liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 Galleria Liber l’Altra Copertina “Mu con la sciarpa”, di Attilio Graffino S e, per Baudelaire, la critica d’arte dev’essere parziale, appassionata, politica (il primo e il terzo aggettivo vanno intesi come “di parte”), riteniamo che probabilmente anche la creazione lo sia. Qui nessuno pretende d’essere artista, come nessuno pretende d’essere scrittore. Però diremmo che lo spessore stilistico di Attilio Graffino qui si presenta in tutta la sua magnificenza. La precisa definizione del modello – sua moglie – rivela come tutta la gamma dei colori e dello stile di Graffino sia espresso in concomitanza all’affettività che lo lega alla consorte. Se non erriamo, la voce (o era la parola?) si può definire come affectum cordis. E qui, probabilmente con un leggero slittamento semantico, potremmo dire che lo stesso è per la pittura, per l’espressione: è espressa l’affettività del cuore, legata pure alla memoria. Si ama se si ricorda, cuore e mente sono strettamente legati (“a memoria” si dice “by heart” in inglese, e “par coeur” in francese). E dipingere chi si ama, è un atto legato tanto all’affettività che alla memoria. I soli toni freddi sono tutti dislocati a sinistra (lo sfondo vagamente violaceo; i colori sfavillanti del foulard) mentre a destra, a parte gli occhi spiccatamente celesti di Mu, vi sono tutti toni caldi: il giallo, il carminio, i toni del bruno e dell’aranciato dello sfondo. Se non ricordiamo male, era nelle rappresentazioni teatrali greche, che le figure malefiche entravano in scena da sinistra; nel Cid Campeador, è scritto che Il Cid Ruy Diaz ebbe cattivo segno dall’aver incontrato sul suo cammino una cornacchia alla sua sinistra. E la sinistra è la mano che prende la fede nuziale. Divagazioni, probabilmente, che comunque non intaccano e non modificano la sonora vivacità di questo dipinto, in cui la solarità verace espressa dal colore, dimostra ancora una volta l’animo trasparente e calido dell’autore. Loredana Bua Galleria Liber è uno spazio espositivo aperto alle vostre creazioni artistiche. Se volete, inviate a [email protected] le foto in formato gif o jpg. Saranno pubblicate (in 4ª di copertina) e commentate. Norme editoriali di Liber Con l’invio dei Vs. scritti a Liber, s’intende resa implicita attestazione di paternità dell’elaborato. Si ricorda che le opinioni espresse nei testi sono quelle dei rispettivi autori e non riflettono necessariamente quelle degli altri soci o del Mensa stesso. In caso di ripensamento da parte dei rispettivi autori su quanto fornito a Liber, gli stessi autori sono tenuti a darne tempestiva comunicazione a [email protected]. Per principio del silenzio assenso, la mancata comunicazione di correzioni o di divieto di pubblicazione, da parte dei soci che hanno inviato i loro contributi creativi a questo foglio letterario, autorizza Liber ad avere piena libertà di pubblicare sulle sue pagine quanto ricevuto, nella forma e nella sostanza in cui è stato ricevuto, salvo ovvie correzioni sintattiche e di stile, pubblicazione che può essere fatta anche a considerevole distanza di tempo dall’invio. Liber è con questa nota sollevato da qualunque responsabilità derivante da omesse correzioni – tanto nei testi che nelle note biografiche - o da omesse revoche di consenso alla pubblicazione da parte degli stessi autori. Solo i rispettivi autori sono responsabili di quanto scritto su questo foglio letterario. Pertanto ed eventualmente, Liber non ne risponde in nessuna sede di contenzioso. In ogni caso, a insindacabile giudizio della redazione di Liber, non si accettano elaborati che possano esporre Liber, Memento ed il Mensa Italia a contenziosi di qualsiasi natura. La Redazione di Liber Editoriale C ’è una strana affinità, fra due brani qui presentati. E non è solo fra loro stessi, l’inconsapevole affinità, ma anche con altri scritti di altri autori importanti, come Primo Levi in Se questo è un uomo, o con pellicole autorevoli, come Il miglio verde di Frank Darabont o Dead man walking di Tim Robbins. La liaison sta nei diritti umani. Il diritto di essere trattato come una persona, il diritto di non essere calpestato, il diritto ad una vita che possa dirsi vita. Non si tiene conto qui del “Nessuno tocchi Caino”, non è Caino in argomento. Si parla di rispetto verso l’essere umano, del suo diritto ad avere riconosciuti diritti innegabili come la libertà, la dignità, il rispetto. E gli scritti in questione sono “Un’altra possibilità” e la lirica “Uomo?” Ma non vogliamo lanciarci nella propaganda verso Amnesty International o altre associazioni umanitarie caratterizzate, sul web, dal .org. Solo una constatazione di fatto, caratterizzata dalla brevitas. Labyrinth Liber Con questa Guida, dal nome Labyrinth Liber, ricordiamo le sezioni di questo foglio letterario. • Autori Liber Piccole note biografiche per presentare i soci, scritte dai soci stessi. • Galleria Liber Qui viene presentata una creazione artistica di un socio alla volta. • La Musa Calliope Dedicata alle liriche composte dai soci. • Dal diario di un medico Sezione di Liber, dedicata ai racconti scritti da Cecilia Deni. • LiberLibris Spazio aperto alle recensioni scritte dai soci. • Ut Pictura Poesis Dall’omonimo adagio oraziano; in questa sezione è prevista la presentazione di una lirica, ispirata ad un qualunque celebre dipinto. • Le voci di dentro Dall’omonima commedia di Edoardo de Filippo, da cui trae il solo titolo, dedicata a quei brani narrativi che adottino l’io narrante, senza cadere nella mera autobiografia. • Il giallo e il nero Dedicato evidentemente ai misteri e al noir. • Sogni Dall’omonima pellicola di Akira Kurosawa, tutto quanto fa sogno, fantastico - fantasy - fantascienza, irreale o non-sense. • Spazio Concorsi Dedicato a quei concorsi che vorrete occasionalmente segnalare per Liber. 3 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 la musa calliope il giallo e il nero Uomo? Nuda proprietà di Giuseppe Provenza di Stefano Machera S Nacqui a stento Sfiorato da crudeli Segni di guerra Piovuti dal cielo … Crebbi all’ombra sicura Di sinceri voti di pace … E seppi ch’era sepolto L’orrore dei barbari eccidi … Non più … Non più … Non più … Ci dissero …è pace. Ma scoprii d’un paese lontano il nome … Corea … e seppi ancora di sangue, orrori e morte … ed emerse dal buio un nome nuovo, Vietnam, con le morti di menti sconvolte dal Napalm di mille giovani persi alla gioia di giusta vita, e fu Ulster e Paesi Baschi e Jugoslavia e Kurdistan e Kosovo e Cecenia e fu Sudan e Uganda, Ruanda e Congo E fu Afghanistan E fu Iraq … E scoprimmo le bombe crudeli Strazio di civili E furono morti traditi nell’amore … E l’angoscia vedemmo Negli occhi affranti Di mille e mille uomini e donne Di mille teneri bimbi Dalle natìe terre fuggiti, fuggiti alla morte, la vita cercando … Dov’è, dov’è, dov’è La PACE ? Dove l’amore ? Dove l’uomo non più lupo ? Quando l’uomo sarà uomo ? Non fateci perdere la speranza, dateci l’amore, ridateci la vita ! " 4 tamattina va un po’ meglio. Quel dolore sordo all’anca è diminuito, e anche la schiena si fa sentire meno. Devo dire al dottore che questo nuovo analgesico mi fa bene. Certo, alla mia età c’è poco da farsi illusioni. Nella migliore delle ipotesi, si può sperare in una tregua dagli acciacchi. Ottantasette anni non sono pochi, e certo non posso aspettarmi di meglio di questi lenti risvegli, in cui controllo una giuntura per volta per capire se ho un nuovo dolore, o se l’artrite mi darà un po’ di respiro. Comunque, per essere ottobre inoltrato non mi posso lamentare, non fa tanto freddo e riesco a muovermi abbastanza bene. Oggi quasi quasi esco e faccio un salto al mercato di Ponte Milvio, così incontro un po’ di gente, sono stufa di vedere solo Vinaya, che pur di non lavorare si mette a chiacchierare e non la smette finché