da una ricerca di Almerindo Napolitano
rielaborata ampliata e corretta
Cronologia di
Thomas G. Kaufman
Nel ricordo di Almerindo Napolitano
Finalmente Emanuele Muzio è divenuto oggetto di una biografia ampia, documentata, leggibilissima.
L'interesse del personaggio, cresciuto all'ombra protettrice di Verdi, e impostosi poi per doti personali nel
mondo musicale europeo del secondo Ottocento. meritava l'impegno di ricerca e l'intelligenza critica di
Almerindo Napolitano e Gaspare Nello Vetro. Per cui la Biblioteca del Monte di Pietà di Busseto della
Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza è davvero orgogliosa di averne favorito la pubblicazione:
Biblioteca che custodisce ben 330 lettere sue d'argomento teatrale, oltre a numerose testimonianze della
sua giovinezza beneficata, come fu per Verdi, da una borsa di studio del Monte. Grazie dunque a Vetro e
a Napolitano.
Ma è di quest'ultimo, scomparso dieci anni or sono, che desidero far qui particolare amorosa memoria.
Perché egli resse la Biblioteca del Monte di Pietà per quarant'anni esatti, riservandole, come aveva fatto
alla scuola e alle attività culturali e ricreative della città d'adozione, il meglio di sé: competenza e
passione, e profonda esemplare moralità.
Corrado Mingardi
Introduzione
Nel 1895 venne pubblicato a Fabriano, in strettissima tiratura, un libro di minuscolo
formato e di meno di cento pagine in cui l'autore, il bussetano Adolfo Belforti, a un
lustro dalla morte, con uno stile enfatico e intento apologetico, narrava la biografia
dell'amico Emanuele Muzio, "l'unico allievo di Giuseppe Verdi" come precisava nel
sottotitolo.
Da allora è passato quasi un secolo e, se togliamo l'introvabile libro di Luigi Agostino
Garibaldi, che pubblicava l'epistolario di Muzio con Antonio Barezzi, nulla o quasi è
stato più scritto su questo personaggio: qualche articolo in riviste, e accenni nelle più
estese biografie verdiane. Sempre, però, con un unico fine: parlare di Giuseppe Verdi.
Su questa linea si mosse anche Almerindo Napolitano che, circa vent'anni or sono,
scrisse più di seicento pagine dattiloscritte intitolate Emanuele Muzio e Giuseppe
Verdi, consultando le centinaia di lettere dell'allievo al maestro dal 1853 al 1890,
carteggio di proprietà della famiglia Carrara Verdi, e quelle all'agenzia teatrale
Lampugnani, depositate nella Biblioteca del Monte di Pietà di Bussato.
Il libro, però, per la malattia e conseguente morte dell'autore, rimase inedito, pur
essendo stato oggetto dell'interessata attenzione e della spigolatura da parte di vari
studiosi verdiani. Nel 1990, in occasione del centenario della morte di Muzio, dopo
averlo ricordato con un articolo sulla rivista “Malacoda”, ottenuto il dattiloscritto dalla
figlia, abbiamo creduto opportuno riscriverlo. Sono state aggiunte notizie tratte da
giornali del tempo, dall'epistolario con Giovanni Boldini e con la casa editrice Ricordi
(conservati in fotocopia presso l'Istituto di Studi Verdiani di Parma), da altri autografi,
è stato tagliato quanto ci è sembrato superfluo, ma, specialmente, è stata modificata
l'impostazione che Almerindo Napolitano aveva dato: parlare di Verdi attraverso le
lettere di Muzio. Noi, invece, abbiamo mirato a mettere in primo piano la figura di
Muzio. E la ragione Per cui riportiamo un largo numero di brani tratti dai carteggi
senza parafrasarli è far parlare lui, in prima persona, con il suo colorito, e caldo
fraseggiare, anche se non sempre correttissimo nella forma, ma, proprio per questo,
anche più avvincente e aderente all'uomo. In una vita da girovago, Muzio ebbe la
ventura di assistere ad alcuni eventi tra i più significativi della seconda metà del XIX
secolo: la guerra di secessione americana, l'apertura del canale di Suez, la fine
dell'impero di Napoleone III e la Comune di Parigi. E di questi momenti i suoi scritti
portano attenta e vivace testimonianza. Avendo nella stesura privilegiato l'evoluzione
che ha portato un figlio del più indigente proletariato italiano a diventare membro
ricercato, ascoltato e apprezzato dalla crème dell'attiva e agiata borghesia
internazionale, nonché l'ardente repubblicano combattente sulle barricate delle Cinque
Giornate di Milano nel monarchico assertore della potenza militare, abbiamo sorvolato
sull'analisi delle composizioni operistiche, sulle quali Muzio aveva appuntato le
speranze all'inizio della carriera. Abbiamo voluto evitare di giungere ad affermare tendenza comune a quelli che scrivono degli autori minori o minimi che pullulano nel
firmamento musicale italiano, e nei quali, comunque, qualche bella pagina si può
sempre trovare - che siamo dinanzi a un genio incompreso e sfortunato, ma
meritevole di una rivalutazione postuma. I giudizi dei giornali del tempo, quello di
Verdi, ma più ancora l'abbandono della composizione da parte dello stesso Muzio,
sono la motivazione più chiarificatrice. In aderenza alla natura del personaggio
trattato, abbiamo mirato alla maggiore linearità e chiarezza, evitando ogni periodare
oscuro, ogni elucubrazione che porti alla noia, come pure la valanga di note a pie' di
pagina o di capitolo: la bibliografia in calce all'opera è sufficiente a colmare quella che
potrebbe essere considerata una lacuna. la cronologia delle opere dirette da Muzio in
Italia, Europa, Africa e America, comprensiva degli interpreti, impostata sulla base di
quanto risulta nella parte biografica, è opera di uno specialista, lo studioso americano
Thomas G. Kaufman, cui va il nostro più vivo ringraziamento.
Gaspare Nello Vetro
CAPITOLO l
La giovinezza
Emanuele, o più precisamente Donnino Emanuele Muzio, nacque a Zibello, a poca
distanza da Busseto, il 24 agosto 1821, e vi fu battezzato il 26 agosto. Nell'atto è
detto Mussio (versione fonetica della pronuncia del dialetto locale che ha la z dolce),
come lui e il padre si firmarono fino al 1846. Avanzando gli anni, Emanuele cercò di
calarli: Arthur Pougin, che curò il Supplemento al celebre dizionario del Fétis, scrisse
che era nato il 25 agosto 1825 a Zibello, precisando «il luogo e a data di nascita mi
sono stati forniti dallo stesso Muzio». Anche Emilio Seletti, lo storico di Busseto e
amico del musicista, lo fece nascere nel 1825, e a quella data si rifece anche il
necrologio scritto da Giulio Ricordi sulla Gazzetta musicale di Milano. L'estensore
altresì, per indicare anche più stretto il legame con Giuseppe Verdi, narrò in quelle
brevi note biografiche che aveva visto la luce a Busseto. Lo Schmidl lo ringiovani
ulteriormente, facendolo nascere il 25 agosto 1826, ma non sbagliò sul luogo di
nascita, indicato in Zibello.
Silvestro Muzio e la moglie Maria Stagnaro erano originar di Sestri Levante: da ciò
l'appellativo di "il figlio del genovese", con cui Emanuele veniva anche indicato da
ragazzo, oltre al nomignolo di "Rossetto" per il colore dei capelli. Il padre, che
esercitava il mestiere di calzolaio, alla ricerca di migliori condizioni di vita, si era
trasferito dalla Liguria a Zibello dove, dopo Emanuele, nacquero due bambine.
Qualche anno dopo cambiò ancora casa, portando nel 1826 la sua attività a Busseto.
La famiglia era proletaria nel senso più stretto della parola: aveva soltanto prole. Da
una statistica del 1844 sappiamo che erano a carico dei genitori Emanuele, Monica,
Antonio, Giulio e Maddalena, quest'ultima malata di mente. Un altro figlio, Giuseppe,
ammogliato, viveva per proprio conto. Altri due, Domenico e Luigi, erano deceduti in
tenera età.
Silvestro Muzio avviò il figlio al suo mestiere e, nel contempo, lasciò che il bambino si
avvicinasse a quell'ambiente musicale bussetano che, ruotando attorno ad Antonio
Barezzi, aveva per maestro Ferdinando Provesi. Questi, istruttore dei Filarmonici e
direttore della cappella della Collegiata, intuì le doti del fanciullo e lo indirizzò allo
studio della musica attraverso il canto. Da quanto scrisse il Belforti, oltre che a
Busseto, «giovanetto sempre, il Muzio cantò pure a Soragna e a Castell'Arquato; ed il
suo nome era segnacolo di encomio dovunque egli si recava».
Muzio ebbe per maestro Ferdinando Provesi solo per breve tempo. Il 23 maggio 1833
questi aveva scritto al presidente del Sacro Monte di Pietà e d'Abbondanza di Busseto
comunicandogli che, per altri impegni, l'allievo Giò Arduzzoni cessava l'esercizio
musicale: «Rimasto quindi incompleto il numero dei tre alunni contemplato da questo
Sacro Monte di Pietà, per cui l'obbligo m'incombe dell'istruzione gratuita, propongo
alla S.V. Ill.ma il giovinetto Emanuelle Muzio, il quale dietro prove già manifestate
lascia decisa certezza di rapido progresso, e di felice riuscita nella già intrapresa
armonica carriera».
Il 15 giugno l’amministrazione del Monte approvò che nella scuola l'Arduzzoni venisse
sostituito con Muzio. Pochi giorni dopo, il 26 luglio, Provesi morì, e questo fatto ebbe
gravi conseguenze per il giovanetto, che rimase senza guida nello studio della musica.
Incitato verosimilmente da Antonio Barezzi, presidente della Società Filarmonica e
stimolo di ogni iniziativa musicale della cittadina, nonché capo venerato di una piccola
corte locale, e per la fiducia che tutti avevano per il giudizio del povero Provesi,
Silvestro Muzio presentò nell'ottobre una istanza alla Ducale Scuola di musica di
Parma (quella che sarebbe diventata il Conservatorio di musica), affinché il figlio
dodicenne potesse essere annoverato tra gli allievi di canto di quel convitto. A
Busseto, infatti, era scoppiata la guerra di successione ai posti del Provesi, e l'attività
della scuola di musica era sospesa. La domanda non l'abbiamo trovata nella precisa
pratica dell'Archivio di Stato di Parma: ma dalle copie delle lettere scambiate
sull'argomento tra la Commesseria di Borgo San Donnino, la Presidenza dell'interno, e
l'amministrazione degli Ospizi Civili che gestiva la scuola, si rileva come fosse stata
oggetto della più scrupolosa attenzione. Si legge infatti che il giovanetto per la morte
del maestro Provesi era rimasto «privo di ogni istruzione nella bell'arte della musica
cui il qual m.tro [lo aveva] iniziato e con buon principio», che il ministro Cocchi aveva
disposto di «farlo sentire dal maestro De Cesari onde [desse] giudizio», e che venne
richiesto lo stato di famiglia a Busseto. Da questo risultò però che «il Muzio padre del
petitore [essendo] forastiere il giovane non [aveva] alcuna delle qualità volute per
l'ammissione - pare istanza inesaudibile, per ora almeno».
Malgrado la delusione, il padre continuò a sacrificarsi per fare studiare il figlio: non
che pagasse le lezioni, in quanto non aveva mezzi, ma rinunciando all'aiuto che il
giovanetto con un lavoro manuale poteva dare alla numerosa famiglia.
I due incarichi di maestro della scuola di musica e di organista, già tenuti dal maestro
Provesi, che ne percepiva altresi i relativi emolumenti, a seguito dei disordini avvenuti
tra i Filarmonici da una parte e i seguaci dell'Opera Parrocchiale dall'altra, erano stati
separati. Mentre la chiesa utilizzava il Ferrari, il concorso per docente della scuola di
musica aveva visto vincitore Giuseppe Verdi.
Prima che questo concorso venisse espletato, un decreto sovrano del 1835, per
evitare il ripetersi degli "scandali" che si susseguivano, aveva interdetto le musiche
nelle chiese di Busseto: con il termine "musiche" non ci si riferiva al suono dell'organo,
bensì a quelle strumentali, ornamento delle feste solenni, che erano una prerogativa
dei Filarmonici. Il divieto aveva contrapposto ulteriormente le fazioni, che adesso si
lanciavano vicendevolmente accuse di voler rovinare la Società Filarmonica, di privare
la popolazione di un mezzo idoneo all'elevazione civile e morale, di tradire la memoria
e la volontà di quei defunti che avevano acceso dei legati a questa finalità.
I Filarmonici chiesero allora all'Amministrazione dell'interno del Ducato il permesso di
potersi recare ad eseguire musica nelle chiese di altri paesi, ma il permesso venne
negato.
Verdi aveva stipulato la convenzione come docente di musica il 20 aprile 1836, ed era
rimasto in carica per un triennio, cessando il 10 maggio 1839: benché insegnasse per
tre anni a Busseto, per quel periodo i biografi di Muzio non lo indicano come suo
maestro. né, d'altronde, si conoscono documenti che ci indichino quali fossero stati i
suoi allievi di musica. Una delle poche carte che abbiamo di Giuseppe Verdi come
docente in Busseto è la lettera che il maestro scrisse a Giovanni Rossi. restituendogli
le 9 lire austriache che questi gli aveva spedito «perché quelle lezioni che vi ho date
non meritano paga. In quanto poi alle lezioni scritte, al momento non ve le posso
mandare perché me ne servo per gli altri scolari».
Lo Schmidl, riprendendo il Pougin, che aveva raccolto le notizie da Muzio, scrisse che
«si educò nel pianoforte sotto la guida di Margherita Barezzi», e lo stesso "Rossetto",
una quarantina di anni dopo, scriveva ad Antonio Barezzi: «Mi ricordo quando ero
ragazzo che volgeva bene le pagine a Lei quando suonava e dirigeva le Sinfonie di
Rossini, nella sua cucina all'inverno, e nell'estate nel suo gran salone. Mio Dio, quanti
anni sono passati!». Per quel che riguarda le altre materie, «studiò sino a Filosofia e
Teologia morale» con don Andrea Pettorelli (il letterato che aveva fatto parte della
colonia arcadica di Busseto, l'Emonia, con il nome di Omero ldnuride e che fu autore di
commedie, drammi, e del rinomato poemetto “L'accademia degli uccelli”, don Pietro
Seletti, archeologo, letterato, poliglotta, cultore di numismatica, epigrafia e musica, e
don Giovanni Avanzi, letterato, di poco più anziano di lui.
Anche se i biografi sono concordi sulla cultura dei docenti e la bontà dell'insegnamento
impartito, nel leggere l'epistolario del Muzio, sorgono delle perplessità. Il Garibaldi
rileva che le lettere sono «sgrammaticate spesso», denotano «la rude forma di un
illetterato e l'ingenua chiarezza di un figlio del popolo non abituato alle compiacenze
verbali e, in conclusione, mettono in evidenza poca o punta cultura letteraria». Sono
però precise: troppe volte entusiaste, mai menzognere. «Non paiono scritte, paiono
scolpite: dicono e mostrano insieme», e la serietà della trattazione è «a quando a
quando ravvivata dallo scherzo piacevole; la monotonia dell'argomento spesso
interrotta dall'aneddoto storico, dalla descrizione di una festa, dal pettegolezzo
cittadino, dalla narrazione di uno spettacolo, da un nome di gloria, da un oscuro
ricordo». Degli anni della maturità abbiamo poi delle lettere scritte in un inglese e
francese discreti.
Il 18 ottobre 1837 Silvestro "Mussio" presentò una supplica al presidente del Monte di
Pietà affinché il figlio Emanuele «di sedici anni che già compiuti gli studj di
Grammatica e Rettorica, ora brama applicarsi agli studj Ecclesiastici; ma mancandone
le scuole in questa città, e carico il supplicante di numerosa famiglia e privo di beni di
fortuna non trovasi in grado di procurare al suddetto Emanuele i mezzi necessarji a
compiere tale studiosa carriera. Pertanto si volge supplichevole alle Signorie loro lll.me
onde vogliano favorirlo del caritatevole sussidio di questo Sacro Monte di Pietà
affinché possa collocare il sunominato figliuolo in luogo opportuno a conseguire lo
scopo bramato». Il presidente rispose però che il consiglio non si era potuto occupare
della domanda «non essendovi per anni avvenire piazze disponibili di questo genere».
E' del 15 gennaio 1838 forse il primo autografo conosciuto di Emanuele. Anche questo
in una supplica al podestà, presidente del Monte di Pietà: il sedicenne scriveva che
«avendo esso intrapresa la via Ecclesiastica e fermo essendo in essa di progredire, ma
la situazione miserabile del suo Genitore non le permette di provvedersi di quei libri
che necessarj gli vengono a fare il corso di Umanità, e Rettorica; il perché si è che
ricorre all'Oss.a Bontà e Carità della S.a V.a Ill.ma, onde avere da questo Sacro Monte
un sussidio per provedersi de' libri che le abbisognano per tale scuola».
Il consiglio, prima di prendere una decisione in merito, chiese l'elenco dei libri
occorrenti, unitamente a un certificato del maestro che impartiva l'istruzione. Don
Andrea Pettorelli rilasciò una dichiarazione che garantiva sulla assiduità, diligenza,
saviezza e attenzione con cui Emanuele seguiva le lezioni, nonché una nota dei testi
per proseguire gli studi. Il Consiglio stanziò un importo fino a un massimo di 15 lire
nuove, dando l'incarico al dottor Ercolano Balestra di provvedere ai libri, se possibile
di seconda mano, «meno le opere espurgate d'Orazio castigate dal Giovencio».
7 settembre 1838 è datato un certificato del canonico Andrea Pettorelli, nel quale
dichiarava: «Il chierico Emanuele, figlio di Silvestro Muzio, sotto la mia privata
direzione e nella propria mia casa per un anno intero con lodevole assiduità, diligenza,
attenzione e saviezza si è applicato allo studio delle belle lettere e dell'eloquenza,
onde avendo terminato con non poco profitto, giova sperare, che in seguito sia per
fare maggiori progressi, e così nell'ecclesiastica carriera ove ora si trova possa un
giorno essere utile alla patria non meno, che alla Chiesa». Questo documento era
allegato a una domanda di sussidio rivolta al Monte di Pietà di Busseto per far fronte
alle spese necessarie al mantenimento a Borgo San Donnino per proseguire gli studi
«onde abilitarsi al Sacerdozio».
La famiglia di quei poveretti era anche perseguitata dalle malattie: il 5 giugno 1839,
nel chiedere un obolo di soccorso al Monte di Pietà, Silvestro Muzio faceva presente di
essere indebitato con la farmacia fin dall'aprile 1836, e che, da due mesi, la figlia
Maddalena «era aggravata al letto da diverse qualità di malattie che l'hanno estenuata
e quasi senza speranza di guarigione».
Avendo Verdi il 10 maggio 1839 dato le dimissioni dalla scuola, il podestà e
l'Anzianato, con la richiesta di aprire il concorso per il posto di maestro di musica,
espressero l'auspicio che venisse meno il divieto di fare musica nelle chiese di Busseto
«per riavvicinare gli animi dopo la discordia». Ricevuto l'assenso del vescovo, il bando
di concorso venne pubblicato il 3 settembre 1839, e l'unico iscritto, l'organista e
maestro di cappella della collegiata, Giovanni Ferrari, venne dichiarato idoneo.
Emanuele, vivendo sotto l'egida della chiesa di Busseto, continuava negli studi
musicali con il Ferrari e, per aiutare in qualche modo la famiglia, andava la prima
domenica del mese a prestare l'opera di organista nella chiesetta di Sant'Agata, e.
nell'ultima, in quella di Vidalenzo, racimolando, tra tutte e due, poco più di 50
centesimi al mese.
Una rigorosa economia familiare era alla base delle famiglie come quella di Muzio. Il
guadagno del padre a mala pena forniva l'essenziale e, viste le continue suppliche al
Monte, nemmeno sempre. Lo completò, appena fu possibile, il contributo dei figli.
Questa dell'aiuto della prole, oltre all'ignoranza di qualsiasi educazione
anticoncezionale - impossibile in paesi dominati da una religione insegnata da preti
retrogradi - é anche una spiegazione del rilevante tasso di natalità nelle classi più
umili, e della resistenza frapposta a ogni progetto che tendesse a limitare il lavoro dei
fanciulli. Dato che non si ha notizia di guadagni di Emanuele, oltre ai pochi centesimi
ricevuti suonando in chiesa, non è da escludere che anche la madre, considerata la
drammatica situazione economica della famiglia, fornisse in qualche modo il contributo
con lavori saltuari in paese.
I progressi di organista furono tali che, quando dopo tre anni Giovanni Ferrari lasciò
l'incarico di Busseto, per accettare quello di maestro di cappella a Treviglio, Emanuele
Muzio venne scelto come organista temporaneo della collegiata di San Bartolomeo, in
attesa della nomina del titolare. Dovette però soggiacere al ricatto di accettare uno
stipendio di 300 lire annue, invece delle 600 con le quali era stato retribuito il Ferrari:
la ragione stava nella circostanza che la Fabbriceria aveva fatto al Ferrari il regalo di
600 lire, che il povero Muzio, pur di avere il posto, accettò di scontare negli stipendi.
Quando però due anni dopo la retribuzione gli doveva essere pagata integralmente, il
prevosto nominò organista Enrico Landi.
In quegli anni giovanili Emanuele Muzio si trovava in una situazione di piena
provvisorietà: avrebbe voluto avviarsi alla carriera ecclesiastica, ma era privo dei
mezzi per fornirsi del corredo e pagare la retta di ammissione al seminario di Borgo
San Donnino. Ancora il 4 giugno 1841 aveva presentato al Monte una domanda per
ottenere una borsa di studio che gli schiudesse quelle porte: «E' pur gran tempo che
vo sospirando di vedere la stella di mia consolazione che fino ad ora in vano holla
desiderata». Pur essendo i sacerdoti ben rappresentati nel consiglio del Monte, la
pensione gli venne negata.
Belforti narra che «sdegnato, gettò la veste talare e, non potendo nascondere il
dispetto, pose il collare al gatto di famiglia che ne trasse occasione di divertimento per
quasi tutto l'anno 1843».
Con l'epilogo di una nemmeno iniziata carriera ecclesiastica era finita anche l'infanzia.
CAPITOLO II
L'allievo di Verdi
Il 3 luglio 1843 Emanuele Muzio, «figlio d'onesti ma poveri genitori, onninamente
spoglio e privo di mezzi», presentò al Monte di Pietà di Busseto una supplica: questa
volta non per seguire la carriera ecclesiastica, bensì per «battere la via musicale: a ciò
venne confortato ed incoraggiato dal celeberrimo Sig. M° Verdi».
Lo stato d'animo del giovane era angosciato: aveva ventidue anni e non vedeva uno
sbocco alla sua esistenza. Come organista alla Collegiata era stato sostituito da Enrico
Landi e, sfornito di qualsiasi altra preparazione specifica, si dichiarava «il più
sventurato» e chiedeva «commiserazione di uno che fino a questa età ha tratto i suoi
dì nella oscurità, svantaggioso a se stesso, ai suoi, a tutti».
Questo sfogo, probabilmente, era lo specchio dell'atmosfera che regnava in famiglia:
d'altronde, non possedendo altro, nella classe proletaria i figli erano un investimento,
e da essi poteva anche dipendere l'avvenire della famiglia. Se, crescendo, il prescelto
a questo fine non riusciva a raggiungere l'agognato miglioramento, erano le ambizioni
di tutti che andavano in frantumi, e il giovanetto su cui si erano appuntate le speranze
si sentiva colpevole, in una vera angoscia esistenziale.
Le pensioni richieste al Monte erano oggetto di lunga e attenta istruttoria, in quanto
molti, troppi, miravano ad esse. Venne così domandato un certificato che attestasse
una probabilità di riuscita a un "Professore e Maestro della Ducal Corte" ben
conosciuto a Busseto, a quel Giuseppe Alinovi che, a suo tempo, aveva giudicato
Giuseppe Verdi, dichiarandolo idoneo per impartire l'insegnamento nella scuola di
musica. Il 27 settembre, dopo aver sottoposto a una prova Emanuele Muzio, certificò:
«Avendo esaminato alcuni pezzi Musicali di sua composizione, dichiara risultare da
essi merito tale onde dedurre con sicurezza che il giovane Autore ha molta abilità alla
composizione, ed essere il suddetto pieno di buon gusto. Avendo eseguito pel piano e
forte alcuni pezzi di non poca difficoltà, anche in questo genere egli appalesa molta
attitudine».
Il 28 ottobre 1843 il Consiglio del Monte deliberava di accordare per quattro anni la
"pensione scolastica", con l'auspicio che «un giorno possa qui venire a Maestro di
Musica e nella quale fiorì sempre la musica, trovi libero il posto di Organista in questa
Insigne Collegiata». Due giorni dopo venne richiesto al giovane «quanto tempo potrà
abbisognare per ultimare il corso del contrappunto e composizione ideale in Milano
appo qualche sperimentato Maestro o nel Conservatorio Musicale» e «quali altri mezzi
possa avere per colà fermarsi per tutto il tempo occorrente, oltre la pensione annua
del Monte di lire 300».
Muzio precisò che il maestro Alinovi gli aveva assicurato che in due anni di severo
studio avrebbe potuto completare la preparazione, e che certo Ferdinando Galuzzi si
obbligava a dargli per i due anni in cui si sarebbe fermato a Milano 300 lire annue,
riservandosi poi «il diritto ad avere quella somma che mi rimarrebbe da esigere».
Passarono mesi in quanto il Galuzzi non manteneva l'impegno: infine, da una lettera
del 17 aprile 1844 del presidente del Monte, sappiamo che «mancando il Galuzzi alla
data parola subentrò il Sig. Antonio Barezzi che penetrato nella situazione del
postulante, lo incoraggiava, lo assisteva e lo raccomandava personalmente al
Chiarissimo Sig. Maestro Giuseppe Verdi perché se vi ha modo avesse lezioni nell’l.R.
Conservatorio di Milano, e quando no, lo affidasse ad un valente Maestro d'istruzione,
munendolo eziandio di buoni mezzi pecuniari. Cosi disposte le cose, il Mussio partiva
per quella metropoli unitamente al prelodato Sig. Maestro il 13 andante, ove a
quest'ora il giovane sarà allogato».
Quarant'anni dopo Muzio scrisse a Verdi: «Il giorno che riceverà questa mia, cioè il 17
aprile, compirà il 40° anno che da Busseto andai con Lui a Piacenza e poi a Milano. Fu
al suo ritorno da Venezia a Busseto dopo aver dato l'Ernani che Egli disse al Signor
Antonio di aiutarmi: il bravo e santo uomo lo fece subito».
Nei primi mesi del 1844 Verdi era popolare dopo i successi del Nabucco e dei
Lombardi: il 9 marzo, però, si dette alla Fenice di Venezia quell'Ernani che, con il
trionfo, gli conferì la gloria. Questa avrebbe portato al periodo degli «anni di galera»:
dei Due Foscari, di Giovanna d'Arco, Alzira, Attila, periodo che si concluse con quel
Macbeth, che segnò una svolta nella sua produzione. Furono anche gli anni nei quali il
"Rossetto" visse e studiò con il maestro, per poi diventare suo amico, come lo stesso
Verdi scrisse alla contessa Litta il 22 giugno 1852.
Entro quindici giorni dalla partenza da Busseto, il giovane doveva comunicare al Monte
se era stato ammesso al Conservatorio di Milano o, in caso contrario, con quale
maestro prendeva lezioni; ogni due mesi il docente avrebbe dovuto rilasciare un
certificato attestante i progressi effettuati: qualora questi non si fossero verificati, la
pensione sarebbe cessata.
Emanuele Muzio conservò sempre nei riguardi del "bravo e santo" Antonio Barezzi la
massima riconoscenza, come traspare dalle 143 lettere (quelle pubblicate dal
Garibaldi) che gli inviò durante la permanenza milanese dal 1894 (la prima è del 22
aprile) al 1847. Da alcuni appunti sul "quaderno di casa" tenuto da Barezzi, sappiamo
che il 10 aprile 1844 il mecenate aveva consegnato al giovane 180 lire milanesi e 80
centesimi, e che il 15 aprile questi aveva iniziato lo studio a Milano con Giuseppe Verdi
«come da certificato del prelodato maestro consegnato alla Reggenza del Monte di
Pietà di Busseto».
Nella prima lettera a Barezzi, Muzio comunicava quali erano le possibilità di
ammissione alla scuola di musica: «Nel Conservatorio non vi può andare nessuno né
della provincia milanese né estero; e se col tempo vi potrò andare io, sarà una grazia
speciale che il Viceré e governatore di Milano compartiranno al signor Maestro Verdi».
Il primo alloggio a Milano del quasi ventitreenne Muzio fu al quarto piano in contrada
dei Frustagnari n. 1677. Sempre in quella lettera scriveva: «Molti studenti di musica
pagherebbero anche due, tre talleri per lezione, se il signor Maestro Verdi volesse
dargliele; ma egli non le dà a nessuno, all'infuori di un povero diavolo al quale ha
arrecato mille vantaggi, e poi per compimento anche gli dà lezione, non già due o tre
volte per settimana, ma tutte le mattine... lo sono sbalordito, e per di più, alcune
volte che mi fa fare per esso lui qualche cosa, mi dà anche la colazione». Chiedeva
che don Balestra gli inviasse «quelle due romanze, perché il signor Maestro mi dà
anche dei versi da mettere in musica per esercitarmi nella composizione ideale».
Il primo incontro con Giovanni e Tito Ricordi avvenne poco tempo dopo. Nel giugno
dello stesso anno, infatti, Emanuele poté iniziare lo studio dei bassi corelliani su testi
donatigli "graziosa mente" da costoro. «Il signor Maestro adopera gli stessi studi
ch'Egli fece sotto la direzione di Lavigna, migliorati però da lui».
Se Antonio Barezzi si comportò nei riguardi del giovane come un padre, Giuseppe
Verdi, più anziano di lui di meno di otto anni, prese un atteggiamento da severo
fratello maggiore, atteggiamento che mantenne tutta la vita: «quando comincio la
lezione mi dice: ricordati che sono inesorabile [...] vuole le cose perfette». Lo forni di
un pianoforte e lo spinse a frequentare il teatro: «Quando mi dice di andare a teatro,
comanda e vuole che la mattina dopo, nella lezione, gli sappia dire tante cose alle
quali mi dice di stare molto attento; e cosi il denaro non si spende invano». Ogni
qualvolta la cassa diventava leggera, per pagare l'affitto o il noleggio del pianoforte,
Muzio scriveva però a Barezzi, anche se Verdi gli aveva detto di rivolgersi a lui: nei
suoi riguardi, anche se quasi coetaneo, Emanuele ebbe sempre una soggezione, che
non venne mai meno.
A proposito della "cassa leggera", lo stesso giovane scriveva: «vado con tutta
l'economia possibile e impossibile; non spendo un soldo inutilmente; ma le spese di
carta, lume, ecc. è tanta che pare impossibile. Il signor Maestro dice che se non si
scrive molto e bene non s'impara».
Con il passare del tempo le lezioni si facevano più brevi: con un colpo d'occhio Verdi
vedeva subito se vi erano errori e, se non andava bene qualcosa, indicava dove vi era
da correggere. Un'occhiata alla rettifica e, se tutto era a posto, passava all'argomento
della lezione del giorno seguente: cinque minuti poi di pianoforte, e in un quarto d'ora
per quel giorno tutto era finito.
Alla fine del giugno 1844, assentandosi il maestro per recarsi a Roma ad allestire I
due Foscari, Muzio ritornò a Busseto, e passò qualche giorno a Pieveottoville, ospite
della famiglia di Domenico Corbellini, un giovane dei più ricchi del paese, che studiava
musica da pensionante al Conservatorio di musica di Milano. Come compiti delle
"vacanze", Verdi gli aveva lasciato da studiare L'italiana in Algeri, «dopo d'aver
ripassato alcuni spartiti facili del maestro Provesi».
Non appena Verdi giunse da Roma, Muzio ritornò a Milano i primi di novembre: il
viaggio in diligenza da Piacenza al capoluogo lombardo, a causa del cattivo stato delle
strade, durò dodici ore, oltre al pernottamento a Lodi. Prese casa "poco lungi" da
Verdi, che abitava al n. 860, in contrada del Monte Napoleone n. 866, e il maestro,
quando aveva bisogno, lo chiamava con un fischio. Ricominciarono subito le lezioni,
che vennero interrotte quando, a dicembre, Emanuele fu colpito da "febbre quartana".
La pigione era di 22 lire milanesi e, assieme l'alto costo della legna a causa
dell'inverno rigido, rendeva più leggero il borsellino del "Rossetto". Interveniva allora
Verdi: «Il signor Maestro mi darà il pianoforte suo quando avrà fatto contratto del
nuovo» e, intanto, lo portava dal suo sarto, in quanto il vestiario del giovane aveva
assoluto bisogno di rinnovo. Il 18 novembre 1844 Emanuele poté portare a casa sua
quel pianoforte sul quale erano nati Nabucco, I lombardi ed Ernani.
A Busseto, intanto, il 24 ottobre 1844 veniva presentata alle autorità ducali una
ulteriore domanda di ripristino delle musiche in chiesa, essendo cessate «le antiche
gare e la maggior parte dei Filarmonici si sono accostati all'odierno organista Enrico
Landi, sotto l'abile direzione del quale già si esercitano e con bell'accordo, si
producono bene e spesso in quel teatro comunitativo». Il vescovo di Borgo San
Donnino, Pier Grisologo Basetti, dalla cui diocesi dipendeva Busseto, invece,
sconsigliava il Governo, certo di nuovi disordini. Rispondendo a Barezzi sulla notizia
della fine di uno di quelli che lo avevano illuso e sfruttato, Muzio scriveva: «Il signor
Prevosto ha fatto bene a morire; così speriamo che le cose andranno meglio; lo ha
detto anche il signor Maestro».
Il Landi, intanto, aveva chiesto anche il posto di maestro, ma, per poterlo concedere,
occorreva superare un pubblico concorso per esami: il Consiglio del Monte, cui aderì
l'Opera parrocchiale il 9 gennaio 1845. decise di bandirlo solo quando fosse in grado di
parteciparvi anche Emanuele Muzio, «che sussidiato dal Monte stesso, era intento agli
studi a Milano con Giuseppe Verdi». Sia per gratitudine che per dimostrare il
progresso negli studi, il 27 febbraio 1845 Muzio inviò per la banda dei Filarmonici
quattro marce, dando anche i suggerimenti per una corretta esecuzione e, nel
contempo, scriveva a Barezzi: «Gli raccomando caldamente di farmi fare presto gli
stivali perché sa il mio bisogno».
Verdi, vedovo dal 1840 della figlia di Antonio Barezzi, Margherita, viveva solo, e Muzio
costitui per lui, oltre che un devoto allievo, anche una compagnia che, con il passar
del tempo, si trasformò in familiarità: certamente l'amico più stretto, disinteressato e
leale che ebbe. I loro rapporti, a quanto risulta, rimasero sempre, pur se improntati
ad amicizia e affetto, molto formali. Anche le lunghe passeggiate, «le grandi corse
fuori di porta alla mattina per tempo», le conversazioni, il gioco delle bocce, i pranzi
con una "scelta" compagnia, il lavoro gomito a gomito sullo stesso tavolo, non
portarono a una vera confidenza tra i due giovani: non si trova nelle lettere un
accenno ad alcunché entrasse nella sfera intima, non il ricordo di qualche ménage, o
di una festa in "allegra" compagnia, o di qualche spedizione in coppia in un bordello,
vero suggello di una profonda amicizia. Potrebbe darsi, se mai di questi eventi vi
furono, che il tipico riserbo contadino di Muzio, e la conoscenza che aveva della natura
di Verdi, chiusa nell'estraniare quanto era di personale, impedissero di affidare agli
scritti queste emozioni. Massimo Mila scrisse che era più facile penetrare nei segreti
militari del Pentagono o del Cremlino, o nella clausura d'un convento di trappisti, che
nell'animo di Verdi: e Muzio fu sentinella inflessibile alla consegna.
Il discepolo adesso seguiva il maestro alle prove delle opere allestite a Milano. A
proposito di un Ernani, in cui cantò il giovane tenore parmigiano Enrico Calzolari,
«mantenuto qui a Milano da Sua Maestà Maria Luigia», narrò al mecenate bussetano
del successo che questi aveva incontrato, ma che, avendo una voce leggera,
«dovrebbe aspettare altri due o tre anni a cantare, onde rinforzarsi, e non prender
moglie (che la prende a giorni) perché allora la perde tutt'affatto».
Mentre nel marzo 1845 iniziò a lavorare come riduttore di opere - il primo lavoro fu
l'Eniani - nell'aprile, in occasione di una malattia del maestro, fu promosso da
fattorino a «segretario e rispondo alle lettere; però ad onta del suo male ho sempre
avuta la mia lezione in fuori del giorno in cui gli fecero il salasso». L'insegnamento
durava dalle dieci del mattino alle due quasi del pomeriggio: «Mi fa leggere tutta la
musica classica di Beethoven, Mozart, Schubert, Leindesdorf, Haydn, ecc. poi
verranno i moderni». Massimo Mila osservò che Muzio era stato fortunato in quanto,
se gli fosse capitato di studiare con Verdi in epoca successiva, avrebbe rischiato di
conoscere soltanto «Palestrina e pochi altri suoi coetanei», saltando dopo a Benedetto
Marcello, e assistendo «a poche rappresentazioni delle opere moderne», anzi, meglio,
«nissuno studio sui moderni!». Per la festa di San Benedetto a Busseto, compose,
concertandola assieme al maestro, una Messa. Non venne eseguita in quanto era
ancora vigente l'interdetto emanato da Maria Luigia per l'esecuzione delle musiche
sacre.
Il 26 maggio 1845 narrava: «Il signor Escudier, estensore della Gazzetta musicale di
Francia, è stato dal signor Maestro; ed ha voluto una sua statuetta da porre a Parigi
nel suo ufficio in mezzo a Rossini e Bellini». E' questa la prima volta che ci imbattiamo
in un Escudier: si trattava di Marie, il direttore della rivista La France Musicale.
Questa visita fu l'apertura attraverso cui, qualche mese dopo, entrò il fratello Léon,
all'indomani del successo del Nabucco al Theatre Itahen di Parigi. «Appena Lumley ha
sentito l'esito del Nabucco è venuto da Londra assieme ad Escudier per scritturare il
signor Maestro per la primavera ventura». In occasione di questa visita, - è sempre
Muzio la fonte - Escudier «ha fatto acquisto delle proprietà di tutte le Opere del signor
Maestro, incominciando dall'Oberto, Un giorno di regno, ecc…, fino a tutte quelle che
scriverà in Italia, e le ha pagate 500 franchi l'una. Questa proprietà è per la sola
Francia».
Tra i componimenti che Muzio andava facendo sotto la guida di Verdi, continuavano ad
esserci le musiche per la Società Filarmonica di Busseto, inviate in più riprese a
Barezzi, e per le quali non volle mai, in segno di gratitudine, essere retribuito. Alcune
marce trovarono, come riferì Barezzi, dei detrattori. La risposta del giovane fu: «Se le
marce non piacciono ai Landisti, non importa. Basta che siano piaciute al signor
Maestro; io ne ho abbastanza, e che abbia detto che sono belle. Esso lo può dire. Il
signor Maestro leggendo questo paragrafo della sua lettera (per le marce) ha riso
molto, ed ha detto: "Questi Landisti ne vogliono sapere più di me! Bravi! Bravissimi!
Che asini! Che asini!"».
Per il mecenate, il giovane faceva anche a Milano delle commissioni "musicali". Dopo
aver portato ad aggiustare alcuni strumenti della banda dei Filarmonici, si interessò
anche per l'acquisto di nuovi: «Il Bombardino costa 90 lire austriache. Se Ella decide
di prenderlo, mi scrivi subito unendo alla mia un bigliettino per il signor Seletti onde
farmi dare il conquibus e che poi tra loro si accomoderanno; e glielo l'ululerò la
settimana ventura quando tornerà Rusca a Busseto». I bussetani a Milano erano una
comunità in stretto contatto: il Seletti, cui accennava Muzio come eventuale
finanziatore, era docente al ginnasio, mentre Antonio Buono Rusca, il futuro maestro
di musica di Busseto, era pensionante al Conservatorio di Milano.
Nel giugno 1845 Verdi partì per Napoli per sovrintendere all'allestimento dell'Alzira,
lasciando all'allievo «molto da studiare, ed ho da impiegar bene la mia giornata»:
tornato il maestro a Milano alla fine di luglio, Muzio, prevedendo di tornare per l'estate
al paese, si preoccupò di chiedere a Barezzi se gli poteva trovare un pianoforte sul
quale studiare. non potendogli il maestro prestare il suo, in quanto aveva l'impegno di
scrivere un'opera.
Le lettere a Barezzi, puntuali e frequenti, oltre a rappresentare l'unica fonte biografica
che abbiamo di Muzio per gli anni giovanili, sono una miniera di notizie sull'attività di
Verdi. nonché un vero e proprio gazzettino di pettegolezzi e di notizie anche minute
sulla vita quotidiana. Lo stesso Verdi, ogni volta che si allontanava da Milano, voleva
che tutti i giorni gli scrivesse, per essere messo al corrente di quanto avveniva. E' da
rilevare che Muzio, trattandosi del padre della povera moglie, non fece mai accenno
col Barezzi dei rapporti del compositore con Giuseppina Appiani, Emilia Morosini, Gina
della Somaglia, Giuseppina Strepponi, o altre signore frequentate.
L'intensa corrispondenza fu facilitata dal progresso della posta che, nella seconda
metà del secolo, si avvalse dello sviluppo della macchina a vapore sia in terra che in
acqua. Nel viaggio del 1847 verso l'Inghilterra, Emanuele parlò (dei battelli sui laghi
svizzeri, sul Reno e della «strada di ferro essendo tutti monti abbiamo passato 24
tunnel».
«Al 30 dello scaduto mese è incominciata l'illuminazione a gas qui a Milano la quale
manda una luce così chiara e splendente che sembra di giorno. La gioventù è in
collera perché non può più fare le sue passeggiate misteriose senza esser vista e
conosciuta...».
Il 18 settembre scrisse all'amico Domenico Corbellini a Pieveottoville: «Tu sei fra i tuoi
cari e li trovi tutti, io purtroppo non troverò più la mia diletta sorella; [presumiamo si
trattasse di Maddalena, ammalata da diversi anni] questo è che m'accora. Qual
perdita Dio buono!».
Alla fine di settembre Verdi e Muzio si trattennero a Busseto pochi giorni, e anche il
ritorno fu oggetto di descrizione: «Sabato al tocco dell'Ave Maria della sera siamo
giunti a Milano dopo un viaggio cattivissimo e sempre accompagnati da una costante e
dirottissima pioggia. Abbiamo cambiato legno sette volte. Come ben saprà non c'era
posto in diligenza, né v’erano carrozze né cavalli, essendo tutti a Panna per l'arrivo
della Maestà. Ci han dato invece un legno di vettura, e quando arrivammo alla
carrozza i cavalli non potevano andare più avanti, e ci han venduti ad un altro
vetturino, poi rivenduti ad un altro ancora; insomma siamo stati comperati all'uso
delle bestie».
Quell'anno l'inverno fu precoce e rigido: «il signor Maestro è in letto con una doglia
reumatica; però adesso la va un po' meglio; ci faccio continuamente le freghe». Il
povero Emanuele soffrì un gran freddo, in quanto vestito sempre come in estate:
indossò due camicie una sull'altra, poi una terza. Ma il patimento era troppo, e
dovette scrivere per aiuto a Barezzi: abbisognava di un cappotto e di un gilet. Prima
che arrivasse in soccorso il mecenate, sollevato, informava: «Mercé la bontà del
signor Maestro sono coperto, e quel che più conta, senza aver speso niente. Egli
stesso lunedì mi ha vestito, e così non sentirò il rigor del freddo».
La corrispondenza con Barezzi subì una interruzione nell'inverno in quanto, essendo
Verdi a Venezia, Muzio ritornò a Busseto. Riprese nel marzo 1846: si legge che il
maestro discuteva con lui di musica e musicisti, ne educava il gusto, gli consigliava le
composizioni da ascoltare e gli spettacoli cui assistere, gli affidava le prove al cembalo
e orchestrali delle sue partiture...: era adesso un vero e proprio segretario di fiducia
del maestro che, quando era lontano, lo mandava alle prove e alle rappresentazioni
per essere tenuto al corrente giorno per giorno. Con orgoglio il 20 aprile 1846 poteva
comunicare: «Oggi ho cominciato a dare lezione di contrappunto ad un giovinetto;
gliene do tre la settimana, e mi dà 30 lire milanesi al mese. Queste son buone da
pagare l'affitto di casa e del pianoforte. in seguito ne prenderò delle altre». A luglio ne
imparti a una signora "forestiera" che per l'estate era in un casino a Monta vi si recava
ogni mattina, e lei gli aveva fatto l'abbonamento per il treno a vapore: comunque,
«appena avrò finito alcuni lavori per Ricordi e Lucca li farò le marce». Il 5 maggio
avevano seppellito Seletti e con delle bellissime onoranze: «Mi sembra un sogno.
Venerdì sera fui assieme per più di due ore e non si sentiva alcun male. E poi morire
subito».
Essendo quasi al termine il biennio di studio a Milano, era stato predisposto a Busseto
il capitolato per il posto di maestro di musica, capitolato che i concorrenti avrebbero
dovuto visionare prima del concorso: veniva istituita una regolare scuola di musica,
con materie di insegnamento, orari, compensi, e il 14 marzo 1846 era stato inviato
alla Presidenza dell'Interno per l'approvazione. L'accompagnatoria ribadiva il concetto
che ispirava la fondazione di queste istituzioni del Ducato: l'arte come deterrente dai
vizi e possibilità di offrire occupazione ai meno fortunati, in un'epoca in cui non
esistevano industrie e l'agricoltura era misera e arretrata «Ben sapendo che l'esercizio
di questa bella arte, oltre potere tornare lucrosa ad alcuni, concorreva ad ingentilire il
costume ed a ritrarre dall'oziosaggine. peste dei piccoli luoghi, la gioventù priva di
ogni civile divertimento». Il capitolato venne approvato dal vescovo dopo che furono
inserite alcune clausole relative alla moralità e religiosità del candidato, alla disciplina
in chiesa, e all'esclusione dai programmi in questa sede di musiche profane. Il 17
agosto 1846, così, il Governo autorizzava il concorso.
Muzio, intanto, continuava a vivere a Milano: quando Verdi non andava a teatro, egli
aveva il palco a disposizione: raccontava al mecenate: «con alcuni amici ci sono
andato ed abbiamo fatta una figura da signoroni. La si figuri il palco di mezzo!».
Anche se degli amori tra musicisti con cantanti e ballerine sono pieni i racconti
d'appendice. per quel che riguarda Muzio nulla è conosciuto per quei lunghi anni che
precedettero la parentesi coniugale. Non si ha notizia di alcuna relazione nell'ambiente
artistico o salottiero né, quanto meno, in quello domestico ancillare, celebrato
abbondantemente da Zola, Maupassant, Mirbeau. Verdi gli era stato maestro in
tutto...
Il figlio del calzolaio di Busseto, vivendo a contatto con gli elementi più vivi della
società, partecipò della febbrile aspettativa di riforme che si venne a creare con
l'elevazione di Giovanni Mastai Ferretti al soglio di Pietro con il nome di Pio IX. Le
notizie che inviava su questo argomento a Busseto le aveva tratte dalla Gazzetta
Piemontese e da quella Privilegiata di Venezia, in quanto su quella di Milano non era
riportato nulla, e lui pertanto era lettore delle prime due. Tanto era eccitato, che il 9
novembre 1846 giunse a scrivere: «Stassera devo andare dalla Contessa di Pietra
Santa ove si trova una cognata del Papa. Se raccoglierò notizie, gli scriverò lunedì
venturo».
Cominciavano a prospettarsi intanto le prime occasioni lavorative. Aiutarlo, dargli
l'occasione di guadagnare qualcosa, voleva dire ingraziarsi Verdi. Cosi, nel maggio,
l'editore Lucca offri al giovane 2000 franchi: qualora il maestro fosse andato a Londra,
avrebbe dovuto recarsi con lui per aiutarlo e stargli vicino. A luglio, essendosi reso
vacante a Parma il posto di maestro della Ducale Cappella di San Paolo, ed essendo
stato rifiutato ai concorrenti Barbacini e Alinovi il giovane, alcuni parmigiani che
vivevano a Milano avevano assicurato che, alla riapertura dei termini, il posto sarebbe
stato sicuramente assegnato a lui. Qualche tempo dopo, accennando a quella
sistemazione, Muzio osservava: «Per Parma non fa nulla: han fatto bene a farlo senza
concorso, perché chissà che non fosse andato al rovescio. Cercano di scansare i
pericoli! Brava gente!».
E' del 27 agosto il racconto, in verità un po' greve, delle novelle nozze di Rossini: «la
Pelissier era una donna di mondo, la quale riceveva chiunque pagasse il suo
marenghino (era a Parigi). Orazio Vernet, il più gran pittore vivente, se ne innamorò e
la ritirò presso di sé e le fece un assegno. Rossini quando andò a Parigi a scrivere
delle Opere, frequentava la casa di Vernet e se ne innamorò, e fu corrisposto, e faceva
i corni sull'amicizia a Vernet; quando Rossini cinque anni fa venne via da Parigi, una
notte la Pelissier fuggi dalla casa di Vernet e se ne venne con Rossini a Bologna, ove
ha sempre convissuto assieme, e adesso si sono sposati. Essa ha un rendita di 30 mila
franchi accumulati col menar le coscie...».
A quest'epoca risale la scarsa simpatia per giornalisti e critici. Tra i giudizi severi, ne
riservò uno particolare per il Regli, «giornalista per mestiere, e chi gli va a toccare la
mano prima di andare in scena, dice Brofferio, è un genio; chi non soddisfa a questo
dovere è un cane». Malgrado questa opinione. tempo dopo scriveva a Barezzi: «Se
Egli si trovasse qualche volta con me a Milano, vorrei fargli conoscere Regli, affinché
sentisse un poco gli intrighi dei cantanti, dei maestrucoli». Francesco Regli, estensore
del periodico teatrale milanese II pirata e autore nel 1860 del famoso dizionario
biografico, era solito rivolgersi a lui o a Solera, quando gli occorrevano per il giornale
notizie concernenti Verdi.
Il 16 settembre 1846 scoppiò a Milano un furioso incendio che coinvolse tutto il
sobborgo di Porta Orientale. Verdi, incuriosito dalla spettacolarità della scena, vi si
recò con Muzio. Capitarono, però, nel momento in cui la polizia aveva bloccato le
strade per raccogliere uomini da adibire all'opera di spegnimento. I due fuggirono sul
bastione di Porta Orientale, ma, anche da quella parte, vi era uno sbarramento per
rastrellare i fuggitivi. Verdi ebbe il tempo di saltare giù dal muro, mentre Muzio, per
coprire la fuga del maestro, fu preso e costretto a lavorare alle pompe per tutta la
notte, fino alle sei di mattina, ora in cui poté scappare a casa, «sporco, bagnato che
sembravo un assassino». Verdi era rimasto nascosto nel giardino pubblico sottostante
per un'ora e mezzo; essendo chiusi i cancelli, non era potuto uscire, né risalire sulle
mura, in quanto più alte di lui: cosi, raccolti dei sassi, li aveva ammonticchiati per
farne scala. Più si arrampicava, e più cascava giù, al punto che le mani sembravano
graffiate da un gatto. «Quest'avventura lo ha messo del più buon muore che si possa
immaginare...».
CAPITOLO III
I primi viaggi
Emanuele viveva ormai in intimità con Verdi, dava qualche lezione e scriveva musica.
Già nel maggio 1846, due anni dopo l'arrivo a Milano, aveva comunicato a Barezzi che
collaborava con le case editrici Lucca e Ricordi con lavori di trascrizione e riduzione
per pianoforte di lavori teatrali. La Gazzetta musicale di Milano del 7 febbraio 1847
annunciava che erano in vendita i «pezzi scelti e ridotti per pianoforte solo da E.
Muzio» tratti dal grande ballo composto per la celebre danzatrice Elssler dal
coreografo Perrot per l'Imperial Regio Teatro alla Scala nel carnevale 1845. Non
erano, però, lavori che procuravano grandi guadagni.
Oltre alle quattro opere liriche di cui parleremo, Muzio non fu per i tempi un
compositore prolifico, pur non avendo, per i legami con Ricordi, problemi per
pubblicare le musiche. Abbiamo visto che in gioventù aveva composto per i Filarmonici
di Busseto, e certamente a quel filone appartiene la prima composizione edita da
Ricordi, la Mazurka di Concerto per Corno a mano con pianoforte. Pur essendo alla
moda, e uno dei generi maggiormente ricorrenti nei cataloghi degli editori, non indulse
né nelle arie da salotto né in quelle fantasie, parafrasi o variazioni sulle opere liriche
maggiormente in voga. Delle prime, di quegli anni milanesi, conosciamo un'arietta per
soprano o tenore con accompagnamento di pianoforte, una evidente "captatio
benevolentiae", Per l'Onomastico della Contessa Eugenia Lilla Visconti Arese, nata
Contessa Attendolo Bolognini, e un'altra per mezzosoprano o baritono, All'aura. Più
avanti, durante la permanenza a New York, scrisse delle melodie per canto raccolte
nell'album Le stelle d'Italia, e tornò ancora su questo genere a Parigi, per l'editore
Schonenberger, nella raccolta Les feuilles d'or, dedicate alle sue allieve Annie Luise
Kellog e Adelina Patti. Le uniche fantasie su opere di cui siamo a conoscenza furono i
Tre studi sopra una cavatina della Battaglia di Legnano di Verdi per pianoforte, e la
trascrizione della Grande marcia e coro dei soldati dal Faust di Gounod. Lavorò invece
molto a riduzioni per canto e pianoforte, per pianoforte solo, per pianoforte a 4 mani
di opere di Rossini, dei fratelli Ricci, di Verdi, di Sanelli.
Il Belforti riporta che in casa di Ricordi ebbe modo di frequentare Donizetti, Foroni,
Bazzini, Mariani, Doehler, Thalberg e Gordigiani, conoscenze che gli giovarono nel
prosieguo della carriera. Forse senza essere un "fenomeno musicale" come lo definì il
Walken accanto a Verdi ebbe modo di mettere a fuoco una intelligenza pratica del
mondo teatrale in tutte le sue minuzie.
Il 20 novembre 1846 fu bandito a Busseto quel concorso per maestro della scuola di
musica e organista della Collegiata, al quale ci si attendeva che Muzio partecipasse,
avendo terminato gli studi di composizione. Il giovane era perplesso: dopo aver
vissuto a Milano vicino a un musicista applaudito, con il quale adesso era sempre
assieme a pranzo, al caffè, negli svaghi, che lo aveva presentato in società, che lo
portava con sé presso le migliori famiglie della città, con la prospettiva di iniziare una
carriera propria, l'idea di abbandonare la metropoli e il maestro, dopo che questi tanto
gli aveva dato, «e che adesso medita una cosa a mio riguardo la quale mi porrà in
vista a tutto il mondo musicale col farmi intraprendere la mia carriera», per ritornare
in un paese pettegolo e litigioso, non era la vetta degli ideali. Ritornava anche quel
tema cui abbiamo accennato all'inizio: «Alcuni diranno il bisogno della tua famiglia è
grande; lo capisco anch'io; ma se essi hanno avuto pazienza per due anni, spero che
per un anno alla più lunga non potranno morire di stento. La prego di far sapere a mia
madre queste cose perché io non ho tanto cuore da scrivergliele». In tali termini si
espresse con Barezzi.
Così, quando il 9 dicembre ricevette la convocazione a partecipare al concorso,
malgrado le suppliche del padre, alle sollecitazioni di Barezzi rispose seccamente: «Io
ho già preso la mia risoluzione e non cambio». Il 10 gennaio 1847 rispose però
diplomaticamente al presidente: avrebbe preso volentieri parte al concorso, se non
fosse stato certo di essere causa di disordini in città, come era avvenuto quando
aveva partecipato il suo maestro. Stranamente l'originale di questa risposta fu trovato
tra le carte di Barezzi: probabilmente il mecenate la consegnò in copia agli
amministratori pubblici.
