Attualità biologica / News and Views
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È ACCADUTO… / IT HAPPENED…
Estinzioni e conservazione: il ruolo dei modelli nello studio e nella
tutela della diversità biologica
Il 19 Novembre è stato tenuto, presso la Domus Galilaeana di
Pisa, un seminario con questo titolo, frutto della collaborazione tra
il Centro Interdipartimentale per lo Studio dei Sistemi Complessi
dell’Università di Pisa (CISSC) e la Domus Galilaeana. Oggetto
del seminario era la validità dei modelli utilizzati da differenti discipline nello studio e nella conservazione della biodiversità. Punto
di partenza della discussione, coordinata da Giovanni Santangelo
(Dip.to Etologia, Ecologia, Evoluzione, UNIPI-CISSC) era la considerazione che il compito principale per gli ecologi dovrebbe essere, attualmente, quello di favorire la conservazione degli habitat,
delle specie e delle popolazioni attraverso l’utilizzo di metodi e
modelli appropriati.
Il primo intervento, tenuto da Francesco Santini del Muséum
National d’Histoire Naturelle di Parigi, focalizzato su: “Estinzioni
per maladattamento (bad genes) o sfortuna (bad luck)? Qualche
commento sulle lezioni ricavate da 30 anni di modellizzazioni filogenetiche”, trattava del peso che è stato successivamente attribuito
dal pensiero evoluzionistico all’adattamento (fenomeno legato ai
“buoni geni”) ed alle estinzioni di massa (evento casuale, “sfortunato” per chi lo ha subito), nel determinare le estinzioni. Secondo
i modelli di tipo I, di “Darwin-Lyell”, la competizione tra specie
sarebbe stata il fattore determinante della maggior parte delle estinRivista di Biologia / Biology Forum 98 (2005), pp. 13-38.
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zioni ed avrebbe agito in modo lento e graduale. In questo caso la
sopravvivenza delle specie sarebbe dovuta esclusivamente al loro
adattamento all’ambiente. Secondo i modelli di tipo II, basati sul
“modello di Cuvier” (sensu Raup-Sepkoski) invece, il peso delle estinzioni di massa (dovute a eventi catastrofici come impatti di meteoriti o asteroidi) sarebbe stato determinante e la sopravvivenza non
dipendente da adattamenti all’ambiente pre-catastrofe. Lo studio
della filogenesi può fornire i modelli da cui devono poi derivare le
spiegazioni dei processi e dei meccanismi evolutivi. Quest’approccio permette, lavorando sui soli gruppi monofiletici, di confrontare
le curve di estinzione di cladi simulati con quelle reali. Semplici
simulazioni casuali forniscono andamenti molto simili a quelli dei
dati paleontologici reali per vari gruppi animali (come rettili e gasteropodi), ma presentano alcune significative differenze dovute
principalmente alla presenza nei dati reali di estinzioni di massa,
ed alla persistenza di linee biologiche che mantengono una diversità costante (spesso bassa) per lunghi periodi geologici. Questo fenomeno è stato definito “effetto celacanto”, dal noto “fossile vivente”. I risultati di queste simulazioni indicano che esistono fondamentalmente 3 tipi di estinzioni: 1) estinzioni casuali in un regime di estinzione di massa, quando le specie scompaiono indipendentemente da qualsiasi proprietà biologica che le caratterizzi (ad
esempio i taxa distribuiti in una zona colpita direttamente dall’impatto di un grande meteorite); 2) estinzioni selettive con la sopravvivenza del più adatto (modello darwiniano classico); 3) estinzioni
selettive (Wanton), in cui qualche organismo sopravvive preferenzialmente, non perché sia il più adatto ma solo perché dotato di
pre-adattamenti. Essendo la presenza di questi caratteri impossibile
da predire, in quanto spesso non hanno una funzione ben definita
in regime pre-catastrofe ma si rivelano essenziali in regime post-catastrofe, questi risultati pongono seri interrogativi riguardo alla
possibilità di preservare specie in ecosistemi il cui equilibrio ecologico sia stato drasticamente alterato.
Michelangelo Bisconti (Dip.to Scienze della Terra, Univ. di
Pisa) ha trattato del rischio di estinzione dei cetacei misticeti in un
intervento dal titolo: “Le estinzioni dei grandi cetacei: modelli paleontologici e neontologici a confronto”. Dopo una caccia che
dura da millenni e che ha conosciuto un brusco incremento a par-
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tire dalla seconda metà dell’ottocento, le popolazioni di cetacei
(soprattutto quelle di misticeti) sono state notevolmente impoverite. Tra il 1925 ed il 1975, in particolare, sono state uccise
1.500.000 balene. Nonostante la pesca commerciale sia ufficialmente bandita dal 1986, da allora fino ai nostri giorni altre 20.000
balene sono state cacciate, sfruttando come giustificazione pretestuose “motivazioni scientifiche”. Mentre le estinzioni “di fondo”
possono essere considerate come una normale e spontanea sostituzione di alcune specie con altre, le estinzioni locali e documentate
di popolazioni geografiche di balene, sono fenomeni rapidi, dovuti
alle attività di pesca. È il caso della popolazione dell’Atlantico settentrionale della balena grigia (Eschirichtius robustus), della popolazione dello Spitzbergen-Mare di Barents, della balena della Groenlandia (Balaena mysticetus), della popolazione della balenottera
azzurra (Balenoptera musculus) del mar del Giappone e della balena
franca settentrionale (Eubalaena glacialis) di cui sopravvive una
sola popolazione di circa 300 individui nell’Atlantico, attualmente
oggetto di un accurato monitoraggio demografico. Per queste ed
altre specie la International Whaling Commission ha agito in ritardo ed in maniera inadeguata alle informazioni scientifiche disponibili circa la demografia delle popolazioni e l’insostenibilità del prelievo in corso, utilizzando modelli sovrastimati e non realistici. Le
balene hanno bassi tassi di riproduzione e le loro popolazioni, che
presentano anche una bassa mortalità naturale, faticano a recuperare la mortalità dovuta alla pesca.
Le popolazioni di balene non presentano, inoltre, alcun incremento del tasso di accrescimento in risposta ad una riduzione della
densità (densità-dipendenza), ma possono, invece, andare incontro
a tassi di accrescimento negativi per basse densità (effetto Allee).
Si è cercato di ricostruire la storia demografica e la consistenza
degli stock dei grandi cetacei prima dell’inizio della pesca industriale. Se le popolazioni vanno incontro ad una forte riduzione
numerica, gli individui sopravvissuti presentano una bassa diversità
genetica (collo di bottiglia). Poiché esiste una relazione tra diversità
genetica, taglia di una popolazione, tasso di mutazione e tempo di
divergenza dall’ultimo antenato condiviso con la popolazione vivente filogeneticamente più vicina, è possibile ricostruire la storia
demografica delle popolazioni. Questa procedura può però portare
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ad errori clamorosi. Secondo Rooney (2001), in base ai soli dati
molecolari, la balena della Groenlandia si sarebbe differenziata dal
suo antenato vivente più vicino (la balena franca) tra i 3,4 ed i 5,3
milioni di anni fa. Su queste basi è stata stimata una popolazione
originaria circa doppia di quella attuale, il che comporterebbe che
la caccia non abbia influito sulla diversità genetica della balena
delle Groenlandia che godrebbe quindi di una “buona salute”.
