DESIGN AMORE MIO 2
PREFAZIONE
Sono passati pochi anni da quando scrissi e pubblicai Design Amore Mio, pensando che
sarebbe rimasta l’unica testimonianza della mia esperienza di scrittore. Il libro voleva dare
alcune semplici risposte a domande ricorrenti poste da neo diplomati designer, ma anche
di persone semplicemente interessate a questo mestiere, su come si inizia a farlo, come
si può incontrare un produttore delle proprie idee, in che modo proteggerle e anche come
farsi pagare. Dopo quella pubblicazione, volutamente leggera ed ironica, più di qualcuno
mi ha suggerito di farne un’altra, basata sulle mie esperienze lavorative e che andasse
più a fondo su argomenti specifici come i cambiamenti e le strategie, le evoluzioni nel
rapporto tra il designer e le industrie committenti, sia a livello tecnico e tecnologico che
economico. Data la fatica dell’opera prima, l'idea di avventurarmi in un nuovo progetto di
questo genere mi preoccupava.. Eppure quella prima esperienza mi aveva portato molte
soddisfazioni, sia per i complimenti ricevuti sia per le critiche costruttive poste dai lettori,
che sono state, per me, un prezioso spunto di crescita.
In Design amore mio avevo volutamente tralasciato molti argomenti del lavoro del
designer, ripeto: era un testo più autobiografico. Oltre al riconoscimento per aver portato
a conoscenza dei lettori alcuni temi specifici della professione, ho anche ricevuto
lamentele per averne trascurati altri, ad esempio per non aver parlato dei ruoli con i quali
la mia professione interagisce. Il tempo che passa e fa dimenticare le cose negative, il
desiderio tutto senile di raccontare in un nuovo modo la mia avventura, mi hanno infine
suggerito di riprovarci.
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Questo libro racconta le mie considerazioni pratiche, rivolte a tutti coloro che si trovano
all'inizio della loro professione di designer e ancora non sanno come diffondere e
difendere le proprie idee in questo mondo professionale complesso. Si tratta di semplici
spunti, che non pretendono di descrivere una filosofia del design, soprattutto perché la
mia esperienza nel settore, iniziata oltre quarant'anni fa, ha ben poco di teorico e si fonda
essenzialmente sull'esperienza. Ho voluto quindi integrare in questo libro anche le
riflessioni pubblicate nella rubrica mensile Workshop della rivista "Il bagno oggi e
domani". La rubrica affrontava diversi argomenti, non solo quelli legati all'ambiente
bagno, che da semplice area di servizio si è oggi trasformato in un angolo di benessere
all'interno delle nostre case. Infine, ho anche inserito nel testo alcune considerazioni nate
da scambi d'opinione con colleghi e amici e alcuni dati derivanti dall'interazione formale
con le aziende, che un giovane designer agli esordi potrà trovare utili.
È noto l'episodio del calabrone, che in base ai calcoli e gli studi di un gruppo di ricercatori
della NASA, l’ente americano di ricerca aerodinamica sul volo, non dovrebbe poter
volare! Il calabrone non conosce i risultati di queste ricerche e cosi , per istinto, vola e
anche bene! Io mi sento un calabrone - designer. Ho deciso di scrivere questo libro
basandolo sulla mia esperienza di volo, anziché sulle teorie un po' astratte di chi non ha
mai volato nel grande spazio del design. Sono teorie verso le quali nutro il massimo
rispetto, ma sulle quali non sono mai riuscito a fondare i miei atti pratici, basati solo su
memorie di esperienze vissute per decenni di attività professionale. Iniziata negli anni
sessanta, la mia attività di designer si fondava su esperienze condivise con mio padre
industriale e costruttore edile, sulla mia attività di giovane arredatore , di commerciante di
mobili moderni e dalla preparazione scolastica del disegno tecnico.
CAPITOLO PRIMO
Ho diviso questo mio scritto in tre sezioni; la prima rivolta maggiormente al designer come
consigli sull’operatività rivolta alla creazione e allo sviluppo del progetto, la seconda parte
è una presa di conoscenza da parte dello stesso designer delle strutture aziendali verso
le quali si dovrà interfacciare per sviluppare il proprio progetto. La terza parte presenta
alcuni progetti del mio studio sui quali descriverò le caratteristiche e le motivazioni che
hanno determinato il loro sviluppo produttivo e commerciale.
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Italiani un popolo di designer
Ai tempi del governo Craxi noi designer, soci ADI, avanzammo la richiesta di essere
tutelati e d'essere oggetto d'iniziative a favore della nostra professione. Ci risposero che,
essendo appena 600-700, il nostro numero era talmente esiguo da non suscitare alcun
interesse politico.
Ma si trattava proprio di quel piccolo numero di designer che ha reso famosa l'Italia nel
mondo, grazie a prodotti ed espressioni anche artistiche in ogni settore, dalle auto
all'abbigliamento e fino all'arredamento. Stiamo parlando, in poche parole, dello stile
italiano nel mondo.
Allora non esistevano ancora corsi universitari, ma solo poche scuole private a Milano.
Oggi il mondo politico ha preso coscienza del valore economico rappresentato dal design
e le università da qualche hanno attivato corsi di laurea e di diploma universitario in molte
città come Milano, Roma, Firenze, Napoli, Pescara, Camerino, Ascoli Piceno e altre. Con
qualche migliaio di laureati ogni anno e una maggiore consapevolezza da parte degli
imprenditori sul valore aggiunto del design, lo stile italiano sta riconquistando quella fama
che aveva corso il rischio di perdere.
La legittima domanda suscitata da tale meccanismo è se questi neo laureati troveranno
un lavoro. Io sono ottimista. Molti architetti finiscono per fare i lavori più disparati e
apparentemente non legati alla loro specifica formazione. Lavorano come impiegati negli
uffici pubblici e privati con mansioni burocratiche, mediatori immobiliari, disegnatori di
moda ecc.. Ma le loro competenze non potranno che contribuire a diffondere la cultura
dell'architettura negli ambienti diversi in cui si troveranno ad operare. Così, qualunque
possa essere la strada seguita, molti futuri designer contribuiranno con le loro
conoscenze tecnico-stilistiche dei prodotti che ci circondano, a creare una cultura più
evoluta sull'uso e la selezione degli oggetti. Questo contribuisce a migliorare la qualità
della vita di tutti noi.
È un meccanismo che interessa chi lavora come designer, ma incide anche nella vita
quotidiana dei semplici utilizzatori, sensibilizzando chi lavora nell'amministrazione
pubblica e nel settore dell'industria privata, e anche coloro che diventeranno politici o
insegnanti. Si tratta di settori che spesso hanno ignorato le tematiche del bello e dell'utile,
nonché il fondamentale tema della sicurezza nella progettazione degli oggetti quotidiani.
Essere designer è dunque un approccio mentale che è applicato a qualsiasi professione:
il designer continua a progettare elementi di miglioramento per la vita di tutte le classi
sociali.
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Gli strumenti culturali
La creatività è un concetto ed una filosofia comportamentale che affascina anche chi non
la pratica. Quando poi si viene a conoscenza degli strumenti e delle cognizioni progettuali
per attuarla, specialmente dopo aver conseguito un percorso formativo e relativo
attestato, si ha voglia ed entusiasmo di vedere concretizzate le proprie idee. Qui
cominciano spesso ad arrivare le prime difficoltà. Dopo le prime esperienze con dei
produttori, in molti giovani. Ho percepito una certa delusione verso un mestiere che non
sembra dare giusto valore ai loro progetti e alle loro ambizioni. Alcuni, talvolta, mi hanno
chiesto perché. Mi sono così reso conto che c’è bisogno di approfondire le informazioni
riguardanti la pratica del design, moderando alcune illusioni derivate dal successo di
alcuni personaggi presenti nel mondo delle grandi “firme”.
Il successo, per chi comincia, è l’obiettivo da raggiungere, e l’analisi dei possibili metodi è
lo scopo che si prefigge questo testo. Non devono essere presi come metodi sicuri, ma
sono solo come spunto di riflessione su considerazioni di chi le ha sperimentate. Questo
libretto potrebbe essere considerato una specie di tutore del dopo laurea, una
chiacchierata fra amici vecchi e nuovi, nel piacere dei vecchi di raccontare le proprie
esperienze.
A chi mi chiede perché il mondo del design sia così duro e per quale motivo appaia così
complesso ottenere risultati, dico che ci vuole tempo, volontà, grinta ma anche molta
umiltà e sacrificio del proprio tempo libero e del proprio denaro. Sono problemi comuni a
molte professioni, ma nel design forse pesano un po' di più per la vastità della materia e
per il continuo peregrinare tra le varie aziende. Perciò, a fronte di tali e tanti sacrifici, molti
si scoraggiano e abbandonano la professione designer dopo qualche anno d'infruttuosi
tentativi. Questo non è un "mestiere" qualsiasi. È prima di tutto una passione che deve
pervadere ogni spazio della propria vita, perché il designer continuamente traduce in
idee, la sintesi di ciò che gli interessa (e che sia traducibile in progetti) nel mondo che lo
circonda. E’ anche un mestiere in cui ogni punto d’arrivo non è altro che uno nuovo da
cui partire: si sa, non si finisce mai d’imparare. C’è sempre da studiare su come
avvengono e su che cosa si basano i successi e gli insuccessi, capire come rimediare a
questi ultimi senza scoraggiarsi mai. Non bisogna illudersi di aver già finito una volta che
si è preso un diploma o una laurea. Oltre una buona cultura di base ed una tecnica, per
fare design occorrono anche una serie di conoscenze progettuali in senso lato: saper
disegnare, saper reperire informazioni, saper gestire risorse umane e materiali ed infine,
ma non ultima, saper usare le risorse informatiche.
Poi si comincia a fare esperienza pratica.
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L'esperienza
Sono sempre disponibile ad avviare un dibattito costruttivo e a fornire altri elementi utili
alla conoscenza del mestiere di designer ed alle sue molte competenze, soprattutto
quelle con le quali si svolge l’iter di sviluppo del prodotto che io chiamo “interfacce del
designer”. Con questo spirito, da alcuni anni, insegno ai corsi di design industriale del
LUDI (Laurea Universitaria in Design Industriale) presso l'Università La Sapienza di
Roma.
Nonostante l'impegno di progettazione nelle attività della mia azienda e il fatto che
economicamente non sia certo un vantaggio, considero l'impegno didattico come un
dovere morale e sociale nel trasferire ciò che ho imparato con una pluriennale esperienza
di professione. Un'ambizione forse senile, ma che vorrei vedere realizzata, è quella di
contribuire a formare le nuove generazioni di designer. Vorrei anche vedere lo sviluppo di
una cultura del design anche nelle regioni del centro sud, dove fino a pochi anni fa era in
sostanza del tutto sconosciuta.
Certamente chi comincia oggi è più fortunato di chi, come me, perito industriale
meccanico, nato e vissuto a Roma, ha cominciato quando il design era del tutto ignorato
e le industrie che facevano prodotti di design qui non esistevano proprio. Mio padre
stesso, industriale del legno, non ha mai capito bene che mestiere facessi; pensava che
vivessi di fortunosi e saltuari espedienti rivolti a piccole imprese del Nord. Per anni ho
impegnato le mie risorse fisiche ed economiche per dare valore e riconoscimento al mio
mestiere di designer. Oggi la situazione è molto cambiata, anche se la cultura del design
non è ancora un patrimonio così comune come si potrebbe pensare o sperare.
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Gli "arnesi” di lavoro
Quando ho cominciato a progettare il design era intuito come segno ed i suoi strumenti
erano un carboncino ed un foglio di compensato. Così passai anch’io per matite, tiralinee,
penne a china e tavolo da disegno, realizzando disegni e rappresentazioni dei progetti
sempre più raffinati. Ero preciso, meticoloso e dettagliato. Dopo qualche tempo ho
assunto una logica da “artista” del design e ho incominciato a disegnare con il pennarello.
Erano tavole di un certo effetto e convincenti, perché emozionavano il committente che
poteva vedere il futuro oggetto carico d'effetti speciali "astutamente" dosati. Poi vennero i
computer. Ne comprai uno costosissimo pensando che fosse un mezzo moderno e di
grande aiuto alla progettazione. Con ponderosissimi manuali cominciai ad usarlo
personalmente. Dopo una settimana, con otto o dieci ore d'impegno giornaliero, avevo
fatto un progetto che al tavolo da disegno mi avrebbe preso al massimo alcune ore. Non
fu questo il motivo per il quale mi venne un sentimento di rigetto verso questo
“elettrodomestico da disegno”. Dovevo andare a Milano per presentare un progetto di cui
andavo veramente orgoglioso, ma la sera prima della partenza, per colpa di un paio di
tasti sbagliati premuti per stanchezza, mi sparì tutto il lavoro fatto, sia dallo schermo sia
da hard disk. Ogni tentativo di recuperare il materiale fu vano e dovetti lavorare tutta la
notte al tavolo da disegno. Quando la mattina dopo partii per Milano, giurai di non usare
più quell’oggetto infernale. Ho, a tutt’oggi, mantenuto il giuramento per quanto riguarda le
mie mani ma non per il mio studio perché, incantato da abili venditori, ho speso centinaia
di milioni delle vecchie lire per hardware e software, più o meno utili, in grado di far
operare tantissimi ragazzi, che chiamo affettuosamente e per invidia “smaneggiatori”, su
complicati software CAD 3D. Mi sbalordiscono sempre con le loro capacità, anche se
spesso ,davanti a clienti e ingegneri, con colpi d'esile matita correggo in pochi secondi
linee o forme equivalenti ad ore di elaborazione al CAD. È come prendersi una piccola
vendetta sulle mie stesse incapacità, ma non si può fermare il progresso. Non significa un
rifiuto del mondo informatico, né che l'innovazione si debba arrestare anzi, oggi il design
professionale, si può fare solo con il computer e con i più sofisticati! Posso solo
considerare che non esistono strumenti che possano sostituire la mente umana e anche il
computer più potente non garantisce il risultato. A ciascuno le sue armi…
A me è rimasta la matita ma mi sto aggiornando.
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Bozzetto a matita di vasca ad angolo in acrilico per TEUCO con vetro e idromassaggio .
Le parti in azzurro sono in E.V.A. La cascata è ottenuta da 3 getti sorgenti dietro il
sedile. Il prototipo fu poi realizzato senza la cascata ritenuta troppo originale.
Questa specie di cabina, qui presente in un negozio di abbigliamento, è uno scanner per
ridigitalizzare in 3D un prodotto modificato manualmente dopo la prima modellazione al
CAM. Il negozio lo usava per determinare le misure antropometriche del cliente.
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Il genio del design
Parliamo allora di quello che possiamo definire un "successo". Dopo oltre 500 pezzi
immessi nei mercati nazionali ed esteri mi sento abbastanza realizzato come designer
partendo dal fatto che non ho frequentato nessuno studio ne nessun corso per formare le
mie capacità. Per questo,e solo per me stesso, posso dire che è stato un successo. Ciò
deriva solo dalla mia volontà, dal mio impegno costante nelle verifiche progettuali, nelle
evoluzioni dei mercati, nei materiali, reinvestendo quasi tutti i miei utili nella ricerca e
nell’innovazione.
Non credo nel "colpo di genio" in un progetto, salvo per piccole intuizioni, ma una
continua analisi dei dati pre progettuali e verifiche tecnico costruttive e concettuali. Non
credo ai geni naturali, salvo casi particolari di persone con un”imprinting” generato in un
contesto educativo impregnato di una determinata cultura o, particolarmente sensibilizzati
verso una creatività formale e/o tecnica. Nel mio caso, devo a mio padre questa creatività
per il fatto di non avermi mai regalato un giocattolo, e cosi, quando ero ragazzo, mi sono
costruito gli oggetti di gioco nelle officine paterne. Quelle prime esperienze manuali,
sono state molto formative. Esistono indubbiamente delle persone geniali, ma si tratta di
casi molto rari. Nella maggior parte degli altri casi, chi si definisce un genio è un
comunicatore in grado di enfatizzare le proprie idee e di venderle come se fossero
effettivamente geniali. Fanno ottima "vendita" di sé stessi, si propongono a prezzo
carissimo, come se fossero unici, e sono dunque molto richiesti e spesso i loro prodotti si
vendono anche bene.
Altri riescono a produrre ottimi oggetti grazie ad una struttura di studio ben coordinata e
con competenze specifiche articolate e adeguate attrezzature. Proprio queste ultime
strutture sono quelle che, secondo me, sono più in grado di realizzare prodotti "geniali",
creati da un team di menti pensanti in grado di concorrere alla creazione del prodotto
vincente in un mercato sempre più competitivo.
Riunioni periodiche di studio dove si scatenano le creatività individuali per la concettualità
del prodotto in elaborazione. Un coordinatore responsabile seleziona le varie proposte da
portare avanti per la presentazione al committente.
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Massa cerebrale e massa critica
Lo sviluppo economico e sociale e l'ambiente naturale, nel contesto evolutivo della mente
e delle etnie umane, sono cronologicamente connessi con lo sviluppo del peso del
cervello umano. Un amico antropologo mi ha riportato un dato interessante; L'Homo
Sapiens, negli ultimi 150mila anni, ha accresciuto la propria massa cerebrale di appena
un etto. Le interconnessioni neuronali sono cresciute invece in misura esponenziale,
portando al conseguente sviluppo della capacità di pensiero e del linguaggio, nelle sue
forme espressive.
Ad un rapido calcolo risulta evidente come, mettendo insieme due cervelli con la stessa
competenza e capacità di elaborare dati, si otterrebbe la capacità mentale di un essere di
duemilioni di anni più evoluto rispetto a noi. Pensate dove si arriverebbe con tre cervelli
uniti: un super mostro di intelligenza!! Naturalmente questo è un parallelismo puramente
teorico. Due cervelli, su due esseri umani distinti non fanno una doppia capacità
d'elaborazione, perché lo scambio d'informazioni è molto più lento rispetto alla capacità
d'elaborazione sinaptica interna ad ogni cervello. Due menti ben coordinate su un
risultato fanno comunque meglio di una sola.
Ma continuando ad aumentare il numero di componenti del team, tre, quattro o più si
raggiunge una massa critica sempre più improduttiva, a causa della difficoltà di mettere in
comune le informazioni, dell’incapacità dei singoli a gestire, nei tempi comuni,
l'espressione delle proprie idee, la compatibilità con quelle degli altri componenti del team
ma, più di ogni altro motivo, la voglia tutta umana, di emergere ed imporsi sugli altri. Il
risultato progettuale, spesso, non è il migliore, ma il frutto della persona che si è imposta
di più.
Il numero ottimale per un gruppo di lavoro conta da tre a sette persone, che
possibilmente vantino competenze variegate sulle attività relative allo sviluppo della
produzione e della commercializzazione dei prodotti industriali. Un team di questo
genere, che operi in parallelo fin dall’inizio del processo creativo e progettuale, è
potenzialmente capace di produrre oggetti di successo nel design più evoluto: i cosiddetti
prodotti "geniali" che fanno la storia del design. Devo solo aggiungere che nel gruppo ci
deve essere un coordinatore responsabile, con potere decisionale, tanto saggio e
competente da scegliere le migliori soluzioni oggettive.
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Professionista o imprenditore?
Il riconoscimento delle idee, la paternità del prodotto, ha un peso economico e morale
non indifferente e va gestito bene. Può essere marcato o con il nome della persona fisica
o con una griffe.
Nonostante ancora esista il mito della firma sul prodotto, e per molti giovani sia questa
un'ambizione, è meglio parlare di marchio o logo. L’essere umano, per sua natura, non è
immortale, e peraltro la carriera operativa rimane legata ad un tempo più o meno limitato,
determinato dalla sua massima capacità espressiva.
E’ opportuno in molti casi, specialmente se si ha uno studio importante, sostituire o
modificare la semplice firma con un marchio o logo, anche se porta il nome del fondatore.
Se questo per vari motivi si è ritirato o ha seguito il suo destino umano, l'azienda gli è
sopravvissuta e può continuare il suo iter operativo con un salto generazionale o con la
cessione dell’attività al migliore acquirente. Quando il marchio è sul mercato e si è
affermato, quando la griffe vive vita autonoma, talvolta assume un valore indipendente
dalla stessa qualità dell'oggetto "firmato". Una griffe ben amministrata è in grado di
produrre molti utili e numerose imitazioni. Il designer come persona, a quel punto, non
conta quasi più. Assume invece un peso la struttura che lui stesso ha creato. Per questo
motivo sono passato dall'attività personale alla costituzione di una impresa.