Il 28 gennaio 1847 Muzio scrisse a Barezzi: «Ho visto il paragrafo relativo al concorso;
io desideravo il parere del Maestro, ma non ho potuto cavare dalla sua bocca che
queste parole: "Fate la vostra volontà; io non voglio entrarci". Se io non avessi scritto
al Monte quella lettera ove dicevo di non concorrere, forse io verrei, benché io mi trovi
meglio qui, ma ora poss'io disdire quello che ho detto? Non ci sarebbe che una via e
sarebbe se quei del Monte mi scrivessero ancora; io gli do la mia parola di concorrere.
Se Egli colla stessa franchezza della lettera di oggi, si fosse spiegato cosi un mese fa,
io venivo volentieri, e facevo la sua volontà».
Il padre allora, volendo che il figlio si sistemasse con un posto e uno stipendio sicuri, il
31 gennaio 1847 presentò una nuova domanda di partecipazione a nome di Emanuele
«il quale ebbe la sorte di ultimare i suoi studi appo l'uomo Europeo il chiarissimo
Maestro Verdi». Definizione più bella di Verdi di questa del modesto calzolaio è difficile
trovare. Il concorso, però, non ebbe luogo anche se vi era un altro candidato, Enrico
Landi, da anni organista della Collegiata, che avrebbe gradito unire il suo posto a
quello di maestro nella scuola di musica, come avveniva al tempo di Provesi.
Verdi, nel frattempo, stava preparando il Macbeth per la Pergola di Firenze su libretto
di Piave, cui Andrea Maffei, marito della Clarina, aveva apportato dei ritocchi. Furono
giorni di lavoro febbrile per terminare l'opera, e tenne come aiuto il "Rossetto" dalle
nove di mattina a mezzanotte di ogni giorno. Durante questo periodo di acuta
tensione, fu "incomodato" da dolori intestinali: «Noti si prenda pena, caro signor
Antonio, e si ricordi che il signor Maestro ha vicino uno che gli vuole bene assai e che
gli fa tutti quei servigi che non fanno le persone mercenarie».
Come per le altre opere, Muzio espresse tutto il suo entusiasmo: l'opera seguente era
sempre migliore delle precedenti e di tutte quelle degli altri autori. Questa volta il
maestro lo portò con sé con l'incarico di assistere alle prove: lui era occupato con
Giuseppina Strepponi, argomento questo taciuto nelle lettere del giovane. Muzio era
estasiato della Pensione Svizzera, dove l'impresa li aveva alloggiali: avevano a
disposizione un magnifico appartamento e una "tavola da re". Analogo fu l'entusiasmo
per Firenze: «Credevo che fosse bella, ma non al punto che da me è stata trovata». Il
12 marzo arrivarono Antonio Barezzi con il figlio Giovannino per assistere due giorni
dopo alla prima dell'opera, che il maestro aveva dedicato al suocero.
Cantava la Barbieri Nini: avrebbe dovuto interpretare la parte la Loewe, ma, a dire di
Muzio, «essa era gravida ed ha voluto abortire, e dicesi questo essere stato causa di
aver perduta quasi la voce».
Circa l'esito, scrisse ai familiari di Barezzi che l'opera aveva «prodotto immenso
fanatismo», e che il maestro era stato chiamato 38 volte: più avanti, nella stessa
lettera, disse che le chiamate erano state 27. Abramo Basevi parlò, invece, di
«benevoli accoglienze; ma più in riguardo all'autore presente che della musica, la
quale non piacque che per metà».
Dopo le tre prime rappresentazioni del Macbeth, il 18 marzo partirono da Firenze:
Verdi ritornò a Milano, mentre Emanuele si fermò qualche giorno a Busseto. Rientrato
a Milano, trovò il maestro irascibile, in quanto l'assenza dell'aiutante lo costringeva a
effettuare tutte quelle piccole cose quotidiane alle quali aveva ormai delegato il
giovane, nonché un mare di lavoro arretrato presso la casa editrice Ricordi: le bozze
del Macbeth erano piene di errori e toccava a lui, autore della riduzione, effettuare le
correzioni, prima che si procedesse alla stampa. Nel frattempo gli alunni privati
avevano trovato un altro docente e, come sempre, il borsellino era irrimediabilmente
vuoto.
L'oscuro lavoro a Firenze era stato lodevole, se poteva scrivere: «A Venezia si darà in
Carnevale alla Fenice il Macbeth. (…..) Ma il maestro non vuole andare a Venezia,
perché essendo quell'aria perniciosissima alla sua salute non vuole andarvi a morire,
ed ha detto a Mocenigo che, se scriverà per Venezia, egli non anderà a metterla in
scena, ed in vece sua manderà me».
Da quanto poi raccontò, veniamo a sapere dell'inizio della carriera di un musicista, che
passò per uno dei migliori compositori dilettanti del secolo scorso. Alcuni giorni prima
di partire per Firenze, dove avrebbe assistito Verdi nella messa in scena del Macbeth,
era stato avvicinato dal Maffei che, a nome del conte Giulio Litta, gli aveva chiesto se
voleva recarsi a lavorare dal nobiluomo con il compito di correggere la musica che
questi scriveva; avrebbe dovuto anche effettuare delle composizioni che, però,
sarebbero apparse con il nome di quello. Pur essendo la paga notevole, non aveva
accettato, dichiarando di non aver bisogno di nulla. Il conte Litta, sapendo che Maffei
si recava a Firenze, gli disse di parlarne con Verdi. «Egli secondo il suo solito non ha
voluto darmi alcun consiglio; ed io ho risposto al signor conte che faccio senza dei suoi
marenghi; che se faccio bene voglio far bene per me; e che quando farò della musica
e che sarà tempo di esporla voglio esporla col mio nome e non col suo. Il Maestro
dopo mi ha detto che ho fatto benissimo a rispondergli così». Muzio evidentemente
era in confidenza con Andrea Maffei, come era anche in familiarità con la contessa
Clarina Maffei, se il maestro poteva scriverle: «Mille cose intanto le dico, e mille altre
gliene dirà a voce Emanuele».
Risale a Firenze, al 18 marzo 1847, la prima lettera di Muzio a Ricordi con la notizia
del successo del Macbeth. Centinaia ne furono scritte: a Giovanni, a Tito, a Eugenio
Tomaghi, a Girolamo Ceni E tutte, o quasi, confluirono nella sua cartella, dalla quale
l'Abbiati ha largamente attinto per la monumentale biografia di Verdi.
Verdi. intanto, aveva firmato il contratto con l'impresario Benjamin Lumley per
allestire I masnadieri: era il primo dei grandi compositori dell'Ottocento che scriveva
un'opera appositamente per Londra, e l'evento prometteva di essere memorabile.
Così, al fine di disporre di un valido aiuto per l'ardua prova, nel maggio 1847 anche
Muzio si trovò in viaggio, piacevole per la novità e la buona stagione, verso la capitale
britannica attraverso Como, il S. Gottardo. il lago dei Quattro Cantoni, Basilea,
Strasburgo, la valle del Reno, Bruxelles, Parigi: «e tutte queste provincie e regni li
abbiamo passati senza che ci cerchino mai i passaporti, i quali li teniamo ancora nel
portafoglio. Di più non abbiamo avuta che una visita ai nostri bauli nel Belgio. Che
diversità dal viaggiare in Italia, così incomodo che ad ogni momento bisogna far
vedere i passaporti, ed avere sempre aperti i bauli per far vedere la loro roba».
E ancora: «Mi dimenticavo di dirci che siamo passati dalla pianuta di Waterloo, ove è
caduto Napoleone, ed abbiamo veduto con gran dispiacere il monumento che hanno
eretto gli Inglesi (sulla terra di Francia!) per la memoria di quella vittoria». Anche se
la "terra di Francia" era più propriamente il Belgio, è evidente che, se pur dal 1815
erano passati più di trent'anni, in un'epoca romantica di Risorgimento incipiente, la
memoria del Corso era in piena auge. A Bonn avevano visto un altro monumento,
quello «che hanno fatto l'anno scorso a Beethoven, essendo sua patria».
A Parigi Verdi si trattenne presso la Strepponi, e fece proseguire Muzio per Londra,
per controllare, prima che lui arrivasse, che il soprano Jenny Lini cantasse nell'opera.
In caso contrario, era pronto a mandare a monte la rappresentazione: si era infatti
sparsa a Parigi la voce che la virtuosa svedese si rifiutasse di cantare I masnadieri, in
quanto opera nuova.
Il 4 giugno Emanuele scrisse da Londra che le dicerie erano una ciarla e la cantante
non vedeva l'ora di ricevere la parte per poterla studiare. Le impressioni che il giovane
provinciale trasse dalla metropoli vennero, come sempre, trasmesse al mecenate:
Milano era nulla, Parigi qualche cosa, Londra una città unica al mondo. Quasi due
milioni di abitanti; per andare da una parte all'altra, bisognava cambiare tre poste di
cavalli; gente poi che gridava, poveri che piangevano, vapori che volavano, uomini a
cavallo, in carrozza, a piedi, e tutti che urlavano come dannati! Pioggia poi tutti i
giorni. freddo, vento, nebbia, mai il sole, fumo che anneriva la faccia, bruciava gli
occhi, e odore di carbone... I prezzi erano assai elevati, l'alloggio assai modesto e,
malgrado ciò, costava 5 sterline alla settimana. In proposito Verdi raccontò a Clarina
Maffei: «Emanuele che avevo mandato avanti mi ha trovato un alloggio così
omeopatico, che non mi posso muovere: nonostante è assai pulito, come sono tutte le
case di Londra».
Le riserve espresse derivavano anche dal fatto che né Muzio né il maestro parlavano
la lingua; il personale di servizio non capiva nulla ed era "ruvido come dei sassi".
«L'alta società dei Lord parlano bene l'italiano, essendo quasi tutti stati per degli anni
in Italia per diporto e divertimento. e quando si va in società almeno si può fare
intendere».
Secondo una tradizione che risaliva al secolo precedente, i giovani inglesi di buona
famiglia, per completare l'educazione, non potevano non recarsi a vedere i capolavori
che avevano imparato ad ammirare nei libri d'arte e d'architettura, e di cui avevano
letto nei testi classici, in quanto il greco e il latino erano le materie principali, e base di
ogni conoscenza storica. letteraria e artistica. Il "grand tour", se era un corso
intensivo di lingua e cultura dei paesi di mezza Europa, rappresentava anche una
prolungata vacanza all'estero, con la funzione di educare ad apprezzare le arti
figurative e le tradizioni dei paesi visitati. E in Italia, meta obbligata del giro, tra
queste ultime primeggiava il teatro d'opera, i cui virtuosi affascinarono i turisti, che
rimasero loro fedeli ammiratori, una volta ritornati a casa a occupare quel posto nella
società che il rango riservava loro.
Il lavoro era assillante: dalle cinque di mattina alle sei di sera, poi cena e teatro, per
ricominciare la mattina dopo. Per il gravoso impegno, ma anche per la natura
scontrosa, Verdi non aveva né tempo né voglia di ricevere visite, di andare ai concerti
o ai pranzi cui veniva invitato: anche perché, osservava Muzio, non si può mangiare
«quei cibi tanto pieni di droghe e pepe, e poi tutti cibi freddi, e vino spiritosissimo che
sembra rhum». Solo una volta si recarono a cena dall'impresario Lumley: in dieci, tutti
uomini, dalle sei alle undici a tavola, «cinque ore a mangiare e a fare brindisi». Tra i
commensali. Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone III.
In teatro Muzio si dimostrò indispensabile: «Bisogna fare tutto in mezzo a questi
Beduini; non sanno far niente e le più piccole cose le sbagliano». L'attenzione nei
riguardi del maestro venne notata, e la Revue et Gazette des Thédtres di Londra,
chiamandolo per nome, lo definì «l'aiutante di campo del Verdi».
Rimase stupito della passione e competenza degli inglesi per la musica: mai, a
differenza di Italia o Francia, un capolavoro era stato fischiato al suo apparire; ogni
giorno, con un pubblico attento, un grande numero di concerti, che duravano fino a
sei ore con l'esecuzione di cinquanta pezzi!... Motivo ulteriore di meraviglia fu uno
spettacolo di gala con la corte in gran tenuta, con la corona, i gioielli, i diamanti: una
cosa «che cavava gli occhi».
Sempre a contatto con Verdi, l'attento Muzio aveva appreso molto, e si cominciano a
trovare nelle lettere anche dei giudizi critici. A proposito della Lind, dopo averla
ascoltata in tre opere, riportava che la voce era un po' aspra negli acuti, debole nei
bassi. ma che, a forza di studio, era arrivata a renderla pieghevole negli acuti anche
nelle più astruse difficoltà: il trillo era inarrivabile, l'agilità senza pari, anche se
peccava in fioriture, in gruppetti, in trilli, «cose che piacevano nel secolo passato, ma
non nel 1847...». Essendo suo compito passare al pianoforte le parti con i cantanti,
rimase colpito dalla donna: buona, gentile, piena di educazione e di garbo, anche se la
faccia era brutta, seria, con qualcosa di "nordico" che la rendeva antipatica, il naso
grossissimo. come le mani e i piedi. Faceva una vita ritiratissima senza ricevere
nessuno, e non vedeva l'ora di smetterla con il teatro. Era, però, musicista perfetta e
profonda, leggeva a prima vista qualunque parte, e cantava "da angelo". A proposito
di quel naso "grossissimo", Muzio celiava dicendo che l'avrebbe mandata a Busseto,
patria dei nasoni.
La regina Vittoria aveva ordinato che la prima andasse in scena il 22 luglio, giorno
della chiusura del Parlamento e solennità diplomatica d'Inghilterra: assistette con la
corte in tenuta di gala. A leggere quanto raccontò a Barezzi, l'opera fece rumore, «e
non si udiva altro che: viva Verdi, bietifol (bello)». Dopo aver diretto le prime due
recite, Verdi restituì la bacchetta a Balfe che, come ricordava Muzio nel 1880, era un
«eccellente direttore, inglese, stimato ed amato».
Nel viaggio di ritorno, si fermarono a Parigi: e Muzio scrisse che venire a Parigi da
Londra, era come passare da Milano a Busseto. Mentre l'allievo restò una ventina di
giorni, assistendo alle feste del 14 luglio, per poi ripartire per Milano, il maestro si
trattenne nella capitale francese, per la stesura dell'edizione francese dei Lombardi...
e la Strepponi. Muzio aveva parecchi compiti da espletare a Milano: provvedere alla
stampa dei Masnadieri: correggere quanto aveva fatto Panizza nel Don Sebastiano di
Donizetti, restato incompiuto per la malattia del compositore; curare il rifacimento dei
Lombardi che, rielaborati, sarebbero andati in scena all'Opéra di Parigi con il titolo di
Jerusalem. A questo proposito, il maestro scrisse a Ricordi che, qualora avesse trovato
a Parigi un poeta italiano, avrebbe fatto lui stesso la riduzione, in caso contrario
avrebbe inviato lo spartito in francese, con la condizione che le parole sotto la musica
fossero messe da Muzio.
Circa la malattia che condusse prematuramente alla tomba Donizetti, Muzio si
espresse in questi termini: «Povero uomo, cosi bravo! Come finisce presto! Sono stati
disordini di vino e Venere che lo hanno minato».
Risalgono a quel tempo i primi passi nella carriera che portarono Muzio in giro per il
mondo: nel dicembre 1847 fu scritturato a Lodi per concertare Macbeth: nel carnevale
1848 al Teatro Sociale di Mantova nell'Ernani e ancora nel Macbeth: al cembalo, cioè
concertatore, mentre primo violino e direttore d'orchestra era Giovanni Luppi. La
stagione, dopo un inizio incerto, proseguì con successo. La dote era stata
particolarmente ricca, in quanto i governanti, in considerazione del frangente politico,
tentavano con ogni mezzo di tenere distratta la popolazione.
Sotto la guida di Verdi, si era formato uomo di teatro completo: a Mantova ripassava
le parti dei cantanti, dirigeva la messa in scena, presiedeva alle prove dei cori e, come
ebbe a narrare il 4 febbraio a Ricordi, essendo l'impresa "inerte", era andato a Verona
per trovare delle coriste. Nel contempo lavorava all'edizione per pianoforte del
Macbeth.
Durante le rappresentazioni dell'Ernani si ebbero dei subbugli: il popolo non voleva
che si cantasse "A Carlo Magno sia gloria ed onori", bensì "A Pio IX sia...". Si parlò di
togliere l'opera dal cartellone, ma la polizia la volle mantenere per puntiglio. Anche
per il Macbeth le cose non filarono lisce, in quanto gli spettatori, avendo saputo delle
modifiche apportate dalla censura, non volevano recarsi a teatro.
Per consegnare all'editore Lucca Il corsaro, invece di venire appositamente da Parigi,
Verdi preferì inviare il 12 febbraio 1848 la partitura a Muzio, accampando che il
viaggio era lungo e faticoso: in realtà per evitare l'incontro, avendo avuto a suo tempo
con l'editore degli screzi circa la cessione del Nabucco.
Signor Emanuele Muzio
Vi autorizzo ad esigere dal Sig. Francesco Lucca Editore di Musica in Milano la somma di 1200 Napoleoni
d'oro da 20 franchi, i quali mi sono dovuti per uno spartito espressamente da me composto, e che io ho
di già spedito a Voi da Parigi nel giorno 12 corrente.
Fatto il pagamento, consegnate al Sig. Lucca il suddetto spartito con rispettivo libretto, di più un attestato
in cui io riconosco Francesco Lucca proprietario assoluto di detta Opera.
In fede
Giuseppe Verdi
Dava incarico nel contempo al fidato allievo di inviargli il denaro a Parigi tramite una
banca, e raccomandava all'editore di scritturare Muzio per concertare la prima
dell'opera al Teatro Grande di Trieste nell'ottobre 1848. Questi, felice, scriveva: «Ed io
(se Lucca mi pagherà bene) vi anderò a metterla in scena».
Giunsero le Cinque Giornate dal 18 al 23 marzo 1848, precedute da moti e tafferugli
tra popolazione e gendarmi austriaci. Benché avesse scritto a Barezzi: «Se vedo le
cose a prendere una cattiva piega, io vado a Parigi o vengo. a Busseto», acceso
dall'entusiasmo, vi partecipò, pare anche armato di fucile, compromettendosi
apertamente. Una descrizione degli scontri cui prese parte fu fatta dal Belforti. Anche
se è l'unico documento del coinvolgimento in quello storico avvenimento, evitiamo di
riportarlo per le palesi assurdità di cui è infarcito.
Il 27 aprile 1848 scriveva a Giuseppe Demaldé, detto Finola, filarmonico e cassiere del
Monte di Pietà di Busseto, che stava raccogliendo materiale per dei Cenni biografici del
Maestro Verdi: «Mi è stato di sommo piacere il ricevere un suo foglio e di sentire
ch'Egli abbia di già pronto i materiali per compilare la biografia del sig. Maestro. Egli
dev'essere sollecito di spedirli e li dirigga pure al detto Sig. M°, il quale è consapevole
di tutto questo già da qualche tempo; ed anzi parlò al chiarissimo Sig. Luigi Taccagni,
giacché Solera non aveva più tempo...».
La stesura definitiva del lavoro scivolò al 1853, quando Verdi scrisse a Piave:
«Soltanto jeri ho fatto la lettura della mia biografia alla Peppina. Desidererei che non
si omettessero le lodi che si devono a mio suocero e le sferzate a questi e... di preti
che non mi vollero qui maestro». La prudente Peppina trovò la stesura troppo cruda, e
suggerì per la restituzione del manoscritto, facendo in tal modo cadere l'iniziativa.
Dopo le Cinque Giornate, la situazione economica del giovane, come sempre avviene
per gli artisti nella circostanza di moti eversivi, era drammatica. Se il periodo della
temporanea unione al Piemonte fu ricco di entusiasmi. fu assolutamente povero di
moneta. la scrittura per la stagione lirica al Teatro di Trieste era sfumata per
l'incertezza politica e non si erano presentate altre occasioni. Il 5 giugno dovette
chiedere a Ricordi 150 lire in conto riduzioni di opere e, ad agosto, essendo la famiglia
alla fame, «per il bene di quei poveri Diavoli cui sono destinati», fu costretto a
ricorrervi nuovamente: in attesa di fare i conti, poi, ne chiedeva anche un centinaio
per sé, «perché sono veramente in grande bisogno». Verdi gli venne incontro, ed
Emanuele poté scrivere all'editore: «In quanto alle 100 lire che ti cercavo se non puoi
darmele per conto tuo dammele per conto di Verdi, il quale mi autorizza in questa
lettera. Per pareggiare poi il conto in pendenza fra noi, ti prego se hai qualche lavoro
a farmelo fare che così liquiderò per ciò che ti devo e così sempre saremo eguali nei
nostri conti».
Quando gli Austriaci rientrarono vittoriosi in Milano, molte persone - il Walker scrisse
centoventimila, cifra a nostro parere esagerata, considerato il numero degli abitanti di
quel tempo - temendo ritorsioni, si rifugiarono in Piemonte o in Svizzera. Anche Muzio
prese la via dell'esilio, fermandosi a Mendrisio, appena al di là della frontiera. Aveva in
animo di raggiungere il maestro a Parigi, ma, o per mancanza di mezzi o perché si era
ammalato di "cefalite gastrica", non poté farlo. A Mendrisio Ricordi aveva una filiale
diretta dal genero Carlo Pozzi, e cosi Muzio poté continuare nel lavoro di riduttore di
opere liriche. Verdi accorse in suo aiuto, «per toglierlo dal verde, a patto però che egli
si mantenesse sempre il suo rossetto»; e il 4 febbraio 1850 da Busseto: «Ecco una
cambialetta per te pagabile dal Ricordi. Che fai? Se non hai di meglio. qui da me c'è
sempre un ricovero adatto ai tempi; ma ricordati che ti devi fare una carriera quando
Dio e gli uomini vorranno». La preoccupazione di Verdi nei riguardi dell'allievo è
evidenziata nel giudizio espresso il 3 ottobre 1848 a Carina Maffei: «Sono
dolentissimo perché non so cosa fare per lui, e più perché egli ha delle illusioni che
non si realizzeranno mai».
Povero, esule, convalescente, Muzio giunse alla convinzione che la triste vita nel paese
natio poteva anche essere apprezzabile. Scrisse così il 4 febbraio 1849 alla madre che,
qualora fosse stato invitato, avrebbe concorso al posto di maestro di musica e
organista in Busseto, decisione che confermò, quando dalla Svizzera rientrò a casa nel
marzo, facendo un lungo giro per evitare la Lombardia. Il podestà di Busseto, infatti,
lo aveva convocato per partecipare al concorso, prova che, però, non ebbe luogo. Con
il ritorno a casa, si trovò ad essere un sorvegliato, e un rapporto della polizia ducale
del maggio 1849 scriveva: «Il Mussio facendo frequenti gite a Milano e nella
Lombardia, ove ha diverse relazioni, s'interessava di riportare novità tali in Busseto,
da sconvolgere maggiormente le massime di quegli abitanti già di troppo corrotte». In
quel maggio Emanuele si era recato a Milano, per prendere accordi con l'editore per le
solite musiche: era, però, tenuto d'occhio come elemento sovversivo e, qualunque
mossa facesse, veniva letta in questa chiave.
Rimasto a Busseto, curava gli interessi del maestro che era a Parigi: in quell'anno,
infatti, questi aveva acquistato il podere di Sant'Agata e aveva delle pendenze
economiche da risolvere con un ricco ebreo, certo Levi; con questi Muzio teneva i
contatti, scavalcando, per espresso volere del maestro, il padre di Verdi. Nell'agosto
aveva comunicato a Ricordi che risiedeva in campagna, e che stava tanto bene che gli
era passata la voglia di ritornare a Milano. Le condizioni economiche erano sempre
precarie, e nell'autunno 1849 ritornò a Milano, dove viveva con le riduzioni di opere
che Ricordi gli commissionava. Il 2 novembre, in un momento di sconforto, confermò
a Barezzi che avrebbe accettato il posto di Busseto. il 27 ottobre aveva dovuto
chiedere all'editore ancora un'anticipazione di 100 "Svanziche" sulle future riduzioni, e
dovette ritornare a bussar a cassa per un analogo importo il 6 dicembre.
Con il ritorno a Milano era ripresa la corrispondenza con Barezzi, intrisa, quando se ne
presentava l'occasione, anche di pettegolezzi: come quando narrò di una visita che il
duca di Parma. Carlo III, fece a Milano, per prender parte a un'orgia organizzata
nell'appartamento del conte Barni all'Hotel de la Ville e che si protrasse fino alle
quattro del mattino. Sappiamo così - e lo seppe tutta Busseto - che il duca era poi
ripartito alla volta di Parma in carrozza scoperta e senza scorta.
«Che bella gente abbiamo per la grazia di Dio!». I sovrani, allora, erano tali "per
grazia di Dio", anche se questa espressione era frequente nel linguaggio di Muzio.
La fiducia di Verdi era ormai completa, come risulta da una lettera del 26 gennaio
1850 di Giovanni Ricordi al maestro: «Senti, mio caro Amico, io non ho segreti con te,
non ne ho con Muzio che è l'anima tua, e le mie lettere, i riscontri ricevuti ed i miei
registri, tutto ho mostrato al Muzio stesso, come avrei fatto massime con te, se tu
fossi qui».
Verdi si preoccupava per l'avvenire del pupillo e si era interessato per procurargli il
posto di maestro concertatore per l'apertura del Nuovo Teatro Italiano di Bruxelles:
così il 10 maggio 1850 Emanuele comunicava trepidante a Barezzi: «Avrà sentito dal
Maestro che vado a Bruxelles per occupare il posto di Maestro direttore per l'apertura
del Nuovo Teatro Italiano», specificando che «nell'incertezza dell'esito del concorso di
Busseto, non ho voluto lasciare un affare che può forse fare la mia fortuna». E
continuava: «Ieri matina alle 5 mi sono messo al lavoro e stamattina alle 4 avevo
finito ed istrumentato le tre marcie che gli invio come una tenue prova della mia
immensa gratitudine per Lei».
Intanto, dopo aver ridotto Crispino e la Comare dei fratelli Ricci, i cui pezzi trovava
«belli e di effetto», chiedeva all'editore 80 lire e, tre mesi dopo, altre 70, se c'erano
sul suo conto.
CAPITOLO IV
La prima opera lirica
Nell'estate 1850 fu pubblicato sulla Gazzetta musicale di Milano: «Emanuele Muzio, il
distinto allievo di Verdi, da Trento si è recato a Busseto sua patria, dove attende a
scrivere la nuova sua opera che darà nel prossimo inverno sulle scene del Teatro
Italiano di Bruxelles».
Nel giugno e luglio, infatti, era stato a Trento come concertatore dei Masnadieri e di
Attila, e le cose non dovevano essere andate liscie, se aveva scritto all'editore: «Sono
di cattivo umore assai, ed appena posso partire lascierò senza rincrescimento questo
fatale paese». Il 4 luglio poteva comunicare con sollievo che tornava a Busseto, e che
dopo la metà di agosto si sarebbe recato a Bruxelles. Alla fine del mese si dette al
Teatro Carcano di Milano la Luisa Miller di Verdi: sia l'autore che l'editore avrebbero
gradito che l'opera fosse concertata da Emanuele. L'impresario, però, per ragioni di
spesa, era disposto a retribuirlo soltanto per alcune prove al cembalo. A queste
condizioni, pur essendo sempre alla ricerca di lavoro, Muzio non se la senti di
accettare.
L'opera cui aveva accennato la Gazzetta musicale, Giovanna la pazza, fu la prima delle
quattro composte da Muzio, oltre alle Due regine, e La Sorrentina di genere serio e
alla Claudia, semiseria. Le partiture, con esclusione delle Due regine, risultano dai
cataloghi editoriali di proprietà di Ricordi, che ne pubblicò buona parte, come si usava
allora, in fascicoli sciolti nella riduzione per canto e pianoforte, oltre ai relativi libretti.
Delle Due regine venne edita soltanto la sinfonia nell'edizione per pianoforte solo e a 4
mani.
Nel settembre 1850 Muzio era a Bruxelles, dove concertò una stagione, che ebbe
inizio il 14, in un affollatissimo Teatro Italiano del Circo, «con logge ornate da belle e
gentili signore», con la prima in Belgio dei Masnadieri, preceduta dalla sinfonia della
Giovanna d'Arco. Ricevette un'accoglienza delle più lusinghiere, «ed il pubblico sortì
dal teatro non solo soddisfatto ma maravigliato». in una lettera del giorno dopo,
narrava: «non un pezzo che non fosse applaudilo con furore. (….) I bruxellesi sono
venuti al Circo ad aggiustarsi le orecchie straziate dal Profeta di Meyerbeed». la sala
era la più bella ed elegante di Bruxelles, ampia, armonica e ricca di dorature,
l'orchestra, composta da giovani suonava con tanta passione da sembrare, non di
nordici, bensì meridionali, e gli artisti erano tra i più applauditi. Questa lettera,
corretta nella forma, venne pubblicata il 22 settembre 1850 sulla Gazzetta musicale di
Milano. come corrispondenza da Bruxelles. Forse la prima delle tante che nel tempo
inviò con vari pseudonimi a riviste musicali. E' da rilevare che il giornale di Ricordi,
come per lo più avveniva, non citò né il direttore d'orchestra Felice Ricci, né il
concertatore Emanuele Muzio.
La Musique del 15 settembre riportò che, su domanda del concertatore, Verdi aveva
composto una nuova ouverture per I masnadieri. Affermando «fra me e Verdi come
uomini siamo assai amici, ma come artisti nessuno dei due ha mai avuto a che fare
coll'altro», chiese a Giovanni Ricordi di pubblicare una smentita sulla Gazzetta
musicale di Milano.
Per il sabato successivo era prevista la Matilde di Shabran di Rossini: morì la regina
del Belgio Luisa d'Orleans, moglie di Leopoldo I, «che fu assai compianta», e il teatro
fu chiuso per otto giorni. Per la luttuosa circostanza, il Fétis, direttore del
Conservatorio di musica, fece eseguire una sua Messa «che è la cosa più monotona,
più insipida, più pesante che vi sia. In luogo di essere il lamento di una nazione per la
morte del suo capo, non è che una meschina nenia povera e priva d'ispirazione e
sentimento: insomma, è il compianto di un pezzente». C'è da rilevare sulla serenità di
giudizio che, per quel che riguardava il suo Verdi, Muzio era un fanatico, e il Fétis era
antiverdiano...
Malgrado queste riserve sul musicista belga, ammetteva che questi aveva molte
attenzioni nei suoi riguardi, e che poteva avere a disposizione l'orchestra e i cori del
Conservatorio, che utilizzava per le prime delle opere: «Nella Linda mi sono fatto dare
dodici ragazzi del Conservatorio per i piccoli Savojardi e ciò ha fatto grande effetto».
Sempre pieno di attenzioni per il suo maestro, a gennaio gli inviò un nuovo dramma
da trasformare in libretto: lo trovava pieno di novità, e non vi entravano né politica né
religione, argomenti dai quali era bene girare alla larga. «La reazione è troppo forte e
non ci vuoi nulla che possa eccitare gli animi al disprezzo de' preti e de' governi.
Adesso gli fanno paura anche le note di musica».
Bruxelles, anche se l'aria «fredda, il cielo grigio e nebioso di queste contrade non si
confà troppo al mio fisico e soffro assai di stomaco», era una città «nella quale potrei
forse fare una posizione». L'inverno passò tra confortanti successi: concertò in rapida
successione barbiere di Siviglia, Lucrezia Borgia, La gazza ladra. Lucia di
Lammermoor, Don Pasquale. Linda di Chamounix, L'elisir d'amore, Anna Bolena,
Marino Faliero, Nabucco, La figlia del reggimento, e concluse la stagione
presentandosi l'8 aprile 1851 come compositore di Giovanna la pazza.
Erano in programma anche il Mosè, il cui materiale non giunse in tempo per un
disguido postale, e un'opera nuova del maestro Bazzoni: «E' stata rimessa
indefinitamente perché ineseguibile. Egli è partito da alcuni giorni per Parigi onde
accomodarlo ma credo che non arriverà mai ad agiustarla bene, - scriveva a Ricordi tornerà dopo natale». Anche allora, dopo quattro prove, fu rinviata per l'esecuzione
all'anno successivo. Confidava: «Sono molto incerto se darò la mia; amerei meglio
cominciare la mia carriera in Italia. Sono molto amato e questa è una buona cosa».
Non aveva l'obbligo di "dare" l'opera, in quanto la scrittura diceva: «in caso piacesse
al Muzio di far rappresentare una sua opera, l'impresa sarà tenuta a quelle spese...».
L'occasione, però, era troppo favorevole per farla sfuggire: anche perché l'impresa
aveva offerto di eseguirla per la sua serata d'onore, occasione nella quale avrebbe
potuto guadagnare anche più di un migliaio di franchi. Pensava, così, per marzo, «il
mese migliore di tutta la stagione».
Giovanna la pazza, tre atti su libretto del parmigiano Luigi Silva, concertata da Muzio
stesso e diretta da Felice Ricci, iniziò le prove a metà di marzo. «Gli artisti sono molto
contenti delle loro parti». Confidava in un successo, ed era già in "mezza" parola con
un teatro, indicato come uno dei primi, per farla riprodurre in Italia. Anche se non
riportò un esito trionfale, l'opera ebbe una lusinghiera accoglienza. Sobrio nel dare «la
buona e fausta nuova», scrisse di «un successo di cui sono assai contento». Aveva
avuto una disgrazia: dopo il primo atto, si era abbassata la voce a Morelli, per cui era
stata omessa l’esecuzione di un duetto e di una romanza di notevole importanza per
l'opera. Ciò malgrado il pubblico era stato soddisfatto, lui chiamato più volte all'onor
del proscenio e, narrò a Ricordi, «quando dovevo negli entracte lasciare l'orchestra
non sapeva in qual maniera potermene allontanare». La notte, poi, i professori si
recarono sotto le sue finestre per ripetere quella gentile usanza che era la serenata, e
gli fecero dono di una bacchetta d'ebano lavorata in argento, una delle cui estremità
raffigurava l'effigie di Verdi.
Un ammiratore belga, che si siglò I.B., scrisse questi versi:
Surprenant les secrets d'un maître en harmonic,
Profitant des leçons d'un savant professeur,
Voici Muzio, qui rélève un genie,
Dont le succès fera notre bonheur.
De Giovanna, ame sensible et tendre,
Il a compris les navrantes douleurs;
Venez, amis, accourez, pour l'entendre;
Ses beaux accords enchanteront vos coeurs.
L'opera, adesso, andava rappresentata in Italia, e Muzio confidava a Ricordi: «Spero
di avere ancora maggior esito di quello di costi, perché alcuni pezzi lavorati con molta
arte non li capiscono bene. [...] Bisogna che facia fare alcuni cambiamenti nel libretto
ed ho già la persona costi occupata all'uopo e che me li farà assai bene. E mettendola
in scena in Italia spero di poter avere un bell'esito, e di poter anche fare onore al mio
Maestro». Quasi tutti i giornali belgi parlarono bene del lavoro: «Il Sig. Fétis ha
mentito come sempre, in facia a dir bene dietro le spalle a dirne male».
Come fosse una prassi, gli ultimi giorni della stagione furono travagliati: l'impresario
Bocca, accampando l'esistenza di un deficit, fece perdere a tutti dieci giorni di paga.
«Io non ho ancora fatto i miei conti - mugugnò con Ricordi il 18 aprile 1851 - ma non
voglio perdere un soldo, perché ho affaticato assai assai».
Tutto fini in gloria: due concerti da dirigere, il 26 a Bruxelles ed il 29 ad Anversa, e
l'offerta di rinnovare il contratto per l'anno successivo con il doppio della paga
percepita. Si riservò la risposta, dopo aver visto gli sviluppi della situazione in Italia.
Da questa stagione nel Belgio, comunque riportò una cosa che gli fu utile tutta la vita:
la buona conoscenza della lingua francese. L'11 marzo 1852, infatti, Verdi scriveva a
Ricordi riguardo alla Luisa Miller, di cui aveva fatto vedere a Muzio la traduzione
fattane da Alaffre: «Egli esaminò qua e là e trovò assai ben fatta, massime per
l'applicazione delle nuove parole alla musica».
Giovanna la pazza ebbe una coda con l'impresario Bocca, a quanto è dato di capire da
una confusa lettera da Bruxelles a Ricordi. L'impresario, avendo diritto alla metà di
Giovanna la pazza, l'aveva offerta in vendita a Ricordi tramite Lampugnani, suscitando
le rimostranze dell'autore. «Per lo spartito se tu desideri acquistarlo come vedo ne
parleremo appena sarò a Milano. Ti confesso però che avrei più piacere a dartelo dopo
averlo fatto rappresentare da prima; capirai che posso prenderne qualche denaruccio
di più potendo avere come spero un sucesso. In Italia ho molte cose che sono in mio
favore capisci ed avendo ottenuto più che un reale sucesso a Bruxelles, ho fiducia di
averlo maggiore nel mio paese». Alla fine di giugno aveva trovato un teatro per il
battesimo italiano dell'opera: il signor Bocca, però, dichiarò che non avrebbe concesso
l'autorizzazione, se non avesse ricevuto le sue spettanze entro l'1 settembre.
Il 28 giugno 1851 mori a Vidalenzo la madre di Verdi: a Muzio toccò il triste ufficio di
pensare al "mortuario", ai preti, e a tutte le incombenze che l'evento importava.
Dopo aver ridotto per pianoforte la sinfonia della Giovanna, pubblicata da Ricordi,
tornò a raccomandarsi con l'editore «affinché potessimo dare l'opera nel prossimo
autunno in qualche buon teatro e quello che interessa di più con buona compagnia».
Era preoccupato per quanto Il pirata aveva appena pubblicato: il maestro
Chiaramonte stava scrivendo, per conto dell'editore Lucca, un'opera dello stesso
soggetto, Giovanna di Castiglia, e l'avrebbe rappresentata a Genova nell'imminente
stagione di carnevale. Nel contempo si offriva per recarsi a Bergamo per il Rigoletto,
in scena il prossimo autunno.
Alla fine di luglio, mentre sembrava che Giovanna la pazza sarebbe stata
rappresentata a Firenze, ricevette da Ricordi la scrittura per concertare il Rigoletto:
lire austriache 300 di paga. Si premurò di chiedergli il libretto e la musica dell'opera,
per farsi indicare da Verdi tutte le sue "intenzioni" anche per quel che concerneva la
messa in scena.
Dal punto di vista musicale, la situazione di Bergamo rispecchiava all'incirca quella
delle altre città dell'Italia settentrionale: a parte gli eventi imprevisti come l'incendio,
reputato doloso, che nel 1850 aveva distrutto parte del palcoscenico, le difficoltà
erano soprattutto di natura finanziaria, in quanto i bilanci erano sempre all'osso.
Trovare impresari in tale situazione era sempre più difficile, anche perché il pubblico
pretendeva cantanti rinomati, che incidevano drammaticamente sui costi. Non
sempre, peraltro, le grandi voci assicuravano automaticamente il successo. Per la
stagione di fiera 1851 si rappresentarono due opere di Verdi, nuove per Bergamo:
Luisa Miller e Rigoletto. L'interprete femminile era Marietta Gazzaniga, famosa per la
passionalità di cui investiva le sue eroine, oltre che per la voce, forse più da
mezzosoprano che da soprano.
A metà agosto Muzio era al lavoro per preparare l'opera: protestò "senza pietà" il
secondo basso e ne fece venire un altro da Milano, provvide a rinforzare l'orchestra e
fece studiare i cantanti. L'opera del suo maestro doveva andare bene. Le prove
dell'orchestra non potevano, però. incominciare prima del 25, in quanto i professori
erano impegnati per le musiche in chiesa per la festa di S. Alessandro.
La stagione era stata aperta il 12 agosto con Luisa Miller e, se non fu un trionfo per
l'opera, lo fu per gli interpreti Marietta Gazzaniga, Fortunato Goda e Carlo Negrini che,
«salutati da fragorosi applausi, furono i primi a specchiarsi nel sorriso del pubblico
gentile ed intelligente, disposto a languire sotto la magia della loro angelica voce. (….)
I fuora e i bravo schioppettarono come fuochi artificiali pe' su enunciati signori della
festa». Così il Giornale di Bergamo del 15 agosto 1851.
Dopo l'ottimo esito al suo debutto, avvenuto pochi mesi prima alla Fenice di Venezia,
l'opera si eseguiva per la prima volta in Lombardia: Verdi ci teneva molto, tanto è
vero che aveva fatto scritturare Muzio per concertare la rappresentazione del Teatro
Riccardi. A Bergamo. invece, Rigoletto, nonostante la presenza di questi acclamati
interpreti, fu un disastro in quanto, scrisse Muzio, "mancarono" proprio le prime parti.
Il 3 settembre il teatro era stipato del pubblico delle grandi occasioni, molti gli
spettatori venuti da Milano e da altre città, ma l'esecuzione terminò in un silenzio
sepolcrale. Il cronista del Giornale di Bergamo del 5 settembre rilevò che nell'opera «il
dramma e la musica non sono bene uniti ma piuttosto confusi», pur salvando il
quartetto del terz'atto, capace di commuovere e di «trascinare all'ammirazione e
all'applauso», cosa che comunque non si era verificata. Il lavoro di strumentazione
con l'orchestra ebbe l'implicito riconoscimento dell'appendicista: «L'orchestra, guidata
dal celebre Bregozzi, degno veramente di occupare, e quale esecutore e qual direttore
il posto di Rolla, di Musich, e di Rovelli, continua ad agire in modo da far dimenticare
le orchestre di Milano e di Parma».
All'inizio del secondo atto della replica lo spettacolo fu interrotto per le proteste del
pubblico, e l'opera ritirata dal cartellone. La movimentata serata fu conclusa con il
terzo atto della Luisa Miller, e la stagione riprese il giorno 10 con Poliuto.
Riguardo a questa infelice prima, il baritono Felice Varesi scrisse il 9 settembre a
Giovanni Ricordi, mettendo in dubbio l'abilità di Muzio, ma confermando il giudizio che
questi aveva espresso sui cantanti: «Io stimo Muzio ma non essendo stato presente
non ad una ma a varie rappresentazioni del Rigoletto non è possibile per quante
spiegazioni gli abbia fatto Verdi ch'egli possa aver ritenute tutte le infinitissime
degradazioni d'ogni pezzetto di quella musica, dalle quali dipende assolutamente
l'effetto. (...] La Gazzaniga meno male. Gorin non ha bastante istruzione né
intelligenza per capire la sua parte e dargli quell'interesse e quella squisita verità che
richiede, mentre Rigoletto va cantato a fior di labbro più di qualunque altra opera dal
Baritono, per cui io son d'avviso che nemmeno Verdi potrebbe mai arrivare a farne un
gobbo da rimanerne egli stesso contento».
Muzio aveva scritto che "mancarono" le prime parti e, probabilmente, fu una opinione
che ripetè anche a Bergamo. La Gazzetta cittadina del 12 settembre, cosi, si senti in
dovere di esprimere un parere in merito a quella che considerava una ingiusta
lamentela sugli artisti, «i quali, dopo aver assai bene interpretato e musica e parole,
dovettero a malincuore cedere a quanto si volle dalla giustizia, dal buon gusto, dal
buon senso. […..] Rispondano per noi le dimostrazioni, che nella sera della caduta del
parto Verdiano ottennero gli artisti, le quali furono tali da non potersi descrivere;
risponda l'accompagnamento degli artisti alle loro abitazioni con banda; tutto
insomma risponda che si è potuto fare da cittadini, veri discernitori de' meriti sommi,
da cittadini che, benché generosissimi, non sanno però né sapranno mai transigere su
i loro propri diletti».
Durante la stagione Muzio aveva dato da leggere la Giovanna al soprano Marietta
Gazzaniga, e aveva incontrato l'impresario Domenico Marchelli, che gli aveva chiesto
l'opera per proporla al Teatro Regio di Parma: l'autore era d'accordo, ma gli disse che
doveva rivolgersi a Ricordi, che aveva acquistato i diritti sull'opera, e gli aveva pagata
ad agosto l'ultima rata di 200 lire.
Dato che il poeta della Giovanna non aveva provveduto ad apportare i cambiamenti ai
versi che riteneva necessari, Muzio si era incontrato a Bergamo con Francesco Maria
Piave, venuto ad assistere al Rigoletto, per mettere a punto i ritocchi al libretto
dell'opera che sperava di proporre alla Fenice di Venezia. Nel frattempo sui pezzi
stampati da Ricordi volle comparisse la scritta:
Dedicata
al Signor Antonio Barezzi
in segno d'amore e gratitudine
E.M.
Appartenne Muzio alla Massoneria? Non ci sono dati sicuri, né il suo acceso
anticlericalismo può esserne prova. Il dubbio deriva da una lettera del 31 luglio 1851,
in cui certo Giuseppe Grossi, scrivendogli da Milano circa la musica di Verdi eseguita
da una banda militare austriaca, apponeva sulla stessa i tre punti massonici, simbolo
in uso tra confratelli...
Malgrado l'ansia dell'autore, la Giovanna non trovò un teatro per il carnevale 1851-52.
«Ci vuole pazienza, - scriveva a Ricordi - pur troppo è tempo in cui vi sono troppi
maestri paganti assai nobilmente e che sono prodighi! Pazienza!». Il suo nome,
comunque, cominciava a circolare: il 17 aprile 1852 il Teatro La Fenice di Venezia
aveva sottoscritto l'impegno con l'impresario Lasina. Fra auspicato che Verdi scrivesse
un'opera nuova: in alternativa, sarebbe stata composta dal "Maestro Cav. Faccini" o,
in subordine, da Federico Ricci. Alberto Mazzucato, Emanuele Muzio o Carlo Pedrotti:
nomi, se togliamo il nostro ancora alle prime armi, di amori eseguiti e acclamati.
Nel frattempo a Busseto, dopo anni di attesa, il 31 marzo 1852 l'organista Enrico
Landi aveva inviato una supplica all'autorità ducale, nella quale, dopo aver esposto i
precedenti della carriera, faceva notare che era rimasto l'unico concorrente, avendo
Emanuele Muzio fatto fortuna a Milano, dove risiedeva. Dalle informazioni prese dalla
Gendarmeria, risultò che negli ultimi sommovimenti politici il contegno tenuto dal
Landi era stato assai censurabile, in quanto fanatico e parte di una sommossa contro
la brigata dei Reali Gendarmi di stanza in Busseto: attualmente, però, teneva una
condotta esente da censure.
Dalla relazione di un altro organismo parallelo di polizia, la Direzione Generale
dell'ordine Pubblico, si evinceva invece che non era affatto ravveduto, in quanto in
stretta relazione con il sacerdote Giovanni Zappieri, «quello stesso che predicò tanto
per l'indipendenza Italiana».
Nel maggio 1852 il Landi fu comunque ammesso, unico candidato, all'esame di
concorso. La commissione istituita a Parma, e composta da Giuseppe Minavi, Nicola
De Giovanni e Antonio De Cesari, lo dichiarò insufficiente nel contrappunto, e decise
che doveva "abilitarsi" per essere sottoposto nel futuro a un'altra prova.
I Filarmonici, impazienti in quanto la città era priva del maestro di musica, e subiva
ancora le conseguenze del decreto di Maria Luigia che aveva proibito le musiche
strumentali in chiesa, ricorsero al sovrano con una supplica, affinché mettesse fine a
questo stato di cose. Verdi stesso, credendo di predisporre la piazza per il suo allievo,
si prestò a parlarne con il ministro di Grazia e Giustizia Enrico Salati, al quale indirizzò
anche una lettera, riconoscendosi causa, anche se innocente, della soppressione delle
musiche in Busseto, e chiedendo che fosse emanato un provvedimento che finalmente
sanasse la situazione. A seguito di queste petizioni, con un decreto del 2 luglio, Carlo
III ripristinava, dopo diciassette anni l'esecuzione delle musiche strumentali nelle
chiese di Busseto. Il relativo incarico, senza aver udito l'autorità ecclesiastica, venne
affidato ad Antonio Barezzi, in attesa che venisse nominato un maestro fornito di
idoneità.
Il vescovo di Borgo San Donnino lamentò «che si era venuto a una determinazione
riguardante il servigio della Chiesa, senza consultare la competente autorità
ecclesiastica, rincrescimento perché si potevano prevedere le dispiacevoli
conseguenze che erano per derivare dall'arbitramento lasciato ad una persona
secolare nella direzione di dette musiche». Riguardo al Barezzi, poi, «non so quale
credito si possa accordare in punto di pietà religiosa». Statico per questo tentativo di
tornare ancora a rimescolare le acque, il ministro rispose secco che la decisione era
definitiva, e che Barezzi era persona che con notevoli "disturbo" e spese personali
manteneva a Busseto vivo l'amore per l'arte.
Il 6 settembre 1852 la revisionata Giovanna la pazza, concertata da Muzio, e diretta
dal primo violino Eugenio Cavallini, ebbe l'onore del palcoscenico dell'Imperial Regio
Teatro alla Canobbiana di Milano. La cronaca su L'Italia musicale di due giorni dopo fu
oltremodo feroce:
«La prevenzione troppo favorevole nuoce alla buona riuscita di uno spettacolo.
Questa canzone è vecchissima e rancidissima, ma pure bisogna dire che non sia
ancora ripetuta abbastanza, perché gli amici del signor Muzio, non seppero mai
rammentarsela ne' cinque o sei mesi che durarono ad elogiarlo sperticatamente e
publicamente; ne' cinque o sei mesi che seguitarono a stampare sulle gazzette, come
se si fosse trattato di Rossini o di Mercadante: - che l'egregio maestro Muzio ha sul
suo piano-forte due opere bell'e fatte; - e che l'egregio maestro Muzio ne ha tre; - e
che la poesia della quart’opera che scriverà l'egregio maestro Muzio, sarà del tal de'
tali; e che il prediletto allievo del maestro Verdi, l'egregio maestro Muzio, è arrivato a
Milano; - e che l'autore dell'applaudittima Giovanna la pazza, l'egregio maestro Muzio,
è partito per Busseto, e via via, proprio come s'usa fare delle grandi e consumate
celebrità.
E con tutta quella pioggia di ampollosi aggettivi, e con quel tirare così gratuitamente
in mezzo il maestro Verdi, che han fatto al signor Muzio, i suoi amici? Gli han
preparato per l'altra sera un publico che attendeva mari e monti, e che credeva
fermamente di trovare nella Giovanna, il lavoro di un eletto e maturo ingegno. Epperò
come fu inaspettata la disillusione, così fu severo il giudizio, e fatale la condanna.
I...]
L'opera cadde completamente, e, prese le cose nell'insieme, meritatamente, perché
l'effetto di quelle due cavatine in cui Muzio venne applaudito e chiamato al proscenio,
è ben ben lontano dal poter compensare la noia ed il disgusto che destano gli altri
dieci o dodici pezzi.
E' facile comprendere come il Muzio, ancora molto giovine, e inesperto della scena, e
avido di novità, abbia potuto cadere in madornali difetti, e buttarsi su di una strada
assolutamente falsa e viziosa, senza avvedersene. Ma se è vera la voce che lo fa
allievo, e allievo prediletto del maestro Verdi, la cosa dà nel meraviglioso e
nell'inconcepibile.
Possibile che il maestro Verdi, non abbia mai detto al Muzio, che l'immaginazione è
l'anima della musica, e che il pretendere di potente far senza, è quel medesimo che
pretendere di ballare senza le gambe? Possibile che il maestro Verdi, non abbia mai
detto al Muzio che l'immaginazione vuoi essere sempre governata ed ispirata,
(parlando di musica melodrammatica) dall'intimo e più vero senso della poesia, e che
però quando i versi trattano di passioni dolorose, la musica non dev'essere allegra, e
che le parole bellicose. come sarebbero quelle dell'inno che chiude il terz'atto:
Il castigliano acciar
Della folgor al par
Lucente brilla, ecc.
non vogliono esser vestite colle note saltellanti del fandango, e del bolero? Ma
facciamo pure che a queste povere lezioni d'estetica non si fosse aurora arrivati. E'
possibile che il maestro Verdi non abbia mai insegnato al Muzio, che in qualunque
genere di musica, una melodia o bella o brutta vi dev'essere? e che le spezzature, e i
continui cangiamenti di modo, e le grida, e gli strilli, sono ingredienti, per loro natura
incompatibili con la melodia? Possibile che non gli abbia mai insegnato che l'armonia è
bella quando è semplice e naturale, e che i passaggi da un modo all'altro devono
seguire se non i dettami de' trattati, almeno quelli dell'orecchio? e che nello stesso
strumentale, in mancanza d'ogni altro effetto vi deve essere almeno quello del chiaroscuro? e che il portare le tessiture delle voci una terza più alta, è far contro la ragione,
contro il buon gusto, contro la salute de' poveri cantanti?
Possibile in fine, che il Verdi non abbia mai detto al Muzio, che quell'eterno su e giù
de' violoncelli e de' fagotti, e quell'eterno squillare delle trombe e de' tromboni, e
quell'eterno squittire del flauto e dell'ottavino, e quell'eterno tin tin del triangolo, e
quel tempestare con una gran cassa in orchestra e un'altra sul palco, dalla sinfonia
sino all'ultimo finale, e quel cacciar dentro nell'opera a piene mani tutti que'
movimenti, sincopati, spezzati, accavallati a due, a tre, a quattro alla volta, senza
proposito, senza gusto, senza senso e senza distinzione, sono cose che fanno alle
pugna e ai calci col Bello, e che di nessun effetto sono capaci, ad eccezione di quello di
rompere il timpano e di far perdere la pazienza ai poveri ascoltatori?
Così è, - v'ha nella musica del Muzio un'inquietudine così pettegola e bisbetica che
pare un delirio, che pare il matto picchiarsi di una compagnia d'ubbriachi. E, fuori i
due pezzi applauditi, fuori que' luoghi che citammo come spiranti qualche fiato di
grazia e di naturalezza, degli altri pezzi non sapremmo nemmen indicare qual sia il
peggiore, perché, a dirla tale qual è, sono peggiori tutti. (….)»
Come si è potuto leggere, la rivista della casa musicale Lucca procedette, più che a
una stroncatura, a una vera e propria esecuzione nei riguardi del giovane
compositore, non curandosi di celare, con quei continui riferimenti al docente Verdi,
un'acredine di fondo.
La stessa rivista ritornò sull'argomento l'11 settembre per dire che «la seconda e la
terza rappresentazione furono meno burrascose della prima, e procurarono in vani
pezzi segni spontanei di aggradimento alla Lorenzetti e al Guicciardi», e concludeva
che si era adesso in attesa della prima della Fiorina di Carlo Pedrotti.
Credendo di fare del bene, Muzio aveva la tendenza a intromettersi in qualunque cosa
riguardasse il suo maestro: leggiamo così in una lettera del furibondo Verdi a Ricordi,
mentre era in corso una delle tante liti che scoppiarono tra il compositore e l'editore:
«Cosa c'entra Muzio negli affari miei? Perché me lo nomini continuamente? Abbia bene
in mente che Muzio è una cosa e io sono l'altra, che io ho molta affezione per lui, ma
che in fatto di arte noi siamo estranei l'uno all'altro e non parliamo mai di musica. Egli
non vede mai le cose nuove che io faccio, come io non ho mai visto una nota della sua
musica».
Nell'ira Verdi diceva una cosa di cui Emanuele ebbe a pentirsi: pur abitando ambedue
a Busseto, ed essendo Muzio intento a scrivere la nuova opera, Claudia, Verdi non
aveva mai visto nulla di quel lavoro. Certamente, pur non riconoscendogli la tempra
del compositore, volendogli bene, non gli avrebbe negato il consiglio, se richiesto. La
sua riuscita gli stava a cuore, e non cessò mai di aiutarlo e di presentarlo alle persone
che potevano essergli utili: è del 22 giugno 1852 una raccomandazione a una
contessa di Milano: «Il portatore di questa lettera sarà Emanuele Muzio, mio
compatriota, che è stato mio scolaro ed ora è mio amico. Egli recasi a Milano per
esercitare la sua professione, sia per scrivere, che per dare lezioni. Egli è bravo e di
gran cuore, ruvido di modi come me, un po' orso quasi come me, ma, ripeto, di fondo
eccellente. Io lo raccomado a Lei, come distintissima fra le distinte dilettanti di Milano,
di essergli utile in tutto quello che potrà. Egli ha bisogno di fare conoscenze, ed a Lei
non mancano mezzi di fargliene fare. Tutto quello ch'Ella farà per lui sarà un debito
ch'io contrarrò con Lei e che io pagherò, non potendo altro, con una eterna
riconoscenza».