non le urlo di mettersi a stirare. Mi ricorda quella ciociara che avevo negli anni ’60, non si riusciva a farla smettere di parlare, il povero Ennio non la poteva sopportare e la piantava sempre lì a parlare da sola a lavare i piatti in cucina. Alla fine arrivavo io, e lei stava ancora a sproloquiare come se Ennio fosse stato là ad ascoltarla, ci rimaneva male quando intervenivo io e capiva che se n’era andato da un pezzo. Bene, è arrivato il giornale. Questa cosa che te lo portano alla porta non è male, specie per me che tante volte ad uscire non ci riesco proprio. È buffo il mondo di oggi: c’è un sacco di gente sola, così si sono inventati tutta una serie di servizi che una volta era normale fare in una famiglia, quando si era in tanti. Ricordo che mio padre usciva la mattina presto, col sigaro in bocca, e andava a comprare il giornale del mattino mentre mia madre era in chiesa. Lui in chiesa ci andava sì e no la domenica, proprio perché non ne poteva fare a meno, e poi mia mamma era religiosissima. Lui no, diceva che la vita bisognava godersela sulla terra fintanto che si può, che poi chissà. Però quando la mamma morì ricordo che le fece un funerale coi fiocchi, e le fece dire messe finché fu vivo. Comunque, guai a toccarglielo, il giornale. Io volevo sempre della carta, per ritagliarci figure, giocarci, e ricordo la volta che ritagliai un festone di pupazzetti dalla Domenica del Corriere… era cianotico dalla rabbia, papà. Guardalo lì, in quella vecchia foto, tutto impettito, sembra un militare, lui che non l’amava mica tanto la retorica militaresca degli anni ’30. Fascista sì, era convinto che Mussolini avesse salvato l’Italia dai bolscevichi, ma le armi non gli erano mai piaciute. Vabbe’, vediamo cosa ci dice il giornale. Dove ho messo gli occhiali… ah, ecco. Uhm, solita roba, politica, economia… ormai le quotazioni di borsa sembra siano più importanti della politica internazionale, o forse sono la stessa cosa. La cronaca di Roma… Dio mio. Un altro. “Nuovo suicidio di un anziano a Vigna Clara.” Non è possibile, è morto Franco Giovanardi! Figurarsi, suicidio! Quello non si sarebbe suicidato neanche tra mille anni. Ha seppellito la moglie sei anni fa, quella poveretta era arrivata allo stremo delle forze, e i figli erano scappati da anni. Franco era un tale mascalzone che ha deciso di non lasciare una lira ai figli e ha venduto tutto. Ha tenuto l’usufrutto della casa in cui abitava e ha investito tutto il resto, costituendosi un cospicuo vitalizio. Suicidarsi lui? Neanche per sogno. Eppure, sembra proprio uno di questi assurdi suicidi che si stanno verificando in questa zona negli ultimi tempi. La polizia sta ricercando disperatamente tracce di questo “Comitato per la Morte Tempestiva”. Anche a casa di Franco hanno trovato uno di quei maledetti pacchetti contenenti una pistola di piccolo calibro carica e una lettera. Eccola, uguale alle altre: Sei un inutile peso per la società, e lo sai. La medicina moderna ti permette di vivere quando dovresti essere morto da anni, sprecando risorse che spettano di diritto ai giovani capaci di produrre qualcosa di utile. Sei disgustoso e rimbecillito, balbetti, puzzi di rancido e non fai l’amore da vent’anni. Che senso ha la tua vita? Non hai affetti, nessuno tiene a te, sei solo e trascini un’esistenza ## liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 sempre più miserabile. Noi ti diamo l’occasione di fare ancora qualcosa di utile, che ti guadagnerà il rispetto e la gratitudine dei tuoi simili. Pensaci, cosa sei ancora capace di fare? Cammini a fatica, la testa ti abbandona, il tuo corpo è un relitto. Non riuscirai mai più a fare qualcosa di importante. Eppure questo puoi ancora farlo: puoi decidere di lasciare spazio nel mondo a chi può usarlo meglio, e puoi prendere tu questa decisione, fare in modo che la tua morte abbia un senso, puoi affrontarla a viso aperto anziché crepare nel sonno o accasciandoti sul pavimento invocando l’aiuto di qualcuno che non potrà sentirti. Siediti, prendi questa pistola, puntala alla testa e premi il grilletto. Non sarai morto invano, e noi ti onoreremo. Addio. Incredibile: sembra proprio che sia quello che è successo. Franco è morto tranquillamente seduto ad un tavolo, col pacchetto aperto davanti a lui, la pistola in pugno e un proiettile nella testa. La porta era chiusa, senza segni di scasso, e tutto in casa era in ordine, d’altronde Franco era un tipo preciso fino ai limiti della pedanteria. Non avrebbe mai fatto entrare uno sconosciuto, di solito anzi teneva la porta chiusa con due serrature, mentre stavolta la polizia è riuscita a entrare forzando solo la serratura normale. E Franco non è il primo, come ricorda il giornale. La prima, invece, è stata Laura Girasoli, quella vecchia insegnante in pensione, zitella da sempre. Viveva in una casa enorme su via Cassia, la conoscevo di vista, più che altro ci vedevamo in parrocchia. Un tipo rinsecchito, taciturno, ricordo solo che si lamentava della misera pensione che aveva, che se la mangiavano tutta le spese. Alla fine aveva venduto la nuda proprietà della casa, mi aveva raccontato Gina, la fioraia, il giorno del funerale dell’ammiraglio Tanzi. Beh, insomma la Girasoli è stata la prima, anche lei con la stessa lettera, un colpo di pistola alla testa, chiusa in casa, un classico suicidio. I giornali hanno cominciato a sguazzare in questa storia del Comitato, la collegano alla criminalità minorile e dicono che la nostra società è troppo vecchia, non dà occasioni ai giovani che poi diventano criminali, e dall’altra parte i vecchi sono sempre più soli e disperati, e hanno tirato fuori le statistiche sull’incremento dei suici- di tra gli ultrasettantenni. Pare che la maggioranza lo faccia coi farmaci, e non mi sorprende, visto quante medicine ha in casa qualsiasi anziano. Beh, insomma, dalla Girasoli a Franco sono stati sei, i vecchi suicidatisi, tutti allo stesso modo. La polizia poi non è stata capace di trovare nessuna traccia di questo benedetto Comitato. I pacchi sono tutti avvolti in carta comune, regolarmente affrancati, con l’indirizzo scritto a stampatello, e risultano spediti da uffici postali tutti di Roma, ma sempre diversi. Tutte le vittime abitavano in questo quartiere ed erano sole al mondo, o comunque prive di qualsiasi relazione familiare importante. Le indagini non hanno portato a niente, ed anche intercettare in anticipo i pacchi è risultato pressoché impossibile, proprio perché sono comunissimi, somigliano a centinaia di altri pacchetti che vengono inviati ogni giorno. La polizia ci ha anche provato, pare, a passare al metal detector tutti i pacchetti che venivano spediti, ma non è servito a niente. E così, si è creata la serie di quelli che un giornale di basso livello chiama “i suicidi della nuda proprietà”, proprio perché le vittime sono tutti vecchi soli, senza figli a cui lasciare in eredità l’unico bene di valore che possiedono, e che quindi decidono di vendere per vivere un po’ meglio gli ultimi anni. D’altronde, io stessa due anni fa ho venduto la nuda proprietà di questa casa; se fosse stato ancora vivo Ennio non se ne sarebbe neanche parlato, figurarsi cosa avrebbe detto lui, ma io sono sola, e gli interessi dei BOT che ho comprato col ricavato mi servono proprio. Ennio… avessimo almeno avuto dei figli! Ma sono tanti anni che mi sono rassegnata ad una vita senza figli e nipoti, e non capisco perché debbano venirmi i lucciconi proprio ora. Bene, ora vado al mercato, che per una volta che mi sento bene ho voglia di fare una passeggiata. Oltretutto è un’occasione per salutare un po’ di gente del quartiere, c’è Ernesto, il portiere del palazzo accanto, simpaticissimo, lui fa il portiere apposta per incontrare gente e sta sempre seduto sui gradini del palazzo, ad alcuni capita che gli attacchi dei bottoni interminabili, capita di vederli lì che