Il più famoso riconoscimento di qualità del Design Italiano ottenuto con la TEUCO nel
’98. Altre segnalazioni le ho ricevute successivamente per altri prodotti della stessa
azienda. Un’ulteriore segnalazione è stata per una specchiera della FRATELLI GUZZINI.
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Impresa di design
Per essere comunque competitivi e fare ricerca, è consigliabile trasformare lo studio
professionale in impresa di progettazione con la potenzialità di produrre prototipi e fare
ricerca avanzata fruendo, magari, dei fondi Europei stanziati appunto, per la ricerca e
l’innovazione. Per un’impresa di questo tipo occorre però un organico composto da
designer, tecnici, meccanici, modellisti, ricercatori, grafici, industrializzatori. Occorre
inoltre completare l’organico con personale amministrativo, addetti alla comunicazione e
relazioni con l’esterno, nonché un account per il reperimento di nuovi clienti.
La gestione di una tale struttura non risulta essere dissimile da quella necessaria a
rendere efficiente un azienda di piccole o medie dimensioni.
Alla base di quest’impresa ci deve essere un designer responsabile che abbia il potere
della decisione finale. Intendo dire che l’ultima parola su tutto deve essere di una sola
persona; già in due c’è il rischio di entrare in competizione se non addirittura in conflitto
ideologico, che può generare polemiche, discussioni, rotture di rapporti. Come nel campo
artistico, ogni creativo ha la propria filosofia progettuale che diventa la firma nella quale lo
studio di design si riconosce ed è riconoscibile all’esterno. Questo “Cheof designer”
coordina a livello creativo altri designer, responsabili progettuali delle varie aziende
committenti. Poi ci sono i tecnici, ingegneri o periti di diverse competenze che servono
per dare fattibilità al progetto. Sono necessari anche un project "supervisor" in grado di
coordinare designer dei vari progetti ed un capo settore della modellazione che abbia
conoscenza di tutte le tecniche di prototipazione, dai compositi alle lavorazioni
meccaniche in generale.
Per essere un buon project - supervisor, secondo alcuni consulenti giapponesi che ho
avuto modo di ascoltare, bisognerebbe avere le seguenti caratteristiche:
-
conoscere le potenzialità dei progettisti che coordina;
-
aumentare le conoscenze tecniche dei progettisti con visite alle aziende, a fiere e
convegni;
-
conoscere le metodologie progettuali più idonee allo svolgimento del progetto da
sviluppare;
-
stabilire tempi totali e parziali di esecuzione del progetto, tenendo conto delle
risorse interne ed esterne ma considerando un congruo margine di imprevisti;
-
coinvolgere i progettisti perché si esprimano con le proprie idee, senza disperdere
tempo se queste hanno tempi lunghi di verifica;
-
avere un atteggiamento mentale aperto a comprendere e gestire idee innovative.
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-
controllare sempre che lo sviluppo del progetto corrisponda agli input della
committenza;
-
disporre di mentalità progettuale portata alla massima semplificazione del prodotto
e del successivo processo produttivo;
-
assumere un atteggiamento rilassato, lasciando i propri problemi personali a casa;
-
memorizzare e riportare su altri progetti i concetti che hanno portato al successo
altri precedenti prodotti ed eliminare quelli negativi.
-
Non addossare la colpa degli insuccessi a nessuno se non a se stesso.
-
Riconoscere i meriti a coloro che si impegnano ed hanno buone idee.
-
considerare che lo studio di progettazione deve comunque fare profitto;
-
quando è possibile, intercambiare alcuni elementi dei gruppi di lavoro, per un
giusto alternarsi di esperienze;
-
fare riunioni periodiche di verifica dei progetti;
-
fare in modo che ci sia armonia e soddisfazione nello svolgimento del progetto, tra
tutti i componenti del gruppo di lavoro;
-
mai essere troppo sicuro delle proprie capacità perché non si è mai infallibili e la
presunzione può dar fastidio ai propri collaboratori.
Non è sempre facile, ma con buona volontà, con l’aiuto di consulenti, con tempo e
pazienza si arriva al giusto metodo. Metodo che deve essere personalizzato visto che
ogni impresa ha le sue caratteristiche. Oggi anche le imprese di design, come tutte le
altre, formano i propri dipendenti con corsi specifici di computer grafica, lingue e
comunicazione interna ed esterna. Spesso questi studi o imprese di design, ne generano
altre, che poi diventano temibili concorrenti, ma questo accade in tutti i settori. Anzi la
competizione fa bene, ed è stimolante trovarsi di fronte chi è riuscito intelligentemente a
lasciare l’azienda madre e a crearsi una propria identità.
Anche le imprese hanno i propri metodi progettuali e le proprie filosofie. Qualche anno fa,
quando ero presidente del CNAD (Consiglio Nazionale Associazioni di Designer) e come
tale partecipavo alle riunioni del CNEL (Consiglio Nazionale Economia del Lavoro) per
una verifica delle nuove realtà professionali, è emerso, in una di questi incontri,
l’interrogativo se esercitare l’attività intellettuale significhi “fare professione” o “fare
impresa”. Il CNEL, infatti, aveva classificato la professione di designer come servizio
all’impresa ma si tendeva anche ad inquadrare le attività professionali di questo tipo
come attività d’impresa.
Il presidente dell’ADI (Associazione Designer Italiani) di allora, non più tra noi, il Prof.
Morello, parlò dell'evoluzione di alcuni studi professionali come una nuova realtà di
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aggregazione multi disciplinare con competenze quasi totali nell’area del prodotto
industriale come marketing, grafica, design prodotto, comunicazione, fotografia,
industrializzazione e didattica. Fu molto interessante per me partecipare a questi dibattiti,
in quanto avendo in mente un’evoluzione dello studio verso questi concetti, intrapresi la
strada verso l’”impresa di design” anche se meno articolata nei campi di applicazione.
Nutrivo il dubbio che l’aumento dei costi di studio consequenziali alla struttura di
coordinamento, per altre singole attività, avrebbe generato una minore competitività con
gli studi di singoli professionisti che naturalmente sostenevano costi minori.
Ma a questo si sopperisce con una maggiore qualità dell’offerta alle imprese committenti
completata anche con un attrezzato laboratorio di prototipazione.
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Modello in polistirolo verniciato di una minipiscina con vari idromassaggi. L’elemento
verticale è previsto per una cascata, una TV ed una lampada per cromoterapia. Il
prodotto di serie, per 4/6 persone, è stata realizzata senza la cascata e senza monitor.
Il modello è stato realizzato nel nostro laboratorio
Il prodotto perfetto
Per quanto il designer sia bravo, l’azienda produttrice sia "di design" e super attrezzata, il
prodotto risultante non è mai perfetto. Il concetto del prodotto perfetto mi assilla da anni, è
qualcosa d'irraggiungibile, quasi astratto. E’ una filosofia che mi tormenta spesso, anche
inconsciamente giorno e notte al lavoro ed in vacanza. A parte tutte le considerazioni
filosofiche sulla perfezione della natura, dell’universo, di alcune regole matematiche ecc.
passando per le credenze religiose, tutti argomenti di lunghe discussioni e riflessioni,
vorrei concentrarmi sul design o meglio sul progetto di design. Mi si permetta una battuta
esemplare; un prodotto quasi perfetto lo ha fatto la natura quando dopo milioni di anni di
evoluzione ha fatto la donna. Un prodotto a diffusione globale, talvolta bellissimo ,di
grande richiesta, funzionale, con capacità interattive ma, anche difficilmente gestibile e
costoso. Se riuscissi a progettare un prodotto con queste caratteristiche mi sentirei un Dio
del design. Nel nostro lavoro, un prodotto di design perfetto deve essere bello, funzionale,
relativamente
economico,
facilmente
trasportabile,
facilmente
mantenibile,
con
imballaggio contenuto ma sicuro e riciclabile, come il prodotto stesso. Ma più ci si
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avvicina a questo e più i costi di progettazione aumentano in modo esponenziale. Allora
nonostante
attrezzature
sofisticate
di
ricerca,
progettazione,
sperimentazione,
prototipazione, produzione e collaudo per rendere il prodotto più vicino possibile alla
perfezione, ad un certo punto bisogna comunque arrendersi, perché i costi diventano
insopportabili ed i tempi d'immissione del prodotto nel mercato si allungano troppo. Il
difficile è proprio definire, prima di progettare, il punto in cui ci si deve fermare in base a
tempi e costi preventivati.
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Styling
Progettando l’estetica della forma di un oggetto si può migliorare il prodotto nel suo
insieme, esaltando la visibilità delle funzioni che diventano più facili da gestire da parte
del fruitore finale. Talvolta, per fare un prodotto bello, dalle linee pulite, si occultano o
quasi le parti dove si deve interagire, come maniglie, chiavi, leve di funzioni,ecc., con il
risultato che l’acquirente, se non legge bene le istruzioni - e non le legge quasi mai - non
riesce a usare l’oggetto. Ma l'estetica, unita alla tecnologia idonea a darle la forma giusta,
incide anche su i processi produttivi e sull’eventuale manutenzione, oltre che per il
riciclaggio. In questo processo è più difficile fare un prodotto semplice e funzionale.
esteticamente pulito e valido, che fare un prodotto più complesso, più elaborato
esteticamente, più “ricco” come immagine. In sintesi, è più facile fare un prodotto
complicato di uno semplice a parità di funzioni. Quello che dico sempre ai miei
collaboratori è: semplificare al massimo i progetti anche se sono multifunzionali. Ma
bisogna prestare attenzione a non confondere la semplicità progettuale con il
minimalismo, dimenticando la filosofia progettuale e scadendo in un approccio illogico,
manierista ed opportunistico, sebbene decantato da autori tanto comunicativi quanto
poco progettuali.
Il successo di un prodotto è condizionato dalla sua estetica, come abbiamo già detto, ma
che può essere fortemente condizionato dal tipo di prodotto stesso. Se il prodotto è del
tipo destinato ad essere sostituito ogni 10 – 15 anni avrà un'estetica del tutto differente da
uno di durata stagionale o annuale. Ad esempio una serie di servizi da bagno, un divano
di pelle, una cabinato a motore o a vela avranno linee estetiche non condizionate da
mode come un telefonino cellulare o un piccolo apparecchio elettronico. In generale,
questi oggetti, si devono adeguare alle tendenze stilistiche vincenti e del momento a ciò
che l’innovazione tecnologica impone come “must” in termini di ergonomia e funzionalità.
Quando progettiamo un prodotto nel nostro studio abbiamo l’abitudine di esplorare, come
ricerca commissionata e non, ogni possibile scenario applicativo, formale e d’uso. In
questa ricerca di studio, fatta con tutti i miei collaboratori a cadenza settimanale,
proponiamo idee anche divertenti, in quanto escono soluzioni talvolta assurde e piene di
comicità applicativa ma che servono alle menti dei creativi per sviluppare idee più
immediatamente realizzabili. A questo proposito, la regola è che lo sforzo creativo deve
essere contenuto entro le due ore giornaliere e per il resto del tempo si fa una semplice
verifica grafica su quello che si è ideato. Credo che questo nostro sistema sia
fisiologicamente adatto alle normali potenzialità cerebrali.
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Se si parla di styling, si parla comunque di fare cose belle: nonostante la bellezza sia
soggettiva, resta l’obiettivo principale dello styling.
Talvolta l'estetica è influenzata dalla moda o da culture etniche, altre volte da correnti di
pensiero o religiose. Molti scritti e pubblicazioni sono stati realizzati sull’argomento
bellezza: sulla domanda, cioè, di quali siano le caratteristiche di un oggetto bello. Alcune
di queste pubblicazioni sono state oggetto delle mie attenzioni, ma devo dire che quasi
nessuna mi ha convinto del tutto. Allora ho dovuto fare alcune considerazioni che poi
sono state fondamentali nel mio lavoro ed ho pubblicato in proposito un articolo sulla
rubrica nella rivista “Il Bagno” che qui trascrivo.
Bozzetto a matita per una rubinetteria in alluminio verniciato. La bocca di erogazione è in
silicone colorato anticalcare con uscita dell’acqua semicircolare. Questo modello da
lavabo fa parte di una collezione mai andata in produzione.
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Sexy design. Ovvero cosa fa bello un oggetto
La capacità di lasciare testimonianza delle proprie idee e sensazioni ha riempito
biblioteche e pinacoteche di opere impegnate più o meno direttamente a descrivere cos’è
la bellezza. Esito a parlare di bellezza umana, perché non è l’argomento di questo scritto.
Anche se in proposito avrei qualcosa da dire, dato che in qualche modo rientra nel
concetto del bello degli oggetti e delle cose che ci circondano. Molto si è detto e scritto
sulla bellezza degli oggetti artigianali e, successivamente, dei prodotti industriali. Ma che
cos’è il bello, quale sensazione ci proviene da un bell'oggetto? Per molto tempo si è
identificato il bello con la natura, imitata e ricreata nei decori, nei fregi, nelle stilizzazioni,
nei colori e nelle forme di molti oggetti. L’estrema razionalizzazione dei nostri tempi ha
rarefatto sempre più le citazioni della natura, riconoscendo sempre maggior valore alle
forme geometriche pure. Come dire che l’evoluzione culturale e industriale ha pulito linee
e forme, facendoci perdere quei riferimenti sui quali abbiamo codificato il nostro concetto
di bellezza per molti secoli. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a fare il designer,
mi sono chiesto dove avrei potuto trovare i riferimenti per l'elaborazione di progetti,
funzioni, tecnologie e materiali che mettono un oggetto in grado di sedurre il consumatore
spingendolo all’acquisto. Una prima risposta l’ho ricavata dall’interpretazione della teoria
Freudiana sulla figura materna e sugli inconsci riferimenti al sesso.
Tenendo presente che i riferimenti alla maternità e al sesso nella coscienza collettiva non
tramontano mai, il richiamo all’imprinting delle rotondità materne, del suo calore e colore,
dalla sicurezza e dal piacere che queste forme ci davano, è stato un preciso riferimento,
quasi istintivo. Faccio spesso, lavorando su questi concetti, forme morbide, smussate,
raccordate tra loro con inserti di materiali soffici, accoglienti, che oltre ad essere funzionali
sono anche considerati particolari piacevoli e belli. Considerando poi che in noi c’è anche
un po’ di narcisismo e siamo portati a fare coppia, aggiungo cristalli, specchi, vasche e
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docce a “due piazze”. La natura la riprendo ancora con i suoi profumi, con le varianti
cromatiche della luce del sole, dall’alba al tramonto, con il colore dei boschi in autunno
,con il colore del mare e del cielo. Cosi nei progetti, da molti anni specialmente nel bagno,
aggiungo aromaterapia, vapori e luci cromoterapiche che ricreano sensazioni di
benessere e intimità, che ognuno interpreta a suo piacimento. Ovviamente all’inizio, oltre
trent’anni fa, incontrai una certa resistenza da parte delle aziende produttrici ai miei
riferimenti, cosi diversi dal classico concetto di bello. Perseverando diabolicamente nella
mia convinzione, la risposta positiva me l’hanno data gli ottimi riscontri provenienti dal
mercato.
Sempre più spesso il mercato dà per scontato che la tecnologia abbia raggiunto una
maturità di prestazioni e sicurezza che supera ogni diffidenza del pubblico. Perciò è
normale che l’attenzione dell’acquirente si rivolga verso ciò che piace come le forme, il
colore, la moda, orientandosi spesso verso prodotti status symbol, il cui contenuto tecnico
è spesso sconosciuto (a meno che la tecnologia non sia la caratteristica su cui punta tutta
la comunicazione). A questo proposito parlo di un fatto personale. Sono socio di una
società di progettazione navale e fra i soci c'è un bravissimo ingegnere navale. Quando
un armatore ci commissiona una barca, generalmente sopra i 25 metri, indica una serie di
caratteristiche per l’oggetto dei suoi desideri: lunghezza, numero di cabine, velocità,
autonomia ecc. Io m'interesso del design, cioè della linea esterna e l’ingegnere di tutto il
resto a partire dal tipo di carena, motorizzazione, materiali, strutture, impianti, prove su
modelli. Nei primi incontri, spesso anche nei successivi, quello che interessa l’armatore è
solo l’aspetto estetico, se piace a lui o a sua moglie (o alla sua amante). Solo
distrattamente chiede qualcosa circa la potenza dei motori. Naturalmente questo fa molto
dispiacere ai progettisti che elaborano i vari esecutivi tecnici e si prendono le loro
soddisfazioni solo alla fine, mostrando i risultati dei collaudi e delle prove in mare a barca
varata. Ma torniamo allo styling o, in altre parole, all’estetica del prodotto e alla morfologia
degli oggetti (la loro forma). E’ importante per un designer lavorare su settori di mercato
diversi, in quanto riesce a cogliere le filosofie stilistiche che possono essere applicate
nell’ambito
del suo interesse in quel momento. Questa capacità di percezione è
sicuramente vincente, in quanto analizza gli atteggiamenti ed i gusti del compratore, che
ricercherà inconsciamente quelle linee anche in altre tipologie di prodotti. Per fare un
esempio, chi compra un tipo di macchina con linee piuttosto squadrate e geometriche,
comprerà anche una vasca da bagno o un frigo con le stesse linee che a lui piacciono. Si
chiamano "matrici di successo", sono schemi di analisi di mercato che prendono spunto
dalle forme e dalle linee prevalenti in un dato momento. È almeno altrettanto importante
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trasmettere con il proprio design quell'emotività, quell'impulso all’acquisto che nasce da
un bisogno non reale ma psicologico di possedere quell’oggetto a tutti i costi.
Questo concetto sembra agire sulla manipolazione dei consumatori. In realtà il marketing
non crea desideri, li fa emergere. Si chiamano "insights", desideri che il consumatore
possiede ma non sa di possedere. Questo schema per far riemergere gli insights è oggi
alla base del mondo occidentale, un approccio economicamente vincente e di cui non si
può non tenere conto quando si progetta per l'industria. La creatività, o meglio la
"caratterizzazione" della creatività, è un fatto soggettivo o di griffe di studio. Ed è giusto
che sia così, perché per la riconoscibilità del prodotto e la sua differenziazione nel
mercato, considero importante che la firma abbia un valore riconosciuto.
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Bozzetti per copricostume griffato TEUCO. In spugna con bordature verde TEUCO, fa
parte di una collezione da proporre nei centri di vendita TEUCO insieme ad altri prodotti
griffati.
.
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Il design per il lusso
Nella mia carriera, ho vissuto alcuni periodi di crisi economiche, nazionali e globali.
Ho potuto constatare in queste occasioni, che i miei progetti di alta gamma non subivano
quelle crisi di vendita che investivano principalmente i prodotti di fascia media e medio bassa. I prodotti economici, in quei periodi e statisticamente parlando, subivano solo lievi
flessioni commerciali, evitando i crolli finanziari delle aziende produttrici. Erano, queste
aziende, generalmente non orientate al design ma solo fabbriche di oggetti facilmente
producibili, con grandi numeri di pezzi e con poco valore aggiunto. Avendo pochi utili,
naturalmente non investivano in ricerca e innovazione ma, anzi , andavano su prodotti
scopiazzati da altri presenti sul mercato da anni, apportando solo piccole modifiche per
non incorrere in rivendicazioni legali per plagio.
In quest’ultima crisi, quella chiamata più o meno impropriamente “crisi dell’Euro”, le cose
stanno leggermente cambiando. Il mercato basso e medio basso se lo è accaparrato
l’oriente, come Cina, Corea e India facendo anche prodotti di buona qualità. Ma di questo
ne parleremo più avanti. Il prodotto di fascia media ha subito un crollo di vendite derivato
dal fatto che le fasce sociali alle quali erano rivolti, vivono un’insicurezza economica
notevole che non invoglia all’acquisto. Rimane la fascia alta, il vertice della piramide
bocconiana del mercato. E’ la fascia del lusso, delle grandi firme e di chi , nella crisi,
vuole dimostrare che può, che appartiene ad una classe sociale di pochi eletti. Questo
segmento del nuovo lusso, chiamato dagli esperti col termine inglese di trading up,
rappresenta una delle poche speranze delle industrie occidentali per arginare il pericolo
giallo. Questo mercato è formato da prodotti di numero limitato di pezzi, stilisticamente
innovativi, frutto di ricerca tecnologica nei materiali e nelle funzioni, con alto valore
aggiunto. Prodotti griffati, molto comunicati nei giusti media, se li contendono i rampolli
della new generation che avendo ereditato i capitali creati dai loro genitori, preferiscono
goderseli piuttosto che reinvestirli nell’azienda. E’ un fenomeno naturale, presente in ogni
generazione della nostra storia economica. Il ciclo attuale è derivato dalla ricostruzione
post bellica dove l’economia partiva da zero, dove gli uomini che l’hanno creata, oggi
non esistono più, almeno in termini operativi.
