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“Va pensiero”
e il Salmo 137
Il coro del Nabucco tra Bibbia e Risorgimento:
un inno “adottato” e una “paternità legittima” dimenticata.
Il 150° dell’unità d’Italia ha indotto molti italiani a riscoprire le
proprie radici di italianità, ricercandole non solo in quel “pizza,
spaghetti e mafia” con cui i nostri genitori sono stati “bollati”
nei Paesi in cui emigrarono per lavoro.
Anche la scuola e i suoi docenti hanno attivato iniziative e progetti non sempre facilmente documentati e rintracciabili. Anche
l’Idr, infatti, è un italiano (almeno lo richiede una sua condizione professionale). Italiano per cittadinanza, non necessariamente per identità storico-geografica di nascita (la presenza
di Idr non italiani è una benedizione per l’Irc: lo rende più cattolico e fa di quella confessionalità criticata – ritenuta ad “imbuto capovolto” – un’opportunità di osmosi e di riscoperta della confessionalità intesa come la vera cattolicità, quella del katà ólon della Chiesa verso la totalità dell’ecumene).
E se il pensiero andasse alla Bibbia?
L’inno nazionale ufficiale italiano è Fratelli d’Italia (quale genitorialità ci rende fratelli?). Ma l’inno adottato, il più emotivamente coinvolgente continua ad essere il Va pensiero. La musica è di Giuseppe Verdi (1813-1901), l’opera è Nabucco. Il libretto è di Temistocle Solera (1815-1978). Ma chi, cantando
il Va pensiero, è andato con il pensiero alla Bibbia? Perché
L’autore
Pasquale Troìa è Idr al liceo scientifico “Farnesina” di Roma, autore del progetto multimediale Bibbia Educational e docente di Bibbia e
musica alla Pontificia Università dell'Angelicum.
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avrebbe dovuto farlo se non sa che le parole di questo “inno”
sono una parafrasi del Salmo 137? A scuola l’Idr (insieme agli
altri colleghi) potrebbe in modo specificamente disciplinare
ed interdisciplinare consapevolizzare gli studenti dell’ispirazione biblica del Va pensiero e di tutto il Nabucco? Come fare? Studiando per poi insegnare (come dovrebbe fare il docente), ed apprendendo ed interagendo (come dovrebbe fare
lo studente).
La parafrasi biblica
La parafrasi è una figura della retorica del parlare e dello scrivere (retorica intesa come grazia del parlare e dello scrivere,
ars bene dicendi et dictandi ). Etimologicamente il termine significa “frase posta vicino” (diversa dall’esegesi) e consiste
nella «ripetizione o esposizione di un testo biblico con parole
proprie, spesso accompagnate da sviluppi o chiarimenti mediante circonlocuzioni o aggiunte esplicative, talora anche con
la traduzione del testo. Lo scopo della parafrasi è rendere più
comprensibile un detto o un pensiero biblico» (J. Heriban) ed
anche quello di «dilatare il sentimento» (L. Alonso Schökel) e la
partecipazione dei lettori/ascoltatori. Una parafrasi poetica
del Salmo 137 è Alle fronde dei salici, 1947, di Salvatore
Quasimodo (1901-1968). Ma anche l’arte, la musica, le
espressioni bibliche nel linguaggio corrente... sono marcate da parafrasi bibliche.
Nota di redazione: in questo contributo la grafia del titolo del coro del Nabucco rispetta quella del libretto originale (Va senza apostrofo), secondo
l’uso dell’epoca.
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che «il salice è un albero sterile» («come l’intelletto sterile, lógos
ákarpos, di chi siede nell’ombra e nell’ignoranza», parafrasa
Origene allo stesso versetto).
Per l’israelita il canto non è sterile, anzi è teogonico, ha origine
dal vivere ciò che Dio ha donato: Sé stesso, la Tôrāh, una guida,
la terra. Ma come si può cantare quando uno di questi doni è violato? Come si può cantare quando i piedi sono nella diaspora e
il cuore è verso Gerusalemme? Quando «il mio cuore è in oriente e io sono all’estremo occidente» (Jehûdāh ha-Lewî)?
