblemi della filosofia, la cui ed. orig. è del 1928).
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metafisica mediante l’analisi logica dei linguaggio, in
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16
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Sui rapporti tra Mach, il «primo» e il «secondo» Circolo di
Vienna, cfr.:
Barone, F., Ernst Mach e il neopositivismo logico, «Nuova
Civiltà delle Macchine», 1990, VIII, 1, pp. 73-83.
17
3. Dibattiti e divergenze nel Wiener Kreis
Il tema unitario del neopositivismo è soprattutto in questa
direzione polemica. Ma nemmeno due anni dopo la
costituzione del Wiener Kreis venivano in luce le molteplici
componenti, talvolta addirittura in contrasto, che si
celavano sotto l’unitaria facciata polemica. Così ci sono in
esso aspetti di dissoluzione teorica già prima che le vicende
storiche esterne portassero alla sua dispersione di fatto.
La morte colpì Hahn nel 1934; Schlick fu assassinato
davanti all’Università da uno studente, poi liberato dal
carcere dopo l‘Anschluss nazista. I primi ad essere colpiti
dall’avvento del nazismo in Germania furono i ‘berlinesi’.
Reichenbach lasciò la Gernania nel 1933 e, dopo aver
insegnato a Istanbul, si trasferì negli U.S.A. nel 1938, ove
già nel 1937 era giunto lo Hempel, dopo un triennio passato
a Bruxelles; e Dubislav, trasferitosi a Praga vi morì nel
1937, mentre di Grelling, deportato dai nazisti, non si
ebbero più notizie dopo il 1943. E ben presto cominciò
anche la diaspora dei viennesi. Feigl vive tuttora negli
U.S.A., dove era emigrato nel 1930; Carnap, trasferitosi a
Praga nel 1931, emigrò anche lui neI 1935 oltre oceano,
divenendo professore prima a Chicago e poi all’Università
della California. Caduto il governo socialista in Austria,
Neurath si era trasferito nel 1934 in Olanda e, nel 1940, in
Inghilterra, ove già nel 1937 era giunto Waismann. Menger
nel 1937 e Frank neI 1938 emigrarono invece negli Stati
Uniti. Sicché, quando nel 1938 vi fu l’annessione nazista
dell’Austria alla Germania, dei membri più noti del Wiener
Kreis restava a Vienna solo il Kraft.
Nei pochi anni di attività, il Circolo era stato tuttavia
frequentato da stranieri che, tornati in patria, contribuirono
a diffondere i temi neopositivistici. Così l’inglese Alfred
Jules Ayer (1910-1989) fu a Vienna per qualche mese nel
1932 e nel 1936 pubblicò Language, truth and logic, un
breviario del neopositivismo, divenuto a Oxford quasi
‘bibbia filosofica’. Qualcosa di analogo per i paesi
scandinavi è dovuto al finlandese Eino Kaila (1890-1958),
che frequentò le riunioni del Circolo dal 1929 al 1934, e sin
dal 1930, con il saggio già
citato (Der logistiche
Neupositivismus), diede la prima trattazione del
neopositivismo; ed allo svedese Ake Petzäll (1901-1957),
presente nei semestri estivi del 1930 e del 1931 a Vienna,
anche lui autore di un già citato studio d’insieme sul
18
neopositivismo. Anche Ludovico Geymonat (n. 1908), che
con La nuova filosofia della scienza in Germania (1934) e i
citati Studi per un nuovo razionalismo (1945) ebbe il
maggior merito per la conoscenza del neopositivismo in
Italia, frequentò Schlick a Vienna nel l934 (per Geymonat
cfr. anche il paragrafo10). Pure alcuni giovani polacchi,
come i coniugi Lindenbaum, vittime delle persecuzioni
razziali, ma soprattutto Alfred Tarski (1901-1983), furono
in contatto con membri del Wiener Kreis e fecero conoscere
nel loro Paese le tesi neopositivistiche, anche non
condividendole. Ma in particolare Tarski, con le sue
concezioni logiche, diede spunti a Carnap per gli sviluppi
americani del neopositivismo; ed anche a Popper per la sua
polemica antineopositivistica.
Nei pochi anni di attività il Circolo ebbe del resto la
possibilità di diffondere le tesi neopositivistiche comuni
attraverso la politica culturale, di cui soprattutto Neurath fu
maestro. E ciò sia nei congressi internazionali di filosofia,
sia nei congressi internazionali di filosofia scientifica,
inaugurati da quello di Parigi del 1935, e che si tennero
annualmente sino al quinto, apertosi a Cambridge nel
Massachusetts due giorni dopo che la Germania aveva
invaso la Polonia il 1°settembre 1939. L’impresa di
maggior rilievo promossa dal Neurath fu tuttavia il progetto
di una International encyclopedia of unified science (Morris
1960), di cui si cominciò a parlare al congresso di Parigi del
1935 progetto che procedette con molte difficoltà, che
dovette ridurre le colossali dimensioni previste, e di cui il
primo fascicolo uscì a Chicago nel 1938. Direttore
dell’opera era Neurath, coadiuvato da Carnap e Charles
Morris, un pragmatista americano, che aveva frequentato il
Circolo di Vienna e che molto fece per la diffusione e il
rinnovamento del neopositivismo negli U.S.A. (Morris
1937). Dell’Encyclopedia uscirono in tutto venti
monografie (quelle sulle Foundations), raccolte poi in due
volumi: e quasi a segnare la dispersione del neopositivismo
è significativo che il saggio di Thomas Samuel Kuhn (n.
1922) su La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che fu
l’ultimo a uscire nel 1962, sia in effetti considerato come un
testo fondamentale della «nuova filosofia della scienza».
Più interessanti delle contingenti vicende storiche sono
tuttavia per i filosofi le vicende teoriche del Wiener Kreis,
le quali mostrano la non sempre armonica coesistenza di
prospettive di là dai temi della wissenschaftliche
Weltauffassung e della critica antifilosofica.
19
Ciò vale già per l’atteggiamento assunto dai
neopositivisti di fronte alla tradizionale distinzione tra
scienze della natura e scienze dell’uomo. Mentre Neurath,
che ha una particolare attenzione alla sociologia (Neurath
1931 e 1944), ritiene entrambi i campi come momenti della
scienza unificata, con gli stessi criteri di significanza per le
loro asserzioni, Schlick pur facendo dell’etica una scienza
di fatti sul modello dell’empirismo classico, l’incentra sul
valore dell’utilità sociale che meglio realizza, per lui, il
senso gioioso della vita e le manifestazioni più alte della
personalità (Schlick 1930). Molto lontano da tutto ciò è
invece Carnap, che fa dei giudizi di valore mere espressioni
di emozioni e rende impossibile così ogni argomentazione
morale. Su questa linea si muove anche lo Ayer (Ayer
1936) e, fuori del neopositivismo, l’americano Charles
Leslie Stevenson (1908-1979) in Ethics and language del
1944.
Assai più rilevanti, per la prospettiva epistemologica,
sono tuttavia le divergenze nell’ambito del neopositivismo
a proposito delle inferenze induttive, della giustificazione
dell’induzione e dell’interpretazione del concetto di
probabilità, in quanto le inferenze induttive possono essere
solo probabili, senza mai raggiungere la certezza delle
deduzioni. Poiché la polemica anti-neopositivista di Popper
giungerà a negare che esista un problema dell’ induzione,
mentre invece nella prospettiva empiristica del
neopositivismo l’induzione dai dati sensibili è
indispensabile per pervenire alle asserzioni universali delle
leggi scientifiche, merita delineare le posizioni principali
sostenute in proposito dai membri del Wiener Kreis e dai
simpatizzanti.
All’interno del Wiener Kreis prevale la cosiddetta
concezione logica della probabilità, rapidamente prospettata
dal Wittgenstein nel Tractatus, e sviluppata da Waismann
(Waismann 1930-1931). Waismann ritiene che il calcolo
delle probabilità sia una teoria empirica nel senso che la
frequenza relativa (per esempio, il numero delle volte che
compare la faccia di un dado in un gran numero di lanci)
viene stabilita per via empirica. Ma quando noi parliamo
della probabilità di poter asserire una proposizione sulla
base di un’altra o di altre, noi ci riferiamo soltanto a dei
rapporti puramente logici stabiliti dalla forma stessa delle
proposizioni. E a questa concezione logica che si rifarà
Carnap, dopo il suo passaggio in America, nelle Logical
foundations of probability, ove la probabilità è vista come
20
grado di conferma di un’ipotesi sulla base di premesse
empiriche. La logica induttiva, di cui egli vuole costruire il
sistema o i sistemi, è quindi analitica come quella deduttiva.
Ovviamente il calcolo delle probabilità non può dirci se
la relazione analitica di probabilità tra asserzioni varrà
anche per il futuro: ma è proprio su ciò, sin dai tempi di
David Hume (1711-1776), che verte la questione della
«giustificazione dell’induzione». Così, alla fine degli anni
Sessanta, Carnap, che pure aveva da empirista coerente
sempre rifiutato l’ammissione della postulazione
tradizionale di una «uniformità del mondo», finisce con
l’ammettere una «intuizione induttiva» nella scelta degli
assiomi dei sistemi di logica induttiva, intuizione che ci
guida nello scegliere ciò che è induttivamente valido
(Carnap 1968, p. 265). Quell’a priori contro cui il
neopositivismo si era scagliato in nome della scienza
contemporanea viene così in qualche modo reintrodotto:
segno palese del venire meno all’interno dello stesso
neopositivismo di uno dei suoi tipici cavalli di battaglia.
La battaglia neopositivistica contro l’apriorismo nel
campo dell’induzione ebbe tuttavia anche altre forme oltre
quella della concezione logica della probabilità. Il berlinese
Reichenbach si soffermò assai presto sulla mancanza nel
Wiener Kreis di una teoria completa circa le proposizioni
sul futuro. A questo egli intese ovviare con una serie di
articoli, nelle prime annate di «Erkenntnis», sulla causalità
e la probabilità e sui fondamenti logici del concetto di
probabilità, in preparazione della Wahrscheinlichkeitslehre
del 1935. Anche in Experience and prediction del 1938,
egli, pur dichiarandosi fautore della wissenscaftliche
Weltauffassung, precisa la sua differenziazione dal Circolo
viennese. Sia perché insiste soprattutto, in nome
dell’empirismo, sulla probabilità come frequenza relativa;
sia
perché
dà
una
giustificazione
pragmatica
dell’inferimento induttivo a cui la ricerca scientifica di fatto
non rinuncia. Si tratta di non cadere nello scetticismo, né di
ammettere metafisicamente l’uniformità della natura. La
nostra situazione è come quella di un uomo che «vuol
pescare in una zona di mare non ancora esplorata. Non c’è
nessuno a dirgli se li c’è del pesce oppure no [...] Bene, se
vuol pescare in quella zona, io gli direi di gettare le reti,
almeno di correre il rischio. E preferibile tentare anche in
condizioni di incertezza, piuttosto che non tentare affatto ed
essere certi di non prendere nulla» (Reichenbach 1938, pp.
362-363).
21
Tale giustificazione pragmatica, che fu sostenuta anche
da Feigl (Feigl 1979), pone tuttavia in questione la rigida
limitazione
neopositivistica
delle
asserzioni
conoscitivamente ammissibili alle proposizioni sintetiche a
posteriori ed alle tautologie, poiché la postulazione che è
meglio tentare che non tentare non rientra né nelle une né
nelle altre. Qualcosa di analogo accadeva, del resto, quando
Schlick cercava di definire le leggi di natura, ritenute
extrapolazioni da osservazioni singole, come «prescrizioni
e regole di comportamento» per il ricercatore (Schlick
1931; trad. it., p. 68). E a ben vedere, era lo stesso «criterio
empirico di significanza», che non rientrava né tra le
proposizioni empiriche né tra le tautologie, a risultare, in
base a sé stesso, insignificante, dal momento che i
neopositivisti evitavano gli esiti mistici del Tractatus del
Wittgenstein.
Se tutte queste questioni rimanevano aperte nella
prospettiva neopositivistica e diverranno argomento di
riflessione e di polemica nell’epistemologia posteriore, la
‘crisi’ più drammatica del Wiener Kreis fu quella che si
ebbe a proposito del ‘fisicalismo’ e della ‘polemica sui
protocolli’. La wissenschaftliche Weltauffassung aveva sì
ridotto le strutture matematiche della scienza a
trasformazioni di simboli, ma per il contenuto della scienza
faceva appello a qualcosa di extralinguistico, le esperienze
vissute (gli Erlebnisse). E ciò agli scientisti più rigidi
pareva far risorgere la metafisica dell’inesprimibile. D’altra
parte, rinunciare all’appello al dato sensibile sminuiva la
forza polemica del neopositivismo contro la filosofia
tradizionale. Per questo Schlick difese sempre la posizione
originaria del Wiener Kreis contro quei membri che
volevano chiudersi all’interno degli enunciati linguistici
della scienza, dimenticando che «la scienza non è il
mondo» (Schlick 1935, p. 69). Ma all’interno del Circolo
prevalsero le tesi attenuanti la componente empiristica per
il timore della metafisica dell’inesprimibile. Cominciò
Neurath già nel 1931, con l’articolo Physikalismus, seguito
poi da una discussione su «Erkenntnis» tra lui e Carnap,
dapprima ancora legato alle tesi della Costruzione logica
del mondo, ma poi anch’egli fautore del ‘fisicalismo’
(Barone 1984).
Una delle tesi del fisicalismo fu quella dell’unità della
scienza, raggiungibile usando in ogni tipo di ricerca la
terminologia propria della fisica (in cui compaiono solo
nomi di cose e proprietà osservabili e determinazioni
22
spazio-temporali). Ma la conseguenza più importante di ciò
fu per i fisicalisti l’eliminazione dal linguaggio scientifico
di ogni riferimento a qualcosa di extralinguistico. Gli
enunciati elementari o «protocolli», che costituiscono la
base empirica della scienza, non fanno più riferimento agli
Erlebnisse, ma sono espressi negli stessi termini delle
proposizioni più complesse della scienza. Un protocollo
(come, per esempio, «il signor X nel luogo y e al tempo z
osserva W») non ha uno status particolare rispetto alle altre
asserzioni della scienza, che si ritiene siano accettate o
respinte a seconda che si accordino o meno con esso. Con il
fisicalismo muta dunque nel Wiener Kreis lo stesso
concetto di «verità»: vero non è l’enunciato che corrisponde
all’esperienza, ma quello coerente con gli altri enunciati del
sistema. La verità è intesa come coerenza di un sistema
linguistico: un protocollo che non si accordi con il sistema
può anche essere dichiarato falso, così come si può invece
modificare il sistema perché sia compatibile con il
protocollo. Nessun enunciato gode di un noli me tangere
(Neurath 1933; trad. it., p. 173).
La svolta fisicalista comportò anche una modificazione
del criterio di significanza. Si preferisce parlare ora di
«confermabilità» anziché di «verificabilità» (Carnap 19361937), dato che la verifica avviene sempre mediante un
confronto di enunciati. E di fronte alla confermabilità
«completa» degli enunciati che sono conseguenza di una
classe finita di protocolli, c’è la confermabilità
«incompleta» delle leggi scientifiche, che sono
conseguenze di classi infinite di proposizioni con predicati
osservabili. Ma quali siano i protocolli di una teoria e quale
tipo di conferma si voglia per essa, tutto ciò non ha niente
di assoluto e necessario: si tratta di decisioni convenzionali.
Tra i fisicalisti acquista importanza sempre maggiore il
tema del «convenzionalismo» che, nella sua forma
matematica (Poincaré), aveva già attratto l’attenzione,
all’inizio del secolo, del primo Wiener Kreis.
L’elaborazione più raffinata del convenzionalismo si ha nel
1934 con la Logische Syntax der Sprache di Carnap. Poiché
i fisicalisti non si interessano della possibilità che il
linguaggio ha di significare qualcosa che non sia
linguistico, la loro attenzione si concentra solo sulla
struttura interna del linguaggio, ossia sulla sua «sintassi».
Diversamente dalla logistica russelliana, che in virtù
dell’attenzione per la dimensione semantica del linguaggio
si preoccupava di determinare la «vera logica», Carnap fa
23
della logica l’insieme dei sistemi deduttivi, che sono diversi
con il variare della loro sintassi, cioè delle regole di
formazione (le combinazioni iniziali dei segni) e di
trasformazione (passaggio da una data combinazione a
quelle conseguenti). Le forme linguistiche si scelgono
liberamente: «In logica non c’è morale. Ciascuno può
costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di
linguaggio. Se egli vuole discutere con noi, deve solo
indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche,
invece di discussioni filosofiche» (Carnap 1934; trad. it., p.
45).
Così, al momento della scomparsa in Europa del Wiener
Kreis, la wissenschaftliche Weltauffassung — pur
accentuando ancora di più la sua polemica contro la
filosofia tradizionale, tanto che Carnap, sempre nella
Sintassi, dice che «al posto dell’inestricabile groviglio
problematico che si chiama filosofia compare la logica
della scienza» (ibid., p. 204) — ha già preparato, attraverso
le sue discussioni interne, delle prospettive che saranno poi
riprese contro di essa dall’epistemologia postneopositivistica. Basti qui accennare che la tendenza dei
fisicalisti a guardare soprattutto agli aspetti sintattici e
formali del linguaggio scientifico, sì da rendere evanescente
la distinzione tra i momenti teorici e i momenti empirici di
esso, è stata apprezzata dall’anarchismo metodologico
(Feyerabend 1976; trad. it., p. 137) come uno stimolo per
arrivare, paradossalmente, alla negazione di quel metodo
scientifico tanto celebrato dai neopositivisti.
Bibliografia
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(trad. it. Linguaggio, verità e logica, Milano, 1961).
Ayer dedicò al Circolo di Vienna e al neopositivismo anche
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Germania, Torino 1934.
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Neurath, O., Protokollsaetze, «Erkenntnis», 1933, III, pp.
204-214 (parziale trad. it. in Barone, F., (a cura di),
Neopositivismo e filosofia analitica, vol. XXVIII della
Grande antologia filosofica, Milano 1977, pp. 170, 172174).
Neurath, O., Foundations of the social sciences, Chicago
1944 (trad. it. Fondamenti delle scienze sociali, in Neurath,
O., Sociologia e neopositivismo, cit., pp. 65-122).
25
Tutti gli scritti filosofici e metodologici di Neurath sono
stati raccolti in:
Haller, R., Rutte, H. (a cura di), Gesammelte
philosophische und methodologische Schriften, Wien 1981,
2 voll.
Reichenbach,
H.,
Wahrscheinlichkeitslehre.
Eine
Untersuchung über die logischen und mathematischen
Grundlagen der Wahrscheinlichkeitsrechnung, Leiden 1935
(trad. ingl. riveduta The theory of probability, an inquiry
into the logical and mathematical foundations of the
calculus of probability,Berkeley 19492).
.
Reichenbach, H., Experience and prediction. An analysis of
the foundations and the structure of knowledge, Chicago
1938.
Di Reichenbach sono disponibili in italiano, tra l’altro:
Reichenbach, H., Der Aufstieg der wissenschaftlichen
Philosophie, Berlin 1953
(trad. it. La nascita della
filosofia scientifica, Bologna 1961).
Reichenbach, H., Modern philosophv of science, London
1959 (trad. it La nuova filosofia della scienza, Milano
1968).
Schlick, M., Fragen der Ethik, Wien 1930, seconda
edizione a cura di R. Hegselmann, Frankfurt a.M. 1984
(trad. it. Problemi di etica e aforismi, Bologna 1970).
Schlick, M., Die Kausalität in der gegenwärtigen
Physik,«Die Naturwissenschaftene», 1931, XIX, pp. 145193 (trad. it. in Schlick, M., Tra realismo e neopositivismo,
Bologna 1974, pp. 37-68).
Schlick, M., Facts and propositions, «Analysis», 1935, II,
pp. 65-70.
Stevenson, C., Ethics and language, New Haven-LondonOxford 1944 (trad. it. Etica e linguaggio, Milano 1966).
Waismann,
F.,
Logische
Analyse
des
Wahrscheinlichkeitsbegriff, «Erkenntnis», 1930-1931, I, pp.
228-248 (trad. ingl. in Waismann, F., Philosophical papers,
a cura di B. McGuinness, Dordrecht-Boston 1977, pp. 421).
Dal 1973, presso l’editore Reidel (Dordrecht-Boston), è in
corso la pubblicazione, nella traduzione inglese, di scritti di
precursori, membri e simpatizzanti del Wiener Kreis: è la
«Vienna Circle Collection», a cura di R.S. Cohen, B.
26
McGuinnes e H. Mulder. Sono già comparsi volumi di: H.
Feigl, H. Hahn, E. Kaila, F. Kaufmann, V. Kraft, E. Mach,
K. Menger, O. Neurath, H. Reichenbach, M. Schlick, E.
Waismann.
27
4. Di là dal Wiener Kreis
Abbiamo già anticipato in quello che precede alcuni
sviluppi del loro pensiero da parte dei più rappresentativi
neopositivisti dopo che essi avevano lasciato l’Europa.
Prima di completare questo quadro, è tuttavia opportuno
accennare agli «incontri» extraeuropei del neopositivismo,
sia perché è a causa di essi che l’attenzione
dell’epistemologia novecentesca si concentrò, magari
polemicamente molto spesso, sul neopositivismo nella fase
americana (sicché è prevalente nella seconda metà del
secolo l’epistemologia di lingua inglese), sia perché a
seguito di questo fenomeno ebbero una assai minore
risonanza i tentativi epistemologici al di fuori del
neopositivismo, come, per esempio, quello di Gaston
Bachelard (1884-1962).
I neopositivisti trasferitisi negli Stati Uniti trovarono qui
alcune tendenze di pensiero congeniali. Assai vicina alla
posizione originaria del Wiener Kreis fu l’epistemologia del
fisico di Harvard, Percy Williams Bridgman (1882-1961),
premio Nobel nel 1946 per le sue ricerche sulla fisica delle
alte pressioni, autore sin dal 1927 della Logic of modern
physics, in cui, ispirandosi alla teoria ristretta della
relatività
di
Einstein,
diede
un’interpretazione
«operazionale» delle teorie scientifiche. La validità delle
asserzioni di esse consiste nella coordinazione univoca di
esperienze concrete al simbolismo matematico, sicché il
signiticato dei concetti scientifici consiste nella
specificazione dei metodi (o «operazioni») per la loro
applicabilità. Questa tesi fu poi sostenuta dal Bridgman
anche in altri scritti, in cui lamentava che la teoria generale
della relatività avesse abbandonato il principale principio
«operativo». Ed è significativo che Einstein, adottato anche
dai fautori della wissenschaftliche Weltauffassung,
obiettasse a ciò che per fare di un sistema logico una teoria
fisica non è necessario interpretare e verificare tutte le sue
asserzioni «da un punto di vista operativo»; basta che esso
«contenga affermazioni empiricamente verificabili in senso
generale». (Einstein 1949, trad., p. 624).