Quanto detto sopra è più un discorso di marketing che sembra esuli dai concetti di
design, ma non è proprio così. Il settore del lusso è spesso un mercato dove la cultura del
design è fortemente presente. Anche nei mercati ad economia emergente, come Russia
e Asia, gli oggetti di marca rappresentano uno status symbol e sono in forte espansione.
Quello del lusso è un mercato raffinato di prodotti griffati, ambito anche da chi non vi può
accedere, ma che comunque rappresentano un riferimento anche per le fasce medie. Ed
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è nei prodotti firmati che i designer devono, di più che in ogni altro settore, impiegare tutte
le loro risorse creative e culturali. Per l’Italia il ” trading up” è una grossa opportunità.
Esposizione della Minipiscina con oblò TEUCO all’evento EUROPEAN EXHIBITION
SPA presso il Forum Grimaldi con l’intervento del Principe Alberto di Monaco.
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Materiali nobili ed eco-compatibilità
Nel dare al prodotto tutte quelle caratteristiche di esclusiva emotività, il designer deve
anche tenere conto nel progetto anche del rispetto dell’ambiente, impiegando materiali
non inquinanti ed eco compatibili. Questo non è solo un problema dei produttori ma
anche di noi designer che dovremo dare tutte le indicazioni sui materiali e sui sistemi
ecosostenibili. E’ anche una questione di cultura progettuale e di coscienza per il futuro
del nostro ambiente. Da diversi anni navigo con il mio trimarano e devo purtroppo notare
che anche i mari più remoti e apparentemente ignoti al turismo di massa, sono inquinati
da plastiche che vagano per anni, trasportate dalle correnti. Sono plastiche che potevano
essere riciclate per farne altri oggetti di uso pubblico e privato, come arredi urbani,
contenitori vari per la casa e l’industria,ecc.. Mi sono quindi sentito tirato in causa in
qualità di progettista, pensando attivamente a soluzioni di recupero e riciclo di plastiche a
fine uso. Ci sono moltissime iniziative politiche e private rivolte a sensibilizzare l’opinione
pubblica e l’imprenditoria privata verso questo problema. Già da qualche anno alcune
aziende producono oggetti per diversi usi, con materiali riciclati e quasi tutte le case
automobilistiche riciclano i componenti in plastica delle auto in rottamazione più volte.
Questo significa che questi componenti in plastica, in ogni riciclo, vengono impiegati per
fare componenti sempre meno importanti, meno visibili e meno sollecitati strutturalmente.
Quando questi sistemi o meglio,questa cultura industriale, saranno abituali in ogni
impresa, forse le qualità ambientali miglioreranno ma solo se accompagnate da quella
cultura sociale evoluta che dia un alto rapporto di recupero differenziato dei rifiuti
industriali e urbani. Alcuni ecologi disprezzano le materie plastiche (ma il petrolio da cui
derivano si trova in natura) a favore di materie naturali come legno, vetro, marmo, metalli
ecc.. Forse però non tutti sanno che tagliare il legno dei boschi per fare oggetti d’uso su
grande scala non significa rispetto dell’ambiente, ma un implemento per la
desertificazione, verso la quale ci stiamo rapidamente muovendo, pena di mettervi un
freno sostanziale tramite rimboschimenti e coltivazioni controllate.
Per i sostenitori delle materie naturali come il legno, queste essenze di facile crescita
sarebbero in grado di sopperire al fabbisogno di molti settori industriali, dal mobile
all’edilizia. Statisticamente ciò non è per niente vero. Inoltre, la maggior parte delle volte
questi materiali non sono esteticamente gradevoli, perché danno un'impronta troppo
rustica, o "tenera", perché sono facilmente deperibili, specialmente se non trattate.
Alcuni di questi materiali poi, come il vetro e i metalli, impiegano tecnologie di
trasformazione ad energia termica di alto impatto. Per le materie plastiche serve solo il
10% dell’energia necessaria per la trasformazione commerciale di vetri, metalli o
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ceramiche. Il problema delle plastiche va rivisto socialmente, attuando ed insegnando
comportamenti di rispetto dell’ambiente, dapprima nelle scuole e poi nel mondo lavoro.
Progettualmente parlando, rispetto a qualche decennio fa, le cose si sono evolute. Un
esempio pratico: spesso nell’assemblare i componenti di macchine fabbricati con
materiali molto diversi tra loro si ricorreva all’incollaggio. Il risultato era che una volta
esaurita la “vita” del prodotto, non era più possibile recuperare i componenti e l’unica
soluzione per smaltirli era quella di gettarli via in una discarica. Oggi si progetta il prodotto
di serie pensando al riciclaggio, sia tramite l'assemblaggio con viti, incastri e altri sistemi
di facile scomposizione dei componenti, omogenei o compatibili, per il riutilizzo, sia
pensando ad un prolungamento del ciclo di vita del prodotto, attraverso la progettazione
avanzata: un più attento calcolo delle sollecitazioni in gioco, la riduzione della quantità di
materia prima, l'aggiornamento di componenti che mantengono il prodotto sempre
competitivo e nell’interesse del fruitore sono alcuni dei punti salienti della progettazione
"eco-attenta".
Questi concetti, fin troppo divulgati da ricercatori e mass media, ma poco attuati da
imprenditori e progettisti di piccole aziende, dovrebbero essere stabiliti per legge e non
arbitrariamente applicati da poche aziende di medio - grandi dimensioni. Aziende come
Teuco hanno fatto investimenti in questo campo, che incidono notevolmente sul costo dei
prodotti. Il beneficio è poco visibile per il consumatore, che spesso guarda solo alla
politica di prezzo di altre industrie, specialmente orientali, che non prestano alcuna
attenzione al riguardo. Sono noti i disagi della manodopera, l’inquinamento ambientale e
la mancanza di normative di sicurezza in cui operano le industrie cinesi, coreane e
indiane. Anche questa è una forma di concorrenza, più subdola e sleale. Credo tuttavia
che nella coscienza di tutti, specialmente imprenditori, progettisti e designer, sia più
sentito il rispetto del contesto ambientale nostro e delle future generazioni. Ogni
cambiamento ha un prezzo, dobbiamo pagare un po’ di più quei prodotti che rispettano
l’ambiente, fino a che tutti non si comporteranno nello stesso modo!
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Normative e marchio di qualità
Ogni volta che si progetta un oggetto dove è presente l’elettricità, oppure un giocattolo
per bambini, o una macchina utensile, ancor di più un mezzo di trasporto e tante altre
cose d’uso quotidiano, occorre tenere presente alle normative in vigore in quei settori
specifici. Sono regole create per rendere più sicuri gli oggetti che fanno parte del nostro
ambiente, evitando, per quanto possibile incidenti causati dall’ oggetto stesso nel suo
uso. Se l’impianto elettrico non è fatto,
come si dice, a regola d’arte, per cui può
provocare un corto circuito con principio d’incendio, oppure un giocattolo è costruito con
un materiale non idoneo o peggio ancora nocivo per la salute, il prodotto non può essere
immesso sul mercato. Quasi tutti i prodotti industriali devono passare il collaudo di
certificazione che in Europa è contrassegnato con il marchio CE come Comunità Europea
e non il simile come Cina Export. Questi collaudi e i relativi marchi sono eseguiti e
rilasciati da istituti di certificazione presenti nel territorio nazionale oppure dalle stesse
aziende produttrici a loro volta certificate nella loro idoneità a fare prodotti che rispondano
a quelle normative di sicurezza. Il tutto marcato e descritto nel manuale d’uso
obbligatorio, di cui è corredato il prodotto.
Attenzione a non confondere il Marchio di
Qualità sul prodotto con il Certificato di Qualità ISO 9000, rilasciato all’azienda
produttrice che certifica il processo produttivo e non il prodotto.
A questo punto, un lettore apprendista designer dirà: ma questi problemi sono più di uso
ingegneristico che di design!
Ciò è corretto, ma il designer è utile che sappia dell’esistenza di tali problematiche sia per
cultura personale, sia per meglio impostare ed ottimizzare un progetto a monte, in
quanto, molte volte, risultano essere fortemente condizionanti nei confronti del design di
un oggetto.
Il designer è invece totalmente responsabile nel rendere sicuro l’utilizzo di un oggetto,
attraverso le forme ed i materiali impiegati.
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Design sicuro
Da qualche anno e solo nel settore arredamento la filosofia progettuale di moda è il
minimalismo. C’è stata, e ancora prosegue, una fioritura di prodotti dalle linee semplici,
squadratissime, spigolose e con pochissime funzioni.
Prodotti puliti, belli da vedersi,
ispirati al tradizionale stile giapponese ma surdimensionati rispetto a questi, che hanno
riscosso un buon successo di mercato, specialmente nel settore alto. Non credo di
sbagliarmi se dico che questo stile è nato da architetti che sono entrati nel design
mettendo nei loro progetti quella cultura architettonica
edile di tipo cubista, dalla
geometria elementare. Facile da progettare, anche con strumenti semplici e tradizionali,
non occorre da parte del progettista, una competenza verso i materiali tradizionali del
design, come ad esempio le materie plastiche e le loro tecnologie produttive.
Io non ho mai disegnato prodotti di questo tipo perché, anche se piacevoli, ritengo che
nella maggior parte dei casi sono mobili ed oggetti pericolosi. In casa, in ufficio e ancor
più in bagno ci si muove non con abiti dotati di paraurti e battere contro quei spigoli
acutissimi è sicuramente fonte di piccoli e talvolta grandi traumi. Quei letti bordati da
tavole dagli angoli acuti e quelle mensole da bagno con le stesse caratteristiche dove ci si
approccia a pelle nuda, dovrebbero essere venduti con una polizza assicurativa anti –
infortuni. I designer dovrebbero avere una deontologia professionale basata anche sulla
sicurezza d’uso dei prodotti ideati. Quella minimalista è una filosofia che crea dei
bellissimi prodotti da vetrina ma che portati a casa, oltre che pericolosi sono anche poco
pratici. Non si sa dove mettere le proprie cose se non in bella vista e in balia della
polvere, con il piacere di aumentare i problemi di pulizia Molte industrie, specialmente
quelle piccole, non tengono conto di tutto questo ; per loro è importante vendere senza
porsi tanti problemi fino a che qualcuno li chiama in causa per danni fisici. Le grandi
industrie automobilistiche mondiali non producono auto squadrate, spigolose e
minimaliste, fatte con i cosiddetti materiali nobili tipo legno o acciaio inox. Loro le prove di
pericolosità, verifiche ergonomiche, riciclaggio dei componenti le fanno e le fanno per un
corretto e sicuro uso da parte di quegli esseri umani
che comprano poi gli oggetti
d’arredo minimalista e che vivono nello stesso ambiente naturale Oggi, il mercato o
meglio dire il compratore, compie l’acquisto spesso non per bisogno ma per l’emotività
che emana l’oggetto, magari di moda, dal quale scaturisce il desiderio di possesso che
non ti fa vedere i lati negativi e pericolosi dell’oggetto stesso. Questo fenomeno mentale è
lo stesso che vale per il fumo delle sigarette, per le droghe in generale e…per l’amore.
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Non per quest’ultimo ma per gli altri fenomeni irrazionali, lo Stato interviene, perché non
potrebbe pensare a regolamentare anche il design? Credo che si potrebbero pensare
anche a delle normative sull’estetica dei prodotti d’arredo per avere una maggiore
sicurezza d’uso. Già mi vedo le reazioni e le ire funeste a queste mie considerazioni. .
Questo scrittoio faceva parte di una collezione di pezzi (scrittoio, librerie componibili,
fioriere, panchette,ecc.) realizzati in amianto e cemento. Li avevo disegnati negli anni ’70
in uno dei periodi di crisi di petrolio e con il desiderio di un materiale alternativo alle
materie plastiche e che fosse più ecologico. In un’incontro con l’architetto Nervi, uno dei
grandi geni dell’architettura strutturale di quegli anni, mi parlò di alcuni esperimenti che
stava facendo , mescolando cemento e resina poliestere per costruire imbarcazioni per
lavori costieri. Gli parlai delle mie ricerche di nuovi materiali e lui mi suggerì di andare
dalla ETERNIT di Alessandria, produttrice del materiale omonimo, e di proporre quelle mie
idee per fare arredi per la casa e l’ufficio. I dirigenti di quella società accolsero con
entusiasmo l’idea e realizzarono dei modelli per esporli in Triennale a Milano. Nello stesso
giorno di apertura della mostra tutti media pubblicarono la notizia che l’amianto era
fortemente cancerogeno!
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Design etnico
La materia del design, come si è visto, è molto complessa. Design in inglese significa
progetto, progetto in italiano significa disegnare una forma, un oggetto, determinare le
sue caratteristiche estetiche e funzionali.
Tutto questo può essere più o meno
approfondito e complesso ma alla base bisogna capire cosa disegnare, cosa progettare e
perché, con quali caratteristiche e per quale mercato. Oggi è fondamentale, prima di
prendere la matita in mano (o meglio: il mouse),sapere in quali mercati sarà distribuito il
prodotto che stiamo progettando. Ormai in ogni parte del mondo ci sono aziende
produttrici, ognuna delle quali ha un suo mercato specifico invaso da prodotti provenienti
da altri paesi. Spesso un oggetto che riteniamo di produzione locale e per cui ha anche
valore di ricordo,dall’etichetta (non sempre presente) ci rivela che l’oggetto è fabbricato in
un’altra parte del globo. Si è fatto un gran parlare di globalizzazione, di prodotti presenti in
quasi tutti i mercati mondiali, fabbricati con grandi investimenti, a basso costo. Questi
prodotti vengono poi distribuiti con imballaggi sicuri e complessi che incidono
sensibilmente sul prezzo dell’oggetto. Se nei prodotti elettronici, nel campo delle auto e
delle macchine utensili ancora è così, ed è giusto che sia cosi dato l’alto valore
tecnologico insito in questi casi, nei prodotti più semplici come l’oggettistica e l’arredo, o
anche l’abbigliamento e l’alimentare, le cose stanno leggermente cambiando. Gli esseri
umani, per loro natura, hanno bisogno di riconoscersi in etnie e culture d’appartenenza e
solo una minima percentuale accetta di normalizzarsi in uno standard, ad esempio di tipo
occidentale, europeo o americano. Le attività artigianali condotte con attrezzi
caratteristici, con materiali locali elaborati, tramandate nei secoli da molte generazioni,
sono indicatori estetici da recuperare. Perderle significa cancellare per sempre quelle
culture originarie che sono patrimonio storico non più recuperabile. Perché allora non
fare un design che tenga conto delle tradizioni proprie di ogni popolo o regione? Si può
fare un progetto che consideri quei valori, applicandoli ai processi industriali, magari
meno complessi e con l’utilizzo di mano d’opera tradizionale, le cui conoscenze non si
esauriscono nel passaggio da padre a figlio, ma diventano valore aggiunto dell’azienda. Il
design etnico può dare qualità al prodotto locale che agirà principalmente sui mercati
regionali, ma non solo, garantendo qualità e origini controllate, ben progettati nella loro
funzionalità e sicurezza d’uso. Agendo nell’area d'interesse della cultura nella quale si
riconosce si eviterebbe l’aggiungersi di troppi imballaggi costosi ed inquinanti, di sempre
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più difficile smaltimento. Una percentuale di questi prodotti, con un adeguato packaging e
campagna pubblicitaria, potrebbe essere oggetto d’interesse turistico e di comunicazione
di
cultura, da quei territori d’origine. Per individui lontani dalla loro terra
d’origine,piacerebbe
ritrovare nel design, anche la loro cultura nella nuova terra di
residenza. Tutti concetti, questi, enunciati da illuminati sociologi in diversi convegni,
mostre e manifestazioni, molte organizzate dai miei amici designer del Sud Italia, in
particolare da AD CALABRIA, associazione calabrese.
Quando ero Presidente del CNAD (Consiglio Nazionale Associazioni Design), quella più
attiva fra le varie associazioni federate, con iniziative finanziate in proprio, era appunto
AD CALABRIA. Dinamismo, voglia di concretizzare le proprie idee nella cultura e nel fare
design caratterizzavano quel gruppo di architetti guidati da loro presidente, Nunzio
Tripodi. Parlo volentieri di questa associazione anche per dislocare il design italiano non
solo nel territorio lombardo ma spalmarlo nel resto dell’Italia. E’ sempre stato un mio
impegno al di fuori di particolari interessi di potere e forse solo perché non sono milanese.
Il loro coinvolgente entusiasmo mi ha sempre fatto sentire uno di loro, ma data la mia
lunga esperienza professionale mi hanno attribuito qualche responsabilità morale in più
verso la professione e la cultura del design. La missione, di cui a volte mi sento
interprete, è quella di fare di Reggio Calabria un polo di riferimento per il design
mediterraneo che va da quello milanese a quello del nord Africa, dove il termine "design"
è quasi sconosciuto. A questo proposito, tra le principali iniziative degli entusiasti amici
reggini c’è stata la fondazione di una scuola di design, che riunisca le culture del bacino
del Mediterraneo per confrontarle con quelle di altre zone europee e per accogliere i suoi
studenti, preparandoli con sistemi didattici avanzati, docenti preparati ad una progettualità
nella quale si intravede l’interpretazione della cultura locale in una moderna filosofia di
prodotto dove estetica e funzionalità sono ben miscelate. Sempre là dove è fortemente
presente quel design etnico di cui parlano anche gli operatori economici, immersi
quotidianamente nel problema di superare il gap tra teoria e pratica che spesso si verifica
tra scuola e lavoro. Chi uscirà da questa scuola di design sarà immediatamente pronto ad
operare nella catena dei processi industriali, con un bagaglio di esperienze conoscitive
ma anche pratiche, fornite da lezioni e workshop operativi. Sarebbe di certo un’ottima
soluzione per far crescere un’economia semi - industriale in luoghi dove disoccupazione,
arretratezza economica ed imprenditoriale rendono difficile un modello produttivo di tipo
mitteleuropeo, che il design nord italiano caratterizza in modo efficace.
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Il benessere
Fino a qualche anno fa, fare design significava creare un prodotto di serie che unisse
funzionalità, styling e tecnologia con caratteristiche di innovazione e originalità. E’ una
regola di base ancora valida per fare design ma, come ogni regola, può evolversi nel
tempo adeguandosi alle nuove situazioni, anche sociali. Così nella facile analisi dei
problemi quotidiani che ci coinvolgono (malessere, inquinamento, tensione, stress, cattiva
alimentazione e disagi di ogni tipo), i designer stanno orientando i loro progetti sempre di
più verso il “benessere”. Inteso come creazione di prodotti che migliorano le condizioni di
vita in casa, in ufficio, nei mezzi di trasporto, nella comunicazione, nel gioco,
nell’intrattenimento e cosi via. E, da qui,
automobili sempre più comode, silenziose,
meno inquinanti, più ergonomiche e sicure. Arredi più facili da usare, più confortevoli, più
facili da pulire, anche più profumati. Poltrone massaggianti con musicoterapia, oggetti
elettronici per aromaterapia naturale e rilassante, docce e vasche con cromoterapia,
idromassaggi con saune, bagni turchi, magnetoterapia, prodotti da home fitness od office
fitness. Si creano sempre più nuovi scenari di mercati e di economia. E’ da qualche
decennio che lavoro su questi concetti e sui quali faccio le mie analisi e considerazioni.
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Ci sono alcuni prodotti, come questo nella foto chiamato semplicemente TV a pedali,
concepiti solo per comunicare un concetto, una filosofia, o magari solo per esprimere
una propria opinione come questa: Perché dissipare l’energia umana che si sviluppa
quando una persona fa la ciclette? Perché non recuperarla, producendo energia elettrica
per alimentare p. es. una TV? La TV stessa potrebbe mostrare programmi registrati di
fitness o di paesaggi da visitare come quando si va in giro pedalando con una vera bici. Il
tutto contenuto e occultabile in un mobile ad angolo perfettamente integrato nell’arredo
domestico. Eseguito nel nostro laboratorio in occasione della rassegna veronese “Abitare
il tempo “ del ’99.
