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MAGAZINE
OGGI
Amore e dèi lontani
di Mario
Fratti
L
A SCORSA settimana abbiamo visto i
film italiani di “Open Roads” al Lincoln Center (cfr. articolo a fianco). Scelta eccellente anche quest’anno. Uno
migliore dell’altro. E il pubblico aumenta ogni
anno. Ho riconosciuto molti lettori di America
Oggi.
Abbiamo poi ricominciato le visite alle tante
“prime” teatrali. E’ notevole “By the Way, Meet
Vera Stark” di Lynne Nottage al teatro Second
Stage (307 West 43rd Street). Molti di noi, gli
anziani, ricordano che nei film degli anni Trenta-Cinquanta, tutte le cameriere e le infermiere
erano afro-americane ed avevano ruoli modesti. L’autrice ha voluto rovesciare i ruoli in questa divertente commedia. Le cameriere sono
belle, sagge e intelligenti. Le padrone bianche
sono superficiali e ridicole. Nella bella scena di
Neil Patel vediamo la pigra padrona Gloria (Stephanie J. Block) che dà ordini, stancamente,
alla bella cameriera Vera (Sanaa Lathan). Vera è
saggia e dà consigli ad una scervellata che è
spesso confusa e ubriaca. La seconda cameriera è grassoccia e divertente. Lottie-Carmen (Kimberly Hebert Gregory) ha anche il ruolo di madre che deve controllare la figlia Anne-Afua (la
bella Karen Olivo) che si fa passare per bianca
quando le fa comodo. Anche in una scena in
cui potrebbe essere scelta per un ruolo importante dal regista tedesco (Kevin Isola) o dal
ricco produttore (David Garrison). Mentre Vera
ha il dovere di aiutare la padrona con le sue
battute, è ovvio che le tre umili collaboratrici
cercano ruoli migliori, con qualche battuta. Era
una cosa rara a quei tempi. C’è anche un attraente autista, anche lui di pelle scura, che cerca
occasioni di successo nel mondo del cinema. Il
secondo atto è difficile da seguire e dirigere con
spezzoni di filmato e interviste, ma la regista Jo
Bonney fa del suo meglio per convincerci. Molti
applausi.
Al teatro Workshop (79 east 4th Street) presentano “Through a Glass Darkly” di Jenny
Worton (basato sul film di Ingmar Bergman).
Solo quattro personaggi, mirabilmente diretti da
David Leveaux. La tragica protagonista è Karin
(Carey Mulligan), una fragile creatura che vorrebbe essere accettata dalla sua famiglia ma ha
ombre oscure nella sua mente spesso confusa
ed offuscata. Un ritratto incredibilmente tragico che ci tien sospesi. Vorremmo aiutarla, carezzarla, proteggere. E’ alla ricerca dell’amore, della
fede in un dio invisibile e lontano. Sono in vacanza su un’isola svedese, nella casa del genitore David, un romanziere (Chris Sarandon),
dove ancora aleggia la presenza della madre
morta. Karin è stata appena rilasciata da un ospedale per depressi e il marito Martin, un dottore
(Jason Butler Harner), la segue con apprensione. C’è poi il giovane fratello Max (Ben Rosenfeld) in un momento che sembra pericolosamente incestuoso. Dramma che crea angoscia negli
spettatori. Vorremmo tutti consolare e proteggere Karin. Molti applausi.
Di Tennessee Williams si scoprono sempre
nuove pagine poetiche. Il regista Moises Kauf-
man ha adattato e diretto “One Arm” che era
solo una novella e un tentativo di film (New
Group - 410 West 42nd Street). Il grande poeta
sa dipingere personaggi sensibili e vulnerabili.
Le sue donne. Ma anche i giovani che si vendono per sopravvivere. In questo dramma incontriamo il bel giovane Ollie (Claybourne Elder) che aveva una carriera e molte speranze
come campione pugilistico. Lo vediamo trionfante e poi con alcuni amici. Vorrebbe prendere
un taxi perché ha uno strano presentimento. Va
poi nella veloce macchina dei suoi amici. Grave
incidente. Perde il braccio destro. Deve quindi
prostituirsi per sbarcare il lunario. Stranamente,
trova più clienti perché sembra una statua antica, mutilata dal tempo. Piace amare ed essere
amati da un ferito, un giovane diverso dagli
altri. E’ anche un po’ scontroso e, non essendo
colto, dice spesso le cose sbagliate. In una delle scene migliori, un regista gli offre duecento
dollari per essere passivo in un scena dove una
donna (la brava, attraente Larisa Polonsky)
deve spogliarlo e sedurlo. Stranamente, reagisce a quello che pensa sia un insulto. La donna
lo prega di accettare. Ha un disperato bisogno
dei suoi duecento dollari. Ollie uccide il regista
ed è condannato alla sedia elettrica. Rifiuta di
vedere il prete ma accetta la visita di uno studente di teologia che vuole intervistarlo. Scena
commovente. Il morituro chiede carezze. Il govane religioso (Todd Lawson) fugge. Solo e
sconfitto, viene giustiziato. Poesia anche in
soggetti delicati e spinosi.