magari hanno appuntamento col notaio e lui li tiene dei quarti d’ora a raccontargli aneddoti del caseggiato, pettegolezzi mai, perché lui è uno che sa distinguere tra chiacchiere e maldicenze. Ah, stamattina ha beccato Luigi, il postino, che mi sa che non riprenderà il suo giro tanto presto. Poi c’è Anna, la fruttivendola, io ormai ci passo più a chiacchierare che a comprare, coi prezzi che fa non posso permettermi neanche un chilo di mele. Però è simpatica, e anche se vado a comprare le mele al mercato passo sempre a salutarla. Lei lo sa, e mi fa l’occhietto quando porge i sacchetti alle signore eleganti, mogli dei professionisti del quartiere, che i prezzi neanche li guardano tanto sono preoccupate di incastrare la visita all’amante con la seduta di lampada total body. Mi sa tanto che se dovessero rinunciare ad una delle due rinuncerebbero all’amante. Poi lì, verso Ponte Milvio, c’è la macelleria di Antonio, il marito di Giuliana, e poi l’edicola, e la Questura, subito prima della chiesa. Sono tanti anni che passo di qua che lo faccio quasi meccanicamente, a volte sorpresa da quante automobili ci sono, mentre mi avvio verso il mercato. Oggi poi ho qualche fermata da fare, e alla fine quando ritorno a casa sono stanchissima, riesco a stento a metter via la roba che ho comprato prima di buttarmi in poltrona ed accendere la TV. Perlomeno oggi ho dato un senso alla giornata, sembrano sempre tutte uguali e ultimamente faccio anche fatica a leggere, i libri mi sembrano sempre troppo complicati, i gialli di una volta erano più semplici. Adesso ho provato a comprarne qualcuno di questi autori moderni, ma sono pieni di tare psichiche e particolari sanguinari, come li chiamano adesso? splatter, le donne anziché insegnare fanno le autopsie, e così le autrici pensano di sembrare moderne e femministe, ma la trama non esiste più e Agatha Christie butterebbe via il libro dopo dieci pagine, lei che è stata dieci volte più indipendente e geniale di queste macellaie da fiera del libro. È passato qualche giorno, e il tempo è peggiorato. Oggi pioviggina e il cielo è coperto, e l’artrite non mi dà pace. Se non stessi aspettando una visita mi metterei a letto con la settimana enig- ## 5 liber mistica e un thermos di tè caldo, ma devo stare in piedi e questo mi irrita ancora di più. Man mano che le ore passano, il cielo si fa sempre più cupo, eppure è quasi mezzogiorno, dovrei cucinarmi qualcosa ma non ne ho proprio voglia. Alla fine è quasi un sollievo sentire suonare alla porta, almeno mi distolgo dai miei pensieri. “Chi è?” grido, tanto tutti si aspettano che noi vecchie siamo anche sorde, e infatti anche da fuori sento la voce familiare di Luigi che urla: “Posta, signora Gemma!”. Non so quanto tempo è che non ricevo della posta vera, voglio dire non quella pubblicità tipo gita a Firenze con partenza alle cinque del mattino. Apro la porta, e vedo Luigi con un’aria timida, che mi fa: “Guardi, signora, c’è un pacchetto per lei, dovrebbe firmare qui”, e tira fuori un pacchetto avvolto in carta comune, senza indirizzo del mittente. Lo prendo mentre meccanicamente firmo il libretto per ricevuta, poi guardo interrogativamente il postino, e faccio “Non sarà mica uno di quei pacchi?” “Non so, signora, potrebbe essere, ma non c’è motivo di aver paura. Conviene però che dopo averlo aperto chiami la polizia. Vuole che le faccia compagnia?” “Sì, grazie, sono troppo nervosa per aprirlo da sola”. Entriamo in casa e mi siedo al tavolo da pranzo. Il pacchetto ha un’aria innocua, e lo apro lentamente, come se potesse esplodere. Dentro c’è solo una scatola di cartone con dentro una lettera; mi basta un’occhiata per capire che è identica a quelle che hanno ricevuto gli altri. “Ma non c’è nessuna pistola!”, esclamo. “No, di solito quella la porto io. Non si sa mai, potrebbero usare i metal detector. E poi, la pistola sta meglio in mano mia” Mi volto. Luigi ha la solita aria tranquilla, da ragazzo un po’ invecchiato, ma gli occhi sono svegli, furbi, sembra che si stia divertendo. “Signora Gemma, non si muova, per favore. Sa, se mi costringesse le sparerei ugualmente anche da lontano, poi mi porterei via pacchetto e pistola e lascerei la porta aperta, sembrerebbe un tentativo di rapina. No, lei non mi pare il tipo. Giovanardi, lui sì che era un osso duro, appena ha aperto la porta gli ho puntato la pistola contro e l’ho spinto dentro. L’ho obbligato a firmare il registro delle ricevute, l’ho fatto sedere e gli ho sparato alla tempia, 6 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 poi ho aperto il pacchetto e gli ho messo la pistola in mano. È stato un po’ rischioso, ma queste pistole non fanno molto rumore, e poi anche se mi avessero visto prima che riuscissi a uscire dal palazzo, cosa ci sarebbe stato di strano? Un postino che va in giro per le scale non insospettisce nessuno, e nessuno gli fa domande. No, signora, stia seduta per favore.” “La prego Luigi, mi spieghi, perché lo fa?” “Perché? Certo, lei magari si aspetta che io sia uno che odia i vecchi, che sia un sanguinario maniaco… No, è molto più semplice, lo faccio per i soldi. I suicidi della nuda proprietà, li hanno chiamati? Appunto. Solo che a comprare queste nude proprietà sono stato io, nel corso degli anni, usando dei prestanome, naturalmente, o la polizia a quest’ora se ne sarebbe accorta. Ovviamente lascio passare del tempo tra l’acquisto e la disgraziata morte del proprietario, ma alla fine incasso, in fondo della morte di un vecchio senza famiglia non gliene frega niente a nessuno. Io arrivo, mi faccio firmare la ricevuta, entro, sparo al vecchietto, esco chiudendomi la porta alle spalle. Tutto molto pulito, e nel tempo che ci mette la gente a capire che il colpo che ha sentito poteva essere uno sparo, e da dove proveniva, io sono fuori del palazzo, e loro picchiano alla porta del poveretto finché arriva la polizia e trova tutto esattamente come un suicidio. Ecco come funziona, signora, e ora le consiglio di chiudere gli occhi, sarà questione di un attimo.” “Fermo! Posa la pistola sul tavolo e mani in alto!” Beh, anche a saperlo prima, devo dire che è un bel conforto sentire la voce dei poliziotti che stavano dietro la porta. Sono rimasti nascosti in cucina da stamattina alle otto, poveretti, e si vede che non vedevano l’ora di intervenire, ci mettono un attimo ad ammanettare Luigi. Lui ha l’aria completamente smarrita, mentre si rende lentamente conto di essere stato incastrato. “Vedi,” gli faccio, “la tua idea era buona. La storia del fantomatico Comitato sembrava fatta apposta per scatenare le ricerche più improbabili. Ma, vedi, io mi sono chiesta: se non si sono uccisi, chi può essere stato? Ed ho pensato che noi vecchi siamo diffidenti e paurosi, e che non apriamo volentieri la porta a nessuno. Ma con il postino è diverso, e difatti i pac- chetti dovevano essere stati portati da qualcuno, qualcuno che fa le consegne in un’area limitata, dove la gente lo conosce e non gli fa caso. Quando mi è venuta in mente questa idea, ho pensato di parlarne con la polizia, e qualche giorno fa sono passata alla Questura. I poliziotti sono stati molto gentili, mi hanno portato dal commissario che mi ha ascoltato attentamente ed ha detto che poteva essere una buona idea. Vero, tenente?” “Sì, signora,” sorride il tenente Blasi, “E davvero quando abbiamo cominciato a pedinare questo farabutto non immaginavamo che il prossimo pacchetto lo avrebbe spedito proprio a lei! Comunque, abbiamo tenuto tutto sotto controllo, e sapevamo che sarebbe passato oggi per la consegna” Ora Luigi ha capito, e mi guarda con un’espressione di incredulità e di irritazione, evidentemente pensava di essere troppo furbo per essere scoperto, specie da una vecchietta come me. Aveva trovato un metodo semplice e sicuro per arricchire e ora si ritrova in prigione, fa quasi pena. “Vedi, Luigi” gli