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I CICLI: storia e approccio
Nel corso delle mie ricerche professionali ho sempre trovato molto interessante lo studio
della vita dei prodotti. Il ciclo di vita di un prodotto si estende dal momento in cui questo è
immesso sul mercato fino a quello della sua uscita. Ma non soltanto di ciclo economico si
parla, esistono anche e soprattutto i cicli storici. Questo preambolo intende introdurre una
riflessione personale, nata alcuni anni or sono mentre analizzavo il “sistema bagno”. Non
è semplicemente un’area domestica, quella del bagno, che continua a svilupparsi e
seguire la moda. Il concetto di bagno come luogo di cura personale ha avuto origine nelle
terme dell’antica Roma. Quello del bagno è un ciclo di cultura sociale che dura perlomeno
da alcuni millenni. Dopo il Medioevo, anni nei quali l’igiene e la cura del corpo
rappresentavano a volte un momento di conflitto con la morale religiosa, la situazione
oggi è fortunatamente molto diversa. Le terme sono state riscoperte, così come tutte le
attività collaterali legate al raggiungimento del benessere e perfino della gioia. Dal fitness
al wellness e fino all’attuale “joyness”: forma fisica, benessere, gioia. Tutte queste parole
sintetiche includono una serie di funzioni che vanno dall’idromassaggio alla cromoterapia,
dalla musicoterapica ad aromaterapia e cristalloterapia eccetera. I progetti di prodotti da
bagno e per impianti termali includono saune, bagni turchi, cascate, massaggi vibranti e
shiatsu per finire, appunto, nel joyness: il concetto di piacere. Forse prima o poi
arriveremo a livelli di commistione funzionale così avanzati da approdare al concetto di
felicity o all’ecstasy, che non è la droga sintetica ma una serie di sensazioni quasi
paradisiache, che potrebbe chiudere il ciclo storico dell'impatto della religione sull'igiene
personale in modo sorprendente.
Sappiamo che gli antichi romani avevano a disposizione più acqua pro-capite rispetto a
noi, circa 270 litri contro i 70/100 attuali per le zone occidentali di clima temperato e
socialmente sviluppate. Nel “sistema romano” le funzioni di benessere erano garantite
dall’impiego di schiavi, impiegati per provvedere a ogni aspetto, dai massaggi alle
ventilazioni, dagli impacchi caldi e freddi con erbe varie, fino alle profumazioni ambientali.
Oggi queste figure sono state sostituite da schiavi meccanici, sofisticati meccanismi
gestiti da un'elettronica sapiente “incastonata” in materie plastiche di ogni qualità e
aspetto. Dalle superfici color bianco candido al finto marmo, dagli accessori morbidi agli
inserti in finto legno, si spazia tra infiniti disegni ornamentali.
Tuttavia, la fondamentale differenza tra l’epoca romana e quella odierna è che la nostra
tecnologia, tendente a miniaturizzare i sistemi, riesce a trasportare quasi tutte le
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funzioni,un tempo fruibili solo nei centri benessere fino al privato, in casa. Nei tempi
antichi solo le grandi ville private potevano allestire luoghi di benessere come quello che
oggi è tranquillamente realizzato in pochissimi metri quadri all’interno delle nostre
abitazioni. La rivoluzione portata dalla tecnologia è, evidentemente, dovuta alla possibilità
per il ceto medio e non solo per chi dispone di redditi elevati, di avere un piccolo centro
benessere privato o a portata di mano, visto la grande diffusione nel territorio.
Nei nuovi centri hanno anche fatto la loro comparsa numerose macchine che
abbronzano, disintossicano, massaggiano, rilassano, coccolano, insomma, ti rivitalizzano
e ti profumano. Si stanno diffondendo sempre di più nei paesi occidentali, sempre di più si
attrezzano con sofisticatissime macchine di benessere che trasmettono sensazioni come
quelle che madre natura ti fa vivere solo in luoghi tropicali di cultura esotica, o nei sogni
promossi dalle agenzie di viaggi.
Anche i nomi degli attrezzi richiamano questi concetti: docce tropicali, poltrone shiatsu di
cultura orientale, percorsi sensoriali ludico-dinamici, saune finlandesi, distributori di tisane
tonificanti, tutti contribuiscono a sognare situazioni paradisiache nelle quali immergersi
completamente.
La continua ricerca da parte dei grandi produttori come Teuco, Jacuzzi, Albatros ecc.,
tanto per citarne alcuni nazionali, sta nel produrre attrezzature di “benessere domestico”
che si avvicinano sempre di più a quelle professionali presenti nei centri benessere.
Queste strutture che vanno sostituendo le vecchie palestre, che miravano al semplice
sviluppo muscolare degli iscritti.
Credo che sia interessante, per chi sta leggendo queste righe, sapere quali sono le nuove
tendenze e quale è la disponibilità di attrezzi presenti sul mercato per rimodernare il
proprio bagno o per crearsene uno nuovo, quasi un piccolo stabilimento termale privato.
C’è veramente "di tutto e di più": dalla cura dell’igiene a un vero processo di
rigenerazione psicologica. Superato l’uso semplicemente quotidiano, la vasca da bagno
si è dapprima evoluta fino all’idromassaggio con ultrasuoni. Oggi fa piacere pensare di
impiegare una vasca anche per passare piacevolmente il tempo libero in un'ora di relax.
Meglio se doppia ed attrezzata: ci si annoia di meno e se si ha un giardino o un patio o
una terrazza con solaio resistente, una bella minipiscina da usare come salotto acquatico.
E’ il massimo piacere per la famiglia e gli amici che si possono immergere nell’acqua
abbandonandosi alla terapia dell’idromassaggio. I modelli più grandi permettono di
effettuare esercizi di fitness acquatico con cyclette immersa e nuoto controcorrente, e
sono attrezzati con TV con megaschermo e con una cascata che ricorda un ambiente
naturale. Godibili dalla primavera all’autunno, non occupano molto spazio (circa 6 mq) e
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hanno impianti autonomi di disinfezione e filtraggio dell’acqua. Queste mini - piscine con
molti accessori sono l’ultima tendenza per chi può permettersi di investire nella
realizzazione di ambienti che non sono più soltanto dei “bagni”, ma spazi un tempo
appartenuti al “salotto” o al soggiorno. Oggi contengono macchinari evoluti e complessi
che potremmo ancora chiamare docce anche se la funzione-doccia è solamente una
delle tante disponibili.
Caldaie, luci riscaldate, radio ecc. ne fanno oggetti che, con attrezzature fitness e saune
turche e finlandesi, permettono alla famiglia di passare ore in vere terme domestiche,
luoghi di cura del corpo e della psiche.
Quale futuro nei nostri “bagni”?
La fase attuale è quella del “trasparentismo”: docce tutte di cristallo, vasca con cristallo
per la visione sott’acqua, piscine con tanti cristalli trasparenti, saune trasparenti. Sono
prodotti apparentemente semplici e con poco impatto visivo, che aiutano a superare il
senso di claustrofobia che alcuni prodotti precedenti potevano trasmettere ai soggetti
sensibili.
Angolo palestra in ambiente bagno. E’ un prodotto , insieme ad altre proposte per
TEUCO, di trasformare da luogo di igiene a luogo di benessere anche fisico le cosiddette
stanze da bagno. Una rievocazione domestica personalizzata delle antiche terme
romane.
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L'utenza ampliata
Altro sistema di progettare per allungare il tempo d’uso e di vita di alcuni prodotti
industriali
è
quello
di
progettare
per
la
cosiddetta
“
utenza
ampliata”
o
“intergenerazionale” o “transgenerazionale”.
Questo vuol dire allargare la fascia dei consumatori a categorie diverse, per esempio, da
quei quarantenni in piena forma fisica, che acquistano per impulso emotivo o perché
l’oggetto rappresenta uno status symbol riconosciuto nel suo ambiente, alla nonna con
limitata abilità motoria o ai piccoli nella loro vivacità. Oggi gli arredi non tengono conto di
queste fruizioni ma seguono solo indicazioni modaiole. E’ il classico modello di mercato
consumistico che, se da una parte sviluppa economia, dall’altra crea problemi di
smaltimento, d'inquinamento ed anche di estetica ambientale. Ma se quest'oggetto,
quando
è
possibile,
potesse
essere
riusato
da
tutta
la
famiglia
in
modo
intergenerazionale, dai bambini agli anziani, alle persone con handicap temporanei
(causati da incidenti) o permanenti, ecco che la sua vita si allungherebbe nel tempo.
Questa diversa filosofia progettuale potrebbe risolvere molti problemi, lasciando in ogni
caso grandi spazi ad articoli altamente specializzati. Dobbiamo prendere atto che l’età
media dell’uomo si è allungata, e sarà sempre più necessaria una certa facilità d’uso
anche, semplicemente, degli elettrodomestici più comuni. Ciò non comporterà la
creazione di strumenti d’ausilio ma prodotti facilmente usabili da chiunque nella massima
sicurezza. Secondo me è questa la sfida del nuovo millennio per progettisti e designer, in
un campo dove l’elettronica ricoprirà uno spazio sempre più grande con un uso sempre
più semplificato. Vorrà dire progettazioni sempre più complesse e sofisticate, più vicine a
consumatori finora non considerati, con un loro specifico potere d’acquisto. Si dovrà
rinnovare il metodo di fare ricerca, di avere e consultare banche dati, di progettare, di
realizzare prototipi e di verificarne la rispondenza.
Dovrà cambiare la filosofia concettuale di base. Non fare progetti ,poco accattivanti,
riconosciuti come prodotti esclusivi per chi ha problemi fisici, realizzati da poche industrie
e venduti ad altissimo prezzo dato l’esiguo numero di pezzi prodotti, o progetti per
persone adulte, abili fisicamente, magari anche pericolosi, ma fare un design fruibile
nello stesso modo dall’intera famiglia. Una progettualità diversa, più ampia, che dovrebbe
rientrare nel corso degli studi come materia di base nelle Università o negli Istituti
professionali. Tutto questo non è ovviamente solo un problema di design ma,
principalmente del marketing che dovrà valutare i settori produttivi con la filosofia del
prodotto “per tutte le utenze”.
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Rendering CAD di una vasca-doccia intergenerazionale. La finitura esterna è prevista
con più materiali, dal legno compensato curvato , al Duralite, al mosaico o in acrilico
termoformato. Il design intergenerazionale o transgenerazionale sarà, per me, insieme a
quello etnico, la nuova del design.
Questo rendering di qualche anno fa è molto
semplice, tipo stylife. Oggi sono richieste immagini molto più definire, tipo fotorealistico
ambientato.
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Chi parla e chi agisce
Ultimamente, su Rai Tre, è andata in onda una serie di trasmissioni del Dipartimento
Scuola Educazione, sul Design. Si è trattato di circa 50 “Lezioni di Design”, così erano
intitolate, trasmesse alle 9,30 e da me registrate in quanto a quell’ora, ormai non più
studente, sono affaccendato a “fare design”. Ogni tanto la sera mi rivedo alcune di quelle
lezioni, ritrovando un po’ di vecchie facce conosciute e tante, tante parole. Sono tenute
quasi tutte da professionisti milanesi e da qualche straniero che lavora a Milano, quasi
esclusivamente nel design del mobile.
Le lezioni mi sono sembrate per la maggior parte costituite da molte parole e poche idee
innovative, dove ai termini pratici si sono sostituiti quelli teorici, volutamente rivolti alla
trasgressione, all’antifunzionalismo, alle filosofie comportamentali, alle politiche sociali.
È un approccio che rispetto, ma che non riesco a fare mio. In certi casi ritengo che
l’immagine del design risulti troppo distante dalla realtà operativa. In molti casi parlano
quei designer che amano autocelebrarsi, che si parlano addosso con tante parole che
non dicono niente. Spesso mi chiedo se sono stati loro a fare quegli oggetti di successo.
Forse sono solo il risultato di quella cultura locale di cui fanno parte. circoscritta ad un
unico ambito regionale (nella fattispecie quello milanese), o ad una sola Associazione
(l’ADI), che ha pur sempre una sua valenza storica, quella milanese, ma non costituisce
tutto il mondo del design. Sarebbe stato però il caso di menzionare, soprattutto in uno
spazio televisivo nazionale, tutte le realtà produttive, professionali e associative, che
operano, producono e fanno cultura nel design nel resto del territorio nazionale e delle
quali nessuno parla.
Il problema delle parole non è una questione di gusti. La comunicazione può anche
funzionare da traino di mercato, davanti a certi committenti che si lasciano convincere da
parole non sono supportate dai fatti concreti. Parlo dei riscontri di mercato; questo porta
a dare credito solo a quei pochi che sono molto abili a parlare, ignorando il resto
dell’offerta che magari lavora ugualmente bene ma parla di meno, o in modo meno
appariscente.
Non sto certo disprezzando la comunicazione né coloro che sono bravi a farla. Però non
bisogna dimenticare che ci sono in Italia tanti professionisti validi, designer che lavorano
in settori diversi producendo, oltre ad oggetti utili e belli, economia e mercato, che non
sono stati mai menzionati perché non sono milanesi, non parlano ma agiscono bene anzi,
spesso meglio di quelli che parlano tanto .
In settori diversi , decine di ottimi designer hanno fatto tanta e tale innovazione che nel
settore del mobile neanche se la sono immaginata. Molto è stato fatto anche nel settore
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cucina, specialmente nell’elettrodomestico ma, anche di questo non parla praticamente
nessuno. Forse occorre introdurre qualcuno più bravo a parlare anche in questi settori?
Concorsi di design
Data la mia non più giovane età, indicatore presumibile di molta esperienza e forse di
saggezza, mi chiamano spesso a fare da giudice di elaborati in concorsi di design. Mi
trovo a fianco di giornalisti anche non di settore, filosofi, artisti, amici degli organizzatori,
che considerano le idee progettuali più come una manifestazione di grande creatività che
progetti per un prodotto industriale.
Il mio disagio nello scrutinio è dovuto al fatto che si finisce spesso con il premiare progetti
senza futuro, disorientativi, non producibili, da premiare perché gli altri membri della giuria
li giudicano emotivamente diversi. Io, fautore di un design più concreto, funzionale,
facilmente producibile con le attuali risorse, trasportabile e facile da distribuire in un
mercato pronto a recepirlo, dovrei valutare non giudicabile e non pertinente al design, il
90% degli elaborati presentati. Ogni volta che m'informo, a posteriori, sugli esiti dei
progetti premiati, ricevo sempre conferma che non hanno avuto alcun esito produttivo. Mi
chiedo allora se ci sono alla base ragioni valide a questo genere di iniziative o se invece,
come qualcuno sostiene, si organizzano per avere nuove idee a buon mercato, o per
avere pubblicità con mezzi diversi o per rendersi visibili come produttori attenti e sensibili
ad aiutare i giovani ad emergere. Iniziativa encomiabile se non avesse spesso come
risultato di illudere molti giovani portandoli ad un’idea di design non realistico.
Ritengo che la scelta dei membri della giuria debba essere più oculata ed i bandi di
concorso più precisi e chiari, per ottenere il giusto ritorno dell’investimento e dare vere
opportunità ai partecipanti di avere un riscontro commerciale. Ciò sarebbe utile sia
all’azienda che al progettista, in termini pubblicitari ed economici. Circa 35 anni fa
partecipai ad un concorso per un sistema di arredo componibile. Analizzai che tipo di
cultura avevano i membri della giuria, e presentai un progetto che ritenevo perfettamente
centrato per la loro cultura ma meno ottimizzato per l’uso reale del prodotto stesso e
perciò di minimo successo commerciale. Vinsi il premio “Fiera di Trieste”; ma appena
finita la cerimonia di premiazione (naturalmente con l’assegno del premio in tasca) lo
stracciai, anche se soddisfatto del successo dell’esperimento.
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Passaparola
Esistono, nel calcio, nel cinema, nell’arte, alcuni personaggi che fanno a tempo pieno o
casualmente gli scopritori di talenti. Penso che nel Design ci vorrebbero dei talent scout
per le aree e i settori dove il design non è sufficientemente rappresentato, anche laddove
è ben sviluppato. Bisognerebbe che i grandi centri di cultura e comunicazione del design
fossero a conoscenza della sua esistenza.
L’ADI, la grande e storica associazione dei designer italiani, fino a pochissimi anni fa si
occupava solo del design per il settore arredo e trasporti con poca conoscenza di ciò che
accadeva in altri settori produttivi. Nel settore bagno, ad esempio, c’è voluto l'intervento
dell'amico Oscar Colli (Direttore de "Il bagno oggi e domani") per far scoprire a
quest'associazione che esisteva anche un design-bagno. C’è stato un mio contributo
indiretto per far conoscere il design nautico, forse ce ne sarà uno più diretto per far
scoprire un altro settore del design: quello del benessere e fitness. Esistono tante
pubblicazioni specializzate e molto belle su queste materie, ma non è concepibile che le
associazioni e i mass media e soprattutto i politici responsabili del settore produttivo, non
ne parlino mai.
Eppure questi settori sono quelli che danno grossi contributi all’economia e
all’occupazione nonché un buon bilancio positivo all’esportazione. Passate parola anche
a casa nostra, visto che in altri paesi esteri pare che la voce circoli decisamente meglio.
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Conoscere o ignorare
Mi sono capitati ultimamente due tipici casi di incarico progettuale da due aziende
operanti in settori diversi. Una è impegnata principalmente nel contract, dotata anche di
una distribuzione a rivenditori qualificati ed una serie di prodotti molto eterogenei,
difficilmente riconoscibili da una linea di design ma, a detta del direttore marketing, di più
facile scelta per consumatori di gusti diversi.
La prima azienda si avvale di
designer/architetti che progettano prodotti da inserire nei complessi da loro progettati.
L’altra azienda invece opera in un solido mercato internazionale, con una rete distributiva
molto qualificata. La prima, nel propormi l’incarico, mi ha chiesto un prodotto da inserire
nel proprio catalogo senza fornire altri dettagli sulle proprie tecnologie, sul mercato di
riferimento, sul tempo ed il prezzo di distribuzione. “Meglio non sapere niente” diceva il
direttore marketing “cosi si è meno condizionati e le proposte possono essere più
originali”. La seconda azienda, invece, è stata fin troppo generosa di informazioni sul suo
mercato, sui propri successi e insuccessi, sui desideri dei propri rappresentanti; mi ha
fatto partecipare alle riunioni con gli agenti di commercio, mi ha informato sui desideri del
titolare dell’azienda. Quale delle due ha ragione? Ho accettato l’offerta della seconda
azienda, rifiutando l’incarico della prima, anche perché, dall’analisi del suo catalogo, ho
avuto la sensazione di una massa informe di prodotti non identificabile con un’immagine
aziendale precisa. In una situazione simile è impossibile fare design professionale, si
rischia di impantanarsi in esercitazioni più o meno sterili di progettualità didattica, un po’
come avviene nei concorsi di design. Come ogni mamma, anche le aziende devono
riconoscersi nei propri figli. E’ come se i geni del nostro DNA non tenessero conto dei
caratteri ereditari e creassero un essere strano, non riconosciuto della famiglia.
Insomma… un po’ un figlio di!
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Di chi è il progetto?
Di chi lo ha ideato e fatto o di chi lo ha brevettato? Se è la stessa persona non ci sono
dubbi, è suo a tutti gli effetti. Ma se è l’azienda che paga il brevetto anche se questo è
intestato al designer, di chi è il progetto? In questo caso, è il caso di parlare dello
sfruttamento dell’idea. Pur non essendo un esperto di diritto e legislazione, metto al
servizio del lettore l'esperienza di “bottega” del progetto accumulata nella mia attività. Al
fine di evitare l’insorgere di spiacevoli contestazioni, conviene cautelarsi immediatamente
depositando o brevettando o il modello ornamentale o
l’invenzione che troverà
applicazione nel prodotto / novità. E’ pero fondamentale stabilire, in sede di stipula di un
contratto, quali siano i soggetti e l’oggetto del rapporto, individuando così in maniera
automatica a chi attribuire la titolarità di un progetto o di un’invenzione. La questione è:
diritto al brevetto o diritto di brevetto? Intendendo nel primo caso “chi” ha il diritto di
ottenere il brevetto, nel secondo a chi spetti il diritto di sfruttamento del brevetto dopo
averne ottenuto titolo (proprietario e "sfruttatore" del brevetto, colui che lo mette in
produzione o in commercio). In un rapporto di lavoratore dipendente, il diritto al brevetto
spetta al lavoratore che abbia conseguito l’invenzione di propria iniziativa, pur se
attraverso l’uso dei mezzi disponibili in azienda. Quest’ultima, può esercitare un diritto
d'opzione per l’acquisto del brevetto stesso, manifestando la propria intenzione entro tre
mesi dal deposito della relativa domanda e corrispondendo al dipendente/inventore
l’equivalente del prezzo. Di contro, appartengono al datore di lavoro i diritti dell’invenzione
conseguita da un lavoratore nell’ambito di un rapporto di lavoro che preveda l’attività
inventiva come oggetto dell’attività dovuta dal dipendente, spettando a quest’ultimo solo il
diritto morale di essere riconosciuto come autore.
