Sabato, 18 gennaio 2014
❚❚ Lettere al direttore
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Un mondo al maschile. Ma la donna dov’è?
L
eggo oggi, 13 gennaio, sul Foglio, un pezzo interessante
di Mattia Ferraresi sul MRM, l’americano Men’sRightsMovement (una sorta di femminismo al rovescio sui
diritti del maschio), e sulle tesi molto intriganti di Camille
Paglia, antropologa e sociologa, femminista radicale e lesbica poco ortodossa rispetto al pensiero LGBT (lesbiche-gaybisex-transgender, ndr) e perciò lasciata un po’ ai margini:
sostiene da tempo, la Paglia, che il mondo è del maschio
perché le strade su cui la femmina fa carriera sono asfaltate
dai maschi … che il mondo è maschio, anche se riconoscerlo è femmina. Ripenso alla giornata di studio che si è svolta
ieri a Como sul tema “Uomo e donna: il senso di una differenza. Identità di genere in discussione”: stimolante. Una
perplessità mi rimane: la percezione di una certa timidezza
della Chiesa di questo tempo nel rendere conto della nostra
“speranza”, non nel senso della baldanza, giacchè quel che
non sappiamo e vorremmo sapere è assai più di quel che
conosciamo, ma nel senso della fiducia, giacchè quel che
sappiamo poggia sulla Parola e sul conoscere, spesso umile, dei molti che ci hanno preceduto. Soprattutto mi resta,
come dire, un certo languore, come di fame non appagata: ieri è mancata … la “donna”. Non tanto perché non ce ne
fosse una sul palco, tra i relatori e il moderatore: avrebbero
anche potuto esserci quattro donne, e poi parlare da uomo,
succede molto spesso! Il fatto è che il dibattere è un po’ im-
plicitamente scivolato, via via, negli interventi come nelle
domande del pubblico, sull’omosessualità: argomento cogente, sì, ma tale per definizione da cancellare proprio … la
differenza a tema. Ed è quella differenza, primigenia, divina,
ad attrarmi tanto: perchè, per dirla con la Paglia, lo spartito
rimane ancora squisitamente maschile, indipendentemente dal fatto che ad eseguirlo siano gli uomini o le donne, e
io scalpito perché vorrei tanto uno spartito a due, uguali ma
diversi. E un presente gravido, non sterile.
Speriamo!
ELENA CLERICI
C
arissima Elena,
due cose. La prima è che sarebbe certamente augurabile un mondo più “al femminile”. Non tanto sul palco
dei convegni, fra i relatori, quanto nei circuiti relazionali.
Abbiamo bisogno del “genio femminile”, come lo chiamava
Giovanni Paolo II. Il problema è che, spesso, sono proprio
le donne a disertare dalla (vera) femminilità. Che non è lo
scimmiottamento del maschio, come ingenuamente inteso
dal primo femminismo, ma la fruttificazione del talento più
tipicamente femminile: l’accoglienza, l’ascolto, l’empatìa,
l’accompagnamento, la profondità relazionale, la cura del
dettaglio. Le viscere materne, insomma. La mascolinizzazione delle donne è una delle sciagure del nostro tempo. Di
pari passo a quell’altra, l’effeminatezza dei maschi, che, dopo
millenni di dominanza maschilista, sono oggi in rotta su tutti
i fronti del rapporto con l’altra metà della luna. Chiaro che,
dentro questo quadro così mosso, la cultura del “gender” non
fa che moltiplicare la confusione. La seconda cosa è la testimonianza cristiana. Penso che sia stato giusto, nel convegno
a cui tu fai riferimento, tenere un profilo cauto, pensoso, interrogativo, in ricerca. Un convegno è un esercizio di intelligenza, per cui è bene che siano più le domande affiorate, che
non le risposte trovate. Papa Francesco, poi, questo lasciarci
provocare dai drammi delle persone, e mettere in discussione
da chi la pensa diversamente da noi, ce lo sta chiedendo con
insistenza. Non è un sintomo di debolezza, ma al contrario di
forza. Noi siamo talmente convinti della verità del cristianesimo, la verità (come dici tu) della Parola rivelata e della
Tradizione millenaria della Chiesa – la verità dell’uomo e
della donna chiamati a una relazione unitiva e feconda per
essere segno della vita stessa del Dio Trinità –, che non abbiamo timore alcuno a porci in ascolto della cultura omosessuale o trans-gender. Passato poi il convegno, dove molto si
ascolta e si discute, viene la vita. E la vita è il luogo dove non
solo si ascolta, ma anche si annuncia. Sempre con umiltà,
ma anche con forza. Chiarezza. Certezza. Splendore di bellezza. Senza misurare l’indice di gradimento. Pronti, se del
caso, al martirio.