Un’analisi dei dati paleontologici ha invece evidenziato che la divergenza è molto più antica (circa 23 milioni di anni), il che comporta una popolazione originaria di un paio di centinaia di migliaia di individui. La balena della Groenlandia avrebbe quindi subito
un forte collo di bottiglia e sarebbe una specie molto più a rischio
di estinzione di quanto non si pensasse.
La relazione di Marino Gatto del Politecnico di Milano trattava
di: “I modelli di metapopolazione: dispersione, frammentazione
degli habitat ed il rischio di estinzione”. Una delle maggiori cause
di estinzione è, attualmente, la frammentazione degli habitat. La
suddivisione di popolazioni di animali terrestri in subunità isolate,
contenenti spesso solo pochi individui è uno dei maggiori fattori
di rischio di estinzione. In condizioni naturali molte specie sono
strutturate in complessi di gruppi di individui, spesso effimeri
(patches), che fanno parte di quella che viene definita “metapopolazione” (popolazione di popolazioni; Hanski, 1988). Un esempio
tipico può essere quello di una metapopolazione della farfalla
Euphydrya editha, che si estingue ogni anno in alcune patches ma
colonizza contemporaneamente altre patches, compensando in
questo modo le estinzioni locali e mantenendo così una densità di
(meta) popolazione pressoché costante. In questo modo le metapopolazioni, nel loro complesso, non si estinguono. Molto diverso è
il destino delle popolazioni frammentate dagli interventi dell’uomo. Strade, interventi agricoli, canali, centri abitati possono costituire degli ostacoli insuperabili per molte specie animali terrestri.
Quali sono i limiti, in termini di tasso intrinseco di accrescimento
e di capacità di dispersione, entro cui le metapopolazioni possono
sopravvivere? I modelli di dispersione e frammentazione possono
fornire una ragionevole previsione del destino delle popolazioni
frammentate nel tempo. Il concetto di base di metapopolazione è
quello che deriva dalla “Biogeografia delle Isole” (MacArthur &
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Wilson, 1967) secondo cui una popolazione isolata subisce l’estinzione perché ogni patch ospita un numero finito di individui ed è
soggetta ad eventi casuali. Nelle popolazioni a rischio (di piccole
dimensioni) questo numero non può essere un numero reale ma
deve essere un intero (un numero discreto). I limiti tra persistenza
ed estinzione di metapopolazioni con patches costituite da un numero discreto di individui possono essere esaminati secondo 3 tipi
di modelli: 1) analitici (basati su modelli di Markov); 2) con analisi di biforcazioni (modelli compatti); 3) euristici (spazialmente
espliciti). Il “principio di dispersione intermedia” (Chesson, 1984)
sostiene che: “..se il numero di individui che emigrano da una
patch originata da un solo individuo è maggiore di uno la metapopolazione persiste”. Questo principio è abbastanza “robusto” da essere confermato da tutti e tre i metodi sopra riportati. Esiste inoltre una “legge di scala” che descrive l’aumento delle probabilità di
sopravvivenza di una metapopolazione in funzione dell’aumento
del numero di patches che essa ha a disposizione.
L’intervento successivo di Mimmo Iannelli del Dip.to di Matematica dell’Università di Trento: “Modelli e metodi matematici
per lo studio delle popolazioni con struttura di età”, riguardava
l’utilizzo dei modelli demografici per lo studio della dinamica delle
popolazioni e le loro applicazioni per la tutela delle specie a rischio
di estinzione. Il parametro fondamentale alla base di questi modelli è il tasso di accrescimento R0 che rappresenta il numero medio
di individui prodotti da ciascun individuo di una popolazione nel
corso della sua vita. I modelli demografici più fini tengono conto
anche della struttura di età di una popolazione; il “modello di
Leslie” in particolare, è estremamente utile per proiettare una popolazione con riproduzione “discreta” (periodo riproduttivo limitato nel tempo), strutturata in classi discrete (di età o di taglia), da
un tempo a tempi successivi (tempi discreti). Questo modello, basato su una matrice algebrica di “transizione” in cui sono riportati
i coefficienti di sopravvivenza e riproduzione di ogni singola classe,
è stato applicato con successo allo studio ed alla conservazione di
popolazioni di diverse specie a rischio di estinzione (es. la pecora
selvatica delle Montagne Rocciose Ovis dalli; la tartaruga marina
Caretta caretta, la balena franca Eubalaena glacialis).
L’intervento del Dr. Bramanti (Dip.to Etologia, Ecologia, Evo-
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luzione, Università di Pisa), infine, ha mostrato l’applicazione della
matrice di transizione ad una popolazione di una specie sovrasfruttata: il corallo rosso (Corallium rubrum L 1758). Questo prezioso
antozoo coloniale, endemico del Mediterraneo, è stato sfruttato fin
dall’antichità ma è negli ultimi 20 anni che il prodotto complessivo della pesca si è ridotto di 2/3 indicando il declino di molte popolazioni. In particolare le popolazioni profonde (costituite da colonie di taglia maggiore e di maggiore valore economico) sono, in
prevalenza, sovrasfruttate. Al contrario le popolazioni costiere,
contenenti colonie più piccole ed aventi un valore economico minore, presentano elevate densità ed assicurano un pool di riproduttori alla specie (alcune di esse si trovano in Aree Marine Protette).
Purtroppo alcune popolazioni costiere sono state recentemente colpite da morie. L’applicazione della matrice di transizione ai dati
demografici (densità, struttura di età, tassi di sopravvivenza e di riproduzione) di una popolazione di corallo rosso lungamente studiata ha permesso di simularne la dinamica. I risultati indicano
una buona capacità di resilienza di questa popolazione sia ad un
prelievo che risparmi le prime classi di età che a morie sporadiche.
Al contrario, un prelievo che colpisca anche alcune delle classi di
età più giovani o delle morie ripetute in tempi ravvicinati, porterebbero questa popolazione all’estinzione in 10-20 anni.
Giovanni Santangelo, [email protected]; Michelangelo Bisconti,
[email protected]; Francesco Santini, [email protected]; Lorenzo Bramanti, [email protected].
PUNTI DI VISTA / VIEWPOINTS
Fosforo prebiotico: un problema insolubile in acqua?
di Renzo Morchio e Silvano Traverso
Abstract. It is well-known that in water phosphate readily reacts with calcium, precipitating as insoluble apatite. How phosphorus could have been
available for prebiotic reactions is still an open problem. We suggest that
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phosphorus-containing compounds might have accumulated in a hydrophobic medium, since the absence of calcium ions would have prevented them
from precipitating as apatite.
Hydrophobic compounds may have been synthesized on the early Earth
through the polymerization of methane or through Fischer-Tropsch-type reactions. Moreover, hydrophobic compounds would have been delivered to the
early Earth by extraterrestrial infall.
In previous articles (Morchio and Traverso [1999], Morchio et al.
[2001]) we suggested that such hydrophobic material would have formed a
hydrophobic layer on the surface of the sea, which would have provided an
environment thermodynamically more suitable than water for the concentration and polymerization of organic molecules fundamental to life, particularly amino acids and (pyrimidine) bases.