In linea generale, l’invenzione conseguita nell’ambito di un rapporto di committenza,
regolato da apposito contratto, rientra, invece, nel patrimonio del committente che,
sostenendo costi e rischi dell’opera commissionata, ne acquisisce il diritto di utilizzazione
economica attraverso la cessione del diritto allo sfruttamento da parte dell’inventore.
Vorrei a questo punto fare un distinguo fondamentale; se l’idea è venuta al designer e se
questo è pagato a royalties, la proprietà del brevetto è la sua anche se l’azienda ha
pagato i costi di deposito del brevetto nelle varie aree commerciali dove è interessata
l’azienda. Questa ha il diritto di sfruttamento in esclusiva fino che è interessata al
prodotto, dopodiché questo può ritornane alla disponibilità del designer. Se invece il
designer vende l’idea al produttore con pagamento della cifra pattuita, e l’azienda ne
paga il brevetto, il progetto rimane di totale proprietà di quest’ultima e il designer rimane
anche in questo caso l’inventore morale.
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Designer e azienda: partner o concorrenti?
È passato oltre mezzo secolo da quando le prime collaborazioni tra piccoli artigiani e
architetti o designer hanno cominciato a diventare una norma. Allora quella del designer
era una professione sconosciuta. I prodotti nascevano dall'incontro giornaliero di figure
pionieristiche attorno ad un tavolo, con utensili, strumenti e pennarelli. Parole come ufficio
tecnico o product management erano del tutto inesistenti, né si poteva pensare a
processi dipendenti da computer o concept design, co-design e marketing.
Oggi le cose sono cambiate. La competitività globale e gli investimenti elevati, i prodotti
complessi richiedono professionalità più specifiche. Gli artigiani si sono evoluti in piccoli
industriali, talvolta in possesso di capacità produttiva più ampia. Il designer si deve perciò
confrontare con numerose figure professionali di settori diversi ma collegati, ad esempio
con il marketing, che spesso fornisce al progettista gli input concettuali. Il settore di
produzione industriale contribuisce tramite i tecnici di progettazione, che indicano le
caratteristiche tecnologiche dei prodotti, e gli specialisti di produzione, imballaggio,
distribuzione e manutenzione. Grande importanza è attribuita anche ad esperti di
comunicazione, grafici e fotografi, che pur lavorando indipendentemente dal progetto
forniscono dati e necessitano di continui scambi d'informazioni, per capire il prodotto e
comunicarlo nella maniera corretta, cogliendo le caratteristiche vincenti sulle quali ha
lavorato il designer.
Visione del piccolo laboratorio fotografico del nostro studio. Talvolta è importante che il
designer assista al servizio fotografico per indicare al fotografo le caratteristiche da
mettere in risalto nelle immagini talvolta trascurate senza la dovuta assistenza del
progettista.
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Immagine della zona CAD dello studio. E’ importante lo studio del l’illuminazione di questo
ambiente per evitare che la luce naturale o artificiale non si rifletta sugli schermi. Sono
anche importanti dei divisori tra le diverse stazioni di lavoro e dei soffitti a isolamento
acustico. La foto non fa testo.
Laboratorio per la prototipazione industriale dello studio, attrezzato con tutte le principali
macchine utensili per lavorazioni meccaniche e con tecnici modellisti esperti in compositi.
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Cultura del nord e quella del sud Italia
In una serata tra amici designer l'argomento design è prevalente, ma in quella di cui vi
parlo si affrontava l'argomento delle differenze tra il design del nord Italia e quello del sud.
Alcuni amici notavano come, in base a esperienze recenti, le aziende del nord assumano
un atteggiamento completamente diverso nei confronti dei designer rispetto a quelle che
si collocano più a sud, anche se operano da diversi anni con i medesimi designer.
Le aziende del nord si mostrano orgogliose dei prodotti a firma dei designer, magari
famosi, e mettono in evidenza il loro nome in qualsiasi comunicazione di prodotto. Quelle
del sud evitano troppo spesso che il nome del designer sia pubblicizzato o quantomeno
conosciuto. Da quella serata non è emersa una spiegazione precisa di questo fenomeno,
ma solo alcune ipotesi. Ché la figura del designer sia oggetto d'invidia commerciale? O si
teme che il suo nome oscuri il nome dell’azienda produttrice? Che il designer acquisti più
forza contrattuale e richieda compensi più elevati per il proprio lavoro? Forse ci sono
anche altri oscuri motivi che mi sfuggono, ma posso dire che dalla conversazione di
quella sera è emersa una riflessione che non avevo fatto prima. All'inizio della mia
esperienza lavorai per più di dieci anni con aziende del nord e a malincuore devo
ammettere che in seguito, con alcune aziende del sud, a volte mi sono trovato a disagio.
Alcune volte mi sono perfino sentito mortificato sul piano umano, per alcune furbizie
contrattuali. Ho anche rilevato e ammesso che certi atteggiamenti vessatori mi hanno
disturbato nell'esprimere al meglio le mie capacità progettuali. In quei casi mi sono
limitato ad accontentare i desideri del committente.
Presumo che atteggiamenti diversi tra nord e sud siano un fatto di cultura. Essendo
peraltro abituato a muovermi in ambienti aziendali del centro sud, ad alcune differenze
non avevo dato peso, considerandole parte dell'ambiente e della cultura presente in
queste regioni. Qui si ha la paura di perdere qualcosa dando più credito al designer, di
perdere quel potere tanto caro all’uomo del sud, che è più individualista che collaborativo.
Si tende più al miglioramento del proprio stato sociale che al miglioramento qualitativo
della propria impresa, delegando pochissimo ad altrui saperi e competenze. Credo che
sia questo il motivo del mancato sviluppo delle grandi imprese del sud. Ricordo sempre le
parole di Virgilio Guzzini; “il segreto del mio successo è stato ed è quello di circondarmi di
persone più brave di me”. Trovo spesso invece imprese con dirigenti che si circondano di
persone meno capaci per poterle controllare meglio e non perdere la propria poltrona,
che va mantenuta anche a discapito degli interessi aziendali. Guai se un subalterno di
questi quadri aziendali prende una iniziativa o una piccola decisione migliorativa al
prodotto o al processo produttivo, se questa non porta la firma e il merito al dirigente! E’
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giusto rispettare le filiere burocratiche ma occorre tenere presente anche gli interessi
aziendali che portano ad una crescita parallela di tutti i componenti.
Naturalmente non è un discorso universale o riferito a tutte le aziende del sud. Si tratta di
un clima, che però pregiudica anche il legittimo diritto di un designer, o per chi ha
"inventato" un prodotto, di vederselo riconosciuto. I riconoscimenti al nome del designer
rappresentano, in effetti, anche un vantaggio per l'azienda. Nel corso degli anni la
situazione sta migliorando. Vediamo come.
L’invasione dei prodotti orientali, parlo di Cina, India e Corea, nei mercati occidentali,
caratterizzati dal basso costo, senza griffe e originalità, porterà ad una riqualificazione
dell’originalità e delle idee. E le idee vengono da chi ce l’ha e sa che costano fatica,
impegno e denaro, spesso con una struttura fatta da persone capaci che meritano di
essere riconosciute tali. Ma di ciò ne parleremo più avanti.
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Mai proporsi con una propria idea
….. anche se si pensa sia brillante, se prima non si è trovato un committente che voglia
investire su un progetto almeno simile al vostro. E se non è interessato, spesso conviene
rinunciare alla propria idea in favore della sua. Ho verificato che pochi sono disposti ad
investire totalmente sulle idee altrui, salvo quelli che le copiano. Se poi si ritiene che la
propria idea sia quella giusta e da sfruttare, i casi sono due; o si bypassa l’idea, tramite
un’abile azione psicologica, a persone vicine al responsabile del marketing aziendale che
poi egli ti ripropone ,dopo poco tempo, come sua, o diventi imprenditore della tua idea.
Comunque, a meno che non si voglia rischiare di rimetterci del denaro, è meglio andare
sul sicuro con l’idea del committente. Questa affermazione è dettata dalle esperienze
vissute, ma è una regola di buon senso non sempre rispettata. Spesso è offuscata da
quel meccanismo mentale che si chiama orgoglio, o presunzione. Prima o poi ogni
progettista, o designer o inventore o consulente, ci casca e quando se ne accorge è
troppo tardi per uscirne, si trova invischiato in problemi o preoccupazioni economiche
senza rendersene conto. Credo che ognuno debba fare il proprio mestiere, senza mai
dimenticare la capacità di prendere al volo quelle occasioni che qualche volta capitano
nella vita. Quando ti passa davanti un treno che ti porta a traguardi lontani è davvero un
peccato perderlo per restare rigidamente attaccato alla propria professione!
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Nei primi anni ’90, su suggerimento di un mio amico ristoratore, progettai un sistema di
mezzi di trasporto urbano a trazione elettrica. Un sistema molto innovativo composto da
tre modelli di mezzi mobili a tre ruote e da uno scambiatore automatico di batterie.
Questo era un carosello di cestelli di accumulatori elettrici posti sotto carica, rivestito da
pannelli in VTR, con frontale attrezzato per ospitare due mezzi mobili per la sostituzione
delle batterie scariche. I veicoli , differenziati dalle dimensioni in funzione del numero dei
trasportati da uno ,due ,tre posti, erano coperti e motorizzati con sistemi brushless a
recupero energetico in frenata, posti nelle ruote. Uno dei pochi brevetti registrati in proprio
dal mio studio, sul quale ho fatto notevoli investimenti, finanziando la ricerca e
prototipazione dell’intero sistema.
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Ikeizzare
“Ikeizzare” è un neologismo che indica la modalità commerciale della multinazionale
svedese IKEA. Il suo successo internazionale riconosciuto è legato alla possibilità di farsi
un arredamento con componenti da assemblare,
molto razionale, semplice ma
personalizzato, a costi contenuti e qualità di materiali e finiture più che buoni. Per operare
la riduzione dei costi, IKEA ha lavorato sull’eliminazione dell’assemblaggio finale e il
montaggio a domicilio.
È finito il tempo degli arredamenti già pronti e di stile predefinito, così come si è
ridimensionato il prestigio degli status symbol per tutti, che ha in parte caratterizzato gli
anni Ottanta.
Una nuova cultura minimalista di ispirazione a metà tra il tecnologico e l’orientale è
attualmente più in voga, il grande pubblico preferisce spendere di meno e personalizzare
di più. A livello di marketing gli effetti si sono fatti sentire. Le strategie di vendita
focalizzano il target e cercano di offrire prodotti mirati alle varie utenze. In termini pratici
significa che i prodotti molto decorativi e fantasiosi non pagano più come un tempo. Vorrà
forse anche significare che la firma del designer tende a sparire dal mercato?
Assolutamente no, ma vediamo perché. Primo: i prodotti IKEA portano nel catalogo la
firma e spesso la foto del progettista. Secondo : si diffondono le copie, le imitazioni e i
prodotti a basso costo di importazione orientale. La qualità di questi prodotti non è
nemmeno troppo scarsa, per il momento manca soltanto a quei prodotti la mano del
designer. La parte del leone la sta facendo la Cina. Non possiamo competere con gli
standard di questo mercato, nel quale già cominciano a crescere capacità progettuali.
Parliamo di paesi caratterizzati da fame di crescita e grande aggressività commerciale.
Ma anche nei mercati che si stanno ikeizzando non manca lo spazio per i prodotti di
qualità, caratterizzati da prodotti griffati e distribuiti con stile e cura in boutique che offrono
anche un servizio di interior decorator. I prodotti a firma “importante” conservano quindi
sia il proprio prestigio che la garanzia di essere stati pensati anche dal punto di vista della
sicurezza e del rispetto ambientale. Su questo terreno si combatte la nuova battaglia del
design contemporaneo. Ci sono poi aree commerciali come quella del bagno che non si
potranno ikeizzare facilmente. I materiali richiesti sono comunque costosi e tecnicamente
difficili da trattare. Stiamo poi parlando di un ambiente che ha attraversato vere e proprie
rivoluzioni negli ultimi anni e la cui specifica particolarità non ha bisogno di essere
sottolineata.
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Da semplice luogo per l’igiene personale ad area fitness (un luogo per tenersi in forma),
dal wellness (benessere) fino all’ultima tendenza: joyness. Un’area domestica nella quale
semplicemente star bene, trascorrere del tempo, rilassarsi, perfino un modo nuovo per
accogliere gli amici. Le minipiscine consentono di stare a mollo tutti insieme e scambiare
due parole. È ovvio che per prodotti di questo livello non si può evitare di ricorrere a un
professionista del design. Ed ecco che la sua firma appone una garanzia di
professionalità ed esperienza sui progetti, diventando una specie di certificato di qualità.
La nostra professionalità e la nostra firma sarà sempre più interessante per la gamma
alta del mercato. La globalizzazione, troppo spesso intesa come appiattimento, non potrà
incidere sul lavoro di chi ha fatto della qualità la propria professione ma solo sulla
creazione di prodotti con esigenze d’altro tipo. C’è ancora spazio per tutti.
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Venti dall’Est
Essendo appassionato di mare e navigatore da qualche decennio, ho acquisito quella
conoscenza dei venti che, anche senza bollettini meteorologici o strumentazione
sofisticata, ti porta ad intuire situazioni difficili, talvolta prevenendo i momenti più critici.
Parlo di atmosfera ma anche delle tendenze degli ambienti commerciali.
Da qualche tempo sto tentando di capire se il “vento” che viene dall’Est sarà portatore di
positivi cambiamenti di mercato e conseguentemente agirà sul mondo del design, o se ci
metterà in condizione, in un prossimo futuro, di dover affrontare situazioni più difficili di
quelle attuali.
L’Est ha la necessità di recuperare cultura, benessere ed economia piuttosto
rapidamente, ed avendo a suo vantaggio la possibilità di manodopera a basso costo può
accaparrarsi i mercati dell’Ovest per la fascia di mercato medio - bassa. L’unica difesa
per contrastare il gioco al ribasso, è quella data dal valore aggiunto del nostro design
innovativo. In questo campo siamo ben qualificati, ma bisogna stare attenti a non perdere
questo valore aggiunto per mancanza di strutture adeguate.
Con questo intendo dire che ci vogliono design, tecnologia e ricerca, tesi verso un
mercato di alta gamma. L’esempio ci viene dal settore delle calzature: il mercato stava
crollando e si è potuto risollevare solo grazie a prodotti di qualità, nati dalla ricerca e
dalla tecnologia di profilo elevato. Da buon marinaio dico quindi che è meglio prevenire il
cattivo tempo e correre ai ripari incentivando proprio i settori della ricerca in vista di un
incremento della qualità, anche se il vento dall’Est oramai sta soffiando su di noi già da
qualche anno. Per noi designer, con la nostra capacità creativa, la nostra cultura del
bello, non ci mancherà l’occasione di collaborare con industrie cinesi per prodotti firmati
italiano. Credo che in questo modo
si possono avere prospettive positive sia per i
designer che per i prodotti fatti in Italia dagli stessi designer. Ci sarà sempre un mercato
per oggetti D.O.C. firmati da designer famosi nel mondo.
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Innovazione
Già da qualche anno economisti, politici, consulenti, parlano sempre più spesso di
innovazione, parola ripetuta frequentemente in tutti i settori ma applicata veramente solo
in pochi, come quello dell’elettronica. Trent’anni fa quando cinema e letteratura
raccontavano il futuro, il 2000 era rappresentato in modo talmente avanzato da far
pensare che oggi avremmo dovuto avere tutti automobili volanti! Ma, forse
fortunatamente, non è stato cosi. Grossi cambiamenti ci sono stati anche se in maniera
meno eclatante, e non sempre per il meglio. Molti passi in avanti sono stati fatti in
tecnologia e ricerca, nell’elettronica, nei trasporti, nella comunicazione, nella medicina
applicata. Tutti settori in cui il designer interviene spesso nel dare “bellezza” alle funzioni
tecnologiche. Questo valore aggiunto, se ben fatto, crea elemento primario di successo,
addirittura al di sopra della stessa tecnologia. Il designer può apportare vere e proprie
innovazioni ai prodotti, con quella capacità di osservare globalmente il mercato che, unita
alla preparazione tecnico-stilistica, gli consente di individuare alcuni anni in anticipo le
nuove tendenze ed a proiettarle nel progetto in corso. Una volta individuato il trend e
concepita la filosofia da immettere nei nuovi prodotti, è bene che questi non si fermino ad
uno o due modelli ma che si creino delle “famiglie”, differenti come dimensioni, estetica e
funzioni, ma riconoscibili in quanto appartenente alla stessa filosofia concettuale. Nel
progettare queste nuove “famiglie” o linee di prodotti è bene usare componentistica
comune, anche con grandi investimenti in nuove tecnologie, e invece fare “carrozzeria”
per le parti che sono visibili e che fanno estetica, con tecnologia a basso investimento, in
quanto facilmente rinnovabili e comunque presenti in una gamma con minor numero di
pezzi. Infatti, più è alto il numero dei pezzi da produrre più conviene investire in
attrezzature (stampi, macchine automatiche ecc.), cosi da tenere basso il costo di ogni
singolo componente. Per un numero relativamente medio di pezzi si usano robot con
apprendimento simulato, mentre più è basso il numero dei pezzi e più conviene utilizzare
bassa tecnologia e più manodopera. Da quanto mi risulta l’uomo è ancora più intelligente
dei robot! Il singolo componente costerà leggermente di più, anche senza il costo
d’ammortamento delle attrezzature specifiche di quel prodotto, ma sarà più facilmente
diversificabile. Su questo concetto oggi piccole e medie aziende riescono a produrre e a
rinnovare velocemente e spesso la gamma dei modelli da immettere sul mercato e solo
così riescono a crearsi i loro spazi commerciali. Per le aziende dai grandi numeri, quelle
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automobilistiche ad esempio, questo sistema è meno evidente in quanto quasi tutti i
componenti sono altamente industrializzati con forti investimenti.
Lavorando svincolati da esigenze interne di produzione e da metodi codificati
condizionanti, si riescono a creare oggetti innovativi, sistemi e funzioni diversi, originali a
comuni prodotti presenti sul mercato, spesso anche con idee non producibili perché
troppo costose o troppo avanzate. In questo caso, se ci sono le premesse, è utile
convincere le aziende a verificare, all’interno e all’esterno, queste idee innovative con dei
prodotti d’immagine. Questo argomento, trattato anche nel mio precedente libro, l’ho
ripreso in seguito a recenti esperienze vissute. Fino a qualche anno fa ho sempre
consigliato alle aziende di fare ricerca tecnologica, anche in funzione di manifestazioni
particolari, (come fiere, mostre ecc..) dove sarebbe stato opportuno presentarsi come
struttura all’avanguardia, anche per motivi di concorrenzialità nel mercato. Talmente
convinto della validità di questa ipotesi, qualche anno fa decisi di vivere in proprio una
esperienza imprenditoriale. Sollecitato da un amico a realizzare una sua idea sulla
propulsione elettrica per veicoli leggeri da città, decisi di progettare e prototipare tutto il
sistema di veicoli in tre versioni, monoposto, biposto e promiscuo e in più il distributore
automatico di batterie o loro sostituzione quando scariche. Dopo un lungo lavoro di
studio, produssi i prototipi e il sistema di scambio batterie pensando che, dopo una
presentazione alla stampa e a pubblici amministratori, potevo ottenere un giusto
successo, vista l’estetica avanzata e molto piacevole. Ma non è stato cosi facile.