dico, guardandolo negli occhi “Hai pensato che tutti avrebbero creduto possibile che dei vecchi soli si suicidassero solo perché qualcuno li voleva morti. Ma, vedi, noi vecchi lo sappiamo che non vogliamo morire, anche se la morte non ci fa paura. Il brutto è man mano che andiamo avanti le persone che conosciamo e a cui teniamo diventano sempre meno, e ci sentiamo sempre più soli: a noi importa se un vecchio muore. Ecco perché ci tenevo tanto a fermarti.” Anche stamattina è arrivato il giornale, ma credo che non lo leggerò, non ho nessuna voglia di vedere come i giornalisti hanno ricamato su quello che è successo ieri. Ho anche staccato il telefono, tanto gli unici a chiamare sarebbero dei seccatori. Gli amici del quartiere sanno che passerò io a salutarli, e a fare due chiacchiere, ma non oggi… oggi l’anca mi fa troppo male. Penso che mi metterò a fare un cruciverba, di quelli facili, che la mia memoria non è più quella di una volta. La penna dovrebbe essere qui… no, forse in cucina, stavo scrivendo quella ricetta che davano in televisione… davvero non so più dove ho la testa! " liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 sogni le voci di dentro Sogno di una notte d’inverno Un’altra possibilità di Alberto Atti “Angelaaa! … Angelaaa! … Aaangela! … ” a Angela, la figlia del rottamaio, non sentiva. O meglio, non voleva sentire. O forse più semplicemente non poteva, immersa com’era nelle proprie fantasticherie. La stessa scena si ripeteva puntualmente ogni sera. Ogni qualvolta cioè sua madre la cercava per farsi aiutare nelle faccende domestiche. Dopo cena suo padre voltava le spalle a tutti, per incollare gli occhi sul televisore sino all’inno nazionale. Angela allora sgattaiolava fuori in silenzio, nel suo giardino incantato, chiudendo la porta sulla realtà delle cose. Ed a sua madre restavano sempre i piatti da lavare e mille cose da rimettere a posto. Brontolando fra sé e sé, si riprometteva di parlare con suo marito di questa figlia sognatrice e fannullona. Ma poi finiva sempre per rimandare. Sotto sotto forse la invidiava un pochino. Già da tempo lei aveva cancellato tutti i suoi sogni di ragazza, e di nascosto la guardava crescere con la tenerezza di una madre che sogna per la figlia una vita migliore. Angela: sedici anni verdi e teneri come le foglie di primavera. Occhi grandi pieni di sogni e lunghi capelli neri, che incorniciavano un sorriso sempre triste. Secondogenita, con un fratello emigrato in Germania per cercare lavoro. Unica speranza di un demolitore di auto, che avrebbe voluto farne una maestra. “Quando la signora Bice andrà in pensione, tu prenderai il suo posto!” Erano anni che udiva sempre gli stessi discorsi. Ma come si può a sedici anni programmare il futuro? Vedeva benissimo come suo padre si rompesse la schiena ogni giorno per permetterle di finire gli studi. Si sentiva in colpa guardando sua madre stirarle in silenzio il vestito della festa. E naturalmente sì: si era accorta di come Antonio, l’apprendista meccanico, alzasse gli occhi dal suo lavoro per guar- M di Monica Michieli H o sonno, tanto sonno. Ma non voglio dormire, voglio vivere ogni mofotogramma da: mento. Adesso, e solo adesso, ogni Il miglio verde cosa mi sembra meravigliosa: il sole che entra dalla finestrella (non lo vedo, la finestra è piccola e in alto, ma i suoi raggi entrano anche qui), la sensazione di fresco che sento sulla schiena quando mi distendo a terra, il profumo del pranzo che mi portano. Un tempo non avrei mangiato queste cose, ero abituato fin troppo bene e non mi sarei mai abbassato a consumare una semplice minestra di fagioli. Non mi soffermavo neanche a guardare le piccole cose, non ne avevo il tempo, preso com’ero nella mia corsa verso il potere.. volevo di più, sempre di più e intanto perdevo la semplicità dei particolari. E’ stato un errore a portarmi qui, un grosso errore. Se solo fossi stato un uomo diverso, se l’avessi capito e perdonato.. ma purtroppo non ero disposto a far finta di niente: “lui” mi aveva rubato la moglie! Che importa se lei era d’accordo, “lui” non doveva farlo e doveva pagare. Certo, ho esagerato, ho agito d’impulso e ho sbagliato, me ne sto rendendo conto solo ora. Ora che i miei figli e mia moglie non mi vogliono più vedere, non mi vengono nemmeno a trovare. Proprio adesso che avrei tanto bisogno di loro e che ho capito quanto siano importanti nella mia vita; ho scritto una lettera, ma non mi hanno risposto e non lo faranno, lo so. Ho scritto anche alla famiglia dell’uomo che era l’amante di mia moglie, e a cui non ho dato il tempo di difendersi, di spiegarsi: mi hanno risposto che non mi perdoneranno mai, che aspettano solo il giorno in cui mi vedranno morire. Perché nessuno mi vuole ascoltare? Ora sono cambiato, sono un uomo nuovo. Chiedo solo la possibilità di poter rimediare, forse è più dura per me che per loro. Ho sonno, ma non voglio dormire: non voglio perdere tempo, ne ho così poco.. e pensare a quanto ne ho buttato via, quand’ero ragazzo, e quanto ne ho utilizzato male in questi ultimi anni. Quante sere ho passato nel mio studio a fare gli straordinari, mentre mia moglie mi aspettava per la cena e i miei figli crescevano. Posso dire che li abbia tirati su lei, mentre io, semplicemente, non avevo tempo. E adesso che di tempo veramente non ne ho più, mi ritrovo a pensare che non vedrò mai i miei figli diventare adulti, laurearsi e sposarsi. Vorrei che questo giorno non finisse mai, e per renderlo più lungo cerco di assaporare ogni momento, ogni singola cosa. La settimana scorsa è stato giustiziato il mio vicino di cella, è rimasto convinto fino alla fine di essere nel giusto. Io invece no, mi sono pentito del mio gesto, e amaramente. Se potessi tornare indietro, sicuramente non agirei in quel modo. Se solo mi dessero un’altra possibilità.. ma la corte è stata irremovibile: omicidio di primo grado, non ci sono attenuanti. Non potrò mai rimediare a ciò che ho fatto, lo so, ma so anche che ora sono un uomo migliore, più attento verso i miei cari e ciò che è veramente importante. Se solo avessi un’altra possibilità.. ma non ce l’ho. Domani tocca a me. " darla passare. Ma non voleva farglielo capire, ed affrettava sempre il passo. “Chissà perché il lavoro debba sporcare tanto le mani?” Si chiedeva controllando le proprie. E riguardava quelle di sua madre, segnate da anni di detersivi. Allora si rifugiava nei sogni, nel suo giardino incantato. Erano soltanto rottami colorati, corrosi dalla pioggia e consumati dal tempo. Auto contorte e sventrate. Sedili abbandonati sull’erba, pezzi di trattori, motori ammucchiati, un vecchio furgone sdraiato e forse….. forse sì, anche tante vite spezzate! ## 7 liber Un piccolo paese di campagna offre ben poche prospettive di lavoro a chi ci abita. Ma da quando era stata costruita l’autostrada, suo padre aveva finalmente conosciuto il suo periodo d’oro. Ora poteva davvero permettersi di guardare al futuro con più serenità e di offrire a sua figlia un avvenire migliore. Ma lei pareva avere ben altre aspirazioni. Anzi, sembrava proprio non averne per niente. E tutto questo lo preoccupava moltissimo. Angela era nata e cresciuta in quella casa. Da piccola aveva giocato a nascondersi con suo fratello, come fanno tutti i bambini. Il deposito dei rottami si trasformava di volta in volta: una reggia, l’isola del tesoro, il giardino incantato o il covo dei pirati. Ma crescendo aveva preso l’abitudine di nascondersi da sola, e quasi sempre nello stesso posto….. una vecchia “Triumph” rossa del ’61, un modello sportivo. Ci andava con un libro. “Per studiare…..” diceva. Ma i suoi risultati scolastici erano la prova che allo studio pensava in realtà molto poco. Usciva quasi tutte le sere, e con ogni tempo. Se pioveva tirava su il tettuccio, afferrava saldamente il volante e guardava fuori immersa nelle proprie fantasticherie. D’estate