Accanto
all’«operazionismo»
avevano
creato
un’atmosfera simpatetica per il neopositivismo anche la
cultura pragmatistica tipica degli Stati Uniti. L’appello
all’empirismo c’era in Williams James (1842-1910) e in
Charles Sanders Peirce (1839-1914) come in John Dewey
28
(1859-1952). E in Peirce, oltre l’interesse per la nuova
logica si trovavano anche importanti contributi ad essa.
Quanto a Dewey, poi, è vero che la sua dottrina della
scienza era lontana dallo empirismo logico, poiché nel suo
«strumentalismo» egli si opponeva alle dottrine che
volevano fissare la concreta esperienza in teorie astratte e
statiche; ma nel suo «naturalismo organicistico», che fa del
linguaggio e dei simbolismo in genere un affinarsi
evolutivo delle funzioni vitali, egli è aperto all’interesse
neopositivistico per il linguaggio. Si comprende così il suo
contributo al primo fascicolo dell’ International
encyclopedia of unified science e la stesura, per essa, della
Theory of valuation (Dewey 1938, 1939). Ai neopositivisti
l’accomunava «la fede nell’atteggiamento scientifico», ma
rifiutava la proposta in anticipo di «una base comune da
accettare» (Dewey 1939; trad. it., pp. 61- 62). E si è già
visto come il Morris, allievo a Chicago di George Herbert
Mead (1863-1931), che era assai vicino a Dewey, sia stato
l’effettivo tramite di collegamento tra il neopositivismo e il
pragmatismo americano.
È in particolare alla «semiotica» — la teoria del processo
in cui qualcosa funziona come un segno e del
funzionamento segnico del linguaggio — elaborata da
Morris (Morris 1938, 1946) che si devono alcune radicali
modifiche da parte di Carnap nella sua concezione sintattica
della «logica della scienza». Egli adottò infatti la
distinzione morrisiana tra la dimensione sintattica (relazioni
formali dei segni tra loro), quella pragmatica (relazione dei
segni con chi li interpreta) e quella semantica (relazione dei
segni con gli oggetti designati). Ritorna cosi il problema
(che il fisicalismo aveva preteso cancellare) del linguaggio
che significa in quanto si riferisce a qualcosa di non
linguistico.
Lo stesso problema si riaffaccia del resto anche nella
elaborazione della «semantica logica» del polacco Alfred
Tarski, anch’egli emigrato nel 1939 negli Stati Uniti. Già in
uno scritto in polacco del 1933, poi uscito in tedesco
(Tarski 1936), egli aveva mostrato che nei linguaggi
formali il concetto di «verità», come corrispondenza tra
segno e designatum, è indispensabile ai fini di una teoria
della deduzione. E sebbene Tarski, come matematico, tenga
a sostenere che la definizione semantica di verità non
dipende dalle prospettive filosofiche su tale concetto
(Tarski 1944), è fuori dubbio che egli riproponga con
urgenza
quella
concezione
della
verità
come
29
corrispondenza che è tipica di una visione del mondo
«realistica», nel senso che «c’è qualcosa» di cui la scienza
parla. Carnap integra la sua sintassi con la semantica
(Carnap 1942, 1947, 1950).Ma
pretende che tale
integrazione, che pur deve servirsi di entità astratte (come
«classi», «relazioni», «proposizioni», (non sia in contrasto
con l’empirismo neopositivistico e che le questioni
ontologiche che paiono affiorare sono solo apparenti, dal
momento che, come aveva detto nella Sintassi, si tratta
soltanto di scegliere convenzionalmente la forma di
linguaggio che vogliamo usare (Carnap 1950, 1963).
L’antifilosofia non scompare nemmeno in quest’ultima fase
del neopositivismo carnapiano.
Carnap è tra i neopositivisti quello che più conserva le
tendenze scientiste originarie pure nella fase americana del
neopositivismo. Ciò è rilevabile anche nelle trattazioni ove
pur c’è un’apertura innovativa. Così è nella sostituzione del
vecchio progetto di «costituire» i concetti scientifici su base
empirica con il progetto di «esplicazione», ossia di
sostituzione di un concetto prescientifico vago con un
explicatum più rigoroso ed esatto: nel caso della probabilità,
per esempio, il sostituire al termine d’uso quotidiano quello
o di frequenza relativa o di relazione di implicazione tra
testimonianze ed ipotesi. Ma quando Carnap (Carnap 1966)
tenta l’esplicazione del concetto di «causalità» ciò che
lascia insoddisfatti è il rifiuto a prendere in considerazione i
problemi filosofici sollevati dalla sua stessa analisi logica.
Anche sul tema dei rapporti tra elementi empirici ed
elementi teorici nella conoscenza scientifica, su cui si
concentrò l’analisi dei neopositivisti in questo periodo, sin
da Testability and meaning Carnap aveva avviato una
«liberalizzazione» del rigido criterio empirico di
significanza. Ma ancora nei Fondamenti filosofici della
fisica egli si sforza di evitare le implicazioni ontologiche
dei termini teorici, ossia «le fastidiose questioni metafisiche
che affliggono la formulazione originaria delle teorie»
(Carnap 1966; trad. it., p. 314).
Chi invece conduce la liberalizzazione dell’empirismo
sino all’abbandono dei presupposti scientistici è il
‘berlinese’ Hempel. Questi insiste sul fatto che non è
ammassando risultati empirici e generalizzandoli
induttivamente che si possono ottenere i principî con cui si
spiegano e si prevedono fenomeni osservabili. «Lo
scienziato deve inventare un insieme di concetti, i costrutti
teorici, privi di significato empirico diretto» (Hempel 1952;
30
trad. it., p. 47). In base ad essi si tratta di formulare ipotesi
che interpretino l’intera rete teorica: «E tutto ciò in una
maniera che consenta di stabilire tra i dati dell’osservazione
diretta connessioni profonde ai fini della spiegazione e della
previsione».
Agli studi di Hempel — e dell’americano Ernst Nagel (n.
1901), dapprima vicino a Bridgman — si deve anche
l’elaborazione di quel modello di spiegazione scientifica
noto come modello «nomologico-deduttivo»: un fatto è
spiegato quando lo si «deduce» da un insieme di leggi e di
specifiche condizioni iniziali (Hempel 1965, 1966). Quanto
si sia ormai lontani dalle tesi neopositivistiche originarie è
indicato anche dal fatto che tale modello è pure chiamato
«modello Popper-Hempel»: e Popper è proprio colui che
dice di avere ucciso il neopositivismo già nel 1934. E più di
recente ancora (Hempel 1989, p. 66), Hempel mette
addirittura in dubbio che il modello «nomologicodeduttivo» (che resta ancora legato allo schema
giustificativo delle teorie già fatte, indagando le relazioni
logiche tra enunciati e testimonianza empirica) riesca a
rendere giustizia «alle diverse considerazioni extralogiche,
che intervengono in modo significativo nella teorizzazione
scientifica». La frenesia neopositivistica per la
Wissenschaftslogik dà ora di nuovo spazio ai vecchi temi
della Erkenntnistheorie.
Intitolando questo capitolo «Di là dal Wiener Kreis», s’è
detto, non si è inteso solo indicare come il neopositivismo
nel periodo americano si sia lentamente dileguato e risolto
nella nuova epistemologia, ma anche che tale fenomeno ha
distolto l’attenzione da quelle forme di epistemologia
contemporanee al Wiener Kreis e che rimasero
originariamente
fuori
della
dominante
‘moda’epistemologica.
Vanno ricordati in questa prospettiva il matematico
italiano Federigo Enriquez (1871-1946), il francese
d’origine russa Alexandre Koyré (1892-1964), lo svizzero
Ferdinando Gonseth (1890-1975), che presero posizione
critica rispetto al neopositivismo, di cui discussero le tesi
fondamentali: dall’empirismo radicale all’antimetafisica e
alla trattazione nominalistica del simbolismo logico.
Due figure di epistemologi meritano tuttavia qualche
cenno più specifico. Gaston Bachelard, che ha lasciato in
Francia una scuola di ricercatori di storia della scienza, ha
insistito sin dagli anni Trenta sullo sviluppo della
conoscenza scientifica non come un tutto organico e
31
razionale, bensì quale processo che perviene sempre a
verità approssimate, attraverso il superamento di errori ed
ostacoli opposti sia dalla realtà stessa che si vuol
comprendere, sia dai pregiudizi delle nostre interpretazioni.
Il formalismo e l’empirismo radicale dei neopositivisti gli
paiono dunque inadeguati, nelle loro pretese normative, per
comprendere l’effettivo processo della conoscenza
scientifica. E se questo non è compreso anche da molte
forme tradizionali di filosofia, non per ciò lo studio della
scienza deve fare a meno dei presupposti metafisici e
filosofici che accompagnano le varie visioni scientifiche del
mondo.
Un’apertura verso la conoscenza come processo
‘storico’, e quindi in contrappozione alla pura analisi logica
del linguaggio scientifico condotta dai neopositivisti, c’è
anche nello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980),
che è stato fondatore a Ginevra di un Centro internazionale
e
interdisciplinsre
di
epistemologia
genetica.
Contrariamente
alla
tradizione
epistemologica
neopositivista, per Piaget non si tratta di analizzare le
conoscenze già acquisite e formulate, bensi di individuarne
genesi ed accrescimento. La risonanza del pensiero di
Piaget si ebbe soprattutto in campo psicologico e
pedagogico. Ma l’accentuazione dell importanza della
prospettiva storica per l’epistemologia, che c’è tanto in lui
quanto in Bachelard, è uno dei temi che ricompare
nell’epistemologia post- neopositivistica anche al di fuori
delle loro scuole.
Bibliografia
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1927 (trad. it. La logica della fisica moderna, Torino 1952,
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Di Bridgman si ricordano anche:
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(trad. it. I fondamenti filosofici della fisica. Introduzione
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1938 (trad. it. Lineamenti di una teoria dei segni, Torino
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Su Morris, cfr.:
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Barbò, F., L’antinomia del mentitore nel pensiero
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Tarski, A., The semantic conception of truth, «Philosophy
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Linsky, L. (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio,
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Per indicazioni bibliografiche su Enriques, cfr.:
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pedagogia e filosofia della scienza, a celebrazione del
centenario della nascita di Federigo Enriques (Pisa,
Bologna e Roma, 7-12 ottobre 1971), Roma 1973.
Pompeo Faracovi, O. (a cura di), Federigo Enriques.
Approssimazione e verità, Livorno 1982.
Sugli epistemologi francesi:
Vinti, C. (a cura di),
contemporanea, Roma 1977.
L’epistemologia
francese
Su Bachelard, le due antologie:
Sertoli, G. (a cura di), La ragione scientifica, Verona 1974.
Lo Piparo, F. (a cura di), Epistemologia, Roma-Bari 1975.
34
Su Gonseth:
Bertholrt, E., La philosophie des sciences de Ferdinand
Gonseth, Lausanne 1968.
«Dialectica», 1990, 44, fasc. 3-4 (l’intero fascicolo della
rivista – fondata da Gonseth nel 1947 – è dedicato al
pensiero di Gonseth, in occasione del centenario della sua
nascita).
Su Piaget:
Lerbet, G., Che cosa ha veramente detto Piaget, Roma
1972.
35
5. Il razionalismo critico di Popper
La figura di Popper è così centrale per l’epistemologia
novecentesca che, oltre ad occuparcene qui, dovremo
ancora
ritornarvi
nell’ultimo
capitolo
dedicato
all’«epistemologia evoluzionistica». Non che ci siano ‘due’
Popper, poiché il suo pensiero non ha soluzione di
continuità: ma i temi del suo «razionalismo critico», a
partire dal 1960 (Antiseri 1986), sono ripresi unitariamente
in una prospettiva evoluzionistica del processo conoscitivo,
così che per lui il darwinismo diventa un efficace
«programma di ricerca metafisico» (Popper 1976; trad. it.,
p. 172). In questo capitolo ci soffermeremo soltanto sui
temi originari del razionalismo critico.
Il razionalismo è per Popper un atteggiamento che cerca
di risolvere i problemi mediante il pensiero chiaro e il
ricorso all’esperienza. Esso è quindi molto simile
all’atteggiamento scientifico, purché sia «critico» e non
radicale. Non presuma, cioè, di fondare esso stesso la
validità dell’argomentazione e del ricorso all’esperienza. Se
si vuole evitare il circolo vizioso, tale validità va
preliminarmente accettata, come una credenza, una «fede
irrazionale nella ragione» (Popper 1945; trad. it., voI. II, p.
304). Il razionalismo critico comporta quindi la rinuncia a
un sapere che sia l’analogo di un punto di vista divino sul
mondo; e la rinuncia, anche, al dogmatismo scientifico.
A tale orientamento Karl Raimund Popper, nato a Vienna
nel 1902, fu indotto dalle sue stesse esperienze giovanili
nell’immediato primo dopoguerra, dall’attività in lavori
manuali e come assistente di bambini abbandonati. Da
ragazzino ammirava Amundsen (1872-1928) e avrebbe
voluto diventare anche lui esploratore; e, in seguito, gli
parvero esploratori i grandi scienziati, che cercano la verità
elaborando teorie che tentano di dire com’è la realtà. Ma il
cammino della scienza mostra che la verità non è la
certezza, poiché è incerto e rivedibile ogni risultato
acquisito. Fu tuttavia nel 1919 che maturarono per Popper
le condizioni del suo razionalismo critico. Nella primavera
egli simpatizzò per il piccolo partito comunista austriaco;
ma, già nell’estate, una dimostrazione che finì con alcuni
morti gli fece nascere il dubbio che fosse davvero
‘scientifica’, come proclamavano con sicurezza i marxisti,
la tesi che quei morti servissero per sradicare i mali del
capitalismo. E sempre nel 1919, Popper fu affascinato dal
36
modo in cui i fisici, a lungo restii, cominciarono ad
accettare la teoria generale della relatività, in quanto, in
occasione di un’eclisse solare, venne notato un lievissimo
spostamento della posizione delle stelle in vicinanza del
disco solare, confermando così la previsione della teoria
einsteiniana per cui i raggi luminosi passanti in vicinanza
del Sole sarebbero «piegati» dall’intenso campo
gravitazionale di questo.
Mettere alla prova una teoria scientifica significa
controllare se alcuni eventi inferibili da essa sono
confermati o falsificati dall’esperienza. Già nel 1916
Einstein aveva precisato questo criterio in Über die
spezielle
und
allgemeine
Relativitastheorie
(gemeinverständlich). Dopo aver previsto in base alla sua
teoria che i «raggi di luce si propagano in linea curva nei
campi gravitazionali», egli precisava che «tale risultato può
essere messo a confronto con la realtà» e che «l’esame della
correttezza o non correttezza di questa deduzione è un
problema della massima importanza, di cui ci si deve
attendere dagli astronomi la prossima soluzione» (Einstein
1916; trad. it., p. 101).
Ecco perché Popper considerò sempre Einstein tra i suoi
maestri ideali, tanto più che il controllo delle teorie fisiche
mediante l’esperienza metteva per lui in luce l’incertezza
della ricerca scientifica autentica in confronto alle sicurezze
di quelle che egli chiama «pseudoscienze»: e che il giovane
Popper vedeva esemplificate nella teoria marxista della
storia, nella psicanalisi e nella «psicologia individuale» di
Alfred Adler (1870-1937), con cui aveva per qualche tempo
collaborato nel seguire i ragazzi abbandonati. Ciò che
l’aveva colpito negativamente era la tendenza adleriana a
fare di ogni caso una conferma della teoria o direttamente o
attraverso aggiustamenti di comodo di essa. La
pseudoscienza nasce in primo luogo dalla presunzione di
certezze acquisite.
Con questo sfondo culturale il viennese Popper doveva
inevitabilmente imbattersi nei temi del Wiener Kreis, pur
non facendone mai parte (non è ricordato nel «Manifesto»
del 1929), nonostante i rapporti personali con Hahn,
Carnap, Feigl e Waismann, e il fatto che Neurath lo
considerasse «l’opposizione ufficiale» del Circolo,
avendone ascoltato una conferenza in cui Popper criticava
la verificabilità come criterio del significato e la
conseguente dichiarazione di mancanza di senso delle
proposizioni non scientifiche (Neurath 1973, p. 55). Ma la
37
cosa più paradossale fu che la Logik der Forschung (uscita
nel 1934, ma con la data del 1935) comparisse proprio nella
collana «Schriften zur wissenschaftltiche Weltauffassung»
diretta da Frank e Schlick. Anche questa pubblicazione fu
tuttavia assai tormentata. Nel 1932 Popper finì la stesura di
un libro Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie
(Popper 1979), in cui aveva raccolto, su suggerimento di
Feigl, le sue riflessioni sulla conoscenza scientifica; il
lavoro venne letto da parecchi membri del Circolo e poi
proposto da Schlick e Frank all’editore Springer nel 1933;
ma fu ritenuo troppo ampio, e solo dopo un quasi
dimezzamento operato da uno zio di Popper, a cui questi
aveva affidato il testo, comparve finalmente la Logik der
Forschung.
I due problemi fondamentali della conoscenza, la cui
soluzione costituiva per l’autore anche la determinazione di
un metodo della scienza, erano quello dell’induzione e
quello della demarcazione, o, come dice Popper, il
«problema di Hume» ed il «problema di Kant». Da un lato:
è possibile legittimare le asserzioni universali basandole su
constatazioni di fatti singolari?; e dall’altro: quale criterio ci
permette di distinguere tra le scienze empiriche ed i sistemi
metafisici? E il problema della demarcazione è «il più
fondamentale» (Popper 1935; trad it., p. 14).
La via che Popper sceglie per la soluzione è sin dall’inizio
in contrappo sizione alla wissenschaftliche Weltauffassung
dei neopositivisti, perché «i positivisti, nella loro ansia di
distruggere la metafisica, distruggono, con essa, la scienza
della natura» (ibid., p. 16). Il criterio empirico di
significanza adottato dai neopositivisti non serve infatti a
demarcare tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, perché
facendo dipendere il significato delle asserzioni dal metodo
della loro verifica rende prive di significato anche le
asserzioni universali, le leggi, della scienza. Per quanto
siano numerose le asserzioni particolari che attribuiscono la
proprietà a all’oggetto X, non è legittimato il «salto»
all’affermazione universale che «tutti gli X sono a».
Lo sforzo dei neopositivisti di eliminare la metafisica,
dichiarandola priva di senso, mette in dubbio anche la
possibilità della scienza. Se — come già aveva fatto Kant
— si demarca il conoscere scientifico rispetto alla
metafisica con il richiamo di tale conoscere all’esperienza
sensibile, non è necessario, come invece fanno i
neopositivisti, derivare tutte le nostre conoscenze da tale
esperienza (dando per scontata la legittimazione, che non
38
può essere induttiva, del processo di induzione); né, tanto
meno, trasformare il criterio di demarcazione in un criterio
di significato. Ci possono essere asserzioni significanti,
anche se non hanno il carattere di asserzioni scientifiche.
Diversamente dai neopositivisti, Popper non vuole
«uccidere la metafisica lanciandole improperi»; ed accanto
ad idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della
scienza (cioè del «razionalismo critico») ve ne sono altre,
come l’atomismo speculativo, che l’hanno favorito. «Sono
propenso a ritenere che la scoperta scientifica è impossibile
senza la fede in idee che hanno una natura puramente
speculativa, e che talvolta sono addirittura piuttosto
nebulose; fede, questa, che è completamente priva di
garanzie dal punto di vista della scienza e che pertanto,
entro questi limiti, è ‘metafisica’» (ibid., p. 19).
Escluso che il criterio di demarcazione sia un criterio di
significanza, Popper propone anche la sostituzione del
neopositivistico criterio di verificazione quale contrassegno
della procedura scientifica. Mentre nell’ambito del Circolo
si ha via via una «liberalizzazione» dell’empirismo, Popper,
pur mantenendo l’istanza empirica del controllo delle
asserzioni scientifiche, contrappone il criterio della
«falsificabilità» delle asserzioni scientifiche a quello della
loro «verificabilità». Vi è una asimmetria tra verificabilità e
falsificabilità: mentre un’asserzione universale non sarà mai
verificata da una serie per quanto grande di asserzioni
particolari, essa può essere falsificata anche da una sola
asserzione. Le constatazioni che ogni corvo che ho visto è
nero non bastano a verificare l’universale «Tutti i corvi
sono neri»; mentre mi basta constatare che un corvo non è
nero per falsificarla. E poiché la falsificabilità è un criterio
di scientificità ma non di significanza non c’è più nemmeno
bisogno di accorgimenti, come quello di Schlick, che
ammettono le leggi scientifiche non come asserzioni
genuine, ma come regole per la trasformazione di
asserzioni. Come già Popper aveva scritto in un articolo
uscito nel 1933 su «Erkenntnis»: «Possiamo, in modo
perfettamente coerente, interpretare le leggi naturali o le
teorie sulla natura come asserzioni genuine parzialmente
decidibili, come asserzioni, cioè, che per ragioni logiche
non sono verificabili, ma, in modo asimmetrico, soltanto
falsificabili: sono asserzioni che si controllano
sottoponendole a tentativi sistematici di falsificarle»
(Popper 1933; trad. it., p. 346).
