Anteprima Estratta dall' Appunto di Storia
economica
Università : Università degli studi Federico II
Facoltà : Economia
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Dell’Orefice – Giura
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LEZIONI DI STORIA ECONOMICA
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LE GRANDI TRASFORMAZIONI NELLA VITA ECONOMICA
Caratteri dell’economia preindustriale
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Prima della modernizzazione dell’economia, le condizioni di vita di ogni paese erano caratterizzate dalla
povertà. Solo una piccola minoranza disponeva del surplus di terra, commercio e imposte, ma la bassa
produttività dell’agricoltura (la fonte di gran lunga più importante del reddito nazionale e di occupazione)
non permetteva la produzione di un grosso surplus. Il passaggio ad un sistema economico basato su
accumulazione e sviluppo si ebbe infatti solo tra il XVIII e il XIX secolo.
Nella maggioranza degli Stati alla metà del 1700 vigeva un’economia preindustriale, caratterizzata dalla
preponderanza dell’agricoltura che generava un regime di autosufficienza in cui le attività artigianali o
industriali erano solo sussidiarie. La produttività era scarsa e le tecniche di coltivazione arretrate, si utilizzava
ancora le rotazioni biennali o triennali di cereali, patate e mais intervallate dal maggese. Anche l’allevamento
era arretrato: si lasciavano gli ovini allo stato brado nelle terre comunali. Era sufficiente che un raccolto
andasse male perché si abbia la tipica crisi dell’età preindustriale, detta crisi di ancien régime.
La terra era ancora l’investimento più sicuro ed era simbolo di prestigio sociale, tuttavia il settore primario
era ancora contraddistinto da mediocrità e stagnazione.
Anche il settore secondario era arretrato: i contadini producevano da sé per il proprio consumo gli oggetti di
prima necessità, mentre gli artigiani offrivano merci di maggior pregio. L’industria mineraria e siderurgica
avevano ancora uno scarso rilievo, mentre l’unica produzione di una certa rilevanza era quella tessile.
Il ristagno dell’agricoltura, la dispersione dell’industria e la conseguente povertà potevano essere comprese
anche con l’esiguità della circolazione, che rendeva l’economia preindustriale un’economia immobile. Le vie e
i mezzi di comunicazione erano pessimi; le più usate per il loro basso costo nel trasporto delle merci
ingombranti erano le vie d’acqua, sia marittime che interne (infatti in tutto il XVIII furono sempre più
migliorate nei Paesi Bassi, in Francia e in Gran Bretagna).
I trasporti insufficienti e i vincoli e le barriere interne causarono l’inesistenza di un mercato unico interno.
Uno dei fattori che permisero la prima transizione al capitalismo fu senza dubbio la rivoluzione demografica.
Tra l’incremento della popolazione e lo sviluppo dell’economia intercorre una relazione reciproca. In Europa
durante il 1700 si ebbe una tendenza all’aumento della popolazione, causata da diversi fattori: il progresso
della medicina (vaccino antivaiolo di Jenner), la diminuzione delle carestie, i miglioramenti nell’edilizia (il
mattone sostituì il legno e l’argilla), le migliori cure nell’igiene personale, la migliore pulizia nelle città
(costruzione di fogne ed acquedotti), il miglioramento dell’alimentazione. L’aumento della popolazione causò
l’aumento della domanda di prodotti agricoli e di materie prime, ed aumentò anche il reddito pro-capite dato
che la crescita demografica fu comunque inferiore a quella della produzione.
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La rivoluzione agraria
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La rivoluzione agraria consistette in grandi trasformazioni nella tecnica e nelle usanze agricole, e fu causata
dalla necessità di aumento della produzione dovuta all’ascesa della popolazione e al crescente fenomeno
dell’inurbamento.
L’inizio della rivoluzione agraria avvenne in Inghilterra nel XVIII secolo, principalmente a Londra, che a causa
della sua numerosa popolazione doveva essere rifornita dall’intero Paese. In questo modo cominciarono a
cadere i vincoli che inceppavano il mercato agricolo e la produzione cerealicola si rivolse prima al mercato
interno e in seguito a quello esterno.
La trasformazione dell’agricoltura era diretta a raggiungere un duplice scopo: aumentare la redditività delle
terre coltivate e estendere la coltivabilità delle terre incolte.
Per raggiungere questi scopi si fece ricorso a perfezionamenti nella tecnica agraria. Ad esempio, la
tradizionale rotazione triennale inglese lasciava ogni anno un terzo delle terre coltivabili a maggese,
rendendole di fatto inutilizzabili. Lord Townshend introdusse la rotazione quadriennale di grano, ravizzone,
avena e trifoglio, in modo da avere la totalità dei campi produttivi.