It may be hypothesized that elemental phosphorus or phosphorus-containing compounds (such as phosphite) deriving from volcanic eruptions would
have ended up raining down into the hydrophobic layer, accumulating.
Phosphorus-containing compounds might have interacted with hydrophobic
molecules in the layer giving rise to polymers. In particular, phosphite might
have reacted with the hydrophobic amino acids, giving rise to phosphoamino
acids, which, in turn, might have interacted with pyrimidine bases (relatively abundant in the layer) giving rise to peptides and oligonucleotide-like
polymers. Indeed, it has been experimentally shown (Zhou et al. [1996])
that, in an anhydrous organic medium (pyridine), dialkilphosphite reacts
with amino acids to form phosphoamino acids, which interact with pyrimidine nucleosides to give nucleotides, short oligonucleotides and phosphoryl
peptides.
Uno dei problemi più spinosi per chi si occupa di origine della
vita è spiegare come il fosforo, elemento essenziale nella chimica
del vivente, abbia potuto essere utilizzato nelle prime reazioni prebiotiche: infatti, dal momento che in acqua il calcio si lega prontamente con il fosfato facendolo precipitare come apatite, nei mari
primordiali il fosforo non sarebbe stato disponibile per la costruzione delle molecole organiche necessarie alla vita, acidi nucleici in
testa. Da decenni i chimici si arrovellano invano sul problema. Le
difficoltà verrebbero meno se si potesse concepire un modo per tenere separato il fosfato dagli ioni calcio, ma è estremamente difficile immaginare che ciò possa essersi verificato nell’acqua dei mari
primordiali. L’ipotesi qui avanzata è che il fosforo si sia accumulato in ambienti idrofobici dai quali gli ioni calcio sarebbero stati
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esclusi.
Fin dal 1971 è stato suggerito che uno spesso strato oleoso
composto da idrocarburi (originati dalla polimerizzazione del metano in un’atmosfera riducente) avrebbe in parte ricoperto la superficie dei mari primitivi (Lasaga et al. [1971]). D’altra parte nei
famosi esperimenti di Miller il materiale ottenuto era in gran parte
costituito proprio da molecole idrofobiche.
Nonostante l’idea dello strato oleoso sia stata in seguito criticata sulla base di nuovi modelli che assumevano un’atmosfera molto
meno riducente di quanto si pensasse ai tempi degli esperimenti di
Miller, la presenza di ambienti idrofobici sulla Terra primordiale
sembra essere tutt’altro che improbabile. Innanzitutto, l’esistenza
di un’atmosfera riducente prima di 3.9 miliardi di anni fa non può
essere esclusa sulla base dell’attuale evidenza geologica (Nilson
[2002]). E comunque, anche in assenza di metano in atmosfera, è
ragionevole supporre che i composti idrofobici siano stati relativamente abbondanti sulla Terra primitiva. Infatti acidi grassi a lunga
catena si ottengono da gas semplici come CO, H2 and CO2 attraverso reazioni tipo Fischer-Tropsch. Attraverso tali reazioni si sono
ottenuti anche alcani, alcheni e, ad alte temperature, idrocarburi
aromatici (Rushdi and Simoneit [2001]).
Inoltre, una gran quantità di composti organici complessi sarebbe potuta provenire dallo spazio, dove la formazione di composti organici non polari sembra essere ubiquitaria (Dworkin et al.
[2001] irradiando con ultravioletti composti che simulavano i
ghiacci interstellari, hanno osservato la formazione di lunghi polimeri idrofobici, a più di otto atomi di carbonio). Comete e meteoriti avrebbero portato sulla Terra notevoli quantità di materiale
organico. Chyba and Sagan [1992] hanno stimato che in un periodo di 100 milioni di anni sulla Terra primordiale sarebbero arrivati da 1016 a 1018 kg di carbonio organico (si consideri che il carbonio organico totale nella biosfera attuale è 6 x 1014 kg). Gran parte
di questo materiale organico sarebbe stato di natura idrocarburica,
almeno stando alla composizione del famoso meteorite di Murchinson, il cui costituente principale (90% circa) era un polimero
idrocarburico aromatico complesso.
Quale che ne sia l’origine, è comunque ragionevole aspettarsi
che abbondante materiale di natura apolare si sia accumulato sulla
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Terra primeva, dando luogo a locali ambienti idrofobici. In due
articoli precedenti (Morchio e Traverso [1999]; Morchio et al.
[2001]) abbiamo suggerito che uno strato idrofobico sulla superficie marina avrebbe costituito un ambiente termodinamicamente
più adatto dell’acqua alla concentrazione e polimerizzazione di
molecole prebiotiche, in particolare aminoacidi e basi (soprattutto
pirimidiniche). L’ambiente idrofobico avrebbe anche potuto agevolare processi di auto-organizzazione (Traverso [2003]).
Ma veniamo al fosforo. In acqua, le prime molecole contenenti
fosforo sarebbero state estremamente rare ed instabili. Keefe e
Miller [1995] sottolineano che la concentrazione di polifosfati nell’oceano primordiale, in assenza di meccanismi che li concentrino,
sarebbe stata insignificante e che l’idrolisi dei polifosfati rende
inefficiente ogni sintesi prebiotica finora proposta.
In un mezzo idrofobico, come lo strato sulla superficie marina,
i composti del fosforo sarebbero stati protetti nei confronti dell’azione demolitrice dell’idrolisi. Inoltre il calcio sarebbe stato virtualmente assente e, dunque, la temuta precipitazione del fosforo
sotto forma di apatite non si sarebbe verificata.
Anche il fosforo elementare, risultato dalla riduzione del fosfato
(Schwartz [1972]), avrebbe avuto maggiore probabilità di concentrarsi in un ambiente idrofobico, essendo solubile nei lipidi e in
altri composti organici ma completamente insolubile in acqua.
Sulla Terra primordiale, l’attività vulcanica ha probabilmente
rappresentato una fonte di fosforo. Yamagata et al. [1991] hanno
trovato in una fumarola fosfato condensato a concentrazione relativamente alta (diverse micromoli per litro), ed è stato suggerito,
su base sperimentale, che l’azione combinata di scariche elettriche
ed eruzioni vulcaniche abbia prodotto sulla Terra primitiva quantità significative di fosfite (Glindemann et al. [1999]).
I composti del fosforo provenienti dalle eruzioni vulcaniche
avrebbero finito con il ricadere nell’ipotetico strato idrofobico sulla
superficie dell’oceano primordiale, accumulandosi. Qui i composti
avrebbero potuto interagire con alcune delle molecole idrofobiche
concentrate nello strato.
Una possibilità, ad esempio, è che la fosfite proveniente dalle
eruzioni vulcaniche interagisse con gli aminoacidi “intrappolati”
termodinamicamente nello strato (Morchio e Traverso [1999])
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dando origine a fosfoaminoacidi, i quali avrebbero potuto a loro
volta interagire con le basi pirimidiniche (che, come discusso in
Morchio et al. [2001], sarebbero state particolarmente abbondanti
nello strato) dando origine a polimeri di tipo peptidico e nucleotidico. Questi avrebbero potuto raggiungere concentrazioni significative, protetti nei confronti dell’idrolisi e della radiazione ultravioletta. Questa ipotetica sequenza ha un supporto sperimentale.