godeva di maggiore libertà, forse perché c’era luce sino a tardi. Ma d’inverno si preoccupavano sempre fin troppo. E temevano il peggio ogni volta che la sentivano tossire. Questa storia ebbe inizio circa due anni prima. Ma nemmeno lei avrebbe saputo spiegarsi perché incominciò a sentirsi così attratta da quella vecchia auto. Ma ora sì. Ora lo sapeva benissimo. Ma non poteva dirlo con nessuno. Era un segreto tutto suo! E nemmeno suo padre, che generalmente rivendeva i rottami quasi subito, avrebbe saputo spiegarsi perché non aveva mai rivenduto quella vecchia “Triumph” rossa del ’61. O forse sì. Lo sapeva perfettamente, anche se non voleva ammetterlo con se stesso. Forse era per rispetto a quei poveri genitori….. Anche lui aveva conosciuto quel ragazzo, come tutti in paese del resto. E ricordava ancora quella terribile notte dell’incidente. Alessandro, il figlio del veterinario, un sorriso cordiale e sincero. Una massa di capelli biondi sempre arruffati e i venti anni che gli stavano stretti, tanta era la sua voglia di crescere. Studiava 8 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 Piero della Francesca “Il sogno di Costantino” veterinaria con ottimi voti, per seguire le orme del padre. Ed ogni ragazza se lo sognava accanto, di fronte all’altare della chiesa. Ma lui aveva ancora troppa voglia di divertirsi, per pensare già a queste cose. Ed i genitori stravedevano per lui, cercando di esaudire ogni suo desiderio. Per festeggiare il diploma, suo padre aveva voluto regalargli una piccola spider rossa. In una notte di pioggia, tornando da una festa in casa di alcuni amici, sbandò in una curva. Le ruote slittarono sull’asfalto bagnato e la sua vita si infranse contro una grande quercia. Lo trovò il postino prima di iniziare il suo giro. Una sottile linea rossa gli aveva diviso per sempre i capelli a metà. Ed uno strano enigmatico sorriso aveva impedito all’ultimo respiro di uscire fuori. Una vita spezzata e due lente vite distrutte e senza più sogni. Angela a quell’epoca non era ancora nata. Venti anni di tempo possono cancellare tanti ricordi, ma non un rottame rosso lasciato lì a perenne memoria… “Se non la smetti di chiuderti qui dentro, uno di questi giorni penso proprio che lo venderò questo vecchio rottame!” Ma in cuor suo sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Angela non conosceva questa vecchia storia. Nessuno gliel’aveva mai raccontata. Quindi non sapeva spiegarsi perché si sentisse così attratta da quell’auto. Ma un giorno i genitori di Alessandro vennero a sapere di quella sua piccola mania, e vollero conoscerla. La invitarono a passare un pomeriggio da loro. Le offrirono il tè con dei biscotti fatti in casa. Le raccontarono tutta la storia. Furono molto gentili e vollero sapere di lei. Le mostrarono tantissime foto e parlarono tutto il pomeriggio. Lei raccontò dei suoi turbamenti e delle leggere vibrazioni che avvertiva quando accarezzava il volante. Ma non fu in grado di fornire le risposte che forse loro cercavano. Si salutarono da vecchi amici e la sua vita continuò come prima. Fu in una sera dell’ultima estate che lei lo vide per la prima volta. La luna era talmente grande che sembrava stesse per cadere da un momento all’altro. E conferiva ad ogni cosa un aspetto irreale, esaltando tutte le parti cromate. Lui era lì, seduto al volante come se la stesse aspettando. Fu sorpresa, ma non ebbe paura. Anche lei, forse inconsciamente, si attendeva da tempo di vederlo. Le rivolse un caldo sorriso, invitandola a salire. Era molto più bello che nelle foto sbiadite. Salì, si sedette al suo fianco e parlarono come se si fossero conosciuti da sempre. Così ogni sera, appena poteva, correva a salutarlo per ascoltare la sua voce. Dopo, si addormentava serena e felice. Sapeva ormai tutto di lui. Sera dopo sera le aveva raccontato tutta la sua vita, le cose interessanti che aveva fatto e tutti i suoi viaggi. Lei lo ascoltava rapita. Pendeva letteralmente dalle sue labbra e beveva avidamente tutte le sue parole. Qualche volta parlavano anche del futuro, del loro futuro insieme… Quella sera era molto importante per lei. Mancavano pochi giorni a Natale, e in casa si respirava già aria di festa. L’abbondante nevicata del giorno prima aveva ricoperto il deposito di un soffice tappeto bianco, conferendogli un aspetto ancora più incantato. Quella sera lei cercò di uscire prima del solito, stando attenta a non farsi vedere. Lui aveva promesso! Lei era sicura che sarebbe stato lì ad aspettarla, come sempre. Quella sera la loro vita sarebbe finalmente cambiata. Lui le aveva già spiegato come… E lei credeva in lui, aveva fiducia nelle sue promesse! Sentiva il cuore batterle forte forte…Era la prima volta che provava emozioni così tenere e travolgenti al tempo stesso. Da parecchio tempo ormai aveva capito che si era follemente innamorata di quella bionda testa di capelli arruffati. ## Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 “E’ per stanotte!” le aveva detto. E lei era certa che quella notte avrebbero finalmente potuto coronare il loro sogno d’amore, e vivere insieme per sempre! La neve assorbì il rumore dei suoi passi affrettati, e nella sua testa rimbalzavano i battiti del suo cuore. Lui era là, come aveva promesso. E quel caldo sorriso rassicurante contribuì a fugare gli ultimi timori che le restavano. “Stanotte!, - le ripeté - Quando tutti staranno dormendo…”. Lei capì, e ritornò sui suoi passi ubbidiente. Sua madre si era accorta quasi subito della sua assenza, e si stupì moltissimo nel vederla rincasare così presto. Ma poi pensò che forse il freddo e la neve ne erano state la causa. Abbracciò i genitori più forte del solito, e si coricò quasi subito. Ma naturalmente non dormì. Si mise ad aspettare che nella casa regnasse il silenzio, fissando quel cielo violetto con i suoi grandi occhi pieni di sogni. Suo padre la trovò all’alba. Era abbracciata al volante di quella piccola auto rossa. Aveva indosso il suo vestitino più bello. Ed i lunghi capelli, ingioiellati dai cristalli di neve gelata, incorniciavano un sorriso stranamente radioso. Al funerale c’era proprio tutto il paese. Ed in testa al corteo c’erano anche i genitori di Alessandro, li accomunava un dolore antico… Fu seppellita con il vestitino che lei stessa si era scelta per il giorno più bello della sua vita. Giuseppe il camionista si fermava sempre al bar la sera, prima di rientrare da sua moglie. Parlava poco e beveva molto. Ma da un paio di mesi aveva iniziato a raccontare delle storie strane. Parlava spesso di una piccola spider rossa, che in autostrada suonava e suonava per superarlo… Parlava di un ragazzo e una ragazza molto giovani. Diceva che si giravano sempre indietro per salutarlo, prima di allontanarsi a tutta velocità… Gli erano anche sembrati molto felici. Sì davvero! Proprio tanto felici… “Giuseppe non è cattivo!”