per il ciclo Italia, 150 anni Milano e i territori lombardi Un crocevia diverso di unità “150 anni di sussidiarietà. E nessuno se ne è accorto” incontro con Edoardo Bressan, Docente di Storia Contemporanea, Università degli Studi di Macerata Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà coordina Andrea Caspani, Storico, Direttore di Lineatempo Sala S. Antonio di via Sant’Antonio 5, Milano Giovedì 31 marzo 2011 Via Zebedia, 2 20123 Milano tel. 0286455162-68 fax 0286455169 www.cmc.milano Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto ANDREA CASPANI: Buonasera a tutti. A nome del Centro Culturale di Milano sono molto lieto di introdurre questo secondo appuntamento del ciclo di incontri ‘Italia 150 anni’, un crocevia diverso di unità. È evidente soprattutto adesso che siamo alla fine del mese di marzo che siamo stati subissati da occasioni di riflessioni teoriche e anche di spettacoli veri e propri, basti pensare allo spettacolo di Benigni in proposito, che avevano a tema l’unità d’Italia, i 150 anni dell’unificazione giuridico-amministrativa e istituzionale, perché non dimentichiamolo, la festa per il centocinquantesimo anno dell’unità è stata fatta coincidere con il momento in cui viene proclamato re d’Italia Vittorio Emanuele II; non per esempio con la data di una battaglia significativa, non con l’inizio del primo Parlamento italiano, ma con la data più istituzionale possibile, quella fra l’altro che segna la piemontesizzazione dell’Italia. Non è un caso, ma Vittorio Emanuele era secondo come re di Sardegna e continua a mantenere questo numerale anche come re d’Italia, quindi è stata una forma di unità molto particolare. Siamo qui non per celebrare questo aspetto, cioè un po’ di unità istituzionale, ma perché siamo convinti che ci sia un’unità più profonda da scoprire, da riscoprire, da incontrare. In questo ci aiuta il messaggio che il pontefice Benedetto XVI ha mandato al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del 17 marzo in cui dice che “il Risorgimento costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale italiano iniziato molto tempo prima” e aggiunge “il cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali, ma anche mediante una ricchissima attività artistica” e questo dal Medioevo fino a tutta l’età moderna. Così si concludono le riflessioni di questa bellissima lettera, che vi invito a riscoprire se non l’avete già guardata, e che è un vero manifesto di storia politica importante per noi. Si conclude dicendo che “l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, non ebbe luogo come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata sussistente da tempo”. Questa è la sfida dell’incontro di stasera. Abbiamo con noi due grandi personalità non solo sul piano umano ma anche sul piano culturale e istituzionale, e senza dilungarmi nei loro titoli che sono numerosi, si tratta del professor Edoardo Bressan, professore di storia contemporanea all’Università di Macerata, e del professor Giorgio Vittadini presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. A entrambi chiediamo di rispondere a questa provocazione del nostro pontefice: è proprio vero questo? È una provocazione o un dato di realtà? Per primo interverrà, con un taglio soprattutto storico, il professor Bressan a cui cedo volentieri la parola. EDOARDO BRESSAN: Grazie per queste parole di presentazione e per l’invito ad essere qui stasera per quella che da parte mia vuole essere soltanto una riflessione sul passato, per ciò che può servire nell’oggi. Rispondendo alla sollecitazione di Andrea la risposta è sì, ed è sì come già si può cogliere da un termine spesso abusato o retoricamente enfatizzato che però vuol dire proprio questo, il termine Risorgimento. Risorgimento e non rivoluzione per esempio, risorgimento che rimanda a qualche cosa che c’era già. Questo rimando avviene ai primi dell’Ottocento nel cuore delle vicende successive alla rivoluzione francese e all’esperienza napoleonica, ma anche nel quadro di un’Europa ormai cambiata: è l’Europa delle nazioni, è l’Europa che vede le identità nazionali come protagoniste della storia. E’ una riflessione che accomuna in Italia un grande intellettuale come Cuoco e il nostro Manzoni negli anni milanesi di Cuoco – lo ricordava proprio Andrea Caspani in uno scritto recente – sul valore e sul significato del popolo. Il popolo è non il nuovo ma il vero soggetto della storia in cui occorre coglierne il senso. Il popolo italiano allora, e non solo la nazione italiana che certo c’era, c’era per una continuità data innanzitutto dall’esperienza religiosa che aveva accomunato le popolazioni della penisola da sempre, una continuità data da un riferimento culturale comune e da una lingua comune, una lingua che nel caso particolare dell’italiano, ben compreso proprio da Manzoni, non è lingua di corte o lingua di amministrazione imposta dall’alto, ma è lingua che nasce dalla letteratura, dalla poesia, dalla parlata se non altro della gente toscana. Siamo in un contesto come quello in cui è chiara la necessità di 31\3\11 2 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto ripensare il quadro della penisola italiana all’indomani del congresso di Vienna che aveva cercato di ripristinare in qualche modo l’ordine antico senza riuscirci; lo aveva fatto però in un modo antitetico a questi nuovi principi che mettevano in primo piano la nazione e il popolo, in un quadro in cui gli stati italiani della Restaurazione – la storiografia ci sta facendo capire sempre meglio questo punto – si palesavano come creazioni artificiali, innaturali. In particolare in quel regno lombardo-veneto, regno sì, ma con una corona che stava oltre le Alpi e con un ridottissimo margine di autonomia. Questo vale un po’ per tutti gli stati della Restaurazione, nessuno dei quali poteva essere capace di farsi interprete di quella nuova sensibilità. Si capisce allora come soprattutto da parte di un pensiero che volesse rifarsi a un’ispirazione cattolica, un pensiero che fosse non solo espressione di una élite intellettuale ma coscienza diffusa – non diamo a questo termine un significato troppo ristretto - fosse naturale il tentativo di pensare a una prospettiva nazionale, a un movimento politico nazionale rispettoso di questi dati che corrispondevano profondamente all’identità italiana, un’identità di cui, come ha detto il cardinale Bagnasco, “i credenti fin da allora si sentivano soci fondatori” e che evitasse le semplificazioni, le scorciatoie, le fughe in avanti caratteristiche dell’età napoleonica. Certo, sono in molti a porsi questo problema: se lo pone Mazzini, se lo pone il federalismo democratico di Cattaneo e Ferrari, ma direi che da parte cattolica c’è un apporto peculiare che si lega all’uso della parola Risorgimento come espressione di una continuità con la tradizione- Del Noce ha sottolineato molto bene questo valore della parola Risorgimento- con una Chiesa, una Chiesa italiana o milanese solidale con i movimenti nazionali. Che ne sarebbe dell’Europa quale noi la conosciamo, della stessa Europa delle nazioni che si disegna nel corso dell’Ottocento, senza l’apporto della Chiesa? Pensiamo al caso polacco ma ne potremmo fare davvero tanti altri. Una Chiesa che è – e questo è interessante perché è una premessa significativa rispetto a quello che voglio dire fra poco – partecipe delle nuove istanze sociali. La società sta vivendo un periodo di profonda trasformazione: l’esperienza milanese ci dice proprio questo, ci dice di una grande vitalità di gruppi di laici e religiosi impegnati sul fronte delle nuove povertà della civiltà urbana, e proprio intorno a queste strade che conducono all’ospedale maggiore, si esercitava fin dai primi anni dell’Ottocento una vastissima opera di apostolato sociale che dalla visita ai malati nelle crociere della Ca’ Granda arrivava alle case di accoglienza, alle scuole notturne come si diceva allora, faceva nascere una congregazione religiosa come quella di Maddalena di Canossa, vedeva la partecipazione convinta di un uomo come Rosmini che scrive di essere venuto a Milano proprio per imparare tutto questo. Si capisce come su questa strada ci sia un duplice approfondimento: in primo luogo storico-culturale, ma di che paese, di che Italia stiamo parlando, cosa c’è alle spalle di tutto questo? Che cosa ci impone di risorgere? Vediamo in Manzoni le osservazioni sulla morale cattolica, siamo