Una commedia musicale con undici donne è
al teatrino 59E59. “I Married Wyatt Earp” di
T.E. Edward West (libretto) e Sheilah rae (liriche). Musica di M. Brourman. Basata su una
storia vera. La ricca, avventurosa ebrea Josephine (Mishaela Faucher) lascia San Francisco
negli anni 1879-81 e si unisce a un gruppo di
attrici a Tombstone, in Arizona, nel regno di
Wyatt Earp, adorato da tutte le donne. La moglie Mattie (Anastasia Barzee) odia Josephine
che diventa una delle amanti del bandito. Prende veleno per calmarsi. C’è molto movimento e
buona musica in questa storia di sole donne.
Tutte brave. Ben dirette da Cara Reichel.
Nella foto, Karen Olivo
MUSICA LIRICA \ Teatro Grattacielo
Riccitelli, Giordano e i loro gioielli “dimenticati”
di Manuela
Cavalieri
C
I SONO opere meravigliose misteriosamente condannate al silenzio. Architetture musicali di rara bellezza, eppure ignote al grande pubblico. A redimere la bellezza dall’oblio, ci pensa il Teatro
Grattaccielo. E Duane D. Printz. Il
sorriso di questo soprano è delizioso: in esso è condensata una vita
dedicata alla musica e al belcanto.
La signora Printz è l’instancabile
Founding Executive nonché Artistic
Director della compagnia. Nato nel
1994 a New York, l’ente ha come
mission quella di promuovere spettacoli dedicati alle opere italiane
poco diffuse o del tutto sconosciute negli Stati Uniti, grazie anche al sostegno
della Horace W.Goldsmith Foundation. Focus principale, il verismo musicale italiano.
Anche quest’anno il Teatro Grattacielo ha
promosso un interessante programma al
Frederick P. Rose Hall Theatre del Lincoln
Center. Lo scorso 24 maggio, difatti, la compagnia ha proposto due opere: “I
Compagnacci” di Primo Riccitelli e “Il Re” di
Umberto Giordano dirette da David Wroe.
Due atti unici composti negli anni Venti con
cui Grattacielo ha festeggiato il suo diciassettesimo compleanno.
“I Compagnacci” (1923), è un’opera ambientata nella Firenze del XV secolo che sullo sfondo tremendo dell’Inquisizione –
narra l’amore contrastato di due giovani.
“Il Re”, invece, fu scritta nel 1929 e diretta lo stesso anno alla Scala da Toscanini.
Appassionata la bacchetta di David Wroe,
che ha diretto la Whestfield Symphony Orchestra. Di primissimo piano il cast (ricordiamo Peter Castaldi, tenore; Jessica Klein, soprano; Gerard Powers, tenore; John Maynard
Burton, basso; Joanna Mongiardo, soprano;
James Orince, tenore). Notevoli le performance dei cori: il RIS Children’s Opera Chorus
diretto da Sabino Losco e i Cantori del New
York Chorus diretti da Mark Shapiro.
Ospite d’onore Agnese Riccitelli, insignita della presidenza onoraria del Teatro Grattacielo. La pronipote del maestro Primo
Riccitelli, ballerina e direttrice
del
Centro
Danzaricerca di Milano, è
anche presidente dell’associazione Famiglia Primo
Riccitelli, l’ente culturale
che si propone la diffusione e la divulgazione delle
opere del musicista.
Era dai primi anni Venti che le note di Riccitelli
non risuonavano più a
New York. Grande soddisfazione è stata espressa
dallo stesso direttore d’orchestra. “Riccitelli unisce il vecchio con il nuovo – ha sottolineato David
Wroe, affascinato dalla
costruzione musicale imprevedibile ed articolata –
. Stasera i nostri cuori
sono pieni di gioia per aver suonato la sua
musica”.