Ma l’adozione generale di nuove tecniche agrarie e di allevamento non era facile. Il rinnovamento
dell’agricoltura europea doveva infatti passare per tre tappe fondamentali: la liberazione della persona del
lavoratore rurale (emancipazione dei servi), la liberazione della proprietà dalle restrizioni legali (mobilità nel
trasferimento della terra) e l’abbandono delle antiche tecniche agricole (maggiore libertà nell’uso della terra).
Tutte queste tappe erano già state raggiunte in Inghilterra: lo stato servile era stato abolito nel 1500 (a
parte alcune restrizioni come lo statuto sull’apprendistato del 1563 e la legge sul domicilio del 1662); la terra
era libera molto prima che in Francia o altrove (le uniche restrizioni erano quelle dei contratti e dei
testamenti); a questo proposito bisogna ricordare la mentalità più propositiva della nobiltà inglese e
soprattutto il fenomeno delle enclosures (recinzioni), mediante il quale dal 1750 al 1850 le terre comuni
vennero recintate e trasformate in proprietà private. Questo movimento portò alla diminuzione del numero
delle piccolissime proprietà e alla concentrazione di grandi proprietà in poche mani, favorendo l’iniziativa e
l’innovazione nelle tecniche agrarie.
La riorganizzazione dell’agricoltura ebbe effetti positivi ed effetti negativi. Gli effetti positivi furono una
maggiore superficie di terra coltivata, l’uso di metodi più efficaci di coltivazione, i minori costi, i raccolti più
abbondanti, i migliori prodotti di allevamento. Gli effetti negativi furono l’estinzione del ceto dei piccoli
proprietari-coltivatori, la fine del diritto di pascolo sulle terre comunali e il calo dell’industria domestica.
In questo modo si passò dalla proprietà della terra all’affitto caratteristico del 1800: i proprietari affittavano
le loro terre agli affittuari che coltivavano con cura il terreno. Ma a fare le spese di questo sistema furono i
lavoratori agricoli, perché erano solo salariati senza alcuna speranza di diventare proprietari o affittuari.
Benché la produzione continuasse ad aumentare, l’andamento dei prezzi continuava al rialzo a causa
dell’aumento della popolazione, dei cattivi raccolti e alle guerre napoleoniche, in particolar modo dal blocco
continentale che impediva le importazioni. Il corso forzoso, vale a dire la sospensione dell’obbligo di
convertire i biglietti di banca in oro da parte della Banca d’Inghilterra, condusse a una fortissima emissione
di biglietti che causò una altissima inflazione. La moneta si deprezzò, il potere d’acquisto diminuì e i prezzi
salirono a livelli altissimi.
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La rivoluzione industriale
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La rivoluzione industriale fu il primo processo sostenuto di industrializzazione. Esso si verificò in Gran
Bretagna tra il 1760-1830/1850 e implicò una trasformazione nelle strutture economiche e
nell’organizzazione sociale e il passaggio del maggior numero degli occupati dal settore primario a quello
secondario e terz iario.
L’industria precedente (principalmente laniera) era di vecchio stile, aveva quindi tre caratteristiche
fondamentali: il lavoratore svolgeva la sua attività in casa (cottage), l’influenza del capitale era ridotta (il
capitale e il lavoro erano concentrati in un’unica persona) e l’azienda non rappresentava l’unica occupazione
(l’industria non era accentrata). Questo sistema era denominato sistema domestico.
La prima modifica a questo sistema si ebbe quando i filatori, invece di acquistare la lana, la ricevettero dai
mercanti e furono pagati a cottimo per filarla (putting out system o sistema dell’assegnazione successiva del
lavoro). A differenza del sistema domestico in cui tutte le fasi della produzione facevano capo alla stessa
famiglia, ora si attribuiva ai lavoratori nelle loro case le singole fasi della lavorazione mentre il
mercante-imprenditore dirigeva l’intero processo produttivo e curava la commercializzazione del prodotto.
Fino all’invenzione delle macchine non era necessario riunire i lavoratori in una fabbrica perché non
occorreva un impianto centrale.
I difetti del sistema domestico erano la produzione diseguale in qualità e quantità, le cattive condizioni di
lavoro, le paghe basse, l’orario eccessivo, l’assenza di controllo sulla produzione, le forti perdite di tempo e
manodopera, l’incapacità di reagire con prontezza alla domanda di mercato in aumento.