Il ritratto emergente da questa descrizione, si può completare con quello che compare
in una lettera di Giuseppina Strepponi del 26 febbraio 1853: «Temo che la testa di
quel giovine sarà un eterno ostacolo alla sua fortuna. E' onestissimo, ma d'un
carattere esageratamente caldo ed inquieto; d'una facilità e d'una franchezza troppo
spinta nel fare osservazioni, sputar sentenze e dar consigli non richiesti; di così poco
tatto nelle circostanze a volte delicatissime della vita che pochi si adopereranno a
favor suo, se non lo conosceranno a fondo, per apprezzare quanto vi è di buono,
d'onesto e leale nel cuor suo. Me ne spiace, perché gli voglio sinceramente bene».
Malgrado ciò, la Peppina riconoscerà a Muzio di essere uno del «numerato e casto»
gruppo degli amici prediletti di Verdi: assieme a Giuseppe Piroli, Cesare Vigna,
Opprandino Arrivabene. Più avanti con la contessina Piccolomini, come vedremo,
ammise che per il fatto di essere «sicuro e franco (….) non fece la fortuna che
meritava, mentre certi ciarlatani lo fecero senza meritarla».
Non era facile riuscire a mettersi in evidenza nel mondo del teatro: nell'aprile 1852
Muzio era entrato in trattative con l'impresario Torre per rappresentare un'opera
nuova al Teatro della Canobbiana di Milano. Erano andate in fumo, in quanto esigeva
che l'autore pagasse il prezzo del libretto, mentre poi la proprietà dell'opera sarebbe
stata ripartita al cinquanta per cento. Nel maggio mentre era ancora in preparazione,
la Claudia (iniziata con il titolo di Vera) era stata rifiutata dal Teatro alla Scala, mentre
fu accettata per il Teatro Re. Muzio dovette però ricorrere ancora a Ricordi: «Da molti
giorni io volevo tenerti un discorso, ma la naturale timidezza in me lo impedì. Ai primi
del venturo Gennaro 1853 io devo dare la Claudia al Teatro Rè; ma nei tre mesi che
mancano per arrivare a quel tempo ho bisogno di essere sostenuto per ultimare
l'Opera e farmi onore; io ti cederò l'opera se lo vorrai, tanto dopo che prima della
recita; ti prego e propongo intanto se non ti è di disagio e se lo puoi fare a danni £.
100 per ciascheduno di questi tre mesi e così ci accomoderemo sul prezzo dello
spartito se come spero riescirà».
Ricordi concesse l'anticipazione, e l'opera fu finita il 13 dicembre. «Ora sono occupato
a metterla in partitura e, con un pezzo per giorno, al 12 del nuovo anno l'avrò
terminata; mi resta poi l'istrumentazione che la farò quando proverò al piano. I
concerti al cembalo incominceranno verso il 5 di gennaio ed andrò in scena dal 20 al
25...». Così, in Italia, si scriveva un'opera lirica alla metà del secolo scorso... La
lettera proseguiva: «A Milano s'inaugurerà nel prossimo anno una magnifica sala per
concerti. lo scriverò la musica della cantata per l'inaugurazione».
Intanto, come pacificazione nelle beghe bussetane, il 4 novembre 1852, giorno
dell'onomastico del duca, era ricominciata l'esecuzione della musica strumentale nella
Collegiata di Busseto.
CAPITOLO V
Il concorso per maestro a Busseto
Il 7 febbraio 1853 andò in scena al Teatro Re di Milano la prima della Claudia, opera in
tre atti su libretto di Giulio Carcano. Dopo la rappresentazione, pubblico e critica
espressero il gradimento, e l’autore venne chiamato dodici volte al proscenio.
Sembrava dovesse arridere il successo anche alla cassetta, ma un decreto del governo
ordinò che fossero chiusi i teatri, a causa di alcuni movimenti sediziosi che avevano
turbato il giorno prima la vita della città.
La Gazzetta musicale di Milano riportò che erano presenti un centinaio di persone «le
quali fecero buona accoglienza al Maestro, alla musica ed ai cantanti; di che fanno
fede gli applausi e le chiamate, da tenersi in maggior conto in un momento in cui gli
animi dei cittadini erano ancor sopraffatti da sorpresa e da timore, e tutt'altro che
allettati da pubblici o privati divertimenti».
Il libretto della Claudia è, secondo il solito, tessuto sopra un dramma francese di
madama Sand, ma presenta, fuori del solito, versi facili ed armoniosi. Di situazioni
non parliamo, giacché è una scena villereccia, di una semplicità tutta arcadica. La
musica offre non poche melodie facili, brillanti, leggiadre: alcuni pensieri graziosi, se
non sempre nuovi. E' musica insomma adatta al soggetto. Il maestro Muzio si è
corretto di molto, in quest'opera, dei difetti che furono notati nella sua Giovanna la
pazza Qui il canto è più largo, più scorrevole, diremmo più italiano. L'orchestra, non
più soverchiamente fragorosa, si fa udire calma, patetica, brillante, secondo le
situazioni, essa, fatta astrazione di alcuni momenti, non soffoca mai le voci. E'
doloroso davvero, trattandosi d'un opera nuova, scritta da un giovane di belle
speranze, e dotato di molto ingegno, che essa sia stata prodotta sulle scene del Re in
una circostanza tanto sfavorevole. Noi speriamo che il bello spartito del maestro Muzio
possa essere riprodotto presto sui nostri teatri, anche per avere argomento di parlarne
estesamente, come esso merita. (...)
L'articolo,
pur
esprimendo
un'evidente
benevolenza,
proprio
per
quegli
incoraggiamenti e quel riconoscimento di miglioramento non cela alcune riserve, se
pur velate con garbo.
Muzio forse non comprese il vero significato dello scritto e, indirizzandosi il 14 febbraio
1853 a Giovanni Ricordi, gli propose la cessione della proprietà, facendo notare che se
«il pubblico non era numeroso, ma però era scelto e per la maggior parte composto di
maestri, i quali non trovarono cattiva l'opera, e la stampa la giudicò favorevolmente».
Aveva riposto nell'opera la speranza di saldare il debito con l'editore, e l'offerta che gli
veniva fatta della sola pubblicazione era per lui troppo poco. «Se vuoi ti cedo il
libretto, la stampa, e la metà della proprietà dello spartito per i noli contro A.L.
[austriache lire] 2800; ed in questa somma sconterò il debito che ho verso di te». I
Ricordi, se mai erano amici, prima erano commercianti, e valutavano le acquisizioni in
prospettiva economica. Muzio aveva captato questa ritrosia all'acquisto, ma l'aveva
scambiata per un meschino tentativo «di mettergli la corda al collo», profittando delle
sue condizioni economiche. Non poté che cedere, adducendo che era «tanto il
desiderio che ho di vedere stampata la Claudia che esso mi induce a lasciartene la
stampa per £. 600 che spero tu accetterai, perché non è troppo; in quanto alla
proprietà dello spartito ne tratteremo di essa non appena ne sarà fatta la riproduzione
che spero non sarà lontana». Avrebbe fatto lui stesso le riduzioni.
Parlandone con Barezzi, non denotò queste amarezze, anzi, con un pizzico di
spavalderia, diceva: «Ci perdo di borsa, ma molto; fortuna che mi fu offerto un
contratto per scrivere due opere in teatro di cartello: l'una pel carnevale 1853-54,
l'altra per l'estate o autunno dello stesso 1854, e che spero di poterlo combinare».
Due anni dopo, nell'agosto 1855, l'opera ritornò sul palcoscenico dello stesso Teatro
Re. L'Italia musicale dell'8 agosto scriveva che «entro la settimana ventura andrà in
scena la Claudia del maestro Muzio, della quale sono già incominciate le prove
d'orchestra». Lunedi sera, forse l'11, dinanzi a numeroso pubblico, l'opera che poteva
dirsi nuova, in quanto quasi nessuno l'aveva udita due anni prima, venne accolta con
cordialità.
La rivista della casa editrice Lucca, pur parlando di successo, espresse un giudizio
critico:
La sinfonia vivace e graziosa bene dispone pel rimanente, e varii peni procurarono
applausi e chiamate e agli esecutori e all'autore. In generale però abbiamo notato in
questo lavoro del Muzio un istrumentale troppo minuzioso e ricercato, spesse volte
confuso ed altre volte soverchiamente rumoroso a danno della parte vocale che ne
diventa quasi un accessorio. Né la condotta dei vani pezzi non ci parve sempre la più
chiara, né sempre abbastanza giustificate dall'effetto certe stranezze e certi passaggi
arditi e spesso inopportuni di tuono. A riscontro, ci sembrò trovare nel Muzio una non
comune vivacità e fecondità d'immaginazione (sbrigliata però qualche volta), e
qualche novità, non forse però sempre felice, nella forma dei pezzi. Non ci sembra poi
ch'egli si sia abbastanza incarnato col soggetto, né abbia sviluppato con tinte
corrispondenti il concetto racchiuso nel dramma. Ad ogni modo, se v'hanno difetti in
questa Claudia, v'hanno pure dei pregi, e ciò non è poco, e può dar speranze di
meglio.
Il corrispondente della Gazzetta musicale di Firenze il 23 agosto in fondo confermò
quanto aveva scritto L'Italia musicale, pur addolcendo la pillola con il concludere che
«il Maestro ebbe la soddisfazione di essere più volte evocato al Proscenio».
Pare che la Claudia comprendesse le migliori pagine scritte da Muzio. La Gazzetta dei
teatri del 17 agosto 1855 infatti annotò. «...Conoscitore profondo dell'istrumentale. Gli
effetti d'orchestra riescono famigliari a lui; ma non per questo egli trascura il canto.
Ed in questa Claudia di cantabile non vi è certo difetto. La cavatina della donna è assai
bella, ma di difficile esecuzione. Bellissimo è il finale del primo atto. Il Muzio seppe
rendere assai bene colle sue note la drammatica situazione del quadro. Al Muzio è
feconda l'immaginazione: alcune volte esce con qualche stranezza, è vero; ma nelle
stesse sue scappate si vede l'ingegno bizzarro, la vivacità ed il brio. Dalla Giovanna la
pazza a questa Claudia il giovane maestro ha percorso una lunga via, sebbene anche
nella Giovanna la pazza si fosse manifestato ricco di cognizioni musicali, esperto
nell'arte».
Molti anni dopo, parce sepulto, Giulio Ricordi scrisse nel necrologio: «Se il Muzio non
annoverò nei teatri successi strepitosi, non ebbe però a soffrire cadute. Le sue opere
si distinguono per severa correttezza di stile, per ottima distribuzione delle parti, per
accurato strumentale. Non pochi pezzi sono assolutamente rimarchevoli: tra gli altri la
sinfonia della Claudia è davvero uno squarcio pregevole che meriterebbe di essere
conosciuto e apprezzato dal pubblico». Di questa composizione lo stesso Verdi,
interrogato dal Belforti, avrebbe detto che era «uno squarcio pregevole destinato alla
risurrezione». Strano l'uso degli identici termini utilizzati dal biografo in un articolo
apparso nel 1913 sulla rivista edita a Busseto per le feste del centenario verdiano…
Per tornare a Busseto, la nomina di Antonio Barezzi a responsabile della musica non
aveva risolto la questione del maestro. Per sbloccare la situazione, il mecenate di
Verdi e di Muzio il 9 aprile 1853 comunicò al ministro le dimissioni per motivi di età e
di lavoro, chiedendo nel contempo che fosse autorizzato il concorso per maestro della
scuola e direttore della Società Filarmonica. Avendo accondisceso il ministro, il 16
agosto venne finalmente pubblicato il bando.
Richiesto da parte della Società Filarmonica di un parere sulla nomina di un maestro di
musica, Verdi aveva risposto a Eugenio Arduzzoni: «lo vi propongo il mio unico allievo
e distintissimo maestro Emanuele Muzio». Questi, a sua volta, in una lettera da Milano
del 9 marzo 1853, ci tenne a puntualizzare all'Arduzzoni quale era la situazione in cui
si era venuto a trovare aderendo a suo tempo al concorso:
Carissimo Arduzzoni.
La Vostra lettera del 1 corrente non fu da me ricevuta che il 7; mi affretto di
rispondervi sollecitamente come voi lo desiderate; ma permettetemi che vi dica cose
che voi sapete, ma che forse tutti i Filarmonici e le persone amiche non sanno.
Sullo scorcio del 1846 fui invitato a concorrere al posto di maestro di musica a
Busseto; ma le interne discordie e la violenza de' partiti me ne dissuasero; mio padre
fece una dimanda di ammissione all'esame in mio nome che fu accettata, messa al
protocollo e inviata con quella del signor Enrico Landi al Superiore Governo in Parma
promettendo a mio padre di far smarrire la lettera mia di rifiuto; infatti nel mese di
febbraio del 1849, essendo passato più di un anno, da me impiegato onde affrancarmi
sempre più nelle dottrine musicali e rendermi così degno de' miei compatrioti, fui
chiamato dalla Svizzera per ordine dell'attuale Ill.mo Signor Podestà, onde mi portassi
a Busseto a dare un esame per il posto di Maestro; mi resi subito in patria pronto alla
chiamata, ma dopo nove mesi di continuata dimora in quella non fui mai chiamato a
dare questo esame quantunque ripetutamente mi presentassi all'attuale Signor
Podestà e mi portassi persino a Parma; in questo tempo la lettera mia di rifiuto che si
diceva non esistere più fu per incantesimo ritrovata, ed ecco la cagione sola ed unica
perché allora non fui ammesso ad un esame. Vedendomi così tolta ogni speranza di
prestare i miei servigi a' miei concittadini me ne ritornai in Milano dolente e
scoraggiato per l'avvenuto.
Dopo molte fatiche e molti sudori mi posi in una carriera nella quale mi studio di far
onore a chi mi sovvenne generoso onde compiere i miei stridii, ed al Sommo e Grande
Genio che mi apprese la scienza musicale, ed a coloro dei miei concittadini che mi
stimano ed amano. Ora la Vostra lettera mi fa conoscere che fatalmente essendosi ad
un esame trovata incapacità nel sig. E. Landi vorreste che io concorressi al posto di
Maestro, e cioè mi cercate per il solo motivo che fatalmente il signor Landi non ha le
qualità richieste, che se le avesse avute neppure vi sognavate di cercarmi; vi ringrazio
voi, mio caro, ed il corpo che mi voleva fare tanto onore di farmi supplente ad un
trovato inabile; è una umiliazione che mi avete voluto far subire scrivendomi in tal
maniera. Vi prego però di ringraziare il Corpo Filarmonico in mio nome della buona
opinione che hanno di me che non vorrebbero che io subissi un esame e dell'onore che
mi volevano fare di essere maestro.
Non posso per ora venire a Busseto per gli impegni che ho assunti e per quelli che
diedi parola, ma appena lo potrò manderò ad effetto questo desiderio, sperando che in
questo breve lasso di tempo la buona opinione che ha il Corpo Filarmonico di me che
non vorrebbe che facessi un esame possa passare nei Corpi del Monte e della Fabbrica
ad unirli in uno stesso desiderio, in una stessa volontà.
Vi prego de' miei doveri a tutti de' Filarmonici, e specialmente al loro capo sig. Antonio
Barezzi.
Qualche giorno dopo, Muzio assicurò Barezzi che avrebbe partecipato al concorso,
ponendo però la condizione che lo lasciassero libero quando le sue occupazioni
teatrali, alle quali non intendeva rinunziare, lo richiedessero: stava, infatti, lavorando
su di una nuova opera. Olimpia, «e spero di poter continuare il mio lavoro senza
interuzione, giacché il concorso sembra andare alle Calende Greche». Questa notizia è
certamente da ricollegare con quanto Verdi scrisse a Piave il 17 agosto 1852 e il 17
aprile 1853. Nella prima lettera gli chiedeva: «Emanuele l'ha mandato un dramma
intitolato Matilde?», mentre nella seconda si interessava: «Una cosa importante!
Emanuele amerebbe scrivere l'anno venturo alla Fenice: tu le faresti il libretto. Per
combinare quest'affare cosa si potrebbe fare? Cosa dovrei fare? Parlarne a Marzari
(presidente della Commissione degli spettacoli di quel Teatro) e se tu credi le scriverò
nei termini che dirai».
Circa le vicende della scuola, intanto, il 16 agosto, presa visione del capitolato del
concorso, il vescovo impose di apportare delle modifiche che riguardavano la disciplina
da osservarsi in chiesa da parte dei Filarmonici. Il 6 settembre, Muzio inviava a Verdi,
che si trovava a Busseto, la domanda per partecipare, e dava l'incarico alla madre di
preparargli i documenti necessari.
Qualche giorno dopo, arrivato da Milano, prese visione del bando di concorso con
l'allegato capitolato, rilevando l'intensità dei vincoli cui il vincitore avrebbe dovuto
uniformarsi: oltre all'obbligo dell'esame, cui si sarebbe sottratto volentieri, non
assentarsi dalla sede senza aver ricevuto il permesso delle due amministrazioni
interessate - il comune e la chiesa - e, per vacanze, dal 24 agosto alla fine di
settembre. in fondo, le stesse condizioni cui aveva sottostato Verdi nel 1836; Muzio,
però, aveva ormai trentadue anni, iniziava a inserirsi nel mondo teatrale e, dopo aver
vissuto in un grande centro, in un ambiente stimolante, e visitato grandi città, non se
la sentiva di ritornare a seppellirsi in paese con un contratto capestro, per fare il
maestro di scuola, suonare l'organo in chiesa, dirigere un'orchestra e una banda di
dilettanti, anche se entusiasti e volenterosi, nei modesti spettacoli teatrali, nei
veglioni, nelle messe solenni e nelle processioni delle feste patronali...
Scrisse, allora, al sindaco di Busseto:
Ho l'onore di prevenirla che dopo molte difficoltà, sono riuscito ad ottenere la
promessa in iscritto d'esser sciolto dall'impegno che mi legava colla Direzione dei
teatri di Padova del corso di tre anni. Ora (e con piacere) posso e sono disposto ad
accettare il posto vacante di Maestro a Busseto. Credo inutile, signor Podestà
richiamarle alla memoria che come in passato, oggi pure rifiuterei di sottoscrivermi ad
un concorso. Fra le condizioni del nuovo capitolato ve ne sono alcune troppo gravose
per ch'io possa accettarle, converrebbe quindi modificarle di comune accordo.
Qualora Ella credesse dar corso a quest'affare, converrebbe ch'io ne avessi non solo
risposta, ma che tutto fosse definito per il 12 dell'entrante settembre, dovendo io a
quell'epoca partire per Bologna, e scrivere in modo decisivo a Padova per accettare o
no lo scioglimento domandato.
Con l'arroganza dei titolari dei piccoli poteri nei riguardi di quelli che vengono
considerati inferiori, il podestà o il clero, o ambedue, ritennero impossibile derogare
alle condizioni imposte. Emanuele, allora, scrisse a Verdi:
Pregiatissimo Signor Maestro
Appena ricevuto il di lei avviso mi affrettai a portarmi in Busseto, onde fare la
dimanda per poter ottenere il posto di maestro di musica in quella Collegiata. Credevo
che dopo tanti ostacoli superati, le cose dovessero presentarsi in un aspetto meno
nero. Ma mi ingannai, poiché esaminatone il capitolato vidi che gli obblighi sono tanto
e sì straordinariamente gravosi, che mi forzerebbero a rinunciare alla mia carriera
teatrale avvenire, senza parlare dei contratti già stipulati, stante il gran ritardo
impiegato alla pubblicazione del concorso.
Da queste disgraziate circostanze io mi vedo costretto di pregarla di tenere come non
avvenuta la promessa che le feci con piacere di concorrere al posto di maestro. Spero
ch'Ella troverà la mia determinazione ragionevole e giusta. Mi pare stavi qualche
differenza dall'assumere degli obblighi, al sottoporsi ad una specie di schiavitù che
reca danno all'amor proprio ed alla borsa!
Hanno indovinato e possono andar gloriosi. Amen.
La dichiarazione di Muzio aveva suscitato, evidentemente, ancora una volta
discussioni tra i Filarmonici, gli amministratori e il clero. Verdi, allora, a quanto risulta
dal copialettere di Giuseppina, scrisse ad Antonio Barezzi:
Io sono franco e dico sempre tutto quello che sento. Emanuele questa volta non ha
torto. Doveva egli aspettare e stare a disposizione delle questioni di Busseto? E
quand'anche aveva scritto o scrivesse di accettare, sarebbe Egli sicuro di avere il
posto? Deve dunque rinunziare a tutto e stare, ripeto, a disposizione perpetua delle
indecisioni di Busseto? Egli ha un contratto con Padova (io stesso lo feci fare) che lo
obbliga per la stagione di Fiera autunno e Carnevale. Ha accettato per la stagione
d'Alessandria ed ora Marini (son io presente) offre a nome di Cavour Ministro
dell'Interno il posto al Teatro Regio di Torino, che forse non potrà accettare stante
l'impegno di Padova. Il Podestà dice d'aver fallo aumentare la pensione del Monte! è
ben naturale d'aumentare le pensioni agli Impiegati dal momento che i fondi sono
cresciuti ed il vivere rincarato; ma ciò non basta: si doveva impedire il Concorso (che
è la più stupida cosa che si possa immaginare) si doveva infine offrire, intenda bene
offrire, il posto ad Emanuele. Se il Ministro di Piemonte offre il posto del Teatro Regio
di Torino. Busseto poteva bene offrire, senza perdere la sua dignità, quel miserabile
posto. Ma Busseto ha una vanità e delle pretese così ridicole che le grandi città non
hanno. E' il difetto di quel paese!
Combinare quest'affare è ora difficile più che mai. Nonostante vi è ancora un tentativo
a farsi. Che il Podestà offra, scrivendo a me, il posto ad Emanuele. Io tenterò con
questa lettera e d'indurre Emanuele, e di scioglierlo, od almeno accomodarlo con chi
ha impegni. Questo è il solo mezzo. Che il Podestà d'altronde s'aggiusti e pel concorso
e coi preti. Pensi anche a far fare un aumento alla Fabbrica, perché l'emolumento
attuale è meschino. Questo, sapete, è il solo mezzo per riparare forse i sbagli fatti. Se
il Podestà non può far ciò, non se ne parli più ed accontentatevi di qualche imbecille
forestiero che verrà per Concorso, invece di un nazionale che non era certo un
imbecille. E' ben vero l'antico proverbio: Nemo propheta in patria.
La richiesta di Verdi non sortì alcun effetto: questi, allora, trasmise il 22 settembre
1853 alla Società Filarmonica la missiva che aveva ricevuto da Muzio, aggiungendo
quella famosa lettera nella quale dichiarava che non si sarebbe più in avvenire
immischiato nelle cose di musica di Busseto, ripetendo la frase "Nemo propheta in
patria". La ragione dell'ira del maestro e giustificata se si considera che il 16 agosto il
vescovo aveva potuto apportare delle modifiche al capitolato e, non essendo stato egli
avvisato, non vi aveva potuto inserire quelle clausole che stavano a cuore al suo
allievo: «Nulla dirò del capitolato che si è rifatto nell'ora scorso Agosto!!!», queste le
parole testuali del maestro...
Il rancore contro i concittadini crebbe ulteriormente quando, pochi mesi dopo, venne
nominato maestro, e senza concorso, Ferdinando Savazzini da Panna: anche se, in
verità, la decisione fu dovuta al ministro Salati, infastidito da questa querelle che
turbava l'ordine pubblico del rissoso paese della Bassa.
Fu così che, per la seconda e ultima volta, Emanuele Muzio rinunciò a partecipare al
concorso per diventare organista e maestro della scuola di musica di Busseto.
CAPITOLO VI
L’operista
Emanuele Muzio, intanto, sognava la gloria nella composizione che, in Italia,
significava soltanto il trionfo nell'opera lirica. Quando viveva con Verdi, aveva visto
editori e impresari offrire al maestro fiumi di napoleoni d'oro perché concedesse loro il
frutto del suo genio ed è umano che il giovane, pur amando e considerando Verdi il
più grande musicista mai esistito, sognasse analogo avvenire.
Cosi, malgrado il ben modesto esito delle prime due opere, si era dato a comporne
una terza, Le due regine. Era in parola con l'impresario Boracchi per rappresentarla
alla Scala di Milano nella stagione di carnevale, ma, per qualche motivo che non
conosciamo, non era andata in scena. Dopo averlo definito «persona senza criterio, né
lumi, né buona fede», non gli restò che attendere giorni migliori. Nel frattempo aveva
scritto, su libretto di Giulio Carcano, anche un'altra opera, La Sorrentina, per il
febbraio 1854 al Teatro Comunale di Bologna: e qui l'impresario dichiarò fallimento.
Alla Scala, intanto, in rappresentanza del "Corpo degli Artisti del Teatro", era
succeduto al fallito impresario Boracchi il maestro Alberto Mazzucato, critico,
compositore e docente al Conservatorio di musica. Muzio gli portò La Sorrentina, ma
Mazzucato espresse parere sfavorevole.
Mentre era intento alla stesura di queste opere, continuava nell'attività di concertatore
e di autore di riduzioni per casa Ricordi: lavori che, se davano poche soddisfazioni
economiche, ne fornivano anche meno dal punto di vista della gratificazione artistica.
Dal marzo al giugno 1853 si recò a Zara dove, al Teatro Nobile, concertò cinque opere
con una discreta compagnia di canto e, subito dopo, nelle stagioni d'autunno e di
carnevale, lavorò al Teatro Carcano di Milano fino al marzo 1854.
Il 7 marzo 1853 aveva ricevuto da Verdi: «Caro Emanuele, la Traviata, ieri sera,
fiasco. La colpa è mia o dei cantanti?... Il tempo giudicherà». Aveva cosi deciso di
sostituire cinque brani dell'opera con altrettanti nuovi, e il 13 aprile 1854 aveva
comunicato a Ricordi: «Muzio farà le riduzioni ed accomoderà con ogni accuratezza i
pezzi stampati».
Finite le correzioni, "agiustature", delle bozze, Emanuele scriveva all'editore che
«sarebbe stato mio dovere lasciarti questo denaro a sconto del mio debito; ma se tu
me lo farai avere sarà per te un'opera meritoria. Il mio debito lo pagherò col Opera
per la quale mi racomando ancora». Tre mesi dopo la situazione non era migliorata:
aveva lavorato sull'Elisabetta «e se tu potessi; e volessi compensarmi quel lavoro, mi
leveresti da una boletta che mi minaccia ora tanto più che devo seriamente ocuparmi
a scrivere». Lo esortava ad appoggiarlo presso qualche teatro, perché la sua opera
trovasse ospitalità: «Tu non mi pagherai un soldo che dopo l'esito se sarà buono; cosi
salderei il mio debito e mi aprirei un adito che disgraziate circostanze sino ad ora me
l'hanno chiuso».
L'autunno 1854 lo vide ancora a Zara per la stagione che si protrasse fino al termine
del carnevale 1855, ma poi restò ancora disoccupato fino a quel 15 agosto in cui
concertò, come abbiamo visto, la ripresa della Claudia al Teatro Re di Milano. Giovanni
Ricordi gli offri ancora un'opportunità, e il 3 novembre 1855 si impegnò di acquistare
Le due regine, qualora l'opera fosse rappresentata alla Scala nel prossimo carnevale.
La proprietà si estendeva per tutti i paesi, per la stampa, le rappresentazioni, il
libretto: il pagamento, previa deduzione dei debiti, era concordato in 3500 lire in tre
rate eguali: la prima il giorno dopo la prima esecuzione, la seconda dopo la terza,
l'ultima alla ripresa in qualsiasi altro teatro.
Il 20 settembre Muzio si era recato in Piemonte, ad Alessandria, per concertare la
stagione lirica autunnale. Qui dette subito prova del carattere non propenso agli
accomodamenti. Il primo giudizio non fu dei più lusinghieri: il corpo di ballo sembrava
composto da tante megere; le coriste avevano l'aspetto delle befane e, uditele alla
prima prova, ne aveva fatto protestare cinque. Lascia pochi dubbi quali altre mansioni
esplicassero generalmente, se osservava: «Nella gioventù del paese vi è mal humore
perché le coriste e le ballerine sono vecchie e brutte». Aveva imposto dei cambiamenti
anche nelle seconde parti. Sperava comunque nel buon esito della Traviata, anche se
la prima donna era un po' pazza, «e quando la si corregge tira calci come una cavalla
selvaggia Inglese! Ora ne perde il vizio... e senza avere adoperato la frusta!».
Il 6 ottobre si dette la prima e fu «un successo immenso quasi di fanatismo». Lodò
tutto e tutti, e del primo tenore, Liverani, scrisse a Ricordi: «Indovinò tutto
quantunque (fra noi) non abbia ritmo ne senso armonico; ma jeri sera indovinò tutto!
E' un artista quale bisogna dire sempre bravo, giacché volendo coregere ed egli
volendo far meglio peggiora».
Seguirono L'ebreo, Macbeth, Norma e Il trovatore. Per L'ebreo gli occorreva una
fisarmonica invece dell'organo: «Non fu possibile averla da un pretaccio del paese
quantunque Bellara avesse offerto 100 franchi da distribuire ai poveri», mentre sulla
musica di questo lavoro di Apolloni, andato in scena dopo ventidue Traviate, accolte
da un pubblico "frenetico", osservava: «Per me è un plagio dal principio alla fine, non
vi ha alcuna novità: ma neppure un tentativo d'innovazione; è l'opinione del amico al
amico, non del maestro al editore». La successiva opera gli dava pensiero: «Devo
pensare seriamente a farla ben eseguire, che questi imbecilli dicono "Vedremo per la
Norma se Muzio avrà tanto impegno quanto ne ebbe per la Traviata!"»; mentre per la
beneficiata in favore degli asili infantili chiese gli fosse inviata la sinfonia della Claudia,
«sperando che per quest’ultima non mi adebiterai nulla», sappiamo che il 17 ottobre
ricevette la visita del poeta Regaldi, con il quale aveva combinato di allestire una non
meglio specificata Cantata.
Dopo altre cinque recite della Traviata, la stagione ebbe termine il 4 dicembre. Come
compositore anche Muzio ebbe il suo pizzico di gloria, applaudito quattro sere con la
sinfonia della Claudia e una con quella delle Due regine. Al termine della fortunata
stagione si fermò ad Alessandria fino a natale, per problemi insorti tra impresario ed
artisti: «Tutti hanno delle colpe e forse egli (Bellara) ne ha meno degli scritturati che
si sono fatta tra loro una guerra d'inferno. Mi sono tenuto neutrale e si fossero anche
rotta la testa non mi sarei mosso! Non vi furono che servilità, bassezze e viltà».
Intanto aveva avuto la notizia che Le due regine non sarebbero state presentate alla
Scala nel prossimo carnevale, restando in tal modo privo di validità il contratto che
aveva sottoscritto con Ricordi, condizionato all'esecuzione dell'opera alla Scala.
Mazzucato, però, gli aveva promesso l'esecuzione a primavera alla Canobbiana.
Leggendo il 21 ottobre la scrittura non poté che rilevare: «Inferno! sono i più esosi
Ebrei che abbiano mai esistito; oh l'arte non ci guadagnerà per Dio!». Dopo molte
esitazioni firmò il contratto-capestro, impegnandosi a consegnare libretto, partitura e
parti alla metà di marzo: «Lo faccio per potere mettermi un po' al onore del mondo»,
e chiedeva a Ricordi di fargli copiare le parti nel suo stabilimento, «che io non avendo
un soldo non lo potrei far fare». Pur avendo lavorato tutta una stagione ad
Alessandria, confessava che, per l'elevato costo della vita, non gli era restato un
soldo, e la richiesta di un aumento di paga era stata respinta dall'impresario. Chiedeva
anche all'editore di annunciare sulla Gazzetta musicale che era stato scritturato per
comporre un'opera nuova nella prossima primavera «col Apalto degli I.R. Teatri».
In una lettera di quei giorni, è messa in evidenza un'altra delle caratteristiche della
natura di Muzio, la fedeltà. In una contestazione tra l'impresario e Ricordi circa il ballo
Esmeralda, affermò: «lo sosterrò sempre la casa Ricordi a spetto di chiunque, ed
anche se fosse dal lato del torto».
Reduce da Parigi, il 21 dicembre Verdi si fermò ad Alessandria, dove si trovava Muzio.
Edotto dai fallimenti precedenti, gli dette la partitura della Sorrentina, anche per
impetrare il suo intervento, visto che analogo passo presso Ricordi non aveva sortito
l'effetto sperato.
Durante la sosta a Busseto - «io preferisco questa campagna in sua compagnia a
qualunque più cospicua capitale», scriveva il 31 dicembre 1855 - Muzio si recò con il
maestro a Parma per ascoltare i cantanti che si esibivano nei Puritani e nella Giovanna
di Grizman, nome con il quale la censura aveva ribattezzato I vespri siciliani.
Da alcune lettere del febbraio 1856 risulta quale importante funzione di
ammortizzatore tra Verdi e Ricordi egli esplicò: «Verdi non cambierà editore, no; ma
fra brava gente non devono esistere cattivi umori, freddezze, e non si deve fra noi
trattare fra maestro e negoziante, ma da amico a amico. Credimi che non sarebbe
cosa malfatta che tu fra otto o dieci giorni facesti una gita e vi intendeste chiaramente
e ti uniformasti alla sua volontà». E il successivo 26, rispondendo al titubante editore,
lo rassicurava: «Verdi ti accoglierà benissimo e da amico non v'è alcun dubbio...».
Dopo aver lavorato a Busseto sulle Due regine, a maggio si recò a Milano per le prove
dell'opera. Il 13 chiedeva a Ricordi: «Sarà l'ultima volta; ma ho un bisogno e mi
occorrono lire 120: non ti dico da qual imbarazzo momentaneo mi cavi. Spero che
faremo contratti per Le due regine e se ami sentirne le prove le porte del teatro ti
sono aperte. Giovedì mattina farò tutta l'opera di seguito».
Il 18 maggio 1856 presentò al Teatro della Canobbiana Le due regine, "melodramma
tragico" in tre atti su libretto di Giovanni Peruzzini. Ancora una volta concertò il suo
lavoro, che venne diretto da Eugenio Cavallini.
L'armonia, nuova testata della Gazzetta musicale di Firenze, dedicò una lunga
corrispondenza all'opera, rilevando che il «melodramma mancava affatto di situazioni
importanti; era una parodia, una caricatura». Le passioni erano sbiadite, Giovanna
non muoveva a pietà, Maria Tudor non destava avversione, Suffolk non era che un
ambiziosetto, Ghilfort era un essere così meschino da stupire come potesse far
appassionare di lui due regine e, se i versi non erano cattivi, difettavano di energia, di
sentimento.
Ma veniamo alla musica del maestro Muzio. Questa musica è studiata, e non è certo
da porsi in un fascio con quella delle Opere che si danno generalmente dai
maestrucoli, i quali non fanno altra cosa, che porre in evidenza la loro ignoranza. Il
maestro Muzio prima di questa opera ne compose altre due, Giovanna la pazza, e
Claudia. Non mancano nelle Due regine dei pezzi di qualche merito, e piacquero assai
la sinfonia, la cavatina di Giovanna Grey nel I atto, l'adagio del finale secondo, e la
cabaletta finale dell'opera. Tutto questo non valse però a fermare l'attenzione del
pubblico, la "stima" del quale non pare che avrà tanta efficacia di tener ritte queste
due regine. Ove manca affatto la spontaneità del pensiero, e quella profonda filosofia
che sa incarnare le situazioni drammatiche nella musica. E pare che il Muzio abbia
voluto fare dell'arte per l'arte.
Ai primi di giugno Muzio si recò a Padova per riprendere l'attività di concertatore e,
come scrisse La fama di Milano del 19 giugno, anche di direttore d'orchestra. La
stagione si teneva durante la fiera del Santo: il periodo delle feste prometteva di
essere brillante, «e il concorso del pubblico molto. Vi saranno corse di fantini, di
sedioli, tombole. e tanti altri divertimenti da saziare i golosi». Da anni la stagione lirica
era appannata e, per ritrovare buoni spettacoli, scrisse il Brunelli, bisognò attendere
questa, in cui si dettero L'ebreo di Apolloni e Giovanna di Guzman di Verdi.
Anche se intento a preparare la stagione padovana, Muzio non aveva rinunciato alle
sue opere. Perché interpretasse la parte di prima donna nella Sorrentina, aveva
interpellato il famoso soprano Virginia Boccabadati, ma questa, il I giugno 1856,
aveva declinato l'invito, nonostante la stima che aveva «per un lavoro di un giovane
che è allievo del sommo Verdi». Il 6 giugno Muzio si rivolse a Ricordi per chiedergli di
intervenire ancora in suo favore: «Lascio alla tua amicizia, al tuo buon cuore il
pensare qualche cosa o per Firenze o per Genova o Trieste in carnevale, insomma non
fare che io resti ozioso, mentre ho bisogno così per me, che per pagare il mio debito
verso di te per potermi aprire una strada e guadagnare qualche cosa. Te ne prego
ancora caldamente e ti scongiuro di fare ogni possibile onde aprirmi una via che mi
possa fare onore!».
Dette in visione La Sorrentina al soprano Marianna Barbieri Nini, ottenendo
l'assicurazione che, qualora la Boccabadati persistesse nel rifiuto, lei sarebbe stata
contenta di eseguirla al Teatro Pagliano di Firenze, dove era stata scritturata per la
prossima stagione; nel contempo l'impresario Ercole Marzi si era dichiarato interessato
a rappresentare la Claudia in autunno al Teatro Apollo di Venezia Muzio, infatti,
eseguiva sempre la sinfonia come intermezzo, e piaceva molto.
Procedevano intanto le prove della Giovanna di Gunnan: «Questa mattina feci
prendere la deliberazione di aumentare i cori portando gli uomini a trenta e le donne a
quindici; ora lavorerò per aumentare anche l'orchestra e spero riescirvi». La prima
opera in cartellone, L'ebreo, procedeva con discreto successo.
Attento nella tutela degli interessi degli amici, si accorse che a Padova circolavano egli ne aveva acquistato uno al caffè Pedrocchi - dei libretti dell'Ebreo contraffatti.
Inviò la copia a Ricordi, e si prese l'incombenza di seguire la questione, presentando
un "ricorso" al locale commissariato di polizia. Qui gli fu assicurato che la sera stessa
sarebbero stati arrestati tutti coloro che li vendevano attorno al teatro, al fine di
risalire alla tipografia autrice del falso. In questa veste di segugio, Muzio rintracciò
anche libretti falsificati del Nabucco e dell'Ernani. Dall'operazione di polizia si seppe
che la tipografia si trovava a Mestre: «e questo paese essendo nella provincia Veneta
non Padovana bisogna ricorrere presso quella Direzione di Polizia». Avvisò Ricordi, e
procedette nel portare avanti la lotta al falsario.
Nel luglio Verdi passò da Padova nel recarsi al lido per i bagni, e si fermò presso il suo
allievo che, a sua volta, lo andò a trovare diverse volte a Venezia. Parlarono della
Sorrentina e della Barbieri Nini, che aveva preso l'impegno per l'esecuzione dell'opera.
Muzio era preoccupato dato che il soprano, la sua prima donna, era in decadenza:
piangeva e si disperava in quanto, lei che era stata la più osannata, adesso era meno
applaudita degli altri, e denotava anche vistose falle nell'intonazione. Verdi gli suggerì
di lasciar perdere con la Barbieri Nini, e di inviare il libretto all'impresario Lasina di
Trieste, al quale avrebbe poi parlato di persona.
Il 6 luglio Muzio scrisse a Ricordi dell'esito più che felice che la Graman aveva
incontrato: «Domani essendo giorno di riposo, voleva andare da Verdi, ma non si da il
permesso ad alcuno della compagnia d'asentarsi, perché aspettandosi di giorno in
giorno il parto di S.M. l'Imperatrice, ancorché fosse giorno di riposo si aprirà il teatro e
si suonerà, canterà e ballerà».
La stagione ebbe termine con successo, e si dettero tre recite straordinarie fuori
abbonamento. La direzione era talmente lieta «della maniera di concertare e
dirigere», che lo volle anche per le stagioni di carnevale, fiera e "autunnino".
«Vedremo se il prezzo sarà adeguato alla fatica che non è poca».
Ritornato a casa, comunicava a Ricordi che era stato scritturato per rappresentare La
Sorrentina a Venezia. Oltre ai diritti di proprietà della partitura, che era tutta sua,
l'impresario lo avrebbe retribuito con 300 lire, come rimborso spese per l'allestimento
dell'opera. Comunicava inoltre che era stato scritturato per tre anni a Padova a 2100
lire all'anno. «Ma ora per questi due mesi di Agosto e Settembre che devo impiegarli a
preparare l'opera onde poi farla osservare a Verdi non ho nulla. [...] Potresti
anticiparmi £. 150 in questo mese di Agosto, ed altre in Settembre: io ti farò due
cambialette pagabili nel prossimo inverno una in Gennaio, e l'altra in Febbraio sopra la
paga di Padova. (…..) A Verdi piacque assai il libro ed anzi feci fare alcuni
cambiamenti da Lui indicatimi: non partirò per Venezia senza avergli fatta osservare,
e minutamente la musica. Io poi, per compensarti e farti vedere la mia gratitudine, ti
farò, nella Quaresima che passerò con Verdi a Venezia, tutte le riduzioni della nuova
opera».
La fiducia del maestro era la maggiore: leggiamo in una lettera del 2 ottobre 1856
dell'impresario Lampugnani, che si recava ad ascoltare il baritono Rocco Tanghi,
«Condurrò meco a Varese il maestro Muzio, il quale potrà ottenere sul momento
l'approvazione di Verdi». E che Verdi prestasse la massima attenzione a quanto gli
riferiva questo suo "orecchio", è provato da quanto poi egli scrisse a Piave il 7 ottobre:
«In quanto al Zanghi non lo conosco, ma non ho buone informazioni». Da Padova
Muzio si recò il 21 novembre al Teatro La Fenice di Venezia per espletare un'altra
commissione per il maestro, che si trovava a Parigi: comunicargli «l'estensione della
voce degli artisti» per i quali era intento alla stesura del Simon Boccanegra.
Se pur era stimato e ascoltato dal maestro, questo non spingeva la fortuna a baciare
le sue opere liriche. Le cose, infatti, ancora una volta non andarono come sperato. Il
15 ottobre 1856 iniziava una lettera a Ricordi da Venezia, in tali termini: «Infatti la
compagnia che canta all'Apollo non è adatta per nulla alla Sorrentina, e trattiamo per
dare nel mese prossimo la Claudia; (...) intanto denaro non ne viene mi capisci per cui
dovrò tardare a versare a Gallo le 50 lire che mi hai fatte sovenire». la speranza fu
trasferita sulla rappresentazione della Sorrentina a Padova, dato che gli accordi per la
Claudia non erano stati raggiunti, «perché gli artisti sono troppo al di sotto del
mediocre»: così, almeno, spiegò a Ricordi.
Nel novembre e dicembre si dettero al Teatro Nuovo di Padova I masnadieri
(«esecuzione fredda, monotona, dilavata quella di jeri sera! [...1 Cori sbadati,
orchestra senza vigore! Publico quasi indifferente!») e la Parisina («un fiasco enorme:
la sola Chiaramonte si salvò, e l'orchestra perché diretta dal umile tuo amico», come
egli stesso confidava all'editore).
Erano passati sette anni dal termine della prima guerra di indipendenza: vi erano stati
la Crimea e il congresso di Parigi. L'Austria dominava con severità sul LombardoVeneto, e l'imperatore Francesco Giuseppe, nell'intento di riacquistare la simpatia di
questi sudditi, aveva deciso di farvi un viaggio in forma ufficiale. Per l'occasione
vennero allestite fastose celebrazioni di rito: Emanuele Muzio scrisse a Verdi e a
Ricordi che a Padova vi sarebbero stati grandi apparecchi, illuminazioni, fuochi,
festeggiamenti vari e, in Prato della Valle, l'esercito avrebbe dato un torneo che, nelle
speranze degli organizzatori, doveva eclissare quelli splendidi del Medioevo e delle
antiche corti, mentre piazza San Marco a Venezia avrebbe ospitato una "cavalchina".
Questo termine, ormai in disuso, indicava quel veglione mascherato che l'ultimo
venerdì di carnevale era solito tenersi al Teatro La Fenice. Più tardi, gongolante, riferì
che la cavalchina era riuscita "magra per concorso", che la regata era stata abolita in
quanto pioveva, che i piloti della Marina Imperial Regia avevano fatto arenare il
vapore che portava le loro maestà imperiali, che un altro vapore era dovuto accorrere
in soccorso per rimorchiarlo e, infine, che il freddo del primo giorno era diventato
gelo, e che, se il termometro si fosse abbassato ancora, la città sarebbe diventata una
Siberia.
Il 23 ottobre la Presidenza di Padova aveva notificato a Muzio, che si trovava a
Venezia, che si sarebbe tenuta una stagione straordinaria per la venuta
dell'imperatore: il 3 e il 4 gennaio 1857 con l'Ernani e la Linda di Chamounix.
Riguardo alla imperial visita a Padova il Leoni riportò: «Qui le dolenti note ed i beni
mal spesi! In gennaio la sacra maestà Franz-Josef provando un gran freddo a Vienna,
i medici lo consigliarono tentasse un viaggetto nelle regioni meridionali della sua
sfortunata monarchia. Venne e fu spesa una quarantina di mille lire con gran gusto dei
pompieri che iluminarono bellamente il Salone a palloncini colorati ch'era una
meraviglia! Ma il termometro si conservò sempre a zero. Né valse lo sbracciarsi
infinito delle autorità, e i soliti cagnotti venduti e pagati».
Terminati i festeggiamenti straordinari, l'impresario decise di rappresentare la Claudia
a Padova, e Muzio chiese a Ricordi l'invio della partitura originale, in quanto voleva
tagliare alcune "piccole cose" ed alcuni recitativi troppo seri, come era stato rilevato al
Teatro Re. Avendo poi un buon tenore, voleva trasportare la parte di Bastano, che era
per baritono, non disponendo di un buon elemento con questa voce. Era nel frattempo
intento alla riduzione del Simon Boccanegra, che sarebbe stato eseguito a Venezia.
Il 18 febbraio 1857 poté informare Ricordi del buon successo della Claudia a Padova:
aveva avuto «esito bello al primo atto, felicissimo al secondo, e più ancora al terzo! Fu
trovata buona la musica, ottima l'esecuzione istrumentale, ed i cantanti al loro posto.
[...] Stasera seconda recita». L'Italia musicale del 21 febbraio, invece, affermò che
l'opera aveva incontrato una freddissima accoglienza. «La cabaletta della cavatina
della Chiaramonte nell'atto secondo fu applaudita, e forse più per la diligente
esecuzione dell'artista che pel merito reale della musica, l'adagio del finale dell'atto
stesso e l'aria del tenore Bichi ebbero qualche applauso; al resto perfetto silenzio. In
questa musica si sente un continuo sforzo d'ingegno, particolarmente
nell'istrumentale, ma poco canto, pochi pensieri, poca novità. I cantanti si prestarono
con tutta premura, ma seminarono in campo sterile e perciò non raccolsero frutti».
L'insuccesso della Claudia coinvolse anche La Sorrentina: d'accordo con Verdi e con
l'impresario, l'esecuzione venne rinviata a data da destinarsi...
Circa l'esito della prima del Simon Boccanegra, Muzio fu profetico: «L’opera di Verdi
andrà in scena il 7, ed il 12 partiremo tutti per Busseto capitale d'Europa. Ho sentito
tutta l'opera nuova di Verdi. E' una stupenda creazione, commovente, toccante. Il
Prologo e terzo atto sono i più belli ed i più originali: forse l'opera finirà freddamente
la prima sera, ma alla seconda alla terza recita e di seguito finirà per commuovere
tutti al pianto...». Il 12 marzo, infatti, vi fu alla prima un'accoglienza fredda, che Verdi
definì seccamente un "fiasco".
Finiti gli impegni, Muzio ritornò a Busseto, «capitale d'Europa», come ironicamente
l'aveva definita. I guadagni con le stagioni liriche svanivano prestissimo, anche perché
in Italia il direttore, come gli strumentisti, era tenuto in minima considerazione e, in
conseguenza, poco remunerato. A mo' di esempio basta ricordare che, ancora nel
1888, trent'anni dopo, il manifesto del Teatro alla Scala per l'Otello di Verdi non
riportava il nominativo del direttore Franco Faccio! Muzio aveva inoltre una numerosa
famiglia a carico: «ieri ho dovuto pagare l'affitto a mio fratello maggiore Giuseppe, ed
alla povera mia madre il padrone di casa avendo aumentato l'affitto e fatte molte
spese, anche a lei dovetti venire in aiuto...». Cosi un'altra cambiale da 300 lire era
venuta ad aggiungersi al debito con Ricordi. Aveva però individuato il colpevole della
scarsa fortuna: questa era da addebitarsi a Francesco Maria Piave: «I presentimenti
non ingannano mai, quando dissi quella sera che Piave mi aveva fatto la jettatura...».
A proposito di questa squallida superstizione, il Monaldi, l'unica volta che citò Muzio in
Verdi nella vita e nell'arte, scrisse che il maestro dovette proteggere «sempre a spada
tratta il suo buon Emanuele, perseguitalo più ch'altri mai da quella taccia funesta di
jettatore, pregiudizio diffusissimo negli ambienti teatrali».
Come passava le giornate lo raccontò egli stesso: si alzava come al solito per tempo;
lavorava a Sant'Agata fino alle nove e mezzo, sostituendo Verdi in tutte le incombenze
quando era assente; si recava poi a Busseto da Antonio Barezzi, che lo teneva come
commensale; suonavano assieme fino a sera, indi piano piano se ne ritornava a
Sant'Agata.
Per la stagione della fiera del Santo, il 24 maggio fu di nuovo a Padova. Contava di
essere a Senigallia il 2 agosto, dove sperava si sarebbe data La Sorrentina con la
direzione di Giulio Cesare Ferrarini. L'impegno con Padova, però, gli fece sfumare
questa possibilità. Durante l'attesa per metterla in scena, secondo i suggerimenti
ricevuti, Muzio aveva aggiustato, modificato, rifatto alcune parti dell'opera. «ché per
questa volta e in seguito sempre, non metterò mai più in scena opere mie senza
averle fatte vedere a Verdi».
Prima di partire per Padova, scrisse al maestro facendogli presente che vi erano delle
difficoltà per rappresentare La Sorrentina a Parma. dove Verdi era riuscito a farla
scritturare dall'impresario Marzi. Era stato anche in trattative con il Teatro di
Alessandria per dirigere il Simon Boecanegra di Verdi, e aveva richiesto dieci franchi al
giorno. con la clausola di potersi sciogliere dall'impegno qualora la sua opera venisse
data a Bologna. Ricordi aveva preteso 3000 lire per il noleggio del materiale
d'orchestra, ricevendo il rifiuto dell'impresario. «Tu mi dovresti fare un piacere scriveva il 20 maggio all'editore - siccome ti fo questi lavori a sconto del debito e ti
farò gli altri in avenire cosi quella cambiale di £. 300 la dovresti mettere nel conto
corrente a mio debito perché in verità ho molte spese per la mia famiglia e ad onta
della molta economia non ce la cavo. Verrà e deve venire e non è forse molto lontano
il momento d'una risorsa, ma intanto... intanto si pena».
La stagione di Padova cominciò subito male, in quanto fu costretto a protestare il
tenore Conti che era stato scritturato per La traviata. Il cantante, però, rimase
egualmente, in quanto l'impresa non aveva i mezzi per assumerne uno migliore. Con il
procedere delle prove, tutti si persuasero che Muzio aveva ragione, e che era
impossibile andare in scena in quelle condizioni. Il 12 giugno, così, l'opera fu
presentata con un altro tenore convocato telegraficamente, il Pagnoni. La stagione
andava di male, in peggio: il tenore venuto per sostituire quello protestato era
indisposto: il soprano, Adelaide Basseggio, presentava gravi insufficienze in quanto, a
detta di Muzio, non aveva né voce, né talento, né "maniera" di canto. Miagolava con
una voce che non era né di soprano, né di mezzosoprano, né di contralto. Era, però,
intoccabile in quanto aveva il suo «piccolo piccolissimo partito specialmente fra i
militari, forse perché rubiconda, grossa, rotondetta»: così nella lettera a Verdi; «con
due tette fuor dell'ordinario». fu l'apprezzamento che aggiunse in quella indirizzata a
Ricordi. Quando lo stesso argomento veniva toccato nelle lettere con vari
corrispondenti, persino le frasi presentavano minime varianti.
La traviata, nuova per Padova, sia per il titolo che per il soggetto, dette ai nervi ad
alcuni spettatori timorati e, a leggere la Rivista euganea del 15 giugno 1857, anche a
qualche giornalista.
La seconda opera era il Vittor Pisani: «Ho letto l'opera di Peri, e mi piace poco per non
dir nulla. Non vi trovo nulla che si stacchi dal ordinario: ma invece trivialità,
monotonia, e dalla partitura mi sembra scorgervi un gran rumore. Insomma mi pare
una messa non saprei se da vivo o da morto. Sentiremo in orchestra». Durante la
concertazione le cose andarono anche peggio: la solita prima donna voleva "tutto
abassare", al punto che Muzio telegrafò al compositore, chiedendogli di essere
presente alle prove. Il Vittor Pisani fu un fiasco, e l'opera giunse al termine per
miracolo.
Mentre era intento alla stagione padovana, ricevette la scrittura per i primi venti giorni
di agosto al Teatro la Fenice di Venezia, come concertatore e direttore dell'orchestra
per l'Anna Bolena di Donizetti. la paga era modesta. 300 lire, ma, essendo vicino a
Padova dove spendeva poco di casa, aveva soltanto le spese di viaggio. C'era un
acquisto da fare: "tutto” un vestito nero, in quanto l'impresario gli aveva
preannunciato che era previsto un concerto a corte. A Padova fece eseguire la sinfonia
della Sorrentina: «Fa un bel effetto, e vi sono dei brani che riescono bene».
Analogamente alla Fenice.
Alla fine di giugno, tramite Angelo Mariani, ricevette l'invito per la stagione di
carnevale al Teatro Carignano di Torino, «come direttore d'orchestra e maestro
concertatore». Anche il Regli gli scrisse, assicurando che «la di Lei nomina a Maestro
direttore è assicurata qualora Verdi scriva una lettera al C.te Cavour o da Rattazzi».
Ricordi, intanto, gli chiedeva la riduzione dell'Aroldo di Verdi per pianoforte a 4 mani.
Nella stagione di autunno, toccò il cielo con un dito: era stato scritturato come
concertatore al Teatro Comunale di Bologna per trenta rappresentazioni, e avrebbe
rappresentato finalmente anche La Sorrentina. Sperava incontrasse il favore del
pubblico, anche perché lo stesso Verdi gliel'aveva "ripassata" prima che andasse in
scena.
La prima opera eseguita a Bologna fu l'Aroldo, rielaborazione dello Stiffelio di sette
anni prima. Al termine della seconda rappresentazione, mezzora dopo la mezzanotte,
Muzio comunicò a Ricordi: «Successo grande, più migliore, infinitamente superiore a
jeri sera». Il 17 ottobre fu la volta dell'Attila, e, finalmente, il 14 novembre, venne il
giorno della Sorrentina, in cui Giulio Carcano, per volere della censura - il Santo
Uffizio, celiò Muzio - dovette apportare delle correzioni al libretto. Durante le prove
scrisse a Ricordi: «ad eccezione del contralto, sono contento di tutti, e questa volta
non concisi la bestialità di venire a Bologna senza far sentire lo spartito a Verdi, e lo
farò sempre e poi sempre perché mi ama molto e vuole il mio bene».
A questo punto lascia perplessi la severità di giudizio espresso a Padova nei confronti
della Basseggio, paragonato con quanto scrisse ora, lavorando nuovamente con la
donna a Bologna: «Se la Basseggio non ha il talento della Virginia Boccabadati, ne è
superiore come voce ed io dico con sicurezza che ad eccezione di pochissime frasi
tutto gli va bene, e se bene di voce può rendermi tutte le parti in modo distinto. Io la
vedo così».