Zhou et al. [1996] hanno dimostrato che, in un solvente anidro
(piridina), la dialchil-fosfite reagisce con gli aminoacidi dando origine a fosfoaminoacidi i quali a loro volta reagiscono con nucleosidi pirimidinici dando origine a nucleotidi, brevi oligonucleotidi
e fosforil-peptidi. Va sottolineato che queste reazioni procedono
esclusivamente in assenza di acqua.
Per concludere: forse uno dei motivi per cui il problema del fosforo non trova soluzione sta nell’assunto che le primissime reazioni prebiotiche si siano svolte in ambiente acquoso. Varrebbe la
pena considerare l’eventualità che anche questo iniziale, incerto
passo verso la vita, l’accumulo di composti fosforici, anziché nel
tradizionale “brodo primordiale”, abbia avuto luogo in una fase
idrofobica, al riparo dall’azione distruttiva dell’acqua. Dopo più di
mezzo secolo di sforzi, bisogna forse rassegnarsi ad ammettere che
il problema del fosforo non ha alcuna soluzione in un contesto acquoso. Occorre cambiare le “condizioni al contorno”.
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PUNTI DI VISTA / VIEWPOINTS
Origin of Genetic Instructions is Presently Unknowable and Undecidable and Requires Scientific Experimentation that is not Readily Possible
by Jack T. Trevors
INTRODUCTION
What was the origin of genetic instructions? The answer to this
question remains both unknowable and undecidable at this time
from a scientific perspective if genetic instructions did not arise by
a combination of necessity, chance or random events, long periods
of time and prebiotic chemistry. Moreover, the origin of genetic
instructions may have been by events that humans have not discovered at this time, but possibly will discover in the future.
One of the most important discoveries of all times was the
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structure and function of DNA, then followed by the capability to
clone, sequence, amplify via the polymerase chain reaction (PCR)
and make specific site-directed mutations in DNA to study gene
function. In more recent years, the ability to array DNA in microarrays has also been a significant technology for gene expression
analysis. However, there has been less progress on the origin of
genetic instructions (Crick [1968]; Di Giulio [2003]; Monod [1972];
Shapiro [1984]; Trevors [2003]; Trevors and Abel [2004]; Wong
[1975]). The statement is often used that given an immense
amount of time (several hundred million years between the formation of the Earth and the appearance of the first cellular life) life
first self-assembled as single-celled organisms capable of growth
and division, and then evolved and diversified. One immense challenge in this scenario is the origin of genetic instructions that can
be transcribed and translated into useful, functional cellular proteins. At the present time, the origin of genetic instructions and
the location at which genetic instructions originated (Earth or
extraterrestrial) are not known. In addition, humans have a very
limited capability to investigate the origin of genetic instructions
as there is a paucity of experimentation in this area using the scientific method. Even if genetic instructions were delivered to the
Earth in protected spores this does not provide us information on
the exact origin of the genetic instructions.
The question is posed: if extended time, chance and necessity
do not adequately explain the origin of genetic instructions, then
is the answer to the origin of genetic instructions unknowable and
undecidable at this time (and possibly in the future)? How did the
genetic instructions spontaneously arise on the Earth? The answer
to this question is more than challenging given that science has no
knowledge of the origin of genetic instructions that was recorded
in RNA (RNA World, Joyce and Orgel [1999]) and then DNA,
and how the agreed upon message was decoded at the ribosome to
synthesize useful/functional cellular proteins. Since life is not necessary anywhere in the universe, necessity is not a correct answer.
Since chance does not invent and code/decode complex genetic
cellular instructions, this is not a correct answer. Since extended
time, necessity and chance do not describe the origin of genetic
instructions, science needs to seek new/other approaches and an-
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swers that may be beyond our current scientific capabilities.
IS THE ORIGIN OF GENETIC INSTRUCTIONS
A QUESTION THAT CAN BE ANSWERED?
The more knowledge that is forthcoming in molecular and cellular biology, the more scientists will be able to research the immense biocomplexity (e.g., structural, functional and genomic
complexity) of living organisms. However, the origin of genetic
instructions is often researched less, or explained by stating that it
just happened, given an immense period of time and suitable prebiotic conditions (which are not exactly known) on the Earth.
Even if genetic instructions arose off the Earth in an extraterrestrial location, science still would need to seek or discover the origin of the instructions. DNA can be replicated and transcribed,
but DNA itself does not participate in metabolism. It is somewhat
removed from metabolism in living organisms. DNA replication
occurs at a magnitude of about a 1,000 base pairs per second. This
rate is necessary to rapidly and correctly assemble cells, tissues,
organs and complete organisms. The slow replication of DNA would
not permit cells, tissues, organs and entire organisms to be assembled quickly enough. It has to be rapid and exact under the control of enzymes. This is also true of the replacement of cells in a
human body where unknown numbers of cells turn over in minutes.
The amount of information in the genetic code of each organism is so immense and specifically ordered that chance may be an
oversimplified, incomplete explanation. Moreover, there had to be
a pre-existing coding/decoding system in place to translate mRNA
code into useful/functional proteins. But how would the pre-cell
know what proteins were necessary? One possibility to explore is
that the code/decoding apparatus had to occur simultaneously so
the message could be shared and understood. This still does not
answer the origin of the coding/decoding instructions. The DNA
and RNA codes are meaningless unless correctly transcribed and
translated. Moreover, the molecular machinery of a cell’s translation apparatus consists of complex macromolecular components
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encoded by DNA. The genetic instructions in the genetic code
and the ability to decode the useful instructions had to be present
at the same time and in the same molecular location, and in a protected cellular compartment (first cell or cells) protected from the
fluctuating external environment and possibly high levels of radiation, by being in the subsurface of the Earth. This would lead one
to conclude that life (single-celled) capable of growth and cell division was cellular from the very beginning with all the necessary
genetic instructions (Trevors [2004]). It appears that there is no
agreed upon and valid, verified explanation for the origin of genetic instructions. The answer to this challenge is the central to
the natural sciences and other areas of human knowledge. Understanding the origin of genetic instructions is the search for human
origins and the origin of all other life. It is the search for ourselves
as a species.
HAS EXISTING DATA OR KNOWLEDGE BEEN OVERLOOKED
THAT WILL ASSIST US IN DISCOVERING
THE ORIGIN OF GENETIC INSTRUCTIONS?
The answer to this question is likely, yes. Have humans integrated knowledge from all disciplines in a manner that allows us
to better understand the origin of genetic instructions and life?
Some people would likely answer no to this question. Another
possibility is that so much necessary information/knowledge is
missing that we simply are not advanced enough at this time to
comprehend the origin of genetic instructions. Instead of researching the origin of genetic instructions, some humans study the evolution of organisms which is a much easier approach than the origin of genetic instructions and the possible origin of the last common universal ancestor (LUCA).
If chance, self-organization, necessity and extended time do not
explain the origin of life, then what does explain it? Are there undiscovered properties of matter and energy that humans will discover in the future that will allow us to comprehend the possible
concurrent assembly of a cellular/molecular coding/decoding form
of life, that is currently beyond our knowledge? Or was there a
Attualità biologica / News and Views
27
previous genetic system functional on the early Earth that is no
longer present, and hence will remain undiscovered? The answer is
unknowable and undecidable at this time in human history, as to
the origin of genetic instructions.