nel 1819, in particolare la risposta a Sismondi: “Non è vero che il cattolicesimo è stato un elemento negativo e disgregatore dell’identità nazionale italiana anche nei secoli dell’età moderna; il cristianesimo è stato l’elemento fondante e costitutivo.” In questo quadro – andiamo ad altri storici, ad esempio a Cesare Balbo – l’Italia ha un ruolo particolare perché ciascuna delle nazioni cristiane ha un suo ufficio e quello dell’Italia per esempio, ci dice Balbo, è quello peculiare di favorire la pace fra l’Europa e i popoli del Mediterraneo. Quindi un approfondimento storico ed accanto a esso un approfondimento politico, dalla storia alla politica, certo allora diventava possibile. Ecco la proposta giobertiana del primato nei primi anni 40: l’idea di una confederazione con il Papa presidente seppure con un ruolo largamente simbolico, di questa nuova realtà italiana. Ecco Balbo e di nuovo Rosmini con un coerente progetto federalista nazionale. Ancora una volta si comprende come, quando la situazione italiana e europea esplodeva - il 48, l’anno dei miracoli e la primavera dei popoli, - i cattolici ci fossero, ci fossero non soltanto perché nelle piazze italiane si gridava “viva Pio IX” , ma perché in quel momento occorreva essere partecipi, solidali con una mobilitazione che vedeva un largo coinvolgimento della società: pensiamo alle cinque giornate, all’insurrezione di Milano, alla partecipazione corale dei cattolici, del clero, dei seminaristi. Tutto questo certo non porta a un risultato positivo. Non c’è tempo stasera per ripercorrere analiticamente questi avvenimenti, però quando le speranze neoguelfe del 1848 falliscono, quel fallimento diventa la premessa di un iter successivo che porta sì all’unità nazionale, 31\3\11 3 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto alla realizzazione di quell’unità statuale politico amministrativa che dà compimento alle aspirazioni di cui abbiamo detto, ma in modo profondamente divisivo. Qui si inserisce tutto il peso della questione romana, della rottura con la Chiesa, con il mondo cattolico, legata in particolare al ruolo del papato. Non dimentichiamo quanto la soluzione unitaria, quella con cui poi dobbiamo fare i conti, quella che il 17 Marzo del 1861 viene ufficializzata, sia una soluzione anche dettata dall’urgenza e dall’imperio delle circostanze, necessariamente sbrigativa, che fa giustizia anche sommaria di molte esigenze reali di quel periodo. Pensiamo ai grandi problemi del paese al momento dell’unità, a un’irrisolta questione contadina, a una questione meridionale che si palesa subito in tutta la sua gravità; problemi rispetto ai quali l’inizio dell’industrializzazione può rispondere solo in parte, all’inizio addirittura aggravando gli squilibri. È il nuovo Stato Italiano. Ma ad esserne delusi non furono soltanto i cattolici, furono tanti liberali, democratici, federalisti. Lo Stato si presentò con un volto non sempre amico, si trattava di uno stato elitario, centralista, oltre che - per le circostanze che ho ricordato - duramente antiecclesiale. Lo sappiamo oggi, lo si sapeva allora, fin dall’inizio. Cosa va rilevato a questo punto? Quello Stato, pur con tutti i suoi limiti, era uno Stato che offriva un quadro di libertà costituzionali, in cui era possibile esprimersi, dire la propria, costruire qualcosa che stava a cuore. L’Italia liberale aveva a suo modo coscienza di questo, infatti la festa nazionale era la festa dello Statuto, proprio perché l’indipendenza non poteva concepirsi separata dalla libertà. Un quadro di libertà costituzionali significa che si afferma fin dall’inizio un tipo di governo parlamentare: il governo risponde alla maggioranza della camera elettiva, non è espressione semplicemente della volontà sovrana. Vuol dire che con gli anni Ottanta, poco dopo l’Unità tutto sommato, si attua un progressivo allargamento del suffragio politico e amministrativo. Qualcuno potrebbe dire: “Poca cosa: si passa dal 2 al 7 %”. Certo, ma sulla base dell’alfabetismo. Tutti coloro che erano alfabeti e avevano assolto all’obbligo elementare potevano votare. Allora qui si coglie l’aspetto che mi sta più a cuore questa sera, si coglie la risposta della società, in particolare della Chiesa, come diceva sempre Giorgio Rumi, il mio maestro, che parlava della civitas e di come non poteva essere separata dalla Ecclesia. Qual è la risposta? È quella della denuncia, doverosa, sacrosanta. Ma la risposta è, accanto alla denuncia, quella della partecipazione e, attraverso la partecipazione, la rivendicazione a pieno titolo di una cittadinanza. Perché bisogna pur chiedersi la ragione per cui i Cattolici, dopo l’Unità, sono stati intransigenti. Certo, il Movimento Cattolico, l’Opera dei Congressi furono movimenti intransigenti nei confronti dello stato liberale, ma non furono legittimisti, non rivendicavano l’Austria, il Granduca, i Duchi, i Borbone, i vecchi sovrani, i vecchi troni; anzi, rivendicavano piuttosto la loro originale e costitutiva partecipazione alla patria comune. Tant’è che molto spesso il giornale dei cattolici fu intitolato: “Il cittadino”. A pochi è rimasto ancora oggi, per esempio a Monza, Lodi, ma al tempo ce n’erano moltissimi: a Udine, Macerata, Brescia- dove Giuseppe Tovini col suo giornale- sostenne questa battaglia e l’unica accusa che non accettò dal fronte radicale zanardelliano fu proprio quella di antipatriottismo. “Non potete dirci che siamo antipatrioti perché siamo fedeli al Papa, perché la fedeltà al Papa è un elemento integrante dell’essere italiani”. Sono parole scritte con grande vigore negli anni Ottanta dell’Ottocento. Quindi la risposta è quella della partecipazione. La risposta nasce dalla capacità di comprendere una situazione nuova, non necessariamente voluta in quei termini, oppure voluta in linea di principio ma non condivisa nella sua attuazione, in cui comunque giocarsi e impegnarsi nuovamente. Quindi l’associazionismo come chiave di volta. I cattolici non votavano, perché la questione romana portava al non expedit: “Non conviene”, è la risposta pontificia alla domanda se fosse o meno lecito votare alle elezioni politiche. Ma non expedit proibitione importat: era un dovere di coscienza non andare a votare alle urne politiche però, tutto il resto, non solo era possibile ma doveroso. Quindi l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, questa grande realtà associativa, con le sue sezioni, particolarmente la seconda, dedicata all’economia e alla carità cattolica, fu capace di inventare a diversi livelli forme assolutamente straordinarie di intervento, di un intervento che rispondesse a quelle esigenze. Non posso che fare un indice di un possibile discorso: il mutuo soccorso, la 31\3\11 4 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto cooperazione, il credito popolare, le opere di beneficienza, la scuola, la formazione professionale, gli strumenti di comunicazione, la rete dei giornali, della stampa, la capacità di interagire con le istituzioni. Significa far valere, per quanto possibile, anche in circostanze molto difficili, un principio - lo diciamo in termini moderni - di sussidiarietà che un ordinamento liberale non avrebbe dovuto negare, mentre molto spesso negava. All’interno di quel quadro bisognava far valere i principi della libertà di insegnamento, della libertà di associazione, della libertà di organizzare opere. Molti furono i protagonisti, naturalmente non soltanto tra i cattolici, perché fu la società italiana a rispondere: pensiamo alla risposta della democrazia laica e repubblicana, pensiamo a quella del nascente socialismo. Nell’ambito del mondo cattolico queste risposte costituiscono esperienze e figure ancora oggi di grandissimo rilievo e valore: si pensi a Tovini, a don Bosco. Senza di lui la scuola e la società italiana sarebbero un’altra cosa rispetto a ciò che sono diventate grazie alla sua scommessa di investire sui giovani, sulla formazione professionale. A prescindere da chi stava al governo in quel momento, il radicamento nella società, la sfida educativa, la scommessa sulle nuove generazioni, questi erano i punti qualificanti. Si capiscono il valore e il senso di un’esperienza anche politica dei cattolici. Certo non fu una politica condotta a livello nazionale, ma una politica che a livello locale diventò molto significativa e molto interessante, che fu capace di giudicare le situazioni, di affrontare