L'arpa, la rivista musicale di Bologna, cominciò ad accennare all'opera dal 31 ottobre,
mentre il 6 novembre scriveva che le prove erano già a buon punto «ed abbiamo a
lusingarci che nella veniente settimana potremo udire il nuovo lavoro del giovane
autore, che ebbe in sorte di essere educato a quella fonte inesausta di scienza
musicale, che si chiama Giuseppe Verdi».
Quando nel 1854 era sembrato che l'opera dovesse andare in scena al Teatro
Comunale, Verdi aveva raccomandato Muzio al primo violino-direttore dell'orchestra:
«Fu già mio allievo ed a cui porto molta affezione».
Il giorno prima della recita, il proprietario-direttore dell'Arpa, Gustavo Sangiorgi,
faceva la storia del lavoro: alcuni anni prima era stato rappresentato in prosa il
dramma in cinque atti Adriana Lecouvreur di Scribe e Legouvé, e a questo,
ambientandolo a Napoli, Giulio Carcano si era ispirato per il libretto musicato da
Muzio. Fu poi lo stesso Sangiorgi a scrivere la cronaca della serata in un lungo
articolo.
Mancavano pochi minuti alle Otto, quando io entrai nel palcoscenico del nostro teatro,
ed in mezzo a quel parapiglia, a quella confusione che suole sempre precedere la
prima rappresentazione di un nuovo spettacolo, vidi un uomo convulso, pallido e quasi
sofferente che accorreva da tutte le parti, interrogando, chiedendo se tutto fosse
pronto.
Quest'uomo era Emanuele Muzio, l'autore della Sorrentina, che stava là attendendo la
sentenza sul suo lavoro. Nella fisionomia del giovane maestro io lessi le dure fatiche, i
dolori, senza dei quali l'arte non concede le sue gioie, e con l'animo compreso da tali
sentimenti. mi avviai al mio scanno ove silenzioso mi posi ad ascoltare. E diffatti udii
una sinfonia che largamente compensò la mia attenzione non solo, ma anche quella
dell'affollata uditorio, che l'applaudì fragorosamente chiamando il maestro al
proscenio. La sinfonia della Sorrentina, genere di composizione che gli scienziati della
musica chiamano il più difficile, vi rivela a primo tratto una certa facilità di
modulazione, una spontaneità di concerto, un'arte accurata di usare l'istrumentazione
che vi fa subito concepire le più belle speranze per ciò che deve seguire in appresso.
L'adagio, ossia largo, che è affidato ai soli strumenti d'arco è soave ed affettuoso, e
l'allegro e la stretta finale hanno quel brio, che suole scontrarsi nelle composizioni del
celebre Verdi, di cui degnamente Muzio è il prediletto allievo. Io non voglio qui, o
lettori, dettarvi un minuto esame della Sorrentina, ma in complesso mi compiaccio
dirvi che la nuova opera di Muzio ha ottenuto un esito lodevole, e di volo accennerò,
come la sortita del tenore nel primo atto sia scritta assai bene, come tutti i cori
abbiano una certa popolarità, come in fine sempre in vari tratti si conosca che non un
profano, ma un profondo conoscitore dell'armonia è quegli che ha impreso a comporre
questo nuovo spartito. La romanza di sortita del baritono, la cavatina della donna, il
duetto che segue tra questa ed il tenore sono pezzi bellamente ideati, stupendamente
condotti. I finali tutti, sebbene siano in parte mancanti di quello stile grandioso che è
oggidì la sorgente dei grandi effetti, sono ricchi di combinazioni, ed intesi più volte,
non ponno fare a meno di sempre più essere gustati. Nel secondo atto e nel terzo vi
ha qualche cosa di monotono, e ciò forse è cagionato da un modo troppo uniforme di
fraseggiare, e delle situazioni che mancano, la quale pecca va divisa tra il poeta ed il
maestro: mentre il primo ebbe torto di portare tanto affetto ai suoi versi, andando sì
per le lunghe, ed il secondo non ebbe la potenza d'infrangere la pesante catena del
poeta.
La bellezza, l'ispirazione, e diciamolo con franchezza, il genio che appare nella scena
finale di quest'opera, mi scusano se io tralascio di parlare di tutto ciò che precede
questa sublime creazione che lo stesso Verdi accoglierebbe come figlia primogenita del
grande suo pensiero. Tutto ciò che tu desideri negli atti precedenti, vale a dire,
chiarezza d'idee, nitezza e grandiosità di stile, melodia facile, filosofica e non disgiunta
dal più tenero affetto, tutto tu trovi riunito in questa scena finale, ed io non so se più
grande sia stato il maestro nel dettarla, o Adelaide Rasseggio nello esprimere le gioie
fugaci, gli strazianti dolori di morte dell'infelice Sorrentina. (…..) Ebbene questa verità
tanto bramata ha la musica di questo brano finale, questa verità che tanto commuove
hanno gli accenti di Adelaide Basseggio che io non credeva fosse attrice tanto distinta,
che fino ad ora io non aveva udito cantare con anima tanto appassionata. Le frasi
culminanti furono seguite da un grido universale, e tutta le scena in mezzo alla
generale commozione venne fra vivissimi applausi ripetuta. (...) Nel corso dell'opera il
maestro Muzio si presentò richiesto, per ben dieci volte alla scena, e noi dobbiamo
ripetere che la Sorrentina ha ottenuto esito più che lodevole, il che deve animare il
Maestro Muzio a percorrere quel difficile sentiero che si chiama via dell'arte, con fede
e costanza, le quali solo ponno guidare a quelle opere stupende che attraggono
l'ammirazione del mondo. (….)
Le repliche procedettero con lieto successo: la Basseggio, Mirate e Merly furono
sempre applauditi. «Lunedì sera ebbe luogo una recita straordinaria a titolo di
pubblica beneficenza, diretta a sollievo di quei miseri, che il fatale Cholera orbò dei
genitori. Tutti gli artisti si prestarono gentilmente». Anche l'autore si disse soddisfatto
dell'esito, a parte l'esecuzione di alcuni pezzi del secondo alto, a causa della mancanza
di un buon contralto e delle seconde parti. Preso dall'entusiasmo, lui, così economo,
lasciò per i coristi una mancia di 150 lire, dato che la paga che ricevevano «era poca
assai». Il 19 dicembre, calmatasi l'euforia, però chiedeva a Ricordi se voleva pagarle
lui, dato che se le era fatte prestare, «un gesto che a te costa nulla».
Mentre la Gazzetta musicale di Milano del 2 maggio 1858 pubblicava la notizia che
della Sorrentina erano in vendita otto fascicoli per canto e pianoforte, oltre alle
riduzioni per pianoforte a 2 e a 4 mani, a riprova di una certa popolarità dell'opera,
per i tipi dell'editore milanese, vedevano la luce anche un Ricordo della Sorrentina di
E. Muzio per pianoforte solo, op. 134, del «celebre pianista compositore» Stefano
Golinelli, e una Melodia nella Sorrentina di Emanuele Muzio variata per pianoforte solo
di Gajani.
Ignoriamo se mai i fratelli o i genitori assistettero all'esecuzione di un'opera di
Emanuele. Il rapporto che tenne con i parenti riflette le abitudini della campagna, in
cui pare non si apprezzassero le manifestazioni di tenerezza, specie da parte del
padre. Se di questi abbiamo poche notizie, né troviamo accenni del suo decesso,
avvenuto probabilmente durante gli anni americani di Muzio, ben più conosciuto e
documentato è il legame di affetto nei riguardi della madre, ricordata varie volte e
ancora con accorato rimpianto fino nel testamento.
Al termine della stagione di Bologna, per poco La Sorrentina non salì anche sulle scene
del Teatro Regio di Parma nel carnevale 1857-58: la Basseggio, infatti, scritturata a
Parma, potendo indicare per la terza opera una di suo gradimento, aveva proposto
l'esecuzione di quella di Muzio, che le aveva procacciato vivo successo al Teatro
Comunale. Senonché, stabilito il prezzo e fissato ogni particolare, la duchessa Luisa
Maria di Borbone aveva espresso il desiderio che fosse eseguito Il conte di Leicizester
di un altro compositore nativo del Ducato, Antonio Baur. Dato che nella lettera Muzio
lo indicò come Bauer - così a volte fu anche indicato il Baur - l'Abbiati, ignorando fin
l'esistenza di questo musicista, scrisse che, probabilmente, il Rossetto voleva indicare
Auber. Muzio comunicò indignato a Ricordi che si era venuti meno a degli obblighi nei
suoi riguardi, che la Basseggio era stata addirittura tentata con trenta marenghi d'oro
e un braccialetto dal padre del Baur perché modificasse la sua indicazione, che egli
stesso aveva indirizzato una violenta protesta alla duchessa...
Non ci fu comunque nulla da fare, e sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma sali Il
conte di Leichester.
CAPITOLO VII
A Londra
Dopo il notevole successo della Sorrentina. Muzio si fermò a Bologna, non sappiamo
con quali impegni: il 1O dicembre era andato a Venezia, dove il 12 doveva cominciare
le prove. Gli era stata offerta una scrittura a Lisbona: «Colla febbre gialla! Non sono
ancora cosi disperato d'andare incontro alla morte!», e anche il Teatro Carcano lo
aveva cercato per la prossima stagione di quaresima.
Il 10 gennaio 1858 annunciava a Ricordi imminente l'invio della Marcia per la banda
civica, e che aveva composto sei canzonette da camera sopra alcune poesie inedite di
un "illustre Italiano" Prima, però, voleva farle vedere a Verdi «poi te le darò; queste a
sconto del mio debito». Scrisse anche due pezzi per pianoforte e viola, Andante e
Rondoletto, che inviò all'editore: «Se dai un occhiata al tuo immenso catalogo ne
troverai ben pochi e molti che suonano quel istrumento ne sentono la deficienza. [...]
lo li feci allo scopo di pagare Monti delle £ 150 che mi diede per le mancie, e mi
sembra che quel prezzo non sarebbe poco: quindi se ti aggradano, ne accrediterai il
prezzo a Monti che è sempre buono per me assai assai». Gli chiedeva di inviargli le
bozze, in quanto desiderava farle vedere al professor Lodovico Mantovani, docente
alla Regia Scuola di musica di Parma, «affinché siano ben notati gli accenti, legature e
suoni armonici, e le arcate che non mancai di indicarle come pure i segni per portare
l'arco o dal alto o dal basso». Il 13 giugno la Gazzetta musicale di Milano pubblicava
che erano in vendita.
Il 1858 fu l'anno in cui finalmente il successo arrise a Emanuele Muzio. Nella
primavera 1817, nel viaggio a Londra con Verdi, erano stati ospiti a cena
dell'impresario Benjaniin Lumley, direttore del Her Majesty's Theatre, il Teatro di Sua
Maestà: adesso, potendo presentare un buon curriculum direttoriale, offri la
disponibilità per recarsi a prestare la sua opera nella capitale britannica. Pare che le
trattative furono laboriose, in quanto lamentava un esborso di 126 lire di solo
telegrafo. Per fortuna, quando arrivò la nomina a "maestro concertatore, capo di tutta
la musica e direttore generale", il telegramma assicurava che sarebbero state
rimborsate tutte le spese.
Prima che l'accorcio diventasse definitivo, Muzio temette che potesse andare in fumo.
La lettera di Lumley, infatti, indirizzatagli a Busseto, gli era stata rispedita a Bologna,
impiegando sette giorni. Il contratto, quattro anni a 7000 franchi l'anno, prevedeva un
aumento di 500 franchi ognuno. Muzio, scrivendone a Ricordi il 23 marzo diceva che
aveva inviato telegraficamente l'accettazione, «ma temo che siccome la scrittura
doveva cominciare subito forse a quest'ora si sarà provveduto. Pazienza! La metterò
assieme alle altre mie disgrazie».
L'accordo fu invece raggiunto, e il 28 marzo partì per Londra da Bologna, dopo aver
voluto dare, trionfante, la notizia ad Antonio Barezzi, affinché la conoscessero tutti i
bussetani: «Una volta andiedi a Londra e studiavo ancora la musica: ora ci ritorno
maestro-direttore, compositore e capo di tutta la musica al Teatro di S.M. la Regina, e
senza obbligo di far l'esame come si voleva lo subissi per avere il posto di Maestro a
Busseto. Oh, che talentone quel mio amico! Devo partire immediatamente perché ne
ebbi l'invito per telegrafo». I concorsi per maestro di musica evidentemente
lasciavano a Busseto una scia di rancori: prima quello di Verdi, adesso quello di Muzio,
il cui sfogo è sintomo di amarezza repressa per lungo tempo. Il giorno prima aveva
messo al corrente il maestro, chiedendogli nel contempo delle lettere di
presentazione. Si rivolse altresì a Ricordi: «Devo ricorrere a te per i denari del viaggio
le cui spese tutte mi sono rimborsate a Londra. [...] Per il viaggio m'occorrono 200
franchi che puoi unire a quelli dell'orologio e formare una sola».
La partenza era, in verità, precipitosa, e molti particolari non erano stati chiariti, ma
aveva deciso egualmente di accettare per una questione di prestigio: intanto per sei
mesi, poi avrebbe visto. La scrittura, d'altronde, avrebbe potuto portare in seguito
altri frutti.
Giunse a Londra in cinque giorni, e si mise subito al lavoro: «Provo tutto il giorno e
tutta la notte si può dire, e Martedi si andrà in scena con Gli ugonotti». A metà aprile
poté scrivere che l'opera era andata nel complesso abbastanza bene, ma che si era
sentita la mancanza di un maggior numero di coristi. Un vero trionfo era toccalo alla
prima donna, il soprano tedesco Therese Tietjens, al suo debutto londinese: «Figura
teatrale, voce di vero soprano un po' di gola, forza, accento, slancio, sono le qualità
che essa possiede».
La regina Vittoria aveva onoralo il teatro per due sere consecutive. L'opera seguente
sarebbe stata Il trovatore: «Ora trattasi di far riescire la Piccolomini nella Luisa Miller
che oggi si mette in prova per i coristi».
Da quanto aveva scritto a Barezzi, si poteva pensare che il compito di Muzio fosse di
direttore d'orchestra. Non risultando, però, tra coloro che avevano espletato tale
mansione durante la stagione, eravamo perplessi sulle funzioni svolte, fino a quando
non abbiamo letto sulla Gazzetta musicale di Milano del 20 giugno 1858 la cronaca
della Luisa Miller, nella quale avevano cantato con "successo compiuto" la Piccolomini,
Giuglini, Beneventano, Vialetti. «L'esecuzione in complesso è stata eccellente, e gli
applausi risonarono a tutti i pezzi. [...] Bonetti, capo d'orchestra, ha diretto le masse
strumentali con grande accuratezza. I coristi furono istruiti con zelo dal maestro
Muzio».
«Ora trattasi di far riescire la Piccolomini»... Chi era Maria Piccolornini? Nata da nobile
famiglia toscana, aveva voluto, nonostante i pregiudizi di casta, dedicarsi all'arte
lirica. Soprano drammatico di agilità, «her small, slight figure, her graceful manner,
her coquettish style» colpi il pubblico dei maggiori teatri, e fu una delle più applaudite
interpreti della Traviata. Con quest'opera, infatti, aveva trionfato a Londra poco più di
un anno prima.
Stimata anche per questa ragione da Verdi, e indicata dalla sempre sospettosa
Strepponi "vezzosa angioletta" e "my beautiful and illustrious Girl", era stata
prescelta, lei ventiquattrenne, come ideale per "proteggere" il trentaseienne
Emanuele. E' quanto risulta da una lettera dei coniugi Verdi, senza data, ma di questo
1858, alla contessina Madetta Piccolomini, presso il Her Majesty's Theatre di Londra.
La Peppina, dopo aver lodato i successi in carriera del soprano, e averla rimproverata
per scriverle così poco, era entrata con finezza nell'argomento:
Vedete che ad onta del vostro mutismo, io m'interesso sempre di cuore a Voi, vezzosa
Angioletta, e sono minutamente e credo storicamente informata dei fatti vostri. Il
Maestro Muzio poi ci scrisse di voi le più belle cose del mondo, ed egli non è facile
lodatore! A proposito di Emanuele Muzio, lo conoscete Voi? Se non lo conoscete, o
solo lo conoscete superficialmente, permettetemi di presentarvelo con questa lettera e
di raccomandarvelo, non come si raccomanda generalmente, ma come raccomanderei
un fratello! Egli ha molto, moltissimo talento: carattere sicuro e franco... questo
carattere quantunque pregiabilissimo, è stato farse un ostacolo, se finora non fece la
fortuna che meritava, mentre certi ciarlatani la fecero senza meritarla. Siccome però
Voi siete dello scarso numero d'Artiste, che malgrado il contatto delle scene, e la
vertigine dei trionfi hanno conservato il cervello e il cuore, così lo metto sotto la vostra
protezione, sicuro che lo apprezzerete e cercherete di giovargli, come egli potrà
essere un Maestro degno del vostro talento, qualora ne desideriate uno per imparare
le parti, o domandare qualche consiglio.
Egli è stato scolaro di Verdi e noi lo amiamo da dodici o quindici anni? Spero che
terrete questa per una raccomandazione a suo vantaggio.
Io non esigo che voi mi rispondiate: avete troppe occupazioni. [...]
In un post scriptum Verdi aggiungeva «Vi saluto cordialmente e permettetemi di
appoggiare la raccomandazione qui sopra fatta dalla Peppina».
Dell'esito dell'intervento dei coniugi Verdi, non sappiamo: quello che è certo è che la
cantante fu dal punto di vista artistico un'ottima collaboratrice in Inghilterra e negli
Stati Uniti. Ritiratasi dalle scene con una Traviata diretta da Muzio a Philadelphia nel
giugno 1859, dopo poco più di dieci anni di una carriera intessuta di trionfi, la
Piccolomini sposò il duca Francesco Caetani Della Fargna, e visse ritirata nella villa di
Poggio Imperiale a Firenze.
Dopo pochi giorni che era a Londra, il 12 aprile, Muzio scrisse a Ricordi di inviare un
impiegato presso la banca privata Ulrich & C., dove gli sarebbero state pagate 8
sterline, equivalenti a qualcosa di più dei 200 franchi che gli aveva anticipato per il
viaggio, e di accreditargli la parte eccedente. «E' barbaro uso il consegnare denaro, e
non avere neppure ricevuta; cosi si usa in queste banche». Qualche giorno dopo
seguirono 10 sterline per il pagamento di una delle tante cambiali che aveva in
sofferenza presso l'editore.
Per farsi conoscere anche come compositore, chiese gli venissero spediti presso il
teatro, assieme a lettere di presentazione per i corrispondenti londinesi di Ricordi, tre
copie di ogni pezzo e sei libretti della Sorrentina, due copie di quelli della Claudia, due
della sinfonia delle Due regine, due della Mazurka per corno, due dei Tre studi per
pianoforte, due copie dell'Arietta e due dell'Andante e Rondoletto per viola. Qualche
giorno dopo aggiungeva la richiesta delle partiture delle sinfonie della Sorrentina e
della Claudia.
Lamentava che non era possibile trovare una stanza in centro a meno di 15 o 20
scellini alla settimana. Dopo la gioia iniziale, si era accorto che quanto gli veniva dato
di retribuzione non era poi grande cosa: i 7000 franchi che percepiva per la stagione,
dato l'elevato costo della vita, l'alloggio, e il guardaroba, non erano moltissimi.
Malgrado ciò, il 3 maggio poté inviare a Ricordi ancora 10 sterline perché pagasse il
famoso debito con Monti, e desse il resto a Verdi che «sa cosa deve fare». ii maestro,
infatti, avrebbe consegnato il denaro alla madre di Emanuele. Comunicava nel
contempo che, se la salute lo avesse assecondato, sperava di pagare tutti i debiti
entro l'anno. Per spendere meno, aveva preso alloggio lontano dal teatro: la posizione
era bella e l'aria buona, in quanto vicino «al Colliseum a Regen Park». Sperava inoltre
di avere delle lezioni di canto, con le quali migliorare il bilancio: «Lessi una volta sul
Vesta-Verde che il più sicuro temo al lotto era questo: lavorare, lavorare e poi
lavorare». Così, quando aveva tempo libero, lo occupava componendo una fantasia
per viola su temi della Traviata.
Lumley gli offri ancora una scrittura: di due mesi e mezzo per il consueto giro d'estate
nelle città di provincia. Leggendo il contratto, si accorse che l'impresario aveva
aggiunto altri due obblighi: arrangiare le musiche dei balletti e istruire i cantanti nelle
loro parti. Non firmò, in quanto il carico di lavoro che gliene sarebbe derivato non gli
avrebbe nemmeno dato il tempo di respirare: aveva inoltre promesso di tornare a
Bologna al Teatro Comunale. Avrebbe accettato quelle dure condizioni soltanto in
extremis, volendo pagare tutti i debiti e aiutare i genitori, che stavano diventando
vecchi, e il fratello Giulio, verso in quale era «in obbligo santo».
Il 3 maggio comunicava che il giorno dopo sarebbe andato in scena trovatore, e che la
Tietjens era una cantante come in Italia, per voce, sentimento e arte, al momento non
c'era eguale. L'opera ebbe un successo strepitoso: il teatro tutto esaurito.
Assistevano, quarta volta in tre settimane, la regina e la corte; due giorni prima
avevano presenziato alla Traviata, un altro luminoso successo della Piccolomini: alcuni
storici riportano che la regina Vittoria definì l'opera "immorale".
Abbiamo qualche notizia della sua vita nei momenti liberi: era solito, per distendersi
dalle fatiche del teatro, fare lunghe passeggiate con altri artisti italiani della
compagnia, e frequentare il teatro di prosa. Aveva assistito, quantunque non capisse
l'inglese. al Re Lear, e «la maledizione mi fece rabbrividire, e nella scena della pazzia
piangere». Quando aveva l'occasione, si recava a visitare la Piccolomini, che abitava
con la madre e la sorella Laura, «quella gran ciarliera di Lamina - come l'aveva
definita Giuseppina Strepponi - capace di passare un'ora senza dire una parola, cosa e
caso enorme in una donna». «Sono tutte auree persone che hanno ottima qualità e
quando ho il tempo di passare qualche ora in quella casa mi sento contento perché
almeno nella loro fisionomia, nel loro dire vi è un po' di cuore e non quella freddezza,
quell'impassibilità delle faccio inglesi». E, a proposito della nazione ospite,
aggiungeva: «L'Inghilterra è una grande nazione ma per la musica non se ne
intendono un fico».
Le composizioni di Verdi erano ovunque: si sentivano straziare nelle strade dagli
organetti dei suonatori ambulanti, si trovavano in vendita «corrette negli
accompagnamenti, nel canto, da qualche maestrucolo tedesco, che qui abbondano in
quantità», e La traviata compariva addirittura lo stesso giorno, il 25 maggio 1858, nei
tre grandi teatri d'opera di Londra: al Her Majesty's con la Piccolomini, al Covent
Garden con la Bosio e al Drury Lane con la Donatelli. Vi era anche il Sadler's Well,
dove le opere italiane venivano rappresentate in inglese.
I due maggiori teatri, il Covent Garden e il Her Majesty's, aperti nelle stesse sere di
martedi, giovedì e sabato, erano in lotta per acquisire il titolo di primo teatro italiano
di Londra. Per attirare gli spettatori, Lumley dava molta importanza al ballo, tra le cui
stelle brillavano «la estremamente simpatica Rosati e la deliziosa Pochini, al certo due
bei nomi per attirare gli amatori di danza». Al terzo teatro, il Drury Lane, c'era invece
spettacolo ogni sera, e l'impresario aveva mirato a mettere anche il popolo in
condizione di frequentare l'opera, utilizzando un cast di vecchie glorie, che gli
consentiva di tenere i prezzi bassi: «Se si vuole ai giorni nostri gustare un poco di
vero canto italiano, è doloroso lo scorgere e constatare si sia costretti ricorrere a
quegli artisti che per ragion di età e per le fatiche passate dovrebbero ormai starsene
in riposo e godere il frutto dei loro talenti! Di tali cantanti Londra porge adesso un
assieme imponente. Mario, Ronconi, Radiali, la Crisi, la Persiani appartengono al bel
numero. E dico bisogna ricorrer là perché fra i giovani, pochi eccettuati, si studia
poco: perché in giornata appena si sa di possedere una qualche voce che subito la si
sciupa prodigandola senza la menoma nozione dell'arte di servirsene!». A proposito di
un Don Pasquale, la cronaca terminava con la costatazione: «L'assieme pertanto andò
a meraviglia, sebbene possa esser rimasta la convinzione che certi organi perdono
anziché acquistare col passar degli anni. In musica forse non vi sono che i violini, che
come il vino di Bordeaux, acquistano invecchiando».
Oltre ai cantanti, il pubblico inglese era legato anche alle opere del passato: «Le
novità sono merce rara in questi teatri, e il solito repertorio forma la delizia degli
abitanti. Il Teatro di Sua Maestà si riposa sui suoi allori! Il trovatore, la Lucrezia
Borgia, e la Lucia. Come ha da fare un povero cronista a dire cose nuove quando non
assiste che a cose vecchie, con artisti vecchi e già più che giudicati? Si prova anche il
Don Giovanni...», e fu l'opera che concluse la stagione. Alcuni di questi giudizi sono
ripresi dalla Gazzetta musicale di Milano in quanto, dall'arrivo di Muzio a Londra, la
rivista di Ricordi si arricchi di lunghe e dettagliate cronache musicali, a firma di tal
M.F. Dato che questi resoconti echeggiano stile e concetti a noi ben noti, e usano frasi
identiche a quelle ritrovate nel contempo nelle lettera a Verdi, non abbiamo dubbi
nell'attribuire a Muzio la paternità.
L'atmosfera nel lavoro era quella che regna in tutti i teatri lirici del mondo:
chiacchiere, invidie, intrighi. La Piccolomini, ad esempio, pare fosse in una posizione
delicata: nel viaggio che aveva fatto l'anno precedente con la compagnia in Scozia e
Irlanda, certo maestro Brizzi, che rappresentava Lumley, si era interessato a lei,
credendosi corrisposto, data la gentilezza di maniere della donna. Accortosi
dell'errore, adesso le faceva guerra e, anche se era «l'artista più simpatica del teatro e
quella cui il pubblico faceva le maggiori feste», veniva fatta cantare poco.
Lo stesso Muzio si sentiva scrutato e soppesato dagli altri maestri, Arditi, Bonetti e
Vaschetti, e sapeva bene che questi sarebbero stati ben lieti di vedergli fare anche un
minimo passo falso. Lui, d'altronde, non perdeva occasione per esprimere sferzanti
giudizi su di loro: Arditi, correva come un cavallo, e Bonetti restava indietro come una
talpa; i due, messi insieme, avrebbero fatto un buon direttore. Di Bonetti, che pur nel
1855 era stato definito da Verdi "un buon direttore", parlò della "buaggine", e si
meravigliò che avesse acquistato una certa reputazione, in quanto non sapeva stare al
pianoforte, fare un accordo, e quando batteva non si capiva se era in tre, quattro o sei
"tempi", dato che la bacchetta restava sospesa quasi senza movimento.
Nell'orchestra, formata da elementi italiani, francesi e tedeschi, pare che il rendimento
variasse a seconda della nazionalità dell'opera rappresentata. A suo parere la fortuna
consisteva nel fatto che erano italiane le dodici prime parti.
In una lettera a Verdi dell'8 giugno, in cui parlava del successo della Luisa Miller, si
soffermò anche nell'indicare i pezzi che avevano maggiormente incontrato. A un certo
punto tagliò per concludere: «Ora non gli posso scrivere più a lungo perché sono le 8
e mezza ed alle 10 abbiamo la prova di un concerto di Benedici che fa eseguire
dopodomani mattina 43 pezzi di musica. E' un'infamia!».
A Londra, «ove ogni giorno vi sono concerti a profusione, ove insomma si consuma più
musica in tre mesi che non in qualunque altra città in uno o due anni», da poco tempo
era stata inaugurata in un elegante quartiere. con gli ingressi su Regent's Street e
Piccadilly. la nuova St. Jame's Hall. che poteva ospitare tremila persone. Beale vi dava
grandiosi concerti vocali e strumentali diretti da Julius Benedici. «A dir vero
basterebbe la lettura dei relativi programmi per far fuggire un dilettante italiano: ma
le esecuzioni in generale sono buone ed accurate», merito precipuo dei maggiori
artisti di tutto il mondo, che si davano convegno a Londra, attratti dalle buone paghe.
«Ecco il compenso che si guadagnano i paesi ricchi e generosi verso gli artisti; quello
cioè di vedere accolto nelle loro mura tutto ciò che l'arte offre di più elevato e di più
distinto. Londra in estate è veramente il convegno dei grandi talenti musicali».
Terminata la stagione, Muzio continuò a prestare la sua opera in concerti anche a
notevole distanza da Londra, e il 10 agosto iniziò una stagione estiva a Dublino, dove
«otto o dieci rappresentazioni» del Trovatore e della Traviata raccolsero successo. Il
pubblico era caldo, vivace ed entusiasta, da rammentargli quello italiano: i teatri
esauriti, al punto che vi erano anche persone sul palcoscenico. Dopo Dublino, ancora
due recite a Liverpool, un concerto a Leeds, e infine Manchester. Da una lettera della
Piccolomini leggiamo che l'affare serio dopo l'opera era uscire dal teatro: «Io ho paura
che una sera o l'altra mi facciano in pezzi perché non giova più nemmeno che vi sieno
i policemen».
Con i guadagni Muzio fece fronte ancora ai debiti: il 24 agosto inviò 3 sterline a
Ricordi per accreditare a Verdi le corrispondenti 143 lire.
Benché fosse d'accordo per lavorare nella stagione di autunno al Teatro Comunale di
Bologna, in agosto non aveva ancora ricevuto conferma; era anche ansioso di essere
ricevuto dalla duchessa di Parma - «Trovai efficaci raccomandazioni» - perché fosse
resa giustizia alla Sorrentina. L'ambasciatore di Russia, il barone Brunow, aveva in
proposito scritto una lettera personale alla sovrana: «Questa lettera fu mandata con
una mia supplica a Torino al ambasciatore Inglese Joseph Hudson dal Marchese di
Malesburg ministro degli affari esteri affinché l'invii esso pure con una
raccomandazione personale. Vedremo se si riesciti in qualche cosa, l'ocasione mi era
favorevole e non volli trascurarla per non avere a fare dei rimproveri a me stesso».
Il 4 settembre sperava ancora che l'affare di Parma andasse in porto: non essendo
potuto venire in Italia, aveva pregato Verdi di seguire gli sviluppi del caso. Malgrado i
tentativi, La Sorrentina non poté essere presentata a Parma e, a quanto ne sappiamo,
concluse la sua esistenza con il primo e unico allestimento al Teatro Comunale di
Bologna dell'autunno 1857.
CAPITOLO VIII
Otto anni americani
Benché il contratto con Lumley fosse pluriennale terminato il giro delle province
inglesi, Muzio non ritornò a Londra, ma trasferi l'attività negli Stati Uniti. Con molta
probabilità aveva rotto i rapporti con il Her Majesty's Theatre a causa della
Piccolomini: l'impresario inglese, infatti, come criticava la Gazzetta musicale del 7
luglio 1858, dava «fiato alle trombe per edificare una rinomanza colossale a Teresa
Tietjens», sacrificando la Piccolomini, e «benché sia dessa un bel talento, che non fece
egli? Ora poi l'ingrato l'ha venduta al signor Ullmann per l'America. E' una fine
intelligenza questo signor Lumley»
Cosi, dopo una tappa a Parigi, il 9 settembre 1858 il trentasettenne Muzio era a
Londra. in procinto di imbarcarsi per gli Stati Uniti, avendo ricevuto una scrittura come
direttore «per sei o otto mesi». Chiedeva a Ricordi che gli venissero spedite riduzioni
per pianoforte di opere di Verdi e della Sorrentina e, qualche giorno dopo, inviava 60
sterline con la solita avvertenza di darle a Verdi: «Egli sa cosa deve farne».
Il 28 settembre, ultimo giorno di permanenza a Londra, in quanto l'indomani si
sarebbe imbarcato a Southempton, mandò ancora 5 sterline per il consueto accredito,
e chiese che la Gazzetta musicale di Milano gli venisse recapitata nella metropoli
americana presso il teatro Academy of Music. Il pomeriggio alle tre avrebbe diretto il
concerto di addio della compagnia al Palazzo di Cristallo: di questa facevano parte la
Piccolomini e la Basseggio, che continuava a ripetere La Sorrentina con l'autore.
Non è agevole seguire Muzio durante le stagioni americane che si protrassero fino al
1866: diresse un po' dappertutto, da New York a San Francisco, a Cuba, le lettere
sono scarse, le cronache dei giornali musicali lacunose. Quanto fosse intensa l'attività,
si può rilevare dalla cronologia riportata in appendice. Soddisfatto del lavoro che stava
facendo, scriveva al maestro: «Se mi vedesse a dirigere e sentisse la mia orchestra
sarebbe, mi creda, contento. Larghezza di mani, ben nutrito il forte, il piano non
esagerato, dolcezza negli strumenti che legano ne fanno un bel insieme. A me piace,
ed anche al pubblico». Se il debito con Ricordi era stato pagato per intero, restava
ancora quello con Barezzi. cui avrebbe presto provveduto: inviava intanto
direttamente al maestro 400 franchi da consegnare alla madre.
Il 19 marzo 1859, nel fare gli auguri di buon onomastico a Giuseppe Verdi e
Giuseppina, raccontava che non aveva fatto altro che girare per terra e per acqua:
aveva visto una immensità di belle cose, ma anche di brutte. La belle erano le foreste,
i boschi, i fiumi, i laghi, le piantagioni, i fiori, la natura in tutto il suo splendore. Era
andato tre volte alle "cadute" del Niagara e non aveva mai visto spettacolo più
grande, più maestoso, più imponente, più orrido e spaventoso: meritavano, esse sole,
una visita in America. «Io e la Piccolomini, poiché gli altri non avevano coraggio,
fummo in tutti i siti più pericolosi, dietro la caduta d'aque, in barchetta, nella torre,
insomma da per tutto». Aveva poi attraversato la Pennsylvania con le miniere di ferro
e carbone più ricche del mondo; si era imbarcato a Saint Louis, e aveva disceso il
Missisipi, "padre del aqua", per mille miglia di corso; aveva visto piantagioni di cotone
e zucchero e compatito «quei poveri mori che sudano ed affaticano peggio che
bestie». A Nuova Orleans aveva visitato il mercato degli schiavi, dove un ragazzo
costava dai 300 ai 400 scudi, un uomo forte dai 1500 ai 2000: «se Verdi o la signora
Peppina ne vogliono uno... per me non lo prendo certo...»
Ai primi di giugno di quell'anno aveva in animo di fare un viaggio in Italia, ma rimandò
la partenza, dato che era scoppiata la seconda guerra di indipendenza: «perché non
so cosa va a succedere e per me è meglio l'America, ove ho una eccellente posizione».
Oltre al teatro, era soddisfatto per le lezioni private di canto che dava a New York, che
lo tenevano sollevato dall'ambascia sull'esito delle stagioni teatrali. L'8 luglio,
finalmente, poté inviare a Verdi una cambiale di 1500 franchi, quanto occorreva per
estinguere tutte le rimanenti obbligazioni.
Dello stesso 8 luglio 1859 era la lettera con cui riapri la corrispondenza con Ricordi
dopo un anno di silenzio. Comunicava che l'invio delle musiche, che aveva ordinato da
Londra, non gli era mai stato recapitato, e rinnovava la richiesta di cinque o sei copie
di tutte le Sue composizioni e delle riduzioni per pianoforte a 4 mani del Macbeth e del
Simon Boccanegra. Di quelle delle altre opere di Verdi ne abbisognava di una copia
ognuna, come pure della partitura della Sorrentina, che sperava di rappresentare.
«Mandami anche il mio conto, ma ti prego a non scrivermi in tono mercantile come
l'ultima in Londra che mi mise di assai cattivo umore e che fu la causa per cui non ti
scrissi mai. [...] Su questa piazza vi è gran bisogno di spartiti e parti d'orchestra, e
quando ho un poco di denaro voglio fare una speculazione».
Nel febbraio 1859 la rivista musicale trovatore riportò che Muzio aveva composto una
sinfonia d'apertura per la Bokemian giri, opera in lingua inglese di Balfe e, nel giugno,
un "Allegro" interpolato nel Poliuto cantato dalla Piccolomini. Aveva inoltre scritto delle
composizioni, che si vendevano con l'editore Breussing. L'attività di direttore
d'orchestra procedeva per il meglio: «Abbiamo fatto una recita per le famiglie povere
dei contingenti Italiani che fruttò 2204 scudi, su un'entrata di 3000 lordi. Anche
quest'anno avremo una grande compagnia», con cui mettere in scena I vespri siciliani
e altre novità per gli Stati Uniti.
La risposta di Ricordi, probabilmente, usava ancora una volta «un tono mercantile», in
quanto il 20 luglio Muzio gli scrisse con tono secco e risentito di inviargli il conto
dettagliato, non intendendo pagare musiche che non aveva ricevuto. Verdi avrebbe
liquidato per quello che egli aveva richiesto e, «in quanto alla Sorrentina avendola
tutta nel mio capo la istrumenterò e farò cavare le parti, ed il profitto sarà mio»
Rapportando le date, é impossibile che l'irascibile Emanuele rispondesse a una lettera
di Ricordi: è probabile che l'ufficio amministrativo dell'editore avesse inviato un
estratto conto che si era incrociato con la lettera amichevole dell'8 luglio.
In conseguenza dello screzio, nell'autunno inviava a Verdi 400 lire affinché «prima di
tutto si paghi Egli stesso i franchi 63 e centesimi 48, il resto lo dia a mia madre per le
feste ed il buon anno». 163 franchi e spiccioli erano per pagare quella musica che
aveva commissionato all'editore: «Io non scrivo a Ricordi ne scriverò forse mai più,
perché non e che un uomo molto piccolo!».
Anche l'invio di queste ultime musiche scatenò l'ira di Muzio, che accusò l'editore di
non aver effettuato la spedizione via Le Havre, da dove ogni settimana vi erano dei
battelli per l'America del Nord, bensi da Genova con uno steamer che era partito il 15
dicembre, e che non sarebbe arrivato negli States prima della fine di gennaio. La
collera era rinfocolata dal fatto che gli era stato inviato ancora una volta il conto delle
musiche di Londra.
Dopo una stagione a Boston, il 7 novembre 1859 presentò all'Academy of Music di
New York, per la prima volta negli States, un'ottima edizione dei Vespri siciliani,
contribuendo così alla conoscenza della musica del suo Verdi. L'allestimento era ricco,
e le prove con il coro erano addirittura iniziate ad agosto.
Anche se saltuaria - forse molte lettere si sono perdute - la corrispondenza con il
maestro continuava: oltre alle notizie sull'attività musicale, ogni tanto inviava
informazioni su quanto avveniva in quella parte di mondo tanto lontano: «Avrà letto
nei giornali europei esagerazioni della rivolta nella Virginia. Brown è un pazzo, e
l'emancipazione degli schiavi non sarà mai possibile». Jolm Brown, infatti, era stato
condannato a morte e impiccato, per aver tentato di sollevare gli schiavi nella Virginia,
fornendo cosi un'ulteriore esca per lo scoppio della guerra di secessione americana:
«Il Sud deve cadere nelle mani del Nord. Tutta la raccolta del cotone è stata pagata
dal Nord, e se il Sud vorrà dar da mangiare ai negri, dovrà passare per il Nord per il
grano. lo sono "Union men" non sono per la separazione, ed il Sud ha diritto alla
proprietà degli schiavi, e se l'Inghilterra se ne immischierà troppo perderà il Canadà
ove è una grande agitazione. L'Inghilterra senza il cotone è morta, e per questo piega
la testa col America. Questo è un gran paese, ricco, troppo ricco e potente».
Una attività nella quale Muzio raccolse grandi meriti, fu quella di maestro di canto che,
proprio negli Stati Uniti, consegui risultati che possono definirsi eccezionali... tra cui
anche il coniugio. la prima di queste allieve americane fu quella che diventò il soprano
più famoso di tutto il secolo, Adelina Patti.
Muzio aiutò sempre nel decollo i suoi alunni, e i carteggi sono pieni di raccomandazioni
o richieste di audizioni: non gradiva, però, che altri si appropriasse dei frutti delle sue
fatiche. Venticinque anni dopo, stanco di vedere sempre pubblicato che la Patti era
allieva di questo o di quello, e leggendo adesso sul Times che la preparazione
musicale era stata opera di un ungherese, scrisse una precisazione al giornale
londinese, e ne inviò copia alla Gazzetta musicale di Milano e alla Gazzetta dei teatri.
La rivista di casa Ricordi del 17 agosto 1884 riportò in bella evidenza la lettera,
titolandola L'educazione musicale della Patti:
Signore,
Nel Times del 26 luglio si asserisce che Adelina Patti imparò la musica ed il canto da
un professore ungherese. Permettetemi, o signore. di stabilire la verità, essendo io
stato il suo primo direttore musicale e d'orchestra all'Accademia di musica di Nuova
York, quando per la prima volta essa vi cantò nella sera del giorno di rendimento delle
grazie (Tanks giving Day), giovedì, 24 novembre 7859.
Essa non ebbe mai un maestro ungherese. Il suo primo maestro di musica fu,
quand'essa era ancora fanciulla, la signora Paravalli, una prima donna italiana; indi i
suoi fratellastri Antonio ed Ettore Barili. Il primo morì a Napoli or sono alcuni anni, ed
il secondo è tuttora vivente ed esercita la professione di maestro di canto a Nuova
York.
Nell'anno 1859 i signori B. Ullmami e Maurizio Strakosch erano impresari associati
dell'Accademia di musica. Le prime donne scritturate da quest'ultimo in Europa,
Crescimanno e Speranza, fecero fiasco.
In tali tristi circostanze, la sorella di Adelina, madama Strakosch, suggerì l'idea di far
esordire la sua piccola sorella. Il marito vi si oppose dicendo che era troppo giovane.
Io fui chiamato al teatro, ed essendo direttore d'orchestra, fu lasciato a me il
decidere, e dopo avere udito un solo pezzo cantato da lei, diedi la mia decisione
favorevole per il debutto.
Strakosch era invariabile nella sua opposizione, ed Ullmann disse: "Io fo come Ponzio
Pilato, me ne lavo le mani; se avrà lieto successo. meglio per voi". I patti della
scrittura furono stabiliti col suo patrigno Salvatore Barili, e la paga fu fissata in 100
dollari per rappresentazione. cominciai allora ad insegnarle la Lucia di Donizetti nella
casa di Strakosch. Appena seppe la parte, ordinai una prova al pianoforte cogli altri
artisti, che erano Brignoli, tenore, Amodio, baritono, Godetti, basso. Tutti gli artisti
rimasero incantati e sorpresi per la bellezza della sua voce. Alla prova d'orchestra
sorprese tutti, ed ebbe una vera ovazione dai professori. Alla prova generale, alla
quale furono invitate centinaia e centinaia di persone, produsse la più grande
sensazione; ed alla prima rappresentazione, 24 novembre 1859. destò grande
entusiasmo, e dovette ripetere il finale e la scena della maledizione.
Dopo averle insegnato la Lucia, le insegnai la Sonnambula Indi il signor Manzocchi,
maestro di canto di molto talento, le fece imparare il Barbiere. i Puritani, ecc. Il di lei
successo non venne mai meno, durante le due stagioni che cantò all'Accademia di
musica.
La conclusione è questa: che Adelina Patti non venne educata nella musica da un
maestro ungherese, ma da maestri italiani, che soli posseggono la vera tradizione
della buona scuola di canto, e furono la signora Paravalli, Ettore ed Antonio Barili,
Muzio e Manzocchi.
Credetemi vostro servitore devoto
Emanuele Muzio
già direttore musicale dell'Accademia di musica di Nuova-York, degli Italiani a Parigi, a
Milano, Venezia, Bologna, ecc.
Nel 1860, l'anno dei grandi rivolgimenti della storia d'Italia, Muzio era a New York,
dove diresse le stagioni di primavera e di autunno all'Academy of Music. L'11 agosto
dette un concerto per raccogliere fondi a favore dei Mille, e, per l'occasione, eseguì un
suo Rataplan di Garibaldi, che «avrebbe eccitato anche i sassi», e che portò notevole
contributo alla cassetta.
Quando Verdi fu eletto deputato, Muzio gli scrisse: «non fo congratulazioni per la sua
elezione perché pochi hanno contribuito al movimento italiano più di Lui; la sua
musica, i suoi cori di Nabucco, Lombardi furono i primi a mettere in movimento il
popolo. Tutti i giornali americani applaudono a questa elezione».
Anche se tornare sulla devozione nei confronti del maestro é un oleografico luogo
comune, è certo che il modo di esprimere i sentimenti nel secolo scorso - vedi
l'amato/criticato Cuore di De Amicis - era ben diverso da quello di oggi. Il 19 marzo
1861 scriveva a Verdi:
Car.mo Maestro
E' un bel giorno oggi che è il giorno della sua festa e della Sig.ra Peppina, ed io non
potrò mai dimenticare d'augurare a tutti e due le più grandi felicità e tutto ciò che può
rendere felici, beati e contenti due persone che amo più di me stesso e quanto la
madre mia. Siano entrambi benedetti, si ricordino di me, mi amino sempre e quando
hanno qualche minuto di tempo le Loro notizie arriveranno sempre care a me lontano
dalla mia patria, dalla famiglia, dagli amici e dalle persone che amo di più in questa
terra.
Se nella Gazzella dei teatri del 13 marzo, dopo che Muzio aveva presentato per la
prima volta negli Stati Uniti Un ballo in maschera (New York: Academy of Music, 11
febbraio 1861) si leggeva:
«Giammai prima d'ora si vide questa immensa mole così gremita di popolo, giammai
prima d'ora alcuna nuova opera ottenne sì grandioso trionfo», una settimana dopo a
Boston ebbe un'altra grande soddisfazione come maestro di canto: «ieri debuttò Clara
luigia Kellog mia allieva nella Linda con immenso successo. Questa sarà una grande
artista, ha intelligenza, voce, sentimento e bella pronuncia». Non sbagliò nel
pronostico: la Kellogg ebbe una brillante carriera anche fuori dagli Stati Uniti e, donna
di teatro, diventò, terminata la carriera, impresario, avendo sposato uno degli epigoni
della famiglia Strakosch, Carl.
La Kellog, in Memoires of an Anzerican prima donna, narrò che l'insegnamento del
canto veniva impartito alle signorine della buona società americana da docenti
europei, ma la sola idea che una di loro salisse poi sulle scene avrebbe fatto
impallidire le famiglie. Per una fanciulla ben nata era escluso che potesse frequentare
la gente dello spettacolo: «Non esistono persone decenti sul palcoscenico!». Esse
potevano vederle solo con interposta la grande distanza che in teatro separa la scena
dal pubblico. E questa distanza si apri tra lei e gli amici "per bene" quando disse che si
era resa conto che era migliorata al punto da giustificare le sue ambizioni in questo
campo.
«Ero sicura di essere predestinata a diventare una cantante. Sentivo che era la mia
vita e la mia eredità, che ero fatta per esso, e che nulla avrebbe potuto darmi
maggiori soddisfazioni. E Muzio mi confermò che ero nel giusto. In altri sei mesi sarei
stata pronta per il debutto. Muzio - scrisse sempre la donna - era un uomo eccentrico,
nervoso, brusco, rosso di capelli, del Nord Italia, dove il tipo sembra sempre tedesco.
Si diceva che fosse fuggito a causa dei moti politici in Italia, ma non ne ho mai avuto
conferma. Certamente era una importante personalità nel mondo dell'opera di New
York del tempo, ed era un coltissimo musicista con le tradizioni dell'opera italiana sulla
punta delle dita. Essendo uno dei direttori dell'Opera, organizzava dei giri di concerti,
e promise di fare in modo che io potessi avere la mia opportunità. A Muzio sono
debitrice del mio canto. Prima del debutto nell'opera, mi portò in una tournée di
concerti della durata di alcune settimane. Ero un membro "utility" della compagnia, e
cantavo per tappare i buchi. Ci esibivamo quattro volte alla settimana, e ricevevo 25
dollari ogni volta, 100 dollari alla settimana: non male per una inesperta
diciassettenne, quantunque Muzio considerasse il giro per me soltanto come istruttivo,
e parte integrante della preparazione. Mia madre viaggiava con me, ed ero sempre
sotto il suo sguardo.
Iniziammo la tournée nell'ottobre 1860 a Pittsburg, e fu nella vecchia Monongahela
House che detti la mia prima prova con la cavatina della Linda di Chamounix,
quell'opera che presto avrei cantato per intero. La tappa seguente fu il 22 novembre a
Cincinnati, poi il 25, dopo Chicago, Detroit. Qui la Colson si ammalò, e io ebbi
l'opportunità di essere in quell'occasione la prima donna.
I giri in quei tempi erano faticosi: la sistemazione durante i trasferimenti scomoda,
gran parte degli alberghi pessimi, i treni lenti, le coincidenze incerte»...
La Kellog ci fa anche conoscere quali fossero gli orientamenti del suo docente: «anche
la Sonnambula servi a fissarmi nella mente le tradizioni dell'opera italiana. Per lui, in
particolare, l'insegnamento delle opere più antiche erano la migliore scuola per un
cantante».
Muzio fu fiero del suo soprano, il quale scrisse ancora: «La Clara Louise Polka fu
composta per me dal mio vecchio maestro Muzio e, quando potevo, infranunezzavo
delle arie nel corpo delle paniture delle opere, e la cantai nel finale della Linda di
Chamounixn»
La compagnia che Muzio portava per l'America, e della quale era impresario e
direttore d'orchestra, era italiana con tre soprani americani. Benché i giornali fossero
pieni delle notizie politiche a causa dei contrasti che scuotevano il paese, notevole
spazio venne dedicato alla tournée.
La stagione a Boston, dove debuttò l'allieva, durò due settimane e comprese, oltre alla
Linda di Chamounix, un notevole numero di produzioni. Clou, quella che nel manifesto
era indicata come «l'ultima opera di Verdi», fu Un ballo in maschera, riguardo al
quale, a un giornalista che lo intervistava, Muzio affermò che, diversamente dalle altre
opere, aveva avuto successo sin dalla prima rappresentazione. Secondo l'abitudine di
intervenire sui lavori a seconda delle circostanze locali, presentò l'opera in quattro
atti:anziché in tre, compose un galop espressamente per il Teatro di Boston, e invitò il
pubblico a ballare sul palcoscenico. Il manifesto annunciava che i biglietti per questo
ballo erano riservati ai patrons del teatro, aggiungendo con estrosa fantasia, per
coloro che non lo sapevano che il danzare sul palcoscenico durante la scena del ballo,
era un'abitudine dell'alta società europea.
Un giornalista francese del Courier des Etas-Units, De Trebetand, scrisse che a Boston
nessuno si vestiva in modo particolare per andare all'opera «perché sembra che essi
non ammettano ancora che nell'andare all'opera ci sia qualche altro piacere oltre a
quello di ascoltare coscienziosamente la musica». E più avanti rilevava «che a Boston
la musica è veramente amata, non soltanto fra le persone eleganti, che si addobbano
per andare nella platea. ma anche fra le classi medie, che riempiono le balconate, i
prezzi delle quali sono moderati». Nei palchi, infatti, andavano i forestieri. Un ballo in
maschera ebbe successo, e Muzio dovette aggiungere una terza rappresentazione: le
critiche furono altamente laudative, ma fu rilevato altresì che il ballo sul palcoscenico
era stato un fiasco totale.
Sempre nello stesso anno, Muzio stava lavorando a un'opera, La scommessa: non
sappiamo se fu finita, è certo che non fu mai rappresentata.
In aprile ebbe inizio la guerra di secessione con il bombardamento di Fort Sumter, ed
è interessante seguire le notizie del conflitto attraverso le lettere di un Muzio, che si
atteggiava a stratega: i nordisti non avevano ufficiali capaci, due generali, infatti
erano ex avvocati, mentre il Sud ne vantava di buoni: alla lunga, però il Sud avrebbe
perduto, ma non vi sarebbe stata comunque l'abolizione della schiavitù, in quanto
questa era un'utopia. Se liberati, gli schiavi non avrebbero più lavorato. contentandosi
di vivere di banane, di cui ce n'erano interi boschi... E ancora: «Quando il Nord con le
sue armate va da un lato, quegli del Sud sortono da un altro e mi pare qualche volta
che giochino a gatta cieca. Si ha confidenza nel generale Grant e credo veramente che
sia uomo di genio. Ma il generale Lee del Sud li vince tutti nella scienza strategica.
Non c'è alcun prospetto che la guerra possa finire né in due né in tre anni...».
Dopo quasi due anni di silenzio, il 20 agosto 1861 tornò a scrivere a Ricordi. E' una
lettera che non ha l'aria di essere la prima dopo un cosi lungo silenzio, ma analoga
rarefazione si riscontra nella corrispondenza con il maestro. Pur non avendo pagato la
fattura per il materiale londinese, conto che era stato causa del dissidio, chiedeva di
far tirare a Parigi le parti della Sorrentina, dato che negli Stati Uniti non c'erano dei
copisti in grado di effettuare il lavoro. L'aspirazione era di rappresentare l'opera nel
prossimo inverno a La Habana, dato che della compagnia avrebbe fatto parte la
Basseggio. Si raccomandava che il prezzo fosse modico, in quanto «quest'anno gli
affari vanne male assai».
Per l'incertezza della situazione americana, nella stagione di dicembre a marzo 186162, malgrado la paura della febbre gialla ch imperversava nella stagione calda a Cuba,
accettò una scrittura per La Habana, dove venne pagato 700 scudi al mese, ossia
tremila franchi. Da qui si lamentava con l'editore di non aver ricevuto in tempo la
musica della sua opera, «e la Basseggio che qui è piaciuta avrebbe potuto presentarla
nella beneficiata». In giugno. ritornato in Italia, comunque avrebbe saldato di persona
il debito per La Sorrentina: ribadiva nel contempo che non avrebbe pagato le musiche
di Londra, in quanto mai ricevute.
La stagione habanera sarebbe dovuta terminare il 15 marzo, ma, per il successo
incontrato dai Vespri siciliani, era stata prolungata fino al termine del mese. Aveva
presentato tre opere nuove: Un ballo in maschera, Araldo, e Vespri. «Qui l'impresa,
dato che paga bene, può imporre anche alle prime parti di fare parti anche
secondarie». La compagnia si sarebbe portata poi a New York, dove in primavera
avrebbe dato vita a una breve stagione.
Nel novembre 1862 l'impresario Jacob Grau, che Muzio otto mesi dopo presentò a
Ricordi come «un onesto uomo ed un gentiluomo», allestì a New York una compagnia
con la quale puntava in particolare su La traviata e il trovatore. Il 17 dicembre
auspicava con Ricordi di poter rappresentare La forza del destino, della quale
anivavano eccellenti notizie direttamente da Pietroburgo: al momento, però, il cambio
con la valuta europea era sfavorevole, e il costo sarebbe risultato troppo elevato.
Rinviava il saldo a tempi migliori, in quanto attualmente gli sarebbe costato il 46% in
più: sperava di poter pagare presto, utilizzando una carta di prestito al 4% che era
allo studio del Congresso, per evitare l'aggravio di costo per gli spettacoli. Continuava
con notizie sulle operazioni militari. cui i giornali europei non dedicavano grande
spazio. «La guerra non va bene siamo ancora battuti a Frederiburg. Non è che in
Virginia che la guerra va male perché è i diretta da due o tre abolizionisti che spesso
creperanno. Nel West va assai bene, cosi pure nel Golfo. La spedizione contro Mobile,
Charleston, Savanah farà finire il contrabando col Inghilterra».