ARE THERE NEW APPROACHES TO BETTER UNDERSTANDING
THE ORIGIN OF GENETIC INSTRUCTIONS?
What information is needed and what experiments would be
valuable? One useful experiment may be the generation of a genetic coding/decoding system that produced useful proteins that a
single-celled organism would need with a minimal genome in a
primitive prokaryotic cell. Our present understanding of molecular
biology may assist research in designing minimal coding/decoding
systems that are slow and not very accurate. However, the issue of
how an early coding/decoding system would be formed in the absence of any operator intervention by humans to mimic primitive
Earth conditions needs to be addressed. This experiment could not
be directed in any manner and would be subject to the conditions
estimated to have been present on the early Earth. The experimenters would be trying to detect non-random genetic information such as that found in the genetic code that could produce
pre-agreed upon proteins necessary for life. And then the experiment would need to detect more and more code that produced
useful proteins in the correct amounts for the integrated assembly
of cell(s). This is akin to a total cell reconstitution experiment
from known cellular components. If we take a billion bacterial
cells from the same species, lyse and homogenize the cells until
they are all dead and place them in a complete nutrient medium,
the result is a turbid solution. Even with all the necessary molecular components present in the same physical location, will a living
reconstructed cell and then more cells from cell division arise in
the test tube? To date, the answer is no. If we design an experiment using billions of test tubes with the total cell components,
do we hypothesize that life will emerge in one or more of the
tubes and then evolve into more complex and diverse organisms?
The answer is: we do not expect life to emerge from the test tubes
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Attualità biologica / News and Views
even though all cellular components are present including the genetic instructions and a coding/decoding system. And if we wait
an extended period of time will the results be different? Again, we
would hypothesize that the answer is no, given what we currently
know about cell and molecular biology. We have no known examples of the spontaneous generation of life from any complex mixture of molecules and elements. The system is not ordered, does
not contain cellular structures and has no means to capture, use
and store energy. The fact that life will not emerge in the optimal
test tube environment is not surprising. Moreover, even if energy
enters in the system such as sunlight, there are no light-capturing
pigments present to trap the light, nor are there present any energy synthesis and storage capabilities such as in the form of ATP.
Yet, some people accept the spontaneous generation of life as a
scientific reality in the origin of life. We have, however, not addressed the synthesis of all the cellular components needed to first
assemble the code, which are now known to also be under genetic
control. We are still no closer to explaining the origin of genetic
instructions and then life, either from a scientific or from a faithbased supernatural creation. It appears that if the origin of life was
a spontaneous series of events, then we have virtually no way to
conduct experimentation and make observations using the scientific method. The formation of peptides and catalytic RNA do not
adequately explain the spontaneous origin of life and complex genetic instructions.
Does this imply that light-capturing pigments would have been
necessary for the first cells, when it is generally thought that such
pigments evolved later in evolutionary time and were not present
at the pre-biotic stage? Conversely, if catalytic RNA was present in
the pre-cell RNA world, why not some type of light capturing pigment that was later lost or retained in cells as they evolved a different metabolic strategy for energy production, storage and usage?
However, a light capturing pigment does not compile a complex
genetic instructional coding/decoding system with shared meaning.
Both DNA and RNA and also proteins absorb light in the ultraviolet part of the electromagnetic spectrum. Should new research focus on UV irradiation and its interactions with RNA and
Attualità biologica / News and Views
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small peptides, in the RNA world model of the origin of genetic
instructions? Has some information been missed or still needs to
be discovered where UV irradiation was central to the simultaneous origin and interaction between a short sequence of RNA code
and the corresponding peptide? It would be required that the
RNA-peptide complex was capable of molecular recognition of
each other and that the peptide was a useful sequence for a pre-cell
and eventually a cell capable of growth and division. This event
would need to be repeated many times until a minimal RNA code
and the corresponding amino acid code evolved. This also assumes
that some amino acid set produced by pre-biotic synthesis was
present in sufficient concentrations as well as the RNA components.
Since this is all theoretical, another question can be posed. Was
light energy really necessary in this pre-biotic, molecular spatial
domain? The damaging effects of intense UV light and thymine
dimer formation in DNA are well documented. It could be argued
that this would be damaging to DNA and counterproductive to
pre-biotic assembly. However, UV light may have selected for the
most UV-resistant polynucleotides (Mulkidjanian et al. [2003]),
but did the light have any role in the sequence order of the bases?
If the intense UV light selected for the most resistant sequences
and the corresponding peptide sequence was aligned to the prebiotic RNA sequence, at least one requirement for life was present:
a corresponding RNA and peptide code. What remained was for
the code to be useful in the sense that the corresponding amino
acid sequences (peptides, proteins) became useful for life and not
just random sequences. The UV energy put into the pre-biotic
system would have been absorbed by the bases, fluorescence would
have occurred with light being emitted at a longer wavelength and
lower energy, and some energy lost as heat in a nanosecond time
domain.
In summary, science currently has no satisfactory and agreed
upon explanation for the origin of genetic instructions and the
genetic code. Science also does not have any novel experiments to
discover the spontaneous origin of genetic instructions and the
origin of life. There is no evidence that clays, mineral surfaces,
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Attualità biologica / News and Views
inanimate surfaces, sunlight, thermal cycling, thermal vents and
lighting discharges write complex, genetic instructions with shared
meaning with a decoding apparatus (protein synthesis at ribosomes). The argument that given enough time, it just happened is
not acceptable from a scientific enquiry perspective as there is no
supporting evidence. If the origin of life was a natural event, we
must seek natural explanations.
WAS THE ORIGIN OF GENETIC INSTRUCTIONS
AND LIFE AN ACCIDENT?
The answer to this question is also unknowable and undecidable. In searching for the origin of genetic instructions, little significant progress has been made. Very few new ideas and data has
lead to an understanding of a bijected genetic coding/decoding
(DNA to RNA to proteins) system with shared meaning for molecular communication purposes to construct complete, biocomplex
(e.g., structurally, functionally and genomically) organisms capable
of growth and reproduction.
Presently, there is no way for humans to know if they have discovered the correct answer to the origin of genetic instructions. If
a series of chance events were responsible for the origin of genetic
instructions, evidence is needed from experimentation. But it is
difficult to mimic exact early conditions on the Earth in laboratory
experiments. There may have been numerous different niche conditions on the early Earth that were more conducive to the origin
of life than the general conditions thought to have been present on
the early Earth. We also have no knowledge and evidence of unexplained forces and supernatural events. The origin of genetic instructions and life must have been by processes we have yet to
fully discover, understand and integrate into an origin of genetic
instructions theory.
REFERENCES
Bradley, D. [2002], Informatics. The Genome Chose Its Alphabet with Care. Science 297: 1789-1791.