39
Diventa così possibile una soluzione del «problema di
Hume», ossia dell’induzione: con quale diritto le scienze
empiriche formulano asserzioni universali? Come Popper
dirà nella prefazione alla traduzione italiana della Logik
(Popper 1935, trad. it.), attraverso il criterio della
falsificabilità diventa solubile il problema dell’induzione:
«non c’è induzione, perché le teorie universali non sono
mai deducibili da asserzioni singolari. Ma le teorie possono
essere confutate da asserzioni singolari, da descrizioni di
fatti osservabili» (Popper 1935, p. XIV). Sull’eliminazione
dell’induzione, considerata quale metodo della scienza,
Popper ritornerà anche in seguito, come si vedrà nel
capitolo sull’epistemologia evoluzionistica: ma la falsa
impostazione del problema di Hume è per lui legata
all’errata soluzione del problema della demarcazione, cioè,
alla convinzione che la scienza si distingua dalla
pseudoscienza per un metodo che dà conoscenze vere e
sicure e che consiste nel procedimento induttivo.
Accettato come criterio scientifico quello della
falsificabilità, come procedono i tentativi di falsificazione
delle proposizioni universali e delle teorie? Anche su
questo punto le tesi di Popper hanno un’affinità
problematica con la polemica sui «protocolli» allora viva
nell’ambito del Circolo. Pure Popper, come i fisicalisti,
vuole evitare che le asserzioni che servono come controllo
— e che egli chiama «asserzioni-base» (Basissätze) —
siano mera espressione del dato immediato: ogni asserzione
scientifica, per quanto elementare, oltrepassa sempre il
contenuto puntuale di esperienza e assume il carattere di
una ipotesi. Le asserzioni-base — che di solito hanno la
forma «nel luogo spazio-temporale x c’è il processo y» —
sono infatti deducibili da ipotesi più generali e teorie, e
concernono eventi intersoggettivi e ripetibili. Così Popper
trova che Neurath ha ragione nel dire che «gli enunciati
protocollari non sono inviolabili», ma obietta che Neurath
non fissa regole che limitino la possibilità di «cancellare» o
«accettare» arbitrariamente un asserto-base, e che in tal
modo «butta l’empirismo dalla finestra» (ibid., p. 90).
Popper, invece, pur ritenendo che il riconoscere quelle che
si ammettono come asserzioni di base sia una decisione
convenzionale, introduce delle condizioni formali per la
loro ammissione e la condizione materiale che esse
corrispondano a dei fatti e siano controllabili
intersoggettivamente.
40
Quando negli anni successivi Popper verrà a conoscenza
della teoria semantica della verità di Tarski, la farà sua
assumendo che l’idea di una verità oggettiva, o verità come
corrispondenza, è un’idea «regolativa» della ricerca
(Popper 1982-1983; trad. it., vol. I, p. 55). Cosicché sarebbe
un grave errore pensare che il carattere profetico e
congetturale di una teoria «sminuisca in qualsiasi maniera
la sua pretesa implicita di descrivere qualcosa di reale»
(Popper 1962; trad. it., p. 201). Diventerà allora molto
chiaro che Popper è in netta opposizione a quegli
orientamenti fisicalistici del Wiener Kreis che portavano
alla riduzione della verità a coerenza. Ma quando uscì la
Logik tutto il dibattito sulla «falsificabilità» e sulle
Basissätze (tanto simili ai «protocolli») indusse nei
neopositivisti l’idea che l’opera di Popper rientrasse nel
dibattito interno al Circolo. Ancora nel 1950, Hempel
considerava le tesi popperiane come un primo tentativo,
non ancora soddisfacente, per la liberalizzazione del criterio
empirico di significanza e, sempre nello stesso anno, Bela
Von Juhos (1901-1971) annoverava Popper tra gli
«ipotetisti» (i sostenitori del carattere ipotetico di ogni
proposizione empirica), unitamente ai fisicalisti, e in
contrapposizione a Schlick. Non si faceva altro che
riprendere ciò che nel 1932 aveva detto Carnap (sulla base
di una lettura del testo ancora inedito della Logik) di dovere
a Popper l’idea di una interpretazione radicalmente
convenzionalistica dei protocolli (Carnap 1933, p. 224).
Anche Neurath, che, in un articolo del 1935, era stato
recensore severo della Logik (soprattutto perché gli
sembrava caratterizzare la falsificazione come metodo
generale della scienza, mentre per Neurath non c’è una
regola per ridurre automaticamente a zero la fiducia in una
teoria, anche se i risultati negativi del suo controllo possono
scuotere la fiducia in essa), riconosceva che il libro era
«vicino all’empirismo scientifico del Circolo di Vienna»
(Neurath 1935; trad. it., p. 171); sebbene l’assolutismo della
falsificazione gli sembrasse mostrare che la «via della
scienza non è ancora libera da certi residui di solida
metafisica». Ciò che urtava Neurath erano soprattutto le
affermazioni in cui Popper sosteneva che «il metodo
scientifico presuppone l’immutabilità dei processi naturali
[ ...] la fede metafisica nell’esistenza di regolarità nel nostro
mondo (fede che io condivido, e senza la quale l’azione
pratica è quasi inconcepibile)» (Popper 1935; trad. it., p.
277).
41
Tutto ciò mostra come l’interpretazione che a lungo ha
fatto di Popper un neopositivista non fosse del tutto priva di
ogni fondamento. Nella Logik parecchi punti potevano
indurre a questo modo di pensare, se ci si lasciavano
sfuggire gli spunti che pur c’erano, ma che solo in seguito
divennero evidenti: ossia, l’opzione metafisica per il
«realismo», dopo aver esclusa la mancanza di senso della
metafisica.
Quando Popper diceva che «le teorie sono reti gettate per
catturare quello che noi chiamiamo ‘il mondo’» (ibid., p.
43), in realtà si contrapponeva all’interpretazione, che da
Hume arrivava sino ai neopositivisti, del cosiddetto
«principio dell’empirismo», tipico della scienza moderna:
inizialmente tale principio aveva rappresentato per gli
scienziati moderni il canone di distinzione degli enunciati
scientifici, caratterizzati dall’essere controllabili sul piano
dell’osservazione
e
dell’esperimento.
Ma
nell’interpretazione dell’empirismo filosofico tale principio
era diventato un canone di significanza degli enunciati in
genere e un tentativo di derivazione genetica di tutte le
strutture conoscitive e di tutti gli elementi contenutivi della
conoscenza dal dato sensibile. Popper con il suo
antiinduttivismo e il suo falsificazionismo rigetta tutto ciò:
all’origine della scienza (e della conoscenza) non c’è un
accumulo di «dati», ma l’esigenza di risolvere i problemi in
cui ci imbattiamo; e «i soli mezzi a nostra disposizione per
interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni
ingiustificate e le speculazioni infondate» (ibid., p. 310). È
questa convinzione, assieme a quella che la base empirica
delle scienze oggettive non ha nulla di assoluto, che fa
affermare a Popper che l’ardita struttura delle teorie della
scienza si «eleva, per così dire, sopra una palude. È come
un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono
conficcate dall’alto giù nella palude [...]; e il fatto che
desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le
palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno
solido. Semplicemente ci fermiamo quando siamo
soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i
sostegni siano abbastanza stabili da reggere la struttura»
(ibid., pp. 107-108).
Ci sono qui già tutti gli elementi, anche se non ci sono
ancora i termini, per parlare della conoscenza come un
processo di congetture, per risolvere problemi, e
confutazioni, cioè il controllo rigoroso di tali congetture:
sono questi i due termini che danno il titolo al volume in
42
cui Popper raccoglie saggi che vanno dal 1940 al 1960, e la
cui tesi di fondo è che «la stessa confutazione di una teoria
[...] è sempre un passo avanti che ci porta più vicino alla
verità. È questo il modo in cui possiamo imparare dagli
errori». E il poter discutere sulla pretesa delle teorie «di
risolvere i problemi meglio delle concorrenti [è ciò] che
costituisce la razionalità della scienza» (Popper 1962; trad.
it., p. 4).
Sono ormai delineati i tratti del «razionalismo critico». E
la primalità che in esso hanno le congetture indica che si
tratta di un vero rovesciamento della prospettiva
neopositivistica, di una reinterpretazione del «principio
dell’empirismo», non più secondo Hume bensì secondo
Kant. Popper ritiene che Kant colga appieno, ed eviti, le
difficoltà in cui si invischiava l’interpretazione humiana
dell’induzione. I difetti del kantismo non stanno
nell’ammissione di un momento a priori della conoscenza:
stanno piuttosto nel fare delle forme a priori non già delle
congetture bensì un sistema completo e necessitante (il
sistema delle «categorie»), annullando quindi la distinzione
tra ciò che è geneticamente e psicologicamente a priori e
ciò che è «valido» a priori. «Kant volle dimostrare troppo.
Nel tentativo di illustrare come è possibile la conoscenza,
propose una teoria che aveva la conseguenza inevitabile di
stabilire che la nostra esigenza di conoscere è sempre
sicuramente soddisfatta, il che evidentemente non è esatto.
Quando Kant affermò: ‘il nostro intelletto non trae le
proprie leggi dalla natura, ma le impone ad essa’, era nel
giusto. Ma sbagliava nel ritenere che dette leggi fossero
necessariamente vere, o che noi riuscissimo senz’altro ad
imporle alla natura. La natura, assai spesso, si oppone
molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le
nostre leggi in quanto confutate; ma, finché viviamo,
possiamo riprovarci ancora» (Popper 1962; trad. it., pp. 8687).
Si intravvedono già qui gli orientamenti evoluzionistici
in cui proprio negli anni Sessanta Popper stava inserendo il
suo realismo in una concezione della conoscenza come
tentativo di adeguamento biologico (e, per l’uomo, anche
culturale) ai fini della sopravvivenza nel proprio ambiente.
Ma per ora interessa soprattutto sottolineare come il
«razionalismo critico», nei tratti delineati, renda conto della
consapevolezza
propria
della
ricerca
scientifica
contemporanea di non possedere certezze senza tuttavia
rinunciare all’istanza di verità. E questo carattere è il pregio
43
del pensiero di Popper, di là dalle difficoltà specifiche
riscontrabili in alcune sue posizioni.
Si è visto che già Neurath (e ciò sarà in seguito ripetuto
da altri critici) obiettava che la pratica della ricerca
contrasta all’assolutezza attribuita da Popper alla
falsificabilità come criterio della scientificità. E, d’altra
parte, se è giusta la polemica popperiana contro l’erezione
del metodo induttivo a metodo della scienza, pare tuttavia
paradossale la negazione che nella conoscenza comune e
nella scienza l’induzione non abbia importanza alcuna.
L’uomo tenta «congetture» nell’affrontare le soluzioni di
problemi. Ma in che modo formula le sue congetture?
Perché ne formula alcune e altre no? Non gioca forse in ciò
anche l’analogia con casi precedenti? Ma in tal modo si
reintroduce l’induzione. Come Popper obiettava a Neurath
la mancanza di regole nell’accettare o respingere i
protocolli, così c’è bisogno di regole anche per proporre
questa o quella congettura, tale cioè da prestarsi alla
falsificabilità. Ma tali regole richiamano in ballo
l’induzione. La scelta delle congetture non è solo questione
psicologica, ma concerne anche l’impianto logico
dell’epistemologia.
Sono difficoltà effettive a cui non pare che anche in
tempi più recenti Popper abbia risposto in modo
soddisfacente nella critica ai suoi critici. Forse esse
meritano
d’essere
riprese
nella
prospettiva
dell’epistemologia evoluzionistica. Ma non per questo il
razionalismo critico può essere liquidato dicendo che la
«base del sistema non è salda» (Ayer 1982; trad. it., p.134).
Ciò che conserva validità (quando si rinunci all’illusione
delle «basi salde») è l’impostazione epistemologica del
razionalisno critico che è tra le acquisizioni filosofiche più
significative del secolo.
I tre volumi del Postscript ne mostrano la fertilità
nell’affrontare importanti questioni della scienza
contemporanea e della sua metodologia. In essi si ribadisce
innanzi tutto la fede realistica di Popper. Anche le teorie dei
maggiori rappresentanti della fisica atomica — come Niels
Bohr (1885-1962), Werner Karl Heisenberg e Wolfang
Pauli (1900-1958) — sono per lui «il risultato di tentativi di
comprendere la struttura del mondo fisico e di criticarne gli
esiti». Così sono le loro stesse teorie a contrapporsi a
quanto essi, ed altri positivisti e neopositivisti, ci dicono
circa la natura della scienza: «Che non possiamo in linea di
principio, mai sperare di comprendere alcunché della
44
struttura della materia; [...] che la scienza non è che uno
strumento, privo di ogni interesse filosofico e teorico, che
ha un’importanza solo ‘tecnologica’, ‘pragmatica’ o
‘operazionale’. Io non credo una parola di questa dottrina
post-razionalistica» (Popper 1982-1983; trad. it., voI. III, p.
179). Il suo non è però un realismo deterministico, o
laplaciano, dominante nella fisica sino alla formulazione,
nel 1927, del principio di indeterminazione della meccanica
quantistica. L’introduzione che così avvenne del principio
di indeterminismo in fisica mostra che il determinismo
laplaciano, che asserisce essere ogni stato futuro del mondo
già contenuto negli stati passati di esso, non è affatto
«scientifico» quanto, piuttosto «metafisico» in senso
popperiano. Einstein, che credeva in un «universo-blocco a
quattro dimensioni immutabile come l’universo-blocco
tridimensionale di Parmenide» (Popper 1982-1983; trad.
it.,vol. II, p. 98), pare a Popper un novello Parmenide: ed è
questo il punto in cui egli non ne accetta il magistero,
poiché tale metafisica non è imposta né dalla fisica
«classica» né da quella contemporanea.
La metafisica realistica di Popper ammette invece
l’esistenza di un universo «aperto», in cui il passato non
determina il futuro, ma pone solo dei limiti, magari severi,
ma tali da non impedire un ventaglio di possibilità
realizzabili. Così il secondo volume del Poscritto è «una
sorta di prolegomeno al problema della libertà e creatività
umana e lo legittima fisicamente e cosmologicamente»
(ibid., p. 17).
Ciò comporta anche un ripensanento della «probabilità».
Nella Logik, Popper aveva sostenuto l’interpretazione
frequentista della probabilità: ora, anche per rafforzare la
sua critica alle interpretazioni soggettivistiche (che fanno
della probabilità solo la misura di uno stato soggettivo di
conoscenza), egli integra l’interpretazione frequentista con
l’interpretazione «propensionale», così da fare della
probabilità la misura delle tendenze fisiche o «propensità» a
realizzare un determinato stato di cose. «Le frequenze
relative si possono, pertanto, considerare come i risultati, o
le manifestazioni esteriori, o le apparenze, di una
disposizione fisica, o tendenza, o propensità, nascosta e non
direttamente osservabile» (Popper 1982-1983; trad. it., voI.
I, p. 298). Anche su questo punto Popper si oppone dunque
ai tentativi neopositivistici di costruzione di una logica
induttiva: il tormentoso enigma che affligge questa (come
spiegare il fatto «che ogni sequenza registrata di lanci di
45
una moneta, o di un dado, esibisce, da un lato, un carattere
tipicamente casuale e, dall’altro, una frequenza relativa
stabile che sembra tendere a un limite») può essere
«completamente risolto se assumiamo l’interpretazione
propensionale del calcolo delle probabilità» (ibid., p. 404).
La concezione metafisica di un universo aperto e
l’introduzione del concetto di «propensità» permettono una
reinterpretazione
indeterministica
del
programma
deterministico einsteiniano e, al tempo stesso, una
reinterpretazione oggettivistica e realistica della teoria
quantistica. «È molto più ragionevole respingere tutte le
concezioni di un universo chiuso — quella di un universo
chiuso causalmente come quella di un universo chiuso
probabilisticamente; respingere, quindi, l’universo chiuso
immaginato da Laplace (1749-1827), al pari di quello
immaginato dalla meccanica ondulatoria. Il nostro universo
è in parte causale, in parte probabilistico e in parte aperto:
esso è emergente» (Popper 1982-1983; trad. it., voI. I, p.
131).
Bibliografia
Per la bibliografia di e su Popper, le cui opere principali
sono tutte tradotte in italiano, cfr.:
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Sono da vedere anche le due raccolte di saggi:
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52-66.
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46
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Braunschweig,
1916. (trad. it. Relatività: esposizione divulgativa, Torino
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philosophie», 1950, IV, II, pp. 41-63 (trad. it.Problemi e
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L. (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano
1969, pp. 209-238).
Juhos, B. von, Die Erkenntnis und ihre Leistung. Die
naturwissenschaftliche Methode, Wien 1950 (dello Juhos,
come volume VIII della «Vienna Circle Collection», sono
usciti nel 1976 i Selected papers on epistemology and
physics).
Neurath, O., Pseudorationalismus der Falsifikation,
«Erkenntnis», l935, V, pp. 353-365 (trad. it. in Fistetti, F.,
Neurath contro Popper. Otto Neurath riscoperto, pref. di R.
Haller, Bari 1985, pp. 153-171).
Neurath, O., Empiricisn and sociology, a cura di M.
Neurath e R.S. Cohen, Dordrecht-Boston 1973 (è il voI. I
della «Vienna Circle Collection»: in questo volume sono
raccolte anche testimonianze di amici e conoscenti di
Neurath, tra cui quella di Popper).
Popper, K.R., Ein Kriterium des empirischen Characters
theoretischer Sätze, «Erkenntnis», 1933, III, pp. 426-427
(trad. it. in Popper, K.R., Logica della scoperta scientifica,
Torino 1970, pp. 344-348).
Popper, K.R., Logik der Forschung, Wien 1935 (di
quest’opera uscì a cura di Popper una edizione riveduta e
ampliata in inglese, con il titolo The logic of scientific
discovery, London 1959, e su questa è condotta la trad. it.
da cui citiamo, Logica della scoperta scientifica, cit.).
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1945, 2 voll. (trad. it. La società aperta e i suoi nemici,
Roma 1973-1974).
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scientific knowledge, New York 1962, 19693 (trad. it.
Congetture e confutazioni, Bologna 1972).
Popper, K.R., Unended quest: an intellectual
autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha
fine. Autobiografia intellettuale, Roma 19862).
Popper, K.R., Die beiden Grundprobleme der
Erkenntnistheorie, Tübingen 1979 (trad. it. I due problemi
fondamentali della teoria della conoscenza, Milano 1987).
47
Popper, K.R., Postscript to the logic of scientific discovery,
a cura di W.W. Bartley, London 1982-1983, 3 voll. (trad. it.
Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Milano
1984: I. Il realismo e lo scopo della scienza, II. L’universo
aperto, III. La teoria dei quanti e lo scisma della fisica);
quest’opera fu elaborata da Popper negli anni 1951-1956 e
pensata come una serie di appendici alla trad. ingl. della
Logik; difficoltà varie ne rinviarono la pubblicazione
finché Popper ne consentì l’edizione ad opera del Bartley;
ogni volume, di per sé autonomo, è la critica a vari aspetti
degli approcci positivistici e soggettivistici della
conoscenza fisica e illustra la peculiarità dell’approccio
realistico popperiano alla conoscenza.
48
6. Razionalismo critico e società
È evidente come questa concezione del mondo riconosca
anche all’uomo una sia pur limitata «libertà». Così il
razionalismo critico diventa anche strumento di analisi
dell’uomo e della società. Esso postula la rinuncia al
dogmatismo di una fondazione assoluta del nostro sapere: è
il razionalismo di Socrate (470-469 a.C. - 399 a.C.), che
dichiarava di sapere di non sapere, e che viene da Popper
contrapposto allo pseudorazionalismo di Platone (428-427
a.C. - 348-347 a.C.), all’immodesta fiducia nelle «proprie
superiori doti intellettuali», alla «pretesa di essere degli
iniziati, di conoscere con certezza e autorità» (Popper 1945;
trad. it., vol. II, p. 299). Così come avviene nelle scienze
della natura, che procedono per congetture e confutazioni,
anche «nel campo sociale abbiamo idee e teorie.
Elaboriamo teorie per eliminare i mali della società,
tentiamo di valutarne le conseguenze e in base a queste
giudichiamo poi le teorie formulate» (Stark 1971; trad. it.,
p. 61). Contro i profeti delle rivoluzioni radicali della
società che, in nome di una sapienza assoluta di cui si
sentono depositari, sono disposti a sacrificare anche i propri
simili per realizzare le loro utopie, Popper si richiama alla
modestia intellettuale di chi sa quanto spesso si sbaglia
anche nella scienza, il sapere per eccellenza, e come si
dipenda dalla discussione critica con gli altri delle nostre
tesi. «La fede nella ragione, anche nella ragione degli altri,
implica l’idea di imparzialità, di tolleranza, di rifiuto di
ogni pretesa auto ritaria» (ibid., p.62).
È stato osservato che talvolta Popper pare non
riconoscere la schietta autonomia dell’atto di fede morale
con cui decidiamo di attribuire pari dignità ai nostri simili
anche quando, difatto, essi sono molto diseguali, in quanto
egli invece cerca di derivare questa fede morale dalla fede
teorica che ci fa accettare l’uso non assoluto della ragione.
Ma, anche se, per il rispetto degli altri, una qualche nuova
opzione morale va aggiunta a quella per il razionalismo
critico, è fuori dubbio che questo porta alla critica di tutte
quelle concezioni della società che presuppongono una
conoscenza assoluta delle sue leggi e delle leggi del
divenire storico. Ed è in questa prospettiva che si collocano
le due opere di Popper La miseria dello storicismo (19441945) e La società aperta e i suoi nemici (1945).
49
Risaliva intatti al 1919 il suo distacco dalla pretesa
marxista di aver penetrato il divenire necessario della storia,
distacco che aveva avviato Popper verso le tesi della Logik;
e quest’opera era appena uscita quando, nel 1935-1936,
Popper si recò per la prima volta in Inghilterra, uscendo
dall’Austria, «dove allora era al potere una dittatura
relativamente mite», ma ove si sentiva pesare la minaccia
della Germania nazista. «Nella libera atmosfera
d’Inghilterra potevo tirare un respiro di sollievo. Era come
se fossero state aperte le finestre. L’espressione ‘societa
aperta’ trae origine da questa esperienza» (Stark 1971 trad.
it.; p. 39), Trasferitosi nel marzo 1937 in Nuova Zelanda,
ove gli era stata offerta una cattedra a Christchurch (e solo
nel 1946 tornerà in Europa per insegnare alla London
School of Economics), fu là raggiunto dalla notizia
dell’annessione nazista dell’ Austria e poi dallo scoppio
della guerra. E in Nuova Zelanda compose La miseria dello
storicismo e la Società aperta, che egli considera la sua
«fatica di guerra». «Pensavo che la libertà potesse ancora
una volta diventare un problema centrale, soprattutto per la
rinnovata influenza del marxismo. […] Per tale ragione
questi libri furono intesi come una difesa della libertà
contro le idee totalitarie e autoritariste ed anche come un
ammonimento contro i pericoli delle superstizioni
storiciste» (Popper 1976, p. 118).