Nella primavera 1863 presentò a Boston diciannove opere in una stagione di sei
settimane, continuando poi verso il West, passando da Philadelphia, Baltimora, per
ritornare poi a Washington. Durante questa tournée vi fu una svolta nella vita di
Muzio. Aveva quarantaquattro anni, una discreta posizione economica, e decise, così,
di formarsi una famiglia: con una giovanissima allieva, Lucy Simons, «una amabile
donzella della Transilvania, che nella Repubblica degli Stati Uniti aveva sino da
fanciulla abitato», cosi il Belforti. Il giorno stesso del matrimonio. il 3 aprile 1863, il
neo sposo dette la notizia al Barezzi:
Sarà per lei una grande sorpresa il leggere in queste due linee che oggi mi sono
ammogliato alle 9 ed alle 12 sono partito per la California. Il mio viaggio di concerti
sarà di qualche mese, ma spero che tutto andrà bene nell'Eldorado.
Questa maledetta guerra finirà fra poco e potremo avere un poco di prosperità;
intanto io parto e spero alla fine del mese, quando arriverò a San Francisco, di sentire
che la pace è conclusa.
Mia moglie sa quanto lei ha fatto per me e ne sente riconoscenza come me stesso.
Non si hanno notizie né del rito, ne dei testimoni. E' certo, in quanto della cosa si
dovette parlare dieci anni dopo, che la sposina, pur provenendo da una famiglia
abbiente, non portò un solo cent di dote. La circostanza fece reputare superflua la
stesura del contratto di matrimonio, quel contratto che si usava stendere tra i
promessi prima della celebrazione delle nozze, per regolare i rapporti tra i coniugi.
Non contemplato dalla romantica ma oppressiva legislazione italiana - che non
prevedeva alcun tipo di deroghe ai diritti e doveri che il codice imponeva, anche dove
la libertà individuale poteva benissimo trovare esplicazione - questo contratto era
invece largamente in uso in paesi dalle tradizioni molto più democratiche. quali gli
Stati Uniti e la Francia. Definito sì «una cinica lettera di non amore», disponeva
preventivamente sui diritti e doveri, regole e sanzioni, divisione dei beni, educazione
dei figli, nonne di comportamento: un pratico e civile mettere le mani avanti senza
falsi pudori, nel caso che il matrimonio non si rivelasse nel prosieguo eterno e unico,
come il legislatore italiano faceva finta di credere.
Qualche notizia sull'attività della Simons l'abbiamo trovata: nulla di particolare, e
sempre, o quasi. all'ombra del consorte. Il debutto avvenne sei mesi dopo le nozze, il
9 ottobre 1863, alla living Hall di New York, dove cantò qualche aria di contorno
all'esibizione del sensazionale virtuoso statunitense, il pianista Louis Moreau
Gottschalk. La stampa segnalò che era alunna di Muzio, come pure il 24, quando
tenne il secondo concerto, che era allieva anche la debuttante Louise Vivier Altri
concerti con il marito al pianoforte, furono dati pro militari feriti e ammalati.
Nel gennaio 1864. malgrado la guerra, Muzio lavorò intensamente: Albany, Buffalo,
Rochester, Cleveland, Chicago, St. Louis, Cincinnati, Louisville. Qui era vicino al teatro
delle ostilità «che mina tutti senza far del bene ad alcuno. Neppure ai negri, per i quali
dicono di battersi». Gli americani, però, continuavano a spendere allegramente, e non
vi era pubblico divertimento che non fosse frequentato. Il lusso era dappertutto e la
carta moneta, che aveva sostituito l'oro in corso forzoso, girava vorticosamente: tutto
aumentava di prezzo e le tasse erano "enormi". «Anch’io devo pagare il 3 per 100
sopra tutto ciò che guadagno al di sopra di 600 dollari; e mi hanno cercato i conti sino
dal 1862»
Alla fine della crisi, però, «il paese sarebbe diventato il più grande e prosperoso di
qualunque altro al mondo».
Circa il gusto musicale altra notizia ci viene da alcuni spettacoli, nei quali cantò anche
la Simons: nel 1864-65 il pianista Gottschalk dette una serie di concerti nei quali
vennero eseguite la marcia del Tannhauser e una fantasia sul Faust da lui arrangiati
per sei pianoforti, suonati dallo stesso e da Charlie Fradel, Harry Sanderson, Henry
Lesseive, Eugène Trastour ed Emanuele Muzio. Il 15 luglio 1865, poi, dopo un anno di
concerti, in una tournée diretta dal marito, la Simons debuttò come prima donna nei
Puritani a San Francisco; nell'autunno fu nell'Elisir d'amore al Crosby's Theatre di
Chicago, cui seguirono La sonnambula, e Fra Diavolo, mentre nel marzo 1866 si
presentò all'Habana ancora nei Puritani. Dovette trattarsi di esecuzioni poco incisive,
se consideriamo lo scarso numero delle presenze, rapportato alla quantità degli
spettacoli che il marito diresse nello stesso periodo.
Di miss Lucy Simons, come di tante cose di Muzio, si sa poco: il matrimonio era
probabilmente la conseguenza dell'infatuazione momentanea di un uomo maturo e
solo nei riguardi di una giovane donna. Giuseppina Strepponi osservava con Corticelli:
«Non so se Emanuele ha fatto bene o male a sposare una donna tanto giovane. Vi
devono essere fra loro almeno venticinque anni di differenza», e in un'altra lettera:
«lo voglio molto bene ad Emanuele, ma temo ch'egli sia e debba rimanere ancor per
molto tempo ragazzo, quanto alla conoscenza del mondo»
Dal non tranquillo matrimonio nacque un bambino nell'estate 1866. Il 16 giugno Muzio
aveva infatti scritto da New York a Barezzi, scusandosi per non averlo fatto per
quattordici mesi: ma aveva tanto girato...: «Ora resto fermo per una ragione suprema
e grave: sto per diventare padre e aspetto quest'evento di giorno in giorno». Aveva
deciso che il nascituro si sarebbe chiamato Giuseppe se maschio, Giuseppina se
femmina. il piccolo, che forse avrebbe potuto salvare l'infelice matrimonio, morì dopo
un mese di vita.
Della sofferenza, del dolore, del rimpianto. Emanuele scrisse solo al maestro. In lui
rimase il desiderio della paternità: crediamo di ravvisare questa aspirazione nel fatto
che per anni tenne presso di sé i fratellini della moglie, li allevò, si occupò della loro
istruzione e dei loro svaghi, quasi fossero suoi, e di come in seguito si comportò con
Eugene Durot. Probabilmente non prese nemmeno il lutto: troppo presto il bambino
era morto perché scattasse quell'obbligo sociale per la rappresentazione esteriore del
cordoglio, che esigeva tutto un rituale perfettamente codificato. E, a quei tempi, la
mortalità infantile era all'ordine del giorno.
Nel maggio 1866 Muzio rimase anche senza teatro: era infatti andata a fuoco a New
York l'Academy of Music dove, fino a dieci minuti prima, aveva diretto L'ebrea. Erano
iniziati i lavori di ricostruzione, e sarebbe stato riaperto a novembre. Da tanto tempo
aveva desiderio di rivedere l'Italia anche se l'America, ammetteva, «quando se ne
conosce la lingua, le istituzioni, le leggi, si ammira prima e poi si finisce ad amarla». Il
luttuoso evento, oltre al fatto di essere momentaneamente senza impegni, fu la molla
che lo spinse a mettere in atto l'aspirazione.
CAPITOLO IX
La Messa di Rossini
Dopo otto anni di permanenza in America, Muzio era così ritornato in Europa. La prima
tappa fu a Parigi dai Verdi, poi a Busseto, per presentare la moglie ai suoi e a Barezzi.
Dopo la visita. Giuseppina gli scrisse: «La sua partenza da Parigi ha lasciato un gran
vuoto! Nel ristretto numero dei nostri amici, il rivederla ogni giorno, dopo tant'anni
d'assenza, ci aveva ringiovaniti e riportati al tempo in cui Ella viveva spesso con noi
ed era come un parente in generale, un intimo e carissimo amico. Era forse meglio
ch'Ella non ritornasse in Europa... noi eravamo rassegnati alla lontananza: ora,
quand'Ella ritornerà in America (dov'Ella deve ritornare se ha fede nel consiglio de'
suoi vecchi amici), ci parrà di perderla una seconda volta».
Evidentemente Verdi era dell'avviso che dovesse continuare la carriera negli Stati
Uniti: a conoscenza delle voci malevoli che giravano circa gl'influssi attribuiti al suo
allievo, reputava fosse meglio tenerlo lontano da dicerie così meschine. Giuseppina si
prese il carico di tenere la corrispondenza con Lucy, e dai copialettere risulta che si
esprimeva in un inglese alquanto stentato del quale, pertanto, si giustificava:
«Quando vi scrivo in francese o in italiano dovete pensare: "Non ha tempo di sfogliare
il vocabolario"».
Muzio non accolse il suggerimento di ritornare in America e, data la grande
conoscenza che aveva del teatro, unita al poderoso appoggio di Verdi, non gli fu
difficile rientrare nel giro.
Sette anni prima, il 6 aprile 1859 il Teatro La Fenice di Venezia aveva chiuso la
stagione di carnevale: era poi scoppiata una crisi politica conclusasi con la terza
guerra di indipendenza, e il teatro era rimasto inattivo diversi anni. Il 31 ottobre 1866
riapri con Un ballo in maschera, concertato e diretto da Franco Faccio con l'assistenza
di Emanuele Muzio. L’8 novembre, con il teatro illuminato straordinariamente, venne
ricevuto Vittorio Emanuele II: la serata iniziò con una cantata d'occasione di Antonio
Buzzolla, Venezia liberata al suo re, cui il 10 segui una cavalchina «nella quale onorò
di sua presenza Sua Maestà»
La stagione d'autunno chiuse il 25 novembre, e subito dopo cominciarono le prove per
il carnevale 1866-67: Muzio venne scritturato e, con una compagnia che annoverava i
bei nomi di Giuseppe Beneventano. Angela e Mario Tiberini, concertò e diresse I
puritani. Don Diego de' Mendoza, Matilde di Shabran. Lucia di Lammermoor, Faust e
L'assedio di Corinto.
Venezia non era la gaia città di qualche anno prima: la terza guerra di indipendenza
era appena finita e, anche se in modo non del tutto onorevole, il Veneto era entrato a
fare parte del Regno d'Italia. Avendo perduto l'ampio retroterra costituito dall'impero
asburgico, di cui rappresentava uno dei porti più importanti, adesso nella città
lagunare regnava la miseria, e vi erano tanti poveri per le strade «da straziare il
cuore». Questi, però, a leggere Muzio, dicevano con orgoglio: «Abbiamo fame, ma
viva il nostro re».
Tra le opere della stagione vi fu una prima assoluta: Don Diego de' Mendoza, scritta
espressamente dal più che settantenne Giovanni Pacini. Muzio, sempre critico con i
compositori che non fossero il suo Verdi, scrisse a Barezzi: «Il teatro qui va
abbastanza bene, ora stiamo provando una nuova Opera di Pacini che ci dà molto da
impazzire perché è sì vecchio il povero uomo che non si ricorda egli stesso cosa abbia
scritto».
Nelle Memorie artistiche il compositore catanese riportava: «Sembra impossibile!
eppure in sedici giorni il mio lavoro fu concertato ed esposto al giudizio di quel
pubblico, che per innata gentilezza non ha pari, e per assennato giudizio non la cede
ad altri d'italia. [...] il successo del mio Don Diego ottenuto nella maravigliosa e
singolare città dei Dogi é ben noto, sicché ne serbo il silenzio: dirò solo, che se trovai
nei celebrati coniugi Tiberini due amorevoli figli, ebbi del pari nel non men valente
Beneventano e nell'illustre maestro Muzio simile affettuosa assistenza. Né tralascerò
di rammentare la mia profonda commozione, allorché, dopo la terza rappresentanza,
l'intera orchestra volle onorarmi di una dimostrazione che non mi uscirà mai dalla
mente, qual fu quella di accompagnarmi in mezzo ad una moltitudine di popolo alla
mia abitazione. [...] La quarta sera che doveva rappresentarsi egualmente il mio Don
Diego, accadde la famosa inondazione, di cui memoria d'uomo non ricorda d'eguale.
Tutta Venezia trovavasi sott'acqua, e la Piazza San Marco offriva uno spettacolo
veramente singolare. Le gondole galleggiavano sopra l'acqua in quella vasta piazza,
ed il caffè Quadri era tutto inondato, di guisa che ognuno entrava in quell'elegante
ritrovo, trasportatovi dalle stesse gondole, per assaporare quella deliziosa bibita onde
l'intrepido Colombo, con le sue scoperte, a noi fece dono. Fu forza quindi in quella
sera tener chiuso il Teatro della Fenice e quanti altri ne conta la città regina dell'Adria.
Il giovedì susseguente riprese il suo corso il mio lavoro festeggiato dal pubblico al pari
delle sere antecedenti...».
Il trionfalismo dell'autore contrasta con quanto il direttore d'orchestra scriveva
all'editore: l'opera andava male ed era disertata dal pubblico. Era pertanto intento alle
prove della Matilde, per sostituire il lavoro di Pacini dalle scene. Quello stesso giorno
poi gli inviò un telegramma per comunicargli che il padre di Verdi era deceduto due
giorni prima, notizia di cui era stato informato da Giuseppina.
Sempre da Venezia abbiamo un accenno circa l'attività artistica di Lucy Simons. Il 19
marzo Muzio si rivolse a Ricordi per farsi inviare la parte della protagonista della
Dinorah, in quanto probabilmente la moglie l'avrebbe cantata al Her Majesty's Theatre
di Londra, ed era suo intendimento fargliela ripassare prima di partire da Venezia.
Chiedeva anche «quell'aria di Rossini introdotta dalla Bishop nelle Cantatrici villane».
in quest'occasione espresse il parere circa la più famosa opera di Gounod, che stava
dirigendo: «Faust non piacque, ne piace, ne piacerà! La compagnia ha qualità
negative per quella musica; il publico non ha voluto darsi la pena di fare atenzione alla
musica troppo seria dicono, troppo misticismo, in alcune parti e per nulla divertente».
Malgrado questa opinione, l'opera rimase in cartellone fino alla chiusura della
stagione, il 6 aprile. Seguirono due recite straordinarie con una sinfonia di
Mercadante, lo Stabat Mater di Rossini, il terzo atto del Forest e il ballo Flik e Flok,
diretto quest'ultimo dal primo violino ai balli Alessandro Ghislanzoni.
E' di poco tempo dopo una lettera sibillana a Verdi, dalla quale arguiamo che dovesse
essere successo qualcosa con la moglie, le cui ambizioni evidentemente lo avevano
messo in una situazione imbarazzante: «Dovrò dunque esiliarmi e far mettere
all'ostracismo del teatro mia moglie; non so se avrò il cuore per mettere ad effetto
questo rimedio un po' da Spartano: sono risoluzioni che non si prendono su due piedi,
e non bisogna precipitarsi per poi pentirsi. Non nego che nel eccesso del dispiacere fu
questo il mio primo pensiero, ma siccome tornando in America direi addio al teatro e
farei il professore, cosi sono a tempo anche di qui a tre mesi».
Terminata la stagione al Teatro la Fenice, fissò la residenza a Parigi, al n. 5 di rue de
Luxenhourg, dove riprese a dare lezioni di canto. In questa attività, che divenne
sempre più intensa con gli anni oltre alla già menzionata Kellog, vi erano state anche
le sorelle Adelina e Carlotta Patti. Adelina rimase sempre affezionata al maestro,
anche quando all'apice del successo il suo nome era accompagnato dall'attributo
"divina". Per riconoscenza gli donò dodici bottoni d'oro, su ciascuno dei quali aveva
fatto incidere una delle lettere di cui si compongono i nomi «E. Muzio, G. Verdi».
A Parigi era in corso la prima Esposizione Universale, che aveva reso la metropoli
capitale del mondo: Muzio non voleva allontanarsi in quanto, data la frequenza con cui
giungevano le maggiori autorità, avrebbero potuto crearsi per lui delle situazioni
favorevoli per una sistemazione definitiva «o qui in Parigi o in Pietroburgo». Per
questa ragione, ma anche per dei problemi non meglio specificati con la moglie, aveva
rifiutato una scrittura per la stagione estiva al Gran Teatre del Liceu di Barcellona,
dove sarebbe stato retribuito 2000 franchi al mese.
Il 21 luglio 1867, alle dieci di sera, decedeva a Busseto Antonio Barezzi. «lo ne ho
conosciuti di uomini, ma giammai uno migliore»: questo. forse, il più alto onore che
una persona potesse ricevere, considerato che a proferirlo fu Giuseppe Verdi.
Malgrado il rifiuto iniziale, Muzio successivamente accettò la scrittura spagnola. Dopo
che il 3 settembre. Lucy Simons si era esibita nella parte secondaria di Lisa nella
Sonnambula al Theatre Italien diretta da Skoczdopole, conseguendo quel certo
riconoscimento per cui venne chiamata nel gennaio 1868 per interpretavi Il templario,
la coppia parti per Barcellona.
Il 25 settembre Muzio descrisse a Verdi il viaggio: era stato in treno assieme al tenore
Enrico Tamberlick e alla Didié, che avevano prenotato un intero scompartimento, "un
coupé"; il tragitto era stato buono ma noioso, e alla frontiera tra Francia e Spagna non
avevano nemmeno richiesto il passaporto. Lamentava di essere sottosopra per trovare
un alloggio che fosse almeno pulito, in quanto abitava in un albergo che costava
troppo: venti franchi al giorno per una camera per due persone. Era inoltre
preoccupato in quanto, dopo aver visto i tre impresari, aveva avuto l'impressione di
trovarsi dinanzi a dei galeotti.
Finalmente trovò un grazioso appartamento sulla Rambla - lo stesso viale sul quale si
affacciava il Gran Teatre del Liceu - composto da salotto, cinque camere da letto,
cucina, servizi e, con la mobilia, la biancheria e quanto occorreva per la casa, pagava
330 franchi al mese. Dato che aveva ospiti la famiglia della moglie e una sua amica, si
alzava alle sei, cosa che d'altronde faceva sempre, dava la sveglia alle "serve" e, nel
frattempo, si faceva il caffè «colla macchinetta che comprai a Parigi simile alla Sua»:
alle sette si recava al mercato con la cuoca «per non darle occasione a rubare»; alle
nove impartiva lezioni al tenore Steger alle dieci e mezzo faceva colazione, per recarsi
poi in teatro, nel quale aveva anche la direzione artistica dell'impresa. Al termine delle
prove, dopo aver trattato gli affari pendenti con gli impresari, andava a passeggio con
la moglie e con i fratellini piccoli di lei. «Questo clima è assai buono per la salute di
tutta la mia famiglia».
Anche dal punto di vista professionale, era soddisfatto: il teatro dell'opera di
Barcellona era nuovissimo: ricostruito nel 1862, dopo che un incendio aveva distrutto
la sala, poteva ospitare circa tremila spettatori tra la platea e i cinque ordini di logge,
e tutto era di prim'ordine. Il palcoscenico, tra i più grandi d'Europa, era
particolarmente adatto ai grandi spettacoli, ed era munito dei più recenti impianti
tecnici: la messa in scena e i costumi ricchi. Occorreva soltanto rinforzare il coro, che
aveva ventiquattro donne dalle voci deliziose. ma, per la parte maschile, pur
eccellendo nei tenori primi e secondi, era un po' debole nella sezione dei bassi.
La stagione diretta al massimo teatro di Barcellona, iniziata il 12 ottobre 1867 e
conclusa il 2 aprile, fu un vero e proprio tour de force,. Per dare l'idea del gran lavoro
effettuato, basta rilevare che Muzio concertò e diresse tutti i novantanove spettacoli,
mediamente quattro alla settimana, in cui presentò quattordici opere per intero, e
pezzi scelti di altre sedici nelle serate in cui il programma era il più vario. In una di
queste, il 17 gennaio 1868, presentò un suo galop. La guerrigliera, che fu molto
applaudito, e ripreso anche successivamente.
In questa occasione l'ultimo numero era stato riservato al celebre acrobata francese
Leotard, che dette un saggio delle sue "meraviglie ginnastiche". Il Diario de Barcelona
scrisse che era il creatore del "volo dei tre trapezi" e un vero fenomeno della sua
specialità. Il 26 il programma, che prevedeva La favorita, fu "arricchito" con una
nuova esibizione di questo "formidabile atleta". La Espana musical osservò che
palcoscenico più idoneo sarebbe stata però l'arena di un circo che non il Liceo, tempio
dell'arte, anche perché qui si era esibito da solo, essendo rimasta la sala quasi
vuota...
Oltre a ospitare numeri che con la musica avevano poco a spartire, vigeva a volte
anche l'abitudine di rappresentare l'opera lirica in maniera piuttosto libera. Se nel
Profeta si ebbe occasione di vedere inserito nel secondo atto un passo a due con i
danzatori Juan Alonso ed Elisa Piron, se venne soppressa la "preghiera" del tenore e,
siccome l'ambientazione era in Olanda, se si presentò un numero con i pattinatori ma, non avendo modo di effettuare il numero su ghiaccio. si ripiegò su pattini a rotelle
- lo spettacolo del 28 dicembre, data della commemorazione dei Santi innocenti, è da
ricordare.
Antonio Massisìmo, lo studioso che ci ha fornito le notizie di questa stagione di
Barcellona, ha specificato che in Spagna questo era il giorno dedicato alle beffe, una
sorta di primo aprile italiano. Si rappresentava il Macbeth di Verdi: se il primo e il
secondo alto passarono più o meno normalmente - anche se re Duncan era abbigliato
come uno zingaro accattone, ma con la corona in testa; se Banco, invece di dare la
mano al figlioletto e fuggire con lui, lo faceva accompagnare da un gigante scemo; se
nella scena del banchetto lo spettro aveva le sembianze di un mostro dall'enorme
testa deforme - all'inizio del terzo si presentò alla ribalta l'avvisatore per comunicare
la repentina indisposizione dell'intero coro. Interrotta la recita, si esibirono un paio di
acrobati. Nuovo avviso, e si riprese la rappresentazione. Questa volta furono invece gli
orchestrali, andati nel frattempo al bar, a non presentarsi. Entrò alla fine Muzio,
spingendo avanti due persone piuttosto alticce, che risultarono essere un violoncellista
e un pianista. Mentre tutti e tre erano impegnati in una "introduzione" melodica,
furtivamente gli orchestrali ripresero il loro posto e, a conclusione della serata,
eseguirono applauditissimi diverse composizioni sinfoniche.
Il 2 dicembre 1867 Muzio chiese a Ricordi di inviargli le partiture delle sinfonie delle
opere Giovanna la pazza, Claudia, Le due regine, e La Sorrentina: «avendo qui un
cedente orchestra voglio fare eseguire quelle mie Sinfonie io farò copiare qui le
parti..»
Oltre a esibirsi dinanzi al pubblico spagnolo anche come pianista, accompagnando il
14 marzo il basso Jules Petit nella romanza Diete me la rendra, Muzio si fece così
conoscere come compositore delle sinfonie della Claudia e della Sorrentina,
quest'ultima presentata in tre serate, tra cui quella di addio del 2 aprile.
La stagione procedeva bene: aveva messo in scena Gli ugonotti, L'ebrea, Rigoletto,
Macbeth, Roberto il diavolo, Lucia di Lammermoor e l'Otello di Rossini. Se i maggiori
successi erano stati L'ebrea, Macbeth e Gli ugonotti, la Lucia era andata male, in
quanto la prima donna era stata "assai infelice" e - scriveva a Verdi - al momento
stava provando il profeta.
La prima donna, la cui esibizione "assai infelice" aveva fatto naufragare la splendida
opera di Donizetti, era certa "senora Castri". Il Diario de Barcelona del 19 novembre
1867 aveva pubblicato: «Ci hanno riferito che al liceo dopo Roberto il diavolo si
canterà Lucia di Lammermoor, disimpegnando il ruolo della protagonista la moglie del
maestro direttore dell'orchestra, il signor Muzio. Secondo quanto ci assicurano, detta
signora ha cantato quest'opera con plauso al Teatro de la Habana». La notizia era
inesatta: Muzio aveva si diretto nell'isola caraibica la Lucia, ma non aveva osato
affidare una parte così ardua alla moglie, che aveva chiuso la stagione con un'unica
presenza ne I puritani.
La Espana musical fu brutalmente esplicita: «Non si fece nulla poiché, dati i modesti
mezzi vocali e la mediocrità del suddetto soprano per un simile impegno, al fine di
evitare un fiasco colossale, si decise di aggiornare la recita, che avrà luogo
dopodomani, 30, interpretata da un nuovo soprano, la signora Castri, scritturata a tale
scopo».
Paolina Castri si dimostrò un disastro e, protestata in tronco, venne sostituita da
Clarice Sinico che, unitamente al tenore Roberto Stagno, conseguì un successo
trionfale. che si ripeté anche nelle repliche.
Lucy Simons, che sul cartellone appariva come Lucia Muzio, cantò nella stagione otto
recite del Guglielmo Tell nella parte di Jemmy, otto nella Dinorah nel ruolo della
capraia, due dell'Ebrea (Fudossia), e comparve in due degli spettacoli a programma
vario. Doveva interpretare Violetta nel Bravo di Mercadante ma, dopo diversi rinvii a
causa dell'indisposizione del tenore Vincenzo Steger, l'opera era stata Cancellata dal
cartellone.
L'Almanaque del Diario de Barcelona para el ano 1869, nel consuntivo della stagione
del liceo, tra i nuovi cantanti citò anche la signora Muzio, «soprano de voz
bientimbrada, de bastante buen esilio é inteligencia en el canto; pero que por sus
facultades no pasa de una comprimaria para un teatro de la categoria del liceo».
Muzio aveva cercato di far rappresentare il Don Carlos di Verdi, ma, in mancanza di
voci adatte, la proposta era stata accantonata per il momento. L'editore Choudens
intanto faceva di tutto per far allestire Roméo et Juliette di Gounod: avrebbe ceduto il
diritto di esecuzione dell'opera per 2000 franchi, mentre Escudier per il Don Carlos ne
aveva richiesti 6000.
Tornato a Parigi, Muzio si dette alle speculazioni: nel gennaio 1869 si assicurò dalla
vedova di Rossini il privilegio per l'Italia della Petite messe solennelle e si era
affrettato a darne notizia a Ricordi: «Col dire che la musica sacra è cattivo affare per
l'Italia non ne diminuisce il valore. Se l'Italia è atea, o protestante tanto meglio! la
messa di Rossini deve rendere denari col teatro e non colla chiesa. Come valore
musicale è più grande dello Stabat. Vi sono quattordici numeri, e l'esecuzione dura un
ora e tre quarti. Vi sono soli e duetti per il commercio di musica insomma è un
grand'affare. Ricordati che sono molti anni che non vi è stato un sucesso musicale
universale, e se tu sei disposto ad entrare in società con me per "exploitation" [lo
sfruttamento] di questa messa fammelo sapere per telegrafo. Ti posso lasciare la
stampa a te solo; ma intendo le rapresentazioni in società con un buon quartetto di
primari artisti». Chiedeva di mantenere il silenzio sulla questione, e lo rimproverava
per non essersi recato di persona dalla vedova di Rossini per l'acquisto delle musiche.
Tre giorni dopo tornava sull'argomento: «Al concerto della beneficenza italiana pregai
Madame Conneau, Albini, Gardoni ed Agnesi a volermi cantare sotto voce senza
sprecare il fiato la messa di Rossini, furono così compiacenti che ieri sera alle otto feci
mettere al piano Jules Cohen (che l'accompagnò alla prima esecuzione in casa del
barone Pillet) e mi cantarono dal "Kirie" sino al "Amen" questa musica degli angeli,
nessuno assisteva al esecuzione che Stracosh ed io, non volli alcuno della mia famiglia
ne alcuno della sua, neppure amici di nessun artista ne di Madame Coneau era
abastanza l'onore che faceva a tutti di farli cantare una volta quella musica inspirata.
Ebbene, mio caro Tito, essa è la composizione più perfetta, più nuova dei tempi
moderni. Io seguiva l'esecuzione col ochio sulla partitura istrumentata dallo stesso
Rossini con quella chiarezza, quella sicurezza, quella conoscenza degli effetti si degli
istrumenti di fiato che d'arco che lo
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fecero uno dei più grandi maestri per l'istrumentazione, ed i miei occhi erano
continuamente bagnati di lacrime. E' inutile che ti ripeta che è un monumento
imperituro, e chi lo possederà ne avrà una rendita perpetua più sicura di quella del
5% italiano e senza imposizioni. In Italia vi sono più di cinquanta teatri fra i quali ve
ne sorto dieci che saranno felici di pagare fr. 5000 per nolo della partitura: nessun
teatro pagherà meno di 2500 fr.l..1 Ululami era ieri sera alle 121/2 in casa mia con 40
biglietti da mille franchi e gli dissi un no rotondo come l'O di Giotto. Ne associazione
ne proprietà, la tengo per Ricordi, per l'Italia, e la tengo per me per l'America.[...) In
Europa non ho quel che chiamo amici, ed in America ho quel che voglio e saraimo
felici del mio ritorno, e portando meco la messa di Rossini mi farò una rendita ed
essendo cittadino americano ho il diritto alla proprietà della musica e
rappresentazione».
Se il 30 gennaio l'affare sembrava concluso, per il gran subbuglio che questa
composizione aveva provocato nel mondo dell'editoria musicale, tutto tornò in
discussione. Ricordi pretendeva che per mercato italiano si intendessero anche Trieste
e «le future conquiste d'Italia», comprendendo in queste, pur senza specificarle,
probabilmente Roma, Nizza, la Corsica e il Tirolo; Brandus, Ullmann, Maurizio
Strakosch e il banchiere Hall non intendevano cedere su Trieste, in quanto via
commerciale aperta per la Federazione Germanica; Strakosch (che era colui che aveva
acquistato la Messa dalla vedova di Rossini per 100.000 franchi) adesso pretendeva
1000 franchi in più per cedere assieme O salutaris, avendolo pagato fuori dalla Messa;
in Francia vi era battaglia tra gli editori Brandus, Heugel ed Escudier «e siccome
l'affare è in mie mani darò la preferenza al mio amico, ma deve pagare molto, molto».
Il 2 febbraio 1869 Muzio si espresse in maniera risentita nei confronti di Ricordi che
tergiversava e, diciamo per un eccesso di prudenza, aveva telegrafato alla vedova di
Rossini per chiederle se Strakosch era effettivamente autorizzato a firmare il
contratto: «lo dovrei interpretarlo in mancanza di confidenza verso di me che da
venticinque anni che ci conosciamo ho dato prove a tuo padre, a te di amicizia,
disinteresse e di zelo per i tuoi affari» Aggiungeva poi: «Mi pare che il tuo banchiere
non conosca il proverbio inglese time is money». A metà del mese venne firmata la
cessione a Ricordi dei diritti per l'Italia, contro il pagamento di 15.000 franchi. Per
quel che riguardava Ullmann e Muzio, avevano pagato 25.000 franchi per la partitura
e il diritto all'esecuzione fino al 1° maggio 1870, successivamente il diritto sarebbe
ritornato a Maurizio Strakosch.
Si era accesa nel frattempo la frenesia per ascoltare questo lavoro di Rossini: al
Theatre des ltaliens di Parigi furono programmate tre esecuzioni, che fecero segnare
subito la chiusura dei botteghini a causa del tutto esaurito. Se ne dettero quattordici
rappresentazioni nel primo mese. La compagnia poi intraprese una tournée, che contò
sessanta repliche in Francia, Belgio e Olanda. Il 17 febbraio Muzio aveva comunicato a
Ricordi che «Monsignor Chigi mi ha fatto domandare se non voressimo dare le primizie
del esemplare a Roma l’11 aprile per l'anniversario del 50.simo anno della
consacrazione di Pio IX come prete. Vi fui io stesso questa mattina, e non dissi né si
né no; perché doveva sentire l'opinione anche Ullmann». Pur di ottenere l'esecuzione,
la Santa Sede avrebbe derogato persino a quel ferreo principio che era stato la causa
dell'introduzione dei castrati nel mondo del canto: «Permetterebbero le donne e non
farebbero opposizione neppure al coro di donne».
Riguardo all'esecuzione italiana, riportiamo quanto scrisse il Belforti, proprio per lo
stile aulico con cui ammantò il trionfalismo di cui la biografia è pervasa: «A mio
avviso, lo spettacolo che ha innalzato il Muzio al grado di primo maestro concertatore
dei tempi fu la Messa solenne del Rossini da lui diretta a Bologna nel 1869. Tutta la
stampa del Regno si occupò con fanatismo del fatto che costituiva il grande
avvenimento del giorno. Il nome del celebre direttore volava sulle ali della fama da un
capo all'altro della penisola; e l'eco ne ripeteva le lodi al di là dell'Alpi e dei mari».
La Gazzetta musicale di Milano del 3 marzo, mentre riportava il "dispaccio telegrafico"
da Parigi, in cui si diceva che al Teatro Italiano «Messa solenne di Rossini successo
colossale, straordinario, entusiastico. Introito 25.000 franchi. Venduti tutti i posti per
altre tre esecuzioni», poche righe più sopra comunicava che «Il maestro Emanuele
Muzio, professore di canto, è giunto tra noi, incaricato di dirigere in Italia l'esecuzione
della Messa di Rossini».
Muzio si era fermato qualche giorno a Busseto, dove la madre era gravemente
ammalata, e a Milano aveva acquistato il Metodo di canto del Garcia e quello di
armonia di Lauro Rossi, al fine di calcolare quanto tempo gli sarebbe occorso per la
traduzione in inglese.
Sceso a Bologna all’Hotel Brun, iniziò subito a lavorare intensamente per ottenere una
buona esecuzione. Era soddisfatto per l'andamento delle prove, aveva cominciato a
mettere insieme i solisti e il coro, e presto avrebbe iniziato con gli strumentisti:
l'orchestrazione era facile, difficile ottenere il colorito dalla massa corale, che era
debole nei contralti. Ne avrebbe avuto bisogno di altri dieci, ma non era riuscito a
trovarne: aveva allora aggiunto dodici ragazzi che, però, non avevano le note basse...
Dal 23 marzo diresse al Teatro Comunale, nella versione orchestrale, dopo una
Sinfonia giovanile, la Petite messe solennelle "a quattro voci, per soli, coro e
strumenti". Erano programmate tre rappresentazioni: dovette aggiungerne due per
accontentare la massa di pubblico.
Riportiamo alcuni frammenti delle lunghissime recensioni, non per quanto dicono sulla
composizione e sul direttore, ma per proporre un esempio dello stile con cui si soleva
illustrare l'esito di uno spettacolo. L'appendicista dell'Indipendente iniziava il
chilometrico resoconto con: «Scriviamo queste parole, mentre risuona ancora
nell'animo nostro l'eco delizioso delle ineffabili melodie del cigno pesarese. La sala del
nostro maggiore teatro presentava ieri sera un aspetto solenne, e per quanto
sfolgoreggiassero nei loro palchetti le nostre dame, nulla dimeno la gaiezza e la
coquetterie non trovavano adito nei cuori che palpitanti e commossi plaudivano al
genio italiano, ed erano orgogliosi di veder riconfermato il primato musicale della
penisola nostra sulle altre nazioni. Lo spirito del gran maestro sembrava quasi si
librasse maestoso per l'acre, tanto era il raccoglimento degli astanti, quando si sono
fatti sentire i primi accordi melodiosi della sinfonia».
Per la Gazzetta dell'Emilia l'orchestra «suonò alla perfezione, diretta maestrevolmente
dal Muzio, il quale pareva colla magica bacchetta, e coll'entusiasmo artistico, che
gl'infondeva ed energia e sentimento, trarsi dietro quasi per incanto quelle imponenti
masse, che pendevano obbedienti al suo cenno», mentre il più famoso dei critici, il
dottor Filippo Filippi, dopo aver inondato pagine e pagine della Perseveranza con la
piena un articolo fiume, sul quale venivano trascinati vorticosamente termini quali
sublime, stupendo, veramente divino, genio, grazia, spontaneità, toccante, espressivo
in sommo grado, caloroso fino all'incandescenza, impetuoso, gigantesco, ardito,
prodigio, arditissimo, sereno, soave, fulminante, splendido, (e ci fermiamo dopo solo
poche righe!) concludeva con degnazione: «La Messa di Rossini in Italia fu eseguita
finora a Bologna ed a Torino, ma non in modo degno dell'importanza e della difficoltà
del lavoro, per cui occorrono prove ed artisti come se si trattasse di una vera opera in
musica. A Bologna l'effetto fu immenso nei pezzi ove ebbero gran parte l'orchestra ed
i cori, cosi intelligentemente e calorosamente diretti dal bravo maestro Muzio. I pezzi
a solo riuscirono invece fiaccamente, a causa delle voci cattive o deboli, e della
nessuna intuizione dello stile». La Gazzetta musicale di Milano riportò alla conclusione
che «le successive esecuzioni della Messa solenne di Rossini non fecero che
confermare vieppiù il grande successo ottenuto nelle prime. Basti dire che la fuga fu
replicata ogni sera, ed il Sanctus triplicato; cosicché in cinque esecuzioni il pubblico
udì dieci volte la fuga e quindici volte il Sanctus. Potenza del genio e perfezione
dell'esecuzione!».
Con Verdi Muzio poté affermare: «Io sono contento, e mi sembra che il pubblico lo sia
di me se abado agli aplausi che mi fecero. Ho lavorato molto, perché io stesso non ho
sdegnato, visto l'importanza della cosa e della mia posizione, di istruire i coristi cosi
amatori come del teatro; si, l'ho fatto per nove giorni mattina e sera. Se fosse andata
male l'esecuzione la colpa sarebbe stata mia; ma invece tutto andò veramente bene».
E con Ricordi: «Due sole parole perché io non sono uso a dire belle cose di me ne a
fare i miei elogi. Ieri sera si può chiamare il trionfo della fuga e del Sanctus del coro e
dell'orchestra. […..] Mi sono fatto onore, ed ecco ciò che voleva».
In occasione di questa Messa, Muzio si fece fotografare nell'atteggiamento di dirigere:
e la prima copia venne inviata a Giuseppe Verdi, che la tenne nel salotto della villa di
SantAgata, accanto a quella di Antonio Barezzi.
Le fotografie, altra recente invenzione, iniziarono a dilagare dopo il 1850: «reliquie
favorevoli al ricordo», ci hanno tramandato, per lo più in una bellissima tonalità
marrone, in vari formati, e in edizioni più o meno eleganti, le immagini di tutti i
personaggi della seconda metà del secolo XIX. Si erano aperti gabinetti fotografici
ovunque, e anche agli angoli delle strade si trovavano artisti ambulanti: abbiamo
detto artisti, in quanto amavano qualificarsi pittori-fotografi. I soggetti venivano
enfatizzati al massimo, e colonne con capitelli greci, tendaggi, balaustre, facevano da
scenario a personaggi in pose innaturali, l'espressione improntata alla massima
serietà, agghindati nei vestiti più eleganti o, se in divisa militare, con tutti gli orpelli
tirati a lucido.
CAPITOLO X
L'inaugurazione del canale di Suez e l'Aida
Ritornato a Parigi, Muzio riprese la vita indaffarata: conosciuto e ben accolto per
l'indubbia competenza musicale e la serietà, dopo la Messa rossiniana, (annunciando
la cui esecuzione abbiamo letto che la Gazzetta musicale, anziché direttore
d'orchestra, l'aveva qualificato "professore di canto") incrementò notevolmente
l'attività di insegnante e di agente, quella che diventerà poi la sua principale, e si legò
con l'agenzia teatrale Lampugnani di Milano, con la quale divideva le provvigioni per
gli affari conclusi.
Nel maggio 1869 scrisse a Ricordi che l'editore Heugel voleva vendere in Italia
l'Amleto e la Mignon di Thomas e, dato che aveva nei suoi riguardi "molta amicizia",
gli aveva chiesto di fare da intermediario. Parlando poi di Wagner - una caratteristica
delle lettere di Muzio era la quantità degli argomenti trattati - esprimeva l'opinione
che non era musica «destinata ad un successo in Italia, dopo una prova nessuno vorrà
più spendere ne per allestire ne per sentire quelle opere». Annunziava poi che presto
sarebbe venuto a Milano per allestire per conto di "S.A. il Viceré Re d'Egitto" la
compagnia per la stagione d'apertura del teatro dell'opera del Cairo, a cornice della
solenne inaugurazione del canale di Suez.
In una manifestazioni di tale livello, oltre a una cantata, non poteva mancare, come
nelle capitali europee, la stagione lirica. Era stato pertanto costruito il Théàtre du
Kedivé d'Egypte, che venne poi comunemente chiamato Nuovo Teatro Italiano del
Cairo: sorgeva al centro della capitale nel quartiere d'Azbekieh, abitato dalla migliore
società, ed era circondato da ampi e lussureggianti giardini.
Non sappiamo quando approdò al Cairo la prima compagnia dell'opera italiana, ma,
alla metà del secolo, lo scrittore francese Gerard de Nerval aveva scritto che, durante
una passeggiata, la sua attenzione era stata attratta da un manifesto in lingua italiana
che annunciava tale spettacolo.
La costruzione del teatro da mille posti, - «il teatro qui é bellino, ricco, ma una
scatola», lo defini qualche anno dopo Maria Waldmann - fu una delle glorie del Kedivé
Ismail: venne iniziata nell'aprile 1869 e conclusa in sei mesi. Su progetto
dell'architetto Andrea Scala, che di lì a poco avrebbe legato il nome al Teatro Bellini di
Catania, i lavori vennero diretti dall'ingegnere e pittore Pietro Avoscani. Questi non
era nuovo a imprese del genere, e qualche anno prima aveva realizzato ad
Alessandria d'Egitto il Teatro Zizinia. La parte meccanica, gli arredi, le decorazioni, le
scene, vennero affidati a imprese, pittori e scenografi italiani: tra questi il Bertoja e il
Ferrario, mentre il sipario fu opera di Annibale Gatti.
L'Avoscani parlò dell'impresa in una lettera del giugno a Draneht Bey: «Da tre giorni
abbiamo un vento fresco e siamo scesi a trentaquattro (gradi) ma per fortuna nei
sotterranei del Teatro. dove dovrò lavorare, c'è un fresco delizioso. Noi lavoriamo
dalle cinque del mattino fino alle otto di sera cantando e tutto va a gonfie vele, anche
se abbiamo molti malati per colpi di sole e dieci di essi sono passati purtroppo all'altra
vita eterna. Inoltre, dopo la partenza del Vice-Rè le strade non sono più adeguate
quindi tra le molteplici costruzioni e i trasporti, lavoriamo in un permanente nuvolo di
polvere».
Con una lettera del 14 maggio 1869, l'agenzia Verger di Parigi aveva sottoposto a
Draneht Bey una rosa di quattro direttori d'orchestra per la stagione di apertura:
Fontana, Castagneri, Bottesini e Muzio. Il sovrintendente prescelse Muzio, e il
contratto venne firmato a Parigi il 27 maggio. Il direttore si impegnava dal 15 ottobre
1869 al 15 marzo 1870 per una paga mensile di 2500 franchi, mentre il tempo che
avrebbe impiegato fino allora per predisporre la stagione sarebbe stato compensato
con mille franchi al mese.
Muzio si mise subito all'opera, e il 2 giugno telegrafava da Milano al Bey che aveva
contattato eccellenti professori d'orchestra a prezzi onesti e «trovatisi artisti buoni
primari, buone seconde parti, havvi musica e tutto a prezzi limitati». Lo stesso giorno
per lettera precisava che avrebbe selezionato i professori, oltre che a Milano, anche a
Torino, Bologna, Parma e Firenze. In proposito scrisse a Ricordi che doveva scritturare
«60 professori d'orchestra 40 uomini coristi e 26 donne»: ci tenne a precisare che
l'agente non era lui, ma, essendo stato scritturato come direttore, desiderava buoni
elementi e, potendo S.A. spendere, li voleva vedere e sentire con le proprie orecchie.
Le prime parti dell'orchestra erano quindici a 400 franchi al mese ognuna, le seconde
quarantacinque a 300. Maestro del coro era Devasini, a 550 franchi al mese; i coristi
primi a 300 franchi, i secondi a 270: avevano «buona voce e repertorio e l'obbligo di
fare la comparsa nel ballo». Per tutti era previsto il pagamento del viaggio di andata e
ritorno da Milano al Cairo.
Il giorno dopo comunicava che le strade ferrate, da lui contattate, concedevano alla
compagnia lo sconto del 50% tra Milano e Venezia, e che si sarebbe incontrato con un
rappresentante della Società Adriatico-Orientale per sapere quali facilitazioni avrebbe
concesso per il passaggio marittimo. «E' uso che i cori ed orchestra paghino essi stessi
il soprapeso del bagaglio ed io lo mantengo. In quanto alle casse degli istrumenti le
spese di trasporto sono a carico di Vostra Eccellenza». Specificava che «gli artisti
amano assai più fare gli affari direttamente che non con mezzo di agenti che sovente
non sono specchi d'onestà. [...] Farò pure il repertorio dei pezzi per i concerti da darsi
alla Corte di Sua Altezza il Viceré...».
Nel giugno fece una rapida corsa a casa per una visita alla madre e a una cognata, le
cui condizioni di salute erano preoccupanti. Dopo Busseto si recò a Londra,
continuando a girare per la Francia, per risolvere le complicazioni che sorgevano ogni
istante per l'allestimento della stagione egiziana.
Il 18 luglio trasmise a Ricordi l'elenco delle opere che aveva deciso di rappresentare al
Cairo: Lucia di Eammermoor, il barbiere di Siviglia, Don Pasquale, La gazza ladra, Don
Giovanni, Gispino e la comare, Il trovatore, Un ballo in maschera. Rigoletto, La
traviata, Ernani e "Elisire". Il prezzo concordato per il nolo fu di 400 lire per opera,
pagamento alla consegna della musica. «Non ho potuto rifiutare di prendere la Muta e
la Marta da Brandus ed il Faust da Choudems», e concludeva: «L'amico mio
Lampugnani ti rimetterà questo mio biglietto e la solita provvigione spetta a lui».
Qualche giorno dopo ordinò anche il materiale di Saffo, Semiramide, Poliuto, Lucrezia
Bolgia. Norma e duecento libretti per ognuna delle opere prescelte, raccomandandosi
che l'imballaggio fosse curato in modo da preservare il contenuto dall'umidità. Un
mese dopo rinunciava però a Poliuto, Norma e Saffo, in quanto non aveva costumi e
scene.
Muzio denotò sagacia in ogni particolare della fase organizzativa: aveva fatto in modo
che a tutta la compagnia, composta da trecento persone, fosse assicurato l'alloggio, in
quanto il grande numero di visitatori, che sicuramente sarebbero confluiti al Cairo per
le feste d'apertura del canale, avrebbero reso problematica la sistemazione. Anche i
viaggi furono scaglionati: una parte della compagnia di ballo. composta di «ventidue
ballerine tutte assai belle», si sarebbe imbarcata a Venezia il 10 settembre, mentre il
rimanente sarebbe partito da Marsiglia assieme agli artisti francesi degli spettacoli
d'operetta. L'orchestra e i cantanti si sarebbero mossi a gruppi: da Marsiglia, da
Venezia, da Brindisi. Curò che queste notizie venissero pubblicate sulla Gazzetta
musicale di Milano dell'8 agosto, affinché tutti gli interessati potessero prenderne
visione.
Nell'affrontare queste fatiche auspicava: «Spero che il Teatro del Cairo diverrà stabile,
e che potremo avere una stia opera negli anni venturi...», così scriveva a Verdi,
confidandogli che sperava di presentargli Draneht Bey «per parlare di affari». Sulla
base di questa notizia, possiamo dedurre che l'invito a Verdi di scrivere un'opera
nuova per il teatro del Cairo avesse a monte l'interessamento del sempre grato
allievo. D'altronde, quando Muzio era stato interpellato per la scelta tra Jules Cohen o
Giuseppe Poniatowski per scrivere la cantata dell'inaugurazione del canale, aveva
risposto che bisognava cercare un grande nome che componesse qualcosa destinata a
restare per sempre. E di grande nome ne conosceva uno solo: Giuseppe Verdi. La
conferma di questo pensiero traspare in una lettera a Ricordi del 29 agosto 1869 da
Parigi: «Verdi non accettò di comporre la cantata e credo che faremo senza perché
veramente gli altri compositori sono sporca carta e nul altro».
Lo stesso Verdi nel giugno 1870 confidava: «fin dall'anno passato fui invitato per
scrivere un'opera in un paese molto lontano. Risposi di no». Circa questa risposta
negativa, il 3 dicembre 1869 Muzio dal Cairo gli aveva comunicato: «La risposta per
l'opera la diedi e non piacque: qui credono che basta aver denaro per pagare che tutto
si può ottenere. Il Kedivé vuole grandi cose per l'anno prossimo, a quel che dice, ma il
modo col quale sarà diretto il teatro non è ancora deciso, e non lo sarà che dopo la
partenza di tutti questi parassiti di ogni nazione».
Il 1° novembre, alla presenza del viceré d'Egitto, dell'imperatrice Eugenia di Francia,
dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe, per non parlare di tutto il corpo
diplomatico e di una marea di personalità invitate in tutta Europa, (quei "parassiti",
come li aveva definiti Muzio), una serata di gala con il Rigoletto, preceduto da un
Inno, aveva aperto il teatro.
Ai primi di novembre stava lavorando «come un vero Turco per il gran concerto che
faremo a Ismailia il 17 per l'inaugurazione del canale». Lamentava con Ricordi che nel
materiale d'orchestra del Trovatore e del Rigoletto non erano state inserite alcune
parti, e aveva dovuto farle copiare a 25 centesimi la pagina. Ordinava poi ancora
duecento copie dei libretti per ogni opera o ballo in cartellone, e concludeva con un
post scriptum: «Ricordati che per questo come per altre ordinazioni io prendo la
commissione», chiedendo di tenergli un conto, «siccome spero che non saranno gli
ultimi denari che mi avrai a dare per mediazione».
Il 17 novembre 1869 venne inaugurato il canale di Suez, una di quelle realizzazioni
che cambiarono l'equilibrio del mondo nel XIX secolo. Conscio dell'opera faraonica, il
Kedivé d'Egitto, Ismail Pascià, aveva voluto dare alle celebrazioni la pompa che la
solennità dell'avvenimento meritava. Agli invitati venne offerta una edizione di lusso
con il testo dell'Action tyrique pour l'ouverture de lishue de Suez, tradotta anche in
arabo, turco, spagnolo, inglese, tedesco e russo.
E’ strano, data la natura piena di interessi, - e dobbiamo arguirne che probabilmente
fu colpa della moglie americana - ma pare che Muzio non abbia risalito il Nilo alla
ricerca delle vestigia delle glorie del passato. Al contrario le bellezze dell'impero
faraonico non lo commuovevano particolarmente: «I poeti hanno fatto le loro poesie
nelle loro stanze perché non so dove trovar la poesia in questo paese. Di mine ve ne
sono quante se ne vuole. Va bene le piramidi, ma sempre piramidi secca la gloria...».
L'ambiente non si confaceva alla sua natura riservata, e non si ritrovava in quel caldo
polveroso, tra odori forti, sporcizia, forme caotiche di vita, formicolaio brulicante di
persone indolenti e violente, voci are di mercanti. E se questo era il popolo autoctono,
la società europea era anche peggiore, composta da diplomatici - i parassiti - con la
spocchiosa vacuità tutta di esteriore, e i trafficanti dediti esclusivamente a raggiri
bizantini. Anche i connazionali non toccavano il suo gradimento: sulla stampa c'era la
censura, e il censore era un siciliano; a capo della potentissima polizia si trovava
ancora un italiano, «un altro buon soggetto». Malgrado ciò «la sicurezza non si sa
cosa sia e vi avvengono rapine e sparizioni di persone».
Questo capo della polizia era una vecchia conoscenza dal tempo in cui studiava con
Verdi a Milano. Si trattava infatti di Temistocle Solera, il librettista che per Verdi aveva
composto, temporibus illis, quattro libretti e mezzo. Oberto (questo il mezzo, in
quanto raffazzonato da un vecchio libretto, complice un tale chiamato Piazza),
Nabucco, lombardi. Giovanna d'Arco, Attila. Anche in questa attività aveva dimostrato
di sapersi arrangiare: nei Lombardi, infatti, non aveva rinunciato a copiare intere
strofe dalla Pia de' Tolomei di Salvatore Cammarano e dalla Parisina di Felice Romani.
Era un personaggio - figura erculea, collo tatuino, aria fiera accentuata dal monocolo che non era mai piaciuto a Muzio, che in una lettera del 13 agosto 1845 lo aveva
definito «quel poltronaccio di un poeta». Dall'attività poliedrica del Solera - giovanotto
aveva cantato da basso al Teatro di Pavia, sostituendo occasionalmente Marini - erano
nate le musiche delle opere Ildegonda, il contadino d'Agliate e di un inno, La melodia,
sue anche le parole, che era stato eseguito alla Scala. Ma, se come poeta fece avere
delle seccature a Verdi, essendosi appropriato per un libretto dell'operato di un autore
francese, si dice che come musicista avesse fatto pubblicare delle musiche dell'amico
Antonio Bazzini, spacciandole per sue. Non furono però queste le ragioni per le quali
aveva interrotto i rapporti con Verdi: inseguito dai creditori, era fuggito in Spagna con
la moglie, la cantante Teresa Rosmini, da dove aveva scritto al maestro una lettera
che è lo specchio di un carattere cinico: «Ogni giorno movimenti, fucilazioni, e quello
che è peggio l'impresario che non paga».
Pare che fosse stato agente segreto di Napoleone III e di Cavour per la guerra del
1859 e, come ricompensa, aveva ricevuto l'incarico di reprimere in Basilicata il
cosiddetto "brigantaggio". Dopo essere diventato questore di Firenze, Palermo,
Bologna, Venezia, si era svincolato dai languori della laguna per piombare in Egitto a
riordinare la polizia in occasione delle favolose feste di Ismailia. su sollecitazione di
quell'ambizioso Kedivé che aveva sognato e poi ottenuto un'opera di Verdi. «Fu quello
l'apogeo di una fortuna che declinò rapidamente», scrisse Folchetto nella biografia di
Verdi. Aiutato da Clarina Maffei, aprì poi a Firenze un negozio di antiquario, ma nel
1876 era a Londra: «L'abbiamo veduto a Parigi, in poche fortunate circostanze
divenire mercante d'antichità, confidando tutta la sua sorte in un Cristo il cui autore
avrebbe dovuto essere Benvenuto Cellini. Morì tre o quattro anni fa, ignorato quasi».
Era la domenica di Pasqua del 1878 a Milano.
Il 28 dicembre Muzio dovette rassegnare le dimissioni a causa di una imperdonabile
leggerezza: uno dei secondi violini. Sabadino Ottolenghi di Fiorenzuola d'Arda, dopo
aver firmato il contratto il 20 luglio, per sopravvenuta malattia, non aveva potuto
recarsi al Cairo. Dopo diversi rinvii, e aver inviato vari certificati medici, aveva scritto
il 16 ottobre al «Degno Maestro Muzio», narrandogli le sue traversie: malgrado le
condizioni precarie, si era imbarcato a Venezia, ma, giunto a Brindisi, il medico di
bordo lo aveva fatto sbarcare. «A Milano dal Signor Lampugnani io ebbi la mia mesata
d'anticipazione di 300 £. lasciandone però a questo 90 £ di mediazione come parla la
scrittura, e di più ebbi un biglietto da 25 £. pel viaggio da Milano a Venezia, e di prima
ebbi. lo perciò ero possessore di 235 di £. che dovetti spenderli tutti rabbiosamente
fra trasporto mio e bagaglio e fermata per farmi prodigare cure, e tutto quanto senza
nessun profitto, trovandomi ora senza un quattrino». Dato che il biglietto della
traversata lo aveva restituito all'agente con i certificati medici, si raccomandava con
Muzio: «S'Ella potesse far in modo ch'io mi portassi al Cairo, le ne serberei la mia
eterna gratitudine, ma m'abbisognerebbero denari per fare il viaggio».