Attualità biologica / News and Views
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LIBRI / BOOKS
Dall’altra parte dell’evoluzione
di Giuseppe Sermonti
Caratteristica di quasi tutte le opere moderne sull’evoluzione biologica è il fatto che esse non trattano che marginalmente il problema dell’evoluzione. Si occupano di confronti molecolari o di reperti paleontologici o di genetica di popolazione o di speciazione, ma non affrontano
il vero problema evolutivo, che è quello della genesi delle forme e delle
funzioni. Una rimarchevole eccezione a questa tendenza è l’opera del
grande citologo portoghese Lima-de-Faria, Evoluzione Senza Selezione,
tradotta in italiano nel 2003, dall’edizione inglese del 1988. L’opera sarebbe senz’altro, dagli evoluzionisti di scuola neo-darwinista, derubricata
come irrilevante nella letteratura evoluzionistica, perché, escludendo la
Selezione Naturale, accantona proprio il concetto base con cui essi risolvono tutti gli enigmi della genesi e dello sviluppo dei viventi. La selezione è liquidata dall’autore, in due primi brevi capitoli, forse troppo sommariamente, qualificata come l’oppio dei biologi e paragonata al flogisto
dei chimici e all’etere dei fisici.
All’epoca dell’uscita dell’opera inglese, il problema della “forma” era
considerato marginale e pletorico, essendo tutta l’attenzione dedicata al
biochimismo fondamentale dei viventi, con particolare riguardo alla co-
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Attualità biologica / News and Views
siddetta evoluzione molecolare. Tutta la ricerca estranea a quest’approccio e dedicata alle forme era considerata metafisica. Notevole è il fatto
che Lima-de-Faria, appassionato di forma e funzione, non ha alcuna propensione per la metafisica e aspira ad una visione materialista dei viventi,
avendo esclusa la selezione naturale proprio per il suo carattere alchimistico. Il concetto che egli adotta, e che compone il sottotitolo dell’opera,
è quello di “auto-evoluzione”, cioè di evoluzione spontanea per linee
tendenziali predeterminate. L’auto-evoluzione dispiace agli evoluzionisti
di scuola neo-darwinista perché accantona il caso e l’opportunismo, ma
è anche sgradita ai proponenti di interventi trascendentali, perché sostituisce l’ordine intelligente con una dubbia auto-gestione. Ma il nostro
non ama né il diavolo né l’acqua santa, e non si preoccupa di essere gradito ad altri che ai ricercatori spassionati della verità.
La tesi centrale del libro è che la forma e la funzione non sono un
prodotto o un’astuzia della vita, per la semplice ragione che vengono prima della vita. Forme e funzioni non viventi hanno preceduto la comparsa della vita e hanno presentato in anteprima tutta la fantasia morfologica della natura, nel fiero e severo abito dei minerali. Fiori, penne, arborescenze, simmetrie, spirali, geometrie precedettero animali e vegetali ed
adornarono i deserti e il sottosuolo, prima che il soffio della vita li arruolasse nelle strutture viventi. Prima che potesse essere messa alla prova la
selezione naturale, che richiede la competizione tra viventi.
Il libro è uno splendido Atlante di forme a confronto. La stessa forma, come dimostrato dalle belle e numerose tavole comparative, si trova
in minerali, microbi, vegetali e animali, e a volte persino nella grandezza
smisurata delle formazioni celesti. Riccioli d’argento nascente, frutti di
Martinia lutea, zanne di mammut disegnano curve risalenti che l’autore
non esita a considerare “omologhe”. Del pari una scarica elettrica centripeta, la sezione di una radice con le sue radichette, una stella marina
gorgoniforme e la sezione di una zampa di echinoderma tracciano disegni similari (p. 115). Emozionante è il confronto tra squame d’oro puro
allo stato vergine, una foglia di felce, l’antenna di un insetto, il costato
di un rettile arcaico (p. 119). Cristalli di ghiaccio, l’“albero di Natale”
dell’RNA nascente, piume d’uccello e l’abete formano una confraternita
di figure sorelle tra loro ma figlie di diversi reami (p. 161). Chi altri troverebbe un’omologia tra il delta del Colorado, i vasi extraembrionali di
un coniglio e una quercia invernale (p. 165)?
Che cosa dimostrano queste mirabili omologie? Esse indicano l’esistenza di “forme di base” intorno alle quali tende ad organizzarsi la materia, vivente o non. Questi modelli d’organizzazione non discendono da
archetipi collocati fuori della realtà, né da idee platoniche in attesa nell’empireo. Neppure sono il risultato di obblighi matematici, come le
vide D’Arcy Thompson, né, tanto meno, sono la risposta ad aristoteliche
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cause finali o a bergsoniani slanci vitali. Per Lima-de-Faria esse sono inerenti alla materia e all’energia, presenti già all’origine dell’universo, destino inderogabile di processi primevi. Tutta l’evoluzione era già preparata
nelle particelle elementari, da queste rimessa agli elementi chimici del sistema periodico e quindi trasferita ai minerali. Tre evoluzioni precedono
e indirizzeranno quindi l’evoluzione dei viventi: subatomica, chimica,
minerale. Il loro svolgimento, come quello della quarta evoluzione, quella organica, è “inerente alla costruzione della materia e dell’energia”.
L’insieme di questi processi, che sono in gran parte autonomi dal mondo
circostante, sono chiamati “auto-evoluzione”. Tutto il mistero del mondo è concentrato nell’attimo della fondazione. Allora, insieme alla materia e all’energia, furono poste le poche forme base che avrebbero disegnato la realtà. Forme come modi di disporsi della materia-energia, non
come predicati esterni ed aggiuntivi.
È sorprendente che uno dei maggiori citogenetisti viventi lasci fuori
dal fondamento dell’evoluzione geni e cromosomi, che per l’evoluzionismo corrente (à la Dawkins) ne sono la causa unica. Geni e cromosomi
arrivano tardi, nel grandioso processo evolutivo, e nel libro solo alle pp.
333 e ss. “Il gene - riassume l’Autore - ha permesso il fissaggio delle alternative e ha introdotto le combinazioni degli elementi dei livelli precedenti”. Consideriamo una conchiglia: essa riceve la sua composizione e la
sua forma fondamentale da cristalli di carbonato di calcio. Il gene non fa
che intercalare il suo prodotto proteico nello scheletro minerale, inducendone deformazioni e stabilendo così se la conchiglia sarà sferica o
ovoidale, corta o lunga, grande o piccina. Il cromosoma viene ancora
dopo e impone, nella disposizione dei geni, la sequenza temporale degli
eventi. Geni e cromosomi si limitano a stabilire restrizioni spazio-temporali e canalizzazioni nella evoluzione biologica (p. 340).