Un riconoscimento importante, questo
newyorkese, per coloro che da anni lavorano
alla salvaguardia dell’eredità musicale e artistica del compositore abruzzese. In questa
direzione verte l’impegno dell’associazione
Famiglia Primo Riccitelli, determinata a promuovere progetti di recupero delle melodie
riccitelliane. E in questa missione ha ormai un
valido alleato nel Teatro Grattacielo.
Nelle foto, Primo Riccitelli (a sinistra)
e Umberto Giordano
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19 GIUGN O
2011
TEATRO \ BROADWAY & DINTORNI
Da Lynne Nottage a Tennessee Williams passando su una “isola”
di Ingmar Bergman: confusioni e drammi di vita quotidiana e familiare
Cinema \ “Open Roads”
La strana officina
dell’Italia moderna
M
di Stefano Gulizia
ERCOLEDÌ 8 giugno si è conclusa al Lincoln Center di New York
la rassegna “Open Roads: New
Italian Cinema”, il maggior evento dedicato al cinema contemporaneo italiano
negli Stati Uniti. Tra diversi altri lavori,
trasposizioni cinematografiche di romanzi,
come “Sul mare” di Alessandro D’Alatri e
“La solitudine dei numeri primi” di Saverio
Costanzo, un’opera a episodi, le “Sorelle
Mai”, che segna il ritorno artistico di Marco
Bellocchio all’Appennino emiliano, e infine lo
sguardo documentaristico di “Fughe e approdi”, un periplo delle isole Eolie di Giovanna Taviani tra vigne, vulcani e rifugiati politici,
e di “1960”, una rievocazione del boom economico di Gabriele Salvatores che enfatizza il
ruolo delle lettere familiari. Simmetricamente,
tutta la rassegna si preoccupa di epistolografia
contadina, come fosse alla ricerca di un
baricentro autobiografico mobile e sfuggente, in cui la dimensione dell’evento talvolta è
retoricamente esagerata, oppure asciugata per
dimestichezza o pudore narrativo.
In questo senso, “I baci mai dati” di Roberta Torre sono un passaggio quasi obbligato per capire la soggettività dei processi mentali abbracciata da questo gruppo di cineasti
italiani. La convinzione della quindicenne
Manuela di far miracoli, dopo aver comunicato con la Madonna in sogno, si fa strada in
modo tanto elementare quanto sconvolgente: con essa diviene realtà ciò che appariva
impossibile. I calcoli strategici della madre e
l’umanità affamata e bisognosa che si accalca
alla porta della ragazina chiedendole di tutto
non bastano a spiegare uno scarto nell’esperienza. Da piccolo e satirico che era, il film diventa così grande che non è più possibile
pensarlo se non in una specie di artificiale anestesia acustica, nello scorrere dei titoli di coda
sulla canzone “Oltre”. Se i colori ossessivi della
Torre nel salone di bellezza tornano al cinema
muto, una simile dissociazione dell’elemento
visivo da quello sonoro è presente anche in
“Noi credevamo” di Mario Martone. Le ambizioni e l’innegabile importanza di questa
epica meridionalista hanno suggerito ai curatori di riproporre un raro film sul Risorgimento
italiano, “1860” di Alessandro Blasetti, che
pur essendo cinematograficamente agli antipodi di Martone, mostra la stessa spaccatura
tra l’opzione monarchica e l’idea repubblicana.
Nelle esplosioni delle granate, nelle scene
teatrali fotografate con una patina ocra e
membranacea, o nell’arrivo di Garibaldi a cavallo, una sagoma in ombra tra le fiaccole accese sulla costiera cilentana, Martone non
cerca la concitazione dei movimenti di massa,
ma coglie visivamente il successivo ritorno
della calma. Persino nelle fasi di battaglia, nuvole di fumo e terra asciutta ridanno ai protagonisti la loro solitudine radicale, la malinconia verdiana che è ribadita da un sapiente gioco di ellissi e rimandi. Nella diserzione di un
carbonaro, l’occhio si posa via via sui diversi
aspetti di una cascina lombarda come l’obiettivo della macchina da presa di un film western.
In un progetto che celebra il potere della
scrittura, specialmente nelle scene del carcere, Martone, più che raccontarli, fa vedere i
crepacci di una realtà incandescente. La temperatura teorica è tale che anche scale di ferro
e una struttura incompleta di cemento armato
servono per l’immanenza di un viaggio fisico
e tattile verso le origini della Penisola. Il ritmo
musicale e sinfonico di “Noi credevamo”, mai
retorico o didascalico, è bilanciato su una realtà mitica, lontanissima. Il montaggio diventa
paesaggio.
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pagina 21 - Primo Riccitelli