Già nel saggio Che cos’è la dialettica?, comparso su
«Mind» nel 1940, Popper faceva presente che mentre il
metodo dialettico (tesi, antitesi, sintesi) ha alcune affinità
con il metodo per prova ed errore, l’interpretazione che
della dialettica è stata data da Hegel (1770-1831) e poi dal
marxismo fa sì che il metodo dialettico sia diventato uno
strumento di difesa dogmatica del proprio sistema,
rendendolo sufficientemente elastico per sfuggire alle
critiche. «La dialettica ha dunque svolto un ruolo assai
infelice non solo nello sviluppo della filosofia, ma anche in
quello della teoria politica» (Popper 1940; trad. iL, p. 568).
Qualcosa di analogo si può dire, per Popper, anche a
proposito dello «storicismo», il termine con cui egli designa
tutte quelle dottrine (a sfondo teologico o anche non
teologico, come lo storicismo dialettico) che hanno la
pretesa di cogliere le leggi di sviluppo della storia umana, sì
da prevederne gli sviluppi futuri. In quanto «metodologia»
— che si contrappone nelle scienze sociali al criterio della
falsificabilità delle scienze naturali — lo storicismo mostra
di essere «un metodo povero, incapace di dare i risultati
50
promessi» (Popper 1944-1945; trad. it., p. 63). Non c’è
infatti la possibilità di predire con metodi scientifici lo
sviluppo futuro della conoscenza scientifica. Quindi la
pretesa storicistica di cogliere le leggi dello sviluppo futuro
non è altro che profezia: sia perché non si può confondere
l’indicazione di tendenze della società con la
determinazione di leggi, sia perché la storia (in un universo
«aperto») non ha di per sé un senso, al di fuori di quello che
le assegniamo noi. Lo storicismo, d’altra parte, non può
essere un metodo scientifico, perché pretende di avere una
comprensione globale (olistica) della storia e della società,
mentre le nostre congetture teoriche concernono solo aspetti
parziali della realtà e sono quindi molte e sempre
falsificabili. La conclusione è allora che «tutte le scienze
teoretiche e generalizzanti fanno uso dello stesso metodo,
siano esse scienze naturali o sociali» (ibid., p. 118).
Se la conoscenza scientifica è sempre una conoscenza
parziale, vanno respinte anche le conseguenze pratiche
dello storicismo: l’utopismo e il totalitarismo, la
convinzione di poter calcolare e dominare tutte le
conseguenze (non intenzionali) delle nostre azioni
intenzionali e la convinzione che chi conosce le supposte
leggi della storia possa imporre agli altri la propria pratica
politica. Le scienze sociali si sviluppano perché conducono
indagini volte ad accertare se una certa azione politica o
economica produca un risultato desiderato; caduta la
prospettiva storicista, il rapporto corretto tra la metodologia
sociale e la pratica sociale è quello che fa di quest’ultima un
intervento tecnologico saltuario e non globale sulla
situazione che si vuole modificare. Il politico è allora un
«ingegnere sociale», che, diversamente da quanto crede lo
storicista, sa che i fini ultimi della società sono fuori della
sua portata e che solo poche istituzioni sociali sono
progettate, mentre la gran parte di esse sono «cresciute
come risultato non premeditato di azioni umane» (ibid., p.
68). Anche il politico, ovviamente, può avere ideali che
riguardano la società come un tutto, ma la consapevolezza
della parzialità di ogni nostra conoscenza, che rende
possibile solo una riparazione tecnologica «a spizzico»
(piecemeal tinkering), deve preservarlo dalla tentazione di
riplasmare la società nella sua totalità come un tutto unico.
Si evita cosi anche il totalitarismo a cui conduce l’olismo
storicista. Quando si vuole realizzare un progetto globale di
trasformazione della società si è costretti ad organizzare
anche gli impulsi umani: «Alla richiesta di costruire una
51
nuova società adatta agli uomini e alle donne che vi
dovranno vivere, si sostituisce la richiesta che questi uomini
e queste donne siano ‘plasmati’ per adattarli alla nuova
società» (ibid., p. 72). Tutto al contrario, l’ingegnere
sociale, rifuggendo dal mito della perfezione, non si batte
per il più grande bene ultimo della società, ma per adottare i
metodi idonei a combatterne i mali più gravi e urgenti. Per
lui l’esigenza importante della vita non è tanto «di essere
resa felice, perché non ci sono mezzi istituzionali atti a
rendere un uomo felice, quanto l’esigenza di non essere
resa infelice, nei casi in cui l’infelicità può essere evitata»
(Popper 1945; trad. it., vol. I, pp. 222-223).
La critica dello storicismo comporta quindi anche quella
ai «nemici» della società aperta. E anche la stesura delle
due opere fu di fatto, intrecciata; anzi, il primo volume di
La societa aperta, dedicato al «fascino di Platone», nacque
addirittura come ampliamento di una sezione della Miseria
dello storicismo (Popper 1976, pp. 118 e 122). Il secondo
volume, invece, tratta dell’«alta marea della profezia»:
Hegel, Marx (1818-1883) e le gravi conseguenze della
«filosofia oracolare» in rivolta contro la ragione critica. Per
quanto concerne Marx, tuttavia, Popper, come già in Che
cos’è la dialettica?, ritiene valida la sua insistenza sul
«materialismo» per bandire quelle teorie che, appellandosi
alla natura razionale o spirituale dell’uomo, fondano la
sociologia su basi idealistiche o spiritualistiche o sulla pura
analisi della ragione. La base materiale dell’uomo ha
importanza per la sociologia; ed anche la comprensione
dello sviluppo delle idee deve far riferimento alle
condizioni in cui esse si sono originate: e tra queste
condizioni l’aspetto economico è assai rilevante. Tuttavia
Popper
respinge
l’unilateralità
dell’economicismo
marxiano; non solo: Marx, adottando la convinzione
hegeliana che lo sviluppo sociale deve essere spiegato in
termini dialettici, abbandona, secondo Popper, il suo
originario antidogmatismo e diventa un profeta, con
profezie errate.
Le varie forme della filosofia «oracolare» sono dunque i
nemici della «società aperta». Ma è lo stesso concetto di
«società aperta» (e del suo contrario, la «società chiusa»)
che nel corso dell’opera acquisisce varie connotazioni, di là
da quella legata al senso di sollievo destato in Popper dalla
democratica Inghilterra, e all’avversione suscitata in lui
dagli orrori della guerra per le dittature. Una di queste
connotazioni è di carattere «evoluzionistico»: il passaggio
52
dalla società chiusa a quella aperta sarebbe connesso ad un
più generale progresso dell’umanità da una fase magicoirrazionale (in cui prevale la tribù, il gruppo) ad una fase
razionale, in cui emerge e si impone l’individuo. V’è già in
questa caratterizzazione qualche germe dell’epistemologia
evoluzionistica che Popper sosterrà in seguito. Ma è ovvio
che se la tesi evoluzionistica può in qualche modo (e con
qualche forzatura) valere per l’imputazione popperiana a
Platone di essere ancora sostenitore di una concezione
politica propria della società chiusa, la tesi stessa è
difficilmente applicabile all’età moderna, in cui anche i
nemici della societa aperta appartengono al momento
razionale e non più a quello magico-irrazionale
dell’umanità.
Ecco perché acquista rilevanza primaria la connotazione
della società aperta, di là dalle vicende storiche
dell’umanità, attraverso l’uso tentativo e fallibilistico della
ragione, sempre pronta a rivedere e correggere le proprie
ipotesi, in contrapposizione all’uso tracotante di essa, che
non solo mira a capire come le cose stanno, ma pretende di
arrivare a certezze assolute e definitive. La società aperta è
quindi il risvolto pratico del razionalismo critico, anche se
l’umanitarismo, il valore irripetibile di ogni individuo
umano, è un’opzione assiologica che s’aggiunge a quella
per il valore della ragione e della discussione critica. La
connessione con il razionalismo critico appare chiaramente
in una delle caratteristiche indicate da Popper per la società
aperta, nell’intervista rilasciata nel 1971 in parallelo ad
un’analoga intervista rilasciata dal «rivoluzionario» Herbert
Marcuse (1898-1979). Tale caratteristica è che «in una
società aperta è possibile la libera discussione e questa
discussione esercita un’influenza sulla politica» (Stark
1971; trad. it., p. 39). Non certo disgiunta da questa, ma
dipendente anche dall’opzione umanitaria, è la seconda
caratteristica: l’esistenza, nella società aperta, di «istituzioni
per la protezione della libertà e degli svantaggiati». La
tecnologia delle riforme deve tendere a migliorare tali
istituzioni, «che proteggono il cittadino economicamente
debole da quello economicamente forte». E quello che
importa, in una società, «non è tanto chi governa, ma in che
modo coloro che governano possono essere influenzati e
controllati» (ibid., pp. 39-40). «Si vive in democrazia
quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il
governo senza ricorrere alla violenza, cioè giungere alla
53
soppressione fisica dei suoi componenti» (Popper 1945;
trad. it., voI. II, pp. 210-211).
Le conseguenze politiche che Popper trae dal suo
razionalismo critico e, soprattutto, la critica del metodo
dialettico in sociologia lo portarono a una polemica con la
Scuola di Francoforte. Il tema del convegno della Società
tedesca di sociologia, svoltosi a Tubinga nell’ottobre 1961,
fu dedicato alla «logica delle scienze sociali», e fu aperto
dalle relazioni di Theodor W. Adorno (1903-1969) e
Popper (Popper 1962), a cui seguirono le relazioni di Hans
Albert (n. 1921) e di Jurgen Habermas (n. 1929), che
continuarono poi la discussione, dal punto di vista
«razionalistico» e da quello «dialettico», anche dopo il
convegno.
È significativo che, quando nel 1969 gli atti di quel
convegno e di quelle discussioni vennero pubblicati, sia
stato dato ad essi dai curatori il titolo di La polemica sul
positivismo nella sociologia tedesca, ingenerando così
l’impressione, falsa, che il razionalismo critico fosse una
semplice appendice del positivismo o del neopositivismo.
In realtà, l’autonomia della ricerca scientifica, difesa dai
razionalisti critici contro la pretesa dei dialettici di
contrapporle una più «profonda» conoscenza filosofica, ha
ben poco a che fare con i temi vecchi e nuovi del
positivismo. Di là da queste imputazioni, l’esigenza
autentica dei «dialettici» è piuttosto quella di evitare che la
fredda neutralità della ricerca scientifica renda impotente la
sociologia a comprendere le questioni morali di valutazione
e di scelta. La polemica contro il presunto positivismo dei
razionalisti critici è, indirettamente, una polemica contro la
sociologia weberiana, che aveva rivendicato d’essere
«libera dal valore» per essere pura descrizione di fatti. Ma
anche Max Weber (1864-1920), in effetti, come Popper non
esclude affatto le scelte morali, anche se le vede proprie
della responsabilità del singolo. Ciò che viene escluso è
solo la pretesa storicistica (ma di uno storicismo
sapienziale, ben diverso da quello di Weber) di trovare
attraverso la dialettica una «legittimazione oggettiva»
dell’attività pratica: ossia il far rivivere quel mito
dell’assolutezza a cui la scienza d’oggi ha rinunciato.
Assai vicino alle posizioni popperiane a proposito delle
scienze sociali, a cui è pervenuto indipendentemente, è
anche il premio Nobel per l’economia Friedrich August
Von Hayek (n. 1899), la cui critica al razionalismo
«costruttivista» (la tesi che tutte le istituzioni sociali sono
54
frutto di un progetto deliberato) e da lui stesso accostata
alla critica popperiana al razionaismo dogmatico (Hayek
1982; trad. it., p. 42). Così quella che Hayek, mutuando
l’espressione da Adam Smith (1723-1790), chiama «la
grande società», viene da lui identificata con la popperiana
«società aperta», quella in cui milioni di uomini
interagiscono, al di fuori delle leggi profonde che gli
storicisti s’illudono d’avere scoperto. E in essa «si puo
soltanto modificare un insieme nelle sue parti ma non
riprogettarlo completamente» (ibid., p. 212). E ciò
significa, in politica, seguire quel popperiano piecemeal
social engineering con cui Hayek concorda pienamente,
sebbene non ami tale espressione (ibid., p. 547).
Direttamente legato al pensiero di Popper nel campo
della metodologia sociale è Hans Albert (n. 1921), che sin
dal 1960 usò l’espressione «razionalismo critico» —
introdotta da Popper in La società aperta — per indicare
nel complesso il pensiero popperiano (Albert l960). E
Albert ha sviluppato i temi del razionalismo critico sia nella
polemica con Habermas, a metà degli anni Sessanta, sia nel
Traktat über kritische Vernunft del 1968.
In quest’opera Albert si propone di superare la
«neutralità del pensiero analitico» e contrappone
«all’impegno totale delle problematiche teologiche e quasiteologiche, e alle sue connotazioni antiliberali, un impegno
critico per un pensiero razionale, e per la ricerca
disinteressata della verità e di soluzioni aperte di problemi
che permettano una revisione alla luce di nuovi punti di
vista» (Albert 1968; trad. it., pp. 14-15).
Hanno certo ragione i dialettici nel ritenere che le scienze
sociali non possono fare a meno di operare con enunciati
che hanno per oggetto delle valutazioni, ma il razionalismo
critico, in opposizione al positivismo, mette appunto in luce
che sempre il processo cognitivo è guidato da norme,
valutazioni e decisioni: «siamo noi che scegliamo i nostri
problemi, che privilegiamo alcune soluzioni rispetto ad
altre, in base ad una decisione che non è certo esente da
componenti valutative» (ibid., p. 79 ). Ciò, tuttavia, non
impedisce, nella prospettiva falsificabilista della scienza, di
fare oggetto di conoscenza (cioè di analisi oggettiva)
relazioni e nessi tratti dalla problematica valutativa. La
critica alle ideologie non significa dunque per i criticisti la
purificazione degli usi linguistici mediante una
(impossibile) eliminazione dei termini di valore, come
volevano i positivisti vecchi e nuovi. Si tratta piuttosto di
55
«mitigare l’irrazionalità della vita sociale col mettere a
disposizione i risultati e i metodi del pensiero critico
rendendoli, così, fecondi per la formazione della coscienza
sociale e quindi dell’opinione pubblica; il compito,
insomma, dell’illuminismo» (ibid., p. 113).
In campo politico, gli utopisti vedono solo i difetti del
sistema attuale e perorano il suo rovesciamento radicale.
Qualcosa di analogo a ciò che fanno i conservatori, i quali
si accontentano dell’esistente, in quanto scorgono nelle
alternative radicali solo l’utopia. La politica razionale, a cui
mira il criticismo, non ignora che in ogni società esistono
stati di fatto criticabili. Ma richiede che quando gli ideali
intervengono nella considerazione politica essi si traducano
in alternative concrete. Ci si può «confrontare criticamente
nel pensiero politico — così come nella conoscenza
scientifica — con la tradizione, vale a dire con le strutture
sociali che ci sono state tramandate. Si considererà la
tradizione come un insieme di tentativi fatti, e in parte
istituzionalmente consolidati, in vista della soluzione di
problemi sociali e politici, relativamente ai quali ci si deve
domandare in che misura tali tentativi abbiano provato il
loro valore e dove stiano i pregi e i difetti delle soluzioni
proposte» (ibid., p. 219). Anche in sociologia e in politica,
dunque, servendoci del titolo dell’autobiografia popperiana,
si può dire che «la ricerca non ha fine».
Bibliografia
Per un più ampio esame delle tesi di Popper circa la
metodologia delle scienze sociali e della politica, cfr. i due
seguenti volumi:
Popper, K.R., Il pensiero politico, a cura e con vasta introd,
di A.M. Petroni, Firenze 1981.
La sfida di Popper, Roma 1981 (volume miscellaneo con
scritti di D. Antiseri, M.Baldini, F.Barone, M. Martini, V.
Mathieu, L. Pellicani, M. Pera e F. Tarantini).
Albert, H., Der kritische Rationalismus Karl Raimund
Poppers, «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie»,
1960, XLVI, pp. 391-415 (già nel 1959 Adrienne Koch
aveva intitolato «razionalismo critico» la scelta di brani da
La società aperta, nella sua antologia Philosophy for a time
of crisis, New York 1959).
56
Albert, H., Traktat über kritische Vernunft, Tübingen 1968
(trad. it. Per un razionalismo critico, Bologna 1973).
Hayek, F. A., Law, legislation and liberty, London 1982
(trad. it. Legge, legislazione e libertà, Milano 1986); le tre
parti di cui consta l’opera: «Regole e ordine», «Il miraggio
della giustizia sociale», «Il sistema politico di un popolo
libero», erano già uscite separatamente, prima dell’ed. del
1982, rispettivamente nel 1973, nel 1976 e nel 1979.
Popper, K.R., What is dialectic?, «Mind», 1940, XLIX, pp.
403-426 (trad. it. in Popper, K.R., Congetture e
confutazioni, Bologna 1972 pp. 531-570).
Popper, K.R., The poverty of historicism, comparso in tre
puntate su «Economica», 1944, XI-1945, XII (trad. it., in
volume, con il titolo Miseria dello storicismo, Milano 1954;
e poi in nuova ed., da cui si cita, Milano 1975).
Popper, K.R., The open society and its enemies, London
1945, 2 voll. (trad. it. La società aperta e i suoi nemici,
Roma 1974).
Popper, K.R., Die Logik der Sozialwissenschaften, «Kölner
Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 1962,
II, pp. 233-248 (il saggio fu poi ristampato in Maus, M.,
Fürstemberg, F. (a cura di), Der Positivismusstreit in der
deutschen Soziologie, Neuwied-Berlin 1969; di questo
volume esiste la trad. it. Dialettica e positivismo in
sociologia, Torino1972).
Popper, K.R., Unended quest: an intellectual
autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha
fine. Autobiografia intellettuale, Roma l986).
Stark, F., Revolution oder Reform? Herbert Marcuse, und
Karl Popper. Eine Konfrontation, München 1971 (trad. it.
Marcuse, H., Popper, K.R., Rivoluzione o riforme? Un
confronto, trad. di P. Massimi, Roma 1977).
57
7. L’ultimo trentennio
Questo capitolo e il suo titolo, come già è stato per il
capitolo primo, hanno funzione di chiarimento
terminologico. E valgono come giustificazione del fatto che
si è ritenuto opportuno trattare partitamente, nei vari
capitoli che seguono, le varie dottrine epistemologiche
affacciatesi in quest’ultimo trentennio (a partire cioè dagli
anni Sessanta), indicando via via i rapporti con le dottrine
epistemologiche di cui già si è trattato ed i nuovi problemi
che sono stati affrontati.
Come tutte le indicazioni cronologiche, anche «l’ultimo
trentennio» ha un valore puramente indicativo, da non
prendersi in senso rigido. In esso sono infatti comparse sia
opere di neopositivisti (tra cui abbiamo ricordato quelle di
Carnap e di Hempel) sia opere di Popper. E, d’altra parte,
vi sono opere di autori diventati rappresentativi dell’ultimo
trentennio, le quali sono state pubblicate prima del 1960. I
Patterns of discovery di Norwood Russell Hanson (19241967) sono del 1958; del 1953 è Philosophy of Science di
Stephen Toulmin (n. 1922), e Entstehung und Entwicklung
einer wissenschaftlichen Tatsache di Ludwik Fleck (18961961) è addirittura del 1935, cioè dei tempi della fioritura
del Wiener Kreis. Ma, analogamente a quel che si è detto a
proposito
del
termine
«neopositivismo»,
anche
l’espressione «ultimo trentennio» ha una sua utilità, perché
indica l’immagine che i contemporanei si sono fatta
dell’epistemologia di tale periodo: un’immagine che la
contrappone o la differenzia rispetto all’epistemologia
precedente, sia neopositivistica sia popperiana.
Si è anche proposta, in merito, l’espressione
«epistemologia post-popperiana». Ritengo però preferibile
la convenzione puramente cronologica che ho indicato
sopra, perché essa, non essendovi un riferimento specifico a
Popper, evita di far pensare che tutta l’epistemologia più
recente sia in funzione polemica contro il «razionalismo
critico». Non c’è dubbio che tale polemica ci sia stata e ci
sia: Thomas Kuhn e Paul Feyerabend ne sono i principali
alfieri e, in alcuni ambienti culturali, soprattutto su essa si è
soffermata l’attenzione. Ma il panorama di tale
epistemologia è assai più variegato e vi sono in essa
tendenze importanti che riprendono e rielaborano temi del
razionalismo critico: così è in Imre Lakatos (1922-1974) e
in John Watkins (n.1920), e in tutte le rielaborazioni
58
dell’istanza «realistica» della conoscenza comune e
scientifica.
D’altra parte, l’epistemologia degli ultimi trent’anni non
è qualcosa di conchiuso, come invece di fatto è per il
neopositivismo del Wiener Kreis e per il razionalismo
critico nei loro tratti di fondo. È un’ epistemologia tuttora
in itinere, per cui è difficile staccarsi dalla cronaca per
darne una ricostruzione storiografica che ne ordini gli
eventi, in una qualche prospettiva, secondo una linea
unitaria. Tale situazione non impedisce tuttavia di
individuare alcune questioni attorno a cui si è accentrata la
discussione e alcune tendenze di soluzione. Ma, in questi
tentativi di ricostruzione dell’attualità, giocano le
propensioni e le scelte teoriche di chi li attua in modo assai
più incisivo di quanto ciò non avvenga già nella
ricostruzione di scenari storici lontani.
Ecco
perché
nell’abbozzare
una
storiografia
dell’epistemologia più recente conviene guardarsi
dall’indulgere a troppo sicure ricostruzioni. Dalla sicurezza
di chi scorge in tale epistemologia una «svolta radicale»,
una «rivoluzione», rispetto tanto all’empirismo logico
quanto al razionalismo critico: ossia il passaggio a un
nuovo concetto di «scienza», cioè dell’oggetto stesso
dell’epistemologia. Ma anche dalla sicurezza di chi,
negando che ci sia stata tale rivoluzione a partire dagli anni
Sessanta, interpreta gli eventuali mutamenti solo come
ripresa ed approfondimento di problemi già ampiamente
trattati. Non conviene mai abusare, a proposito della
scienza e della riflessione su di essa, di quel termine
«rivoluzione», che ha fatto fortuna in campo politico; e non
conviene tuttavia nemmeno disconoscere l’effettiva
efficacia culturale di alcune idee «nuove», dilettandosi nel
ricercarne le anticipazioni lontane, che tale efficacia
culturale non ebbero.