- dicevano i suoi amici - “Peccato che si sia fissato con quella strana storia…”. “Dovrebbe proprio smetterla di bere così tanto!”commentava qualcun altro. Nessuno però si era accorto… che da circa due mesi, Giuseppe il camionista beveva soltanto tè freddo… " dal diario di un medico liber La bella amica del boss di Cecilia Deni C inque o sei anni fa mi chiama al telefono la segretaria del Boss. “Dottoressa, le passo il Dottore.” “Cara Capsicum, Lei non si fa più vedere. Debbo dedurne che lavora troppo o che si è dimenticata di questo vecchio?” Nego con veemenza la seconda ipotesi ed esterno la mia contentezza nel sentirlo. “Posso esserLe utile, Dottore?” “Ahimé, si! Vede, mi ha appena chiamato una vecchia amica. Una cara amica d’un tempo, che è tornata a Bologna dopo anni di assenza. Mi ha chiesto di seguire la sua salute ormai malandata, ma, cara Capsicum, mia moglie sarebbe assai contrariata da una simile iniziativa. Così, conoscendo la Sua pazienza, ed anche la Sua competenza si intende (e lo dice con un tono che lascia capire come la pazienza si, può andare, mentre per competenza.. sono “quasi” affidabile. Per il Boss è già un gran complimento), dunque, mi sono permesso di fornire alla mia cara vecchia amica il suo numero di telefono. Mi farebbe un grande favore se potesse occuparsene al meglio. Una donna con un carattere particolare, come tutte le belle donne del resto”. E aggiunge, in tono sincero e rammaricato: “Pare che abbia un gran bel ricordo di me, sarebbe assai delusa nel vedermi con la pancia e senza capelli ... Ma mi tenga al corrente, mi raccomando” Così pochi giorni dopo mi accingo a visitare per la prima volta quella vecchia, cara e bella amica del Boss... Io odio fare le scale. Odio le scale ripide. Cinque piani di scale ripide in una vecchia palazzina bolognese, mi dico, accidenti se non me l’avesse chiesto il Boss.... In cima ai cinque piani di scale, proprio sull’ultimo pianerottolo, in mezzo a vasi di piante un cancelletto chiuso. Dietro, una porta chiusa. Cortese contrattazione, presentazione, referenze, infine s’apre l’uscio e compare il candido volto interrogativo, circondato da riccioli bianchi, e illuminato da due azzurrissimi occhi azzurri. La signora Milla. Tutto quel che so di lei lo so da lei. Per quel che mi riguarda è tutto vero, infatti corrisponde alla vera percezione che lei aveva di se stessa e che desiderava farmi conoscere, per farsi conoscere da me. Sono nata, mi disse, a Villa D. La famiglia di mio padre viveva a Villa D., era la nostra casa. Lei deve immaginarsi, dottoressa, quella casa grandissima ed il bellissimo parco, il laghetto, le case della servitù, le stalle. Mia madre aveva già due figli da un altro padre quando incontrò il mio. Per tutta la vita disse sempre “E’ stata colpa mia, io sapevo esattamente cosa facevo, e l’ho fatto. Sapevo che era tanto più giovane di me, sapevo che era un donnaiolo, amante della caccia e del vino, sapevo ch’era un incostante.” Sa, dottoressa, noi donne facciamo cose terribili per amore, senza pentircene, mia madre non s’è mai pentita. Mai. E sono nata io. Sarà stato un bene, dottoressa? Non lo sarà stato?Io non lo so, io non lo so. Avevo tutto, dottoressa, eppure non avevo nulla, ed avevo anche troppo. I miei fratelli non avevano i vestiti belli come i miei, e la catenina d’oro col cammeo, e non erano i figli del padrone. Non sono stata accettata. Neppure dopo tanti anni, neppure da grandi, non m’hanno mai accettata. Questa dove ci troviamo ora era la casa di mia madre, sono stata tanto infelice qui. E sono tornata. Sono tornata a Bologna perché so che sto per morire. (Ho abboccato a questo amo, fatto su misura per me. L’ho rivoltata come un guanto. Ci ho messo un anno, forse anche di più, l’ho frugata organo per organo, apparato per apparato, e non aveva nessuna malattia mortale. Neppure una.) ## 9 liber Non m’ha raccontato nei particolari come da Villa D., sull’Appennino, fossero venuti a Bologna. La relazione tra suo padre e sua madre finì. La madre rifiutò qualunque assistenza economica, sia per sé che per la figlia, andò via come era venuta, ma con la sua bambina. E con gli altri figli. Molti anni dopo, lei viveva a Roma, o in Calabria, non ricordo, vennero a cercarla per consegnarle la sua parte d’eredità. La sorella disse “non so dove sia, non ne abbiamo traccia da tanti anni”. Non era vero. La signora Milla lo seppe dopo la morte della sorella, da una nipote cui la madre l’aveva confidato, spiegandole perché la casa materna dovesse restare a disposizione di Milla. A mo’ di risarcimento? Non mi pare che Milla lo intendesse così. Sembrava pensare amaramente ad una specie di vendetta sororale, un modo per non lasciarla mai libera dalla colpa di non essere del tutto una sorella. La signora Milla era sempre civettuola ed elegante. Come facesse ad essere così elegante io non lo so. Soprattutto se si pensa che indossava generalmente delle camicine da notte accorciate davanti con le forbici per evitare che l’orlo battesse sulle ginocchia spesso gonfiate violentemente dall’artrite reumatoide, e con sopra, in inverno, dei vecchissimi giacchini di lana, liseuses come si chiamavano, a colori pastello, sottili, consunti, che si avvolgeva addosso con gesti da ragazzina. E ciabatte. Sapeva di talco, di sapone; ondeggiava leggermente per via, sempre, delle sue ginocchia molto malandate, e si appoggiava senza parere a muri, mobili, maniglia delle porte. Elegantissima. Era ancora alta, quasi quanto me, con le mani piccole e candide, unghie corte e pulite, alito sempre profumato. Mi aspettava con la caffettiera pronta e la tazzina capovolta sul piattino, al centro di un piccolo vassoio sul tavolo di cucina. Mi chiedeva sempre se volevo un caffé prima di accendere il fornello, e non mancavano convenevoli di rito: “la tazzina è scompagnata, ma lei l’accetterà ugualmente, non è vero? E’ venuto buono, dottoressa? O è una ciofeca, come dicono a Napoli?” e poi un raccontino, una barzelletta, vecchia a volte, altre volte così vecchia da risultarmi nuova. 10 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 Quella per esempio dei vecchietti al sole nel cortile del condominio, la sapete? Uno si lamenta: “ a me mi frega lo stomaco, ché per il resto starei benissimo, ma mannaggia, non posso digerire più nulla, altro che semolini e semolini”. La sua vicina protesta per l’artrosi: “debbo solo stare a sedere, appena mi muovo vedo le stelle, a me mi frega questa maledetta artrosi”; e il terzo afferma che andrebbe tutto bene se non fosse per il fiatone che compare ad ogni minimo sforzo “dice il medico che è colpa del cuore, ecco, a me mi frega il cuore” L’ultimo si volta verso la moglie e le dice sottovoce “Annina, me so’ stufato di questi carri rotti, sempre a parlà de tutti ‘sti mali. Annamo de sopra a facce …”. E lei “Marce’, non sarà neppure un’ora che l’abbiamo fatto!” “Ecco, vedi, a me me frega la memoria!” Ed io me la vedevo, maliziosa e candida, ridacchiare nel ruolo dell’Annina, in una vita diversa, in un diverso destino. La signora Milla veniva, ultimamente, da Roma, dove aveva abitato negli ultimi venti o trent’anni, col suo ultimo marito, e poi, dopo essersene separata, da sola. Si dichiarava appassionatamente romana, perché una città si sceglie, diceva, e s’ama più di quella dove casualmente s’è nati. Mi descriveva le strade, i condomini, il pizzaiolo, il fruttarolo, i tre ospedali che la facevano sentire tanto sicura (ecco, quando si è vecchi com’è bello vivere accanto ad un buon ospedale!) e i suoi gatti. Erano gatti condominiali, cosa assai particolare, per lei naturalissima: dormivano fuori, o da lei, o da un altra padrona, e mangiavano dappertutto. Aveva le foto appese in cucina: il gatto tigrato che cerca di acchiappare la pallina, quello bianco e nero stravaccato sul termosifone. Me li indicava e ne raccontava le prodezze. Poi mi raccontava dei suoi bambini. Dopo essersi separata aveva fatto la baby sitter per i bimbi dei dintorni, e due soprattutto ne aveva amati. Le telefonavano ancora, o forse era lei che li chiamava, per informarsi sui loro studi, e mi riportava ogni nuova, ogni esame sostenuto, ogni trenta, ogni prodezza, ogni saluto. Circa venti anni prima aveva avuto un cancro all’intestino. Era stata operata e si era convinta di essere ormai desti- nata ad una fine sgradevole. Così aveva deciso di separarsi dal marito. Una roba del tipo Sweet november, se l’avete visto. Solo che lei, da non crederci, era guarita. Ed era rimasta sola. Da Roma, ho poi capito, era partita perché sfrattata. Ma soprattutto perché era convinta di avere molto poco da vivere, aveva avuto un presagio, sapeva, mi disse, che era questione al massimo di un paio d’anni, e voleva morire a Bologna per essere sepolta con sua madre. Si chiamano disposizioni anticipate, nel gergo corrente. Lei voleva essere cremata; che