i problemi sociali che nelle situazioni locali si presentavano. Erano anni di crisi e al tempo stesso di crescita economica, anni di un embrionale sistema di welfare. Faccio solo queste due citazioni veramente rapide. Si capisce, dice papa Leone XIII nella Rerum Novarum, che è il riconoscimento di questo tessuto di esperienze, che “quando sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire si rende necessario l’intervento pubblico, dello Stato. Ma al tempo stesso questo non può avvenire a scapito delle formazioni sociali, della loro volontà e creatività, poiché il diritto di unirsi in società all’uomo è dato dalla natura e dai diritti naturali, lo Stato deve tutelarli, non distruggerli”. Questo è anche il senso della nascente esperienza politica dei cattolici, quella che trova la sua parola d’ordine in un’espressione fortunata, ma profondamente educativa, che ci rimanda guarda caso all’esperienza dei comuni medioevali: la Democrazia Cristiana. La Democrazia Cristiana non è un movimento, non è un partito, non è un’associazione, ma è ancora una volta una battaglia ideale, quella battaglia che viene condotta da Sturzo, da Murri, da Filippo Meda a Milano, da tanti altri. Una battaglia che pone il problema di una partecipazione a questo punto a pieno titolo dei cattolici alla vita politica, interpretando il non expedit come preparazione nell’astensione, mentre si lavorava a livello locale. Se voi andate a vedere le amministrazioni comunali e provinciali dagli anni ’80-‘90 dell’Ottocento alla Prima Guerra Mondiale, non sono più espressione delle vecchie élite proprietarie della proprietà fondiaria, ma sono l’espressione di gruppi sociali nuovi: ci sono sindaci cattolici, democratici, socialisti, c’è un’esperienza di governo municipale di straordinario interesse. È questo il quadro dell’Italia giolittiana che permise di affrontare una crisi molto difficile come quella che si era prodotta alla fine del secolo in Italia - pensiamo anche ai moti di Milano del 1898, all’uccisione di re Umberto a Monza due anni dopo. Questo quadro aveva anche permesso all’Italia di ripartire, dando spazio e rilievo a questo tipo di esperienze ed essendo capace di trovare un punto di equilibrio felice tra Stato e società perché, nonostante tutto e nonostante qualche sottolineatura di tipo statalistico in quel contesto, lo Stato non si mangiava la società. Fu la società nel suo insieme ad esprimere la propria vitalità all’interno delle istituzioni. Pensiamo a che cosa fu l’Esposizione Nazionale di Milano del 1906, il padiglione della Previdenza: una cosa incredibile, queste numerose realtà sociali operanti a tutti i livelli, centinaia nella sola città di Milano. Tutto questo dovette fare i conti con la drammatica esperienza della guerra, una guerra che portava in primo piano questi nuovi soggetti della storia italiana: non c’era solo il Partito Socialista ma anche il Partito Popolare dei Cattolici, non solo la Confederazione Generale del lavoro ma anche la Gilda, non solo le cooperative rosse ma anche la Confederazione delle cooperative bianche, il mutualismo rosso e il mutualismo bianco, compreso quello repubblicano naturalmente. Tutto questo non trovò una sintesi e la mancanza di una sintesi politicamente coerente - come qui ora non possiamo ricordare - aprì la strada all’avvento del fascismo. Il fascismo si pose a sua volta il problema del rapporto tra Stato e società, ma lo 31\3\11 5 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto risolse a favore del primo. Questo fu uno spartiacque nella storia italiana, il fascismo segnò realmente un punto di svolta, cioè una virata statalistica delle istituzioni. La scelta corporativa del fascismo fu in realtà la scelta di un corporativismo di Stato che distruggeva le società intermedie, a cominciare dalle opere di assistenza, per finire alle società di mutuo soccorso cattoliche e non cattoliche: è quello che notò Pio XI nella Quadragesimo anno. Il corporativismo sarebbe andato anche bene, ma non così. E’ quello ciò di cui si discute nel mondo cattolico, particolarmente a Milano, particolarmente nell’Ateneo di largo Gemelli con Fanfani, Vito ecc. Oltre il liberalismo, certo, c’era stata la crisi economica del ’29, bisognava superare le strettoie di uno sviluppo diseguale e squilibrato. Ma come? Maria Bocci nelle sue ricerche ci ha fatto vedere molto bene questo punto: la ricerca di una novità che però fosse anche espressiva di una libertà sociale. Pensiamo al risultato che venne dopo, a quello della stessa Costituzione repubblicana, che aprì a un quadro pluralistico. Ecco, questo risultato fu possibile grazie anche all’apporto dei cattolici. Non dimentichiamo però che non fu soltanto questione di testi scritti, sia pure di norme fondamentali dello Stato, ma fu questione di opere, questione di uomini, di protagonisti. Queste opere, questo associazionismo così ricco e così vitale durante il periodo fascista è andato avanti, non si è fermato, si è reinventato ancora una volta, ha trovato la copertura giuridica necessaria, ha trovato tutti gli adattamenti del caso. Ha saputo rappresentare un elemento vero di tenuta della società che si è riproposto nel dopoguerra. Pensiamo all’opera straordinaria di don Carlo Gnocchi che dall’interno delle organizzazioni dello Stato pensò a un’opera di carità per quello che sarebbe venuto dopo, per la tragedia, lui lo percepiva, che l’Italia avrebbe dovuto affrontare. E quindi davvero tutto quello che è capitato negli ultimi anni trova qui le sue radici, lo trova certo in un quadro che lo rende possibile, ma anche in una continuità di opere che non si è mai interrotta, anzi ha saputo sempre ripensarsi di fronte alla nuova situazione. Per cui allora possiamo dire di fronte a tutto questo che è davvero il caso di accorgerci di questi 150 anni, e vorrei dire più di 150 anni, di sussidiarietà vissuta e costruita dal basso, che hanno fatto l’Italia. Potremmo concludere davvero rovesciando la frase attribuita - non era proprio così - a Massimo D’Azeglio, la sappiamo tutti, “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”: ecco possiamo dire che gli italiani hanno fatto l’Italia. Grazie. A. CASPANI : Il professor Bressan ci ha fatto ben capire come ha ragione il cardinal Bagnasco a dire che gli italiani hanno fatto l’Italia e a dire più precisamente che gli italiani cattolici hanno fatto l’Italia, con la loro trama di opere, di iniziative, di formazione della mentalità. Eppure, come dice anche il Papa nel proseguo della sua lettera sul Risorgimento, è passato come un moto contrario alla Chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Da questo punto di vista allora è interessante mettere a confronto la lettera di Benedetto XVI con la risposta, il giorno seguente nel messaggio alla Nazione, del nostro Presidente della Repubblica. Nel momento in cui quest’ultimo sottolinea anzitutto che riflettere sulla storia d’Italia dovrebbe portarci a riscoprire orgoglio e fiducia - lui dice che non temiamo di trarre questa lezione sulle vicende risorgimentali - aggiunge anche che certamente c’è stata una ferita col mondo cattolico, una ferita che però lui dice ormai sanata, e sanata al punto tale che oggi lo Stato italiano e la laicità positiva, affermata dallo Stato italiano e dalla Repubblica, sviluppano un rapporto positivo con la Chiesa cattolica, un rapporto che si manifesta - ed è un po’ il punto con cui chiediamo al professor Vittadini di interagire - come uno dei punti di forza su cui possiamo fare leva per il consolidamento della coesione dell’unità nazionale. Bene, questo è il tema. Allora collegandoci appunto dal passato al presente, questa eredità cattolica, sia pure lacerata e che oggi tra noi è riconosciuta come la più alta autorità dello Stato, come può in qualche maniera interagire in questo nuovo tipo di realtà? GIORGIO VITTADINI: Evidentemente io non sono uno storico, quindi il mio approccio sarà di tipo culturale, anche per l’avventura che sto vivendo. Come sapete il Meeting si inaugura con una mostra dal titolo “150 anni di sussidiarietà”, che avrà la partecipazione e la regia di parecchi dei nostri professori storici, appunto Bressan, Zardin, Bocci, di costituzionalisti come Cartabia, Violini, 31\3\11 6 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto Trezzi e l’apporto di un centinaio di ragazzi che stanno lavorando sul tema. Sarà inaugurata proprio da Napolitano - lo abbiamo incontrato con Maurizio Lupi e Nicoletta Napolitano, invitandolo al Meeting - che verrà alla mostra, incontrando chi la fa e intervenendo proprio sul tema. Per cui rispondo innanzitutto alla domanda portando la testimonianza di questo approccio, di quest’idea, di questo dialogo riaperto che si sente paradossalmente in queste celebrazioni. Io parto appunto dicendo perché ci è venuta l’idea di fare questa mostra. Francamente pensavo che questo sarebbe stato un anno in cui saremmo stati subissati di un’interpretazione tradizionalistica del Risorgimento, che ci avrebbe sommerso e ucciso per sempre. Invece questo dialogo tra il Papa e Napolitano, mostra una novità, perché evidentemente il punto d’incontro con Napolitano e anche Amato, che è il presidente delle celebrazioni, è stata l’idea di mostrare la componente popolare, la componente cattolica e sussidiaria di questi 150 anni. Allora, si sente un nuovo clima. Con questo voglio dire che è così debole l’altra posizione che non me lo sarei aspettato, ma col 17 marzo è finita l’ufficialità delle celebrazioni dell’Italia e non ne parla più nessuno. Io penso che arriveremo al Meeting e ne parleremo solo noi. Perché essendo debole il punto di vista culturale nonostante la caterva di articoli di Rizzo e Stella e così via, che hanno riletto in chiave super tradizionalista il Risorgimento, a spingere una carretta in salita non si va. Siamo alla fine di marzo e non c’è più l’unità d’Italia, è finita. Questo tema tradizionale non c’è. Secondo me, quindi, sarà una grande occasione per noi parlare di queste cose in modo originale, di fronte alla non riuscita della cultura tradizionale. Tra l’altro dico anche, prima di entrare nel merito, che per noi è un’occasione di conoscenza: non è scontato. Nel lavorare assieme si vede che su alcuni punti fondamentali di questa unità - penso per esempio alla Costituzione, penso al boom economico, penso al fascismo - non abbiamo le idee chiare, dobbiamo lavorare per trovare la verità, perché probabilmente anche per noi questo tema è sempre stato un tema così degli altri che non ci abbiamo riflettuto su a partire dall’esperienza ma da schemi. Quindi per noi è una grande occasione per verificare come un’esperienza come la nostra, l’esperienza cristiana, l’esperienza di un carisma, legge queste cose. E non è scontato cos’è, cioè un riesercizio della verità. Nel mio intervento voglio buttar giù un tentativo di rilettura che sta, secondo me, un po’ dietro alla parola sussidiarietà. Prima di tutto vorrei commentare brevemente sia il discorso del Papa che la risposta di Napolitano cui accennava Caspani. Il discorso del Papa segna una novità, come anche gli interventi della CEI, di Ruini e di Bagnasco. Tradizionalmente il mondo cattolico ha sempre reagito in termini di violenta ripulsa del Risorgimento - per chi è venuto su in ambienti cattolici è come la rivoluzione russa. Ora, il Papa cosa fa? Prima di tutto dice, come diceva Bressan, che il Risorgimento è da leggere nella storia lunga dell’Italia. Se volete è un po’ come quando Giovanni Paolo II cercava di leggere le radici cristiane dell’Europa. Mentre la lettura tradizionale - come dire - cattolica, considera il Risorgimento del nemico punto e basta; per l’altra il Risorgimento è anticattolico. Quindi questa lettura ci risulta interessante, piena di novità perché anche al Meeting qualche anno fa abbiamo visto letture di una certa storiografia cattolica assolutamente revanchista, che semplicemente sottolineavano il fattore negativo. Che il Papa parli così non è scontato, anche perché nel proseguo dell’intervento continua leggendo in questo modo positivo alcuni aspetti. Per esempio quando parla del non expedit sottolinea in positivo che l’astensione dalla vita politica, come diceva Bressan, rivolse la realtà del mondo cattolico verso una grande soluzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale. Ora vi sembrerà scontato, ma quando ero giovane io del Movimento Cattolico non parlava più nessuno, dell’Opera dei Congressi non parlava più nessuno. Io ne avevo sentito parlare seguendo i corsi in Cattolica della scuola Zaninelli, Coba, Trezzi che metteva a tema nella storia economica esattamente queste cose; ma in generale nello stesso mondo cattolico questo era considerato qualcosa di vecchio, o se volete una scelta negativa rispetto alla scelta di non votare. Non votavano, quindi si dedicavano al sociale. Quindi anche questo punto del Papa è interessante, perché dà una lettura positiva, come quella che dava Bressan prima, accennando alla questione romana, ma lo fa per parlare subito della Costituzione del ’29, dei Patti Lateranensi del ’29, poi della Costituzione per capire anche qui dell’apporto positivo alla costruzione dell’Italia. Tra l’altro 31\3\11 7 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto mi dimenticavo prima la lettura non scontata di personaggi che lui stima nel mondo cattolico quale Balbo, D’Azeglio, Lambruschini e soprattutto Manzoni. Voi sapete che Manzoni fece una scelta dirompente all’interno della Chiesa di allora, perché lui accettò di essere nominato senatore del Regno d’Italia. Per un cattolico, un punto di riferimento del mondo cattolico e non solo, evidentemente era una scelta abbastanza dirompente. Mi ricordo che qualche anno fa si diceva: “Sì, Manzoni bene, ma guarda qua, ha tradito la Chiesa nel momento in cui ha fatto una scelta di entrata in politica, seppur non eletto, alternativa a quella di Pio IX”. Il Papa lo rivendica come un aspetto positivo, che mostra come i cattolici hanno partecipato positivamente alla vita politica in quegli anni, e questa mi sembra una forte novità. Poi parla ancora della Costituzione e arriva fino all’accordo di Craxi sul Lateranense. Quindi è come se volesse rileggere l’apporto positivo dei cattolici alla storia d’Italia, invece di seguire questa lettura che sia a destra che a sinistra secondo me era diversa. A destra perché noi non partecipiamo a questo mondo, a sinistra perché tutto ciò che è non partecipazione alla politica era ed è, per certi aspetti, per certi cattolici democratici, una scelta negativa, riduttiva; mentre il Papa rivendica proprio queste cose. Quindi il Papa dà il destro dopo i convegni della CEI a una nuova visione, tutta da costruire, della storia e della storia d’Italia. Interessante anche Napolitano nella risposta perché, come diceva Caspani, oltre a cose abbastanza scontate, diciamo tradizionali, come per esempio l’antifascismo e la Costituzione, entra nel merito parlando di pluralità, diversità, solidarietà e sussidiarietà come parte di questa storia d’Italia, dicendo che lui vede, attaccando il titolo V e la riforma costituzionale col pretesto del federalismo, un’unità nella pluralità. Anche questi sono temi, detti da un Presidente della Repubblica di origine comunista, molto interessanti. Una lettura - come dicevo prima - di giornalisti del Corriere, continua a pestare invece sui limiti della divisione dell’Italia rispetto al centralismo. La lettura del Corriere di Stella e di Rizzo è completamente diversa da quella di Napolitano, è la lettura tradizionale che rivendica tutte queste divisioni dovute ai cattolici all’unità d’Italia, per l’idea federalista che poi non si è attuata. Poi Napolitano parla ancora di fenomeni che possiamo ascrivere a questa storia sussidiaria: la ricostruzione, lo sviluppo economico – noi nella nostra mostra parleremo di quello di cui ha parlato Bressan nella prima parte, fino alla nascita dei partiti popolari, parleremo della Costituzione, ma metteremo a tema anche il boom economico perché è una storia strana, come dirò dopo, di ricostruzione dal basso – e poi verso la fine del discorso, riprende esplicitamente il ruolo della Chiesa cattolica e del conflitto, per parlare del contributo dei cattolici dal punto di vista dello sviluppo sociale, quasi rifacendo il contraltare al Papa ricordando anche lui questa costruzione del bene comune. Anche questa lettura diciamo che è tutta da vedere nel futuro, ma certamente segna una spaccatura, secondo me, nella lettura laica per cui i giornali di cui sopra hanno ancora adesso un’altra visione. Parliamo di Repubblica: la visione è sempre quella per cui il cattolico è contro e che l’unità non è riuscita perché purtroppo ci sono la Chiesa cattolica, l’idea federale, la Lega che divide ecc. Tutte questa facezie mostrano, quest’anno, la