Le vicende storiche sono sempre mescolanze di vecchio
e di nuovo. Ma il gioco delle «anticipazioni» va giocato con
prudenza. Altrimenti si rischia, come s’e visto nel capitolo
primo, di disconoscere la posizione culturale del
neopositivismo, trovandovi già la nuova filosofia della
scienza, che poi è liquidata come non nuova proprio perché
già c’era nel neopositivismo. E la conclusione è che
un’epistemologia così stagnante serve a ben poco. Una
conclusione disarmante, al pari di quella, appentemente
contraria, di coloro che ad ogni momento vedono una
59
«rivoluzione» epistemologica e finiscono in tal modo di
svalutare, considerandoli «superati», i momenti precedenti.
60
Bibliografia
Mi limito qui ad indicare alcuni scritti documentanti le
interpretazioni dell’epistemologia degli ultimi trent’anni, o
come «rivoluzione» dell’epistemologia precedente, o come
mera «ripetizione» di temi già presenti in quella.
Per la prima alternativa:
Hesse, M., Revolutions and reconstructions, Brighton 1980.
Jacob, P., L’empirisme logique: ses antécédents, ses
critiques, Paris 1980.
Per la seconda alternativa, in polemica con la prima:
Rossi, P., I rapporti fra storia della scienza e filosofia della
scienza, in Agazzi, E. (a cura di), La filosofia della scienza
in Italia nel ‘900, Milano 1986, pp.303-316.
Rossi, P., I ragni e le formiche. Un’apologia della storia
della scienza, Bologna 1986.
Per una discussione sull’ unilateralità delle due posizioni:
Barone, F., Epistemologia e storia della scienza, «Nuova
Civiltà delle Macchine», 1987, V, 3-4, pp. 49-58.
61
8. Sviluppi del falsificazionismo e filosofia
della scoperta
Che ci possa essere innovamento senza rivoluzione risulta
dall’opera di Imre Lakatos (1922-1974), che esplicitamente
si connette con il razionalismo critico popperiano.
Lakatos (pseud. di Lipschitz), di famiglia ebrea
ungherese perseguitata dai nazisti, aderì al marxismo e
studiò in Ungheria con Árpád Szabo, che l’avviò alla
conoscenza degli scritti di matematica e filosofia della
matematica del suo maestro George Polya (1887-1985), di
cui Lakatos tradusse opere in ungherese, e di cui condivise
l’attenzione per l’importanza dell’ ars inveniendi in
matematica, che non è solo dimostrazione rigorosa, ma
anche procedimento ipotetico «fondato su congetture»
(Polya 1945; trad. it., p. 124). Incarcerato per il suo
antistalinismo, Lakatos abbandonò il marxismo e
l’Ungheria dopo la rivolta del 1956 e, trasferitosi in
Inghilterra, si addottorò a Cambridge e, poi, divenne
professore di logica e filosofia della matematica alla
London School of Economics, ove entrò in contatto con
Popper.
Nella sua tesi inglese di dottorato, che poi divenne la
base del suo saggio su Proofs and refutations del 19631964, Lakatos dichiarava il suo debito verso Polya; e tutta
la sua successiva ricerca sulla filosofia della matematica fu
una rivendicazione dell’irriducibilità della matematica alla
sua formalizzazione. Non che Lakatos negasse l’importanza
della teoria della dimostrazione o la potenza tecnica della
metamatematica come sintassi del linguaggio matematico
(nel senso carnapiano della sintassi); ma egli mostrava
l’insostenibilità del dogmatismo formalistico sia con
riferimenti alla matematica greca (Pappo, fine III sec. d.C.)
sia con riferimenti alla matematica ottocentesca: una
«dimostrazione può essere rispettabile anche senza essere
impeccabile». Di là dal campo delle ferree dimostrazioni,
v’è posto anche in matematica per congetture il cui credito
dipende dai retroterra culturali e scientifici del tempo.
Con questa concezione della matematica, Lakatos si
scostava non solo dalla tradizione neopositivistica (fondata
sulla rigida distinzione di sintetico/analitico), bensì anche
dal razionalismo critico di Popper, che pur aveva teorizzato
il procedimento di «congetture/confutazioni», ma solo a
proposito delle scienze empiriche. Popper, infatti,
62
rifacendosi alla distinzione di Reichenbach tra «contesto
della scoperta» e «contesto della giustificazione», riteneva
che la prima procedura, quella del trovare un’ipotesi, «non
poteva essere ricostruita razionalmente» (Popper 1935; trad.
it., p. 349). Nel razionalismo critico c’era dunque una
persistenza del concetto di «ragione» come procedura
deduttivistica, sicché la matematica conservava ancora il
volto di un insieme di verità necessarie. L’estensione della
congettura al procedimento matematico, dava anche a
questo le caratteristiche della storicità e della fallibilità.
Era del tutto giustificato che, nella tesi di dottorato,
Lakatos indicasse tra le «fonti» della sua ricerca anche la
filosofia critica di Popper oltre all’ «euristica matematica di
Polya» (ossia una logica della scoperta). Attraverso
l’attenzione alla matematica c’era sì un «innovamento» ma
non una «rivoluzione» nei confronti di Popper. A cui, del
resto, Lakatos dovette anche l’abbandono della sua iniziale
convinzione che la dialettica hegeliana fosse una forma di
fallibilismo utile per comprendere lo sviluppo del pensiero
matematico. Egli farà sua la critica popperiana, sicché gli
parve che la dialettica spieghi «il mutamento senza la
critica» e che, per l’hegelismo, «il mutamento dei quadri
concettuali è un processo predeterminato e inevitabile, in
cui la creatività individuale o la critica razionale non
svolgono un ruolo essenziale» (Lakatos La falsificazione,
1976; trad. it., p. 27n). Qualche tema hegeliano continuò
tuttavia ad influenzare Lakatos: l’approccio storico al
problema della conoscenza, sia di quella matematica sia di
quella empirica. Contro i popperiani troppo ortodossi egli
osserverà addirittura d’essere fermamente convinto che
persino «la miseria dello storicismo è meglio della sua
completa assenza — sempre provvedendo, naturalmente,
che sia maneggiato con la cura necessaria, allorché si ha a
che fare con degli esplosivi» (Lakatos 1978; trad. it., vol.II,
p. 6l).
Anche la «metodologia dei programmi di ricerca
scientifica», che è il contributo di maggior risonanza dato
da Lakatos all’epistemologia, nasce come una ripresa
critica del falsificazionismo popperiano: il tema è ancora
quello della demarcazione della scienza dalla non-scienza.
Si tratta quindi, per Lakatos, di delineare un criterio
metodico di scientificità, che abbia tuttavia nei confronti del
falsificazionismo popperiano una maggior elasticità nel
rendere conto dell’effettivo procedere della ricerca
scientifica e che sia in grado di obiettare alle critiche degli
63
anti-popperiani, che scorgono in tale procedere una
smentita ad ogni pretesa di criteri metodologici che non
siano pragmatici e che, come vedremo, Thomas Kuhn
identifica con le decisioni o convenzioni della comunità
scientifica, e Paul Feyerabend addirittura con le imposizioni
delle élites più potenti e prepotenti. Tra gli estremi
dell’induttivismo neopositivista (che traformava la
questione della demarcazione in una questione di
significanza) e la distruzione dell’epistemologia attuata da
coloro che respingono il problema della demarcazione, in
quanto vedono nella scienza qualcosa di intrinsecamente
non diverso dall’ideologia, Lakatos si pone in una posizione
mediatrice attraverso la rielaborazione in senso dinamico
del criterio popperiano di demarcazione.
V’è un falsificazionismo dogmatico, che ritiene le
congetture confutabili mediante falsificazioni infallibili: ed
è caratteristico dell’empirismo radicale degli induttivisti.
V’è un falsificazionismo metodologico ingenuo, che
Lakatos scorge nella Logik popperiana, per cui la
falsificazione non è infallibile, data la natura delle
asserzioni-base, che secondo Popper hanno anch’esse il
carattere di ipotesi. Anche tale falsificazionismo, non è
tuttavia soddisfacente perché, in contrasto con l’effettivo
sviluppo della ricerca scientifica, rappresenta questa come
una serie di duelli tra una teoria ed i fatti. La proposta di
Lakatos è quella di un falsificazionismo metodologico
sofisticato, in cui il confronto è sempre tra almeno due
teorie rivali ed i fatti. Ciò rende conto del perché in genere
gli scienziati non lascino cadere subito una teoria se
qualche fatto la falsifica, ma la abbandonino soltanto
quando dispongono di un’altra teoria che spieghi i fatti
spiegati dalla prima, oltre il fatto che falsificava quella.
Da qui viene l’idea di fondo dell’epistemologia di
Lakatos che la scienza sia stata e debba essere una
competizione tra programmi di ricerca rivali.
Popper (Popper 1976; trad. it., p. 224 n. 242) dice che
l’espressione «programma di ricerca metafisico» fu da lui
usata a lezione fin dal 1949 e che poi passò nelle bozze
dell’ultimo capitolo del Postscript da lui messo a
disposizione dei colleghi fin dal 1957. E Lakatos non nega
che il suo concetto di «programma di ricerca» si collochi in
questa tradizione. Ma egli ne dà uno sviluppo assai
articolato, con l’intento di determinare un criterio logico
della scientificità, che sia in condizione di rendere conto più
adeguatamente della dinamica storica della scienza.
64
Un programma di ricerca è un complesso articolato in
vari elementi. Vi è un «nucleo», la dottrina originaria (come
le tre leggi della dinamica nella concezione newtoniana
della gravitazione), che si decreta non essere confutabile da
parte di esperienze contrarie. Ed attorno al nucleo v’è
un’«euristica negativa» ed un’ «euristica positiva». La
prima è conseguenza della decisione sull’inconfutabilità del
nucleo, e mira a far sì che le eventuali anomalie le quali
sembrano mettere in questione il programma, portino a
cambiamenti solo nella «cintura ‘protettiva’ delle ipotesi
ausiliarie, delle ipotesi ‘osservative’ e delle condizioni
iniziali» (Lakatos, La falsificazione, 1976, trad. it., pp. 6263). Con l’euristica negativa si riconosce il peso del
convenzionalismo nella ricerca scientifica; ma con un
limite: che il nucleo di un programma può essere difeso
solo finché il programma stesso non «cessa di anticipare
fatti nuovi» (ibid., p. 64). Entra così in gioco l’euristica
positiva, la quale traccia «un programma che configura una
catena di modelli sempre più complicati che simulano la
realtà» (ibid.). In tal modo il nucleo originario genera una
serie di teorie, tale che ogni teoria avanzata spieghi le
anomalie della precedente: e la serie è «progressiva» se
ciascuna teoria ha un contenuto empirico superiore a quelle
precedenti e permette di «scoprire» fatti nuovi.
Mediante questa complessa ricostruzione razionale della
ricerca, Lakatos può distinguere tra programmi di ricerca
«progressivi» e «regressivi» o «in stagnazione», cioè tra
programmi scientifici e non scientifici. «Un programma di
ricerca si dice progressivo fin quando la sua crescita teorica
anticipa la sua crescita empirica, ossia fin quando continua
a predire fatti nuovi con un certo successo [...]; è in
stagnazione [invece] quando si limita a dare spiegazioni
post hoc di scoperte casuali o di fatti anticipati, nell’ambito
di un programma rivale» (Lakatos, La storia della scienza,
1976, trad. it., p. 143).
La metodologia dei programmi di ricerca dà così una
risposta al problema della demarcazione tra scienza e non
scienza. Mentre persiste la possibilità della demarcazione,
contro la tesi degli irrazionalisti, che una rivoluzione
scientifica sia una specie di conversione religiosa o di
cambiamento di fede, è tuttavia evitata la rigidezza del
falsificazionismo
popperiano
che
pretendeva
la
controllabilità di principio e l’esclusione di ogni
aggiustamento teorico ad hoc . Popper, secondo Lakatos,
trascura il fatto che gli scienziati hanno la pelle dura e non
65
abbandonano una teoria solo perché alcuni fatti la
contraddicono. La demarcazione si può fare se si tiene
presente la caratteristica di tutti i programmi di ricerca
progressivi: predicono fatti nuovi, fatti che o non erano stati
immaginati o erano addirittura contraddetti in programmi
precedenti o rivali. Così è stato per il programma
newtoniano, che riuscì a prevedere esistenza e l’esatto moto
di piccoli pianeti mai osservati prima. O per il programma
della relatività einsteiniana, che predisse nel 1916 la
deviazione dei raggi di luce passanti vicino al campo
gravitazionale del Sole, deviazione controllata poi nel 1919.
Al contrario, i programmi di ricerca regressivi o
pseudoscientifici inventano teorie solo al fine di accogliere
i fatti noti.
E il caso del marxismo che non ha mai predetto con
successo un fatto nuovo e sorprendente. Ha invece fatto
famose predizioni fallite. Ha predetto l’impoverimento
assoluto della classe operaia. Ha predetto che la prima
rivoluzione socialista avrebbe avuto luogo nelle società
industrialmente più sviluppate. Ha predetto che non si
sarebbero realizzate rivoluzioni nelle societa socialiste. Ha
predetto che non ci sarebbe stato alcun conflitto di interessi
tra i paesi socialisti. Cosi le prime predizioni del marxismo
erano audaci e sorprendenti ma fallirono. I marxisti hanno
spiegato tutti questi fallimenti. Hanno spiegato i
miglioramenti degli standard di vita della classe operaia per
mezzo di una teoria dell’imperialismo; hanno spiegato
anche perché la prima rivoluzione socialista ebbe luogo
nella Russia industrialmente arretrata. Hanno ‘spiegato’ il
1953 di Berlino, il 1956 di Budapest e il 1968 di Praga.
Hanno spiegato il conflitto russo-cinese. Ma le loro teorie
ausiliari erano tutte inventate con il senno di poi, per
proteggere la teoria marxiana dai fatti. Il programma
newtoniano condusse a fatti nuovi; quello marxiano è
rimasto indietro rispetto ad essi e ha corso veloce mente per
raggiungerli» (Lakatos 1979, I, p.9).
Anche a proposito del marxismo, dunque, Lakatos
riprende la polemica popperiana, inserendo tuttavia
originalmente l’antistoricismo di questa nella sua
metodologia dei programmi di ricerca.
Le critiche di Lakatos alla forma popperiana del
«razionalismo critico» sono quindi tutt’altro che marginali.
Anche sull’anti-induttivismo popperiano egli ha delle
riserve e avanza un appello per un «pizzico di
induttivismo» in nome della stessa concezione popperiana
66
della verità come corrispondenza e per evitare
l’interpretazione scettica della sua epistemologia (cfr.
Lakatos 1974). Ma, nonostante tutte queste critiche,
Lakatos conserva del razionalismo critico la fondamentale
assunzione della distinguibilità della ricerca scientifica da
altre forme culturali e il presupposto «realistico» che è a
base di tale assunzione. Essa diventa possibile solo in una
prospettiva metafisica realistica, nel senso di interpretare il
processo concettuale e linguistico del conoscere come
inteso a capire, sia pur parzialmente, un qualcosa che non è
riducibile al processo stesso. Attraverso l’opera di Lakatos,
come attraverso quella di altri pensatori che si possono
considerare quali prosecutori del «razionalismo critico», si
riesce a scorgere nell’istanza del realismo uno dei
contrassegni tipici per uno dei filoni dell’epistemologia di
questi ultimi trent’anni. L’altro filone (su cui torneremo)
poggia invece sulla negazione dell’istanza realistica. Il
problema del «realismo», sulle cui soluzioni si continua a
discutere, può quindi essere indicato come la questione
centrale di tale epistemologia.
Una conferma di ciò la si ha anche dall’esame delle tesi
epistemologiche di alcuni popperiani «ortodossi», che non
sono tuttavia dei semplici glossatori di Popper, in quanto ne
discutono tesi centrali. Mi riferisco a Joseph Agassi (n.
1929), che ha conseguito il dottorato a Londra con Popper
ed insegna alla Boston University, ed a John Watkins, che
di Popper è il successore alla London School of Economics.
Per quanto essi insistano più di Popper sull’importanza
della metafisica per la ricerca scientifica, respingendo
l’identificazione di metafisica e pseudoscienza, tanto
Agassi quanto Watkins tengono saldo, pur nelle variazioni,
il tema «realistico». Agassi, ad esempio, ritiene che
l’identificazione popperiana della razionalità con il dibattito
critico vada integrata con l’indicazione dello scopo
specifico del dibattito. E tale scopo, per la scienza «è
favorire la vera spiegazione dei fenomeni — ma solo in
parte. Essa non si vuole occupare di tutti i fenomeni
contemporaneamente; cerca però di fornire la vera visione
del mondo, il vero piano metafisico dell’universo. La
scienza pertanto non si limita a proporre spiegazioni da
esaminare, ma è inizialmente associata a teorie metafisiche
entro cui inserire le teorie scientifiche in forme che possono
a loro volta essere criticamente esaminate» (Agassi 1963;
trad.it., p. 55).
67
Analogamente, per Watkins, «l’oggettivismo costituisce
una rilevante tendenza di tutta la filosofia di Popper»; e tale
oggettivismo nasce dalla combinazione di due idee. «La
prima idea è quella del realismo, vale a dire l’assunto che il
mondo esista ‘là’, largamente indipendente dalle nostre
attività. La seconda idea è quella che la scienza anch’essa
esista ‘là’, largamente indipendente dai nostri processi
mentali». E non solo perché teorie ed esperimenti sono
registrati in più libri di quanti una persona possa leggere;
ma perché «il contenuto, ossia il significato oggettivo di
una teoria scientifica resa di pubblica ragione, deve
trascendere la comprensione che di essa qualunque persona
può avere». Quindi, «la scienza esiste oggettivamente e
concerne un mondo che esiste oggettivamente» (Watkins
1981, pp. 145-146).
E, in un volume recente, criticando la tesi popperiana
della Logik, secondo cui la scelta di uno scopo della scienza
«oltrepassa l’ambito di una discussione razionale», fa
presente che, per sconfiggere lo scetticismo nei confronti
della razionalità, vi sono alcuni requisiti irrinunciabili da
parte di qualsiasi scopo proposto o proponibile per la
scienza: «essere coerente; essere praticabile, guidarci nella
scelta fra teorie o ipotesi rivali; essere imparziale; avere a
che fare con l’idea di verità» (Watkins 1984; trad. it., p.
18). «Dire che la verità non fa parte dello scopo della
scienza è un po’ come dire che guarire non fa parte dello
scopo della medicina, o che il profitto non fa parte dello
scopo del commercio», (ibid., p.2l). Ciò non ha nulla a che
vedere con l’acquisizione di certezze. «Le teorie
scientifiche, per quanto meravigliose, nel migliore dei casi
sono soltanto possibilmente vere. Esse sono soggette al
controllo negativo dell’esperienza; questo controllo è molto
severo ma non dà loro nessun sostegno positivo, nessun
appiglio induttivo, e le lascia navigare nell’oceano
dell’incertezza» (ibid., p. 192).
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Verso una storiografia della scienza, Roma 1978).
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con introd, di M.Baldini, Roma 1978 (comprende gli
articoli: Scienza in divenire. Note a Popper, del 1968; Della
68
novità, del 1968; La confusione tra fisica e metafisica nella
storiografia convenzionale della scienza, del 1964; La
confusione tra scienza e tecnologia nella filosofia
convenzionale della scienza, del 1966).
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Roma 1983.
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programmi di ricerca scientifici, Milano 1985, pp. 11-130,
da cui si cita).
Lakatos, I., La storia della scienza e le sue ricostruzioni
razionali, in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e
crescita della conoscenza, cit., pp. 366-408 (e in Lakatos,
I., Scritti filosofici, cit., voi, I, pp. 131-176, da cui si cita).
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Lakatos, I., Philosophical papers, I: The methodology of
scientific research programmes, Vol. I, Cambridge-New
York 1978 (trad. it. Scritti filosofici, I: La metodologia dei
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(trad. it. Scritti filosofici, II: Matematica, scienza ed
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Roma 1981 (comprende: The human condition, del 1976;
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70
9. Un cambiamento di Gestalt
nell’epistemologia
Già si è visto, a proposito di Lakatos, com’egli
accantonasse la distinzione, che Popper accettava da
Reichenbach, tra «contesto della giustificazione» e
«contesto della scoperta». Quando la rinuncia a tale
distinzione venne enfatizzata, in modo che neopositivismo
e razionalismo critico, pur diversissimi, furono visti
convergere nell’attenzione esclusiva per il «contesto della
giustificazione», si ebbe in campo epistemologico una
«svolta», in cui gradualmente divenne dominante e talvolta
esclusivo l’interesse per il «contesto della scoperta». Kuhn
ha parlato di un «diverso orientamento gestaltico» (Kuhn
1976, trad. it., p. 71). E’ noto agli studiosi della
Gestaltpsychologie che si possono vedere «forme» diverse
(ad es. la testa di un’anatra col becco o il muso di un
coniglio con le orecchie) in uno stesso insieme di linee. E
su questo salto qualitativo nel percepire si era soffermato
anche il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (1953).
Qualcosa di analogo sarebbe dunque accaduto nella
considerazione degli aspetti della ricerca scientifica: mentre
prima vi si vedeva solo l’ «oggettivo» della «logica della
conoscenza», ora si vede invece d’un tratto il «soggettivo»
della «psicologia della conoscenza». È ovvio che il
mutamento gestaltico dipende da impliciti presupposti
teorici circa la «natura» della scienza.