■ Tributo
In ricordo di don Paolo Trussoni
a morte di don Paolo Trussoni mi ha colto di sorpresa.
Sapevo che la sua salute ultimamente era cagionevole,
ma avendolo incontrato e parlato pochi giorni orsono
a Morbegno, non mi sembrava fosse giunto ormai alla fine
della sua esperienza terrena. È vero che il passaggio dalla
vita alla morte è imprevedibile quanto repentino, ed è altrettanto vero che la morte non sempre è preannunciata con
eventi eclatanti. Infatti, il mio amico Paolo se n’è andato
senza rumore, in silenzio, senza disturbare nessuno, com’era il suo modo di essere uomo e prete. Don Paolo era un
uomo schivo dalle manifestazioni e dagli eventi clamorosi.
Era uno studioso di teologia e di antropologia, serio e impegnato nella costante voglia di capire fino in fondo i soggetti
della sua ricerca prima di emetter qualsiasi giudizio di merito. Don Paolo era un prete di cui mi è facile pensarlo da vivo,
mentre mi è molto difficile saperlo morto. Ci sono persone
con cui entri in sintonia da subito, senza sapere il perché,
senza porti domande come: chi è costui, cosa vuole da me,
perché mi cerca. Si, perché don Paolo è venuto a cercarmi,
dopo aver letto il mio libro autobiografico, per conoscermi di persona. Per sapere chi ero. Si è mosso in bicicletta
da quel piccolo paesino (Albonico) situato sulle propaggini
del lago di Como nel comune di Sorico. L’aveva colpito, mi
disse, che io parlassi con molta convinzione di don Lorenzo
Milani, personaggio che anche lui ammirava e apprezzava
molto. Ma anche di altri personaggi come Turoldo, Gandhi e altri ancora che facevano parte delle mie conoscenze e
delle mie letture. Poi, mi disse anche, che voleva parlare con
un sindacalista cattolico un pò fuori dal comune. Era interessato a conoscere le ragioni che avevano provocato la definitiva collaborazione tra le grandi Confederazioni sindacali
L
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(eravamo nella seconda metà degli anni ’80) e voleva notizie
di prima mano. E io ero molto contento di fornirgliele. Ma
ero anche divertito dal fatto che un prete, parroco di un insignificante paesino di montagna (Albonico), si interessasse
di questioni fuori dalla sua portata (pensavo), almeno sul
piano sociale. Sbagliavo giudizio. Dopo quel primo approccio, i nostri rapporti si svilupparono e si intensificarono.
Capii, frequentandolo, che quel prete era uno studioso, uno
che sapeva e che voleva conoscere anche nei più nascosti
particolari, la vita vera, civile, politica, e sociale, degli uomini prima di emettere giudizi. Stavamo bene insieme, perché
ciascuno aveva qualcosa di inedito da raccontare all’altro.
Ma soprattutto perché ci accomunavano le nostre idee circa
la crisi che, in quei momenti, investiva la Chiesa a proposito dell’attenzione particolare ai poveri e agli emarginati del
momento. Nel programma di quel convegno era prevista
l’udienza con il Santo Padre Giovanni Paolo II. Fummo ricevuti nella sala Clementina in Vaticano. Durante l’incontro,
osservando il cerimoniale di insediamento del Papa nella
sala, ebbi l’impressione (ancora oggi più convinta che mai)
che quell’uomo piccolo e mite (il Papa) fosse una sorta di
prigioniero degli arcigni curiali che gli facevano coro attorno. Ne parlai coi miei due amici: da don Antonio ebbi come
risposta un compiacente silenzio, da don Paolo la condivisione del mio sentire.