debolezza culturale e il fatto che non sono riusciti ad imporre il passaggio di una cultura che doveva diventare egemone proprio per l’unità d’Italia. Allora da queste cose che cosa traggo io per una lettura di fondo di questi cento cinquant’anni di sussidiarietà? Io ho questa visione non da storico ma da tifoso, da cittadino, che la forza dell’Italia sia stata paradossalmente il cambiamento. L’Italia ha sempre avuto la sua capacità fondamentale nella capacità di cambiamento. Quella cosa che Marchionne adesso ha tirato fuori come la necessità, evidentemente in chiave della sua cultura liberale: lui parte dall’idea che oggi siamo in un momento di globalizzazione e in un momento simile l’Italia è un po’ una variabile dipendente, ad esempio tu non puoi più decidere quanto dare di salario o come organizzare il lavoro, perché se no non i capitalisti ma gli operai coreani, vietnamiti, cinesi o gli americani che sono il sindacato loro alleato ci costringono a cambiare. Se non cambiamo comunque non reggiamo la competizione in un Italia che, per dirla con una frase di Enrico Letta molto interessante, “è un paese grande in un mondo piccolo, rischia di diventare un paese piccolo in un mondo grande.” Però questa necessità del cambiamento adesso si sente e tutti, compresi molti di noi, sentono questo come un male, come una novità, un problema grave, qualcosa che potrebbe ucciderci. Io dico invece che, se guardiamo la storia dell’Italia, vediamo come il nostro Paese ha sempre dovuto 31\3\11 8 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto cambiare. Perché vi rendete conto che in filigrana di questa unità d’Italia nel 1880 comincia la grande migrazione italiana, questo l’ho imparato proprio dai libri di storia economica. c’è la crisi dell’ulivo e della vite, ci sono le malattie, c’è il crollo del sistema agricolo italiano, per cui, mi sembra 20 milioni di persone, emigrano tra il 1880 e il 1920. L’Italia reagì alla povertà emigrando. Ma fu un’emigrazione ricca, un’emigrazione che permetteva di ricostruirsi una vita e con le rimesse degli emigrati permetteva alla gente di vivere, campare, studiare. Gli italiani hanno dato un apporto non marginale e positivo a tutti i paesi dove sono andati. L’Italia reagisce cambiando, come fu una reazione di cambiamento la nascita del movimento cattolico operaio e questo perché non fu solo una nascita ideale. Ricordo che ho partecipato due anni fa a un convegno della lega delle coperative del presidente Poletti, che diceva:«Io vado in giro adesso dopo cent’anni ai cento anni delle cooperative, molte sono nate di fronte alla crisi». Di fronte alla crisi c’è questa autorganizzazione sociale. I nomi che venivano ricordati prima e molti altri nascono per rispondere ai bisogni. L’Italia reagisce rispondendo con una capacità popolare di creare un welfare, una solidarietà, una priorità economica, addirittura un mondo bancario. Scusate, io ricordo sempre una cosa che oggi forse si dimentica: la Cassa di Risparmio, che adesso è una fondazione ma è l’origine di Banca Intesa, è una delle più grandi banche italiane e ancora adesso, quando si riunisce, non ha un consiglio di amministrazione ma un comitato di beneficenza. Questi tipi di banche, casse rurali, banche popolari, casse di risparmio che nascono, nascono con lo scopo mutualistico e nello stesso tempo finanziario e di solidarietà. Quando andate a spiegarle all’estero queste cose, non sanno nemmeno di cosa state parlando, perché sono abbastanza rare, soprattutto nel mondo anglosassone. L’idea di un sistema finanziario che ha dentro un sistema di carità, questa è una risposta, un cambiamento. È abbastanza simile al percorso che diceva Bressan circa la nascita della soggettività politica in una situazione così difficile: i partiti popolari, che purtroppo oggi abbiamo perso, furono una risposta di cambiamento a quella situazione, come anche, per andare avanti nel tempo, quello strano fenomeno per cui un paese distrutto nel 1945, sconfitto e distrutto, potè sentire il famoso discorso di De Gasperi a Parigi che diceva «Non umiliateci», ci furono poi, sembra strano, le manifestazioni per Trieste italiana quando volevano togliere Trieste. Era una situazione molto simile al 1918, di un Italia mutilata, prima vincitrice, adesso sconfitta, non solo per il piano Marshall e non solo per le scelte politiche generali. In dodici, tredici anni, guarda caso quelli dei cent’anni dell’Italia, (’60-’61, ‘60 Olimpiadi di Roma, ’61 cento anni d’Italia), il nostro diventò il settimo paese industriale del mondo e non lo diventò per le grandi imprese nazionali, come la Francia ancora adesso, né per il capitalismo renano, ma per un sistema diffuso di piccola media impresa, oltre che grande, nato da una capacità di cambiamento, di adattamento. I prodotti italiani che nacquero, quelli di grande consumo che diventano il simbolo dell’Italia di allora: la Vespa, la Cinquecento, i frigoriferi, l’inizio della manifattura, insomma tutti gli inizi della grande industria si svilupparono a partire da una capacità diffusa, così diffusa e strana nata da gente neanche laureata. Noi avevamo, e ce lo siamo dimenticati, l’istituto tecnico più importante del mondo, la gente usciva di lì, faceva il dipendente e dopo alcuni anni faceva l’imprenditore. Questo per una capacità di lettura della realtà unica, (non pizza e mandolino), tanto che comunque l’industria migliore nello sport più tecnologico del mondo, ancora adesso nel 2011, è un’industria italiana, la Ferrari. Noi abbiamo questa capacità di adattamento, di cambiamento, (vedi anche la nascita dei distretti) allora c’è da chiedersi perché. Secondo me quando si perde la capacità di cambiamento l’Italia va in B. Ora la cosa che mi piacerebbe verificare, anche con gli storici, è questa ipotesi: che la capacità di cambiamento non è un caso, ma è figlia del modo di conoscere che il cattolicesimo ha portato nella storia, e soprattutto nelle storia italiana. E’ quel modo di conoscere di cui parliamo sempre: la conoscenza per avvenimento, ossia il fatto che il nostro modo di conoscere è dato dall’incontro tra il soggetto e la realtà. Il soggetto (quella parola di cui abbiamo parlato molto negli ultimi tempi, una parola presente nella storia italiana) è l’uomo come fattore di desiderio. Il senso religioso di Giussani, il desiderio di verità, giustizia, bellezza, quello ricordato dal Censis come fattore in crisi. Vi sembrerà poco, ma noi siamo in un’epoca, dal 1600 ad oggi, in cui la lettura economica e politica è la lettura di un altro tipo di uomo: non è l’uomo che conosce partendo dal desiderio, ma è l’uomo negativo di 31\3\11 9 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto Hobbes. È l’uomo che è mosso da pulsioni egoistiche e che lo stato deve controllare. Donati dice che quello che nel Seicento era una lettura riguardante il mondo poliziesco, oggi è una lettura sul welfare, sulla realtà statalista. Ecco, noi abbiamo come prassi italiana, neanche molto capita (secondo me si comincia a capire proprio adesso da certe letture del magistero pontificio e da Giussani) il desiderio, un’antropologia positiva, un uomo capace, in nome del cuore che ha, di leggere la realtà. Voi ricordate la famosa frase di Giussani, che ho qui riportato, sul desiderio con cui commenta il suo intervento ad Assago: Giussani parla del desiderio come la scintilla che mette in moto il motore, come il fattore non solo della vita umanistica o della famiglia (come tradizionalmente è), ma come il punto che mette in moto anche la vita economica, la vita sociale. Perchè un uomo dotato di desiderio non si adatta, non reagisce, non è schiavo della condizione, ma ha sempre un fattore in più, una capacità di muoversi più grande di quello che è. Questa è l’esperienza che facciamo del cuore: il cuore non ci rende schiavi di ogni circostanza, il cuore ci dice che siamo fatti per cose grandi, e anche quando una circostanza è negativa, nasce come impeto della ricostruzione, della positività, della persona unica e irripetibile. Allora capite che questa idea è un’idea rivoluzionaria: sarà un’idea rivoluzionaria banale, ma è una rivoluzione sotto il profilo del pensiero, non ancora attuata nel pensiero ma nella prassi, perché, pur con tutti i limiti descritti da Bressan, lo stato italiano rinasce, anche dal punto di vista politico, da un incontro di movimenti ideali, per quanto edulcorati. La vita economica