Nel condizionamento di questa svolta gestaltica
entrarono in gioco molti fattori. Tra essi vi fu certamente
l’attenuazione del contrasto tra «teorico» e «empirico» nella
dottrina fisicalistica dei «protocolli», attenuazione ch’è
presente anche nella tesi popperiana del carattere
«ipotetico» delle «asserzioni-base». A ciò si aggiunge la
sopra ricordata concezione della visione come
interpretazione, sostenuta dal Wittgenstein nelle Ricerche
filosofiche. E sempre in quest’opera Wittgenstein con la
teoria dei «giochi linguistici» aveva proposto una dottrina
del significato sia dei termini sia degli enunciati come l’uso
che di essi si fa all’interno di un contesto.E signicativo che
il riferimento al «secondo Wittgenstein» (in contrasto con
l’esclusivo interesse dei neopositivisti per il Tractatus) sia
ben presente nei realizzatori del nuovo orientamento
epistemologico. Stephen Toulmin (n. 1922), ad esempio,
che di Wittgenstein fu allievo a Cambridge, si richiama
71
esplicitamente a lui sin da The philosophy of science del
1953, in cui (p.12) si parla del passaggio da una teoria
scientifica ad un altra come di «una sostituzione di
linguaggio». Analogamente anche Hanson in Patterns of
discovery (1958), si rifà alla teoria wittgensteiniana della
visione come interpretazione; ed alle Ricerche filosofiche si
riferiscono spesso tanto Kuhn quanto Feyerabend.
Ma si può spingere ancora oltre la ricerca delle «fonti»
del nuovo orientamento. Kuhn stesso, per esempio,
riconosce su di sé l’influsso di Michael Polanyi (18911976), che sin da Science, faith and society (1946) sviluppa
temi epistemologici poi ripresi soprattutto in Personal
knowledge (1958) in contrasto con la rigidità e il
formalismo della metodologia neopositivistica. Non c’è per
Polanyi la possibilità di far accettare una teoria scientifica
mediante prove «obiettive»: «operazioni formali che si
basino su un quadro interpretativo non possono dimostrare
un enunciato a persone che si basino su un altro quadro»
(Polanyi 1958, p.15l). E Kuhn riconosce ancora un debito
anche più lontano nei confronti di Ludwik Fleck (18961961) il medico e microbiologo ebreo-polacco, che dallo
studio della diagnosi della sifilide aveva, in Genesi e
sviluppo di un fatto scientifico (1935), elaborato una teoria
generale dello «stile» e del «collettivo» del pensiero
scientitico, in cui la ricerca appare fortemente condizionata
dalla psicologia della scoperta e dalle convinzioni collettive
di comunità e gruppi scientifici. «Ogni scoperta empirica
può perciò essere concepita come una integrazione dello
stile di pensiero, oppure come una sua trasformazione o
evoluzione» (Fleck 1935; trad. it., p. 167).
Come già si è osservato nel paragrafo 7, sarebbe però
pericoloso indulgere troppo nella ricerca delle «fonti» del
mutamento di orientamento gestaltico in epistemologia,
correndo il rischio di non percepirne la specificità e il peso
culturale, che si ha solo quando le varie «anticipazioni»
confluiscono in una nuova forma percepita dal pubblico
come tale. Nel caso nostro, d’altra parte, questa nuova
forma è così variegata, in conseguenza degli «stili» diversi
dei vari autori che hanno contribuito a costituirla, che
sarebbe altrettanto pericoloso pensare che il riorientamento
gestaltico dell’epistemologia sia frutto di una «scuola». I
rappresentanti della «nuova filosofia della scienza» sono
così eterogenei che, ancor meno che per i neopositivisti, è
opportuno parlare di «scuola» nei loro riguardi. In proposito
è esemplare il caso di Polanyi, che Kuhn cerca di assimilare
72
alla propria dottina dei paradigmi, cioè dell’importanza
degli imperativi socio-psicologici delle comunità
scientifiche per la ricerca, mentre la «conoscenza tacita» o
«personale» su cui insiste Polanyi si oppone tanto alla
pretesa neopositivistica di fissare regole e definizioni in
generale per la scienza, quanto ai «nuovi filosofi», che nel
passaggio dal contesto della giustificazione a quello della
scoperta polemizzano sì contro le generalizzazioni
neopositivistiche, ma per introdurne altre. Ciò che Polanyi
vuole sottolineare è l’importanza dell’atteggiamento
personale del ricercatore (non definibile in generale), tutto
permeato di assunzioni assiologiche, atteggiamento non
riducibile alle regole logiche o sociali, pur necessarie, della
giustificazione o della scoperta.
Con questa duplice avvertenza, di non prendere troppo alla
lettera né le riduzioni storiografiche al passato né
l’appiattimento nell’ uniformità del riordinamento
gestaltico, si possono tuttavia indicare alcuni tratti comuni
tra i «nuovi filosofi della scienza», tratti che spiccano nella
ricezione culturale da parte dei contemporanei. La miglior
ricetta contro le generalizzazioni unilaterali rimane non di
meno sempre quella della lettura diretta delle opere di tali
autori.
Un tratto caratteristico del suddetto riordinamento, oltre a
quello già ricordato del privilegiamento del contesto della
scoperta, è stato il riconoscimento della stretta connessione
tra epistemologia e storiografia della scienza. Nel modello
della giustificazione, infatti, l’epistemologia si presentava
fortemente normativa, poiché accoglieva l’istanza di fissare
con rigore, il metodo della ricerca, indipendentemente dal
suo effettivo procedere storico. D’altra parte, anche la
ricerca storiografica sulla scienza si atteneva tacitamente al
modello normativo secondo cui la scienza deve guardare ai
fatti senza «pregiudizi» e da essi trarre le teorie: di qui un
privilegiamento della storia «interna» della scienza.
Non erano certo mancati studi sulla storia «esterna» della
scienza, specie da parte marxista, che vedevano nella
ricerca
scientifica
un
momento
sovrastrutturale
condizionato dalle strutture sociali ed economiche; non
erano mancati nemmeno i richiami all’importanza del
pensiero filosofico per lo sviluppo della scienza: nel 1924
uscirono The metaphysical foundations of modern physical
science di E.A. Burtt e nel ‘23 Arthur O. Lovejoy (18731962) aveva con alcuni colleghi costituito a Baltimora il
73
«Club per la storia delle idee». Ma tutto ciò non suscitava
l’interesse degli scienziati e degli epistemologi.
Ha bene osservato Toulmin, che, sino a metà del secolo,
«gli assunti di base della storia della scienza» si
avvicinavano «a quelli della filosofia della scienza di
orientamento empirista». «Se il compito della filosofia era
quello di stabilire l’organo formale della scienza, il compito
della storiografia scientifica consisteva nel mettere a punto
le ‘ricostruzioni razionali’ delle conquiste scientifiche del
passato» (Toulmin 1977; trad. it., pp.l07-l08).
Fu solo attraverso il variegato riorientamento gestaltico
dell’epistemologia che ci si rese gradualmente conto che
storici e filosofi della scienza non potevano più procedere
parallelamente, e che le loro strade si intrecciavano. Si
trattava quindi di vedere come i canoni formali
dell’epistemologia potessero essere utilizzati nella vita reale
della pratica scientifica. I problemi del rapporto tra storia e
filosofia della scienza, che erano stati sino ad allora tabù,
apparivano ora importanti. Secondo un’efficace immagine
di Toulmin, «era stato manifestamente tolto il contatto alla
sedia elettrica e ciascuno si affrettava a mettersi in fila per
sedervisi», (ibid., p. 110). Data la complessità del quadro
che abbiamo delineato, non è possibile indicare colui che ha
tolto il contatto: forse questo è venuto meno per il
convergere di molte circostanze: si pensi, per esempio,
all’opera di Alexandre Koyré (1892-1964). Ma è indubbio
che, per gli epistemologi, Thomas Kuhn è stato quello che
ha almeno aperto la cabina dove c’era la leva.
L’attenzione sul carattere dinamico e storico della ricerca
scientifica fu infatti richiamata soprattutto dalla comparsa,
nel 1962, di La struttura delle rivoluzioni scientifiche.
Quando il quarantenne Kuhn pubblicò questo libro, veniva
già, dopo la sua formazione in fisica, da una serie di
ricerche specifiche in storia della scienza. Tra esse, The
Copernican revolution del 1957; poiché, a causa della sua
complessità, «la rivoluzione copernicana offre un’occasione
ideale per scoprire in che modo e con quale effetto
concezioni peculiari di molti e differenti campi del sapere
sono intrecciate in una singola costruzione di pensiero»
(Kuhn 1937; trad. it., p. XV). Ed alla ricerca storica Kuhn è
tornato anche di recente con il suo libro sulle origini della
fisica contemporanea: ma egli si rese conto che «per quanto
l’esperienza come storico possa insegnare con
l’esemplificazione la filosofia, gli insegnamenti svaniscono
nel saggio storico, una volta che questo è concluso» (Kuhn
74
1977; trad. it., p.VII): di qui l’esigenza del libro del 1962,
per chiarire la concezione della scienza che si era venuta
formando attraverso l’ermeneutica dei testi degli scienziati
del passato.
Per Kuhn, lo sviluppo della ricerca scientifica può essere
schematizzato nel seguente modo. Quando la ricerca, in un
campo determinato, è all’inizio, vi sono «scuole» rivali,
ciascuna avvalentesi di propri principi nell’interpretazione
dei fenomeni. Poi, però, le varie scuole cedono il campo ad
un’unica comunità di scienziati che si occupano di quel
campo specifico: si ha così un momento di scienza
«normale», e la caratterizzazione sociologica della
comunità in questione, che diventa l’unica «competente» a
giudicare della ricerca in quel campo, è di grande
importanza. Anche perché la comunità si costituisce
attraverso l’accettazione, più o meno esplicita, di un
«paradigma» o (come più di recente dirà Kuhn Riflessioni
1976, trad. it., p. 357) di una «matrice disciplinare»
comune, cioè di un intreccio di generalizzazioni simboliche,
tecniche sperimentali, convinzioni metafisiche e
assiologiche, mediante cui i membri della comunità
riescono a risolvere i problemi specialistici ritenuti urgenti.
L’accettazione di un paradigma condiziona il tipo di lavoro
della scienza «normale», che cerca di «forzare la natura
entro le caselle prefabbricate e relativamente rigide fornite
dal paradigma».
La scienza «normale», per Kuhn, non cerca nuove varietà
di fenomeni o nuove teorie: essa, anzi, è spesso intollerante
verso le novità. Ma questa limitazione di prospettiva induce
ad approfondire, secondo il paradigma, lo studio dei
fenomeni di quel campo. «Rompicapi» sono chiamati da
Kuhn i problemi caratteristici della scienza «normale»,
siano essi di natura strumentale, concettuale, matematica: e
la denominazione richiama l’ingegnosità del ricercatore,
perché la solubilità di tali problemi, per quanto ardua, è già
presupposta nell’orizzonte del paradigma.
La soluzione dei «rompicapi» vede tuttavia bloccato il
suo progressivo accumulo di conoscenze dal sorgere di
qualche anomalia: si apre allora un momento
«rivoluzionario» della scienza, una «crisi», che si risolve
solo quando, attraverso la discussione di una, più o tutte le
componenti della vecchia «matrice disciplinare», si giunga
ad elaborare un nuovo paradigma, mediante cui si sia in
grado di risolvere il problema prima risultato anomalo,
oltre, naturalmente, gran parte dei rompicapi già risolvibili
75
secondo il paradigma precedente. Quando ciò avvenga, e
spesso faticosamente attraverso ostacoli e difficoltà
sollevati all’interno della comunità stessa degli scienziati,
subentra allora un nuovo momento «normale», e così via.
Questa schematizzazione dello sviluppo scientifico si è
prestata a molte obiezioni. Tra esse quelle di Popper, che
però per Kuhn s’è soffermato soltanto sui momenti
«rivoluzionari», arbitrariamente elevandoli a modello di
tutta la scienza. Popper obietta di rimando che lo scienziato
«normale», come lo descrive Kuhn, è un individuo che «è
stato male istruito. E’ stato educato in uno spirito
dogmatico: è vittima dell’indottrinamento» (Popper 1976;
trad. it., p. 123).
Probabilmente non è qui il punto più critico del
riorientamento gestaltico nella considerazione della scienza
suggerito dalle tesi kuhniane. Poiché se, da un lato, pare
troppo schematica la considerazione che Kuhn fa,
nell’opera del 1962, dei momenti «normali» e
«rivoluzionari» quasi come periodi temporalmente separati,
mentre invece l’attività concreta di ricerca, per usare
un’espressione più tarda dello stesso Kuhn (1977; trad.it.,
pp. 244 segg.) è sempre permeata da una «tensione
essenziale» tra tradizione e innovazione; d’altro lato, è
altrettanto forzata la tesi di Popper che lo spirito critico sia
solo nel lavoro rivoluzionario e non già in quello «normale»
volto a sviluppare e perfezionare le conseguenze di un
paradigma (cfr., in proposito. Ziman 1984, trad. it., pp. 12933).
Il punto davvero critico sta nelle conseguenze (o, se si
preferisce, nei presupposti) più direttamente epistemologici
della kuhniana ricostruzione dinamica e storica della ricerca
scientifica. La questione diventa allora quella se si può
ancora parlare di razionalità e di progresso nella scienza.
Bibliografia
Per l’ inquadramento delle questioni trattate in questo
capitolo e ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. i saggi di
P. Feyerabend, Th. S. Kuhn, I. Lakatos, M. Masterman, K.
Popper, S. Toulmin, J. Watkins, L. Pearce Williams,
compresi in Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e
crescita della conoscenza, con introd. di G. Giorello,
Milano 1976.
76
Degli autori qui trattati ecco le opere principali:
Fleck,
L.,
Entstehung und Entwicklung einer
wissenschaftlichen Tatsache: Einführung in die Lehre vom
Denkstil und Denkkolletiv, Basel 1935, Frankfurt a. M.
19802 (trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per
una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Bologna
1983).
Hanson, N. R., Patterns of discovery, Cambridge 1958
(trad. it. I modelli della scoperta scientifica, Milano I978).
Hanson, N. R., Perception and discovery, a cura di W.C.
Humphreys, San Francisco 1969.
Kuhn, TH. S., The Copernican revolution. Planetary
astronomy in the development of western thought,
Cambridge, Mass., 1957 (trad. it. La rivoluzione
copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del
pensiero occidentale, Torino 1972).
Kuhn, TH. S., The structure of scientific revolutions,
Chicago-London 1962, 19702 (trad. it. La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Torino 1969, 19782).
Kuhn, TH. S., Logica della scoperta o psicologia della
ricerca?, in LAKATOS, I., MUSGRAVE, A. (a cura di),
Critica e crescita della conoscenza, con introd. di G.
Giorello, Milano 1976, pp. 69-93.
Kuhn, TH. S., Riflessioni sui miei critici, ibid., pp. 313-365.
Kuhn, TH. S., Note su Lakatos, ibid., pp. 409-418.
Kuhn, TH. S., The essential tension: selected studies in
scientific tradition and change, Chicago-London I977 (trad.
it. La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella
scienza, Torino 1985).
Kuhn, TH. S. Black-body theory and the quantum
discontinuity. 1894-1912, Oxford 1978 (trad. it. Alle origini
della fisica contemporanea. La teoria del corpo nero e la
discontinuità quantica, Bologna 1981).
Polanyi, M., Science, faith and society, Chicago 1946,
19642.
Polanyi, M., Personal Knowledge.Towards a post-critical
philosophy, London 1958 (trad.it. La conoscenza
personale.Verso una filosofia post-critica, a cura di E.
Riverso, Milano 1990).
Polanyi, M., The tacit dimension, Garden City 1966 (trad.
it. La conoscenza inespressa, Roma l979).
Polanyi, M., Knowing and being: essays, London1969
(trad. it. Conoscere e essere, Roma 1988); è una raccolta di
saggi usciti tra il 1959 e il 1968.
77
Toulmin, S.,The philosophy of science, London-New York
1953 (trad. it. Che cos’è la filosofia della scienza, Roma
1968).
Toulmin, S., Foresight and understanding, Bloomington
l96l (trad.it. in Toulmin, S., Previsione e conoscenza, Roma
1982, pp. 16-94).
Toulmin, S., Human understanding, Princeton 1972.
Toulmin, From form to function, 1977 (trad. it. in Toulmin,
S., Previsione e conoscenza. cit., pp. 95-126).
Per altre opere e autori citati:
Burtt, E.A., The metaphysical foundations of modern
physical science, London 1924, 19322.
Lovejoy, A.O., The great chain of being. A study of the
history of an idea, Cambridge, Mass., 1936 (trad. it. La
grande catena dell’essere, Milano 1966).
Lovejoy, A. O., Essays in the history of ideas, Baltimora
1948, New York 1960 (trad. it. L’albero della conoscenza,
Bologna 1982).
Popper, K.R., La scienza normale e i suoi pericoli, in
Lakatos, I., Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita
della conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976,
pp. 121-128.
Ziman, J., An introduction to science studies. The
philosophical and social aspects of science and technology,
Cambridge 1984 (trad. it. Il lavoro dello scienziato, RomaBari 1987).
Di Ziman (n. 1925) cfr. anche: Ziman, J., Reliable
knowledge. An exploration of the grounds for belief in
science, Cambridge 1978 (trad. it. Si deve credere alla
scienza?, Roma-Bari 1984).
Un’importanza del tutto particolare per la comprensione
delle procedure intellettuali adottate dalla scienza nel suo
sviluppo storico ha l’opera di Alexandre Koyré, che ha una
sua autonomia rispetto al filone neopositivismo –
razionalismo critico – nuova filosofia della scienza, ed è
tuttavia ricordato da Kuhn. Tra gli scritti di Koyré:
Koyré, A., Études galiléennes, Paris 1939 (trad. it. Studi
galileiani, Torino 1976).
78
Koyré, A., From the closed world to the infinite universe,
Baltimore 1957 (trad. it. Dal mondo chiuso all’ universo
infinito, Milano 1976).
Koyré, A., Études d’histoire de la pensée philosophique,
Paris 1961, (del cap. «Les philosophes et la machine» di
questo volume P. Zambelli ha curato la trad. it. in Koyré,
A., Dal mondo del pressappoco all’ universo della
precisione, Torino 1967.
Koyré, A., La révolution astronomique. Copernic, Kepler,
Borelli, Paris 1961 (trad. it. La rivoluzione astronomica,
Milano 1966).
Koyré, A., Newtonian studies, Cambridge 1965 (trad. it.
Studi newtoniani, Torino 1972).
Koyré, A., Études d’histoire de la pensée scientifique, Paris
1973.
Per indicazioni bibliografiche su Koyré, cfr.:
Vinti, C., Alexandre Koyré lettore di Copernico e di
Galileo, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1987, V, 2, pp.
29-44.
79
10. Varianza delle strutture scientifiche e
incommensurabilità delle teorie
La posizione di Kuhn nel dibattito su accennato ha una
qualche ambiguità. Così si presta a interpretazioni
divergenti. Da un lato, infatti, vi è chi ritiene che la
posizione di Kuhn — poiché «non è disponibile un’unità di
misura appropriata con cui valutare i pregi di paradigmi
alternativi: essi sono incommensurabili» (Barnes 1982;
trad. it., p. 102) — porti inevitabilmente un esito
relativistico; cosicché «da una prospettiva sociologica non
ha valore una distinzione di fondo tra ‘scienza’e
‘ideologia’» (ibid., p. 161). Ed è su questa via che si muove
il pensiero di Feyerabend.
Ma è Kuhn stesso, d’altro lato, che non accetta d’essere
un relativista nel senso che, per ciò che normalmente fanno
gli scienziati, una teoria valga quanto un’altra. Ciò che egli
esclude è solo il presupposto che vi sia una vera e completa
spiegazione della natura verso cui teleologicamente si
muoverebbe la scienza nel suo sviluppo. Questo non toglie
però che egli veda lo sviluppo scientifico, come
l’evoluzione biologica, «unidirezionale e irreversibile»
(Kuhn 1976, p. 350). Se quindi è vero che paradigmi diversi
generano una variazione del significato dei termini teorici
che vengono usati, ed è altrettanto vero che durante le
rivoluzioni scientifiche gli scienziati vedono cose diverse
anche quando guardano ciò che avevano già visto prima
(theory-ladennes dell’osservazione), Kuhn ritiene che tale
varianza non conduca all’irrazionalismo ed al relativismo.
Ciò che essa richiede è solo la rinuncia a un modello
assoluto di ragione. L’incommensurabilità delle teorie non
è assoluta, perché si può cercare la traduzione, sebbene non
totale, dell’una nell’altra; perché sono pur gli stessi gli
stimoli di coloro che rischiano, con teorie diverse, di
rompere la comunicazione; perché il sistema nervoso degli
interlocutori, per quanto condizionato socialmente e
culturalmente, è ancora lo stesso; e perché, infine, salvo una
piccola area di esperienza «la programmazione dev’essere
la stessa, in quanto le persone coinvolte condividono una
storia [...], il linguaggio, il mondo quotidiano, e la maggior
parte di quello scientifico» (ibid., pp. 362-363).
È quindi opportuno, nel considerare la posizione di
Kuhn, tener conto di queste sue dichiarazioni e non
unificare Kuhn e Feyerabend
come espressione
80
dell’irrazionalismo e relativismo della «nuova filosofia
della scienza». Questo è talvolta stato fatto, anche da autori
molto perspicaci nel dibattere gli argomenti in questione.
Così Larry Laudan in Progress and its problems, nel
delineare una sua concezione della scienza come tentativo
di «soluzione di problemi», anziché ricerca della verità,
pare porre anche Kuhn tra coloro che, non disponendo di un
modello ben preciso di razionalità, ritengono irrazionali le
decisioni sulle teorie scientifiche. E già s’è visto che
Lakatos ha una posizione analoga nel leggere Kuhn; e lo
stesso si può dire di The justification of scientific change
(1971) di Carl R. Kordig; e di Representing andintervening
(1983) di Ian Hacking.
Kuhn tenta vie intermedie tra l’assolutismo della ragione
e il totale irrazionalismo. È significativo che, nel difendere
la sua teoria dell’incommensurabilità delle teorie, egli si
richiami all’indeterminatezza della traduzione da una lingua
ad un’altra teorizzata da Willard Van Orman Quine
(cfr.Kuhn 1976; trad. it., pp. 354-355). Nato nel 1908 ad
Akron nell’Ohio, Quine fu in contatto in Europa con il
Carnap, negli anni in cui questi preparava la Logische
Syntax der Sprache: e di qui nacque il suo interesse per la
logica formale a cui diede contributi personali (Quine 1934,
1940, 1941, 1950, 1963, 1966). Ma egli fu attratto anche
dalle tesi «filosofiche» del neopositivismo di cui criticò
alcuni dogmi: la netta dicotomia tra «analitico» e
«sintetico», e l’empirismo radicale, che pretende di ridurre
ai dati di senso ogni asserzione significante (Quine 1951).