La nostalgia dell’esule
tutti sotto voce
Soprano & Alto
Va
pen - sie - ro,
sul l’a - li
do - ra
-
te;
Va
pen - sie - ro,
sul l’a - li
do - ra
-
te;
Va
pen - sie - ro,
sul l’a - li
do - ra
-
te;
Tenor
Bass
In esilio
Le quattro voci (soprano e contralto, le due voci femminili; tenore e basso quelle maschili) del coro cantano all’unisono. Cominciano il Va pen-[siero] su un tempo debole (figura retorica chiamata anacrusi) con un andamento in levare, e quindi il tempo forte è su [pen]- sie -[ro] e non su Va. Il canto continua per nove
versetti su una cantilena in 4/4, sommessa, nostalgica, malinconica come il pensiero dell’esule mentre la musica snoda
un’ampia onda di semplice accompagnamento con sestine (gruppo di sei note che vanno suonate insieme non secondo il loro singolo valore ma con la durata normale del movimento nella battuta).
La musica è insolitamente nella tonalità di fa diesis maggiore
(con ben sei diesis in chiave!). Una tonalità che canalizza il coro in un impegno e in un orientamento tonale preciso e vocalmente definito e definibile, ma con la percezione di fragilità e di
instabilità, l’insicurezza di chi sa dove guardare ma non si trova dove vuole essere.
Gli studenti pensano che l’esilio sia una condizione che vivono
soltanto gli immigrati venuti dal mare. Ma l’esilio è una condizione che si vive anche quando il cuore è lontano dal luogo,
reale o meno, in cui la persona vorrebbe vivere. Quando il proprio cuore non è ospitato in quello dell’amato. E c’è anche
l’esilio della parola, della libertà, della coscienza, di tutti
quei diritti che altri oppressori e deportatori tendono a normalizzare come situazioni di fatto o necessità.
Il Nabucco racconta e ricostruisce la prima (597 a.C./a.e.v.) e
la seconda (587 a.C./a.e.v.) deportazione degli ebrei in Babilonia, dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo primo
Tempio, quello costruito da Salomone. Ma nella valenza di contemporaneità e di paradigmaticità che ogni arte impone, le parole e la musica del Va pensiero degli ebrei si attualizza e diventa parafrasi e voce di un esilio di cui non si può parlare,
l’“esilio in patria” che subiscono gli italiani da parte degli austriaci prima del Risorgimento. E che trova casualmente nello
stesso nome di Verdi un acrostico risorgimentale (V iva V ittorio
E manuele R e D’I talia).
L’orgoglio singhiozzato
Subito dopo questa cantilena nostalgica, il canto si inerpica,
si inorgoglisce, cambia tonalità di portamento, si interroga... cantando Arpa d’or dei fatisotto voce
dici vati, perché muta dal salice
pendi?
Perché mu - ta
dal sa - li
Un’arpa/cetra che pende dal salice a chi conosce bene i Salmi
Per-ché mu - ta
dal sa - li
non può non evocare la stessa
immagine del Salmo 137 espresPer-ché mu - ta
dal sa - li
sa con il versetto 2: «Ai salici di
quella terra appendemmo le nostre cetre» (kinnorôth in ebraico, organa, strumenti musicali,
nella LXX e nella Vulgata).
Nel canto le parole della domanda (perché mu-ta-dal sa-li-ce
pendi?) sono scandite sillaba per sillaba con pause di tempo
diverso, perché alternativamente di una croma, 1/8 ( ), e di una
semicroma, 1/16 ( ), che ne esprimono il singhiozzo.
Nel Salmo 137 è un orgoglioso singhiozzo: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?». San Girolamo nel suo commento a questo salmo aggrava la considerazione, osservando
Il canto dell’esule
-
-
-
In che cosa trova la sua consolazione l’esiliato? Soltanto nel radicarsi e nel riconoscere che «i tuoi statuti [o Signore] sono stati
ce pen - di?
per me come delle melodie [zemirôth, psaltà, cantabiles, melodies, Lied, chants, cánce pen - di?
ticos, canti] nei luoghi delle mie peregrinazioni» (Sal 119(118),54). Allora, come i negro spirituals, il canto è energia di liberazione, ispirato da
Dio («O t’ispiri il Signore un concento»), epifania musicale di
quegli aneliti di libertà che «albergano» in ogni cuore. E pur se
si esprime e ha origine «in un suono di crudo lamento», riesce
a trasformare il patire dell’esilio nelle virtù che riscattano la liberazione. E a infonderle come speranza nel cuore dell’esiliato da ogni sua patria. Ieri, come oggi.
ce
pen - di?
PASQUALE TROÌA
INSEGNARE RELIGIONE • Novembre-Dicembre 2011
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