e sociale italiana nasce da questo. Se volete, la lettura duale di Hobbes è l’idea smithiana – che non è neanche tutto il pensiero Smith – secondo cui è dall’egoismo dei singoli che, attraverso la mano invisibile, si costruisce l’equilibrio economico, idea miseramente fallita con la crisi finanziaria del 2008-2009. Se leggete i giornali del 2005-2006, essi esprimono questa idea neoclassica, che l’egoismo del singolo va lasciato libero, non regolato; l’esimio Giavazzi - che poi è capace di grandi cambiamenti - sul Corriere scrive che non bisogna regolare, bisogna lasciar libero. Ecco, la vita economica italiana è il contrario: è un impeto ideale, positivo, costruttivo, la voglia di far lavorare, di creare prodotti. Tutto questo è una lettura alternativa. Dunque, il soggetto. Ma cosa fa questo soggetto? Questo soggetto, proprio perché dotato di desiderio, quando conosce la realtà - come dice il primo capitolo de Il senso religioso - la conosce con realismo, partendo dall’oggetto. Cosa vuol dire partire dall’oggetto? Perché, per esempio, questo è all’inizio di un benessere economico? Se voi conoscete un bicchiere in modo analitico, pragmatico, riproducete all’infinito questo bicchiere. È la forza del mondo americano: standardizzare, ricostruire. Se voi conoscete in modo idealistico, riproducete all’infinito un’idea. Ma se conosco in modo realistico, guardo questo bicchiere, vedo Tosoni e mi chiedo: “Ma se lui avesse in mano questo bicchiere, come lo vorrebbe? È un po’ poco resistente, meglio farne uno che non si piega; e nello stesso tempo userò un materiale biodegradabile, perché Tosoni è un ambientalista.” Dopo di che, per ipotesi, decidiamo di non farlo rotondo ma di un’altra forma. Quindi io guardo la realtà e chi la usa, e così continuo a costruire un’innovazione del prodotto, la cui intelligenza consiste nel capire chi userà questo bicchiere. L’innovazione è dentro il modo di conoscere, perché l’immaginazione, nel momento in cui la realtà e la realtà umana ti urlano qualcosa, può mettersi in azione. Da qui nasce il genio italiano. Per esempio, una delle cose più interessanti e più vituperate è la nascita dell’Eni, perché, con buona pace di tutti, che un paese senza petrolio come l’Italia riesca, attraverso l’intelligenza di Mattei, a creare una realtà che è alternativa alle Sette Sorelle semplicemente perché l’intuizione di Mattei è di allearsi con i paesi produttori invece di depredarli, è un altro esempio di questo realismo della costruzione. Ora, anche il welfare nasce dal realismo del desiderio. Io capisco il bisogno attraverso il desiderio e mi adatto, creo la formazione professionale, creo la risposta al ragazzo disadattato - mi chiamo don Bosco - o vedo i mutilatini mentre vado a trovarli e capisco – come raccontava Giussani di don Gnocchi – che la risposta al dolore è insoddisfacente e creo un’opera per loro. Il genio italiano del welfare è un genio di realismo. Un realismo così forte che senza neanche saperlo anche le altre culture, la cultura liberale e la cultura socialista, lo copiano. E’ strano che noi abbiamo un 31\3\11 10 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto socialismo che, pur anche negli anni duri della Guerra Fredda, invece di pensare esclusivamente allo Stato – una parte ci pensa – è il più grande fattore di costruzione sociale con il mondo delle cooperative, nate negli anni del movimento operaio e che continuano nel Dopoguerra; in qualche modo, questa cultura cattolica del desiderio e del realismo diventa appannaggio, partendo da altre cose come la giustizia, di culture che non erano così e tempera il mondo liberale in un’idea di progresso e di sviluppo. Ora, secondo me questa percezione di un modo diverso di conoscere è il fattore del cambiamento, perché se tu non hai questo modo diverso di conoscere, quando ti trovi chiuso o hai forza militare come i francesi - come vediamo adesso in Libia -, o sei come il Canada che, quando il petrolio costa più di quaranta dollari al barile, estrae il petrolio dalla sabbia a Calgary e quindi va avanti, o sei finito. Questo è il momento della possibilità di essere in serie B, perché è un’Italia che si sta vergognando della sua cultura, che si sta vergognando della conoscenza per avvenimento, che si sta vergognando della sua tradizione vissuta oggi e sta cercando la sua strada altrove. Cercando la sua strada altrove, non è in grado di cambiare: si difende, resiste al cambiamento. Ma nel momento in cui accetta questa idea della risorsa che è ogni uomo e di questa possibilità di trovare nella realtà qualcosa che corrisponda al desiderio, si rimette in azione. Per dirne un’altra che secondo me è frutto di quest’idea: dove hanno fallito gli americani, nel costruirsi la casa, questo desiderio e questo realismo han fatto sì che in Italia il 75% della gente abbia la casa di proprietà. La gran parte di queste case di proprietà è stata costruite dalla gente, perché evidentemente questo desiderio sulla realtà ha voluto dire che si usano le risorse per migliorare la vita. Secondo me i 150 anni sono un’occasione di provare a rileggere la questione, perché il contributo dei cattolici non è nella morale e non è neanche nei principi irrinunciabili: queste sono conseguenze. Il contributo dei cattolici è questa immagine. Un altro esempio di questo è il lavoro: due anni fa ho partecipato ad un convegno di “Rete in opera” e c’era un professore lateranense che raccontava questa storia, secondo la quale l’idea del lavoro tradizionale nasce dal mondo liberista e dal mondo comunista. Il lavoro è l’emblema di queste culture laiche, tant’è vero che è scritto nella Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” (dicono i costituzionalisti, che la dicitura voleva essere addirittura: “sui lavoratori”). Ma nel momento in cui parto da questa percezione del desiderio, da questa conoscenza, ritorna il lavoro cristiano, ritorna il lavoro che abbiamo conosciuto senza poterlo teorizzare - arriviamo oggi a teorizzarlo - come trasformazione della realtà e realizzazione dell’io (come dice Giussani ne Il senso religioso, che l’uomo senza lavoro, nella nostra società, è un uomo perduto) ma lo vedete come aspetto positivo, costruttivo, generativo, perché l’aspetto di fatica e di maledizione della Genesi è superato dall’idea di conoscenza che si ha sul lavoro. E non solo il lavoro intellettuale, ma il lavoro manuale: voi sapete che il lavoro manuale nasce col cristianesimo. Si potrebbe andare avanti, ed è questo l’esercizio, ma secondo me il tema fondamentale è proprio scoprire come questa capacità di cambiamento è figlia di un modo di conoscere non ridotto, è figlia di un uomo positivo, il desiderio, è figlia di una capacità di realismo: questo, che vale per tutti, per il nostro paese è la faccia. Senza questo noi non esistiamo, noi che siamo senza forza militare, senza forza politica, senza materie prime. Questa, secondo me, è la grande occasione che l’evento dei 150 anni ci offre: rileggere la storia d’Italia non appiccicando sopra delle immaginette (come se non ci fossero) ma verificare finalmente dall’interno di queste cose un pensiero che sia confacente a una prassi. Mi ricordo che, quando ero nella Cdo, Don Giussani ci disse: “La Cdo è più fatta che pensata”. Si potrebbe dire la stessa cosa dell’Italia: l’Italia è più fatta che pensata, anzi è pensata male sull’esser fatta. Nel momento in cui l’ideologia precedente crolla – capite anche voi che non sta più in piedi: l’ideologia dell’Italia unita o l’ideologia dei Rizzo e degli Stella non tiene più su questo Paese – questo paese va giù, diventa B, perché non è più capace di cambiare. Ma proprio questo momento è la grande occasione perché una rilettura storica sia anche una proposta di un modo di conoscere che non sia ridotto, che è l’unica nostra risorsa. A. CASPANI: Bene, come vedete qui non si ha paura dell’unità d’Italia, qui non si ha paura del Risorgimento, anzi: è stato proprio ben detto che un popolo - i soggetti della storia sono sempre 31\3\11 11 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto soggetti comunitari - come quello italiano, impregnato di tradizione cattolica ha saputo innovare in un contesto nuovo, ha saputo cercare soluzioni nuove e che, anche se abbiamo realizzato una forma che ha delle ferite e dei limiti, questo non ha impedito a chi ha vissuto questa tradizione di continuare a costruire. Ecco mi sembra