La visione di Lima-de-Faria è severa e determinata. Non c’è spazio
per il caso e per il gioco spensierato della natura, per quella che Karen
Blixen chiamò “la manifestazione di uno spirito universale – inventivo,
ottimista e giocondo all’estremo – incapace di trattenere i suoi scherzosi
torrenti di felicità”. Tutto il pensiero di Lima-de-Faria è improntato a
un assoluto determinismo, indifferente alla coscienza, alla volontà e al libero arbitrio. L’Autore, cercando di estendere la sua visione auto-evolutiva al comportamento umano, si addentra nel terreno pericoloso della
sociobiologia e si trova nella scomoda compagnia dei selezionisti più
estremi, del calibro di Wilson e di Dawkins. Egli sostituisce al determinismo genetico e a quello selettivo un determinismo chimico-fisico, forza
l’istinto in una regìa molecolare e conclude che “il comportamento degli
animali è rigorosamente determinato da agenti fisici e chimici dei quali
non sempre siamo coscienti”. Persino il sorriso si atteggia a una smorfia
fisico-chimica, senza “vantaggio” selettivo, ed è quindi in linea con l’au-
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Attualità biologica / News and Views
to-evoluzione. Qui l’analisi del nostro citologo pretende forse troppo. La
conoscenza non può prescindere da un contorno di inconsapevolezza, e
il fatto di non essere “sempre coscienti” non è un inconveniente, è piuttosto quell’incertezza che rende la vita umana possibile, che genera la
sensazione della libertà, e consente un sorriso spensierato. Sono d’accordo con la considerazione del curatore della traduzione, Stefano Serafini,
che “le leggi fisiche hanno, nell’evoluzione biologica, un ruolo più importante di quanto sia stato accettato sinora…”, ma ritengo che tra i
principi base che traiamo dalla fisica meriti un posto anche il principio
di indeterminazione.
Il fascino dell’opera di Lima-de-Faria è nella ricerca delle ragioni della evoluzione all’estremità opposta a quella adottata dal darwinismo.
“L’origine delle specie” è l’esito terminale dell’evoluzione, la cui ragione
è invece investigata nelle forme primordiali. Il momento più alto dell’opera è laddove il geniale studioso portoghese di geni e cromosomi dichiara che geni e cromosomi non sono poi così importanti per capire
l’evoluzione. Essi compaiono abbastanza tardi nel corso dell’evoluzione,
che per gran parte della sua strada ha potuto fare a meno di loro. Se il
modello dell’evoluzione va cercato in ciò che l’ha preceduta e avviata, allora si deve risalire all’alba della formazione dell’universo, e cercare quel
modello nel protone, nel neutrino e nel bosone, nei quark e nei leptoni,
soffermarci sugli elementi chimici, sui composti e sui minerali, e poi solo
prenderà senso lo studio della forma e della funzione di piante e animali,
e avremo allora cominciato ad apprendere i misteri della vita, affacciandoci appena alla sua soglia arcana.
Antonio Lima-de-Faria, Evoluzione senza Selezione. Autoevoluzione di
Forma e Funzione, edizione italiana a cura di Stefano Serafini, Nova
Scripta, Genova 2003, pp. 453, € 45,00.
Omeopatia, iridologia & C.: il calderone del “non convenzionale”
di Silvano Traverso
Stando ad un’indagine Istat del 2001, il 15,6% della popolazione italiana farebbe ricorso a “medicine non convenzionali”. Un fenomeno che
non può essere ignorato e che pone come prioritario il problema di evitare abusi della sempreviva credulità popolare.
Due accademici genovesi, Emanuele Salvidio, ematologo, e Renzo
Morchio, biofisico, scendono in campo per rivolgere agli aspiranti “pazienti non convenzionali” il loro autorevole monito: diffidate delle promesse di terapie esotiche e sciamaniche; solo la medicina ufficiale, co-
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struita faticosamente nei secoli sotto la severa supervisione del metodo
sperimentale, può dare le necessarie garanzie di serietà. La voce dei due
professori si alza dalle pagine di un volumetto dal titolo “Medicine alternative?” e dall’eloquente sottotitolo “Quel che dovreste e vorreste sapere
su medicina tradizionale, omeopatia, erboristeria, iridologia, medicine
orientali, medicina ayurvedica, gemmoterapia, fiori di Bach e cure non
tradizionali del cancro”. Apre il volume un’autorevole prefazione firmata
dal Prof. Giorgio Cosmacini, storico della medicina.
Sfogliando il libretto colpisce innanzitutto la ricca e bella iconografia
che impreziosisce le pagine incorniciandone elegantemente il testo.
Dopo un breve capitolo sulla medicina convenzionale si passa ad una
veloce descrizione delle altre “medicine”. A parte l’erboristeria, che,
seppur criticata, viene in parte accolta dagli autori “nell’alveo della medicina tradizionale”, le altre terapie non convenzionali prese in considerazione vengono bocciate senza appello. La brevità del testo non consente, purtroppo, una approfondita discussione degli argomenti in esame,
costringendo a rapide carrellate storiche e a schizzi descrittivi, anche laddove, come nell’agopuntura, una discussione più articolata sarebbe stata
forse opportuna. Ma risulta evidente che l’intento degli autori non è intavolare una discussione accademica sulle diverse medicine, ma semplicemente sottolineare al lettore impreparato (potenziale consumatore sprovveduto) il fatto che le “medicine alternative” mancano di quel supporto
sperimentale di cui può fregiarsi la medicina ufficiale.
Un certo spazio è dedicato all’omeopatia. Nel rispettivo capitolo si
spiega, anche grazie ad una chiara tabella che introduce il lettore al concetto di grammomolecola e di numero di Avogadro, come le diluizioni
successive prescritte dall’omeopatia portino presto a preparati di acqua
pura, cosa di cui probabilmente molti utenti dell’omeopatia non sono
consapevoli. È giusto invece che chi assume rimedi omeopatici sappia
che sta compiendo un atto di fede nelle magiche virtù dell’acqua “dinamizzata”.
Grande enfasi viene data ai successi della medicina ufficiale (arrivando talvolta a peccare di eccesso di ottimismo). Ma sono poi gli autori
stessi a moderare i toni trionfalistici quando nelle “Conclusioni” invitano la medicina ad un esame di coscienza: un motivo di successo delle
medicine alternative è legato al loro porre il malato “al centro dell’attenzione del medico” (come peraltro la stessa medicina ippocratica prescriverebbe). Purtroppo – come sottolinea anche Cosmacini nella prefazione
– si assiste sempre più nella medicina convenzionale ad una sostituzione
della relazione umana (l’“anima antropologica” della medicina) con l’approccio tecnologico della medicina scientifica. Ne deriva, puntualizza
Cosmacini, “una cura dimezzata, diminuita, destinata fatalmente a confrontarsi senza tregua con l’altra medicina”.
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Attualità biologica / News and Views
Il monito di Morchio e Salvidio a non abbandonare il solco della medicina sperimentale per seguire le lusinghe di cure miracolistiche è particolarmente opportuno in un momento in cui si tende, in nome di una
malintesa libertà di cura, a lasciare alla persona la responsabilità della
scelta terapeutica. L’unica tutela attualmente allo studio da parte delle
istituzioni sembra essere quella di regolamentare le diverse figure “professionali” non convenzionali. Nel 2000 il Consiglio d’Europa invitava
gli stati membri a formalizzare lo status delle medicine alternative e regolarizzarne l’esercizio (anche in vista dell’inserimento nei Sistemi Sanitari
Nazionali) ed è attualmente in esame alla Camera un progetto di legge
sulle medicine e pratiche non convenzionali.