le togliessero la fede nuziale e poi la rimettessero nell’urna con le ceneri, un’urna piccola e senza orpelli, perché non è dignitoso l’uso di queste scatole ridicole accostato alle ceneri d’un morto, e l’urna nella tomba perpetua della mamma. Tutto molto semplice, così. Ma lei non credeva nella morte, credeva nella vita. Eppure una visita a domicilio alla signora Milla era per me fonte di grande angoscia. Le cose andavano così. Lei telefonava, gentile, con quella voce da bambina arrochita, cominciando con un buongiorno o buonasera, dottoressa come va? E poi aggiungeva, con tono pacato e quasi soddisfatto”io sto male. Male male male” E continuava sempre discorsiva elencando dolori, febbri, tumefazioni delle ginocchia, crisi ipertensive, soffocamenti, svenimenti, cadute. Poi cominciava il pressing “allora cosa si fa? Lei cosa dice? Come debbo fare? Che cosa prendo? E si ricorda l’ultima pillola che mi ha dato, andrà ancora bene o no?” mentre io non mi ricordavo quale fosse l’ultima pillola, e senza neppure sapere se alludeva all’ultima della settimana scorsa o all’ultima di un mese fa, all’ultima prescrizione nuova o all’ultima ripetizione di ricetta, o all’ultima riesumazione di una terapia precedente. Poi, ottenuta una disposizione, cominciava un lunghissimo torrenziale discorso che comprendeva ricordi di gioventù, barzellettine stantie, resoconti di incomprensioni, resoconti di presagi, intuizioni, barlumi pre-cognitivi e telepatici. Nel frattempo avevo imparato a continuare la visita al paziente che avevo davanti, ## liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 col telefono tra spalla ed orecchio, comunicando a cenni col poveretto, o a bigliettini, palpandolo, auscultandolo con l’orecchio libero, implorandone la comprensione con sguardi eloquenti. Quindici minuti, poi venti, infine “Debbo lasciarla signora Milla, ho un paziente davanti a me” ed ecco la stoccata finale “allora quando la vedo? Domani? Giovedì? (il giovedì è la mia mattina delle domiciliari)” e neppure stabilire un appuntamento era sufficiente, perché rimaneva il capitolo del “come stanno i suoi bambini? E il marito, eh?” Mi lasciava stremata. E angosciata al pensiero del bis domiciliare. Ora sono qui a chiedermi da quale fonte scaturisse tutta la mia ansia. Intanto la consapevolezza di non avere una soluzione ai suoi mali, la solitudine in primo piano. Poi quella di non avere neppure una soluzione “accettabile” ai suoi dolori. Lei non accettava le cure. Aveva la convinzione incrollabile d’esser morente, pertanto non gradiva essere smentita. C’erano tre problemi: una tiroide ammalata, le articolazioni infiammate e un aneurisma dell’aorta ascendente e dell’arco, vicinissimo al cuore, che sembrava stabile, ma in grado comunque di rompersi a sorpresa. Così non era possibile rifiutare una domiciliare. Ma, una volta lì, non c’era altro da fare che ascoltare, lasciare scorrere la piena alluvionale delle parole sino a vederle smagrirsi in rivoli sempre più sottili. Infine guadare il torrente così sfogato traghettando un nuovo assetto farmacologico, una nuova tappa di consulenze ed esami. Le visite alla signora Milla erano, del resto, sempre a domicilio. Cinque piani di scale ripide e due ginocchia minate dall’artrite reumatoide la rendevano prigioniera della sua piccola casa. Ma parlava agli uccellini. Nei primi tempi, dopo il suo rientro a Bologna, aveva affrontato e risolto preliminarmente il problema della dissuasione dei piccioni. Prepotenti, voraci, invadenti, si impadronivano del cibo destinato a passeri e merli. La signora Milla con una combinazione di sacchetti di plastica, nastri argentati ed assidua personale vigilanza, aveva insegnato ai piccioni a starsene lontani e contemporaneamente aveva attirato i loro più piccoli cugini. Sull’inizio dell’estate ho visto coi miei occhi madri uccelline imboccare i propri piccoli, cresciutelli ma non autonomi, sul davanzale della cucina della signora Milla. Molte volte, mentre sedevo al tavolo intenta a leggere referti dopo aver preso il caffé, alzando gli occhi incontravo quelli di un intrepido passero intento a spazzolare le briciole del biscottino. Venivano spudorati a pretendere il cibo dalla loro governante e se non la trovavano in cucina si inoltravano a cercarla in camera da letto, svolazzando impavidi e cinguettando. Avevano ciascuno il proprio nome. I più anziani erano Collolungo, passero snello e aggraziato, e Cicciobello, grasso e impudente. Un merlo dallo sguardo torvo era Alberto, come il suo terzo marito. Poi aveva, come ho detto, il telefono che usava senza parsimonia, e parlava quasi ogni giorno con la signora del piano di sotto che le faceva la spesa. E c’era la Nipote. Naturalmente con lei discuteva di continuo e contemporaneamente le era legata, un po’ per affetto e un po’ per forza. A volte la Nipote veniva a partecipare alle mie rituali visite, per parlare di esami, controlli, cure, diete e via dicendo. Erano una via di mezzo tra una visita medica ed una di cortesia, inframmezzate da caffé, racconti, pianti, risate e ricordi. Il primo matrimonio, per esempio: era finito dopo la morte del loro figlio appena nato. “Avevo una suocera cattiva, diceva, e fu contenta d’aver perso quel nipotino. Così le girai l’assegno che il duce ci dava per la nascita di un figlio: che sia contenta fino in fondo, pensai.” Poi chiese l’annullamento dichiarandosi infedele e chiamando a testimone come corresponsabile dell’adulterio il Boss. “Un vero amico, confermò tutto, e mi sostenne, anche se non era vero. Ma io dovevo essere libera, non c’era altro modo allora” Aveva conosciuto il suo secondo marito in Calabria, dove si era recata per lavoro su invito di una conoscente; non sono note alla scrivente le circostanze, forse dolorose, della separazione o della vedovanza. Il terzo compagno l’aveva portata a Roma, quarantenne ma ancora bellissima, bionda e levigata, con un fisico sottile da pin up. Tra una cosa e l’altra aveva fatto la giornalista sportiva seguendo un Giro d’Italia (unica donna allora, ricordava), l’impiegata, la moglie, la baby sitter, l’infermiera. Aveva imparato dialetti del Sud, del Centro, del Nord, e li parlava fluentemente. E “sentiva” le cose. Assorbiva, così si esprimeva, i pensieri, i dolori, le preoccupazioni di chi le stava intorno. Quando andava in ospedale le ci volevano due o tre giorni per riaversi dalla sofferenza. E presagiva gli eventi. L’undici settembre, per esempio, era stata male sin dal giorno prima, lamentando una terribile cefalea. Sin qui posso fare da testimone. Mi aveva chiamato per chiedere un farmaco. Durante la notte, disse, dormì male e sognò fumo e fiamme. Al mattino mi chiamò di nuovo dicendo che “stava male, male, molto male”. Più tardi, nel pomeriggio, mi disse che la notizia del crollo delle torri era stata quasi liberatoria, dopo quella lunga angoscia. Come dice Pratchett: sono superstizioni, ma non è detto che non siano vere. In ogni modo sono certa che era molto sensibile alle emozioni altrui. Ed era infelice. Ed era sola. Ed era certa d’esser prossima a morire. Una domenica sera d’inizio maggio la Nipote mi telefona. “Mi scuso per il giorno e per l’orario, ma ho ritenuto importante farle sapere che la zia Milla è in coma. E’ gravissima, dice, non ce la farà” Il sabato pomeriggio Milla accusa una fortissima cefalea. Prende un Optalidon, e non conta. Ne prende ancora uno, poi, in preda ad un dolore lancinante, chiama la Nipote, raccoglie la borsa sempre pronta per l’Ospedale e si fa portare in Pronto Soccorso. I miei Colleghi minimizzano. Non è niente. La Nipote chiede una TAC. Macché, macché, vorrà scherzare? La TAC ci serve per robe serie, per cose urgenti! Mettono una flebo, la situazione non migliora. Nel pomeriggio Milla non riesce ad alzarsi dal letto per andare in bagno. Usa la padella con fatica. Verso le diciannove e