che la cosa fondamentale, nel momento in cui apro la possibilità di intervenire e far domande, è che stasera si scopra che la storia è fatta di costruzione, e che non è solo una storia di giudizi morali, immorali, politici ma è come un cogliere e immedesimarsi in un popolo che costruisce. Però questa sfida a rileggere l’800 e l’oggi, che c’è stata presentata da Bressan e Vittadini, è la nostra, ora tocca a noi. In attesa di qualche domanda provo a farne una io. Vorrei rilanciare ciò che Vittadini diceva al professor Bressan: nella forma con cui abbiamo realizzato l’unità c’era veramente la possibilità di lasciare spazio oltre che ai diritti individuali anche ad una certa creatività sociale, ad una certa modalità d’espressione di questo surplus, di questa marcia in più che ha un popolo che desidera e che non si limita semplicemente agli aspetti strutturali d’ordine pubblico, che non accetta di essere centralizzato? C’era questa possibilità? C’era, come dice in qualche modo il presidente Napoletano, già il germe della possibilità dello sviluppo delle autonomie, della possibilità di realizzare un principio di sussidiarietà? Oppure invece questo è frutto proprio della rielaborazione novecentesca? E. BRESSAN: certamente la cultura politica e giuridica dell’Italia liberale è una cultura fondata sulla nozione individualistica dei diritti, certo è una stagione che si connota in questo modo, però bisogna osservare almeno due cose: da una parte che il diritto di associazione, sia pure dentro limiti ristretti, è comunque tutelato, i singoli hanno la libertà di associarsi. Già nello statuto albertino questo è un elemento fondamentale e tutto l’associazionismo sociale che si sviluppa lo fa a partire da questo presupposto. Per questo si può incontrare l’ostilità delle autorità di pubblica sicurezza, ma il legislatore alla lunga non può impedire lo sviluppo dell’associazione; dallo sviluppo dell’associazione e dal confronto che l’associazionismo ha con le istituzioni si sviluppa poi certamente una legislazione che fa spazio in qualche modo alla creatività sociale, perché il riconoscimento del mutuo soccorso, dei diritti dei lavoratori, fino a quello dello sciopero e quindi del sindacato, il riconoscimento della libertà delle associazioni di beneficenza, anche in una cornice pubblicistica, non possono però essere privati delle loro caratteristiche statutarie. Quindi l’Italia liberale non è sorta alla sussidiarietà se non per una ragione, perchè così facendo, se negasse la sussidiarietà in ultima istanza, negherebbe se stessa. Pensiamo a questo dibattito degli anni ’80 – ’90, anche a quello che matura nell’ambito della tutela della pubblica salute, della nascente legislazione sociale, del riconoscimento dei diritti contadini: sono tutte tematiche interessanti. Forse non c’era una apertura alla dimensione del sociale che sarebbe venuta più col novecento, è vero, ma non dimentichiamo quanto poi nel novecento lo sviluppo del sociale sia stato, particolarmente nella versione fascista italiana, di segno prettamente statalistico, cosa che notava anche Giorno per altri aspetti. Quindi ci sarebbe uno sviluppo in chiave sociale ma che dimenticherebbe i diritti individuali. Mi viene anche qui da riprendere una frase del dibattito politico ottocentesco, quando si diceva “torniamo allo statuto”: in questo dobbiamo valorizzare il riconoscimento della libertà del soggetto perché anche il sociale - ce lo diciamo sempre ed è importante ricordarlo - anche la dimensione sociale non esiste, non può esistere se non è tutelata fino in fondo la libertà del soggetto. A. CASPANI: bene, qualcuno invece vuole… DOMANDA DAL PUBBLICO G. VITTADINI: no, perché il concetto è che ci sono stati e ci sono norme in opposizione a questo. L’unica grande opposizione a uno sviluppo è l’incapacità, è la mancanza di coscienza di questa posizione umana perché, come diceva lei adesso, persino le cose negative possono evidentemente ostacolare, ma non fermare la creatività. La vera debolezza è quella che Giussani vide nel ’54, 31\3\11 12 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto quando lo stesso mondo cattolico non era cosciente dell’aspetto di novità che un’esperienza di fede fosse risposta all’umano. Un genio lo vede 70 anni prima, ma anche adesso il vero problema non è l’inevitabile opposizione esterna. Non dobbiamo dire che il risorgimento è tutto bello,è bellissimo. Nulla ferma una forza cosciente di se stesso come desiderio e come corrispondenza. Anche le cose più positive non vanno avanti se non c’è questo. Faccio un esempio che mi ha sempre colpito: nel ’78 credo, ci fu la legge secondo cui le IPAB dovevano diventare regionali, poi la Corte Costituzionale disse che non andava bene. Ci furono però delle IPAB che dissero di voler diventare regionali. Questo è il problema! Oggi alcuni dicono che la carità non è sempre necessaria (al contrario di quel che dice Benedetto XVI), ma che ci vuole la giustizia, non la carità: quando uno non è cosciente di quello che porta, potrebbe avere le legislazioni più positive, ma non andrebbe da nessuna parte. E’ chiaro che è meglio avere legislazioni positive piuttosto che negative, ma neanche una legislazione negativa è in grado di fermare una capacità in azione, può rallentarla, ma - anche questa è una lettura degli anni del Non expedit – persino governi ferocemente anticattolici (Crispi teorizzava addirittura che la carità è solo di stato) non hanno fermato, come diceva Bressan, un movimento imponente sul piano sociale che ha trovato forme diverse per esprimersi. Questa è un’ipotesi di lavoro da verificare: quello che accade della nostra esperienza personale lo possiamo vedere su un piano generale. Non è un caso che molti di noi si siano messi a studiare, sul piano storico o altri, aspetti di questo tipo; non è un caso che due anni fa si fece la mostra su Tovini al Meeting, perché è come se noi riscoprissimo la ragione di queste radici come una chiave di lettura anche della situazione attuale. DOMANDA: Non so se è utile e, soprattutto, se c’è una possibilità di risposta, però provo comunque a fare questa domanda riguardo quello che diceva lei, professor Vittadini, sul rischio di finire in serie B e sul fatto che Giussani si accorge nel ’54 della necessità di recuperare tutta la tradizione: vorrei capire da dove nasce questo rischio, questa paura, questa vergogna rispetto alla capacità di cambiamento che è tipica di questi 150 anni di sussidiarietà. G. VITTADINI: Io dico che, facendo sempre riferimento al libro di Giussani “La coscienza religiosa nell’uomo moderno”, l’Italia è il paese che meglio si adatta a questo, perché non esistono paesi in cui l’esperienza popolare cristiana, fino all’età moderna, ha un’incidenza così grande. I nostri amici spagnoli ci dicono che non ci rendiamo conto che l’Italia ha seguito un cammino diverso. Leggendo i libri di Rodney Stark si capisce che lui ha un’interpretazione secondo la quale gli stati dove c’è un forte potere centrale che s’identifica col mondo cattolico finiscono per comprimere una capacità di azione popolare del laicato. Lui fa l’esempio della Francia e della Spagna: in Francia rimangono alcuni intellettuali che noi amiamo e in Spagna la presenza di Franco e lo statalismo comprimono tutto ciò che per noi è la presenza sociale. Il nord Europa se ne va prima: rimane l’Italia, come esempio in cui questo paradigma di realtà popolare, portata dal laicato con forte incidenza sulla vita economica e sociale, è importante. Ora, nel momento in cui non sei cosciente della tradizione che hai e del modo di conoscere che hai, evidentemente perdi tutto e perdi quello che è la forza dell’Italia, che non ne ha altre. Andiamo a vedere cosa ha: noi non abbiamo neanche un mondo intellettuale laico alla francese, legato allo stato e che crea le grand comittee, come dei sacerdoti laici che difendono uno stato potente. Il nostro è uno stato di pecorai, non è uno stato che fa un’università come le Mirail che ha un’amministrazione di un certo tipo; il nostro è uno stato che non ha neanche un elite laica capace di portare avanti questi aspetti. Allora cosa rimane? Rimane la possibilità di rigenerarsi. Il problema è se questa viene persa (probabilmente viene persa non in tutte le parti del Paese allo stesso modo: sarebbe interessante ragionare su qual è l’influenza del cattolicesimo lombardo sullo sviluppo del Nord rispetto a quello del Sud. Ad esempio, Milano: Milano è il luogo in cui le ideologie vengono stemperate – è un percorso che stanno facendo i nostri storici – e diventano un fattore di sviluppo). 