Ma alla fine del 1700 il sistema domestico fu sostituito da quello di fabbrica. Questo mutamento ebbe due
momenti: all’inizio ci fu un profondo mutamento nell’organizzazione con scarse variazioni nei metodi
produttivi; in seguito la tecnica produttiva conobbe miglioramenti rivoluzionari.
Ma perché la rivoluzione industriale ebbe luogo proprio allora?
Di fronte a una domanda crescente, l’offerta non era sufficiente per soddisfarla, a causa del fatto che le
forze motrici esistenti (umana, animale, eolica, idraulica) erano utilizzabili irregolarmente e i metodi di
produzione erano rozzi e insufficienti. Era quindi necessario trovare qualcosa di nuovo per ovviare a questo
stato di cose. L’aiuto venne dal progresso scientifico, soprattutto in Inghilterra: gli inglesi furono i più abili ad
applicare alle questioni pratiche le nuove invenzioni. Una delle più importanti fu quella di James Watt, che
con la sua macchina a vapore permise lo sfruttamento anche a grande profondità delle miniere di carbone.
Ci sono naturalmente anche altri fattori che favorirono lo sviluppo industriale proprio in Inghilterra: se
consideriamo il punto di vista dell’offerta, gli inglesi avevano libertà politiche ed economiche che permisero
l’iniziativa imprenditoriale e l’apertura verso i mutamenti economici, oltre a una maggiore mobilità sociale, e
inoltre esisteva un sistema bancario grazie al quale era facile procurarsi il capitale necessario agli
investimenti. L’Inghilterra possedeva le materie prime, larghi capitali, un sistema idrografico sfruttabile per la
forza idraulica, un clima umido ideale per l’industria tessile e siderurgica, manodopera specializzata e inoltre
aveva la sicurezza della sua insularità.
Anche la Francia e l’Olanda erano due nazioni avanzate, ma non erano in grado di contrastare l’Inghilterra:
la Francia si limitava a prodotti di lusso, mentre l’Olanda mancava di materie prime.
Ma la vera forza propulsiva della rivoluzione industriale fu la domanda. Fu infatti l’espansione del mercato
iniziata nel 1760 a costringere i produttori inglesi a cercare metodi produttivi meno costosi e più efficienti.
L’aumento della domanda si verificò per una serie di motivi: lo sviluppo europeo nel 1700, la richiesta di
prodotti inglesi da parte dei coloni americani, la potenza della flotta inglese (che controllava il commercio
internazionale), l’aumento della popolazione, il miglioramento delle vie di comunicazione e l’importanza del
mercato potenziale.
Oltre ai fattori economici bisogna considerare anche le innovazioni apportate alla tecnica produttiva:
l’industria tessile mosse i lavoratori dalle case alle fabbriche, l’industria siderurgica offrì materiale per la
costruzione di nuove macchine e di nuove industrie e l’industria estrattiva offrì il combustibile per far
funzionare il nuovo sistema industriale.
Le invenzioni si possono dividere in due categorie: quelle che sostituivano l’uomo e quelle che fornivano
forza motrice.
La prima industria meccanizzata fu quella cotoniera. Nel 1733 Key inventò la navetta volante, nel 1764
Hargreaves inventò Jenny, nel 1769 Artwright inventò la waterframe e infine nel 1779 fu introdotta la
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spinning mule. Queste invenzioni causarono un eccesso di filato rispetto al tessuto, quindi fu necessario
inventare i telai meccanici che contribuirono a far riunire tutti gli operai in un’unica fabbrica.
Per quanto riguarda l’industria siderurgica, Smeaton inventò la fornace ad aria calda o altoforno che
produceva temperature più elevate, ma era necessario usare il carbone al posto del legno. Di conseguenza
gli impianti sorsero vicino alle miniere invece che vicino alle foreste. Tuttavia due gravi ostacoli rischiarono di
limitare lo sfruttamento delle miniere: l’allagamento e la presenza dei gas infiammabili. Ma ancora una volta
grazie alle nuove invenzioni (la macchina a vapore di Watt per azionare le pompe e la lampada di sicurezza
di Davy del 1815) permisero di superare questi inconvenienti.
La rivoluzione industriale portò profondi cambiamenti anche dal lato politico e sociale. Dal punto di vista
politico, nacque una nuova classe media e vennero eliminati i residui privilegi feudali, mentre dal punto di
vista sociale nacque una classe numerosa di dipendenti salariati. Questo comportò una scissione del capitale
dal lavoro, un’atmosfera di insicurezza causata dalle frequenti crisi, ma al tempo stesso un elevamento del
tenore di vita.