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Prototipazione/ Industrializzazione del prodotto
Mi è capitato di iniziare una collaborazione con aziende che non avevano avuto rapporti
con i designer e mancavano di quelle strutture di cui sopra. In quel caso spesso mi è
stata richiesta la prototipazione del progetto selezionato. Il mio team di modellisti è in
grado di costruire il prototipo funzionante da mostrare al committente. In presenza del
prototipo definito in ogni particolare a volte ci sentiamo dire che quel prototipo è "pronto
per essere prodotto in serie". Niente di più inesatto! Quel prototipo, per diventare un
prodotto competitivo in qualità e prezzo e rispondere alle normative esistenti, necessita di
un'ulteriore fase di industrializzazione. Deve cioè passare per una definizione progettuale
che permetta la messa in produzione tramite processi compatibili con le attrezzature
presenti in azienda. Il processo d'industrializzazione assume grande rilevanza, talvolta
perfino superiore alla fase creativa operata dal designer.
Dall’evoluzione del rapporto designer – committente, gli studi di design si stanno
organizzando per fornire alle aziende pacchetti personalizzati sulle loro esigenze, che
vanno dal marketing al design, dalla modellazione alla prototipazione fino alla parziale
industrializzazione. Parlo di parziale industrializzazione in quanto quella definitiva può
essere fatta solo all’interno dell’azienda produttrice o dai fornitori dei componenti, perché
solo loro hanno la perfetta conoscenza della capacità e delle caratteristiche dei propri
impianti o di chi possa essere incaricato di produrre i componenti mancanti. Ma
principalmente, il processo di industrializzazione, deve essere compatibile con le capacità
e con i sistemi usati dalle maestranze addette alla produzione. Spesso gli studi che
offrono la totale industrializzazione non forniscono un servizio soddisfacente, mentre in
azienda si individuano i materiali e le tecnologie più corretti, grazie a database specifici
interni all’azienda stessa. Ai giovani che ancora non hanno avuto mai a che fare con gli
uffici tecnici vorrei spiegare che per database si intende quella lista dei componenti d'ogni
prodotto industriale, che include la descrizione d'ogni componente nei minimi particolari
(dimensione, materiale, finitura, riferimenti d'assemblaggio, produttore e cosi via).
Esistono talvolta uffici tecnici esterni all’azienda, formati da dipendenti che sono
comunque
a
perfetta
conoscenza
delle
strutture
interne
aziendali.
La
fase
d'industrializzazione non compete al designer, ma questo, nell’elaborare il progetto
esecutivo del prototipo, può avvicinarsi molto a semplificare il processo
perfetta conoscenza dell’azienda committente.
se ha una
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Bozzetto di un gommone volante anfibio biposto affiancato. Il sostentamento
aerodinamico è previsto con il sistema autogiro con prenotazione a cavo o elettrica. Il
motore ad elica spingente è un ROTAX 105 c.v. 4t. L’illustrazione si riferisce al modello
proposto alle Capitanerie di Porto.
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Direzione artistica
Anni fa, un’azienda mi chiese di interessarmi di tutti gli aspetti, dal marketing alla
comunicazione, dalla grafica alla progettazione e, ovviamente, del design. Dopo una
titubanza iniziale accettai, pensando al fatto che quando progetto un prodotto, in
mancanza di input precisi dal marketing, me li do da solo compiendo approfondite
ricerche. Seguo sempre tutte le fasi della progettazione, per focalizzare meglio le
caratteristiche vincenti del prodotto stesso. In quel caso mi si chiedeva una responsabilità
totale del successo e del destino dell’impresa produttrice. Anche il carico morale, quindi,
non era poco. Il vantaggio è che fai ciò che ritieni giusto senza troppi filtri e che puoi
spingere l'azienda a sperimentazioni più intense rispetto a quelle che suggerirebbe un
interno. Ma il tempo da trascorrere in azienda è cospicuo, oltre alla responsabilità e alla
necessità di una struttura più ampia della mia per far fronte a ogni eventuale problema.
Quest'esperienza si è comunque rivelata molto positiva e stimolante, anche se limitata
nel tempo.
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PRESENTAZIONE LAVORI
Arriva prima o poi il momento di presentare un lavoro. E’ sempre come un esame, sia
che si tratti di un nuovo cliente quanto di uno con il quale già si lavora : in questo caso si
spera ci sia stato dato un brief sufficientemente preciso.
Ad ogni modo qui di seguito cercherò di illustrarvi un buon metodo per procedere.
Credo che oggi occorra pensare in modo nuovo a presentazioni articolate e complete,
destinate ad organizzazioni importanti, che potrebbero diventare nuove committenti.
E’ un’esigenza che nasce dall’esperienza fatta e dall’osservazione di ciò che ci accade
intorno.
Molte cose sono cambiate nei rapporti e nelle relazioni lavorative. Altri metodi occorrono
negli approcci e abbiamo visto che hanno maggior impatto le presentazioni articolate,
anzi questo e’ sicuramente un metodo necessario.
I committenti hanno maggiori aspettative, specialmente a livello emozionale
e la
professionalità deve tenere il passo.
Occorre dunque fare ricerche, informarsi, documentarsi e supportare le presentazioni con
dati, tendenze, filosofie e tutto quanto può servire alla completezza delle immagini.
Penso ad una articolazione così concepita:
1) ANALISI DEL MERCATO DI RIFERIMENTO ESISTENTE
2) PROSPETTIVE CORREDATE DA DATI PERCENTUALISTICI
3) PROPOSTE MOTIVATE
4) PROPOSTE ILLUSTRATE
5) ASPETTATIVE
1) Analisi del mercato di riferimento esistente
Panoramica della situazione riferita ad abitudini consolidate e a tendenza previste.
Si rapporti tutto al Paese di competenza o anche Europa o Asia o America: questo si
dovrà determinare di volta in volta. In questo caso Internet sarà molto utile.
2) Prospettive corredate da dati percentualistici
Di conseguenza avremo i dati che ci consentono di motivare esigenze vere o sollecitate,
nuove realtà che si prospettano per configurare settori di mercato e nuovi business.
Dati che dovrebbero convincere il committente ad affrontare nuovi investimenti.
L’uso di diagrammi potrebbe essere un buon ausilio.
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3) Proposte motivate
Sarà utile perciò motivare la necessità di sperimentare nuove tecnologie, che daranno
spinta e immagine e costituiranno un tema prioritario per la comunicazione e la pubblicità
Ad es. sarebbe interessante differenziare le proposte secondo l’uso e i costumi dei paesi
di riferimento.
4) Proposte illustrate
Avendo individuato il settore operativo, si presenteranno rendering accattivanti, a colori,
semi-ambientati e ambientati. Questo è un punto di grande rilievo perché fondamentale al
convincimento definitivo.
5) Aspettative
La filosofia che motiva tutto il lavoro fatto fin qui deve emergere chiara e per far si che il
cerchio si chiuda, si dovranno prospettare possibili scenari di utenza e ipotizzare fruitori
disponibili. Tutto quanto detto dovrebbe essere presentato in un book che sarà
l’espressione del professionista o dello Studio, nel logo e nell’immagine.
Rendering al CAD per un gazebo attrezzato, in legno lamellare, per minipiscine. E’
previsto in versione aperta estiva o chiusa per il vento o l’inverno. L’oblò in alto è
sollevabile per una maggiore areazione. La versione definiva e semplificata, è andata in
produzione dalla TEUCO.
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Trait d’Union
Un ruolo particolare riveste chi si trova al centro fra chi propone un progetto e chi
necessita di un progetto.
Una figura che si può chiamare in molti
modi: account, procacciatore, trait d’union
appunto, che sempre deve porre attenzione alle necessità di una e dell’altra parte.
E’ una sfida continua per cogliere le esigenze reali degli uni e saper suscitare bisogni
negli altri; si perché l’economia è anche questo: indurre delle necessità.
Non sembri un discorso pragmatico o provocatorio, ma è pur vero che questo è
il ruolo della pubblicità o della buona comunicazione.
Far sentire il bisogno di un oggetto è più di un desiderio.
Al di là del facile moralismo, senza sconfinare nel consumismo, questo meccanismo è la
base su cui poggiano l’economia, la produzione, la filiera distributiva, l’uso e lo
smaltimento di ogni oggetto.
E’ questo ciò che ci consente di lavorare, produrre, acquistare, vendere, progettare,
vivere.
Il trait
d’union
deve essere pronto a vagliare ogni aspetto, commerciale, tecnico,
estetico, produttivo.
Occorrono conoscenze di marketing, sensibilità psicologiche, antenne alzate per captare
le tendenze e molto equilibrio.
In riferimento al marketing, non sempre e’ necessario avere una laurea alla Bocconi,
anche se apprezzabilissima, ma
una discreta cultura e un’esperienza commerciale
diretta, possono essere già un buon punto di partenza.
Per quanto riguarda la sensibilità psicologica,
occorre precisare che la cosa e’
soggettiva. Si e’ facilitati quando ci si allena all’ ascolto degli altri, a cogliere le inclinazioni
individuali e a cercare di comprendere anche ciò che non viene espressamente detto.
Le antenne poi sono assolutamente indispensabili,
perché le informazioni
arrivano
continuamente anche da ciò che sembra non rivestire grande importanza.
L’equilibrio infine, e’ annoverabile con il tanto auspicabile “buon senso” che, per quanto
scontato possa sembrare, a volte e’ difficile da trovare.
Tutte queste doti non convivono facilmente in una persona.
Inoltre e’ necessaria una continua documentazione; visitare fiere, consultare riviste,
leggere tanto di tutto.
Coltivare interessi e tenere aperta la mente, aiuta a relazionarsi con gli interlocutori; un
impegno continuo.
Un discorso a parte poi, andrebbe riservato alla memoria.
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Si, perché questo valore aggiunto e’ sempre utile in ogni situazione ma, quando si
devono incamerare
tante informazioni, e’ di certo un grande apporto, un bacino cui
attingere risorse preziose.
In qualche occasione occorre anche saper ricucire relazioni incrinate da malintesi.
In questi casi sembra che ci si trovi di fronte ad una sconfitta e forse è così, ma l’unica
soluzione e’ reagire e ricominciare da capo.
Mai farne un caso personale: sarebbe un vero errore.
Per questo e’ necessario costruire rapporti onesti, basati sulla fiducia e sul rispetto.
Quando, infine, si trovano soluzioni interessanti e utili per tutte le parti in causa, allora il
percorso incontra momenti di vera gratificazione.
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CAPITOLO SECONDO
Questa seconda parte riguarda principalmente l’organizzazione delle aziende produttrici.
E’ giusto parlarne perché ognuno che fa o farà design si deve o si dovrà interfacciare con
le strutture aziendali ed è per questo che io le chiamo, appunto, “interfacce del designer”.
Perciò credo che sia giusto conoscere come è organizzata una moderna azienda che
produce anche oggetti di design. Sono settori aziendali maturati dalle grandi aziende
americane ma anche e specialmente giapponesi, dopo la seconda guerra mondiale,
creando una vera e propria rivoluzione industriale anche nelle nostre fabbriche europee.
La mia è comunque una semplice descrizione, quanto basta a noi designer, lasciando a
chi vuole approfondire gli argomenti ampio spazio per ulteriori conoscenze tramite una
vasta letteratura tecnica organizzativa.
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L’Ufficio marketing
Parlo e scrivo di marketing perché si tratta del primo contatto del designer con l'azienda.
Da quest'ufficio provengono input progettuali, di cui il designer dovrà rispondere con un
progetto il più vicino possibile al prodotto ottimale che marketing, industria e mercato si
aspettano da lui. Il rapporto tra uomo-marketing e designer è spesso basato sullo
scambio reciproco e sulla collaborazione: entrambi collaborano al successo del prodotto
e ne verificano la rispondenza alle richieste dell’ufficio commerciale. Talvolta il rapporto
marketing-designer è conflittuale ed in caso d'insuccesso del prodotto, le reciproche
accuse di scelte sbagliate o d'incapacità possono perfino portare alla rottura della
collaborazione.
Capita che sia più facile dire che il designer, in quanto creativo, abbia sbagliato progetto.
Spesso è vero, ma altrettanto spesso il risultato negativo è frutto di input erronei. Molto
utile, a scopo precauzionale, farsi fare una lettera di incarico dall’azienda, nella quale
siano descritte le caratteristiche richieste per il prodotto, i tempi di verifica e di consegna
dei progetti finali, le condizioni economiche riferite all’incarico specifico, i relativi rimborsi
spese per eventuali ricerche, modelli, trasferte, verifiche su tecnologie da applicare e cosi
via. È fondamentale, anzitutto, definire il posizionamento del prodotto nel mercato, quindi
fare un'analisi della concorrenza in quella fascia e per quella tipologia di progetto.
Vorrei riaprire, per l’ennesima volta, una piccola polemica. Da qualche decennio a questa
parte, da quando il marketing è entrato nell’organico di molte aziende, a noi designer
rimane il compito principale di fare i “tappabuchi”, cioè quelli che devono fare un prodotto
in risposta ad un successo della concorrenza, nel più breve tempo possibile, più “furbo"
ed economico possibile, ma sempre più bello di quello del concorrente! È un lavoro
competitivo, ma perdente, perché il concorrente è uscito prima e ha già conquistato il
mercato, con tutto il tempo necessario per una giusta progettazione, industrializzazione e
comunicazione. In questi casi al designer non resta neanche la possibilità e la
soddisfazione di essere originale. Per questo motivo non mi piace il benchmarking, che
porta all'appiattimento della progettazione e non stimola la crescita di molti settori
produttivi.
Finalmente si ricomincia a parlare di innovazione e di ricerca, anche in senso formale. Ci
sono tuttavia molte difficoltà, dovute ai costi elevati e alla mancanza di fondi per
finanziare le attività, oltre alla difficoltà di dedicare apposite strutture allo scopo. In questi
casi il marketing cerca di ottenere i risultati a costi bassi con investimenti minimi, ma i
miracoli di questo tipo non sono semplici da ottenere. Ma ho una ricetta personale: gli
uomini di marketing dovrebbero frequentare anche un corso di design, spingendosi nella
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conoscenza dei valori creativi, esercitando sensibilità e competenza specifica nel settore
nel quale operano. Questa conoscenza li porterebbe a meglio intuire le tendenze del
mercato e non considerare come riferimento solo i prodotti già commercializzati dalla
concorrenza. Soprattutto devono saper dare indicazioni chiare ai creativi, cercando di
capire in che modo opera un concept - designer e a sintonizzare la propria azienda con il
mercato.
Per noi designer, il prodotto - nostro o altrui - appena immesso sul mercato è gia
superato, è un semplice mattone alla base del nostro prossimo progetto. Un creativo non
vuole imitare ciò che già esiste, ma preferisce sempre pensare a qualcosa di originale
che "cavalchi" il mercato. Gli piace pensare che il proprio prodotto che uscirà entro due
anni, tempo medio che intercorre tra il dato fornito dal marketing e l’immissione sul
mercato, sia innovativo o almeno all’altezza dei migliori concorrenti. Sarebbe anche utile,
per chi fa marketing acquisire alcune nozioni di come opera e su quali basi il designer
crea il progetto, tanto per abituare la sua mente a vedere ciò che ancora non esiste ma
che risponde a tendenze di quel mercato.
In genere trascorrono quattro o cinque anni tra l’individuazione del prodotto realizzato
dalla concorrenza, la sua verifica di mercato, la realizzazione del prodotto di risposta e la
sua commercializzazione. Il risultato è che il prodotto così concepito, quando esce è già
vecchio e superato. La vita media di un prodotto industriale, infatti, in genere non supera i
cinque anni. Chi ha realizzato il prodotto di riferimento, sicuramente ha già in corso di
verifica altri progetti più avanzati che annullano ogni risposta concorrenziale. Si crea un
continuo rincorrere il successo con risultati in genere scadenti. Capita poi che qualche
furbo venda il prodotto di risposta a un costo inferiore. Ciò produce una riduzione degli
utili aziendali e del budget per la ricerca. Molte aziende subiscono forti perdite se non
addirittura il fallimento, non correndo in tempo ai ripari. In molte occasioni, è capitato
anche a me. I responsabili di queste aziende tentano di riparare al danno chiamando un
designer, pensando che il design risolva tutti i
problemi e sia l’ultima speranza di
successo. Quando mi sono trovato in queste situazioni ho rifiutato, ringraziando,
l’incarico, in quanto il designer non può essere l’ultima spiaggia per aziende in crisi. Un
professionista offre valore aggiunto al prodotto ed apporta un “servizio all’impresa”, ma
deve essere supportato da altre strutture interne o esterne, come un ufficio tecnico
adeguato, uno di ricerca e sviluppo, comunicazione e grafica oltre che, appunto, del
marketing. Occorre avere quelle strutture anche culturali che non si improvvisano da un
momento all’altro
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L’ufficio commerciale
Ho già accennato come il successo di un prodotto, oggi, dipenda anche e soprattutto dai
rapporti di competenza specifici che si stabiliscono tra chi esprime l'idea del prodotto di
design e le altre aree che normalmente ne determinano il successo commerciale.
Abbiamo parlato di aziende di design. Per loro, l'ufficio commerciale rappresenta un'area
di fondamentale importanza, assieme all'ufficio marketing. Dalla loro congiunta attività
dipende gran parte del successo di un prodotto. È indiscutibile il vantaggio competitivo di
un prodotto sviluppato tenendo conto dei dati relativi alle tendenze di mercato, alla
concorrenza, alle vendite nelle varie aree geografiche, a tutti i dati utili per l’orientamento
delle progettazioni attuali e future del designer.
Queste attività appartengono al marketing, ma io consiglio anche al designer di prenderle,
quando è possibile, direttamente dalla distribuzione commerciale. Lo scambio di
informazioni pratiche sono molto utili per realizzare prodotti di successo commerciale.
Talvolta queste informazioni sono importanti per concepire idee alternative a quelle
presenti nel mercato medesimo.
Consiglio vivamente ai giovani designer di non sottovalutare mai il parere del settore
commerciale, soprattutto a monte della progettazione. I sensori di un agente di
commercio, maturati nell'esperienza direttamente esercitata sul campo, difficilmente
sbagliano sulle previsioni di successo di un prodotto.
Le idee di un designer possono essere le migliori in assoluto, come ottimo può essere il
prodotto risultante a fine industrializzazione, ma se l’azienda non dispone di un ufficio
commerciale competente e di una rete di rappresentanza valida, difficilmente
riscuoteranno il giusto successo. Questa competenza fa sì che un buon agente di
commercio possa condividere con il designer molti argomenti e approcci. Un piccolo
suggerimento: un buon rapporto con i rappresentanti consente anche di farsi un'idea del
fatturato nelle diverse aree geografiche. Può quindi rappresentare una verifica sulla
misura delle royalties.
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L’ufficio tecnico
Nel contesto attuale l’ufficio tecnico è divenuto indispensabile in qualunque azienda che
non sia artigianale o semplicemente a conduzione familiare. Ma se un'impresa, anche
piccola, vuole crearsi un minimo di catalogo di prodotti da immettere sul mercato, deve
necessariamente organizzarsi con l’ufficio tecnico, responsabile dell'industrializzazione
dei progetti del designer. Se l'azienda inoltre vuole fare anche innovazione ecco allora
che un ufficio di “Ricerca e Sviluppo”, acquisisce un’importanza sempre più rilevante. È
un dato statistico accertato che il numero di ingegneri all'interno di un'azienda aumenta
proporzionalmente al fatturato annuale e che i designer devono sempre di più fare
riferimento ad essi. Intanto vanno approfonditi alcuni concetti e considerazioni sul
rapporto tra il designer esterno all’azienda e i progettisti interni alla stessa. Una volta
definito il “brief”, cioè le istruzioni sulla realizzazione del progetto, e la conseguente
filosofia di prodotto, bisogna procedere a continue verifiche nel corso della progettazione
di studio, di comune accordo con l’ufficio tecnico aziendale. L’armonia e talvolta l’amicizia
e il reciproco rispetto delle competenze tra designer e tecnici è fondamentale.
Qualche tempo fa, quando ero presidente del CNAD (Consiglio Nazionale delle
Associazioni per il Design) volevo organizzare una tavola rotonda tra designer e
progettisti dell’AIPI (Associazione Italiana Progettisti Industriali) per stabilire il confine di
competenza fra designer/progettisti ed industriali. Questo confine, sensibilmente variabile
da produttore a produttore e da designer a designer, è generalmente definito, oltre che
dalle rispettive competenze e preparazione, anche dagli accordi che si definiscono
durante lo sviluppo del prototipo.