Siamo portati a pensare che Muzio avesse in animo di salvaguardare il posto al povero
conterraneo, e così lo diede egualmente presente, ritirando per lui la paga. Dopo
qualche tempo la cosa venne risaputa, e sul contratto dell'Ottolenghi si può leggere la
postilla: «N'est pas venu au Caire. Mr Muzzio chef d'Orchestre ayant indument touché
ses appointements du 15 Octobre au 15 Décembre 1869, les a remboursés le 22 Mars
1870. Voir le journal f.o 52. Le mois anticipé et les frais de voyage à lui payés sont
perdus». Come conseguenza, il 28 dicembre Muzio scrisse a Draneht Bey: «Pour
raison de vous connues, je vien vous donner ma démission de mes fonctions de chef
d'orchestre de l'opera, à partir du 1° Janvier 1870. Je continuerai neanmoins ces
fonctions tant que vous jugerez utile à votre adm.s de me le conserver bien entendu
aux termes et dans les limites de mon engagement: mais ce engagement est deee à
present rèsiliè, et il sera continue pour le temps qui vous conviendra, le tout bien
entendu aussi, sans indeimité de part ni d'antro, le jour où vous aurez decide la
résiliation. l3on pour résiliation».
L'operato di Muzio nella fase dell'organizzazione era stato encomiabile, e la direzione
della stagione procedeva nel migliore dei modi: il Bey, così, anche per evitare lo
scandalo, non si avvalse dell'offerta di dimissioni.
Lo spettacolo rappresentato al Teatro del Cairo l'ultimo giorno del 1869 si concluse
con uno spavento generale: durante una recita del Barbiere, Muzio vide precipitarsi in
scena la moglie che gridò di scappare, in quanto era scoppiato un incendio, il quarto
dall'inaugurazione del teatro: «e precisamente nel orologio che in un momento fu
tutto in fiamme, i soccorsi, le pompe e l'acqua arrivarono prontamente del resto il
fuoco si sarebbe comunicato al tetto ed avrebbe distrutto tutto il teatro. Non è facile
descrivere lo spavento del publico, artisti e coristi e corpo di ballo. i parenti, i mariti
fecero irruzione sulla scena ma dopo un'ora circa si poté riprendere lo spettacolo e
terminarlo alle panche perché publico non ve n'era». La notizia, come era stata scritta
a Ricordi, venne ripresa integralmente dalla Gazzella musicale di Milano, come
cronaca del corrispondente dal Cairo.
Chi invece fece più "guasti" del fuoco, fu l'elemento opposto. Una cosa, a dire della
gente, mai accaduta: piovve a scroscio per dieci ore, e bastò questo per causare gravi
danni al teatro, ai costumi, alle scene, al palcoscenico, ai camerini. Il metereologo
Muzio spiegò così l'avvenimento: «Col taglio del istmo si sviluppa molta umidità e
produce pioggia», aggiungendo che «S.A. dovrebbe obbligare tutti gli Arabi di svestirsi
quando piove e prendere cosi un bagno per pulirsi».
Le giornate erano piene: la stagione proseguiva bene, ma, da quando SA era partita
per l'Alto Egitto portando seco il suo harem. gli spettacoli non erano molto
frequentati: «Fra otto giorni sarà di ritorno e così vedremo il teatro ripopolato»: aveva
improvvisato un concerto a corte in onore dei principi d'Olanda; si sarebbe recato con
la moglie a un ballo al palazzo di Ghezira, «perché tutti dicono che non si può
immaginare nulla di più bello del giardino illuminato di quel palazzo»: era stato anche
alla celebrazione di un matrimonio: quello del costruttore del canale, l'ingegnere
Lesseps, che, sessantenne, aveva condotto all'altare una fanciulla di diciotto anni. Nel
rilevare la differenza di età, il commento fu piuttosto pesante: «ieri abbiamo dato un
concerto in onore di Lesseps e Vivier! Un concerto di corno!».
Vi erano delle perplessità per la stagione d'opera dell'anno seguente: il denaro, dopo
le spese folli dell'inaugurazione, era poco, l'amministrazione oberata dai debiti, i
contrasti tra Egitto e Turchia acuiti. Arrivavano dall'Europa ingenti quantitativi di armi,
che venivano denunciate alla dogana come "tubi vuoti per gaz", i movimenti di
avvicinamento del Kedivé nei riguardi dei beduini erano sospetti, l'armamento delle
fortezze procedeva spedito, era rilevata al Cairo la presenza di tutti i capi della
resistenza contro i turchi... Alla fine della stagione, però, il viceré decise di tenere
anche l'anno successivo una stagione d'opera di cinque mesi, e stanziò 1.200.000
franchi. Poca cosa, dati gli esorbitanti prezzi che i cantanti chiedevano per esibirsi in
quel paese: Tamberlick voleva per la stagione 90.000 franchi, Nicolini 125.000,
Tiberini e la moglie 60.000 al mese. Le economie, così, si sarebbero fatte sul coro e
l'orchestra. dato che il corpo ballo sarebbe stato mantenuto: «queste Silfidi sono
necessarie per altri usi...».
Il clima non si confaceva agli europei: tra i membri della compagnia. oltre alle
malattie - si lamentò anche un decesso - si soffriva per l'afa: Muzio dimagriva e la
moglie, delicata. non dormiva, accusava malesseri, inappetenza, mal di capo. A loro
dire, in tutto il Cairo non vi era un medico che capisse qualche cosa e «nessuno che
conoscesse l'omeopatia».
Al termine della stagione, che si protrasse fino al 14 marzo 1870 dopo sessantasei
recite di opere e del balletto Giselle, Muzio non venne confermato. Scrisse, però, al
maestro: «Decisamente né il paese, né gli usi, né le genti che lo abitano mi
convengono, e se mi fossi immaginato che in questa terra Egiziana vi erano raccolti
tutti i banditi, assassini e ladri d'Europa non vi sarei venuto».
Il 19 marzo parti per Parigi. dove trovò Verdi, e a fine aprile si recarono assieme a
Busseto dove, con la moglie, fu ospite a Sant'Agata.
Il maestro si era messo in moto per trovargli idonea sistemazione a Parigi, tramite
l'editore Léon Escudier. L'impresario Bagier del Théatre Italien, che desiderava godere
dell'amicizia e protezione di Verdi, anche perché era pericolante la sovvenzione statale
di 100.000 franchi, fu lieto di prendere in considerazione la segnalazione, anche se
Muzio pretendeva «libertà assoluta in teatro e nessuna dipendenza in quanto alla
musica, al esecuzione, distribuzione di parti ecc. Un maestro accompagnatore ed un
altro per i cori a mia scelta e che cercherei in Italia». Ultima condizione era di essere
lasciato libero per il tempo necessario quando la nuova opera, che Verdi stava
componendo per il Cairo, sarebbe stata presentata: «perché credo per me più onore il
mettere in scena una sua opera che dirigere l'orchestra a Parigi, o anche in Paradiso».
La richiesta di pagamento, in principio 2500 franchi al mese, fu ridotta a 2000. mentre
l'impresario ne offriva 1500, asserendo che nessun maestro aveva mai ricevuto a
Parigi una tale paga.
Il 16 giugno venne firmato il contratto e Verdi, sempre nelle vesti di austero fratello
maggiore, lo catechizzò: «Son contento che sia finito il vostro affare con Bagier. E'
una posizione che vi siete acquistata ed ora tocca a voi solo il saperla mantenere.
Fatevi onore e fatevi valere. Ora che siete in evidenza, non dipende che da voi la
fortuna ed il vostro avvenire, e dato pure il caso che Bagier se ne andasse, vi saranno
dieci altri teatri che vi domanderanno una volta che siete conosciuto per uomo di
vaglia. Rispettate e fatevi rispettare: mai un'ingiustizia e mai una debolezza: trattate
egualmente i più alti come i più bassi, non abbiate predilezione per nissuno, non
abbiate simpatie né antipatie, e non abbiate nemmeno paura di qualche maledizione».
Immediata la risposta: «ieri ebbi la preziosa sua lettera che terrò sempre avanti agli
occhi, la leggerò ogni mattina prima di sortire di casa e sarà la regola della mia vita
artistica».
Nell'estate cominciarono a circolare voci allarmistiche sulla pace in Europa, e
l'impresario esprimeva il timore che avrebbe dovuto ribassare i prezzi e pertanto
diminuire le spese. Muzio era preoccupato che lo scontro mandasse a monte tutto il
programma: si consolava, però, sapendo che «del resto le guerre ora non sono
lunghe». Era certo che il conflitto fosse inevitabile, dato l'antagonismo che opponeva
Francia e Prussia: Napoleone, d'altronde, aveva bisogno di qualcosa che distraesse
l'opposizione dei repubblicani e degli orleanisti.
Licenziata la vecchia compagnia, per allestire la nuova, assieme all'impresario aveva
iniziato a viaggiare ovunque ci fosse qualcosa di buono da vedere e sentire. La prima
scrittura fu per l'ex allieva Adelina Patti, adesso nel fulgore dell'arte e della bellezza,
che si stava esibendo a Londra. Anche varie città italiane furono tappa
dell'esplorazione artistica: fissò come direttore dei cori il maestro Corsi e come
sostituto alla concertazione, Pagnoncelli. «Che miseria d'artisti che vi sono!», si
lamentava, spaventato dalle pretese che anche i mediocri accampavano: cosi.
vedendo che non c'erano buoni tenori disponibili, riconfermò Nicolini. Un'artista che lo
interessò fu il mezzosoprano Maria Waldmann, di cui Ricordi gli aveva detto gran
bene.
Dopo aver telegrafato due volte per chiedere se la Stolz volesse cantare per lui a
Parigi. si rivolse a Verdi mettendosi «in ginocchio a pregarlo di interessarsi per me
affinché possa combinare questa artista». Malgrado l'ormai imminente pericolo della
guerra, a metà luglio si recò assieme all'impresario a Senigallia, dove la donna
cantava nel Don Carlos. Muzio tentò ancora una volta di convincerla a venire a Parigi,
sicuro del successo che avrebbe incontrato. Il soprano aveva però un impegno con il
Teatro di Raden, ed egli tentò con previsioni di strategia bellica di convincerla ad
accettare invece la sua proposta: scoppiata la guerra, infatti, la città tedesca sarebbe
stata presto invasa dall'esercito francese e, pertanto, in quel teatro non vi sarebbe
stata la stagione d'opera.
Avendole, però, scritto Verdi per appoggiare la richiesta di Muzio, il 17 luglio la Stolz
assicurò che avrebbe accettato per dieci o dodici rappresentazioni: «Sì io vengo
purché Verdi ci sia: io temo di essere sola in un paese nuovo come Parigi. Voglio
avere un successo e voglio che La forza del destino vada alle stelle». Muzio, scrisse la
Stolz a Verdi, le aveva dato assicurazione che il compositore stesso sarebbe venuto a
Parigi per mettere in scena l'opera.
«lo temo di essere sola in un paese nuovo come Parigi...»: che fosse un indiretto
invito della donna a Verdi di farsi avanti, anche se era fidanzata? Visto quanto
avvenne nell'arco di poco tempo, la nostra ipotesi potrebbe essere fondata.
A questa situazione è da collegare una strana lettera senza data topica e cronica, ma
dei primi di agosto di questo 1870. indirizzata da Muzio a Ricordi, cui era allegato il
testo cli un telegramma, firmato si Muzio. ma autografo di Giuseppe Verdi. Era scritto
che bisognava «abbandonare l'idea della Stolz per molte ragioni quantunque fosse la
migliore, sarebbe inutile e dispiacevole insistere», mentre il telegramma dettava:
«Maestro dice meglio [la] Mariani ma preferirebbe mezzo soprano per note medie.
Provate confidenzialmente. Cercate ancora. Muzio».
Come già in altre occasioni, - vedi la lettera della Peppina a Muzio di ritornare negli
Stati Uniti - Verdi ricorreva al metodo di far inviare un messaggio da altri, per far
sapere quello che pensava, senza esporsi in prima persona. In questa circostanza,
malgrado le tentazioni che gli suscitava la Stolz, Verdi cercava ancora di resistere,
costringendo Muzio a rinunciare alla prima donna a favore di Maddalena Mariani-Masi.
Dato che la differenza di livello tra le due cantanti era abissale, Muzio, scoprendo le
carte con l'editore, intese precostituirsi un alibi per quando gli avrebbero chiesto la
ragione di questo comportamento lesivo degli interessi dell'impresa. Se questa nostra
interpretazione è esatta, altro e ben più grave sacrificio presto costerà a Muzio la
presenza dell'invadente cantante boema.
Subito dopo Muzio si recò a Padova per contattare altri cantanti, e assistette al Ruy
Blas, opera che raccoglieva consensi in tutti i teatri italiani. Per lui, però, l'unico
operista era Verdi, e il lavoro di Marchetti venne liquidato con un secco: «Il più grande
narcotico che si può dare per dormire».
In conseguenza dell'assurdo "dispaccio di Ems". il 19 agosto Napoleone III aveva
dichiarato guerra alla Prussia. Tornato subito a Parigi. Muzio rilevò come l'atmosfera
fosse diversa da quella della lieta città che aveva lasciato poco tempo prima, e
nessuno aveva più la testa per parlare di teatro. la cui apertura, a causa del conflitto,
era stata procrastinata di un mese: «Speriamo che da oggi al Novembre i Prussiani
avranno varcate le frontiere. Sino ad ora si ammazzano senza frutto l'uno e l'altro»,
scriveva a Ricordi, e gli chiedeva di pubblicare sulla Gazzetta musicale di Milano che
Verdi aveva erogato 2000 franchi a favore dei militari francesi feriti.
La situazione di stallo fini presto: i prussiani avanzarono e cominciarono a circolare
voci sull'impreparazione con cui la Francia era entrata in guerra, con un esercito che
esisteva solo sulla carta: i giornali stranieri venivano sequestrati in quanto, a
differenza di quelli parigini, pubblicavano anche i bollettini prussiani, che davano
notizie sulle perdite dei francesi in uomini. cannoni, armi, bandiere, salmerie e via
dicendo. L'agitazione del popolo era sempre più grande, in quanto la situazione
andava sempre peggiorando, il malumore cominciava a farsi sentire anche nella
borghesia: persino le classi ricche erano scoraggiate.
Muzio, che aveva una visione della vita improntata a valori risorgimentali,
rimproverava che «la gioventù che si deve battere ha troppo vissuto nei vizi, nella
mollezza e nella corruzione d'ogni sorta per avere nerbo e forza di battersi. Tutti i
funzionari del governo hanno messo troppo denaro a parte coi giuochi di borsa per
restare fedeli al Imperatore». Si diceva anche che vi poteva essere salvezza solo in un
cambiamento istituzionale, e nei caffè i perditempo ipotizzavano già i governi
provvisori. Vista la mala parata, tutti, «preti, impiegati, amici, ecc.», voltavano le
spalle a Napoleone, che era stato accolto al campo di Chalons dalla sua Guardia
mobile, “la creme delle creme della canaglia di Parigi», con urli e fischi tali da doversi
ritirare a Reims.
Da parte sua, in vista di giorni peggiori, aveva provveduto a fare riserva di riso,
zucchero, caffè per più di un mese, e previsto il trasferimento della moglie, della
suocera e dei due bambini di questa, qualora i prussiani si fossero avvicinati a Parigi.
Lui non si sarebbe mosso, in quanto era convinto che la guerra non potesse durare:
«Mancano di armi, di artiglieria. Il meglio di tutto è d'accettare le condizioni della
Prussia e finirla». Mentre era stata proibita l'esecuzione di qualsiasi opera del
prussiano Meyerbeer, l'approssimarsi dell'assedio aveva causato la chiusura di tutti i
locali di divertimento.
Pur negando di essere un "codino", affermando anzi di essere repubblicano, come lo
era sempre stato anche in passato, Muzio era contrario a che si istaurasse un tale
governo. con la repubblica si sarebbero aperte le prigioni di Parigi, e venti o trentamila
delinquenti si sarebbero venuti a trovare in libertà!
Ai primi di settembre cominciarono a vedersi delle bandiere rosse, e il popolo si dette
alla caccia di tutti gli emblemi del crollato regime per distruggerne ogni ricordo. I
prussiani intanto erano a poche leghe da Parigi, e presto sarebbero stati sotto le mura
della città per dettare le condizioni di resa. Il 4 settembre 1870, dopo la sconfitta di
Sedan, fu proclamata la terza repubblica e indetta la leva generale. A parere di Muzio,
la resistenza non sarebbe stata grande, in quanto la truppa regolare era avvilita, e
non si poteva contare sulla guardia mobile e sui volontari. «l francesi si lamentano
degli inglesi, degli italiani, degli austriaci, degli americani, insomma di tutti quelli che
non li tirano dal imbarazzo. I prussiani si credono predestinati a ricostituire l'Impero
Germanico».
Prima che iniziasse l'assedio, Muzio, non per tema dei prussiani ma dei francesi, «cioè
di tutte quelle milizie indisciplinate, turbolente, chiassose e ubriache dalla mattina alla
sera», si trasferì con la famiglia a Bruxelles, non potendo andare a Milano, essendo le
comunicazioni ferroviarie verso il meridione interrotte. Dopo tanto lavoro per Bagier,
veniva a trovarsi disoccupato: aveva si dei risparmi, e la suocera assicurava che non
avrebbe fatto mancare nulla.
A Lione intanto c'era la repubblica rossa, a Marsiglia comandavano gli anarchici, e gli
altri dipartimenti facevano ognuno quello che voleva. I bonapartisti tramavano per
restaurare l'impero e cercavano l'aiuto dei preti, promettendo una guerra all’Italia per
ripristinare il governo dei papi che il 20 settembre era crollato a Porta Pia. Per altri, la
caduta del potere temporale era un bene per la Francia, l'umanità e la religione. I
nizzardi, che avevano votato l'unione all'impero francese per sfuggire alle imposte di
guerra italiane, adesso volevano con un'altra votazione evitare di pagare le spese di
quest'altra guerra: notizie che raccoglieva frequentando il salotto della figlia di
Gerolamo Bonaparte, la principessa Matilde, e che riversava nelle lettere a Verdi. In
una previsione non sbagliò: «Il mio cuore è con la Francia, ma il mio buon senso pur
troppo mi fa vedere che la Prussia finirà per conquistare tutto e terrà l'Alsazia e la
Lorena e non le renderà che quando i Francesi le potranno riconquistare».
A Bruxelles si annoiava: dava lezione ai cognatini, suonava il pianoforte, andava a
teatro e, di quanto vedeva, inviava le sue opinioni a Verdi: l'Ombra di Flotow era «una
povera composizione così per la musica che per il libretto»; per il lavoro di un altro
compositore, il nipote di Meyerbeer, Ryer, Elisabetta d'Ungheria, che l'editore gli
aveva chiesto di esaminare per vedere se fosse adatto al gusto italiano, il giudizio si
risolse in una stroncatura: «L'opera è in quattro atti; molto lunga, senza alcuna
ispirazione, non vi sono né melodie né pensieri; è un'accozzaglia di note».
Per la musica sinfonica, che ebbe agio di ascoltare in quantità in questo periodo di
riposo forzato, mentre l'Eroica di Beethoven «più la sento e più mi piace», e apprezzò
alcune non specificate composizioni di Weber, Mendelssohn e Reinecke, dell'ouverture
"Genoveffa" di Schumann osservò «di non aver potuto trovarvi un'idea» e della
Sinfonia in do min. che vi era «tale abuso di ripetizioni nella prima parte che
offendono il gusto e la ragione»; della Marche hongroise di Berlioz, «chi ha orecchi la
sente, ma guai se si dovesse sentire per mezz'ora un simile fracasso»; L'oceano di
Rubinstein era «un abisso di note, di scale nei bassi, poi violoncelli, viole, violini, indi
quattro ottavini per descrivere le onde alte e basse. Wagner in confronto di questi
compositori è chiaro come Mozart e Rossini». La sinfonia di Wagner per il Faust di
Goethe era «la cosa più strana e pazza. Molte frasi che cominciano senza finire,
fragmenti di idee che si urtano ad altre; degli effetti che a forza di essere pretenziosi
divengono puerili; l'oscurità e la confusione ecco ció che predomina». Riguardo ai
lavori del Fétis per orchestra, poi, il giudizio fu anche piú tagliente: «Dopo che si sente
la musica di questo compositore, bisogna ridere, e ridere di tutto cuore delle sue
critiche. Non so dove abbia imparato la strumentazione!».
Nel gennaio 1871, dopo aver accompagnato la famiglia a Boulogne sur Mer, rientrò a
Parigi, anche se la situazione era tutt'altro che serena: i prussiani stavano per entrare
nella capitale francese, tutta un caos «di atti selvaggi, brutali, feroci, commessi da
questo popolo che si chiama civilizzato e amante della libertà». Nel marzo, dopo solo
due giorni di occupazione, i prussiani se ne andarono, dopo aver imposto la pace «più
dura e disonorevole che un popolo abbia mai subito». Il momento era triste: negozi
chiusi, strade deserte, servizio dei mezzi pubblici sospeso, la città rifugio di ladri,
assassini e banditi che vi erano convenuti da tutta la Francia. «La Comune fa decreti
l'uno sopra l'altro: una legge abolisce i debiti, un'altra la scadenza degli affitti, delle
cambiali, dei pegni... insomma sembra che la Comune sia ricca come il Perù. Hanno
sconsacrato il Pantheon e al posto della croce hanno innalzato la bandiera rossa. Un
altro decreto distrugge il diritto d'eredità. I giornali indipendenti soppressi. Quale
spavento, quale terrore, quanto sangue, quante vittime». In mezzo a questa bolgia,
scoppiavano disordini fomentati da legittimisti, orleanisti, repubblicani, comunisti: era
la guerra civile e cannonate piovevano sulla città. Gli capitò anche di trovarsi al centro
di una battaglia in rue Tronchet: «nessuno dei combattenti dava quartiere, si
uccidevano gli uni con gli altri con gioia, con frenesia. I prigionieri erano fucilati
immediatamente». Muzio, però, era fiducioso: «Questo gran male avrà salutare
influenza sul avvenire di Parigi e sarebbe una vera pazzia lasciarla ora, mentre
l'avvenire è tutto per me...».
L'anno precedente. Verdi aveva accettato di scrivere Aida per il Cairo, (nella trama
inviatagli c'era lo zampino di Temistocle Solera?) ed era sua intenzione mandare
Muzio a dirigerla: questi aveva assicurato la disponibilità e affermato che avrebbe
lasciato qualunque contratto avesse in corso, «fosse il più lucroso». A sovrintendere
all'allestimento dell'opera, per quanto concerneva scene e costumi, era stato
incaricato l'archeologo francese Mariette Bey, che vi stava provvedendo a Parigi, non
badando a spese, e predisponendo ogni particolare con il massimo splendore e rigore
storico.
Il 5 dicembre 1870 Muzio aveva comunicato da Bruxelles a Draneht Bey, chiuso nella
Parigi assediata, che aveva ricevuto da Verdi l'incarico di recarsi al Cairo per mettere
in scena rigida, e che al momento era libero da impegni, essendo chiuso il Theatre
Italien di Parigi. Verdi aveva specificato allo stesso Bey che avrebbe visto con piacere
Muzio dirigere anche "les répétitions", le repliche, dell'opera. Questa indicazione aveva
offeso Nicola De Giosa, già direttore del Teatro di San Carlo di Napoli, della Fenice di
Venezia, e adesso del Teatro del Cairo, come lesiva del suo prestigio. Alle rimostranze
di questi, Verdi aveva risposto: «E' verissimo che io aveva incaricato Muzio per venire
al Cairo a mettere in scena Aida (secondo una clausola del mio contratto), e non vedo
com'Ella possa trovare questa venuta a Lei dannosa. Mi permetta dirle, Sig. Maestro,
che Ella qui vede soltanto un fatto personale, ed io vedo un fatto che è puramente
artistico. Mi spiego: Ella sa meglio di me che in oggi le opere si scrivono con tali e
tanti intendimenti scenici e musicali che è quasi impossibile interpretarli: e mi pare
che nisseno possa offendersene se l'autore, dandosi una sua produzione per la prima
volta, mandi persona che abbia studiato attentamente il lavoro sotto la direzione
dell'autore stesso».
Sembrava del tutto pacifico chi dovesse dirigere la prima dell'Aida al Cairo nel
prossimo dicembre 1871: così non fu, e lascia perplessi la stranezza del
comportamento di Verdi in questa circostanza. Quando con malizia Draneht Bey gli
chiese, si potrebbe dire in forma ufficiale, di segnalargli come direttore dell'opera «un
talent reconnu et sur» questi, buttando Muzio a mare, aveva risposto: «Il n’y a
absolument que Mariani. Tous les autres, croyez moi, se valent».
Il Gatti afferma che Verdi suggerì Mariani, in quanto Muzio era impegnato con il
Theatre Italien, giustificazione che non quadra, dato che Verdi sapeva benissimo che
questo era chiuso per gli eventi bellici.
Prendendo al balzo l'indicazione, il Bey comunicò al compositore: «Mi sono indirizzato,
come da vostra indicazione, soltanto verso artisti di prim'ordine. Primo Mariani, col
quale sto trattando, e al suo posto Bottesini, col quale sono d'accordo e verso il quale
sono ben disposto a concludere il contratto se, come credo, non posso raggiungere un
accordo con Mariani. Vi sarei grato mi deste il vostro parere sulla scelta».
Siamo tentati di avanzare su questo atteggiamento del maestro una nostra ipotesi.
Verdi ammirava Angelo Mariani, ed era in rapporti di amicizia con lui. La donna di
Mariani era la Stolz, nei riguardi della quale Verdi sentiva che qualcosa era maturata.
A questo punto, o in un ultimo tentativo di non tradire l'amico o, più semplicemente,
per non impegolarsi in una relazione desiderata, ma che avrebbe turbato la sua
serenità, tentò di allontanare il direttore d'orchestra con il mare di mezzo, sapendo
che la Stolz sarebbe dovuta andare con lui. E chi pagò fu il povero fedele Muzio, nei
riguardi del quale, vista poi la rottura tra Mariani e la donna, Verdi tentò di arrancare
in un impossibile tardivo recupero.
Con Mariani il bey non riuscì a raggiungere l'accordo: per sé e la Stolz, il direttore
d'orchestra aveva richiesto per la stagione di cinque mesi, come ultima condizione,
150.000 franchi e due serate d'onore. Considerate assurde le pretese della canora
arpia e del fidanzato, e visto che Verdi, se si esclude Mariani, non aveva indicato chi
altri potesse dirigere l'opera, Draneht Bey aveva puntato su Bottesini che si era reso
disponibile.
Avendo poi Mariani formalmente rinunciato, anche se, come lui stesso scrisse, per
ragioni di altro genere, Draneht Bey confermò Bottesini, dandone nel contempo la
notizia a Verdi: «Mariani non accetta e tranne Mariani, voi considerate tutti gli altri
direttori alla pari. Io penso di poter scrivere e dare la mia parola a Bottesini, che,
anche se non è all'altezza di Mariani, ha nondimeno la sua notorietà».
Il 1 maggio 1871 Verdi scrisse all'impresario Lampugnani dicendo che avrebbe avuto
piacere che Muzio fosse ritornato al Cairo: «Io non ho osato scriverne al Bey perché
dalla lettera di questi panni vi sia stato qualche cosa di freddo tra loro: ma s'ella crede
conveniente e può riescire a fare che Muzio ritorni in quel paese, per parte mia ne
sarei lietissimo. […..] Ma il Bey non m'ha voluto capire, o m'ha capito troppo bene».
Abbiamo visto cosa era successo tra Muzio e il bey, anche se la notizia non aveva
circolato. Una lettera del padre del soprano Giuseppina Vitali, accennava a qualcosa di
poco chiaro in cui era stato coinvolto un suonatore, e che la condotta di Muzio e della
moglie in quell'occasione era stata "malaugurata": continuava poi accusandoli di aver
«bisogno imperioso di odiare, e far male sempre a qualcuno».
Ritornato con le cannonate e i plotoni d'esecuzione l'ordine a Parigi, e repressa nel
sangue la Comune, la città riprese vita. e a giugno Muzio poté far ritornare la famiglia.
Aleggiava uno spirito di revanche, per cui la Francia sarebbe stata sempre una
potenza. Commentava però: «Che cecità! vi sono troppi preti perché possa essere
grande nazione! Se vogliono fare della Francia una grande repubblica, devono imitare
l'esempio delle grandi repubbliche d'America e Svizzera, ove si dà prima l'educazione
civile, poi la religiosa».
Per la riapertura dei teatri si facevano i conti, i nomi, i progetti: Du Locle stava
lavorando in questa direzione all'Opera Comique, mentre la prospettiva per il Theatre
Italien era disastrosa. L'impresario Bagier, che pare avesse perduto nella stagione
precedente 400.000 franchi, era screditato socialmente e dal punto di vista
finanziario: si diceva che sarebbe stato sostituito da Masson, probabilmente con Muzio
direttore musicale; l'Opéra, infine, danneggiata durante gli scontri in città, sarebbe
stata restaurata con grandiosità.
Mentre ancora ai primi di settembre Verdi insisteva inutilmente con Draneht Bey per
far scritturare Muzio al Cairo, il 16 questi poteva dare notizie confortanti: Bagier
sarebbe rimasto, la sovvenzione governativa era assicurata, e presto sarebbe partito
con l'impresario per Milano, al fine di allestire una buona compagnia per riaprire il
teatro con La forza del destino, e dare poi a maggio Aida, possibilmente con l'intera
compagnia del Teatro alla Scala.
Nell'inverno Muzio ebbe il dolore della perdita della madre. Da una lettera del 1°
ottobre 1889, quando aveva sessantotto anni, sembra che non fosse stato presente al
trapasso. Avendogli chiesto Verdi di intervenire per alcuni problemi che aveva con la
Società degli Autori, «duolmi abbiate sempre delle noje a cagion mia», aveva
risposto: «Egli lo sa bene che ogni cosa che posso fare per lui, ogni passo che faccio
da casa mia alla Società sono uno dei più grandi piaceri della mia vita e, solo come mi
trovo, non mi sento in vita che quando penso a Lui ed a sua moglie, per la quale ho
un sentimento profondissimo di gratitudine perché raccolse le ultime parole di mia
madre morente».
IL lutto lo lasciò con un grande scoraggiamento, un senso di malessere e di apatia,
che lamentava ancora parecchio tempo dopo.
Per onorare la memoria dei genitori, volle costruire a Busseto una cappella di famiglia.
ALLA CARA E SANTA MEMORIA
DI SILVESTRO MUZIO E MARIA STAGNARO
E DEI LORO VENERATI FIGLI
MADDALENA MONICA ANTONIO DOMENICO LUIGI
SUPERSTITI FIGLI E FRATELLI
GIUSEPPE EMANUELE GIULIO
Q.M.P.
1871
CAPITOLO XI
La fine del matrimonio
Non avendo raggiunto l'accordo per dirigere il Theatre Italien, Muzio aveva ripreso a
dare lezioni di canto, attività in cui non mancava di documentarsi sui metodi didattici
che erano in commercio: il 12 aprile 1872 scriveva a Ricordi di inviargli quelli del
Garcia, del Florimo «e se ne ha altri di autore italiano di aggiungerli». Chiedeva lo
sconto d'uso del 60%: Escudier, infatti, gli praticava il 70% e altri il 75. Per
provvedersi a Milano aveva inoltre non indifferenti spese postali. «Hai il vantaggio che
fo conoscere le tue pubblicazioni, i metodi di canto» da far adottare anche agli altri
docenti.
I trattati di canto dell'epoca, mentre riflettevano la preoccupazione di coltivare una
voce potente e agile, mostravano altresì un approccio più scientifico alla voce come
strumento musicale e materia di produzione del suono. Oltre alla pubblicazione più
famosa, che fu quel Traité complet de du chant di Manuel Garcia del 1840,
incontrarono il successo opere di eccellenti maestri, alcuni già interpreti famosi, quali
la Méthode complète de chant di Luigi Lablache, la Méthode du chant di Marco
Bordogni, l’art du chant di Luigi Duprez, L'art de chanter di Heinrich Panofka. la
Méthode complète de vocalisation di Auguste-Mathieu Panseron, tutti editi a Parigi tra
il 1840 e il 1855. Anche in Italia questa trattatistica aveva i suoi autori, tra i quali
Saverio Mercadante e Francesco Lamperti.
Nella stessa lettera Muzio coglieva l'occasione di raccomandare un'allieva, m.lle
Lamarre, della quale inviava la fotografia, e che assicurava avere una voce bellissima,
forte, pieghevole. Pochi giorni dopo la giovane, dopo una audizione a Milano, venne
scritturata dall'impresario Corti per debuttare in Roberto il diavolo, «un opera scritta
con intenzioni omicide contro la voce. […] Ma per l'amore del Cielo preservala che mai
canti una nota di Wagner perché in quest'autore non vi sono solo intenzioni contro il
benessere della voce, ma volontà deliberata, sistema, premeditazione d'omicidio...»
II Théàtre Italien, intanto, andava "di disgrazia in disgrazia" e le sue condizioni erano
più "malmenate" che mai. «Non piango per esserne sortito, ma mi duole per l'arte
italiana e per il [prestigio?] della musica del nostro paese che si va sempre più
perdendo». Il 23 aprile aveva assistito agli Ugonotti «ma t'assicuro che la musica fu
più massacrata dei Cristiani». A maggio, poi, vi fu anche il fiasco dell'Anna Balena:
«Che idea di dissotterrare queste anticaglie»... La conclusione era che la jettatura
aveva preso sede in quel teatro. A quanto pare, lo stesso Muzio, che pur godeva della
triste nomea, aveva la tendenza a credere in questa mai sufficientemente deprecata
superstizione, cui tanti compositori italiani del secolo scorso dovettero la perdita della
loro fortuna.
Poco dopo l'impresario fallì malamente, lasciando molti artisti senza paga e, celiava
Muzio, il governo italiano, per incoraggiarlo, lo aveva decorato dell'ordine di cavaliere
della Corona d'Italia. Direttore del Theatre Italien venne cosi nominato dal governo
francese il Lafort, e Muzio il 18 giugno 1872 raccontava: «Oggi alle 3 vado al Ministero
con Léon Escudier per vedere cosa si può fare con quest'uomo che non capisce nulla
di musica». Oltre che nel campo musicale, «la confusione è grande in tutto, in politica,
in economia ecc. Se vi fosse un uomo energico come nel 1851 potrebbe fare un colpo
di stato ed impadronirsi del potere come lo fece Luigi Napoleone, perché le
circostanze, i bisogni, la necessità l'impongono».
Lo stato di malessere che sentiva dopo la morte della madre, è probabile fosse
collegato altresì ai dissapori familiari, che di li a poco culminarono nella separazione.
Nell'aprile 1873 la moglie, spalleggiata dalla madre, lo buttò fuori di casa in quanto,
asseriva, «dacché si erano sposati non sono stati mai in pace». Essendo stranieri, il
cui matrimonio era stato celebrato all'estero, non potevano ottenere in Francia una
separazione giudiziaria: bisognava ricorrere a un atto privato di scioglimento davanti a
un notaio. Lei voleva che l'atto fosse concluso davanti al console americano, Muzio,
invece, che fosse redatto da quello italiano, e che Lucy avesse l'obbligo di risiedere o
con il padre o con la madre.
Pur essendo il matrimonio durato dieci anni: dal 3 aprile 1863 all'aprile 1873, le
notizie sulla vita coniugale di Muzio sono quasi inesistenti: alcuni indizi, che abbiamo
curato di mettere in evidenza, ci danno la sensazione che non si sia trattato in nessun
momento di una unione indovinata. Troppo grande la differenza di età, di origini, di
educazione. Le centinaia di lettere cui abbiamo attinto, d'altra parte, se pur sono
testimonianze insostituibili, non costituiscono dei documenti completi del privato, in
quanto nel contempo mostrano e celano, e derivano, inoltre, da una sola fonte, quella
del marito. Come in tutti i lavori biografici afferenti ad altri tempi, abbiamo ravvisato
difficoltà a penetrare nella realtà della vita privata, per conoscere qualcosa di più e di
diverso da quello che ci si è presentato solo come una facciata esterna.
Anche nel nostro caso trovò piena conferma quel detto popolare, per il quale la
separazione è una storia d'amore che finisce e una storia di soldi che nasce. In base
all'accordo, toccava ai parenti della donna custodirla e mantenerla, mentre i debiti che
aveva fatto durante il matrimonio erano a carico del marito in quanto, al momento del
coniugio, lei risultava senza dote. Da una postilla che aggiunse a una lettera a Verdi
qualche anno dopo, risulta quale fosse il pensiero di Muzio circa le qualità che una
donna dovesse avere: «Oggi arriva Campanini da New York, mi scrisse che
economizzò in quest'ultimo anno 140.000 franchi. Bella somma se è vero, perché
spende molto, e la moglie non è ne economa ne buona massaia». E Lucy certo non
rispondeva a questi canoni, doveva anzi avere le mani bucate, dato che il povero
marito trovò subito conti non saldati per 10.000 franchi, e altri vennero affiorando col
tempo. A Muzio, che pur guadagnava circa mille franchi al mese con le lezioni, oltre
alle mediazioni, toccò fare economia, e della più stretta.
Gli restò la soddisfazione nel vedere che la moglie era stata esclusa dalla società che
avevano frequentato assieme: veniva ricevuta con freddezza dove si presentava, e
molti le avevano tolto il saluto. Questa notizia che dette a Verdi sulla moglie - non
parlò mai di lei né di problemi familiari nelle pur numerosissime lettere a Ricordi o con
i corrispondenti dell'agenzia Lampugnani, essendo il discorso con questi limitato
soltanto a notizie di natura artistica o commerciale - ci apre uno spiraglio su quelle
che erano le abitudini dell'ambiente parigino circa i "doveri di società" di una signora.
Questa, all'inizio della stagione, inviava la sua carta da visita con l'appunto che
sarebbe stata in casa il tale giorno della settimana alla tale ore: di massima l'intero
pomeriggio a partire dalle quattordici. I pomeriggi così si trasformavano in un giro tra
i salotti che ricevevano lo stesso giorno.
E' probabile che anche i nostri coniugi avessero tenuto un salotto, almeno è quanto
deduciamo da una lettera del 16 febbraio 1872 a Draneht Bey. A quanto pare, (e
questo ci ha convinto della buona fede con cui Muzio aveva agito nei confronti del
violinista Sabadino Ottolenghi, anche se il suo operato comportava una perdita per il
Teatro del Cairo) i rapporti con il soprintendente del Teatro del Cairo si erano
mantenuti cordiali, tanto che Muzio poteva raccomandargli una sua allieva, il contralto
Silla De Sparta. per debuttare nella carriera; e in un post scriptum concludeva: «Oggi
ho veduto Madame Draneht che era in buona salute. Lunedì pranzeremo insieme alla
mia famiglia e alla sera faremo musica».
Quello che abbiamo rilevato dalle lettere, è che numerosi, e tra i migliori, erano i
salotti che erano loro aperti: né Muzio poteva venir meno a questo rituale. Qui curava
i rapporti sociali, e traeva le notizie di cui era sempre aggiornatissimo. In questa
contrapposizione con la moglie sorse in lui il desiderio di ottenere qualche pubblico
riconoscimento, per cui chiese a Verdi se poteva mettere una parola per fargli
ottenere una onorificenza: aveva composto quattro opere, diretto per nove anni
l'opera italiana a New York, lavorato in Italia, Spagna. Egitto... E' probabile che in
questa occasione venisse insignito della croce di cavaliere dell'ordine della corona
d'Italia, di cui però non si fregiò mai.
Dopo la separazione, Muzio accettò come una liberazione la proposta dell'impresario
Max Strakosh per una tournée negli Stati Uniti come concertatore e direttore
d'orchestra di una compagnia che sarebbe salpata il 16 agosto da Liverpool con il
battello Russia. Probabilmente sarebbe seguita quella al Theatre Italien di Parigi.
qualora l'impresario avesse preso quell'appalto. Interpellata l'ex moglie se nulla
ostava da parte sua, essa aveva risposto che lui era padrone di fare quello che voleva,
ma che il padre non ne sarebbe stato contento: dopo la separazione questi, avendo
simpatia per il genero, non aveva più scritto alla moglie e alla figlia.
A fine maggio si era recato con l'impresario ad Ancona per assistere ad una Aida,
interpretata dalla Stolz: offrirono al soprano 200.000 franchi perché venisse in
America per sei mesi, ma la donna si disse indecisa. Dopo a Forlì, indi a Parma per le
scene del pittore Cerolamo Magnani, a Milano per i costumi, e in luglio a Brescia per
visionare ancora l'opera, dato che Strakosch aveva acquistato da Ricordi le musiche e
gli strumenti speciali per allestire lo spettacolo.
Essendosi saputo che era intento ad allestire una ricca compagnia, fu al centro delle
offerte di tutti gli agenti che volevano piazzare i loro rappresentati. Anche amici e
conoscenti si fecero avanti con raccomandazioni: Franco Faccio gli segnalò una
corista. La compagnia, però, si sarebbe composta in Europa soltanto per gli artisti di
cartello, per le masse orchestrali, corali e coreutiche avrebbe utilizzato professionisti
residenti in America.
«Se a New York potrò venderti qualche servizio mi metto a tua disposizione»: dato
che il mercato americano era in mano alle edizioni francesi e tedesche, si offriva per
trovare uno spazio anche per quelle di Ricordi.
La navigazione fu "perfida", e incapparono in una tempesta che li sballottò per diciotto
ore: perturbazione, raccontava, battezzata West India Cyclone. «Il bello e buon tempo
non l'ebbimo che nei due ultimi giorni». Le traversate, anche se le navi erano sempre
più grandi e veloci, non si presentavano del tutto esenti da rischi. Pochi mesi dopo
scriveva: «Nel batello a vapore la Ville de Havre che andò sommerso pochi giorni or
sono nel Atlantico v'era tra i passeggeri mia suocera che peri miseramente;
quantunque noi non eravamo in amicizia pure mi fece una grande sensazione questa
terribile disgrazia».
Se il tempo era favorevole, i viaggi su transatlantici sempre più da leggenda,
ovviamente per chi poteva permettersi i ponti alti, erano come la permanenza in un
albergo di lusso circondato da un bastimento: veri e propri palazzi naviganti che
offrivano sale e passeggiate in spazi prodigiosamente larghi, in cui gli scaloni
servivano soprattutto da passerella per sottolineare l'eleganza dei passeggeri. Qui si
celebravano i riti dell'alta società europea e della ricca borghesia americana, e ogni
particolare negli arredi di sogno, nel mobilio delle cabine, nei servizi da tavola
dell'Orfevrerie Christotle, rispondeva a queste finalità.
Al livello di galleggiamento, nei rumorosi locali adiacenti ai motori, agli alberi, e alle
eliche, erano invece accalcati gli emigranti, accuratamente sottratti alla vista dei
membri del bel mondo. Giunti a New York, mentre nessun fastidio turbava all'approdo
la serenità degli appartenenti alle classi abbienti, i poveri dovevano sottostare a una
sorta di quarantena con relativa visita medica per poter accedere alla terra della
speranza: a condizione che fossero sani, non anarchici, né prostitute.
L'opera più attesa della prima parte della stagione all'Academy of music di New York
era l'Aida. di cui l'8 settembre Muzio cominciò a far studiare i cori. Per disporre di
maggior tempo per la preparazione, il I ottobre 1873 iniziò gli spettacoli con una
splendida Lucrezia Borgia, e proseguì con Lucia di Lammermoor, il trovatore, Ernani,
Don Giovanni, Marta, Gli ugonotti, e solo il 26 novembre andò in scena la prima
americana dell'Aida. Il trionfo della stagione lirica, anche per merito di una compagnia
composta interamente di giovani talenti eccezionali - Italo Campanini, Anne Louise
Cary, Romano Nannetti, Christine Nilsson, Giuseppe Del Puente, Victor Maurel - fu
clamoroso, al punto che questa fu ricordata dagli studiosi dell'opera come la migliore
in assoluto di tutto l'Ottocento americano.
Il 3 dicembre Muzio si compiaceva con l'editore per il successo dell'Aida, crescente in
applausi, pubblico e incassi. Dopo la prima era stato costretto a sostituire la Nilsson
«perché non ha ritmo ne il fisico e intuizione musicale. E' una reputazione fabbricata a
Parigi».
Anche se l'attività era intensa, rendeva bene, e il 22 novembre poté inviare a Verdi
5000 franchi in oro, con preghiera di impiegarli per lui nel modo più redditizio e sicuro
in valuta nazionale, in quanto si riproponeva di concludere i suoi giorni in Italia:
diverse altre rimesse poté fare nel corso della tournée. Chiedeva inoltre al maestro di
dividere una certa cifra tra i fratelli qualche giorno prima di natale.
Altra occupazione fu quella di procacciatore d'affari. Mentre al Cairo, come abbiamo
visto, aveva chiesto a Ricordi di accreditargli la sua "piccola" commissione, che
sperava di far crescere con altre ordinazioni, da Cincinnati il 2 gennaio 1871
comunicava che la John Church & Co, casa editrice e venditrice di ogni "Musical
Merchandise", era di prim'ordine. «Essa importa molta musica dalla Germania. ma io
ho insistito affinché si metta in corrispondenza con te poiché sono certo che troverà
maggior facilitazione e maggiore convenienza nei prezzi. Siccome andiamo nelle altre
città del West in questi paesi farò lo stesso cogli altri negozianti di musica». Muzio
aveva visitato i negozianti di tutte le città dove aveva diretto, ma tutti si servivano da
Church, essendo i prezzi praticati da Ricordi molto più elevati di quelli degli altri
editori: «il solo mezzo per entrare nel mercato sarebbe di avere un deposito di buona
musica in chiave di sol (per il canto) e fare concorrenza col buon mercato».
Scriveva che l'Aida aveva «suscitato il calore» del pubblico a Cincinnati, St. Louis,
Chicago, "Milwake" e, anche se non gli piaceva la Torriani nel title role, disponeva solo
di questa. Per la serata d'onore, la beneficiata, che si sarebbe tenuta nel marzo a New
York, chiedeva l'invio dell'Inno delle nazioni di Verdi. Dato che il telegramma gli era
costato 23 dollari, sperava che l'editore sarebbe stato modico con il nolo. Al ritorno
avrebbe portato di persona il materiale.
Strakosch, nel frattempo, aveva rinunciato a prendere l'appalto del Theatre Italien di
Parigi, in quanto la stagione americana continuava con pari successo a Brooklyn,
Philadelphia, Baltimore, Cincinnati, St.Louis, Chicago, Milwaukee, Toledo, Boston,
Providence, per tornare a New York, dove vennero presentati Lohengrin e La favorita.
Il giro, dopo aver toccato anche Washington, si sarebbe concluso a Philadelphia nella
seconda metà dell'aprile 1874.
L'Inno delle nazioni venne recapitato soltanto cinque giorni prima della beneficiata,
che ebbe luogo il 28 aprile. Ancora una volta Ricordi si era servito delle linee
marittime di Genova, molto meno frequenti e più lente di quelle francesi e inglesi che
partivano dai porti che si affacciavano sull'Atlantico. Muzio puntualizzò che aveva
dovuto pagare 14 dollari per lo sdoganamento.
Oltre all'Aida, che venne rappresentata ventotto volte, un vero trionfo accolse il
Lohengrin: un cast eccezionale, la Nilsson, la Cary, Campanini e Del Puente, il 23
marzo 1874 fece conoscere al pubblico americano Wagner in lingua italiana. A Muzio
che, essendo stato allievo di Verdi, era poco considerato come direttore per l'opera del
compositore tedesco, toccò la sorte di dirigere uno storico trionfo. Il Krehbiel nei suoi
Chapters of opera scrisse che, cantata "excellenty", con magnifici costumi, attirò
moltissimo pubblico fin dalla sera della prima. Muzio confidò a Ricordi che il successo
era "immenso" e faceva ottimi incassi. L'Aida, adesso, veniva eseguita solo una volta
alla settimana. in quanto il Lohengrin era «più fresco per il pubblico ma molto pesante
per noi tutti, ad ogni modo vi sono le gran belle cose, e non per lodarmi, l'esecuzione
è buona, ma buona assai». Si dispiaceva di non poter essere a Milano per la prima
della Messa da requiem di Verdi, dato che la trionfale stagione fu prolungata fino al 6
giugno.
Tornato a Parigi, ai primi di luglio accompagnò Verdi e la moglie a Sant'Agata. Si
trattenne alcuni giorni, per ripartire alla volta di New York. Nella metropoli americana
lo raggiunse la notizia che la moglie del fratello Giulio era in pericolo di vita. Chiese a
Verdi se gli faceva il favore, nella malaugurata ipotesi della dipartita di dare
disposizione al notaio Angelo Carrara di «farle un funerale modesto e pagarne per mio
conto le spese».
A New York diresse la Messa da requiem, e il successo fu «buono non volendo dir
grande per modestia»: aveva dovuto ripetere il "Sanctus" e "L'agnus Dei". Se l'ultima
composizione di Verdi incontrava il favore del pubblico, non si poteva dire lo stesso dal
punto di vista finanziario, in quanto «i preti ne hanno fatto mercato in due chiese e ciò
non si poteva impedire poiché la proprietà letteraria col Italia non é riconosciuta... In
queste chiese, infatti, era eseguita ogni domenica con il solo organo, cosa che fruttava
un dollaro di diritto mentre, per eseguirla con l'orchestra, le spese erano elevatissime
superavano i 1500 dollari: centocinquanta coristi a tre dollari ciascuno, ottanta
professori d'orchestra a sette dollari, affitto del teatro, gas, manifesti, pubblicità, cui
bisognava aggiungere il costo dei solisti... L'arcivescovo ne vuole una esecuzione nella
cattedrale, se pagherà v'andremo». Per il resto, la stagione proseguiva con buon
andamento artistico e finanziario.
A dicembre, assieme a una rimessa di 2500 franchi, inviava da Boston a Verdi gli
auguri per le feste, e gli preannunciava che, probabilmente, a gennaio sarebbe andato
a Cuba per una stagione di due mesi: in questo caso gli avrebbe inviato dei buoni
sigari. Voleva raggiungere le nove o diecimila lire di rendita, per mettersi al sicuro per
la vecchiaia, e chiedeva di dare per le feste ai fratelli duecento lire, «però non lo
devono prendere come regola ché se gli affari non andassero meglio in seguito non
potrei farlo l'anno prossimo».
Al termine della stagione, il 5 marzo 1875, diresse la sua beneficiata e il giorno dopo,
alle tre pomeridiane, si imbarcò sul Celtic per la Gran Bretagna. Il mese non era dei
migliori per la traversata, ma l'economo Muzio non voleva rimanere a New York senza
far nulla, «dato che tutto è caro». Intendeva allestire una buona compagnia per
ritornare a New York, in caso contrario sarebbe rimasto in Europa.
A Parigi, nel secondo anniversario del giorno in cui era stato messo alla porta dalla
moglie, aveva pranzato nell'appartamento che era stato il suo con degli amici
americani che lo avevano comperato, essendo l'attività intrapresa da lei andata in
"débacle". La casa era stata, probabilmente, intestata dal musicista alla moglie, in
quanto non risulta che Muzio avesse mai posseduto alcun immobile, ed essa era
nullatenente. Dopo lo scioglimento del matrimonio, egli visse tra appartamenti
d'affitto e alberghi: la casa di proprietà, intesa come luogo di aggregazione della
famiglia, per lui aveva perso significato. Il fatto che non avesse pensato a investire
parte dei guadagni in un appartamento, va visto nell'aspirazione, più volte espressa,
di ritornare in Italia a passare gli ultimi anni, e di non volere pertanto essere legato a
proprietà immobiliari, anche se queste a Parigi offrivano una rendita cospicua.
Non abbiamo notizia se Muzio si recò a Londra il 15 giugno per essere vicino al suo
Verdi che vi dirigeva la Messa da requiem: da quanto gli scrisse in quei giorni
sappiamo che nella capitale francese, oltre ad assistere al Requiem tedesco di
Brahms, che definì «confuso, pessimamente scritto per le voci che non si uniscono
bene», si recò all'Opera Comique per la nuova opera di Bizet, che indicò erroneamente
in Massenet Carmen: «Si figuri dei Lider tedeschi aggiustati per voce e orchestra.
Bisogna sentire come sono scritti i cori: impossibile intonare! Povera gente che fecero
più di novanta prove!».
Dopo essere stato a Venezia al Teatro Malibran per l'esecuzione della Messa da
requiem diretta da Franco Faccio. in cui cantavano la Stolz e la Waldrnann, nel luglio
fu a Sant'Agata. Nello scrivere del successo della Messa, la Stolz, sempre meschina e
sminuente nei confronti di coloro con i quali lavorava, fece delle riserve sulla
rumorosità dell'orchestra. Conoscendo la facile loquela dell'ospite, terminava la
missiva con un «Prego di non dir nulla della mia opinione sul Faccio al Maestro Muzio».
Verdi. tramite Muzio, era in trattativa con Escudier per rappresentare a Parigi sia Aida
che la Messa da requiem, da eseguire in tournée nelle città della Francia: nell'ottobre,
così, il direttore fu occupato nel far studiare a Milano gli artisti che avrebbero preso
parte a questo giro. Tornato a Parigi, potè rappresentare la Messa che «procurava una
sensazione immensa». Non era però soddisfatto del soprano, la Caruzzi che, se nelle
prove al pianoforte si era comportata bene, adesso non andava: era debole
nell'emissione e non sentiva l'orchestra al punto che dovette sostituirla. Avvilito,
asseriva di essere arrabbiato con se stesso, e giurava che mai più avrebbe preso
l'impegno di scritturare degli artisti. Inconvenienti incontrò con il tenore, che dovette
essere protestato anche lui. L'errore era stato nel volere artisti italiani: per ragioni di
bilancio, aveva dovuto accontentarsi di quelli che si accontentavano, con le
conseguenze spiacevoli cui poi andò incontro. Verdi gli aveva consigliato di scritturare
elementi francesi, che erano meno costosi.
Dopo aver scritto alla Lampugnani che gli affari andavano bene, al punto che per
l'anno nuovo prevedeva "piena prosperità", il 4 dicembre 1875, indirizzandosi a
Ricordi da Bruxelles, dove si era recato per dirigere due esecuzioni della Messa, disse
che sperava di rappresentarla per altre recite, dato il successo conseguito. Pari
accoglienza aveva ricevuto ad Amsterdam nelle due rappresentazioni al Teatro
Nazionale e in quella al palazzo dell'Industria. «Orchestra e coro sono eccellenti»,
mentre il 14 dicembre sarebbe stata la volta di Namour, indi di Gand, poi nuovamente
di Bruxelles. Metteva in guardia l'editore sul fatto che probabilmente la Messa era
stata strumentata abusivamente in Olanda: «Non so se con questo paese esistono
trattati di proprietà».
Dopo il successo a Nantes, il programma degli ultimi giorni di dicembre era così
articolato: il 22 Angers, il 23 Tours, il 27 Poitiers, il 29 Bayonne, e il 31 Pau, per
continuare nel nuovo anno il 4 e 8 gennaio a Bordeaux. Qui, anche se l'orchestra e il
coro erano veramente "poveri", dette il 10 una terza rappresentazione, per poi recarsi
a Perpignan, Mompellier, Cette, Marsiglia, St.Etienne, Nizza, dove la prima avrebbe
avuto luogo il 24 gennaio. Sarebbero seguiti Cannes, Mentone e Monaco.
La tournée era una di quelle spedizioni in provincia, di cui la storia del teatro per lo più
tace, dette "punitive", non sappiamo se nei riguardi del pubblico o degli esecutori:
freddo eccessivo, alloggiati male, e l'impresario Strakosch, che doveva a Muzio 5000
franchi il I dicembre, e altrettanti il 1 febbraio, scriveva che al momento era
nell'impossibilità di onorare il debito. A metà gennaio la compagnia rimase
imprigionata quattro giorni dalla neve e dal ghiaccio: senza comunicazioni, con fame,
freddo, gelo, privazioni. Partiti l’11 da Bordeaux, alla base dei Pirenei erano stati
sorpresi dalla neve che aveva coperto i binari: lavorando per tre ore i macchinisti
erano riusciti a liberare il treno e a ripartire. Eseguito il 12 il concerto a Perpignan, il
13, "giorno nefasto e fatale", mezz'ora dopo la partenza, un uragano investì il treno,
che restò bloccato a trecento metri dalla stazione di Leucate. Dato che la locomotiva
inviata in soccorso non poté effettuare il traino, il capotreno fece scendere i
passeggeri, che con fatica e cadute si rifugiarono nella piccola stazione. Rifocillati con
pane e vino caldo, dopo che erano arrivate ben tre locomotive, poterono lasciare la
località, per dover passare quattro "eterni" giorni segregati a Lenovelle, da cui
proseguirono nella tournée che, nelle piazze minori, si articolava in un concerto con
l'esecuzione di frammenti della Messa.