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L’economia francese durante la rivoluzione
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Alla vigilia della rivoluzione, la Francia era la principale potenza continentale, ma era ancora in ritardo
rispetto all’Inghilterra in quanto era ancora largamente diffusa un’economia di sussistenza. Nel settore
tecnico, l’industria francese si espanse rapidamente, ma sempre nell’ambito di un sistema tradizionale.
Durante il 1700 nacque e si sviluppò una società industriale che chiedeva una maggiore libertà economica.
Infatti già nel 1716 le Camere di Commercio di Bordeaux e Nantes reclamavano l’abolizione delle
corporazioni, ma la protesta più vibrata fu quella dei fisiocratici, che miravano all’assoluta libertà della
concorrenza. Il maggior interprete di questo pensiero fu Turgot, al governo tra il 1774 e il 1776. Egli attuò
un programma economico – finanziario – amministrativo in cui abolì le dogane interne sui cereali, abolì le
corvées, abolì l’antico regime di commercio e produzione, e infine con il decreto del marzo 1776 abolì anche
le corporazioni, per garantire una maggiore libertà di lavoro. Questo decreto ebbe però solo un inizio di
applicazione, perché la nobiltà protestava per questo attacco ad uno dei suoi privilegi secolari e gli operai
lamentavano la diffusa disoccupazione che, per altre cause, colpì il Paese.
Le corporazioni riapparvero con alcune innovazioni, ma ormai i tempi erano maturi per la Rivoluzione che
spinta dal malessere delle campagne fece crollare rapidamente l’Ancien Régime. Sotto la spinta di fisiocratici,
industriali e contadini, la prima assemblea della Rivoluzione (Assemblea Nazionale) abolì le corporazioni nel
marzo del 1791. Inoltre, nel giugno dello stesso anno, la legge Le Chapelier condannò qualsiasi forma di
associazione professionale che ostacolasse l’ideale delle libera concorrenza.
Con un processo in due tappe venne abolito anche il feudalesimo: nel 1789 furono aboliti i diritti signorili
(caccia e pesca, forno, mulino, torchio), mentre nel 1793 sotto la spinta dei moti controrivoluzionari di
Bretagna e Vandea la Convenzione abolì anche i diritti reali, ossia quelli legati alla terra e non all’individuo.
Ma il programma controrivoluzionario dovette essere abbandonato a causa dei nuovi sviluppi della
situazione. L’agricoltura fu colpita da una serie di cattivi raccolti, i prezzi salirono altissimi a causa
dell’inflazione derivante dalle continue emissioni di assegnati e si reclamò quindi il ritorno al sistema di
requisizioni, regolamentazioni, calmieramenti in vigore per secoli in Francia. Ogni provincia cercò di
trattenere la propria produzione all’interno dei propri confini e ritornarono in vigore le dogane interne.
Nacquero quindi partiti avversi all’idea fisiocratica e iniziò il periodo del Terrore, dalla caduta della monarchia
(10 agosto 1792) a quella di Robespierre (27 luglio 1794). La massima espressione dell’antifisiocrazia fu la
legge sul maximum dei prezzi: i proprietari e i produttori dovevano dichiarare le merci e le derrate di prima
necessità e sottoporle ad una tariffazione fissa. Il risultato fu la paralisi totale del commercio interno perché i
contadini nascondevano il grano e i mercati restavano deserti. Nelle città si verificarono sommosse e bisognò
imporre il razionamento. Alla caduta di Robespierre il Terrore economico si attenuò, ma la politica vincolistica
non fu interrotta, tuttavia alla fine nel dicembre del 1794 fu necessario abolire anche la legge relativa al
maximum.
Per quanto riguarda il commercio estero, il trattato franco-britannico permise lo sviluppo del commercio con
l’Inghilterra, ma i rapporti con gli altri Paesi erano regolati da tariffe che erano diverse da provincia a
provincia. Finalmente nel 1791 fu approvata una tariffa uniforme per tutto il Paese, seguendo una politica
economica di protezionismo moderato. Ma questi provvedimenti non riuscirono a migliorare la situazione: la
diminuzione del commercio estero si rifletté su quello interno e la crisi divenne molto grave.
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L’economia francese durante l’impero
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Una volta conquistato il potere, Napoleone dovette risolvere non pochi problemi. Egli era sempre interessato
(anche se da un suo punto di vista) ai progressi dell’economia, che riteneva importanti non tanto in quanto
strumento per migliorare la condizione umana, ma per motivi politici: una economia fiorente avrebbe
garantito un aumento della popolazione che a sua volta avrebbe fornito numerose reclute per l’esercito;
inoltre il basso prezzo delle derrate avrebbe contribuito a mantenere l’ordine nel Paese.