Potrei ancora dilungarmi a raccontare aneddoti sui momenti che abbiamo vissuto e passato assieme, ma preferisco tenerli per me. Io benedico don Paolo e lo ringrazio per
i suggerimenti, il conforto nei momenti difficili, la sincera
amicizia che ha voluto concedermi. Lo ringrazio per l’esempio di mitezza, sobrietà, umiltà che mi ha dato e che ha
dato a molti. Lo ringrazio di avermi permesso di custodire
questo bel ricordo di lui e dei momenti di vera fratellanza
vissuta con Lui.
Infine, ringrazio Dio di avermelo fatto incontrare sulla mia
strada nel momento giusto, nel tempo giusto e nel posto
giusto.
VALERIO DALLE GRAVE
I
l giorno di Natale, dopo la Santa Messa delle ore dieci, così salutai i miei 266 amici di Facebook: “Cari amici
buongiorno Natale 2013. Oggi alla predica ho saputo perché il Natale viene celebrato il 25 dicembre e a mezzanotte
… e sono felice. Auguri a tutti”. E durante la Messa, quando
giunse il momento di scambiarsi il segno della pace, stringendo la mano di don Paolo, gli dissi: “Complimenti, don
Paolo, per la sua predica. Oggi ho finalmente capito, perché
sono state fissate la data del 25 dicembre (fine del solstizio
d’inverno) e l’ora della mezzanotte (finisce la notte e inizia
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l’avanzare del sorgere dell’alba e della Nuova Luce di Dio).
Grazie.” Lui mi rispose con un mesto sorriso. Con Lui, il
reverendo, avevo avuto un solo precedente incontro: una
domenica pomeriggio. Esattamente, come ho riportato nel
mio diario, domenica 6 ottobre 2013, dalle ore 15.00 alle
16.30. Il suo studio, con la parete ovest tappezzata di libri,
con la grande e comoda scrivania, era accogliente. Dopo i
convenevoli egli ascoltò con disponibilità la mia presentazione e, poi, siamo passati subito al lavoro. Esso consisteva
nel rivedere insieme una traduzione dal latino. Si trattava di
un brano tratto da: ”La visita pastorale di Gerardo Landriani alla diocesi di Como (1444-1445) a cura e con Introduzione di Elisabetta Canobbio, Milano, Unicopli, 2001.
Il testo riguardava gli incontri che il Landriani aveva avuto
con i canonici della Pieve di San Pietro e riportava annotazioni sul comportamento e la preparazione dei canonici. Io
leggevo la mia traduzione e Don Paolo controllava il testo
latino, che aveva di fronte a sé. Il lavoro procedette speditamente, con poche interruzioni per le spiegazioni di certi
termini specifici del linguaggio religioso (compieta) una
volta terminato il lavoro don Paolo mi confermò di essere
nato a Fraciscio, il paese di San Luigi Guanella, mi raccontò, come si fa tra chi è stato ammalato gravemente, di essere
stato sottoposto a due interventi a cuore aperto alla mitralica, che controlla il sangue venoso. Ad un certo punto con
emozione, orgoglio e devozione mi mostrò un libretto, di
cui non presi nota del titolo, che il Cardinale Martini aveva
autografato e che, in una visita del tutto privata e riservata, gli aveva regalato. Con il Cardinale, che già a quei tempi
soffriva del morbo di Parkinson, discussero di problemi di
teologia. Mi ricordò che egli era stato parroco per 14 anni
a Paniga e … alla fine fu con grande dispiacere che, per sopravvenuti suoi nuovi impegni, mi congedai dalla sua cordialità. Quando venni a sapere della sua morte, provai sgomento e paura, perché anch’io sono tra coloro che nacquero
“sotto le bombe”, durante la Seconda Guerra Mondiale e che
si dà per scontato che ora giungeranno prima al traguardo
finale, essendo il turno di quelli della Seconda Generazione del Novecento. Sgomento e paura, che si attenuarono,
però, quando seppi quali furono le ultime parole di Don
Paolo: “Sono con Dio” . Allora ricordai quanto aveva scritto
Raymond A. MOODY:La vita oltre la vita: studi e rivelazioni
sul fenomeno della sopravvivenza, A. Mondadori, Milano
1997. ….e allora vidi una gran luce e sentii una profonda
pace e un’intensa gioia e vidi venirmi incontro i miei cari…”
e “SONO CON DIO” esalò il buon Paolo Trussoni , che era
nato alla nuova luce.
FRANCO SMACHETTI
un parrocchiano di Pedemonte
(Unione Stampa Periodica Italiana)
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18/01/2014