Un mare di seccature vennero dalla Barlani Dini che, oltre a seminare zizzania nella
compagnia, era rabbiosa perché voleva essere scritturata per Parigi, ma, a parere di
Muzio, non aveva le qualità: «Spinge la voce, grida, ma non può cantare a mezza
voce perché ha abusato della voce di petto, poi non è attrice, non ci vede, è comune e
più di tutto è un demonio in compagnia e molte volte stuona». La condotta, poi, era
quanto di più riprovevole per una donna: a tavola, dopo pranzo, si metteva a fumare
un sigaro; a Bruxelles e Bordeaux l'aveva vista a passeggio vestita da uomo: aveva
«troppa dimistichezza con le ragazze» e, a volte, nelle camere d'albergo, si preparava
la cucina con un fornello a spirito...
Il carteggio con la Lampugnani, la cui agenzia aveva scritturato la cantante, è fitto di
notizie: a metà febbraio a Tolosa la prima donna, pur con un teatro quasi pieno per la
terza rappresentazione del Requiem, fece saltare la recita. Il pubblico, che si era
recato sdegnato all'albergo dove alloggiava la compagnia, fu arringato da un balcone
dal soprano: non cantava, disse, in quanto non era stata pagata, l'organizzatore le
aveva detto che «il se fareit plus tos couper le couque de me payer», ma che per il
popolo di Tolosa l'avrebbe fatto gratis. A questa sortita erano seguite una denuncia di
Bernard per calunnia e diffamazione e una da parte della polizia per infrazione
all'ordine pubblico e atteggiamento sedizioso.
La piazzata si era conclusa con una multa, in considerazione del fatto che era
straniera, ma era stata trattenuta dal suo avvocato quando, nel posto di polizia colmo
di donne di malaffare e di ubriaconi rastrellati in una retata, aveva cominciato ad
insultare il commissario che la interrogava: «Che carattere! Che donna orribile,
immorale. Mi è toccata anche questa fortuna», era lo sfogo di Muzio, che concludeva:
«Il giro finirà con perdita, me ne spiace per Escudier e per Bernard che è un bravo
uomo».
CAPITOLO XII
Al Theatre Italien di Parigi
Terminata finalmente nei primi del marzo 1876 la tournée nelle province francesi, a
causa della stanchezza accumulata, ma più probabilmente per una affezione tifoidea,
Muzio dovette mettersi a letto per una quindicina di giorni. «Quando lasciai la stanza
per la prima volta» - scrisse a Ricordi «la mia prima visita fu per Verdi: m.me Stolz
era presente, e quando mi vide cosi scarno e pallido si mise a piangere e la prima
volta che fui sui boulevards i miei amici non mi conobbero tant'era cambiato».
Tre anni prima, nel 1873, con la Salle Ventadour si era chiuso il Théàtre Italien:
adesso Léon Escudier, volendone risollevare le sorti cui erano legati gl'interessi della
sua casa editrice, si era fatto impresario per ridar vita alla gloriosa istituzione. Fu qui
che il 6 aprile. quando fu di nuovo in piedi, Muzio si recò per occuparsi del coro: si
stava infatti preparando l'Aida, ed egli, che era stato nominato direttore artistico e
principale, era impegnatissimo. La convalescenza era stata giocoforza breve, e si mise
subito a dirigere le prove: Verdi fu assai contento del lavoro svolto, e manifestò il
compiacimento davanti a tutto il personale del teatro.
La compagnia - Masini, Pandolfini, Medini. la Stolz e la Waldmann - era di prim'ordine
e gradita a Verdi, venuto appositamente a Parigi per curarne la messa in scena.
L'opera, presentata alla fine del mese e diretta dall'autore, conseguì una vittoria
travolgente, e gli incassi furono eccellenti. Alla prima, causa il gelo tra le diplomazie di
Francia e d'Italia, fu notata l'assenza del presidente della repubblica Mac Mahon. Il
teatro fu comunque tutto esaurito, con introiti sempre crescenti.
Riguardo a quest'opera, il Monaldi narra un aneddoto, riferitogli dal Resasco:
«Mi trovavo nel 1888 alla prova generale d'un'opera nuova al Carlo Felice. A un tratto
ha luogo dalle quinte un allarme d incendio, finito poi comicamente con due strappi di
cartaccia. Un mio vicino di scanno mi si volge, dicendomi:
"Se succedeva un guaio, la colpa era mia!"
"Sua!" soggiungo meravigliato. - Poi, fissando meglio, riconosco il maestro Muzio, e ci
scambiamo una stretta di mano.
"Sì, colpa mia - ripiglia l'allievo di Verdi, fra il serio e il faceto. «Lei deve sapere che vi
fu un tempo, prima del mio soggiorno definitivo a Parigi, che nell'arte italiana mi si
tartassava come un porta disgrazia. Di cella in cella si era finito col dire e credere sul
serio che se il maestro Muzio s'immischiava di qualche cosa, spettacolo d'opera od
altro, generava un guaio. Posso dirle di cantanti che non volevano più adempiere al
proprio assunto sotto la mia direzione e anche d'impresari che rinunziavano per tale
ragione all'opera mia".
"Ma lei, dissi, come aveva dato pretesto a tutto ciò?"
"Vere sciocchezze - rispose il Muzio. - Alfine mi stabilii a Parigi e, grazie anche al
Verdi, le mie cose ripresero migliore andazzo".
"Lei non era dunque più quel grande iettatore?"
"Siamo alla data famosa in cui Verdi andò a porre in scena a Parigi la trionfale Aida.
Con quest'uomo tutto va bene. Prende la bacchetta di direttore per le prime
rappresentazioni suscitando un delirio d'entusiasmo; però mi dice:
"Muzio, come vedi, tutto è andato sinora bellone. Conosco la tua bravura mi
raccomando solo che... non succedano disgrazie!"
Rispondo fiduciosissimo: "Spero di no, Maestro".
«Ma proprio, alla prima sera, in cui dovevo dirigere, e a teatro già strapieno, la prima
donna dichiarasi colta da improvviso malore e nella impossibilità di cantare. lo
allibisco: quelli erano introiti da ventimila lire per sera. Però non mi scoraggio: corro al
camerino della cantante, e rimasto solo con lei le dico:
"Badate! Non c'è malanno che tenga: bisogna cantare!"
"Impossibile!" risponde la virtuosa
"Ve lo impongo - replicai io - e guai a me!... ma anche a voi! Guai!!"
Bisogna dire che il mio "guai" le abbia fatto paura. Ella cantò, per non so quale
miracolo, divinamente. La iettatura era sfatata!».
Le repliche, che il Garibaldi disse sessantasette, erano state dirette da Muzio, il quale
poté scrivere con giusto orgoglio: «Mi sono fatto onore dirigendo l'Aida. Se andiamo
avanti di questo passo Escudier guadagnerà ciò che ha perduto col giro». Della
massacrante tournée, avanzava ancora 903 franchi, che aveva anticipato per pagare
gli artisti, e questo denaro, malgrado le promesse, non arrivava mai. Restò creditore
di una notevole cifra anche alla fine della stagione lirica, che si chiuse in perdita.
Essendosi fatto garante con l'agenzia Lampugnani per le mediazioni che spettavano a
questa, e dato che Escudier non provvedeva alla liquidazione, il 7 maggio se ne
incaricò di tasca sua, inviando "un ceck" di 705 franchi. Nel frattempo, nell'ipotesi
della chiusura del Théatre Italien, aveva ripreso a dare lezioni di canto, nelle quali era
uno dei docenti più ricercati: era fiero dei risultati, e quando scriveva all'agenzia
Lampugnani, trovava sempre modo di parlare degli allievi usciti dalla sua scuola, il
contralto Sposta, i soprani Ada Adini, Teresina Singer, Silla De Sparta, il
mezzosoprano Cary, Adelina Patti, e tante altre... «Troverà in seno a questa mia due
ritratti che sono di due persone che hanno finiti i loro studi con me [Alexandra
Krontikoff e Vittoria Ancelli]. Se fossero mediocrità come voce e talento non mi
prenderei la pena di raccomandarle. Sarei felicissimo se si presentasse una occasione
per queste due giovani...».
Dopo le amare esperienze avute con i preti negli anni della giovinezza, ogni occasione
era buona per esprimere giudizi graffianti sull'operato del clero: riguardo alla
situazione politica francese, così si esprimeva con Verdi: «Il governo MacMahon è
nelle grinfie dei gesuiti, dell'arcivescovo Depanscrup e di sua moglie». Uno dei
pettegolezzi sui quali amava indulgere riguardava i rapporti intimi delle persone di cui
parlava: sappiamo così che la Heilbron in una stagione a Pietroburgo aveva
«assaggiato i rubli russi (e quello che segue)», che della Chapuy non sapeva se aveva
«l'amante ma ciò che è positivo si è che canta come un angelo», che la Krauss, a
causa del processo per adulterio, aveva sciolto il contratto con l'Opera, e adesso
anche che l'arcivescovo Depanscrup aveva "moglie"... Le sue lettere, d'altra parte,
proprio per la ricchezza di informazioni, un "emporio di notizie", erano oltremodo
gradite sia a Verdi che alla Peppina, ed era stato il maestro stesso, fin dai lontani
tempi della prima volta che si era recato a Napoli, a chiedergli di essere minutamente
informato di tutto quello che avveniva, e non solo nel campo teatrale.
Finita nella tarda primavera 1876 con 35 gradi di temperatura la faticosa stagione
parigina, Muzio prese una vacanza a Sant'Agata, e fino alla metà di agosto fu ospite
sul lago di Como dell'amica Katinca lampugnani.
L'anno di una famiglia abbiente, in particolare a Parigi, era contrassegnato dalla
villeggiatura estiva, improntata alla distensione e al tempo libero. Anche Muzio si era
adeguato a questa abitudine al pari della vita scolastica che si era adattata di buon
grado a questa ideologia delle classi aristocratiche e borghesi, allungando le vacanze.
Alla metà del secolo queste, come abbiamo visto nel capitolato del concorso per
maestro di musica di Busseto, duravano dalla fine di agosto a tutto settembre:
successivamente si estesero fino a comprendere, oltre all'intero agosto, anche luglio e
parte di giugno. la villeggiatura, anche se avevano avuto inizio i bagni "marini", si
svolgeva per lo più in campagna o nelle "città d'acque": in ville di proprietà o,
quantomeno, in case (l'affitto o in pensione. L'anno, cosi, si divideva in due parti: la
stagione mondana nella residenza di città, la villeggiatura nel periodo estivo. Non
mancava il turismo (l'inverno a Nizza o a San Remo, riviera prescelta dalla moda per
la dolcezza del clima.
Rientrato a casa, dove lo attendevano gli impegni con il teatro e le lezioni private,
Muzio narrò a Verdi che le cose andavano tutt'altro che bene per i teatri della capitale
francese. Il Theatre Italien avrebbe aperto comunque, anche se i direttori del Grand
Opéra, dell'Opera Comique e del Théatre Francais si erano fatti ricevere dal ministro
per chiedere di autorizzare la chiusura. Questi, però, aveva risposto: «Dans la
prosperité vous n'avez jamais donne le son de vos profits au Governement, et le
Govemement ne pennettra jamais de fenner les théàtres subventionés». Parigi, senza
i teatri, sarebbe stata una vera tomba.
Il 16 settembre 1876 inviava a Fassi, direttore della Gazzetta dei teatri una cronaca
assai attesa: «Andai al disotterramento del cadavere di Bellini. Domani o al più tardi
lunedì ti manderò una descrizione de visu della bella cerimonia per la Gazzetta, così
riprenderò ancora le corrispondenze, ma per l'amor del cielo non voglio che si sappia
ch'io scrivo perché ho una posizione pubblica, e poi voglio essere libero, e dire
schiettamente la mia opinione». E concludeva con un post scriptum: «Trovo nel mio
portafoglio un biglietto del lotto di Milano del 2 settembre. Se in quel giorno sono
sortiti 3. 13. 89 ho guadagnato £. 25.000 e ti manderò il biglietto per riscuoterle».
Scriveva per la Gazzetta dei teatri sotto lo pseudonimo di "Ariodante". Aveva però
raccomandato: «Silenzio sopra Ariodante con tutti. Nessuno deve sapere che
Ariodante è Emanuele Muzio». Gli interessati si chiedevano chi fosse questo Ariodante,
cosi competente e addentro alle cose teatrali. A un tale, che si rivolse alla rivista per
sapere chi fosse, Muzio stesso cosi si descrisse nella risposta: era un dilettante che da
quindici anni, pur tenendo una corrispondenza regolare, non aveva mai voluto alcuna
ricompensa. Andava in tutti i teatri, pagava il biglietto, e non aveva mai voluto
conoscere i cantanti. La ragione per cui gli artisti volevano invece conoscere lui, era
perché lo credevano eguale agli altri corrispondenti di giornali ai quali, per un pranzo,
un regaluccio, dei biglietti gratis, potevano far dire quello che volevano. Ne conosceva
tanti di corrispondenti politici e teatrali che prendevano anche denaro... Essendo
conscio di non avere grande dimestichezza con la penna, si limitava a dare le notizie,
raccomandando a Broglio, direttore della rivista, di rivederle, correggerne la forma, «e
se trova ripetizioni le giusti a modo suo». Giudizi severi, scritti a volta con sarcasmo,
del genere di quelle opinioni espresse nei confronti dei compositori allora attivi.
Occupatissimo, spesso aveva temuto di dover smettere di fare il corrispondente per
mancanza di tempo. «Vedrò di trovare un Italiano onesto che voglia prendere il mio
posto: ma è difficilissimo trovare uno che non abbia bisogno, che abbia i mezzi di
essere presente alle prime rappresentazioni e che sappia ciò che passa fra le quinte».
Era occupato dalle nove del mattino alle sette di sera con le lezioni o con le edizioni:
dopo quell'ora pranzava in buona compagnia, frequentava i salotti, e si divertiva...
Non possiamo dire in quali edizioni Muzio fosse impegnato: a Parigi pubblicò alcune
liriche per canto e pianoforte, delle quali, però, non conosciamo la data esatta.
Come abbiamo accennato, una abitudine della buona società era il salotto, nel quale il
bel mondo usava incontrarsi nel corso della settimana, ora in un palazzo, ora
nell'altro. Queste riunioni, oltre alla nobiltà e all'alta borghesia, si aprivano a persone
della cultura, della scienza, delle arti, della finanza e della politica, dove portavano il
contributo del pensiero, degli ideali, del sapere. Non si disdegnavano, anzi, le
conversazioni intime, anche un po' maligne. Questi incontri erano il momento ideale
per fare musica e teatro: fra amici si formavano gruppi che suonavano e cantavano, si
trovavano regolarmente, e a volte si riunivano in orchestre per organizzare veri e
propri spettacoli. Vi erano quelli che prendevano lezioni di canto per avere un
repertorio da sfoggiare nella stagione, e costoro costituivano l'ornamento vocale delle
serate mondane.
Muzio aveva nell'ambiente un notevole giro di clienti: il 22 settembre 1872, ad
esempio, aveva chiesto a Ricordi di inviargli a suo gusto diversi pezzi da camera per
mezzosoprano, avvertendolo però «bada che l'accompagnamento non sia troppo
difficile e le parole facili per la pronuncia. Tutto ciò che è stornello impossibile farlo
cantare agli amateurs». Il dilettantismo era del pari presente nelle serate danzanti
intime - quelle cioè aperte soltanto ad alcuni ospiti selezionati - dove gli invitati, a
turno, sedevano al pianoforte per far ballare gli altri. I cataloghi delle case editrici
erano prodighi nell'offrire controdanze, polche, mazurche, valzer, anche a quattro
mani, due pianoforti, due pianoforti a quattro mani, nonché romanze da salotto in sani
gradi di difficoltà. Nelle grandi serate, invece, per i balli si ricorreva a orchestre di
professionisti, come pure si invitavano uno o più cantanti lirici, che si esibivano in ben
retribuiti recital a domicilio.
Per conto dell'agenzia Lampugnani, Muzio collaborava come mediatore a Parigi, per
contattare i cantanti più prestigiosi: «L'anno scorso S.E. il Bey mi ha fatto spendere
fra telegrammi e vetture per scritturare l'Heilbron quasi trenta franchi: ora, mia cara
amica, siccome so che essa ha l'intera mediazione per i contratti del Cairo, così questa
di Maurel se il contratto si effettua la divideremo, come feci per altri contratti per
l'America e per la Francia. L'affare Patti non è ancora definito; neppure la scrittura
Nilsson, ne quella della Sass». La scrittura di Maurel andò in porto, e Muzio ci tenne a
far rilevare che non aveva «badato a demarches», pressioni, pur di raggiungere lo
scopo.
Il 31 ottobre 1876 Escudier apri la stagione presentando per la prima volta in Francia
La forza del destino. Anche se diretta magistralmente da Muzio, (tutti i critici gli
rivolsero il plauso) e con il pubblico favorevolmente disposto, l'opera fu un insuccesso:
in parte per le manchevolezze del libretto, che suscitò le risate, in parte per il tonfo
della zingara Preziosilla, che impose di cambiare uno dopo l'altro tre mezzosoprani. E
dire che alla prima l'ouverture era stata fatta bissare tra i ripetuti applausi. Seguì
l'Aida, in cui il mezzosoprano Greymard non era in voce, contribuendo all'insuccesso
della serata.
La situazione del Théàtre Italien rimaneva incerta, come la politica europea: «Avremo
pace o guerra?», si domandava Muzio, facendo precedere da questo dilemma un
esame della situazione internazionale. In Europa c'erano soltanto due potenze che
avevano i mezzi per fare guerra, e queste erano la Francia e l'Inghilterra; la moneta
russa aveva avuto un ribasso del 15%, l'Austria era senza denari, la Turchia e l'Egitto
in piena bancarotta, l'Italia pochi mezzi. Sulla base di questa analisi della finanza
internazionale, concludeva che vi sarebbe stata la pace, «e che Dio la conceda a
tutti».
Nelle lettere al maestro non potevano mancare le notizie dell'incontro della Patti con il
tenore Nicolini: il soprano aveva abbandonato il marito, il tenore aveva lasciato moglie
e cinque figli, il bel mondo sussurrava, e via dicendo. In fondo, le stesse cose che
scrisse la Stolz, condite però con la cattiveria, l'acrimonia e il gesuitico perbenismo
propri di quella prima donna.
Il I gennaio 1877 raccontava un altro piccolo squarcio di vita teatrale: il debutto di
una ex allieva, la Eyre, che era stata a perfezionarsi da lui in Italia nel 1872. Tutti
dicevano che aveva pagato per cantare, e siccome era piena di protettori ricchi e
influenti, lo credeva possibile, quantunque Escudier lo negasse. Il direttore sapeva
"ufficialmente" che aveva comperato biglietti per 2400 franchi, e fatto confezionare i
costumi nuovi a proprie spese: i bene informati sussurravano inoltre che aveva
versato 5000 franchi all'impresario. Aveva fatto resistenza a che la donna cantasse, e
aveva rifiutato di darle lezioni per non compromettersi, ma Escudier lo aveva
ammonito che, opponendosi, avrebbe avuto contro tutti gli amici della Eyre e tutto il
Jockey club. Era rimasto egualmente contrario, ma la serata, con la sala in buona
parte riempita dagli amici della donna, era stato un successo.
A gennaio poté annunziare a Verdi che il Rigoletto aveva avuto successo, e incassato
in una serata 16.758 franchi: una cifra incredibile. Alla seconda assisteva anche il
presidente della repubblica maresciallo Mac Mahon, «che però non pagò perché
Escudier gli offerse il palco».
La stagione procedeva con alti e bassi: Linda di Chamounix; Don Giovanni con la
Singer, «che bella voce e quanta attitudine ha per il canto se fosse ben istruita»; la
Giovinezza di Enrico V di Hlerold, «un'anticaglia nello stile di Paisiello e Cimarosa»; dei
Puritani, «l'Albani non piace e non attira la folla»; della Traviata, «Masini fu cattivo» e.
mentre l'impresario voleva mettere in scena Una vita per lo zar di Glinka, Muzio
propendeva per I vespri siciliani, sperando di poter disporre di un cast di prim'ordine
«la Mariani, Carnpanini, Pandolfini, sarebbe un buon quartetto».
La Patti ritornava spesso nella corrispondenza: «Tutte le lettere che arrivano da
Vienna dicono che la Patti ha continuo vomito e che è gravida». E ancora: «Fra
qualche tempo farà divorzio, poi si mariterà a qualche principe o duca e lascierà
Nicholas con un palmo di naso». Per sciogliersi del contratto che la legava a Escudier,
la "divina" aveva offerto 100.000 franchi. E Muzio: «Era meglio prenderli, pagare con
questi le perdite di questa stagione e dire addio al teatro, non é vero?». «Sempre in
un grande imbarazzo di denaro», Escudier era nei guai anche a causa di un figlio
scioperato, «e la povera madre sua piange giorno e notte». E qualche tempo dopo:
«Ah, se Escudier lasciasse, avrei l'uomo con denaro che lo metterebbe a mia
disposizione e l'assicuro che vorrei far andar ben differentemente le cose».
Muzio, che continuava a vantare nei confronti di Escudier un credito di 600 franchi
dalla tournée con la Messa da requiem e di 2000 franchi dalla stagione lirica
precedente, nonché uno di quasi 11.000 franchi nei riguardi dell'impresario Maurice
Strakosch (9000 di capitale e 1680 di interesse, per l'esattezza), seguitava ad
acquistare titoli per assicurarsi la vecchiaia, ad aiutare i fratelli, a contribuire
all'educazione della nipote. «Se potessi esigere i miei crediti, sospirava, avrei quasi
5000 franchi di rendita... ».
Il 30 marzo 1877 Verdi gli comunicò che si sarebbe recato a Colonia con la Peppina, e
che sarebbe stato lieto di averlo con sé per la circostanza. Rispose che era l'occasione
buona per bere una di quelle buone bottiglie di vino del Reno che esattamente
trent'anni prima non avevano portato a Parigi. Diceva di ricordare quel viaggio come
appena avvenuto: l'avventura con la sentinella che li voleva uccidere a "Calsruhe"; la
vecchia lavandaia che a Maience era caduta in terra, e Verdi le aveva pagato una
carrozza perché fosse accompagnata a casa; il soggiorno a Colonia: l'abbondante,
forse troppo, bevuta di vino a Coblenza...
Terminata la stagione il 30 aprile, prima di lasciare Parigi per le vacanze, aveva dato
le dimissioni da direttore del Théàtre ltalien, «giacché è doloroso assistere alla ruina
certa di un amico». Libero da ogni impegno, volle essere al fianco di Verdi per godere
dei festeggiamenti con cui l'adorato maestro veniva onorato. All'arrivo in Germania,
questi venne accolto con una serenata: seguirono ogni giorno inviti, pranzi, cene,
concerti di bande militari e feste «così spontanee, naturali e cordiali da inorgoglire
qualunque italiano»; il 21 maggio a Colonia fu eseguito il Requiem con
cinquecentoquaranta coristi dilettanti e un'orchestra di centocinquanta professori. Al
termine del viaggio, il 17 giugno, si recarono a Sant'Agata.
«Un mio fratello vedovo va ad ammogliarsi ad una vedovella che ha qualche ben di
Dio. Una nipote si sposa ad un piccolo proprietario nipote del curato del villaggio
ov'essa è maestra di scuola. Sono dunque in pieno splendore matrimoniale e tutti
s'aspettano un regalo. Lo zio deve essere ricco! ça va sans dire!» e, in partenza per
Parigi alla fine di agosto, per fare un presente ad una signora, acquistò a Milano un
rosignolo maschio e un cesto di trenta pesche "belle buone" e fichi freschi da portare
con sé: arrivato dopo un buon viaggio, poté assicurare che tutto era giunto
perfettamente, e che adesso «l'usignolo promette di cantare meglio che tutte le prime
donne dell'universo».
Vi erano state intanto delle novità: Escudier aveva ceduto il contratto con la Patti a
Strakosch e, disponendo così di denaro, Muzio poté farsi pagare il credito: dovette
però minacciare l'impresario di usare il "papier timbré". Subito dopo scriveva a
Ricordi: «La mia lettera ebbe l'effetto da me voluto e jeri fui integralmente pagato. li
ripeto ciò che ti dissi a viva voce, non v'è tempo da perdere, ed intanto che ha ancora
parte del denaro dell'indenizzo della Patti devi fare i tuoi conti, e minacciarlo,
altrimenti ti rimetterà alle calende Greche non solo, ma alla fine colla triste compagnia
che ha e che io chiamo mercanzia avariata una catastrofe è inevitabile».
Alla fine del 1877 Katinca Lampugnani apportò radicali mutamenti all'agenzia teatrale
e alla rivista ad essa collegata. il responsabile Fassi aveva commesso delle "ladrerie",
e considerato che la malattia e l'alcoolisino avevano indebolito Broglio, direttore della
Gazzetta dei teatri, aveva affidato la gestione a Carlo D'Ormeville. Muzio, che vantava
dei crediti nei confronti del Fassi, espresse un parere orientato alla rigidezza: «Visto le
ladrerie di Fassi, darete i libri a un contabile del tribunale, farete constatare ciò che vi
deve, e vi farete pagare in diverse rate annuali». Questi, intanto, aveva aperto
un'agenzia, e inviato il piego pubblicitario anche a Muzio, chiedendo di affidargli delle
commissioni. la pretesa lo aveva reso, a dir poco, furioso: «Per Dio che paghi! io lo
minaccerei di un processo, se non regola i conti: vorrei averlo in mio potere per il
futuro!».
Carlo D'Ormeville, che aveva preso in mano l'agenzia Lampugnani, fu un vero signore
della vita teatrale italiana: agente del Teatro alla Scala, dei teatri di Roma, di Spagna,
di Russia, del Sud America, curando l'interesse dei più celebrati cantanti, divenne
ricchissimo, al punto da pagare 50.000 lire l'anno di imposte. Nato a Roma da famiglia
aristocratica, educato al collegio Capranica, culla della nobiltà "nera" e del Sacro
Collegio, era in cordiale amicizia con il potente cardinale Vannutelli, suo compagno di
scuola. Letterato, poeta, regista, aveva scritto un volume di versi, una tragedia,
Norma, che la Ristori aveva fatto applaudire da tutte le platee, i libretti del Ruy Blas di
Marchetti e della Loreley di Catalani, e aveva messo in scena al Cairo, sulle indicazioni
di Verdi. la prima assoluta dell'Aida. I suoi dei erano Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi:
non esprimeva giudizi su Wagner e non credeva nella giovane scuola. Pur non essendo
facile a errare nei giudizi, dopo la prima della Bohème di Puccini, aveva concluso il
telegramma della corrispondenza con le storiche parole: «Opera non girerà».
Con D'Ormeville, come già con la Lampugnani, Muzio adoperò il "lei": in seguito, fattisi
più cordiali i rapporti, «perché è meglio per gli affari», passarono al "tu". Anche a lui
scrisse che poteva accorciare e fare quello che voleva delle corrispondenze che
continuava a inviare.
Non avendo più un teatro che lo occupava interamente, Muzio adesso si sentiva solo,
vecchio e stanco: «Ho un solo desiderio - scriveva a Verdi il 2 gennaio 1878 - di venire
a vivere tranquillo in Italia. Perché dovrei lavorare tutta la mia vita, mentre non ho ne
figli ne famiglia? Perché dovrei restare tutta la mia vita in un paese straniero? Gli anni
passano, è vero che non mi sento diventar vecchio; ho buona salute glielo ripeto,
penso e seriamente di ritirarmi in un cantuccio che sia tiepido in inverno».
Il 9 gennaio 1878 mori Vittorio Emanuele II lasciando sì l'Italia unita, ma in una
situazione sociale ed economica disastrosa: è di quei giorni la famosa lettera di Verdi
al senatore Piroli in cui si compendiava quali fossero gli interventi dello stato
nell'affrontare la crisi: «la miseria è molta; é cosa grave e può diventare gravissima
compromettendo anche la sicurezza pubblica. Si tratta di fame!!! La povera gente
dice: "Noi domandiamo lavoro e pane. Essi ci mandano soldati e manette"». Muzio
scrisse al maestro che in suffragio del sovrano era stata effettuata a Parigi una
solenne cerimonia religiosa alla Maddalena, ma che «i giornali clericali furono
sconvenienti». Un inciso: alle cerimonie funebri tenute a Lione per l'occasione, cantò
per l'ultima volta in terra di Francia un castrato: quell'Alessandro Moreschi della
Cappella Sistina vaticana, soprannominato "l'angelo di Roma", l'unico castrato di cui
esiste il canto in alcune incisioni del 1902 e 1904 per la londinese Gramophone
Company, recentemente riversate in compact disc.
L'attività di Escudier era sull'orlo del fallimento, e vi era stata una riunione dei
proprietari del teatro per decidere se affittare subito ad altri o attendere ancora
qualche settimana, come chiedeva l'impresario. Muzio era stato interpellato da una
costituenda società, che aveva in animo di rilevare il teatro.
Per le drammatiche condizioni finanziarie, Escudier, pur continuando a gestire il
Théatre Italien, perseverava nell'abitudine di pagare il più tardi possibile i
collaboratori: anche Verdi stentava a ricevere le sue spettanze, in quanto l'agente per
i diritti d'autore, Peragallo, doveva recarsi più volte dall'impresario, senza poter
riscuotere. Dopo uno di questi viaggi inutili, riferi a Muzio che Escudier aveva detto
che era il suo ex direttore, del quale conosceva le manovre per sostituirlo nella
gestione del teatro, a istigare Verdi contro di lui. Muzio si accese come un fiammifero
e scrisse una lettera di sedici pagine all'impresario, inviandone nel contempo copia a
Verdi. Respingendo l'accusa, disse di non fare altro che adempiere l'incarico ricevuto
da Verdi, «qui m'onore de son amitiè et de son confiance», gli rimproverò di non aver
voluto dare ascolto ai suggerimenti del maestro, di essersi comportato male nei suoi
riguardi, e concluse anche che non aveva saputo educare i figli. Di quest'ultima
asserzione poi si pentì, e ne dette giustificazione con Verdi: in occasione della
separazione dalla moglie, era stato attaccato presso amici e conoscenti dalla famiglia
Escudier, che aveva commentato pesantemente quegli avvenimenti, e riferito che
lasciava morire di fame la moglie, che non aveva fissa dimora, e altre malignità: «Il
principio di quella famiglia è: far debiti e non pagarli, e colui che ha la forza di farsi
pagare è un inimico».
La rabbia aveva una duplice componente: era stato toccato l'interesse del maestro e,
anche se erano passati diversi anni dalla separazione, continuavano a ricomparire
seccature connesse all'infelice coniugio. Come conclusione di queste, a marzo era
stato citato dal tribunale civile per il pagamento di un debito di 4638 franchi, acceso
dalla moglie presso un negoziante di "cachemir" di Bruxelles, che aveva trasferito la
cambiale a un collega di Parigi. Giurava che, se per qualche ingiustizia fosse stato
costretto a pagare, avrebbe lasciato Parigi in quanto a poco a poco gli avrebbero
mangiato tutto quello che aveva faticosamente messo da parte per la vecchiaia in
Italia.
Del malumore pagò le conseguenze anche il fratello Giulio che, proprio in quei giorni,
gli aveva mandato a chiedere 200 lire: «Io non mi voglio ruinare, lavorare per gli altri,
ho fatto il mio dovere verso i miei genitori, per i miei fratelli ho fatto la stessa cosa,
ma ora chiudo la partita, e ad eccezione di un regalo all'anno nuovo io non devo ne
posso più dare le centinaia e centinaia di franchi come se fossi un milionario»
La Francia aveva superato le conseguenze della sconfitta di Sedan, l'economia si era
ripresa rapidamente, e il bilancio dello stato poteva chiudere in attivo. Il segno più
appariscente della rinascita fu l'Esposizione Universale del 1878. Muzio vi aveva fatto
una passeggiata e, a suo dire, era materialmente impossibile che tutto fosse pronto
per l'inaugurazione prevista il I maggio. Tanto per cambiare, inseriva nella lettera una
punzecchiatura alla chiesa: «I bonapartisti sono furiosi contro il papa defunto perché
non lasciò un ricordo al suo figlioccio Napoleone IV, come agli altri sovrani senza
sudditi».
A suo parere si era sull'orlo di un conflitto mondiale. in quanto la guerra tra Russia e
Turchia, conclusa con il trattato di Santo Stefano, aveva enormemente aumentato la
penetrazione dell'impero zarista nella penisola balcanica, e Inghilterra e Austria
pretendevano una revisione del trattato. La guerra avrebbe mandato a monte i
preparativi per l'Esposizione, durante la quale si sarebbero esibite al Trocadero le
orchestre di Milano e di Torino. «Si sono opposti solo i due compositori Joncières e
Saint-Saéns. Ecco come pagano l'ospitalità di cui sono cosi prodighi in Italia a opere
come Le roi de Lahores».
Ariodande intanto andava a «sentire una musica realista, impressionista,
impressionabile: La dannazione di Faust di Berlioz». Di Alma l'incantatrice di Flotow
annunciò che aveva fatto fiasco come musica e come esecuzione: era «un'opera che
morirà ora, come già morì or sono più di trent'anni quando Flotow la diede a Vienna
col titolo di Camoens. L'opera non è ne seria ne semiseria ne comica: è una serie di
canzoni, strofe Spagnuole che si succedono l'una all'altra senza connessione. I temi
dei pezzi sono triviali, e ad eccezione nel primo tempo di un terzettino della sigaretta
tutto è cattivo. L'orchestra fu cattivissima, senza insieme, facevano quel che
volevano, o meglio quel che potevano i poveri suonatori. Povero Escudier che voleva
cominciare la sua stagione francese con quest'opera!». L'esito finanziario fu anche
peggiore: la prima recita fruttò 312 franchi, la seconda 68, la terza 18...
L'Esposizione Universale venne puntualmente inaugurata il l maggio 1878: sotto la
pioggia l'apertura mancò di solennità. Muzio disse che non vi si era recato per il
cattivo tempo, non si trovava una carrozza, e al ritorno sarebbe stato anche più
difficile. Si riprometteva di andarci alla fine del mese, quando tutto sarebbe stato a
posto: adesso non vi era che rumore, polvere e confusione. In verità non si era mosso
per un piccolo incidente: aveva un callo, si era operato da solo procurandosi una
ferita, e un medico gli aveva fasciato il piede, immobilizzandolo.
Stranieri ce n'erano, e molti: alberghi e ristoranti guadagnavano quello che volevano
e, anche al di là della Senna, i proprietari avevano rialzato del 30% il prezzo delle
pensioni degli studenti, i quali avevano minacciato una rivoluzione... Gli spettacoli
erano affollatissimi, si calcolava a centomila franchi al giorno l'incasso e, al doppio, se
si comprendevano i balli pubblici, i caffè concerto, i circhi, l'ippodromo, l'anfiteatro.
«Gli impresari credo facciano novene affinché continui il cattivo tempo. Siamo in una
stagione diluviale».
In Francia era stata istituita la Società degli Autori con una cassa centrale e
"ramificazioni" in ogni città. Muzio plaudì auspicando che potesse prendere piede
anche in Italia: «Una volta si poteva morire di fame ed avere genio, ma ora chi arriva
ad avere un successo, guadagna e molto».
Dato che Escudier era sempre in ritardo per i pagamenti, Peragallo, agente della
Società degli Autori, gli intimò che doveva dare una garanzia per i diritti d'autore e
pagare ogni sera. Compiaciuto, Muzio aveva notato che era andato su tutte le furie,
ma gli era stato risposto che, essendo un cattivo pagatore, la Società doveva tutelarsi.
A giugno, intanto, l'orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Faccio, aveva raccolto
uno splendido successo con i concerti al Trocadero di Parigi, e Muzio venne contattato
dal direttore del Palazzo di Cristallo per portare il complesso a Londra. Si impegnò sia
con Faccio che con l'amministratore Lampuroni per concludere l'accordo, ma l'affare
non andò in porto.
CAPITOLO XIII
L'ultima stagione habanera
Il 25 maggio 1878 Muzio scriveva a D'Ormeville: «Fu da me questa mattina il padre
della Luè: credo che quella ragazza sarebbe assai buona per l'Avana e se per caso non
fosse nella lista che aspetto per lunedì, gliela aggiungerei».
L'aspirazione di Muzio di rientrare al Theatre Italien con una nuova impresa e con
mansioni di maggior responsabilità non aveva preso corpo: aveva allora accettato di
dirigere la prossima stagione di carnevale al Teatro Payret dell'Habana, un nuovo
teatro che era stato inaugurato l'anno prima, e collaborava con Max Strakosch e
l'agenzia Lampugnani alla composizione della compagnia. Non gradiva di essere alla
testa dell'organizzazione, ma sperava che non avrebbe avuto seccature, in quanto si
era assicurata una cauzione che copriva tutte le spese, ed era in attesa
dell'accreditamento occorrente per le anticipazioni e i viaggi.
Si era raccomandato con Lampugnani che i cantanti avessero un grande repertorio, in
quanto in America c'era la costumanza di cambiare opera quasi ogni sera con una
prova d'orchestra, e aveva chiesto anche che gli interpellati dicessero subito il cachet
minimo sotto il quale non avrebbero accettato, al fine di non perdere tempo in
negoziazioni: «e si limitino a ciò che valgono». Gli avevano proposto di scritturare la
Stolz ma, per ragioni di repertorio, aveva declinato il suggerimento: la Messa, l'Aida e
La forza del destino erano una bella triade, ma non sufficienti per sostenere un corso
di rappresentazioni sul mercato americano. Avrebbe dovuto aggiungere come minimo
Roberto il diavolo, Il trovatore, Un ballo in maschera e qualche altra opera del genere
della Lucrezia Gorgia.
Questioni erano sorte per il rimborso dei viaggi in ferrovia fino al porto di imbarco, Le
Havre o Liverpool, in quanto per gli Stati Uniti, in base alla tradizione teatrale,
spettava soltanto alle seconde parti, al coro e all'orchestra, mentre le prime parti
avevano diritto solo al passaggio in nave in prima classe. Trattandosi, però, di Cuba e
non degli Stati Uniti, alcuni avevano chiesto anche il biglietto del treno fino al porto di
imbarco. Tutti gli artisti, anche i mediocri, volevano inoltre inserire nel contratto una
serata d'onore, la storica beneficiata: Muzio obiettava che all'impresa sarebbe costato
troppo, e che d'altra parte in America, a meno di non essere celebri, le beneficiate
rendevano poco o nulla: «garantisco questo perché ero presente».
Il 17 agosto: «Ho quasi finito di fare la compagnia, scritturare coristi, orchestra,
pittori, regisseur, ecc. e nella prossima settimana ritornerò a Parigi. Ho scritturato la
Urban a 15.000 lire al mese; la Varesi 10.000; la Drog, che l'avrò come donna di
spalle, a 2000: Pascalis mezzosoprano 4000; Ormeni secondo contralto 1200;
Aramburo tenore 18.000; Udina 3700; Vanzetti 1700; il baritono Ciappini 8000 e
Souvestre 2500; i bassi Maffei 3500 e Migliara 1500; i professori d'orchestra a 800 lire
per mese, i coristi 400. Ora mi resta a finire il contratto per il vestiario e scene che
compero da Mastellari di Parma...». Aveva contattato anche una compagnia di battelli
a vapore per portare la compagnia a New York il 5 ottobre e di là, dopo tre o quattro
giorni di riposo, all'Habana.
Dato che i giornali avevano pubblicato la notizia che a Cuba infuriava la febbre gialla,
pregò la Lampugnani di pubblicare sulla Gazzetta dei teatri una smentita, in quanto gli
artisti scritturati erano molto allarmati. Suggeriva che «un vento forte, un uragano,
l'ha portata dal Sud al Sud-West cioè alla Nuova Orleans e nella valle del Missisipi».
Intanto controllava attentamente i conti: si lamentava con D'Ormeville che per un suo
errore aveva dovuto riscrivere un telegramma per Cuba che gli era costato 140,50
lire; nel prezzo della carta e della colla c'era stato un errore di calcolo a suo danno di
2000 lire: il vestiarista Chiappa aveva calcato la mano sul prezzo dei costumi della
Forza del destino; che le spedizioni avvenissero alla tariffa più economica. Si chiama
«economie des bouts de chandelle», economia dei mozziconi di candela, diceva, e
anche in questo Verdi gli era stato maestro: «Io divento positivo poiché ogni giorno si
ricevono lezioni».
Per mettere a fuoco questo carattere meticoloso, un'altra tessera è costituita da un
appunto che fece a Carlo D'Ormeville: «Mi riferisci che hai mandato a chiamare ecc.
Dice il proverbio che quando si vuole una cosa ci si va, quando non si vuole ci si
manda. Tu dici sempre che io sono attivo, grazie al cielo; e spero di avere questa
attività alcuni anni ancora. Venerdì mattina alle 4 sarò alla stazione per incontrare i
coristi e l'orchestra; ho ottenuto che potranno dormire a bordo venerdì sera».
Malgrado lo zelo, ci furono dei ritardi: «devo partire senza le casse di attrezzi,
vestiario ecc., ma ho agiustato con la compagnia di vapori di farle seguire senza
spendere un soldo...».
Nel contempo continuava a impartire lezioni di canto e nell'attività di agente, e aveva
trattato per il prossimo inverno, per conto del Teatro Real di Madrid, dove era stato
richiesto come direttore d'orchestra, la Nilsson, la Patti, l'Albani, la Fossa, la Duval,
Campanini, Stagno e Masini. Teneva anche al corrente Ricordi della situazione di
Escudier, la cui stella si stava rapidamente offuscando: aveva saputo
confidenzialmente che al tribunale di commercio erano state presentate sette istanze
di fallimento nei confronti dell'impresario il quale, per coprire i debiti più urgenti,
andava alienando le consistenze del magazzino della casa editrice. Prima di partire per
Cuba, aveva convinto Verdi a mettere in mano a un commercialista la documentazione
dei rapporti con Escudier, avendo dei dubbi circa la congruità con cui erano stati
liquidati i diritti d'autore, e avvisato Ricordi di preparare la copia del contratto di
cessione dei diritti di Verdi per la Francia e il Belgio, che l'avvocato gli avrebbe presto
richiesto.
Dopo quattordici giorni di traversata, il 18 ottobre 1878 la compagnia toccò New York:
il tempo orribile, una tempesta che si era trasformata in uragano, aveva fatto
allungare notevolmente il viaggio, invece dei dieci giorni consueti. Non si poterono
fermare per il previsto riposo, e il giorno dopo partirono per la Habana, dove la
stagione avrebbe avuto inizio il 2 novembre con La sonnambula. Malgrado il pessimo
viaggio. la salute di tutti era eccellente, e le condizioni sanitarie "oltre modo” buone.
La domenica successiva una serenata fu dedicata alla compagnia, e gli artisti vennero
presentati alla stampa: gli impresari, Sagartizabal e soci, avevano fatto preparare
all'Hotel du Passage un ricco buffet.
Le cose si presentavano sotto i migliori auspici ecl era stata già pagata la prima
quindicina ai cori «alla valuta regolare di franchi 5 per pezo». Il clima spaventoso, e il
caldo eccessivo, assieme all'uso smodato delle bevande alcoliche, poteva anche essere
fatale: la compagnia Pezzana, che lasciava la Habana proprio in quei giorni, aveva
perduto "un solo" artista a causa dell'ubriachezza. Mentre per la Gazzetta dei teatri:
«Domenica scorsa abbiamo passato una buona giornata fresca», Muzio scrisse in
confidenza alla lampugnani: «Abbiamo già una vittima della febbre gialla: la corista
Conti morì jeri notte ed alla sera fu seppellita. Tutti dicono che non ebbe alcun
riguardo, e nei due giorni di eccessivo calore che abbiamo avuto girò molto al sole ed
essendo pingue ed avendo a quel che dicono mangiato molto la poveretta fu colta
dalla febbre ed in quattro giorni se ne morì». Spaventato, il basso Migliara aveva
dichiarato di voler andar via, ma l'impresario lo avvisò che lo avrebbe fatto arrestare,
se solo avesse messo piede su un battello in partenza prima della scadenza del
contratto.
La stagione raccolse subito calorose ovazioni, al punto che, avendo l'impresa espresso
l'intenzione di finanziare una stagione d'opera anche l'anno seguente, Muzio scrisse
alla lampugnani di contattare immediatamente un quartetto di celebrità disposte a
recarsi a Cuba in modo che, «nel bollore del successo», potesse firmare subito
l'impegnativa. Tra i successi della stagione vi fu anche Zilia, opera del giovane
compositore habanero, Gaspar Villate, che era stata presentata l'anno precedente al
Theatre Italien di Parigi. Il buon esito stimolò un impresario a proporre una tournée al
termine della stagione: «Io non mi fermerò qui, ne andrò al Messico, a meno di
condizioni assai buone, ed appena finita la stagione ripartirò col primo batello
direttamente per l'Europa».
Tutti i cantanti raccoglievano la loro parte di applausi: la compagnia, però, per quanto
concerneva i tenori, si reggeva sul solo Aramburo. Udina, infatti, che doveva fare le
prove del Faust, era ancora indisposto, e la malattia metteva Muzio in imbarazzo,
anche perché gli «amici artisti compagni» avevano spettegolato con l'impresario,
accusando l'organizzatore della compagnia di imprevidenza. Vanzetti, infatti, non era
accettato dal pubblico come primo tenore, e un giovane, Alfonso Accini, fatto venire
da New York, non migliorò la situazione, in quanto aveva «una vocetta cosi strana e di
tanti colori che davvero mi fa paura». Aramburo così restava il re della festa: «aveva
un bel tesoro di voce, in quanto al resto aveva portato con sé dall'Europa la sua testa
antimusicale. […] Nella Lucia ottenne un successo d'entusiasmo, e jeri nella seconda
recita era un vero delirio quello che aveva invaso il pubblico». La questione del tenore
restò sempre una preoccupazione: «Come faremo se solamente Aramburo avesse
un'indisposizione?».
Non tutte le forniture spedite dall'Italia erano come quelle che aveva visionato prima
della partenza: «tanto il vestiarista quanto l'atrezista m'hanno fatto vedere il buono e
il discreto. ma c'è molta roba cattiva e brutta», al punto che, essendo i costumi della
Forza del destino non conformi al contratto, lo aveva fatto constatare al console
italiano per poter intentare un'azione quando sarebbe ritornato a Milano. «Avvocati ce
ne sono. Vi è stato del marcio in quel contratto».
Assieme alla comunicazione che avrebbe dato per natale II Guarany, «e siccome è
uno spettacolo ove vi sono indiani, cosi tutti i negri verranno a vederlo», pregava la
Larnpugnani di inviare ai fratelli 200 lire ognuno. Le feste passarono serenamente, e a
capodanno l'orchestra si recò sotto le sue finestre per fargli una serenata. La vita
proseguiva tranquilla e regolata: si alzava alle 6 e mezza, beveva un grande bicchiere
di acqua di cocco che lo rinfrescava, mezz'ora dopo prendeva il caffè e fumava un
buon sigaro, alle 9e mezza faceva colazione e ci fumava sopra un altro sigaro, mentre
si recava adagio a teatro. Dalle 12 alle 4e mezza si curava delle prove, poi il pranzo.
Fumava otto o dieci sigari al giorno, senza risentire quel fastidio al petto o alla gola
che due o tre soltanto gli procuravano in Europa: «E' l'aria, il calore che regna in
questo paese che rende necessario il fumare», si giustificava.
Dopo che in due mesi la compagnia aveva presentato trentacinque recite, e restavano
ancora trentadue spettacoli in abbonamento e sei beneficiate, ai primi di gennaio
cominciarono le dolenti note: «Abbiamo passato la crisi impresaria grazie alla mia
energia. Con tutti i cambiamenti nella società, e dopo aver incassato 68.192 dollari
d'abbono, e 83.383 dollari di introiti serali nei mesi di novembre e dicembre, e dopo
che restano o devono restare in cassa per questi altri due mesi d'abbono 35.232
dollari, non si pagava. Uno se ne andò da un lato, l'altro alla campagna e via via. Feci
pochi complimenti, andai dal Governatore, il quale fece chiamare Sagartizabal & C. ed
intimò o di continuare (poiché io rifiutai dal 4 in poi) le recite, altrimenti entro 24 ore
restituire i 35.232 dollari d'abbono che gli artisti avrebbero continuato per proprio
conto. E' inutile e troppo lungo ora il raccontare il detto e il fatto; ma la conclusione è
questa che ho fatto garantire personalmente dal sig. Antonio Villa, il vero proprietario
del teatro, le paghe degli artisti con atto scritto e fatto dinanzi al Governatore però
posticipate, giacché egli vuol trovare dove sono passati tutti i denari delle entrate
serali e dell'abbono. Il sig. Villa è persona ricca, non v'è nulla da temere, gli artisti
sono contentissimi...». Intanto trattava con il governatore spagnolo, il generale
Martinez Campo, per la stagione d'opera dell'anno successivo, avendo ricevuto le
migliori garanzie.
Se Aramburo continuava a cantare tutto, Muzio si lamentava con la Lampugnani di
certi artisti che l'agenzia aveva inviato: «La Ormeni tu l'hai dovuto vedere e sentire in
teatro, senza di che sarebbe impossibile che tu l'avresti raccomandata dopo che aveva
cantato mediocremente per me in casa tua... Tu e D'Ormeville vi potete dare la mano:
tu mi hai dato l'Ormeni e lui Miliara, e la camorra giornalista Fortis, Pizzi, ecc. buone
raccomandazioni». Fece una gustosa anche se impietosa descrizione della Ormeni:
«Non va, ma non è colpa sua... Quello che guasta nel fisico sono le guance rotonde
cadenti e la forma della testa che è veramente di luna piena. Trovasse un marito... e
che lasci in pace musica e teatro...».
Una ventina di giorni dopo avvenne il crac. Villa si dichiarò dinanzi al governatore
"inabile" a continuare, e la compagnia sospese gli spettacoli: i 24.000 dollari che
restavano degli abbonamenti versati si erano volatilizzati, e la questione era finita in
tribunale. Dopo una lunga serie di trattative e una quantità di proposte subito
scartate, si addivenne all'accordo con due persone che rilevarono il teatro. Questo
portò dei sacrifici: la Urban e Aramburo dovettero rinunciare al 40% della paga, la
Varesi e Ciappini al 20%, la Pascalis all'8%. Per gli altri non vi fu ribasso, in quanto
Muzio difese a spada tratta le retribuzioni dei più deboli, cioè coro, orchestra,
comprimimi. Un certo Miranda, proprietario del grande magazzino Il diavolo ricco, si
era accollato la responsabilità di finire gli spettacoli in abbonamento per sollevare dal
processo il cugino Sagartizabal: fece un deposito di 12.000 pesos al Banco Espanol, e
la stagione riprese il 30 gennaio con Rigoletto.
«Devo dire per giustizia che tutti gli artisti avevano riposto la loro confidenza in me:
ed essi mi sono grati per tutto quello che feci per tutti loro. Dio voglia che io possa
condurre tutti a buon fine. Credo che è più facile come dice la Scrittura di far passare
un camello per il buco di un ago che di trovare un galantuomo in questo paese.
Impossibile immaginare i vizi, la coruzione, il ladroneccio che si fa da questa razza
bastarda Spagnuolo-Cubana. Se torno ai miei paesi t'assicuro che l'Oceano non lo
traverso più; vivrò a Parigi, darò qualche lezione, una o due per giorno, verrò a
passare qualche mese in Italia coi miei amici sino al giorno del gran capitombolo».
L'atmosfera si era rasserenata: il nuovo tenore, «anche se è antico», Rosnati, giunto
di rincalzo ad Aramburo, non andava male «e si può dire che fece onore alla vecchia
guardia e che tenne alta la bandiera dei tenori da quaranta lustri» (cosi scrisse, non
tenendo presente che un lustro è composto di cinque anni); la Varesi era deliziosa, la
Drog faceva progressi e nella Favorita il teatro era al completo, l'introito favoloso, i
regali bellissimi, le corone, i fiori, innumerevoli. Al termine Aramburo cantò una fola
aragonese accompagnata da una estudiantina con mandolini e chitarre che portò il
pubblico al delirio.
Quando Muzio aveva amaramente constatato che il teatro di Cuba era un vero covo di
ladri, non aveva torto: i nuovi impresari, infatti, visto che la stagione era ricominciata
con successo, intendevano ritirare il deposito di garanzia, e pretendevano che gli
artisti si accontentassero per le due quindicine che rimanevano della loro garanzia
personale. Muzio si espresse negativamente, a prezzo di ulteriori discussioni e
"disturbi". A complicare le cose, ci si misero anche i falsari: vennero arrestati nei
dintorni del teatro sette "ladri" che vendevano biglietti falsificati e, a un controllo nella
cassetta, se ne trovarono sessantasei. L'impresa, cosi, fu obbligata a far ristampare i
biglietti in colore e formato diversi.
I nodi vennero al pettine al momento del pagamento della quindicina, in quanto
l'impresa applicò una ulteriore riduzione del 15%, oltre agli sconti già concordati.
Finalmente lunedì 24 febbraio venne data la serata di addio al Gran Teatro Tacòn, per
pagare i biglietti di ritorno del coro e dell'orchestra. «Tutti perdono, e io più di tutti. Il
ladroneccio organizzato fu la causa della ruina di tutto. Il più bello, il più buon affare
teatrale, così ben organizzato, mancò per una cattiva e ladra amministrazione del
paese. Chi ci può andare contro? Dall'alto al basso non vi sono che ladri».
Sia Jaime Payret, proprietario dell'omonimo teatro, che don Francisco Marty y Torrens,
impresario del Gran Teatro Tacòn, parlarono di formare una compagnia per i loro
teatri per l'anno seguente, e Marty gli fece vedere anche i libri contabili, a riprova
della serietà dell'offerta. Muzio aveva rilevato che fino al 1862, fino a quando cioè
c'era la tratta degli schiavi, "il vecchio" era in attivo e faceva divertire autorità e
pubblico affinché chiudessero un occhio sul traffico; ma dacché i negri non avevano
più valore come conseguenza della fine della guerra di secessione americana, «la
cuccagna era finita».
Malgrado le offerte allettanti, Muzio di Cuba ne aveva avuto abbastanza: se questi
impresari volevano venire in Europa, avrebbero avuto tutta la sua collaborazione, ma,
per quel che lo riguardava, dichiarò che era l'ultima volta che aveva traversato
l'Atlantico. Sabato 15 marzo parti per New York dove, dopo aver visitato l'amico
Strakosch, si imbarcò sul piroscafo Labrador per Le Havre. Si chiedeva come avrebbe
fatto in Europa a farsi liquidare quanto ancora gli spettava; in fondo, però, si
dichiarava fortunato: non ci aveva lasciato la pelle.
Il 13 aprile, dopo una traversata "magnificamente" bella, era a casa sua, a Parigi.
CAPITOLO XIV
Vita parigina
Anche se dopo la stagione di Cuba Muzio non diresse più, non per questo la sua vita fu
priva di stimoli e di interessi. Ricominciarono le lezioni private, le corrispondenze
musicali alla Gazzetta dei teatri. l'attività di mediazione di artisti. Quest'ultimo lavoro
lo impegnò subito intensamente: Max Strakosch gli commissionò di allestire tutta la
compagnia per la stagione lirica negli Stati Uniti. La competenza e coscienziosità che
poneva anche in questo lavoro spiegano la ragione per la quale era così ricercato dagli
impresari. Questa volta una prima ballerina, per accettare il contratto. chiese il viaggio
per due persone in prima classe da Milano a New York. «Ne per andare al Cairo, ne
per Parigi, o altri paesi si è mai pagato viaggio di prima classe; tutte le ballerine
scritturate per Lyon, che è a poche ore da Milano, ne per New York che é a dodici
giorni, non si è mai dato che un solo viaggio ed in seconda classe. E' un affare
perduto; non ci si pensi più».
«Ho quasi terminato ogni affare per New York, non mi resta che questo e poi vado di
filato a S. Agata che desidero vedere un po di verde». L'impresario desiderava
mettere in scena il Mefistofele di Boito, ma Ricordi pretendeva per il nolo 3500 lire, un
prezzo assurdo: Muzio ricordò all'editore che era interesse della casa facilitare la
circolazione delle opere, anziché forzare gli impresari d'oltremare a servirsi di copie
contraffatte, di cui egli stesso aveva avvisato un anno prima che ne circolavano diversi
esemplari. Secondo la previsione, Strakosch non accettò il prezzo, rinunciando a
mettere l'opera in cartellone, e Muzio ancora scriveva: «Ma dimmi un poco, non è
meglio avere oggi due che più tardi il doppio? Ti prego di fare dei prezzi acettabili e
non chiedermi somme favolose per non forzarmi a chiedere altrove questa musica.