La questione preminente era quella monetaria. La Francia era legata al numerario che veniva in gran parte
tesaurizzato e mancava di contante; da ciò derivava un alto costo dei capitali. La Banca di Francia ottenne
quindi nel 1803 il monopolio di emissione. Ma la cattiva esperienza con gli assegnati consigliava cautela a
Napoleone per quanto riguarda la carta moneta, quindi fu giocoforza adottare una politica mercantilista: la
Francia doveva difendere il suo metallo limitando al massimo le importazioni e aumentando le esportazioni
con un politica di conquista. A questo scopo si incoraggiò la produzione di beni di lusso, si completò
l’unificazione del mercato nazionale imponendo il sistema metrico e fissando il sistema monetario sulla base
di un rapporto fisso tra oro e argento (1:15,5), si stabilizzò la moneta fissando il valore del franco ad un
peso d’argento e si resero identiche moneta reale e moneta di conio.
Per sviluppare l’innovazione tecnologica si istituì nel 1801 la Società Per l’Incoraggiamento dell’Industria
Nazionale, con il compito di stimolare il progresso tecnico offrendo premi per l’invenzione di nuove macchine
e per il perfezionamento di quelle esistenti.
Le associazioni dei lavoratori furono dichiarate illegali così come le contrattazioni collettive e gli scioperi, si
procedette alla riforma legislativa con il nuovo Codice Civile (1803) e si sviluppò il sistema stradale.
Per quanto riguarda la lotta con l’Inghilterra, con il decreto di Berlino del 1806 si attuò il blocco continentale
per escludere l’Inghilterra dal mercato europeo. Questa decisione derivava dalla tradizionale politica
commerciale francese, che aveva il fine di raggiungere l’autosufficienza economica, e dalla consapevolezza di
Napoleone che egli non era in grado di attaccare gli inglesi nella loro isola. Gli obiettivi non furono raggiunti,
ma l’azione ebbe effetti considerevoli: l’industria inglese per non soccombere fu costretta a ricorrere al
contrabbando dei propri prodotti nel continente e a lanciarsi alla ricerca di nuovi mercati di sbocco nel Centro
e Sud America. Tuttavia nonostante i danni sofferti l’espansione inglese non si arrestò.
Il blocco ebbe importanti conseguenze anche sull’economia dell’Europa continentale: grandi porti videro
svanire i loro traffici, si verificò una carenza di materie prime necessarie all’espansione delle industrie e il
forte rincaro dei prezzi spinse a cercare beni succedanei e nuovi modi di produzione. I danni maggiori furono
quelli subiti dal commercio coloniale, perché il blocco della flotta britannica lo fece quasi scomparire e molte
industrie francesi del levante decaddero o chiusero. Al contrario nel nord-est della Francia si verificò
un’espansione dell’attività economica poiché in seguito alle conquiste napoleoniche si creò un nuovo polo
commerciale grazie alle vie di comunicazione che lo univano all’Europa continentale e all’Italia.
Il periodo napoleonico vide un certo progresso in alcuni settori industriali, con l’introduzione delle macchine
e l’inizio del processo di concentrazione, anche se lo sviluppo fu in gran parte non dovuto allo spirito
d’iniziativa degli industriali inglesi quanto alla politica protezionistica che assicurava loro il mercato interno e
quelli dei Paesi in cui l’influenza francese era molto forte.
Anche nel mercato agricolo il blocco delle importazioni, la forte domanda dell’esercito, l’estendersi del
mercato grazie alle conquiste, il rialzo dei prezzi stimolarono la produzione, ma lo stato dell’agricoltura restò
arretrato. Inoltre il continuo stato di guerra sottraeva uomini dai campi con risultati negativi per
l’occupazione nell’agricoltura.
L’economia francese nel periodo napoleonico fu quindi un’economia di guerra, finalizzata agli scopi che la
politica di Napoleone si era preposta.
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1. Indicare le basi ideolog
Risposta:
Furono caratterizzate da tre grandi sistemi
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2. Quanto è stato importante l'argento de
Risposta:
Le riserve minerarie europee sono piuttosto scarse; ma dalla scoperta dell'America e dalla scoperta delle
sue miniere d'argento (molto copiose, come Zacatecas e Potosì) si ha una diffusione commerciale molto
ampia di questo metallo. L'importazione dei metalli preziosi è tassata dalla corona spagnola (25%
dell'importazione poteva essere tenuto da chi l'aveva estratto); il restante 75% è scambiato con la
madrepatria in cambio di qualsiasi genere commerciale che nelle colonie non è presente. L'argento che
arriva in
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