Qui entra in gioco, tra i due soggetti in campo, la tendenza a scaricarsi od assumersi
impegni e responsabilità e ad evitare la fatica. E’ nella natura umana evitare la fatica,
specialmente se ciò concorre al proprio successo. Voglio dire, nel caso specifico, che se
il designer fornisce meno particolari costruttivi al responsabile dell’ufficio tecnico, si
scrolla di dosso molte problematiche. Viceversa, se l’ufficio tecnico ottiene dal designer
indicazioni chiaramente definite sull’industrializzazione del prodotto, per lui ci sono meno
responsabilità, meno fatica e tempi di messa in produzione più brevi.
Naturalmente non sempre il bilancio è così immediato. Molte volte si stabilisce,
specialmente quando la collaborazione con l’azienda produttrice è frequente e riguarda
più prodotti, un rapporto di fiducia e stima reciproca, dove le rispettive competenze
diventano un fatto acquisito. Questa armonia è spesso determinante per il successo dei
prodotti industriali e l’argomento primario di ogni designer dovrebbe essere la ricerca
della massima collaborazione reciproca.
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Per instaurare questa collaborazione ho constatato che è sempre meglio cercare di
imparare dagli altri, mettendo da parte l’orgoglio e la presunzione di essere più colti,
preparati e intelligenti. E’ necessario coinvolgere l’ufficio tecnico fin dal primo sviluppo del
progetto, subito dopo le scelte del marketing. Bisogna saper delegare una parte della
creatività, specialmente quella tecnica, atto fondamentale per conciliare lo sviluppo delle
funzioni dell’oggetto con l’estetica. Chi meglio dell’ufficio tecnico conosce le potenzialità
tecnologiche dell’azienda? Conviene quindi non sovrapporsi ad esso nelle competenze
assegnategli dai quadri aziendali. Spesso si fanno riunioni con tutti i responsabili delle
varie aree aziendali. L'ufficio commerciale, l'ufficio tecnico, le aree di produzione, il
controllo qualità, la rispondenza alle normative e l'ufficio legale, la customer satisfaction,
l'imballaggio e le spedizioni, la manutenzione e l'ufficio reclami. Un gruppo di persone di
cultura aziendale eterogenea da ascoltare e da capire, con le loro rivendicazioni,
proposte o talvolta con la volontà di scaricare competenze agli altri. Molte delle loro
considerazioni sono frutto di esperienze precedenti, talvolta utili e altre volte meno,
soprattutto quando i conflitti ideologici o personali portano a lunghe e sterili discussioni. Si
è rivelata molto utile la capacità di sdrammatizzare le situazioni di tensione, che si creano
quando la “tempesta” di cervelli non approda a quella soluzione brillante che ci si
aspettava. Una battuta o una divagazione dal tema è sicuramente utile per allentare il
nervosismo reciproco.
Per quanto riguarda le strategie delle aziende produttrici risulta, da indagini eseguite da
società di consulenza come la giapponese J-Consiel, che i progettisti interni alle aziende
hanno, come compito principale, quello del continuo miglioramento dei prodotti e dei
processi produttivi, mentre l’innovazione è generalmente frutto di collaborazioni esterne,
ovvero del designer. Riepilogando i concetti sopra espressi con una terminologia da
consulenti, è giusto che i progettisti interni facciano il “kaizen”, che in giapponese significa
miglioramento continuo, mentre i designer esterni facciano “breakthrough”, che in inglese
significa innovazione.
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Co - design e just in time
La fase di design del prodotto vive quindi di scambi continui tra il marketing, che si
incarica di rilevare le esigenze del mercato, e il designer o il suo studio. Queste
informazioni bilaterali non arrivano oltre la fase di prototipazione. Qui termina l’intervento
del designer, dopo di che, come si è detto, inizia il progetto di industrializzazione. Per
questo ,le grandi aziende impiegano anche più studi contemporaneamente, o mettono in
contatto le proprie strutture interne con studi esterni per realizzare progetti in co - design.
Ciò consente una drastica riduzione dei costi di progettazione interna e dei tempi della
messa in produzione. Il capitale investito e la gestione degli spazi di magazzino risultano
quindi più contenuti. Naturalmente i costi finali del prodotto non lo sono, poiché il
componente è fornito dal “terzista” ad un prezzo più alto in quanto ricerca, prototipazione,
attrezzature e rischio risultano a suo carico. Tuttavia, con questo metodo si abbassa il
rischio d’impresa per i nuovi prodotti.
Dall'applicazione sistematica di queste procedure derivano però alcuni problemi a lungo
termine. Grandi aziende come la FIAT, ad esempio, ne hanno ad esempio risentito. Si è,
infatti, perso il concetto d'innovazione e ricerca interna all’azienda, che è il vero knowhow vincente nel mercato globale. Il vero valore di un’azienda non è tanto nel fatturato,
né come molti affermano, negli utili che questa produce, quanto nella cultura della ricerca
applicata senza soste, tramite anche il re-investimento degli utili prodotti.
Del “just in time” ne farò solo un accenno in quanto è solo un puro sistema di
organizzazione produttiva che esula dalle competenze del designer ma che ritengo bene
sapere cosa significa. E’ un sistema che esclude lo stoccaggio di magazzino dei
componenti di un prodotto provenienti da terzisti e che vengono assemblati direttamente
nella catena di montaggio. Con questo sistema si riduce fortemente l’investimento
produttivo e lo spazio necessario alla produzione. E’ necessario, con questo sistema
produttivo, un’ottima organizzazione interna tra i vari reparti e l’ufficio acquisti, nonché la
piena fiducia dei fornitori terzisti.
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Le esigenze dell’azienda:
Progettare veloce in parallelo o a cascata?
Una volta il passaggio del progetto tra le varie aree aziendali avveniva con il metodo “a
cascata”, dall’alto in basso. I vertici, attraverso il marketing, passavano il “progetto-idea”
al settore ricerca e sviluppo. Questo, dopo la raccolta dati, lo passava al designer, poi alla
prima fase di progettazione interna, poi all’industrializzazione, poi alla prototipazione, poi
al settore impianti ecc. Spesso con questo sistema, quando un settore di competenza
trovava difficoltà faceva tornare indietro il progetto, rifacendo tutti i passi precedenti.
I tempi di immissione sul mercato del nuovo prodotto potevano essere lunghissimi con il
risultato che talvolta la concorrenza, magari con un progetto simile ma meno evoluto,
usciva prima, bruciando molti spazi interni per la ricerca. Oggi il problema è stato
superato, ormai da alcuni anni, con la progettazione “in parallelo”. Questa consiste, una
volta che il marketing ha dato gli input, nel far procedere l’iter progettuale in
contemporanea in tutti i settori, eliminando in tempo reale modifiche e cambiamenti
sconosciuti ai precedenti reparti. Si consente inoltre ad alcuni settori aziendali, come
marketing e ricerca e sviluppo, di osare idee più innovative in quanto verificabili subito
con i reparti di competenza specifica. Spesso si evita di attuare delle innovazioni per
paura degli alti costi di verifica, ma con l’immediato coinvolgimento di tutte le competenze
si può valutare, quasi in tempo reale, ma comunque in modo approssimativo, il costo
dell’investimento. Occorre anche quantizzare i tempi di queste riunioni.
Si dice che alcune aziende giapponesi usino, come metodo per le loro riunioni quello di
far restare in piedi tutti i responsabili delle varie aree, in modo che, per stanchezza,
prendano decisioni veloci, senza inutili polemiche o rivalse.
Specialmente per aziende leader è fondamentale pensare anche in modo futuribile
ricorrendo, come ho accennato in un altro capitolo, a consulenti esterni, sia per la ricerca
scientifica ed universitaria, sia per la progettazione ed il design.
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Organizzazione dell'azienda / progettare per agevolare la
produzione
Tra i fattori di successo in una azienda produttrice c’è l’organizzazione interna
sopraccennata. Abbassare gli investimenti su impianti produttivi dedicati ad un solo
modello, ricorrendo sempre di più a macchine a controllo numerico e a robot di
produzione. Queste macchine veloci possono essere programmate per realizzare modelli
diversi e consentono anche di non fare magazzino dei semilavorati.
Concetti scontati per competenti di produzioni industriali, un po' meno per i nuovi
designer, che dovrebbero sempre informarsi di come saranno realizzate in serie le loro
idee. Con i sistemi di co-design è nata anche la figura del designer leader. Nelle medio
grandi aziende produttrici di mezzi di trasporto, terrestri, navali, di macchine per vari usi
industriali,ecc. dove,oltre che vari progettisti, ci sono anche diversi designer interni,
magari con diverse opinioni stilistiche. In questo caso occorre un coordinatore che unisca
le diversità estetiche e filosofiche dei vari designer in un’unica soluzione stilistica
coordinata tra i vari componenti del prodotto finito. E’ una posizione di grande
responsabilità ed è la sua firma che dà l’immagine ai modelli da immettere nel mercato e
la sua riconoscibilità. Inoltre il designer-leader deve spesso collaborare o dare indicazioni
stilistiche anche ai designer o progettisti dei fornitori della componentistica , quando
questa è visibile nel prodotto finito.
La tendenza al co-design ha, dal canto suo, portato alla produzione per blocchi. Il
fornitore non invia più all’azienda singoli componenti, ma blocchi assemblati di
componenti già collaudati. Ciò riduce ulteriormente i tempi di assemblaggio della linea di
prodotto. Questa tendenza è propria anche ai settori interni alle aziende, che sempre più
producono blocchi provenienti dai vari reparti per trasferirli a quelli successivi, con
elementi assemblati e collaudati.
Tutto ciò fa parte dell'organizzazione interna dell'azienda e per un designer, che lavora
per piccole e medie aziende, la conoscenza di questi processi è sempre stata poco
interessante. Le cose cambiano quando si lavora per industrie di grandi dimensioni, ed il
designer diventa uno specialista integrato in un evoluto sistema produttivo, dove il
progetto diventa sofisticato e estremamente definito nei dettagli, elaborato da software
sempre più potenti. È essenziale che il designer conosca le procedure per la
realizzazione dei prodotti. In questo modo potrà agevolare le fasi di sviluppo del prototipo
ed acquisire un vantaggio competitivo professionale più elevato rispetto a chi progetta
senza curarsi di tutte ciò che non riguarda il proprio intervento diretto. Quando il designer
72
crea un oggetto, specialmente se complesso, deve necessariamente conoscere come
sarà realizzato: internamente all’azienda, tutto o parzialmente all’esterno, a blocchi
assemblati dai terzisti e cosi via. Lo sviluppo dell’idea progettuale, infatti, sarà influenzata
proprio da queste condizioni. Quando ci si addentra in prodotti complessi, lo ripeto
continuamente, conoscere le capacità produttive e gestionali di un’azienda diventa
fondamentale, tanto quanto lo è il rapporto con i progettisti interni all’ufficio tecnico.
73
Come entrare nei mercati globali
Che il design sia un valore aggiunto al prodotto credo sia ormai fuori discussione. Chi,
oggi, non l’ha ancora capito probabilmente non ha neanche la pur minima conoscenza di
marketing, base di ogni impresa che si presenta sul mercato. Ultimamente, il
cambiamento
delle
condizioni
politiche
e
socio
economiche
di
alcuni
stati,
prevalentemente dell’est, ha portato a stravolgere le strategie produttive dei classici paesi
industrializzati. In molti settori merceologici, infatti, in paesi come l’Italia la strategia
vincente era quella del basso costo del prodotto. A questo si era arrivati con un costo di
manodopera molto contenuto, buone attrezzature, buona tecnologia, lunghe tradizioni di
una cultura artigiana poi diventata industria. Oggi con la facilità di trasporto, con la
possibilità di acquisire tecnologie da chi le produce e l’informazione tecnica a portata di
mano, molte delle nostre fabbriche hanno perso diversi mercati nazionali ed esteri, non
essendo più competitivi sul prezzo. Per riconquistare quei mercati ecco allora la grande
risorsa del design, sempre più innovativo. Facile a dirsi, molto più difficile farlo. Non
perché ,come dicono alcuni poco consapevoli del problema, i designer non hanno più
idee di tipo innovativo. Il problema è che per fare innovazione bisogna investire , sia in
termini umani, cioè in designer e tecnici, sia in attrezzature per la ricerca. Ma la domanda
è: il design, come le tecnologie, si può comprare? Certo, molti colleghi hanno lavorato per
paesi orientali, in particolare il Giappone, negli anni 60 – 70 ed i giapponesi, che sono
bravi imitatori e forti organizzatori, capita l’importanza del design, hanno creato università
e scuole specializzate da dove è venuta fuori una generazione di designer molto bravi.
Perciò nel panorama mondiale si sono creati due forti poli: l’Europa, con Italia, Germania
e Finlandia, specializzata in arredo casa, ufficio e auto, ed il Giappone con l’elettronica
applicata e le moto. A questi si contrappongono gli Stati Uniti, che conquistano i mercati
nei campi della ricerca elettronica, software e aviazione, con poco design ma con enormi
risorse economiche. Da questo sintetico panorama si deduce che i mercati si conquistano
o con grandi mezzi, tecnologie avanzate e costi bassi di manodopera, o con l’estetica dei
prodotti, lo styling ed il design. Noi italiani, non avendo i primi, possiamo solo contare sui
secondi. Un esempio: i nostri produttori di scarpe stavano perdendo tutti i mercati esteri;
da qualche anno hanno puntato solo sul design, riuscendo a riconquistarli, incrementando
valore aggiunto e utili. Ma quello che manca più di tutto in Italia è una categoria di
dirigenti veramente preparati a fare il loro mestiere di responsabili principalmente del
marketing e imprenditori che abbiano il coraggio di investire i propri capitali nella ricerca,
invece di fare intrallazzi capitalistici con banche e imprese fallimentari.
74
Aziende di design o design oriented
È dunque un fatto di volontà, cultura, tecniche e strumenti, il fatto di diventare un designer
di successo? Tutti questi aspetti, essenziali, riguardano la persona del designer. Ma una
volta che la capacità di progetto è stata determinata e si è accresciuta, con chi deve
trattare il designer? Ovviamente tratterà con le aziende produttrici, senza le quali non si fa
niente. Il designer senza produttore è una mente che, per quanto creativa, all'atto pratico
resta sterile. E’ come un motore senza carburante; non produce lavoro. Ma dove trovare
un produttore delle proprie idee? In termini logistici occorre cercarle dove sono.
Tralasciamo momentaneamente i centri più ricchi d'aziende, collocati prevalentemente al
centro nord, nei quali è più facile trovare un interlocutore. Al sud le aziende sensibili al
design sono ancora rare. Manca soprattutto la mentalità, come si dice. Spesso è la paura
dell’incognito, di ciò che il designer chiede economicamente per la propria collaborazione
a quelle aziende che non hanno mai operato nel design. In questi casi manca
l’informazione di ciò che il designer può dare al produttore e al tipo di rapporto
consequenziale. Del design si parla in termini di cultura e valore aggiunto, identificando
questi argomenti con i prodotti di successo o con personaggi più o meno creativi e noti, o
infine con le griffe. Per far crescere e comunicare questa cultura, si punta sul tema,
certamente importante, della formazione. Università per il design, scuole di design, studi
specializzati nei settori più disparati e stage. Spesso, dove non c’è la cultura anche
estetica del prodotto, le aziende sono considerate (a volte si considerano esse stesse)
semplici produttori d'oggetti, arredi, mezzi di trasporto ecc. Si rapportano al design in
modo casuale, perché operano in settori dove il design non è riconosciuto elemento di
successo. In questo modo l'azienda finisce per subire il design senza capirlo, o nutre
l'aspettativa d'enormi successi commerciali. Dopo i primi insuccessi, che vanno sempre
messi nel conto, escludono il design dai processi aziendali e ne parlano malissimo.
Questo capita a quelle aziende impreparate al design e che non possono essere
identificate come aziende di design.
Un'azienda di design possiede la cultura, le risorse umane, le strutture tecniche per
produrre categorie di prodotti orientati al design. Il design è, per loro, una parte della
strategia aziendale di produzione e promozione. In ogni altro caso il design è solo un
inciampo, un incidente di percorso imprenditoriale che anche se produce un successo
non si sa come ripetere, un risultato che emerge in modo casuale da un terreno
fondamentalmente arido. Ma come si struttura un'azienda di design, come funziona?
75
TEUCO: un’azienda di successo nata dal design
Per citare un esempio di un’azienda “design oriented”, vorrei citarne una che conosco
abbastanza bene: la Teuco.
Questa è una di quelle poche aziende ad essere nate con i cromosomi del design nel
proprio DNA. Già all'atto della sua costituzione, i primi progetti che ne hanno fatto la
storia, avviavano il cambiamento dello spazio bagno: da luogo di semplice igiene
corporea ad ambiente per il benessere fisico, rappresentativo dello stato sociale del suo
proprietario. E’ stato un cambiamento radicale della nostra cultura dell’abitare. Questa
fase si è totalmente sviluppata nei pochi anni successivi al 1970, anno di costituzione di
Teuco . A questo
passaggio, alla quale ho contribuito fin da principio, vado molto
orgoglioso. Come tutti i cambiamenti, l’inizio non è stato facile. C’èra molta diffidenza
verso quei nuovi prodotti in materia plastica, pieni di attrezzi e appoggi per migliorare la
funzionalità dell’ambiente bagno e la sua estetica. Ma con il coraggio di Virgilio Guzzini
ad accettare ed investire su quelle mie idee e una continua collaborazione con
quest'azienda che dura ancora oggi, con una continuità di sviluppo e coerenza negli
stimoli della ricerca che credo valga la pena di sottolineare come caso d'eccellenza in
una partnership progettuale. L'aggiornamento tecnico e funzionale dei prodotti si è
avvalso, in questi anni, della valorizzazione delle precedenti filosofie progettuali,
continuamente innovate e perfezionate e mai rinnegate. La cura dell'aspetto formale,
l'innovazione nei materiali, i miglioramenti nelle finiture e nella qualità dei componenti, la
funzionalità dei prodotti (sperimentata e collaudata al meglio) creano l'ambiente ideale
per una progettazione congiunta. Oggi, ma già da un paio di decenni, molte aziende
hanno seguito quelle filosofie progettuali e se ne contano a centinaia, anche orientali.
Teuco ha già spiccato un salto generazionale e la dimensione "umana" del passato si è
arricchita in una struttura professionale e tecnica. Resta la filosofia Teuco, alla quale ho
dato il mio costante contributo negli anni.
Con Teuco ho potuto seguire la mia personale linea progettuale, che privilegia linee
ispirate alla natura e alla morbidezza plastica delle forme antropomorfe, derivate anche
dalle tecnologie costruttive. Una progettazione che evita gli eccessi di decorazione per
privilegiare la ricchezza delle funzioni. Queste ultime devono essere correttamente ed
armoniosamente distribuite nelle forme e negli spazi disponibili, rispettando termini
ergonomici e coerenza stilistica e senza trascurare l'integrazione degli accessori nel
corpo del prodotto ideato.
Sul piano formale tengono sempre conto delle tendenze stilistiche evidenti in diversi
settori, da quello automobilistico a quello navale e aeronautico. In questo tipo di
76
progettazioni, le forme sono determinate dalla compatibilità estetica con elementi come
acqua e vento ma anche dalla sicurezza, dall’ergonomia e dalla facilità di manutenzione.
Per quanto riguarda la sicurezza, secondo me rappresenta un concetto da tenere nella
massima considerazione, ho sempre prediletto forme arrotondate ed elementi morbidi per
i sedili e la testa.
Tutti questi concetti sono da sempre presenti nella progettazione dei prodotti per Teuco,
concetti che valgono ancora oggi e sono stati anche oggetto d'imitazione da parte di
produttori nazionali ed esteri. La collaborazione con quella "forza della natura" , come ha
definito un politico Virgilio Guzzini e l'esperienza strategica di Antonio Renzi quale
direttore commerciale, è stata per me e per loro un'ottima occasione di vedere i prodotti
disegnati dal mio studio e realizzati da Teuco riscuotere un notevole successo. Mi resta
la soddisfazione, come quella di un padre che vede i propri figli ottenere dei risultati, di
aspettare ulteriori miglioramenti per il prossimo futuro. Mi rendo conto che questo brano
suona immodesto, quasi trionfalistico, ma ogni tanto, specie ad una certa età, sono le
soddisfazioni e i meriti del proprio lavoro, specialmente del passato, che ti danno un
senso alla vita e la voglia di continuare a dare ai giovani il proprio sapere.
77
Terzo capitolo
In questa terza parte vorrei parlare di design con l’ausilio delle immagini, anzi per prodotti
di cui conosco perfettamente la storia in quanto autore o co-autore.