trenta la Nipote la lascia addolorata e angosciata. Due ore dopo le telefonano a casa: Milla è in coma. Salta fuori che la TAC è disponibile, vie- ## 11 liber ne fatta, c’è una massiccia emorragia cerebrale, va trasferita in un altro Ospedale dove c’è la Neurochirurgia. Nel cuore della notte la Nipote segue l’ambulanza che porta Milla, ormai per sempre inconsapevole, su una ridente collina in vista dei monti su cui è nata. Il neurochirurgo parla con la Nipote. “Deve firmarmi il consenso. Dobbiamo operarla, dice, l’emorragia è gravissima”. La Nipote sembra una donnina di campagna, ma è una professionista affermata. Vuole sapere, prima di firmare. Sapere cosa si può ottenere con questo intervento: guarirà? Parlerà? Camminerà? No, risponde il chirurgo, ormai il danno è fatto. Resterà paralizzata, del tutto. Difficilmente parlerà. L’intervento serve a ripulire, a limitare, forse, la paralisi, a farla, forse, sopravvivere. “Allora, mi racconta la Nipote, ho pensato al terrore della zia Milla di restare su una sedia a rotelle, all’umiliazione, autori liber Attilio Graffino Generale degli Alpini in pensione, Attilio Graffino è nato nel 1929 a Busca (Cn) e vive a Belluno. Grinta da vendere, si dedica a numerose attività ed interessi, fra cui la pittura, la scrittura narrativa, gli sport della montagna, la vela e il cicloturismo. Ha pubblicato sul Commensale alcuni suoi scritti, fra cui il racconto Per grazia ricevuta e recentemente un brano dedicato alla vincitrice del Concorso BRAIN ® 2002, Antonella Giacomin. Brano dal titolo quasi “linawertmulleriano”: Se un giorno all’improvviso una valforettese diventasse la più intelligente del mondo? Su Liber, è tra l’altro già uscito il suo racconto L’espresso 1014 e Il bracciale di luce. Attilio Graffino è stato anche l’organizzatore della I^ Mostra di Pittura del Mensa Italia, che ha trovato spazio nel corso del XX° Convegno Nazionale, tenutosi a Iesolo. Numerose sue opere si trovano negli Stati Uniti. La Galleria Liber presenta un’altra delle sue numerose e pregevoli opere. Monica Michieli Monica Hallouma Michieli, nata l’8 ottobre 1980 a Vicenza, è socia Mensa dal 2002. Tra qualche mese (se tutto va bene) si laureerà in Ingegneria Chimica indirizzo Materiali presso l’Università degli studi di Padova. Tra i suoi interessi ci sono la musica (suona il pianoforte), le letture (come genere le piacciono molto i romanzi classici e degli autori moderni, nonché saggi e pubblicazioni scientifiche), i viaggi all’estero e le lingue (ne parla sei - italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo e svedese - e ha un’ottima comprensione di portoghese, danese e norvegese). Per motivi di studio ha vissuto in Svezia un anno fa, e non esclude un ritorno, magari per un dottorato di ricerca. L’e-mail con cui ci ha inviato il suo 12 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005 tremenda per lei, d’essere di peso, dipendente dalla carità di una assistenza altrui, e gli ho detto: no, nessun consenso, non si opera. Almeno, mi ha proposto, facciamo una TAC col contrasto. E’ venuto su il radiologo, anche lui voleva un consenso, e gli ho chiesto a che serviva l’esame. M’ha spiegato che era necessario per preparare un eventuale intervento. Forse non m’ero spiegata bene, ho detto. La zia non si opera. Lei non voleva, non avrebbe mai voluto. Cosa dice, dottoressa, ho fatto bene?” “La signora Milla avrebbe certo deciso così. Lei ha fatto la cosa giusta” “Ora, dottoressa, potrei chiederle una cosa? Ha detto anche a lei come voleva essere sepolta? Perché, vede, sembra che potrebbero esserci problemi, per via di un fratello che vive lontano e che dovrebbe, sembra, firmare il consenso alla cremazione. Nel caso, posso disturbarla per confermare i desideri della zia?” Parliamo ancora un poco di urne e di fedi nuziali, e d’altro. Infatti non è tutto. La Nipote mi dice d’aver saputo solo oggi dalla vicina che proprio venerdì sera, guarda caso, l’Assemblea Condominiale aveva lungamente discusso, e infine unanimemente votato, d’impedirle di dar da mangiare agli uccellini. “Le portavano via i suoi uccellini, ci pensa? E la zia non m’ha detto mica niente!” Il sabato mattina uno zelante e soddisfatto Amministratore aveva affrontato i cinque ripidi piani di scale per andarglielo a comunicare. scritto, si chiudeva con una bella citazione da William Blake: To see a World in a grain of sand and Heaven in a wild flower, hold Infinity in the palm of your hand and Eternity for an hour. e il canottaggio. Nel 1998 ha pubblicato sul periodico letterario L’APOSTROFO il suo racconto Parabola discendente, fra i vincitori del premio di narrativa indetto dal medesimo periodico. Il racconto è stato riproposto sulla newsletter di Accademia Alighieri, Il Convivio. Nel 1993 ha pubblicato la raccolta di versi dal titolo Sensazioni. Qui una sua nuova lirica.. Stefano Machera Stefano Machera ha 43 anni, fa il consulente informatico. Socio Mensa dal 1986, almeno crede di ricordare, è da diversi anni coordinatore del SIG Libri. Legge molto e indiscriminatamente, e i gialli sono una sua passione adolescenziale, passione non ancora terminata. Alberto Atti Segretario Regionale ed Assistente ai Test in Emilia-Romagna, Alberto Atti è nato a Bologna l’11 giugno 1946. Socio Mensa dal 1988, è stato Segretario Nazionale e gestore della Boutique. Attualmente è Coordinatore Sight. Per trentadue anni ha lavorato per Telecom, e per dodici è stato contemporaneamente fotografo professionista. Per quindici anni ha allevato serpenti – non velenosi – e tartarughe. Per dieci anni, è stato anche Tesoriere dell’Associazione Culturale Italia Olanda Fiandre, con sede a Bologna. Dal 2002 ne è Vicepresidente. Da un anno è in pensione e passa l’inverno a Venezia e l’estate ai Lidi Ravennati. Attualmente è single. Per hobby ha scritto racconti, poesie e canzoni. IL racconto qui presentato è stato Primo classificato al Concorso Letterario Cral - SIP Marche - Umbria, 1985. Giuseppe Provenza Redattore Liber, Consigliere Tesoriere, Assistente ai Test del Mensa Sicilia, Giuseppe Provenza è nato a Catania il 29 settembre 1940. Laureato in Economia e Commercio, oggi pensionato e attivista di Amnesty International, è un appassionato di astronomia e poesia. Suoi passatempi preferiti la pesca, la vela L’altro giorno m’è giunta la comunicazione ufficiale dell’Azienda Usl: Signora Milla, nata nel 1924, 07/05/04, Revoca per Morte. Non ho avuto il coraggio di telefonare al Boss. " Cecilia Deni Medico di famiglia con un migliaio di pazienti sparsi prevalentemente tra Lavino ed il Reno, Cecilia Deni è nata in Sardegna nel 1957. Cresciuta tra il Sarrabus ed il Campidano, ha frequentato a Cagliari il liceo classico ed il biennio di Medicina. Trasferitasi a Bologna, vi ha conseguito la laurea nel 1984, insieme ad una specializzazione in Medicina dello Sport, un’abilitazione in psicoterapia che però non utilizza, il biennio di formazione in Medicina Generale e un particolare genere di Master in comunicazione. Sposata a un bolognese, ha due figli, che definisce “i grandi amori della mia vita”. Si dichiara lettrice accanita, compulsiva, e molto istintiva: dalla narrativa di genere, soprattutto FS, a quella per ragazzi, saggistica, fumetti, classici, poesia, teatro, umoristica, di tutto un bel po’. Tranne il tedesco, ha imparato i fondamenti delle principali lingue europee – francese più che bene, poi inglese e spagnolo – e dice di aver viaggiato poco per cronica mancanza di denaro. Ama ascoltare musica, andare a teatro, fare lavori manuali, soprattutto ricamo e falegnameria; si definisce cuoca passabile ma appassionata. Eclettica come spesso molti Soci del Mensa, si interessa di cure palliative, tanatologia, bioetica. Infine, dice di sé: “Sono irrimediabilmente e piacevolmente golosa e grassa.” Leggeremo un’altra pagina dei suoi ricordi professionali. $