Il secondo comma dell’art. 1 del testo di legge recita: “La Repubblica,
nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione, riconosce la libertà di
scelta terapeutica dell’individuo [...]”, e il comma seguente aggiunge: “La
Repubblica, nell’interesse della salvaguardia del diritto alla salute delle
persone, garantisce e favorisce un’adeguata qualificazione professionale
degli operatori delle medicine e delle pratiche non convenzionali, promuovendo l’istituzione di appositi corsi di formazione”. Ma è vero che
così si tutela il diritto alla salute? La Repubblica, certificando il percorso
formativo di un operatore non convenzionale, legittima e si fa garante
davanti al cittadino della validità di quella disciplina. Dà il suo imprimatur. Se si considera che tra le pratiche non convenzionali (ancorché non
terapeutiche) che verrebbero riconosciute ufficialmente dallo Stato c’è
anche la pranoterapia (!), c’è da chiedersi seriamente se una tale legge
tuteli la salute del cittadino o piuttosto la sua credulità.
Quando si parla di medicine alternative andrebbe evitata la tentazione di riunire nel calderone “non convenzionale” discipline di tradizione
e reputazione non comparabili. Accostare l’agopuntura ai fiori di Bach,
o la medicina manuale alla pranoterapia è ingeneroso, quando non offensivo. Si prenda l’agopuntura. Al di là delle fantasiose e poetiche interpretazioni fisiologiche (dalla circolazione del “qi” alla legge dei cinque
elementi), le osservazioni empiriche accumulate in millenni di pratica
medica non possono essere accantonate con superficialità. Val solo la
pena ricordare come i medici cinesi che assistevano i suppliziati avessero
la tragica possibilità (per fortuna virtualmente assente nella nostra tradizione medica) di studiare la fisiologia sul corpo vivisezionato, e sembra
che proprio in tali occasioni siano state evidenziate le prime corrispondenze tra visceri e aree epidermiche. All’agopuntura va quantomeno concesso il beneficio del dubbio. Nel 1997 l’americano National Institute of
Health si è espresso a favore dell’efficacia dell’agopuntura, per poi vedere
le sue conclusioni messe in dubbio da studi successivi. Mancano evidentemente ricerche di ampiezza sufficiente a dirimere definitivamente la
questione. Se le istituzioni davvero avvertono il dovere di tutelare la li-
Attualità biologica / News and Views
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bertà di scelta delle persone mettano a disposizione dei propri istituti di
ricerca adeguate risorse per compiere studi sistematici di ampio respiro,
sull’agopuntura come su altre medicine non convenzionali, così da trarre
conclusioni ragionevolmente certe sulla loro efficacia. E delle terapie che
non superino l’esame si vieti l’esercizio. Solo allora la scelta dei cittadini
sarà davvero tutelata.
Nel frattempo all’uomo comune non resta che ascoltare il “caldo suggerimento” di Morchio e Salvidio: “Quando si debba ricorrere alla medicina per curare se stessi o qualche proprio caro, è necessario porre molta attenzione prima di decidere a chi affidarsi. Il rischio di cadere nelle
mani di qualche ciarlatano è sempre presente”.
Emanuele Salvidio e Renzo Morchio, Medicine Alternative?, Sagep, Genova 2004, pp. 80, € 12,00.
RISVOLTI / FLAPS
Stuart Kauffman, Esplorazioni evolutive, Einaudi, Torino 2005, pp. XII-378, €
27,5.
“Esplorazioni evolutive è senza dubbio il pellegrinaggio più strano e sorprendente della mia vita di scienziato”. Inizia così quest’ultimo libro di Stuart
Kauffman, uno degli esponenti più acclamati nel panorama internazionale della
scienza della complessità. Con un’architettura logica estremamente elaborata e
con il coraggio di chi è consapevole di proporre idee che si situano nel settore
di punta dell’avanguardia, Kauffman approfondisce le sue intuizioni sulla coevoluzione, sul comportamento ordinato delle reti, sui preadattamenti darwiniani, sul concetto di “margine del caos”, e si impegna nella ricerca di quella quarta legge della termodinamica che dovrebbe essere in grado di spiegare come la
biosfera (ma anche l’intero universo) sia in grado di co-costruire se stessa, autorganizzandosi. Kauffman osserva che l’emergenza dell’ordine dal caos e la creatività persistente nell’universo sono fenomeni reali, che tuttavia sfuggono agli
strumenti tradizionali dell’indagine scientifica e filosofica, e indica in questo
libro la sua proposta per un modello alternativo di ricerca.
Vera Segre Rutz (a cura di), Historia Plantarum. L’Enciclopedia medica dell’Imperatore Venceslao. Franco Cosimo Panini, Modena 2005, Vol. 1 (pp. 290) +
Vol. 2 (pp. 400) + CD, € 160,00.
Sotto la dicitura “Historia Plantarum” si designa un prezioso manoscritto
della Biblioteca Casanatense di Roma contenente un’enciclopedia di scienze
38
Attualità biologica / News and Views
naturali in cui sono descritte piante, animali, minerali in uso nel tardo Medioevo, con particolare riferimento alle loro proprietà officinali, mediche e terapeutiche. Il Codice è databile agli ultimi anni del Trecento e venne eseguito alla
corte di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, il quale ne fece poi dono a
Venceslao IV, re di Boemia e di Germania. Questo titolo della collana “La Miniatura” che segue l’uscita dell’edizione in facsimile del Codice, è curato da
Vera Segre Rutz, docente all’Università di Pavia e grande specialista di erbari
miniati. Composto di due tomi e di un CD, si propone di introdurre il lettore
al contesto storico e artistico nel quale l’Historia Plantarum vide la luce, fornendo nel primo volume una serie di Saggi specialistici su vari argomenti: il
ruolo dell’erbario nella cultura medioevale e rinascimentale; il ricco apparato di
miniature, dovuto alla bottega milanese dei fratelli Giovannino e Salomone de’
Grassi; il rapporto del Codice con la lunga tradizione dei Tacuina Sanitatis; la
storia del Codice e le vicende relative alla sua attuale collocazione e al recente
restauro. Nel secondo volume, un ampio ed esauriente apparato di Schede descrittive, a cura di Ennio Di Vito e Vera Segre Rutz, offre la descrizione del
soggetto illustrato e la traduzione integrale in italiano moderno del testo latino
sottostante. Tale traduzione, curata dal professor Emilio Lazzarini, viene anche
proposta in un Compact Disc che consente al lettore di interrogare il Codice e
di svolgere ricerche in maniera semplice e rapida.
Pierre Pelcé, Jasna Brujic and Laurent Costier, New Visions on Form and Growth.
Digitation, Dendrites, and Flame, O.U.P., Oxford 2004, pp. 398, £ 49.95.
There exists a wide variety of patterns in nature, from inert matter such as
crystalline dendrites and flames, to filamentous fungi and neurones in the living
world. Their structural evolution during growth can be theoretically modelled
in order to predict the shape of their forms, their dimensions and their growth
rate. ‘New Visions on Growth and Form’ aims at answering such questions by
employing different theoretical approaches and providing a critical appraisal.
The book belongs to the wide field of non-equilibrium statistical physics,
and explores different mechanisms such as transport, interfacial tension, and
chemical reactions, which govern the growth of a material. It explains the fundamental equations relating different morphological quantities, as well as the
relevant experimental control parameters. From the unifying concepts arising in
the theoretical approach the author proposes a tentative description of cell
morphogenesis as a further application of the theory.
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RB Att biol