31\3\11 13 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto E. BRESSAN: Ecco, ne approfitto per citare un bel libro che è stato curato da poco da dei nostri amici, “Far bene e fare il bene. Interpretazioni materiali per una storia del welfare lombardo”. Affronta proprio la questione… G. VITTADINI: … di un cattolicesimo che esce molto prima dall’Ancièn Regime, che si confronta con le idee laiche, crea un mondo pluralista e per il progresso. È interessante il fatto che non è in tutti i punti d’Italia, perché anche certe riflessioni che noi leggevamo ad esempio sui libri di scuola, “Dei delitti e delle pene” per esempio, nascono a Milano – anche il Manzoni che ragiona sulla “colonna infame”- nascono su questo pensiero, su questa esperienza vissuta di cristianesimo. Nel momento in cui questo va in crisi, va in crisi la stessa natura della nostra forza. Pensate per esempio al tema della scuola. Negli anni settanta avevamo un istituto tecnico che era il migliore del mondo e un liceo che per il modo di conoscere creava personaggi dell’altro mondo. Oggi, ancora adesso - lo testimoniano i ragazzi che all’università o alle superiori vanno a fare l’anno all’estero e così via - il tipo di conoscenza che si ha, quando è davvero conoscenza, non ha rivali, ma nel momento in cui tu attacchi questo mondo scolastico distruggendo l’eccellenza della persona come capacità di generare e costruire per creare un appiattimento statalista, tu uccidi la scuola. Oggi gli istituti professionali italiani, anche a Milano, in certi casi sono un problema di ordine pubblico. Che cosa hai fatto? Hai pian piano nel corso degli anni mortificato questa capacità di generare e costruire. I giornali sono impressionanti. Ho registrato la battuta di Berlusconi sulle scuole private: i giornali si sono accaniti per difendere una scuola di stato senza contenuti. Noi siamo il paese che senza questo non ci siamo, senza un cattolicesimo popolare capace di generare laici che hanno l’idea di che cos’è la conoscenza perde lo sviluppo stesso del paese. Io capisco che questo è un paradigma piuttosto nuovo, ma che vedo anche nel mondo cattolico. Leggete il libro della Bocci sul cattolicesimo tra il 1920 e il 1940. All’interno dello stesso cattolicesimo ci sono modi diversi di viverlo e certi guasti derivano, secondo me, dallo staccarsi da un certa immagine di uomo e di cristiano e si diventa subito succubi di un’altra cultura. Ora capisco che questo è ancora un paradigma da dimostrare, però mi sembra una cosa interessante da giocare proprio in questa chiave, perché ci permette di giocare in trasferta. Questo non è un nostro campo tradizionale, ma è interessante che un campo tradizionale degli altri possa essere letto secondo categorie che secondo me lo leggono meglio di altre. A. CASPANI: Mi viene da fare un’ultima domanda a tutti e due, perché quest’ultimo accenno che ha fatto Vittadini al fatto che molte volte, anche negli stati in cui la tradizione cattolica era molto forte - e qui mi permetto di aggiungere un particolare: c’è uno storico laico medievalista, Sergi, che in un bel libretto sintetico sul medioevo dice una cosa molto interessante, che la caratteristica principale del medioevo, e lui aveva prima detto che nel medioevo è improntato tutto alla mentalità religiosa, è quella di essere un’epoca sperimentale, che ha continuamente sperimentato nuove forme, nuove istituzioni, a tutti i livelli, sociale, politico (e quindi è interessante anche questa conferma da parte degli specialisti di queste ipotesi di lavoro) - questo riferimento al fatto che un rapporto molto stretto fra una chiesa e uno stato nazionale può condurre a volte a mortificare questa creatività del popolo cristiano, non ridà spazio e importanza al tema del federalismo? Il federalismo è stata una componente importante del risorgimento italiano e oggi è uno dei grandi temi. Su questo potrebbero dirci qualcosa. E. BRESSAN: Certamente uno dei punti di forza della realtà italiana che si differenzia da altri contesti europei ancorché cattolici è stato quello del policentrismo, un policentrismo oltretutto esaltato dalla presenza della santa sede, una santa sede che, non dimentichiamolo, ha però svolto un ruolo nazionale. Ci sono i due aspetti, quindi sì, e in questo caso l’Italia è atipica, perché non c’è mai stata una burocrazia di stato forte, capace di imporsi sulle realtà locali: dapprima perché ce n’erano molte e questo però rafforza l’idea di una comune appartenenza nazionale proprio perché non fondata sulla forza e sul potere, ma perché nascente dal basso (anche in questo l’Italia è un caso 31\3\11 14 Testi-cmc 150 anni di sussidiarietà e nessuno se n’è accorto particolare tra le nazioni occidentali); poi perché lo stato nazionale italiano, anche se in alcune sue componenti ideali ci ha in qualche modo provato, conosceva dei limiti. A differenza del fascismo o di altri regimi era uno stato liberale che quindi non poteva, proprio per il suo rispetto del diritto dei singoli, andare oltre una certa soglia; poi è la realtà italiana che, essendo articolata, composita, varia, fatta di realtà diverse - e lo stesso legislatore postunitario in qualche modo ci ha fatto i conti, pur senza allora concedere un decentramento amministrativo regionale – ha permesso che le specificità fossero salvaguardate se non altro a livello geografico e statistico. Le regioni, come parti della storia italiana, e tutte le varie esposizioni nazionali e internazionali tendevano a mettere in luce questa varietà nell’unità, e quindi io credo nella riscoperta di un federalismo, allora ritenuto di difficilissima se non impossibile realizzazione. Però tutto quel percorso iniziato con la costituzione repubblicana, basato sulle autonomie regionali e che oggi sta portando a realizzazioni ancora più significative in questo campo, è sicuramente un dato interessante. G. VITTADINI: Non commento questo perché l’ha commentato bene Bressan, dico solo che quello che stiamo dicendo stasera è l’anomalia italiana considerata come l’aspetto negativo. Noi veniamo da anni in cui, questa anomalia, la presenza della Chiesa e di un diffuso cattolicesimo, è il fattore del sottosviluppo. Quindi noi, attaccando questo tema, attacchiamo frontalmente il ruolo di tutti quei commentatori, degli editorialisti e dei principali giornali intellettuali che dicono- era un leitmotif soprattutto negli anni 2005-2006 quando c’era l’idea finanziaria- che l’Italia deve liberarsi di questa capacità diffusa di creare benessere per diventare come gli altri paesi, appannaggio di una élite politico-economica capace di governare un popolo che inevitabilmente è bue. E secondo me certi contorsionismi politici a volte hanno a che fare con quest’idea, che dobbiamo liberarci di uno sviluppo popolare che ci differenzia dai grandi paesi anglosassoni; quindi secondo me questa è una battaglia frontale, è la battaglia anti-declino ma è anche la battaglia in cui si legge che cosa sia il declino e se ci sia o no in Italia. E. BRESSAN: Ancora una battuta: Manzoni, quando risponde a Sismondi su questo punto, proprio per rivendicare l’eccezione italiana di fronte all’ipotesi di una carità di stato, di una carità pianificata dall’alto, propone l’esempio - che ci riguarda da vicino perché è l’esempio delle strade e dell’ospedale in via Festa del Perdono – del volontariato ospedaliero milanese e di Teresa Procchi Arconati. È quello il modello ed è quello che torna poi continuamente nei Promessi Sposi. A. CASPANI: Mi piace concludere ricordando quello che una volta diceva il maestro per tanti di noi, cioè Giorgio Rumi diceva che il cuore dell’italianità è la Chiesa in cura d’anime. Vorrei che questo fosse un elemento da tener presente non solo come retaggio storico e certamente non come anomalia negativa, ma come un compito che possiamo assumerci, perché la Chiesa in cura d’anime, che è stata veramente un modello tipicamente lombardo – è stato qui ricordato in alcune forme specifiche -, indica veramente la Chiesa come presenza sociale che da qui è capace di innervare una fede che diventa cultura, opere, creatività sociale e politica. Questo è l’impegno con cui ci lasciamo e vi ringrazio molto di tutta l’attenzione. 31\3\11 15