Quine è invece fautore di una tesi più liberalizzata
dell’empirismo, per cui la scienza è «una struttura
linguistica poderosa, un tessuto di termini teorici legati da
ipotesi, un tessuto connesso qua e là agli eventi osservativi»
(Quine l982 p.116).
In questa prospettiva — che Quine svilupperà poi
nell’ambito del naturalismo elaborato dal Dewey
nell’ultima parte della sua vita: «Con Dewey sostengo che
la conoscenza, la mente e il significato sono parte del
medesimo mondo con cui hanno a che fare e che devono
essere studiati nel medesimo spirito empirico che anima la
scienza naturale. Non c’è posto per una filosofia prima»
(Quine 1969; trad. it., p. 59) — Quine si trova ad affrontare
temi assai vicini a quelli dei «nuovi filosofi della scienza».
V’è quindi uno stretto parallelismo tra le difficoltà di
traduzione da una teoria scientifica ad un’altra
(incommensurabilità) e quella che Quine chiama
81
«indeterminatezza della traduzione» da una lingua ad
un’altra:ci sono sempre ipotesi alternative per la traduzione
di termini ed enunciati di una lingua sconosciuta nella
nostra. E non c’è modo per stabilire come assolutamente
giusta una di tali ipotesi. Ma Quine (ed è questo il motivo
per cui Kuhn lo sente in sintonia con sé) non ritiene che per
ciò ci si debba abbandonare al relativismo irrazionalistico.
«Nel mio naturalismo io non riconosco alcuna verità più
alta di quella che la scienza fornisce o cerca. Lo scienziato
è in effetti creativo, pone gli oggetti fisici e avrebbe forse
potuto produrre un sistema diverso, che si sarebbe adattato
altrettanto bene a tutti i dati passati e futuri. [...] Queste
verità illuminano la metodologia della nostra scienza, ma
non falsificano la nostra scienza né ne prendono il posto.
[...] Parliamo sempre all’interno del nostro sistema corrente
quando attribuiamo la verità; non possiamo parlare
altrimenti. Il nostro sistema certo cambia. Quando cambia
non diciamo però che la verità cambia con esso; diciamo
che erroneamente abbiamo supposto vero qualcosa e che
abbiamo imparato meglio. Fallibilismo è la parola d’ordine,
non relativismo. Fallibilismo e naturalismo» (Quine 1981,
p. 34).
Il tema del realismo, che vediamo qui riaffiorare come in
Kuhn, instaura dunque, nonostante le evidenti differenze,
un certo orientamento epistemologico comune con quello
già riscontrato in Popper e nei fautori del razionalismo
critico.
Un orientamento del tutto diverso è invece quello che si
trova in Paul Feyerabend, che spinge all’estremo sia la tesi
dell’ incommensurabilità delle teorie sia quella del
relativismo irrazionalistico. Sicché non è da lui messa in
dubbio soltanto la concezione cumulativa del progresso
scientifico, ma è lo stesso concetto di scienza che viene
ridotto a «un mito tra altri miti, appariscente, sciovinistico,
con alcuni vantaggi e molti svantaggi» (Feyerabend,1978,
p.181; cfr. tra. it., p. 57). La scienza ha così solo la forza di
un’autorevole chiacchiera, ed è del tutto infondata da parte
sua la messa al bando delle cosiddette pseudo-scienze come
l’astrologia, poiché è mera presunzione la pretesa di parlare
in nome della razionalità scientifica: la scienza è superiore
alle pseudo-scienze solo «per coloro che hanno già deciso a
favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza
aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché
l’accettazione e il rifiuto dovrebbero essere lasciati
all’individuo, ne segue che la separazione di Stato e Chiesa
82
dovrebbe essere integrata dalla separazione di Stato e
scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più
dogmatica istituzione religiosa» (Feyerabend 1976; trad. it.,
p. 240).
Con
Feyerabend
l’epistemologia
diventa
paradossalmente una disciplina inutile (Feyerabend 1978;
trad. it., p. 93), perché «non esiste alcun ‘metodo
scientifico’, non esiste un procedimento unico, una regola
unica, non esiste un criterio di eccellenza che sia alla base
di ogni progetto di ricerca e che lo renda scientifico e perciò
fidato» (ibid., p. 150). Le teorie sono ideologie e gli stessi
«fatti sono costituiti da ideologie anteriori» (Feyerabend
1976; trad.it.,pp. 46). Così per chi non ignora il materiale
fornito dalla storia né lo impoverisce per compiacere alla
«brama di sicurezza intellettuale nella forma della
chiarezza, della precisione, dell’‘obiettività’, della ‘verità’,
diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere
difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo
umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene»
(ibid., p.25).
È questo il succo del libro più famoso di Feyerabend:
Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza. Quest’opera provocatoria ha certo esaltato
alcuni dei
motivi più stimolanti dell’apertura
epistemologica verso il «contesto della scoperta»: la
polemica contro la pretesa di fissare in regole rigide il
«metodo» scientifico e contro il disinteresse per le
procedure storicamente affermatesi; l’importanza della
libertà inventiva nella ricerca, libertà che richiama quella
dell’invenzione di «stili» nell’arte. Ma questa esaltazione è
sfociata in una forzatura deformante, che solleva difficoltà
ancora più gravi di quelle che l’anarchismo metodologico
vorrebbe evitare. Se, infatti, sta nella storia della scienza la
confutazione della possibilità di una qualsiasi metodologia,
ciò presuppone che vi siano «fatti» storici «oggettivi». E
come può Feyerabend ammettere l’esistenza di tali «fatti»
quando per lui i «fatti scientifici» sono mere ideologie? Ad
essere anarchicamente conseguenti, anche per la
storiografia della scienza dovrebbe valere il principio «tutto
va bene». E non rimarrebbe altra possibilità che il silenzio o
quella dell’ imposizione della propria ideologia.
In scritti più recenti ( Feyerabend 1990, p.27) lo stesso
Feyerabend pare attenuare queste conclusioni paradossali a
cui porta la sua identificazione di «scienza» e «ideologia»,
quando afferma : «Il mio punto di vista è che questi risultati
83
[ della scienza ] non sono fondati in una natura ‘oggettiva’,
ma provengono da una complessa interazione tra una
materia malleabile (che, tuttavia, non è senza resistenza) e
ricercatori attivi (che sono influenzati e cambiati dal
contatto con la materia». Sicché pare che Feyerabend
inclini ora a negare solo la staticità e non l’essere del
mondo, considerato «un essere dinamico e con molte facce,
che influenza e riflette l’attività dei suoi esploratori» (ibid.,
p.28).
Era infatti uno strano destino quello a cui andava
incontro la feyerabendiana rivendicazione totale di libertà
che dimentica i condizionamenti naturali e culturali a cui è
sottoposta la ricerca scientifica come ogni altra attività
umana. È pur vero che tanti delitti sono stati commessi in
nome della presunta «assolutezza» della ragione; ma si
andrebbe incontro a mali non minori se davvero, come
crede Feyerabend, anche nella scienza «fatti» e «ragione»
fossero relegabili in soffitta: rimarrebbe solo la strada
irrazionale della forza. C’è qui in gioco qualcosa che
trascende le pure discussioni epistemologiche, in cui
talvolta, come non di rado capita ai filosofi, ci si lascia così
prendere dai propri giochi concettuali, da giungere a
dimenticare che se la scienza è un gioco linguistico, ha
tuttavia l’intento di capire come stanno davvero le cose che
non dipendono soltanto da tale gioco. È contro questa
illusoria dimenticanza che si levano le interpretazioni
«moderate» (alla Kuhn e alla Quine) circa la varianza delle
strutture scientifiche e la «incommensurabilità» delle teorie.
Ed è la stessa direzione in cui si muovono le sfaccettate
rivendicazioni
del
«realismo»,
tra
cui
quella
dell’epistemologia evoluzionistica.
A proposito del tema del «realismo» — oltre a ciò che si
dirà nel paragrafo 11 su posizioni e autori vicini
all’«epistemologia evoluzionistica» — merita attenta
considerazione il pensiero di alcuni epistemologi italiani
contemporanei.
In primo luogo Ludovico Geymonat (n. 1908), che fu
nel 1956 il primo titolare di una cattedra di filosofia della
scienza a Milano. Geymonat ─ come già si è detto nel
paragrafo 3 ─ sin dagli anni Trenta (cfr. Geymonat 1934,
1945) fece conoscere in Italia le dottrine del Wiener Kreis,
rivendicando il valore conoscitivo della scienza in
opposizione alle tematiche neoidealistiche e sviluppando
gradualmente un «neorazionalismo», in cui si è venuto
accentuando un’epistemologia dinamica in stretta
84
connessione con la storia della scienza. È la storicità della
scienza (cfr. Geymonat 1957, 1960) che viene così in luce,
il che implica la rinuncia a verità «assolute» per verità
storicamente relative. Ma la «‘storicizzazione delle scienze’
continua ad attribuire alla scienza la capacità di conoscere il
reale» (Geymonat 1987, p. 101).E tale «realismo» è da
Geymonat connesso con il materialismo dialettico marxista,
in quanto il processo della conoscenza scientifica gli pare
un processo dialettico, nel «senso che c’è la ‘negazione’ di
una teoria la quale non porta all’abbandono totale della
teoria stessa ma ne genera un approfondimento» (ibid. ).
Anche a prescindere da tale connessione con il marxismo
(in cui pare riaffiorare la nostalgia se non per le «verità»
assolute almeno per l’ «assoluta» garanzia del cammino
della scienza), la postulazione filosofica del realismo resta
ben salda nel pensiero di Geymonat, confortata pure dalla
sua accentuazione dell’incidenza che scienza e tecnica
hanno avuto ed hanno nella vita individuale e sociale degli
uomini.
Un’analoga insistenza sull’importanza del «realismo» per
la conoscenza scientifica si trova anche in Evandro Agazzi
(n. 1934), nel senso che, come per Geymonat, con cui ha
condotto un dibattito (cfr. Agazzi 1989), anche per lui «la
realtà» non è riducibile al pensiero (Agazzi 1991, p. 20):
«Certamente la realtà non è estranea al pensiero (ossia il
pensiero è in grado di coglierla), e tuttavia non ogni forma
di realtà è identificabile con il pensiero stesso» (ibid.). Ma
questo presupposto filosofico viene poi sviluppato da
Agazzi in una visione del mondo di impronta religiosa e di
elaborazione neoscolastica nel senso che in essa si afferma
che «accanto alla realtà empiricamente conoscibile [.. .]
esistono altri tipi o livelli di realtà non empirici» (ibid.,
p.31). Sono tipi di realtà «trascendenti» la fusis, ossia «non
direttamente accessibili mediante l’esperienza sensibile»
(ibid., p. 32). È a proposito di questi tipi di realtà
metaempirica, che Agazzi rivendica uno «statuto
epistemologico» della filosofia, quale è intesa
nell’accezione della metafisica classica. E sebbene egli
giustamente accusi di dogmatismo la pretesa che le vie
conoscitive si riducano alla constatazione empirica, resta
assai vaga la sua indicazione delle «credenziali
conoscitive» del realismo metafisico, quando afferma che
«il senso dei valori, il senso della trascendenza, il senso del
divino, sono dimensioni a cui tutti siamo aperti in varia
misura, ma che non tutti frequentiamo allo stesso modo»
85
(Agazzi 1989, p. 159), sicché «una persona intelligente, ma
priva di consuetudine con questi problemi, non ‘vede’ certe
cose» (ibid.). Indipendentemente da questi sviluppi
metafisici, la trattazione del tema «realistico» nell’
«epistemologia oggettualista» di Agazzi ha indubbiamente
un vivo interesse.
Assai piu critica nei confronti del postulato del realismo
appare la posizione di Marcello Pera (n. 1943), che ha
dapprima analizzato il pensiero epistemologico di Popper
(Pera,1981), per poi discutere i punti di forza e le debolezze
nella reazione all’empirismo della «nuova filosofia della
scienza», che ha portato al dilagare dell’irrazionalismo
nell’epistemologia più recente (Pera, Apologia, 1982),
sfociando infine, nella sua opera più recente, Scienza e
retorica (1991), in una concezione della scienza che ─
diversamente dalle tradizionali metodologie, le quali
concepiscono la «ricerca scientifica come una partita a due:
la natura e il ricercatore che, grazie al metodo, la interroga e
la legge» (Pera 1991, p.X) ─ considera la ricerca come una
«partita a tre: occorre la natura, chi la interroga e chi
(uditorio o comunità), interrogandola anch’egli, dibatte con
gli altri interroganti» (ibid.). In tale concezione «retorica»
della scienza, la tesi di Pera a proposito della verità è molto
più vicina alle tesi pragmatistiche o della verità come
coerenza anziché a quella della verità come corrispondenza
(cfr. Pera 1991, pp.189-l98). Ma basta il fatto che nella
concezione retorica della verità non si accetti che sia solo la
realtà a decidere il valore di verità delle nostre pretese
cognitive, e che la verità di esse sia corrispondenza alla
realtà, per esorcizzare il postulato del «realismo»? Tanto
più che Pera stesso dice: «Chiaramente accetto la tesi
ontologica» che «esiste una realtà indipendente da noi
stessi». (Pera 1990, pp. 25-26). Basta la prospettiva retorica
a spiegare i motivi di quel «chiaramente»? O essi non
rimandano a qualcosa di più corposo e duro della retorica?
Bibliografia
Per la discussione di alcuni dei temi qui trattati, e per
ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr.:
Agazzi, E., Introduzione ai problemi dell’assiomatica,
Milano 1961.
Agazzi, E., Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano
1969.
Agazzi, E., Scienza e fede, Milano, 1983.
86
Agazzi, E., Minazzi, F., Geymonat, L., Filosofia, scienza e
verità, Milano 1989.
Agazzi, E., Sul realismo, in La filosofia della scienza oggi
(Europa 1983), a cura di F. Minazzi, Napoli 1991, pp. 1938.
Barnes, B.,Thomas Samuel Kuhn and social science,
London 1982 (trad. it. Thomas Samuel Kuhn: la dimensione
sociale della scienza, Bologna 1985).
Diamo di seguito l’indicazione degli scritti principali degli
autori trattati o citati nel testo.
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1965; voI. II 1970 (trad . it. I rolemi dell’ empirismo,
1971).
Feyerabend, P., Consolazioni per lo specialista, in Lakatos,
I. Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della
conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976, pp.
277-312.
Feyerabend, P., Wider den Methodenzwang: Skizze einer
anarchistischen Erkenntheorie, Frankfurt a. M. 1976 (trad.
it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza Milano 1979).
Feyerabend, P., Science in a free society, London 1978
(trad. it. La scienza in una società libera, Milano 1981).
Feyerabend, P., Dialogue on method, in Radnitzki, G.,
Andersson, G. (a cura di), The structure and development
of science, Dordrecht-Boston, 1979 (trad. it. in
Feyerabend, P., Dialogo sul metodo, Roma-Bari 1989, con
l’aggiunta di un dialogo originale a quello del 1979; la
nostra citazione nel testo è però da Über die Methode,
versione rielaborata di Dialogue on Method, nell’edizione
tedesca dell’opera a cura di Radnitzky e Andersson:
Tübingen 1981).
Feyerabend, P., Favole marxiste dell’Australia, in
Curthoys, J., Feyerabend, P., Suchting, W., Metodo
scientifico tra anarchisino e Marxismo, a cura di L. Valdré
e con appendice di M. Stanzione, Roma 1982, pp. 190-222
opera utile anche per la discussione delle tesi
feyerabendiane.
Feyerabend, P., Una lancia per Aristotele: osservazioni sul
postulato dell’aumento di contenuto, in Radnitzky, G.,
Andersson, G. (a cura di), Progresso e razionalità della
scienza, Roma 1984, pp. 121-161.
87
Feyerabend, P., Scienza come arte, con introd. di M. Pera e
replica di P. Feyerabend, Roma-Bari 1984.
Feyerabend, P., Il realismo e la storicità della conoscenza,
«Nuova Civiltà delle Macchine» 1990, VIII,2/3, pp. 21-28.
Geymonat, L., La nuova filosofia della natura in Germania,
Torino 1934.
Geymonat, L., Studi per un nuovo razionalismo, Torino
1945.
Geymonat, L., Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale,
Torino 1947.
Geymonat, L., Galileo Galilei, Torino 1956, 19809.
Geymonat, L., Filosofia e filosofia della scienza, Milano
1960.
Geymonat, L., Scienza e realismo, Milano 1977, 19802.
Geymonat, L., Prospettive di testimonianza e di dibattito
nella filosofia della scienza italiana, in La scienza tra
filosofia e storia in Italia nel Novecento, a cura di F.
Minazzi e L. Zanzi, Roma 1987, pp. 93-102.
Geymonat, L., La Vienna dei paradossi: controversie
filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, a cura di M.
Quaranta, Padova 1991.
Su Geymonat cfr.:
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cura di C. Mangione, Milano 1985.
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1983 (trad. it. Conoscere e sperimentare, Roma- Bari
1987).
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Dordrecht 1971 (trad. it. La giustificazione del
cambiamento scientifico, con introd. di M. Pera, Roma
1982).
Khun, TH. S., Riflessioni sui miei critici, in Lakatos, I.,
Musgrave, A. (a cura di), Critica e crescita della
conoscenza, con introd. di G. Giorello, Milano 1976, pp.
313-365.
Laudan, L., Progress and its problems: towards a theory of
scientific growth, London 1977 (trad. it. Il progresso
scientifico. Prospettive per una teoria, Roma 1979).
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1981 (trad. it. Scienza e ipotesi, Roma 1984).
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science and their role in scientific debate, Berkeley 1984
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(trad.it. La scienza e i valori, con introd. Di E. Prodi,
Roma-Bari 1987).
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19822.
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(trad. it. Logica elementare, Roma 1968).
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Due dogmi dell’empirismo, in Pasquinelli, A. (a cura di), Il
neoempirismo, Torino 1969, pp. 861-890.
Quine, W. V. O., Method of logic, London 1952 (trad. it.
Manuale di logica, Milano 1966).
Quine, W. V. O., From a logical point of view, Cambridge,
Mass., 1953, 19652 (trad. it. Il problema del significato,
Roma 1966).
Quine, W. V. O., Word and object, Cambridge, Mass. –
New York – London, 1960 (trad. it. Parola e oggetto
Milano 1970).
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Mass., 1963.
Quine, W. V. O., Selected logical papers, New York 1966.
Quine, W. V. O., The ways of paradox and other essais,
New York 1966, 19762 (trad. it. I modi del paradosso e
altri saggi, Milano 1975).
Quine, W. V. O., Ontological relativity, and other essais,
New York 1969 (trad. it. La relatività ontologica e altri
saggi, Roma 1986).
Quine, W. V. O., Philosophy of logic, Englewood Cliffs
1970 (trad. it. Grammatica e logica, Milano 1981.
Quine, W. V. O., Science and sensibilia, 1980 (trad. it. La
scienza e i dati di senso, Roma 1987).
Quine, W. V. O., The pragmatists’ place in empiricism, in
Mulvaney, M. J., Zeller, P. J. (a cura di), Pragmatism,
Columbia, South Carolina, 1981, pp. 21-39.
89
Quine, W. V. O., Saggi filosofici 1970-1981, trad. it. a cura
di M. Leonelli, Roma 1982.
Per una bibliografia di Quine, cfr:
Quine, W. V. O., Saggi filosofici 1970-1981, cit., pp. 225236.
Per il suo pensiero:
Leonelli, M., Aspetti della filosofia di W. V. Quine, Pisa
1982.
Sul tema del «realismo»:
Hacking, I., Conoscere e sperimentare, cit.
Aronson, J. L., A realist philosophy of science, London
1984 (trad. it. Una filosofia realistica della scienza, Roma
1987).
Niiniluoto, I., Varieties of realism, in Symposium on the
foundations of modern physics 1987, a cura di P. Lahti e P.
Mittelstaedt, Singapore 1987, pp. 459-483.
Egidi, R. (a cura di), La svolta relativistica
nell’epistemologia contemporanea, Milano 1988.
Sull’opportunità della considerazione di filosofi della
scienza anche fuori delle «mode» epistemologiche
dominanti:
Witkowski, L., On the phenomenon of marginality in
epistemology: Gonseth and his tradition,«Dialectica»,
1990, 44, fasc. 3-4, pp. 313-322.
Witkowski, L., Against marginality Federigo Enriques’
epistemology, in La filosofia della scienza oggi (Europa
1993), a cura di F. Minazzi, Napoli 1991, pp. 221-238.
90
11. Lineamenti dell’epistemologia
evoluzionistica
Nel paragrafo 5 già si è accennato come la forma più
matura del razionalismo critico di Popper si collochi in una
prospettiva evoluzionistica. Ed è sintomatico che la stessa
denominazione di «epistemologia evoluzionistica» compaia
come titolo del saggio pubblicato da Donald T. Campbell
nel volume miscellaneo in onore di Popper, The Philosophy
of Karl Popper, pubblicato nel 1974 a cura di P.A. Schilpp.
In questo saggio, Campbell precisa che il requisito minimo
per cui un’epistemologia può chiamarsi «evoluzionistica» è
che «essa consideri la condizione umana un prodotto dell’
evoluzione biologica e sociale» (Campbell 1974; trad. it., p.
63); ma, in realtà, quella che oggi si indica con tale
denominazione ha pretese ulteriori: cioè, che l’evoluzione,
già nei suoi aspetti biologici, sia un processo «conoscitivo»
in senso lato, e che il paradigma della selezione naturale si
possa estendere dal processo conoscitivo in senso biologico
alle attività epistemiche quali l’apprendimento, il pensiero e
la memoria. Campbell stesso indica antecedenti
ottocenteschi di questo orientamento epistemologico (in
particolare Herbert Spencer, 1820-1903), che all’inizio del
nostro secolo trovò espressione in Erkenntnis und Irrtum
(1905) di Ernst Mach (cfr. in proposito Antiseri 1986); ma
afferma pure che lo si deve ai lavori di Popper se
un’epistemologia basata sulla selezione naturale può oggi
essere praticata.