Al di là dei concetti sopra descritti, credo che parlare sugli oggetti stessi o sulle loro
immagini, renda più facile l’ apprendimento dell’iter progettuale dal quale sono scaturiti
ed elaborati. Naturalmente descriverò in modo molto sintetico la loro storia ed in
particolare la loro gestazione pre–seriale perché, ad esempio, quest’ultima ha un tempo
medio
come quella di un essere umano, da 7 a 9 mesi. Per descrivere le
molte
vicissitudini di questo tempo, per ogni prodotto, dal concepimento alla immissione nel
mercato, ci vorrebbe una pubblicazione a parte. In questo capitolo ho selezionato solo
alcuni dei prodotti de me disegnati (sono, a tutt’oggi, qualche centinaio) o come ho
accennato, alcuni in collaborazione con altri designer, miei ex-allievi come Giovanna
Talocci e Carlo Urbinati. Molti dei “pezzi” che descriverò sono prodotti particolari ,quasi
pezzi unici, progettati e realizzati allo scopo di comunicare un’azienda, nelle sue ricerche
funzionali e di design avanzato. Sono serviti appunto come una pagina ,o più pagine
pubblicitarie, per far conoscere e comunicare al mercato il potenziale tecnico e
l’innovazione verso la quale l’azienda sta andando. Spesso queste operazioni danno più
ritorni d’immagine aziendale che l’equivalente spesa per una campagna pubblicitaria.
Classico esempio di ciò è la Ferrari che investe quasi tutte le risorse pubblicitarie in
esemplari super tecnologici di F1 da far correre in pista, ricavandone un ritorno, di fama
mondiale, sugli esemplari di serie. In taluni casi, quando si ha nel cassetto un’idea
fortemente innovativa ma contenente dei presupposti di successo commerciale, conviene
,con un po’ di coraggio imprenditoriale, investire in un sistema produttivo per una verifica
di mercato. Spesso, come dice il proverbio, la fortuna aiuta gli audaci. Porto anche qui un
esempio e non a caso , proprio per riprendere l’ultimo paragrafo del capitolo precedente, i
primissimi prodotti Teuco. Eccoli nella prima foto del 1971.
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Virgilio GUZZINI, consocio d’una azienda produttrice di lastre di polimetilmetacrilato, mi
chiese di sviluppare nuove applicazioni di quelle lastre termoformabili. Un suo socio,
chimico, mi parlò d’una vasca da bagno di produzione inglese fatta con quel materiale ma
bruttina e poco convincente. Dopo un’analisi accurata del materiale , che comunque gia
conoscevo per aver progettato lampade in PMMA , ritenni quel materiale idoneo per un
set bagno, anche se decisamente più costosi di quelli già presenti sul mercato fatti con
altri materiali. Presentai una serie di idee ,dalle vasche da bagno alle docce, da W.C. a
lavabi, tutti fortemente innovativi per quell’epoca . Oltre che per l’aspetto formale, si
differenziavano dalla presenza
di accessori incorporati nei singoli oggetti che cosi
riuscivano ad essere competitivi con atri set bagno in ceramica o cristallo e ottone. Quelli
mostrati in foto sono i pezzi scelti e prodotti dalla neonata Teuco. Oggi alcuni di questi
pezzi sono presenti nei maggiori musei mondiali di design.
79
Nel 1972 fu prodotta dalla TEUCO la Doccia tonda con pareti a porta scorrevole.
Pannello di fondo attrezzato con vani portaoggetti, portasapone e scaldasciugamani
schermato.
Esposta al Museum of Modern Art di NEW YORK, anni 1973-1975
Materiale: Metacrilato
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Questa vasca da bagno, fruibile da due persone naturalmente intime, era frutto d’una mia
idea dell’74, e che condivido ancora oggi, che fare il bagno in due è più piacevole che
farlo da soli. Il progetto fu oggetto di considerazioni vagamente lussuriose e poco
proponibile al mercato anche per le sue dimensioni. Fu solo la mia insistenza sulla bontà
dell’idea a indurre la Teuco a produrla sotto indicazione della stessa di fiasco
commerciale clamoroso. Oggi dopo 30 anni è ancora in produzione con qualche migliaio
di pezzi ogni anno, e per di più presente, nella versione vasca doccia mostrata qui sotto,
in collezioni di oggetti della storia del design italiano del museo di arte moderna di
Philadelphia!.
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Anche questa vasca ad angolo fa parte della serie di prodotti “One –off” concepiti per una
esposizione fieristica e rappresentativa come quella del World-Expo di Brisbane, in
Australia, nell’88. Fu esposta in uno stand dell’ICE (Istituto Commercio Estero) in
rappresentanza del design italiano. Stampata in termoformatura sottovuoto con lastra di
acrilico trasparente e verniciata successivamente, all’interno, con vernice acrilica grigioscuro , lasciando una finestra trasparente nella parte anteriore ,come oblò per una visione
subacquea. Era dotata di un display a cristalli liquidi che indicava varie funzioni
programmabili di idromassaggio, di immissione di sostanze profumate, di frequenza radio
FM. Questo modello portò verso una richiesta di mercato per un prodotto di serie con
simili caratteristiche che si realizzò con il modello seguente;
83
Questo è uno dei tre modelli di vasca derivati dal prodotto sopra descritto. Il design
completamente riprogettato per una più facile produzione in serie in quanto termoformato
da una lastra di acrilico bianco (o colorato), con un cristallo di sicurezza riportato in fase
di assemblaggio e coperto superiormente da un elemento morbido (EVA). Questa serie è
diventata uno dei prodotti più richiesti della gamma delle vasche Teuco.
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La foto mostra il primo box doccia al mondo stampato completamente ad iniezione di
PMMA. Un investimento enorme per un simile prodotto, che solo il coraggio
imprenditoriale di Virgilio Guzzini, a nome Teuco, poteva praticare.
Era un design
rivisitato, nelle tecnologie produttive e nelle funzioni, del famoso box doccia tondo da me
disegnato nel ’72 e presente nella collezione del museo di Pechino. Facile da montare,
con multifunzioni controllate elettronicamente, molto di effetto nella versione trasparente,
ha avuto e sta avendo ancora, un notevole successo commerciale.
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Dopo alcuni anni dal box in acrilico, ho disegnato questa doccia ovale multifunzione in
cristallo e Duralite .Un progetto richiesto dal marketing Teuco per incentivare il mercato
tedesco che era più interessato ad un prodotto meno “plasticone” e con forte presenza di
materiali alternativi. Il prodotto di serie risulta molto pulito, nonostante le varie funzioni
(sauna linfodrenaggio, cromoterapia, sedile e mensole) ha un’ aspetto quasi minimalista e
di notevole trasparenza. Ne ho disegnato più versioni, tonda e rettangolare, tutte con
notevole successo commerciale.
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Tra i modelli speciali disegnati per Teuco, c’è questa vasca da parto in acqua. Su
richiesta dell’ospedale di Recanati e dopo un preciso brief informativo con i ginecologi ,è
stato prodotto in alcuni esemplari con cui sono venuti alla luce,felicemente anche per la
mamma, diversi bambini. L’oblò che si vede nella parte anteriore a sinistra serve per
posizionarci una telecamera per riprendere sott’acqua il momento del parto. E’ provvista
di diversi dispositivi di depurazione e disinfezione delle acque, nonché un sedile dietro la
partoriente per il papà che aiuta a spingere per facilitare l’evento. Un esempio di design al
servizio delle pratiche ospedaliere.
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Presentato alcuni anni fa questa cellula bagno era anch’essa un pezzo unico realizzato
nel mio laboratorio di prototipazione industriale. Sponsorizzato dalla Teuco per la
edizione del 2000 della Mostra Convegno di Milano, conteneva un po’ delle mie filosofie
sul sistema bagno-benessere. La cellula era composta da due gusci stampati da lastra di
PMMA, uno per la base da 300 x 200 cm con vasca, pavimento e pareti fino ad un metro
di altezza e l’altro per il soffitto con luci e contenitori di vari sistemi tecnici e anch’esso
alto un metro. Tra le due stampate, una serie di pannellature termoformate completavano
la cellula attrezzata multifunzione di cui:
persona dalla sua impronta digitale,
all’ingresso ,dopo il riconoscimento della
alla stessa veniva misurato ,da una bilancia a
pavimento, il rapporto quotidiano di massa magra–massa grassa. Contemporaneamente,
ma in modo graduale per non disturbare gli occhi al mattino ,si illuminava la cellula e si
predisponevano alle altezze desiderate, il WC-orinatoio a risciacquo automatico e il
lavabo. Rispettando le abitudini soggettivamente programmate, si attivavano le funzioni o
di riempimento della vasca o quelle della doccia con emissione di profumi personalizzati.
Il lavabo era dotato di una rubinetteria automatica e con specchio dietro il quale ,se
acceso. si vedeva la Tv. Le luci ,attorno a questo specchio, potevano essere regolate
con toni mattutini, pomeridiani o serali per un trucco più simile all’ambiente in cui si
troverà il soggetto. Una telecamera a colori zoomabile, posta dietro e in alto, permetteva
88
la visione del retro della testa o del corpo. Se il fruitore di questo sistema benessere
voleva fare fitness, cardio-tonico o isotonico, disponeva di un tapis-roulant o di maniglie e
cavigliere a cavi frenati, tutti riposti e integrati in una parete. A comando vocale
riconosciuto, la zona vasca, oltre all’immersione con idromassaggio idrosonico, poteva
trasformarsi da bagno turco a sauna finlandese cioè, mutando le pareti in plastica a pareti
in legno di betulla. In questo caso si poteva scegliere se fruire del sistema sauna con luci
calde o con lampade abbronzanti. Per l’uso della doccia era prevista la pioggia,
spruzzatori a
nebbia ,linfodrenaggio verticale. E come se non bastasse c’era anche
aromaterapia, musicoterapia , cromoterapia,TV con lettore di cassette o cd con
programmi di fitness o personal trainer. Particolare attenzione era rivolta al risparmio
idrico col riuso dell’acqua della vasca o doccia per sciacquare il WC o al recupero delle
urine dallo stesso per usarle, dopo essiccate, come concime.
Un dimostratore di bagno- benessere privato, di dimensioni contenute, che secondo me ,
non ha fruito della giusta comunicazione di innovazione che potenzialmente si meritava.
Trasformazione della Zona Vasca Idromassaggio in Zona Sauna Finlandese ciò avviene
tramite comando vocale attuando movimentazione di pannelli mobili
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Tapis Roulant estratto dal Vano laterale alla zona Vasca il retro dello sportello contiene i
comandi di controllo, il monitor soprastante mostra un percorso a scelta del fruitore, la
maniglia superiore posizionata sopra il monitor è utilizzabile per fitness isotonico
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Vista con sportello chiuso del vano Tapis Roulant. La foto mostra il sedile ribaltabile e la
zona di aggancio delle cavigliere, inoltre sotto la finestra sono visibili due vani uno per la
biancheria da riporre e l’altro per cestino. S’intravede la zona lavabo che, a comando, è
posizionabile a varie altezze e la specchiera sovrastante è con retro Televisore –Monitor
per la visione panoramica interna del box o per semplice controllo della parte posteriore
della persona
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Parziale visione della zona sauna con il sistema funzionante delle lampade U.V.A. Come
si può notare, la porta d’accesso sul laterale sinistro entra fino alla Vasca sottostante per
facilitarne l’ingresso-vasca alle persone con handicap o anziane.
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Zona WC – orinatoio adattabile anch’esso a varie altezze con comando vocale o tramite
programma personalizzato. Si noti la doccetta doppia funzione: bidè e pulizia del WC con
i portasciugamani riscaldati e profumati. Il pavimento è in legno con vibrazione rilassante
per tutta la superfice
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Per la Simas di Civita Castellana (VT), produttrice di servizi per bagno in ceramica,
disegnai questo assemblato di WC – orinatoio – bidet – lavabo – specchiera –luci –
contenitori - sgabello. Gli elementi singoli, come il lavabo e il WC/orinatoio, quest’ultimo
con sedile e tavoletta morbida in EVA , erano a posizionamento angolare e collocabili
indipendentemente nell’ambiente bagno. Gli specchi erano girevoli attorno ad un tubo
centrale e, sul retro, vi erano mensole porta oggetti. Anche questo componibile,
prototipato nel laboratorio dello studio, era destinato aduna mostra, sponsorizzata dalla
regione Lazio, per Abitare il tempo di Verona - fiere. Non ebbe seguito come prodotto di
serie in quanto la tendenza del mercato era verso il minimalismo spigoloso.
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Lavabo per TELMA in poliuretano rigido della BAYER e vasca in ASTERITE colata in
stampi. Il mobile laterale ha uno specchio verticale, mobile in avanti, per una visione della
schiena del fruitore.
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Rubinetto per TEUCO in ottone cromato. Il dischetto che si vede sotto la maniglia è un
termometro a cristalli liquidi. Fa parte di una serie progettata per servizi da bagno in
acrilico termoformato.
Letto matrimoniale per Bernini, in palissandro e acciaio, con testata attrezzata e comodini
a scomparsa. Faceva parte di un’idea concettuale di fare dei mobili con funzioni a
scomparsa. Ha avuto un buon successo temporaneo poi, così come la mia convinzione, e
scaduto di interesse per la semplice considerazione che alla gente piace avere in vista
tutte le funzioni di base. Oggi, forse, con la moda minimalista, potrebbe ritornare
interessante.
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Questa poltrona in pelle e cristallo, disegnata nel ’68 per un’azienda in provincia di Roma,
si basava concettualmente, su una ricerca ergonomia, tipo sdraio, sulla riduzione del
volume di spedizione e su l’impiego del cristallo di forte spessore sul quale stavo
lavorando per dei
piani di tavoli. Questo prodotto ebbe successo, specialmente in
America dove fu copiato da alcune aziende locali, e oggi è oggetto di vendita nelle aste di
modernariato.
Lampione, cosi è stato nominato questo lume in poliuretano rigido , disegnato nel ’69 per
D.H. Guzzini. Era frutto delle mie esperienze con il prodotto della Bayer, chiamato
Baydur, su un pezzo di design innovativo da presentare alla Triennale a Milano .
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Il nome Atollo di questo pezzo deriva dal concetto di avere un’insieme di cuscini, sedute
e letto posizionabile al centro stanza ,tipo una piccola isola morbida multiuso. Era in
catalogo negli anni ‘80 da un’azienda produttrice di blocchi in poliuretano morbido e l’idea
concettuale era proprio quella di usare blocchi di poliuretano di unico spessore ricoperti in
stoffa trapuntata prodotta dalla stessa azienda.
Scrivania operativa disegnata per Bernini nel’78, in palissandro, motivata per risolvere il
problema di avere tutto a portata di mano senza doversi spostare con la poltroncina lungo
il bordo della scrivania ma fruendola solo ruotando il corpo. Avevo visto pochi giorni
prima un film comico di Monsieur Hulot che evidenziava ridicolmente un impiegato che
si muoveva come un granchio lungo il piano della scrivania.
100
Tapis roulant disegnato per la Newform. Capostipite di una nuova serie di prodotti cardiotonici e iso-tonici, portò l’azienda verso la gamma alta del mercato del benessere .
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Prodotto, su nostro design, di un attrezzo da fitness cardiotonico medirecunbent con
monitor LCD. Il sedile è regolabile per un migliore adattamento alla persona ed il risultato
di una ricerca ergonomia condotta nel nostro laboratorio.
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Modello di laboratorio di un attrezzo cardiotonico tipo stepper .E’ un modello funzionante
con struttura in acciaio e carrozzeria in composito di vetroresina.
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Blocco cucina da centro stanza con piano tavolo apribile verso l’esterno. Progettata per
un’azienda di cucine nell’81, era un pezzo d’immagine e comunicazione aziendale verso il
design. Era attrezzata di piano cottura ,forno ,frigo, lavello, scolapiatti, cappa aspirantefiltrante, radio, luci e ripostigli vari. Rivestita in laminato melaminico, interni in acciaio inox,
il blocco era sostenuto da un tubo verticale in acciaio posto in un angolo del mobile.
104
Altro prodotto d’immagine e comunicazione aziendale questo letto della Frau.
Una
classica struttura a baldacchino, ma con una sofisticata attrezzatura elettronica,
all’interno, che gestisce una serie di meccanismi per attuare molte funzioni. Questo
prodotto era il risultato di una serata allegra in un ristorante a Tolentino tra me e i dirigenti
della Frau, dove si parlava di fare un letto specializzato per fare l’amore. Infatti poi il
progetto serio risultò dotato di un materasso che poteva assumere durezza e forme
diverse, i comodini scorrevano lungo i bordi laterali ed erano dotati di un piano orientabile
verso il letto per uso porta bicchiere per lo champagne contenuto e raffreddato in un frigo
posto dietro i schienali mobili. Nel soffitto erano inseriti degli specchi dotati di resistenze
elettriche che avevano anche la funzione di riscaldare il letto con un controllo
termostatico. Nel soffitto era presente anche un sistema di depurazione dell’aria dai fumi
delle sigarette immettendo poi dei profumi di varie essenze floreali. Era inoltre dotato di
TV con lettori di cassette, impianto H.F.,luci cromoterapiche, tendine laterali per ricreare
un ambiente più intimo come mi aveva consigliato lo psicologo e scrittore
sull’innamoramento, Francesco Alberoni, da me interpellato per
di saggi
una indagine sulla
concettualità di questo progetto. Da questa indagine venne fuori che le donne
mediterranee, così come i maschi in generale, amano l’intimità, mentre le nordiche
preferiscono fare l’amore all’aria aperta. Per questo ho messo un proiettore di paesaggi
esotici, un riproduttore di canti degli uccelli, di sciabordio di onde marine e un emissore di
profumi esotici. Di questo letto era previsto un solo esemplare da esibire in mostre e
museo Frau, ma questa ne ha prodotti altri due per personaggi famosi pagati in anticipo
con assegni da compilare alla consegna.
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Modellino radiocomandato di uno scooter elettrico. Spesso per i veicoli facciamo delle
prove di stabilità dinamica con dei modelli in scala .Sono le prime prove dopo i calcoli
teorici prima di produrre un prototipo in scala reale.
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Simona, designer dello studio, prova il monoposto elettrico. Il motore è all’interno della
ruota anteriore e lo schienale del sedile è un contenitore di oggetti personali. E’
predisposto per lo scambio automatico delle batterie per un veloce rifornimento di energia
elettrica.
108
L’autore Fabio Lenci in un modello di taxi elettrico per 2+1 persone. E’ interamente in
composito di vetroresina con 2 motori elettrici bruschless nelle ruote posteriori. E’ un
modello pensato per la mobilità urbana nei centri storici. Il sedile verso il marciapiede è
orientabile per facilitare l’accesso anche a persone disabili. Sopra il tetto trasparente, in
policarbonato, vi sono delle celle fotovoltaiche per il mantenimento parziale degli
accumulatori elettrici interscambiabili come nel monoposto.
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La foto mostra uno dei tanti modelli volanti radio guidati sperimentati nel laboratorio. Sono
sia modelli in scala per ricerche aereodinamiche di piccoli aerei, categoria ultraleggeri, da
proporre
a
questo
mercato,
o
solo
modelli
da
produrre
per
il
mercato
dell’aereomodellismo. Il laboratorio dispone ,oltre di ottimi modellisti, anche di una serie di
attrezzature, anche a controllo numerico, per la prototipazione industriale e per il
modellismo navale ed aereo. La scelta verso questi settori deriva dalla mia passione di
pilota di aerei e da quella di navigatore con barche a vela, come il trimarano di 17 mt ,qui
sotto illustrato. Da me progettato e costruito con alcuni amici dal’75 all’80 , e tuttora un
bell’esempio di poliscafo da crociera. Finanziato in buona parte con la royalties della
Teuco e dalla quale ha preso il nome.
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Il mio trimarano. Progettato,realizzato in sandwhich di vetroresina e provato in Oceano
Atlantico personalmente. E’ stata una grande esperienza progettuale e manualmente
formativa. Oggi, dopo 25 anni, è una barca d’epoca perfettamente navigante e di ottime
prestazioni crocieristiche.
E’ lunga 17 mt e larga 9.5 e può ospitare 12 persone.
Autore FABIO LENCI
Questo libro è di proprietà di LENCI DESIGN S.R.L.
E’ vietata la riproduzione e la distribuzione anche parziale e su qualsiasi supporto senza
l’autorizzazione dell’autore.
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