Tanto Campbell quanto lo stesso Popper indicano che già
nella Logik der Forschung, con l’elaborazione di una teoria
della conoscenza attraverso tentativi ed eliminazione degli
errori, c’era un richiamo ad un processo simile alla
selezione darwiniana ed una critica all’istruzione
lamarckiana, in quanto veniva respinta la tradizionale
concezione dell’induzione come metodo della scienza. Ma,
in effetti, l’attenzione specifica di Popper per
l’epistemologia evoluzionistica va collocata nel 1961,
quando egli tenne a Oxford la Herbert Spencer Memorial
Lecture su Evolution and the tree of knowledge. Questo
scritto (assieme con altri, come la Compton Lecture del
1966, Of clouds and clocks) fu poi ripubblicato in Objective
knowledge.An evolutionary approach del 1972.
È dunque quest’opera, assieme agli scritti popperiani
posteriori, che costituisce un caposaldo dell’attuale
91
epistemologia evoluzionistica. Ma non è il solo. Lo stesso
Popper ricorda (Popper 1976, cap. 10) l’importanza per
l’epistemologia evoluzionistica dell’opera di Konrad
Lorenz (1903-1989), lo zoologo ed etologo che sin dal 1937
elaborò la teoria dell’imprinting, ossia del meccanismo
innato che i giovani animali hanno per arrivare a
conclusioni determinate di comportamento in situazioni
normali, indipendentemente dalle loro esperienze
individuali. Ovviamente la situazione della conoscenza
umana è diversa perché essa si vale del linguaggio ed è
momento dell’evoluzione culturale e non solo biologica; ma
essa non sarebbe tuttavia comprensibile se «le categorie e le
forme concettuali dell’apparato conoscitivo umano» non
fossero qualcosa «di acquisito nel corso della filogenesi;
qualcosa cioè che ‘sta’ agli elementi della realtà
extrasoggettiva come lo zoccolo di un cavallo sta alla
steppa o la pinna di un pesce all’acqua» (Lorenz 1973; trad.
it., p. 75).
Anche Campbell, del resto, che pur attribuisce a Popper
il maggior merito nell’affermazione dell’odierno
orientamento evoluzionistico in epistemologia, può essere
considerato come un esponente di punta di tale tendenza.
Anzi Campbell, studioso di psicologia, sin dalla metà degli
anni Cinquanta pubblicò una serie di studi volti a delineare
i tratti di una «epistemologia descrittiva» intesa non tanto a
chiedersi se la conoscenza è possibile, quanto piuttosto
come essa si presenta e sviluppa effettivamente «dai livelli
più bassi della vita sino a quello della conoscenza
scientifica». Contro le tendenze dominanti dell
epistemologia «analitica», Campbell estende il significato
di «conoscenza» ricomprendendovi, «all’interno di una
generale prospettiva realistica, tutti i comportamenti
adattativi degli organismi più elementari al loro ambiente»
(Cfr., per le tesi di Campbell, l’introduzione di Massimo
Stanzione a Campbell 1974; trad. it., pp. 7-62).
Anche se ci si sofferma soltanto su questi momenti
(Campbell,
Lorenz,
Popper)
dell’epistemologia
evoluzionistica, tralasciando le discussioni più recenti (di
cui si darà tuttavia l’indicazione bibliografica), risulta in
primo luogo evidente una comunanza di orientamento:
contro le tendenze epistemologiche proprie del
neopositivismo e di tutte le correnti post-neopositivistiche
che vogliono considerare la conoscenza iuxta propria
principia come un fenomeno a sé (sia che si insista sul
contesto della giustificazione o su quello della scoperta),
92
senza presupposti ontologici, nella nuova prospettiva, in cui
la conoscenza è considerata nell’ambito dei processi di
sopravvivenza degli organismi, il presupposto ontologico
realistico diventa un momento essenziale. Se il
«conoscere», in senso lato, è un modo per sopravvivere,
adattandosi al meglio al proprio ambiente, è ovvio che in
tale concezione si dà per scontato che vi sia una «realtà»
indipendente da noi, nel senso che per sopravvivere
dobbiamo fare i conti con essa. Non si tratta certo di una
realtà con una struttura stabilita una volta per tutte. Come
osserva Popper (1976, trad. it., p. 133), il realismo ch’è
proprio della concezione evoluzionistica della conoscenza
ha come punto cruciale «la realtà del tempo e del
cangiamento».
Tuttavia, nella prospettiva epistemologica evoluzionistica
non è possibile ridurre la conoscenza a un mero universo
concettuale o linguistico, a qualcosa di puramente
soggettivo, alla sola esistenza di stati mentali, di soggetti, di
intuizioni individuali. Una conoscenza «oggettiva» è certo
quella che può essere controllata o discussa. Ma il
significato dell’oggettività si coglie quando ci si rende
conto che sono «oggettivi» i problemi che ci inducono a
congetture conoscitivo-scientifiche allo stesso modo in cui
sono problemi di adattamento che il nostro organismo
risolve inconsapevolmente. Anche l’ameba, come Einstein,
usa il procedimento del tentativo e della eliminazione
dell’errore nel processo di adeguamento all’ambiente (che
di per sé è sempre mutevole): solo che per l’ameba l’errore
è quasi sempre letale, mentre non è così per Einstein (o,
fuori di metafora, per quell’animale «culturale» che è
l’uomo): infatti le congetture conoscitive o le teorie
scientifiche che l’uomo mette alla prova sono
«linguistiche». Chi rischia è la teoria, non l’uomo. Ed è
sulle teorie che si esercita la critica.
«Si può dire che la critica continui l’opera della selezione
naturale ad un livello non genetico (esosomatico): essa
presuppone l’esistenza della conoscenza oggettiva nella
forma di teorie formulate. È dunque esclusivamente
attraverso il linguaggio che diventa possibile la critica
cosciente. È questa, a mio avviso, la ragione principale
dell’importanza del linguaggio, e ritengo che sia il
linguaggio umano il responsabile della peculiarità
dell’uomo (incluse anche le sue produzioni nelle arti non
linguistiche, come ad esempio la musica)» (Popper 1976;
trad. it., p. 145).
93
In questa prospettiva della cultura come proseguimento
dell’evoluzione biologica, il «realismo» acquista anche una
nuova connotazione. Le teorie linguisticamente formulate
sono certo un prodotto della mente umana (che Popper
chiama «Mondo 2» per evidenziarne la psichicità in
contrapposizione alla fisicità delle cose, da lui indicate
come «Mondo 1»). Ma tali teorie hanno «oggettività»,
sicché esse possono venir discusse: ed una volta che siano
state prodotte hanno una loro struttura propria, autonoma
rispetto alla mente che le ha congetturate sì da creare
conseguenze non prestabilite e imprevedibili. E questa loro
autonomia che permette di attribuire «realtà» alle teorie.
Ecco perché Popper parla in proposito di «Mondo 3»: il
mondo «dei problemi, delle teorie e degli argomenti critici
come il mondo dei risultati dell’evoluzione del linguaggio
umano, e come un mondo che retro agisce su questa
evoluzione» (Popper 1976; trad. it., p. 192). Ora, è vero che
il Mondo 1 e il Mondo 2 possono interagire e che possono
interagire tra loro anche il Mondo 2 e il Mondo 3, mentre il
Mondo 1 e il Mondo 3 non possono interagire direttamente,
bensì soltanto attraverso il Mondo 2 come intermediario.
Nondimeno il Mondo 3 « è altrettanto reale quanto gli altri
prodotti umani, altrettanto reale quanto un sistema di
codificazione ─ un linguaggio; altrettanto reale quanto (e
forse ancor più reale di) un’istituzione sociale, come
un’università o un corpo di polizia. E il Mondo 3 ha una
storia. È la storia delle nostre idee; non solo una storia della
loro scoperta, ma anche una storia di come le abbiamo
inventate. [...] Questo modo di considerare il Mondo 3 ci
permette anche di inscriverlo nell’ambito di una teoria
evoluzionistica che riguarda l’uomo come animale. Ci sono
dei prodotti animali (come i nidi) che possiamo considerare
come precursori dell’umano Mondo 3» (ibid.).
La concezione popperiana del Mondo 3 richiama, per la
sua componente «realistica» altre concezioni novecentesche
della «cultura», come quella di Nicolai Hartmann (18821950), che parla in proposito di «spirito obiettivato». Essa
tuttavia è fortemente contrassegnata per il suo inserimento
nella prospettiva dell’epistemologia evoluzionistica, che a
sua volta risente del «darwinismo come programma di
ricerca metafisico». Si tratta di un’evoluzione emergente
della realtà, per cui i piani reali più complessi, pur
necessitando del supporto dei piani meno complessi, hanno
nondimeno rispetto a questi ultimi una «novità»
irriducibile. Sicché il condizionamento «causale» non è
94
solo dal basso verso l’alto, ma può pure essere dall’alto
verso il basso. Si pensi all’azione che la cultura esercita,
tramite la mediazione degli uomini, nelle trasformazioni
radicali anche dell’ambiente fisico.
Popper afferma chiaramente che «da un punto di vista
evoluzionistico» egli pensa «alla mente autocosciente come
ad un prodotto emergente dal cervello, in modo simile a
quello in cui il Mondo 3 è un prodotto emergente della
mente. Il Mondo 3 emerge insieme con la mente, ma ciò
nonostante emerge come un prodotto della mente, per
interazione reciproca con essa» (Popper, Eccles 1977; pp.
668-669). A suo avviso, tuttavia, «la coscienza umana di sé
trascende ogni pensiero puramente biologico»; sebbene
molti animali superiori siano coscienti, egli ritiene che
«soltanto un essere umano in grado di parlare possa
riflettere su sé stesso». Tutti gli organismi hanno un
programma, però soltanto un essere umano può «prendere
coscienza di parti di questo programma e rivederle
criticamente». È vero che la maggior parte degli organismi,
se non tutti, è programmata per esplorare il proprio
ambiente, correndo i rischi a ciò inerenti: ma non lo fanno
coscientemente, perché pur avendo l’istinto di
conservazione non sono consapevoli della morte. «Soltanto
l’uomo potrà affrontare coscientemente la morte nella sua
ricerca della conoscenza». «In tutte queste faccende la
differenza è costituita dall’ancoraggio dell’io al Mondo 3.
Alla sua base troviamo il linguaggio umano, che ci dà la
possibilità di essere non soltanto soggetti, centri di azione,
ma anche oggetti del nostro stesso pensiero critico, del
nostro giudizio critico» (Popper, Eccles 1977; trad. it.,pp.
178-179).
È noto come nel secolo scorso le discussioni circa
l’evoluzione biologica si siano accentrate attorno alla
contrapposizione tra lamarckismo e darwinismo a proposito
degli aspetti finalistici dell’ evoluzione e dell’ereditarietà
dei caratteri acquisiti e come solo negli anni Trenta del
nostro secolo, dopo lunghe polemiche tra lamarckiani e
darwiniani, neolamarckiani e neodarwiniani, sia stato
elaborato il modello della «teoria sintetica dell’evoluzione»
(Mayr, Simpson, Huxley, Dobzhansky), in cui si
interpretano
in
termini
neodarwiniani
(ossia
antilamarckiani) sia i cosiddetti fenomeni teleonomici sia i
modi ed i tempi evolutivi che ancora Darwin (1809-1882)
non riteneva spiegabili con i meccanismi delle mutazioni
casuali e della selezione da parte dell’ambiente, così da
95
richiedere un’influenza (lamarckiana) del «soma» sul
«gene».
Orbene, benché l’evoluzione culturale, rispetto a quella
biologica,
abbia
indubbi
aspetti
lamarckiani,
l’epistemologia evoluzionistica nella corrente rappresentata
dall’etologo Lorenz, dallo psicologo Campbell e da Popper
si muove in sintonia con la teoria neodarwiniana
dell’evoluzione. Popper, ad esempio, afferma che è
superficiale ritenere che il darwinismo non attribuisca
«alcun effetto evolutivo alle innovazioni di comportamento
[behaviorali] adattive (preferenze, desideri, scelte) del
singolo organismo». «Ogni innovazione behaviorale nel
singolo organismo muta la relazione tra questo e il suo
ambiente: questo mutamento consiste nell’adozione, od
anche nella creazione, da parte dell’organismo, di una
nuova nicchia ecologica. Ma una nuova nicchia ecologica
significa un nuovo complesso di pressioni selettive,
selettive in ordine alla nicchia scelta. [...] L’adozione di un
nuovo modo d’agire, o di una nuova aspettazione (o
‘teoria’), apre per così dire un nuovo sentiero evolutivo»
(Popper 1976; trad. it., p. 185).
Tuttavia, l’epistemologia evoluzionistica non è
necessariamente legata al modello neodarwiniano della
«teoria sintetica dell’evoluzione». Come osserva Vittorio
Somenzi (1985, pp. 317-318), nell’epistemologia
evoluzionistica «lo sganciamento dalla realtà biologica del
modello darwiniano è avvenuto ogni volta che si sia voluto
differenziare il ritmo del progresso conoscitivo dal ritmo
del progresso biologico. Se le rivoluzioni scientifiche di cui
parla Kuhn vengono esaminate [...] al rallentatore, si vede
che esse non hanno affatto il carattere di salti quantici
‘senza durata’, e che la continuità predomina sulla
discontinuità».
Non ispirati al modello neodarwiniano, ad esempio, sono
gli studi di Jean Piaget sul comportamento; e critici rispetto
a tale modello sono anche molte ricerche di paleobiologia.
Un’epistemologia evoluzionistica — che, nella prospettiva
di un «naturalismo critico», qual è sostenuto da Francesco
Barone (n. 1923), si richiami alle istanze del realismo e
dell’origine e storia naturale della mente umana — non è
obbligata a seguire i destini di una corrispondente teoria
biologica. Non mancano anzi tentativi di usare in biologia
modelli affermatisi nello studio dell’evoluzione culturale.
L’epistemologia evoluzionistica, nello stadio attuale
della ricerca, presenta dunque una problematica aperta.
96
Quali che ne siano in futuro gli sviluppi, è tuttavia già ora
efficace il richiamo ch’essa fa a non indulgere troppo
all’attenzione prevalente, o quasi esclusiva, che molta
epistemologia novecentesca ha prestato alla scienza come
produzione culturale, come se conoscenza e scienza fossero
qualcosa di avulso dalla natura nei suoi strati fisico ed
organico. Ciò che è comune alle varie tendenze
dell’epistemologia evoluzionistica, di là dalle specificazioni
proprie delle singole dottrine evoluzionistiche, è
l’accentuazione dell’intentio recta del nostro conoscere,
intentio che è costitutiva dell’uomo nel suo sforzo,
essenziale per la sopravvivenza, di orientarsi nel mondo
(Cfr. Barone 1988).Ed è in questa prospettiva generale
dell’evoluzionismo epistemologico che diventa possibile sia
individuare le «fibre» che danno continuità alla ricerca
scientifica, pur nella variabilità storica e culturale di questa,
sia di far tesoro delle analisi dell’epistemologia
contemporanea, che privilegia l’intentio obliqua, evitando
tuttavia i paradossi a cui tale privilegiamento porta.
FRANCESCO BARONE
Bibliografia
Campbell, D.T., Evolutionary epistemology, in Schilpp,
P.A. (a cura di), The philosophy of Karl Popper, La Salle
1974, vol, I pp. 413-463 (trad. it. Epistemologia
evoluzionistica, a cura di M. Stanzione, Roma 1981).
Per l’epistemologia del Campbell sono utili le indicazioni
date da Massimo Stanzione nella sua Introduzione (pp. 762) a tale traduzione; per gli antecedenti dell’ epistemologia
evoluzionistica, cfr., sempre nella stessa traduzione, le
indicazioni bibliografiche alle pp. 125-130.
Sull’importanza di Erkenntnis und Irrtum (1905) di E.
Mach in tali antecedenti, cfr.:
Antiseri, D., Epistemologia evoluzionistica: da Mach a
Popper, «Nuova Civiltà delle Macchine», 1986, IV, 1, pp.
52-66.
Per la concezione evoluzionistica di Konrad Lorenz, cfr.:
97
Lorenz, K., Die Ruckseite des Spiegels. Versuch einer
Naturgeschichte menschlichen Erkennens, Munchen, 1973
(trad. it. L’altra faccia dello specchio.Per una storia
naturale della conoscenza, Milano 1974).
Lorenz, K., Die Naturwissenshaft von Menschen.Eine
Einfuhrung in die Vergleichende Verhaltens forschung. Das
«Russische Manuscript» (1944-48),R. Piper, Munchen
1992 (trad. it.: La scienza naturale dell’uomo: il
manoscritto russo. Mondadori, Milano 1993).
Altri saggi di Lorenz sono raccolti in:
Evans, R.I., Konrad Lorenz. The man and his ideas, New
York-London 1975 (trad. it. Lorenz allo specchio, con pref.
di V Somenzi, Roma 1977).
Su Lorenz, cfr.:
Wieser, W., Konrad Lorenz und seine Kritiker, Munchen
1976 (trad. it. Konrad Lorenz e i suoi critici, Roma 1989).
Le due ultime opere citate contengono ulteriori indicazioni
bibliografiche.
Per gli scritti popperiani di carattere epistemologicoevoluzionistico:
Popper, K. R.,Objective knowledge: an evolutionary
approach, Oxford 1972 (trad. it. Conoscenza oggettiva. Un
punto di vista evoluzionistico, Roma 1975).
Popper, K.R., Unended quest: an intellectual
autobiography, London 1976 (trad. it. La ricerca non ha
fine. Autobiografia intellettuale, Roma 1986).
Particolare interesse per la concezione evoluzionistica
popperiana hanno le parti I e III dell’ opera:
Popper, K.R., Eccles, J., The self and its brain. An
argument for interactionism, Berlin-Heidelberg- LondonNew York, 1977 (trad. it. L’io e il suo cervello, Roma
19862, 3 voll.: il voI. I, Materia, conoscenza e cultura, è
opera di Popper; il vol. II, Strutture e funzioni cerebrali, di
Eccles; il vol. III comprende I dialoghi aperti tra Popper ed
Eccles).
98
Per
le
discussioni
evoluzionistica:
odierne
sull’epistemologia
Somenzi, Epistemologia, evoluzionismo e scoperta
scientifica, in Mangione, C. (a cura di), Scienza e filosofia.
Saggi in onore di Ludovico Geymonat, Milano 1985, pp.
312-330.
Somenzi, V., L’epistemologia evoluzionistica, in Gava, G.
(a
cura
di),
Un’’introduzione
all’epistemologia
contemporanea, Padova 1987, pp. 197-207.
Evoluzione e modelli. Il concetto di adattamento nelle
teorie dei sistemi biologici, culturali e artificiali, con scritti
di B. Continenza, R. Cordeschi, E. Gagliasso, A. Ludovico,
M. Stanzione e pref. di V. Somenzi, Roma 1984.
Oliverio, A., Storia naturale della mente. L’evoluzione del
comportamento, Torino 1984.
Per alcuni aspetti del «naturalismo critico» pertinenti
all’epistemologia evoluzionisnca, cfr.:
Barone, F., Immagini filosofiche della scienza, Roma-Bari
1983,19852.
Barone, F., Temi di un naturalismo critico, «Filosofia
oggi», 1988, XI, 4, pp. 653-670.
Barone, F., Science et tecnologie: un rapport entre deux
ambiguités «Fundamenta Scientiae», 1989, X , 1, pp.115123.
Barone, F., Per un’istanza realistica della conoscenza , in
Traditionen und Perspektive der analytischen Philosophie.
Festschrift für Rudolf Haller a cura diW.L.Gomboez, H.
Rutte, W.Sauer, Wien 1989, pp.539-553.
Barone, F., Teoria ed osservazione nella metodologia
scientifica, Napoli 1990.
Barone, F., La filosofia della scienza nella prospettiva di un
naturalismo critico, in Filosofia
della scienza oggi
(Europa 1993), a cura di F. Minazzi, Napoli 1991, pp. 5967.
99
NOTIZIE SULL’AUTORE
Il Prof. Francesco Barone (Torino 1923 – Viareggio
2001) è stato dal 1957 al 1987 ordinario di Filosofia
teoretica nell’Università di Pisa, ove dal ’59 al ‘74 ha
tenuto anche l’insegnamento di Filosofia morale e presso la
Scuola Normale Superiore dal ’64 al ’67 quello di Storia e
Filosofia della scienza.
Dal 1987 è stato ordinario di Filosofia della scienza
sempre nell’Università di Pisa e distaccato presso il Centro
interdisciplinare dell’Accademia dei Lincei.
Direttore dell’Istituto di Filosofia di Pisa dal 1960 al 1980,
nel 1967-68 è stato preside della Facoltà di Lettere e
Filosofia. Socio nazionale dell’Accademia delle Scienze di
Torino e Corrispondente della Società di Scienze, Lettere e
Arti di Napoli, Barone è stato presidente del Consiglio
scientifico del Centro C.N.R. per gli studi sul pensiero
filosofico del cinquecento e del seicento, membro del
Consiglio direttivo dell’ Istituto storico italiano per l’età
moderna e contemporanea, oltre che membro dei Consigli
scientifici di vari enti italiani e stranieri.
Nel 1976 gli è stata conferita la medaglia d’oro di
benemerito della scuola, della cultura e dell’arte.
Tra le sue opere principali: Il neopositivismo logico (1953,
19863); Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento
(1957); Logica formale e logica trascendentale, 2 voll.
(1964 e 1965, 19992 e 20002); L’età tecnologica (in collab.
con S. Ricossa) (1974); Neopositivismo e filosofia analitica
(1978); Pensieri contro (1983); Immagini filosofiche della
scienza (1983, 19852); Per un naturalismo critico (1988);
Teoria e osservazione nella metodologia scientifica (1990).
Ha curato l’edizione italiana di: G.W.Leibniz, Scritti di
logica (1968,19922) e N. Copernico, Opere (1979).
Collaboratore dal 1968 al 1990 del quotidiano “La Stampa”
di Torino, ha fondato e diretto dal 1983 al 1998 la rivista
“Nuova Civiltà delle Macchine”.
100
Finito di stampare
nel mese di Febbraio 2014
www.francescobarone.it
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FRANCESCO BARONE Neopositivismo ed epistemologia