Prima di fare inchieste per la Regina di Saba e per il Re di Lahore pondera bene per
non perdere una buona ocasione di far conoscere il Mefistofele agli Stati Uniti». E
concludeva: «Bada che io posso avere da Hartmann il Re di Lahore per f. 2500, e
quest'opera ha l'avantaggio di avere la riputazione di Londra, che è molto per gli Stati
Uniti». Adoperando la stessa lingua, i giornali musicali londinesi erano assai diffusi in
America, e Muzio conosceva bene la forza di questo veicolo di diffusione delle notizie.
A fine luglio ordinò il Guglielmo Tell, Roberto il diavolo, Norma, La traviata, Rigoletto.
Compreso l'imballaggio, 1400 lire, e da spedire a Liverpool dove dovevano pervenire
prima del 30 agosto. Al pagamento avrebbe provveduto lui stesso con un "cek" a
vista. Visto che la esosa precedente richiesta non era stata presa in considerazione,
Ricordi concesse il Mefistofele per 2500 lire, che così salpò felicemente per gli Stati
Uniti.
Come era accorto per gli affari altrui, lo era anche per i suoi: il 21 luglio aveva fatto
presente a Ricordi che nel conto delle sue spettanze non aveva trovato le commissioni
per l'Aida, Dinorah, L'elisir d'amore, Don Pasquale, Messa da requiem «che comperai
l'anno scorso in agosto e settembre». Ebbe a ridire anche sui conti presentatigli
dall'agenzia lampugnani: fece presente che aveva speso 622 lire in telegrammi, e
questo importo non era stato conteggiato in suo favore: «non è giusto che io porto gli
affari e che poi ci perda denaro». Dato che D'Ormeville era di parere contrario, andò a
finire che le 622 lire, successivamente arrivate a 640, vennero divise a metà come la
percentuale dei contratti che procurava all'agenzia. Per tradizione, la quota della
mediazione per le imprese era del 5%, ed era computata sugli introiti del botteghino,
sui libretti venduti, nonché sui regali non strettamente personali.
Intanto a Parigi era in corso il cambio degli impresari al Grand Opera, e il ministro
Jules Ferry gli confidò che due erano le categorie degli aspiranti: una offriva denari
per avere l'Opera, l'altra domandava l'Opera per procurarsi denari. Il 19 luglio 1879
venne nominato direttore dell'Opera Auguste Ernmanuel Vaucorbeil, compositore,
insegnante di canto corale al Conservatorio di Parigi, commissario governativo per i
teatri sovvenzionati dallo stato, e dal 1878 ispettore delle Belle Arti. Per entrare nelle
grazie di Verdi, ebbe stretti contatti con Muzio che, molto realisticamente, scrisse di
lui: «m'accorsi che di direzione teatrale ne sapeva poco o nulla. Avrà tempo di
imparare, perdere le illusioni, farsi cattivo sangue, invecchiare di più, subire le
invettive dei cantanti, maestri, orchestra e poi forse arrivare a far nulla di bene». E il
carteggio con Verdi. Ricordi e l'agenzia lampugmani, diventa pieno di notizie del
grande teatro parigino e delle trattative per eseguirvi l'Aida.
Il 2 agosto Muzio partì per Sant'Agata, dove si trattenne tre settimane. Portò un
regalo a Verdi: l'opera omnia di lohann Sebastian Bach, che il maestro gli aveva
richiesto a Parigi in quanto, probabilmente, non si trovava in Italia. L'opera si
componeva di una trentina di volumi «nei quali vi è tutto, comprese le fughe. Il prezzo
marcato è di franchi 25 il volume, ma io ho tanto negoziato, beninteso come cosa mia,
che fu convenuto fra me e l'editore che mi darà l'intera collezione a franchi 5 per
libro». A quanto pare, anche a Parigi l'opera omnia di Bach non aveva un grande
mercato, se il libraio la cedeva a prezzo di liquidazione...
Prima di ripartire per Parigi, assistette all'accademia finale degli allievi del
Conservatorio di musica di Milano: in merito alle composizioni dei giovani espresse
l'opinione che erano del più desolante wagnerismo. quando non erano imitazioni dei
cosiddetti poemi sinfonici di Liszt, Saint-Saéns, Goldmark; degli esecutori, invece, lo
colpì il virtuosismo del violinista Cernichiaro che, essendo anche un bel giovanotto,
elegante, simpatico, di immediata presa sul pubblico, propose all'impresario Ullmann
per dei concerti a Londra nella prossima primavera.
Muzio aveva una memoria incredibile per le date e gli anniversari: il 14 settembre
1879 si compiva un anniversario tutto particolare, quello del lontano giorno del 1849
in cui Giuseppina Strepponi era venuta a Busseto la prima volta assieme a Verdi.
Scrisse loro che gli sembrava fosse accaduto ieri, benché fossero passati trent'anni
«dalla famosa entrata trionfale». Ricordava che era andato loro incontro sin quasi alla
Trinità sulla strada di Borgo San Donnino, e anche le parole con le quali la donna lo
aveva salutato. Allora aveva le gambe buone. ma esse non erano cattive neppure
adesso. Si augurava di poter essere presente al cinquantesimo e si autoinvitava da
adesso alla festa: certo. sarebbero stati tutti e tre un po' "vecchiotti", ma dai
sentimenti immutati.
Il 3 ottobre 1879 Vaucorbeil parti alla volta di Busseto, per ottenere da Verdi
l'autorizzazione di mettere in scena l'Aida all'Opéra, in quanto Escudier si era fatto
avanti con lui, accampando di avere tutti i diritti sulla traduzione francese. Peragallo, il
rappresentante della Società degli Autori, aveva consultato un legale e assicurato che
Escudier non aveva diritti sulla rappresentazione. Muzio si era premurato di
preavvertire il maestro di questa pretesa di Escudier, il quale, se aveva si il diritto di
editore, non aveva quello di autore, anche se cercava di passare per titolare di
questo: «Del resto è più facile far cambiar pelle a un moro d'Africa che far diventare
onesto Escudier». In questa occasione, il maestro fece udire il Pater noster e Ave
Maria appena composti, e Muzio si offri immediatamente di farli pubblicare in Francia
con l'editore Heugel.
A Parigi i "maestri" Reyer. Saint-Saéns, Joncières affermavano che «l'Opera est
l'academie nationale», e non la sede per le traduzioni. Muzio scrisse a D'Ormeville,
chiedendogli di intervenire con la Gazzetta dei teatri: «Tu dovresti dare una tiratina
d'orecchie a Saint-Saéns che ha ricevute tante accoglienze in Italia, che sia pur detto
è stato il solo pubblico d'Europa che non si è annoiato al udire le sue composizioni o
almeno ha usato la politesse di non sbadigliare: doveva stare quieto e non far vedere
il dispetto che l'Aida opera italiana sia stata preferita a Dalila opera che fece fiasco a
Weimar e ad Etienne Marcel che ne fece un secondo a Lyon. Ma questi francesi sono
fatti cosi, riattraversate le Alpi ridivengono "chovin" ed ancora più ingrati».
IL 19 ottobre 1879 Saint-Saéns rispose sul Voltaire che l'Opera spendeva tempo e
denaro per un lavoro che sarebbe presto scomparso dal repertorio. Muzio commentò:
«la cosa che si era prefisso era irriverente, goffa, villana che offendeva tutte le
convenienze. Lo dissuasero dallo scrivere, non si arrese, pubblicò l'articolo, ma Egli
resterà sempre quello che è, un nulla. Fa tutto bene, ed è in musica ciò che si chiama
une bonne a tout ferire. Compositore drammatico non lo sarà mai».
La stampa italiana aveva registrato l'attacco: e Saint-Saens cercò allora di rettificare il
tiro, affermando che non intendeva colpire Verdi, bensì i "feticisti" verdiani parigini.
Questo cambio di rotta con angosciose proteste di pentimento e di conversione era un
tentativo di salvare la rappresentazione del Sansone e Dalila che, dovendo andare in
scena al Teatro Regio di Torino, a causa della polemica antiverdiana, era stata
accantonata per evitare ritorsioni da parte del pubblico.
Pur occupato con le lezioni private, la proficua attività di agente, e le questioni inerenti
all'Aida, trovò il tempo di narrare a Verdi, sempre interessatissimo, l'ultimo scandalo
parigino: riguardava Amedeo Ferdinando duca d'Aosta, il secondogenito di Vittorio
Emanuele II.
Quando era venuto a Parigi in occasione dell'Esposizione Universale, aveva conosciuto
la baronessa de Rongl: brutta, alta, capelli rossi, occhi spaventosi e ciglia assai
marcate. Benché la baronessa avesse sempre attorno il marito, il duca d'Aosta era
diventato il suo amante appassionato, e non se ne era mai separato durante tutto il
tempo che risiedette a Parigi.
Amedeo era un personaggio, se non altro, strano: al punto che, in alcune delle
cinquanta e più lettere che scrisse alla baronessa, ve ne erano alcune in cui diceva:
«Ti ho raccomandato nelle mie preghiere ai tuoi fratelli gli angeli del cielo...», e
ancora: «Sto per comunicarmi, ti raccomando di purificarti come me prima di venire
da me...». Oltre che maniaco religioso, il duca d'Aosta era anche prodigo, al punto da
promettere alla donna, oltre ai tanti che le aveva fatti, un regalo da 100.000 franchi.
Partito però da Parigi, quest'ultimo impegno era rimasto allo stadio di parola. Non
avendo ottenuto, nemmeno portando le sue grazie a Torino, quanto credeva le
spettasse, tornata a Parigi la baronessa aveva offerto in vendita a un banchiere il suo
carteggio con il duca. Questi, persona di mondo, mise al corrente l'ambasciata
italiana, la quale fu autorizzata ad acquistare le lettere a una cifra massima di 50.000
lire. La nobildonna rifiutò, affermando che esse rappresentavano il controvalore di una
promessa da 400.000 lire. Qui finiva la storia, ma Muzio prometteva, non appena
conosciuti altri particolari tramite le sue fonti, avrebbe continuato a relazionarlo. Dato
che le lettere successive non tornarono più sull'argomento, pensiamo che Muzio,
essendo andato a Genova a passare il natale con il maestro, avesse riportato a voce il
seguito delle imprese amatorie del duca d'Aosta, privando però noi di conoscere il
gran finale.
Riguardo a un concerto della Patti, che era stata accolta al Trocadero con applausi
"immensi" e aveva fruttato 70.000 franchi, descrisse ad uso della Katinca come era
vestita: sembrava la Nanà di Zola, con una "toeletta" di seta e velluto rosso con
ornamenti di perle e jat che era una meraviglia. Aggiunse che cantò come essa sola
sapeva, al punto cioè che le si poteva perdonare di essere stata "birichina" nei riguardi
degli italiani «e di aver fatto cornuto il Marchese».
Ai primi di gennaio ebbero inizio le prove dell'Aida con la Krauss, la Bloch, Sellier,
Maurel e Boudouresque, artisti ottimi e amati dal pubblico; i cori erano buoni e,
quando volevano, facevano il loro effetto; anche l'orchestra aveva elementi di
prim'ordine, e non c'era da lamentarsi dell'insieme. «Vi sono certo dei punti neri nella
compagnia, ma se non si ammettono le mediocrità bisogna chiudere tutti i teatri e non
comporre più opere. Siamo in una epoca che non si deve essere difficili». I nuovi
costumi erano finiti, come pure gli scenari e gli attrezzi: tutto splendido, e Muzio
poteva comunicare a Ricordi che Verdi sarebbe venuto presto a Parigi per concertare e
dirigere l'opera.
La prima prova ebbe luogo il 24 febbraio, e il maestro venne talmente aggredito da
questuanti di sue fotografie con autografo, che Muzio dovette scrivere a Ricordi per
ordinare con la massima urgenza tre dozzine di "portrait cabinet". di quelli fatti a
Sant'Agata. Prudente, suggeriva di prepararne anche qualche altra dozzina.
La prima, il 22 marzo 1880, fu un'apoteosi: articoli deliranti apparvero sui giornali, e il
governo concesse al maestro la croce di grande ufficiale della Legion d'onore. Chi
godette oltremodo della presenza e del successo fu Muzio, che poté stare con lui oltre
un mese: quando il 4 aprile ritornò da solo a casa in carrozza, dopo aver
accompagnato alla stazione Verdi e la moglie, ammise di aver dato sfogo al dispiacere
con le lagrime. Era stato prezioso fin in un ultimo particolare: avendo un amico anche
nell'amministrazione delle strade ferrate, aveva ottenuto un "compartimento"
riservato da Parigi a Modane.
Malgrado i mugugni di Verdi, Milano si apprestò a fare dei festeggiamenti degni di
quelli che aveva ricevuto a Parigi. Muzio non volle mancare alla nuova festa in onore
del suo maestro. Il 18 aprile 1880 si fecero alla Scala una cerimonia al mattino e un
concerto nel pomeriggio con l'esecuzione dei pezzi sacri, Pater noster e Ave Maria, che
il pubblico chiese fossero bissati. Al termine Verdi volle si presentassero con lui
Teresina Singer e il maestro Franco Faccio, in rappresentanza di tutta l'orchestra.
Stanco delle feste di Parigi e Milano, Verdi era partito per Genova, lasciando a Muzio
"la cura" di un affare "ben più grave": Adelina Patti, di lì a poco, sarebbe stata la
protagonista di due serate mondane alla Gaietè e nel palazzo della baronessa Hirsch.
Assieme al convivente Nicolini e ai baritoni Lasalle nella prima e Belletti, "senza voce",
- precisò Muzio - nella seconda, avrebbe eseguito con una piccola orchestra il terzo
atto dell'Aida. Muzio scrisse all'editore milanese: «Vengo a domandarti se quando hai
fatto la cessione ad Escudier dello spartito italiano hai messo la clausola che l'opera
non potrà essere data in scene, atti, trasportando, et. come Verdi mi dice d'averlo
imposto nella cessione che te ne fece».
Ricordi cercò di tergiversare, ma alla fine dovette ammettere che nel contratto con
Escudier la clausola non era stata apposta. la serata a casa della baronessa Hirsch fu
tenuta come da programma, e l'ira di Verdi piombò sul capo del superficiale editore.
Oltre alla preziosa opera di raccordo tra Verdi e casa Ricordi con l'ambiente musicale
francese, Muzio continuava con la solita attività: tra le sue allieve aveva adesso la
Dévries-Adler, «che aveva la più bella voce che si potesse mai sentire», e che egli
reputava adatta per la parte di Desdemona della prossima opera di Verdi, Jago. Il 23
dicembre 1879 aveva annunciato esultante all'editore: «Verdi m'ha scritto in proposito
d'Otello e mi dice che v'è qualche cosa di vero speriamo che diventi certezza il
metterlo in musica». Il soprano di Muzio fisicamente era il tipo, aveva la voce
bellissima ed estesa, e un temperamento "alquanto freddino". Pur essendosi ritirata
dalle scene, prendeva lezioni da lui per cantare qualche aria in società o, più
raramente, in qualche concerto. Pur ricevendo un gran numero di richieste per
convincerla a risalire sul palcoscenico, non gli restava che dirle: «quale gran danno
per le scene che siate ricca». Il marito, infatti, era un dentista.
Per una giovane donna, conoscere la musica era un titolo di merito, il modo di
dimostrare pubblicamente e con garbo la buona educazione ricevuta: il virtuosismo
rientrava, accanto alle doti estetiche, nella strategia matrimoniale. Anche se il
pianoforte rappresentava il luogo d'incontro del dialogo amoroso, il ruolo primario in
società era affidato al canto, particolarmente alla romanza, che ben si prestava agli
sguardi languidi, ai sospiri, alle parole che, altrimenti, era impossibile proferire.
L'istruzione professionale della musica, che si impartiva nei conservatori e nei licei
musicali, era invece poco seguita dal gentil sesso. Per quel che riguarda l'Italia,
Antonio Bazzini ammetteva: «Nei vent'anni ch'io sono al Conservatorio, la sola
Untersteiner ha terminato gli studi! Si accettano insomma in massima parte le donne
perché il Regolamento non lo vieta, ma viceversa non riescono ad entrare o, entrate,
non possono rimanere...».
Un'altra allieva che Muzio aveva preparato era la Foquet: «Posso farla scritturare a
Torino, ma Depanis m'ha mandata un'opera che dovrebbe cantare e che mi spaventa
per il romanticismo misto di mitologia e religione che è la Melusina di Grammarm ed
anche per la musica. Cosa hanno in capo questi impresari e maestri direttori per
innamorarsi di tali cose? Il pubblico comincia ad essere stanco delle creazioni dei
giovani compositori, e quando sente una nuova opera vuol ritornare a casa con
qualche cosa, cioè una melodia, una cantilena, un motivo nell'orecchio».
Muzio aveva previsto bene: il 31 marzo 1881 l'opera di Karl Grammann salì sulla
scena del Teatro Regio di Torino, ma ne scese presto, in quanto la prima non fu
nemmeno portata a termine. Al terzo atto la "Marcia dei crociati" divenne la "Marcia
funebre" dell'opera, che con la prima ebbe anche l'ultima.
Tra il 1877 e il 1879 Arthur Pougin aveva pubblicato a puntate sul Ménestrel una
biografia: Verdi, souvenirs anecdotiques. Avendo deciso Ricordi di stamparne la
traduzione italiana, aveva affidato il compito a Jacopo Caponi, noto con lo pseudonimo
di Folchetto. Questi abitava a Parigi, dove era il corrispondente della Perseveranza di
Milano e del Fatifidia di Roma, e avrebbe dovuto arricchire il volume con note e
aggiunte. Emanuele Muzio fu prezioso nel fornire notizie: con la rapidità nelle decisioni
che lo distingueva, appena ricevuta la richiesta di collaborare, già il 30 settembre
aveva preso in mano la situazione: era entrato in contatto con "Capponi" e aveva
scelto le fotografie da far fare a Sant'Agata per illustrare il volume. Scriveva a Ricordi
di non perdere tempo, «prima che cadano le foglie», in quanto aveva già ottenuto il
permesso da Verdi. Come lettere autografe del maestro da riprodurre in appendice, ne
avrebbe pubblicate solo tre: quella che dedicava il Macbeth a Rarezzi, in quanto
«Barezzi ha fatto Verdi. fu più che padre per lui»; quella che offriva la Messa da
requiem e quella con la quale nel 1876 il maestro aveva istituito presso il Monte di
Pietà di Russeto una pensione di mille lire «per compiere i studi d'uno studente del
paese. lo posseggo centinaja, centinaja di lettere, ma vi è qualche cosa di affari di
famiglia, d'interesse che non voglio farli sapere». Alla fine vennero pubblicate solo due
lettere concernenti la Messa.
Affermava che il libro sarebbe risultato certamente interessante, e che aveva trovato
persino il libretto del 1834, di quando Verdi aveva concertato la Creazione al
Filodrammatico di Milano. Chiedeva anche che gli venissero dati in lettura i fogli che
Caponi scriveva. «siccome anche jeri feci fare delle modifiche, ché leggendole con
calma può darsi che io trovi ancora qualche cosa da aggiungere, ogni giorno do
qualche nuovo aneddoto a Capponi. [...] Leggendo le prove può darsi che mi venga in
mente qualche nuova cosa, quantunque abbia date anche sui primi anni di Verdi tutto
quello che seppi dalla sua madre e padre e da lui stesso». La stesura del volume si
protrasse fino al giugno 1881, anno in cui vide la luce.
Due circostanze confermano il carattere di Muzio: il rifiuto di mettere a disposizione
anche una sola delle centinaia di lettere che Verdi gli aveva scritto, e la constatazione
che della preziosa collaborazione non compare traccia nel libro.
Il 24 settembre 1880 raccontava che quella mattina era passato dall'editore libraio
Calman-Levy, per pagare un libro che aveva fatto spedire a Verdi. Il signor Levy gli
aveva detto che la casa Durnolard di Milano gli aveva raccomandato una biografia
aneddotica di Verdi, opera di un prof. Artoit, insegnante in un collegio di Palermo, per
tradurla in francese, e uscire in contemporanea anche in Italia. «La combinazione
volle che Capponi (Folchetto) fosse con me. Il poveretto fece un salto da capriolo...».
Ricordi voleva ritardare la pubblicazione per presentare il libro all'apertura
dell'Esposizione, mentre Caponi suggeriva di uscire per l'inverno, onde farne una
strenna per il capo d'anno. Muzio era d'accordo con l'autore, e suggeriva di precedere
la pubblicazione
Attento anche alla diffusione delle opere del maestro, aveva suggerito di fare una
edizione del Pater noster e dell'Ave Maria con le parole in francese e, per le chiese, in
latino «perché coll'italiano non le venderà». Si era giù accordato con la Krauss e con
Vaucorbeil per fare eseguire gli inni sacri durante la settimana santa assieme alla
Messa da requiem. Richiamava anche l'attenzione sul fatto che Saint-Saéns aveva
ricominciato sotto pseudonimo a nominare sul Voltaire il nome di Verdi invano, e
concludeva: «E’ rabbioso e cattivo, e scrissi a Verdi di vendicarsi compiendo un opera
per Parigi dopo Otello! Saint-Saéns creperebbe di bile!».
Quell'anno non poté recarsi alle feste del 14 luglio. Mentre si trovava al caffè, era
stato preso da vertigini, e due garzoni avevano dovuto portarlo in carrozza all'albergo.
Già nella vettura aveva cominciato a «rendere il pranzo», disturbo che non voleva
passare. Lo curarono con bagni e diete. Ancora mesi dopo, ammetteva che avrebbe
dovuto vivere in Italia, quieto, senza lavorare, per guarire dal capogiro che gli era
ritornato: dopo due o tre ore di lezione stando al pianoforte, il sangue gli saliva alla
testa, che cominciava a girargli. Gli dava un senso di angoscia il fatto che, essendo
morta la madre di apoplessia, questa sorte toccasse anche a lui: «Sarebbe triste cosa
essendo solo; la Scrittura lo dice bene: guai ai soli! Vae soli! Non colpa mia se sono
così, a 58 anni!». I disturbi si fecero preoccupanti, al punto che il I novembre 1880, in
occasione della rappresentazione del Conte Ory, dovette uscire dal teatro prima del
termine.
Era molto occupato con un grande numero di lezioni: «io rifiuto assolutamente tutti
quelli che vogliono prendere lezione e che non hanno belle e buone voci», e doveva
insegnare, «immagini a 31 gradi di calore», ad un allievo la parte di Adriano nel
Rienzi, ad un secondo la Melusina di Crammann, a un terzo l'Assan della Regina di
Saba di Goldmark. Il 5 agosto il bisnonno dei suoi amici Cohen celebrava le nozze
d'oro, e aveva promesso di non mancare né in sinagoga ne al banchetto. Si recò poi a
Sant'Agata da dove, prima di tornare a Parigi, andò a Roma dove due allieve, Maria
Wan e la Wittmann, stavano per debuttare. Era la prima volta che si recava nella città
e, interessato ad ogni manifestazione dell'arte, non perdette l'occasione di visitare
tutto quello che poté.
La Wan incontrò un magnifico successo: così gli telegrafarono Marino Mancinelli che la
diresse, l'impresario e la famiglia della cantante. Muzio era dovuto partire per Milano
per pagare le anticipazioni agli artisti scritturati per conto di Strakosch, e per
concludere un contratto con il soprano Stella Bonheur. Profittò dell'occasione per
presentare a Corti, impresario della Scala, l'allieva Foquet, che aveva preparato per la
carriera in Italia. L'audizione fu felice e l'impresario gli assicurò che, se avesse messo
in scena la Carmen nella prossima stagione, il ruolo le sarebbe stato assegnato.
Assistendo a Roberto il diavolo, nei riguardi di un collega, peraltro molto stimato, così
si espresse: «Usiglio sarà un buon compositore di opere buffe, ma in orchestra è un
gran pasticcione». La lingua di Muzio, se era tagliente nei riguardi dei compositori,
specie della giovane scuola, non riservava dolcezze nemmeno per i direttori
d'orchestra: a proposito di quelli dell'Opéra di Parigi diceva che non andava quasi mai
in quel teatro, perché gli faceva rabbia sentire la musica «cosi malmenata».
Se Emilio Usiglio era un buon compositore di opere buffe di Successo, fu anche un
apprezzato direttore d'orchestra. Nativo di Parma, aveva la debolezza di raccontare
che aveva studiato con Verdi: il maestro, però, lo aveva smentito recisamente e, in
una lettera del 18 agosto 1872 allo scultore Luccardi, aveva scritto: «Il maestro
Usiglio non è mio scolaro (io non ho mai veramente dato lezioni a nessuno)...».
Commentando questa affermazione, il Monaldi, fazioso anche contro la certezza dei
fatti, e denotando una avversione nei riguardi di Muzio, scrisse: «Ciò smentisce la
generale leggenda sopra taluni dei supposti allievi del Verdi, tra i quali il noto maestro
Muzio, citato come tale dal Pougin e da altri». E se parliamo di evidente avversione del
conte Monaldi, siamo nella certezza di non dire inesattezze: nei due libri su Verdi,
infatti, Muzio fu citato soltanto due volte. Una in questa occasione, l'altra quando
ricordava che «l'allievo di Verdi» era considerato uno jettatore...
Da Milano, si recò a Ginevra, ma anche qui non trovò riposo: «ogni sera si faceva un
po' di musica, ma molta e per ore e ore». Cosi, quando infine ritornò a Parigi, era più
stanco di quando era partito per le vacanze.
Nel settembre 1880 Muzio, che pur aveva sempre detto di non essere uno
scommettitore, fece uno dei giochi d'azzardo più aleatori si possano immaginare:
scommise pesantemente sulla carriera di un aspirante tenore. Meticoloso di natura,
volle mettere questa scommessa sotto la veste di un atto legale: a decorrere dal
prossimo I ottobre, avrebbe impartito a Eugène Durot l'insegnamento, e anticipato il
denaro occorrente in questo lasso di tempo. Il tenore, da parte sua, nel secondo e
terzo anno della carriera gli avrebbe ceduto un terzo di ogni introito derivante da
scritture.
Non tralasciando di interessarsi della famiglia, chiese a Verdi se poteva intervenire per
la nipote Enrichetta, figlia del fratello Giulio, maestra elementare disoccupata. Verdi
non si tirò indietro, e mise i buoni uffici presso il senatore Piroli, che le trovò una
sistemazione presso la scuola di Caltagirone in Sicilia.
Anche a favore di un altro parente, Muzio chiese l'appoggio di Verdi. Questa volta la
raccomandazione era per un sacerdote, don Eugenio Delfanti. Al senatore bussetano
Giuseppe Piroli Verdi scrisse: «Ed ora vengo a darvi, come al solito, una seccatura! Il
parroco della chiesa di Pescarolo [ma Frescarolo] presso Busseto, che ha soltanto £.
600 annue, aspirerebbe ad altra parrocchia (Castelletto di Monticelli) rimasta ora
vacante e che rende £. 2000 annue. Il vescovo di Borgo ha permesso a questo prete
di indirizzare una petizione al Re col mezzo del R. Procuratore di Parma. Se voi
poteste dire una parola favorevole per il prete al Ministro di Grazia e Culti...». Dalle
indagini esperite risultò che questo sacerdote, parente acquisito di Muzio, era un
mezzo sovversivo, e il senatore Piroli lo scrisse a Verdi. Questi lo rassicurò: «Il
Delfanti è amico del canonico Avanzi e fu a Vidalenzo suo coadiutore. Amico d’Avanzi,
mi sorprende che il Delfanti possa essere di principi politici avversi allo Stato. Che non
sia un'aquila d'ingegno, non ho fatica a crederlo: ma dove sono mai i preti deí villaggi
e dei piccoli paesi che sappiano qualche cosa? Avanzi è un fenomeno ed i preti
dovrebbero accusarlo di troppo sapere. Dunque se potete ottenere a questo Delfanti il
posto che desidera, voi non avrete a pentirvene ed io sarò grato al Ministro e a voi».
Una parola merita don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo, che abbiamo già
incontrato come docente del giovane Muzio a Busseto. Amico di Verdi, del quale era
spesso ospite a Sant'Agata, tradusse e commentò per il maestro le parole della Messa
da requiem. E' tradizione, inoltre, che avesse collaborato nella composizione dei brani
musicali a carattere sacro, in considerazione probabilmente del fatto che Verdi lo
aveva descritto «uomo dottissimo e liberale quantunque prete e onestissimo». La
Peppina aveva scritto di lui: «Il Canonico sta poco bene e mia sorella pure; ma questi
poveri disgraziati mi farebbero paura il giorno che mi dicessero di essere in perfetta
salute». Malgrado le condizioni cagionevoli, quando Muzio era a Sant'Agata, il maestro
lo mandava a prendere con il calesse a Vidalenzo prima, a Spigarolo dopo, per
completare il tavolo del tresette: e, allora, il buon sacerdote godeva sempre di ottima
salute.
Tramite questi buoni uffici. don Eugenio Delfanti ottenne il trasferimento in quella
parrocchia con il beneficio più ricco, e Muzio il 20 settembre 1882 scriveva a Verdi: «Il
prete di Frescarolo mi scrive per pregarmi di ringraziarlo delle accoglienze sì affabili
che ebbe da Lui».
Muzio non tralasciava di inviare a Verdi il "gazzettino", di narrare, cioè, i pettegolezzi,
specie quelli di alcova che, veri o falsi, circolavano numerosi: e a Parigi lo scandalo del
giorno coinvolgeva un vecchio generale ministro della Guerra che, travolto dall'amore
senile per una "tedescaccia" cortigiana e spia, si era lasciato sottrarre dei documenti
riservati, in quanto si addormentava in braccio a questa baronessa che, nel frattempo,
copiava o rubava le carte della mobilitazione, mettendo a repentaglio la revanche che,
prima o dopo, i francesi si sarebbero presa contro gli odiati vicini. Cambiando
argomento, raccontava che mancava l'entusiasmo, la classe media era piuttosto
fredda, erano state espulse le congregazioni religiose, era stata accordata un'amnistia,
i comunisti erano ritornati in città e circolavano delle teste calde. Lo scontro tra
Gambetta e Rochefort era aperto, e lui parteggiava per Gambetta, il rappresentante
della "sinistra".
Lettore insaziabile di giornali, Muzio era attento anche ai romanzi. la Francia di quegli
anni era divoratrice di questa forma letteraria, toccata dal massimo successo:
attivissime erano le sale di lettura, le biblioteche circolanti, la grande stampa a basso
costo e, a volte presente l'autore, nei salotti si decimavano passi scelti da romanzi o
da raccolte di poesie. Non possiamo negare che Muzio avesse delle immagini colorite e
poetiche, come quella del "salto da capriolo", usata a proposito della sorpresa di
Folchetto quando aveva saputo che sarebbe stata pubblicata una biografia aneddotica
di Verdi prima della sua. Il 27 ottobre 1880 si ripetè brillantemente nel post scriptum
di una lettera all'editore: «Ieri sera prova generale al Opéra del conte Ory, scene
bellissime, vestiario ricco quella della Jeanne d’Arc d'infelice memoria di Mermet. Il
tenore Dhereims si è fabricata una voce da capretto...».
Nel natale 1880 Muzio fu da Verdi a Genova, ma il 28 dicembre era a Milano: voleva
assistere all'audizione di due sue allieve, giunte espressamente da Parigi. Ambedue
piacquero, e una di esse venne subito scritturata per debuttare a Bari nel Ballo in
maschera.
CAPITOLO XV
"Les affaires" Escudier e Peragallo
Pur facendo attiva vita pubblica, Muzio non si mischiò mai alla società bohémienne che
pur tanto affascinava gli artisti che vivevano a Parigi. Il suo modo di vita era troppo
antitetico: quanto i bohémiens disprezzavano il denaro, tanto lui era oculato nelle
spese e faceva di tutto per arricchire il suo peculio; quanto questi vivevano senza
orari e senza regole, tanto il nostro era puntuale e meticoloso; quanto essi erano
pubblici, anche nelle cose e nei rapporti più intimi, tanto Emanuele era riservato e
schivo. Oggi si direbbe che la bohème pendeva verso la sinistra: Muzio, invece, per le
idee conservatrici, anche se si qualificava repubblicano, potrebbe essere considerato
di destra, al più di centro.
A Parigi gli italiani del mondo artistico e culturale tradizionale avevano dato vita al
Circolo della Polenta, parimenti a quanto era avvenuto a Londra con il Circolo dei
Fagiolai: di una serata con questi ultimi ha lasciato una simpatica pagina nelle sue
memorie il baritono Antonio Cotogni. Era, in fondo, un'occasione per ritrovarsi una
volta al mese intorno a una tavola, e stringere legami tra connazionali portatori di
eguali interessi. In un "gazzettino" a Verdi del gennaio 1881, Muzio fece la cronaca del
secondo pranzo "della Polenta", cui intervennero in quaranta, al prezzo di franchi
11,50 cadauno: il pittore De Nittis preparò i maccheroni, e, se pur la salsa era buona,
rilevava il nostro nativo della Bassa emiliana, mancava il parmigiano, e la pasta non
era di Napoli, ma imitazione dell'Auvergne. Per il levar delle mense, il proprietario del
Caffè Cora di Milano aveva inviato un panettone «che aveva dei belli ornamenti, ma
non valeva per qualità quello che mangiai a Genova». Dato che a questi pranzi si
faceva anche musica, per conto di "Capponi", chiese a Ricordi l'invio della polka La La
Lu, da eseguire nell'incontro del 15 marzo.
Rilevando l'utilità e l'ottimo funzionamento della Società degli autori ed Editori
francesi, Muzio si interessò per fare entrare in essa Ricordi, sia come editore, che
come compositore con il nome di Burgmein con cui firmava i suoi lavori.
L’associazione tutelava, oltre alle composizioni di ampio respiro, anche i pezzi staccati,
le romanze, i pout pourri. Suggeriva di far aderire Gomes, Boito, Ponchielli, nonché
Rotoli. Denza, Tosti. La società, oltre a curare i diritti degli iscritti. assicurava la difesa
legale, ed esigeva le quote spettanti. «I diritti d'autore in Francia sono una miniera»,
e consigliava a Ricordi di venire a Parigi per studiarne il funzionamento.
Per tornare ancora una volta alle usanze di quelle classi sociali che adesso Muzio
frequentava, quelle cioè che possedevano titoli nobiliari e mezzi, non si può
prescindere nel ricordare questi tre musicisti, Rotoli, Denza e Tosti, accolti e
vezzeggiati nelle più fastose corti e casate d'Europa. Essi furono gli autori di quelle
romanze, ariette, canzoni, la cui musica gentile era scritta appositamente per le voci
fresche e garbate delle aggraziate signorine e degli animati giovanotti che facevano
loro ala, sospirando e carezzandosi i baffetti ben curati che cominciavano a infoltirsi.
Queste produzioni, oggi guardate con disprezzo da parte di quegli studiosi cui sembra
sia d'obbligo atteggiarsi a intelligenti, e che pertanto le stroncano con togati e
sussiegosi paragoni nei confronti dei Lieder, dei quali, non si capisce quello che
esprimono, si fregiarono anche della collaborazione dei maggiori poeti italiani: non
ultimo Gabriele D'Annunzio. E se Muzio, spirito eminentemente pratico e attento,
raccomandava l'adesione di quegli autori alla Società transalpina, era perché il
raffinato pubblico francese ricercava queste produzioni, e godeva della loro
esecuzione.
Il fallimento di Escudier aveva dato vita a uno strascico di liti e processi. Muzio, che
curava gli interessi di Verdi, e adesso anche di Ricordi, pensò di rilevare a favore del
maestro le attività di Escudier, essendovi un ricco fondo di musiche nella casa editrice,
travolta nel dissesto assieme all'impresa teatrale. Non intendendo Verdi gestire un
affare di tale natura, dette analogo suggerimento a Ricordi. Questi, impegnato nella
costruzione del nuovo stabilimento di Milano, non disponeva del capitale occorrente, e
non era interessato alle edizioni francesi. Chiese, nell'ipotesi si fosse proceduto a una
vendita separata, di acquistare soltanto Aida e Simon Boccanegra, opera quest'ultima
sulla quale Verdi stava lavorando a una revisione.
La questione si andava sempre più complicando, in quanto il 30 marzo Muzio, ricevute
le copie dei contratti per la cessione delle opere fra Ricordi ed Escudier, fattele leggere
a Peragallo, si sentì chiedere per quale ragione Escudier non aveva mai pagato i diritti
d'autore, come era obbligato a fare. Verdi e Ricordi, invece, credevano di avergli
venduto tutti i diritti, e di non avere nulla da pretendere. «Pare che l'amico Léon avrà
a pentirsi di avere troppo tirata la corda», concluse Muzio, che si mise alla ricerca di
un avvocato esperto nella materia: prescelse Pouillet, autore di un manuale e editore
di un periodico La propriété industrielle, artigiane et littéraire, e lo convinse a recarsi a
Milano per avere una visione completa di tutti i documenti presso gli uffici di Ricordi.
Sulla base di primi conteggi, Escudier si era appropriato di più di 50.000 franchi. A
quanto pare era una prassi, e un avvocato gli disse che «les editeurs de musique à
Paris sont tous des voleurs».
Non vi era accorcio nella massa dei creditori: alcuni premevano per la dichiarazione di
fallimento, altri si opponevano per impedire che le proprietà musicali fossero disperse
in una vendita all'asta; ognuno aveva una sua idea per recuperare la propria parte,
cercando di sminuire i diritti degli altri. Muzio prevedeva che Escudier avrebbe perduto
tutto: anche i mobili che, pur appartenendo alla moglie secondo il contratto di
matrimonio, lei aveva dato in garanzia al gerente del Theatre ltalien, per una rata di
affitto non pagata; sulla casa, poi, gravava una pesante ipoteca. I debiti
assommavano a più di 800.000 franchi, e stimava che il valore delle attività non
arrivasse a tanto: «Ecco la triste e desolante posizione di quella famiglia, e pare
impossibile che in venti o venticinque anni di prosperità quell'uomo non abbia saputo
mettere a parte une poire patir la soif [qualcosa per i bisogni futuri]. Guai, guai a chi
tocca teatri ed imprese!».
Verdi giudicò opportuno che Ricordi portasse avanti l'azione legale nei riguardi del
fallimento di Escudier per la tutela dei diritti della sua azienda; per quanto lo
riguardava, invece, non volle che Muzio presentasse la domanda per l'iscrizione tra la
massa dei creditori, dato che non voleva più avere a che fare con l'editore. Questi fu
recalcitrante, anche perché era più di un anno che metteva il maestro sull'avviso di
una imminente catastrofe. Cedette alla sua volontà, ma scrisse all'editore: «Farò il tuo
interesse come feci di Verdi» e, per fargli avere l'appoggio della Società degli Autori
ed Editori francesi, ne sollecitò l'ammissione.
Per tenere ben distinte con Ricordi le partite del dare e dell'avere, essendosi recato il
3 aprile 1881 a Milano per assistere il 24 alla Scala al rinnovato Simon Boccanegra,
chiese all'editore due poltrone «e te ne rimborserò il prezzo». Nel contempo
domandava di prenotargli presso l'Hotel Milan un salotto e due camere da letto al
primo piano. «e stanza per la cameriera non importa il piano per quest'ultima». Due
poltrone, due camere da letto con salotto sullo stesso piano...
Intanto aveva concluso l'accordo con il gestore del Chateau d'Eau, un teatro popolare
sovvenzionato dal Municipio e dal Governo, per rappresentare Le trouvère: era sicuro
dell'affare, in quanto, pur non essendo gli artisti delle stelle, nell'insieme le cose
sarebbero andate bene, per la popolarità dell'opera, del balletto, del "Miserere". Il
diritto del 12% degli incassi sarebbe stato ripartito in sei per cento a Verdi, tre a
Dumas e tre all'editore. Per dodici giorni non fece che correre al Chateau d'Eau
mattina e sera per fare studiare le parti e sovrintendere alla prove, che si protraevano
fin dopo mezzanotte. Aveva rifiutato la scrittura quale concertatore e direttore, ma si
era impegnato di ritornare per mettere in scena La traviata. Preferiva dare lezioni, che
riprese non appena l'opera andò in scena: le allieve continuavano a dargli
soddisfazioni. L'ultima, la Mac-Léod, nella audizione con Corti a Milano, aveva sedotto
con la voce e la figura.
«Questa mattina ho ricevuto due lettere da New York da due famiglie, la prima dai
Wagner, i ricchi banchieri che erano a Parigi così buoni amici miei, l'altra dalla famiglia
Hachett, che mi offrono di andare a passare da loro tutto il tempo che durerà la
guerra tra la Francia e l'Italia, perché come italiano mi troverò assai male in Parigi».
La situazione politica era tesa per l'occupazione della Tunisia, nei confronti della quale
l'Italia vantava delle pretese. La conseguenza fu che questa si avvicinò all'Austria, con
la quale firmò più avanti, unitamente alla Germania, la Triplice Alleanza. A giudizio di
Muzio i governanti italiani erano i veri colpevoli di tutto: era «impossibile che vi fosse
stato, vi sia, vi possa essere in avvenire un Governo cosi», diceva. Quando i politici
italiani vedevano un uomo di ingegno, un animo forte, di alto sapere, e di una onestà
a tutta prova come Quintino Sella, lo deridevano, lo calunniavano, lo insultavano.
Malgrado l'attività costellata da soddisfazioni, il desiderio rimaneva di tornare a
Busseto per concludervi i suoi giorni: aveva ormai accantonato abbastanza da vivere,
ma, a causa dei continui aumenti dei prezzi in Italia, il timore era che in otto o dieci
anni quanto aveva capitalizzato non gli sarebbe più bastato. A Parigi riusciva a
mettere da parte: «vivo bene, ma vivo come un egoista, solo, senza avere amici di
cuore. Ho molte persone e famiglie che mi vogliono bene, ma sono amicizie troppo
recenti, e quando gli interessi lo richiedono chi va di qua chi di là».
Sulla natura dell'uomo Muzio, riservato e un po' orso, troviamo un'ulteriore conferma
in una lettera di un anno dopo, dell'11 luglio 1882: «Ieri Capponi ha convocato i
membri del pranzo della Polenta per interessarli alla formazione di un club francoitalo. Non fui alla seduta perché non volevo lasciare le mie lezioni, e siccome non ho
mai voluto appartenere a società di clubisti, se rimarrò in Parigi farò come in passato;
io so divertirmi senza andare in grandi riunioni, basto a me stesso. I club non sono
che bische». Tutto, così, si riduceva alla vacanza estiva a Sant'Agata che, quest'anno,
era a repentaglio: aveva otto allievi che avevano bisogno di lui, e nel corso di pochi
giorni sarebbero diventati undici. M.me Viardot gli aveva chiesto il favore di preparare
una sua protetta per la carriera italiana: e facevano dodici. Pagate le spese, e vivendo
largamente, nel mese precedente aveva risparmiato 1230 franchi. Era l'amor proprio
più del denaro a tenerlo occupato dalle nove di mattino alle sei del pomeriggio: era
però troppo.
Per formare la compagnia di Max Strakosch, a giugno venne a Milano, e di là si recò a
trovare il maestro. Era stanco del modo di lavorare delle agenzie musicali, dove
sembrava che il tempo non avesse valore: prima delle dieci di mattina non si trovava
nessuno, alle undici era l'ora della colazione che si trascinava fino all'una, si parlava di
tutto e di tutti, la puntualità era solo un'opinione... «Quanto sarò felice il giorno che
potrò mandare al diavolo impresari, agenti ed artisti!».
Non essendosi trovato chi rilevasse in toto il fondo musicale, i creditori di Escudier
avevano deciso di esitarlo al dettaglio, e le offerte si potevano presentare al curatore
fino al I giugno: l'invenduto sarebbe stato messo all'asta. All'ultimo momento ci si
accorse che era arduo procedere alla vendita: sentendo prossima la catastrofe,
Escudier aveva fatto stampare in grandissima tiratura le opere, i pezzi staccati, le
fantasie dei pezzi di cui aveva l'esclusiva, e aveva ceduto tutto a qualsiasi prezzo, pur
di rastrellare denaro. Molti di quelli che avevano fatto le offerte per acquistare i diritti
si erano ritirati, essendo tutti i magazzini musicali rigurgitanti di questo materiale. Non
avendo altri appigli, l'avvocato di Ricordi ottenne che tutti i beni di Escudier fossero
messi sotto sequestro.
Come per togliersi da questo ginepraio, Escudier passò a miglior vita: gli eredi
avevano tre mesi per accettare l'eredità, e il procedimento si dovette fermare. il figlio
di Escudier, fotografo, «talis pater, talis filius», non era solvibile, in quanto a sua volta
aveva dichiarato bancarotta. «Gaston Escudier ha sposato una donna publica che
faceva il trottoir [marciapiede) ed il [parola incomprensibile] delle Folies Bergère che
si chiamava in professione Linda, par la grace de Dieu». Anche in lettere dedicate a
problemi legali e finanziari, Muzio non perdeva l'occasione di puntualizzare a Verdi
particolari sui personaggi in questione.
Avendo pagato per Verdi 2800 lire di spese legali, scriveva a Ricordi, chiedendogliene
2000, che era «l'uso in Francia di anticipare denaro agli avvocati. [...I Senza citazioni
e carta bollata non si può far nulla in questo paese, e lo so per l'affare di Verdi. che
grazie ad una grande attività sono arrivato a farlo rientrare in tutti i suoi diritti...».
Chi curava la riscossione dei diritti derivanti dall'esecuzione delle opere di Verdi a
Parigi era, come abbiamo detto, Peragallo, un agente della Società degli Autori di
Francia, che il maestro aveva scelto tra i tanti di cui la Società disponeva: uomo serio,
informatissimo, ma anche lui con il difetto di ritardare per mesi i conti ed effettuare il
pagamento di quanto aveva riscosso. Per risolvere anche la nuova questione, Muzio
scrisse a Verdi: «Con Peragallo avrò tutta la pazienza che si richiede; vi andrò venti
volte se è necessario, cento; ma otterrò che tutto sia messo in chiaro, e che Egli
sappia quanto gli è dovuto».
Finalmente Peragallo consegnò i conti di Verdi dal febbraio 1880 al 31 luglio 1881:
spettavano al maestro 87.742,22 franchi. Muzio controllò minutamente, e non fu
d'accordo, anche perché l'agente pagava con cambiali, che bisognava poi scontare
presso un banchiere, mentre la Società degli Autori liquidava in contanti. Verdi, cosi,
dovette inviargli una procura perché potesse riscuotere direttamente e in contanti.
Muzio puntualizzò che se Peragallo aveva utilizzato il denaro prima di versarlo, doveva
pagare l'interesse nella misura del 4 e mezzo per cento. «Più vado al fondo di questo
affare Peragallo, più vi ritrovo furfanterie. Vi è una tale corruzione in questo paese,
che veramente non si sa a chi fidarsi, nessun senso morale, tutto è in dirotta». Verdi
si arrese alle argomentazioni e sollecitazioni, autorizzando il ricorso a un avvocato e il
passaggio dal I gennaio 1882 del conto a un altro agente della Società degli Autori,
Alexandre Roger. L'azione dell'avvocato Duhois, che nel dicembre 1881 depositò
presso il tribunale «una querela per 12 capi di sottrazione», ebbe subito effetto e,
dopo le vacanze di natale passate a Genova, Muzio poté inviare a Verdi 42.800 franchi
che Peragallo aveva pagato «con riserva di esame del conto dato». Anche questo
conto, però, risultò inesatto, e Muzio decise di procedere giudizialmente.
La situazione di Peragallo era disastrosa a causa di una serie di speculazioni sballate,
nelle quali aveva impegnato denaro non suo, «e le attrici costavano care». Il 14
febbraio 1882 il malcapitato si suicidò, e Muzio in una serie di lettere tenne al corrente
Verdi delle voci che correvano sul luttuoso evento. Si era impiccato? Era stato un
colpo apoplettico? O un colpo di rivoltella? Si era avvelenato con la stricnina?
Comunque, inflessibile, continuava nella sua opera, anche se Verdi si era dichiarato
disposto a lasciar perdere: «Anche volendolo. ora non si può desistere perché
l'ispettore finanziario governativo ha già cominciato lo spoglio dei libri...».
Con il ricavo della vendita del fondo musicale di Escudier, pagate le ipoteche, ai
creditori non rimase da ripartire che il dieci per cento delle spettanze. «Sono felice di
non aver messo nel numero dei creditori Verdi, cosi ha conservata la sua dignità in
faccia alla famiglia ed alla massa dei creditori», dovette ammettere. Qualche tempo
dopo volle però levarsi la soddisfazione di far sapere al liquidatore del fondo Escudier
come erano andate le cose. Raccontò a Verdi che il legale si era rivolto a lui per alcune
questioni e, «avendone l'opportunità ho voluto, come glielo promisi, cantare le litanie
a Mr. Laissement per tutto quello che il fu Escudier fece contro i suoi interessi, e per
far risaltare il generoso regalo che Egli fece alla famiglia erede».
Chiusa questa controversia, si preoccupò di far stampare una circolare in centinaia di
copie, per avvisare tutti i teatri, gli impresari e gli agenti d'Europa che, se avevano
materiale d'orchestra di proprietà di Ricordi e distribuito da Escudier, lo restituissero
alla casa milanese, unica legittima proprietaria. Escudier aveva infatti per ben
venticinque anni proceduto a effettuare cessioni perpetue delle opere, e adesso Muzio,
controllando gli spettacoli sul bollettino della Società degli Autori, voleva che il
materiale tornasse al legittimo proprietario, a pena di azioni di sequestro. Non era
però ancora la pace: iniziarono presto questioni con Benoit, che aveva acquistato
alcune opere di Verdi dal fallimento Escudier, e anche questa disputa finì in tribunale,
coinvolgendo Muzio in prima persona.
Riguardo alla vita musicale, Muzio non perdeva l'abitudine di esprimere giudizi
mordaci: «Il grande, grandissimo Filippo Filippi non verrà a Parigi per la prima della
Francesca da Rimini: non avrà avuto nessuno che gli offre le spese ed un regalo come
per il viaggio a Bruxelles per l'Erodiade». Liquidò la questione affermando che «Le
opere di questo genere non piaciono ne piaceranno mai al publico. Passione, affetto,
sentimento manca del tutto. L'ispirazione val meglio della filosofia, ed il cuore più che
la ragione». La voce generale affermava che si era trattato di un fiasco. «Non vedo
avvenire per questi antipapi della musica drammatica, mediocri e striscianti». Rilevava
anche che il teatro dell'Opera era perseguitato dalla sfortuna per le nuove produzioni:
era caduta la Francoise de Rimini, e le ceneri di questa poveretta non erano ancora
fredde, che già si cominciava la réclame per l'Enrico VIII di Saint-Saens.
Del Tribut de Zamora di Gotmod, da lui ribattezzato Les tribu… lations de Zamorra,
l'editore Choudens gli aveva detto che la prima edizione prevedeva sette ore di
musica, la seconda cinque, la terza quattro e cinque minuti, e la quarta, avendo
soppresso altre sessanta pagine stampate, era finalmente di tre ore e tre quarti. Il
libretto originale non aveva più di ottocento versi, ma, per ogni parola, vi erano otto o
dieci battute di musica. L'editore, malgrado i costi elevatissimi che aveva già
affrontato, sperava di operare altri tagli, in quanto l'opera ne avrebbe guadagnato e i
pezzi buoni miglior risalto.
Muzio usò sempre termini molto duri nei confronti dei compositori d'Oltralpe: «Io
vorrei bandire tutte le musiche forestiere e specialmente i francesi, credilo pure che
sono schifosi, e non sono umili che quando sanno che si canterà una battuta della loro
musica. Lascia che nel prossimo inverno facciano le opere francesi, ché il publico ne
farà giustizia: è tempo di fare opere italiane, scritte da italiani, e cantate da artisti
italiani. I veri colpevoli del male che c'è in Italia sono i Municipi, ed il Governo che non
si dà pensiero che per fortificazioni e soldati».
Metteva il dito sulla piaga, indicando quali erano le cause della crisi postrisorgimentale
nel campo della musica: se i comuni avevano a giustificazione la mancanza di mezzi,
in quanto oberati da altissimi gravami, i colpevoli erano il governo e la monarchia. In
un paese esclusivamente agricolo e arretrato sia socialmente che industrialmente, il
poco denaro, frutto delle più inique delle tassazioni, veniva sperperato per la lista
civica del sovrano e per raccontare di essere sulla via di diventare una potenza navale
e militare. Presto iniziarono le avventure coloniali e l'Italia si dimostrò ancora una
volta impreparata nei mezzi e imbelle nei comandi. Nei riguardi della musica il nuovo
regno sabaudo aveva distrutto quanto esistente negli stati preunitari: ceduti i teatri ai
comuni, si era brutalmente liberato delle orchestre e delle cappelle di corte, lasciando
sul lastrico gli strumentisti, e perseguiva una politica fiscale vessatoria nei riguardi
dello spettacolo, senza concedere una lira di contributi...
Un'operazione di mediazione di notevole rilevanza che Muzio fece nel novembre 1881,
fu quella che assicurò a Ricordi il possesso delle composizioni postume di Cherubini.
Anche in questa occasione dimostrò di essere attento all'evoluzione dei gusti delle
masse, e come saperli sfruttare commercialmente. In Italia si stava destando
l'interesse per la musica sacra, e prendevano piede le corali... «Ho letto con
attenzione le composizioni [i manoscritti di Cherubini] e ce ne sono delle veramente
belle, angeliche, come per esempio le Litanie della Vergine; ora che a Milano avete
società corali, credo che potrai rendere popolari le composizioni di uno dei più grandi
compositori italiani…»
Si era tenuto un nuovo pranzo della Polenta, cui era stato presente anche Alberto
Pasini, il pittore orientalista nativo di Busseto che, dopo alcuni viaggi in Oriente, che
avevano ispirato opere di gusto esotico, come quella meraviglia di illustrazione che è
La carovana dello scià di Persia, si era stabilito a Parigi. A metà delle portate era
entrato in sala uno strillone annunciando: "Signori, acquistate il giornale ufficiale della
Polenta!". Si trattava del disegno originale del menù, che venne sorteggiato tra i soci,
e che toccò al violoncellista Braga. Venne poi estratto il nome del pittore che avrebbe
disegnato quello della prossima seduta: la sorte indicò Giuseppe De Nittis. Muzio
sospirò: «Vorrei essere fortunato di guadagnarne almeno uno, ma bello».
Confidente e fruitore delle primizie musicali del maestro, aveva parlato delle modifiche
da apportare al terzo atto del Boccanegra. e Verdi, ripartendo da Parigi, aveva portato
con sé il libretto del Don Carlos con i tagli ideati da Nuitter. La revisione di quest'opera
era fortemente voluta da Muzio: la partitura presentata all'Opera di Parigi era troppo
lunga e l'opera non girava. A una delle ulteriori insistenze dell'allievo. l'8 febbraio
1882, Verdi aveva risposto che ci voleva «un poeta, e che questi naturalmente
avrebbe dovuto essere quello di prima. Ciò è impossibile». L'autore del libretto era
stato Du Locle, con il quale Verdi aveva da tempo rotto i rapporti. Muzio parlò della
modifica con Nuitter «e quando Verdi verrà a Parigi che lo spero non tardi della fine di
Aprile lo farò assaltare da ogni parte, affinché lo accorci e ne faccia un opera che gira
il mondo sotto la nuova forma».
L'allievo aveva adesso una indubbia funzione di stimolo nei riguardi del maestro: nel
gennaio 1881 questi era intento al rifacimento del Simon Boccanegra, ma scriveva a
Muzio che andava "poco avanti". «Gli risposi di aprire le finestre del suo apartamento
guardare l'orizzonte e cantare la bella frase dell'opera il mare il mare questo gli darà
lena a finire presto questo lavoro perché ce n'e grande bisogno. Non dubito
menomamente del risultato finale, e poi dell'Otello [...] la di cui musica io ritengo è
tutta vivente nel suo cervello, ma la metterà poi in carta tutta d'un tratto». Il
suggerimento doveva contenere qualcosa che fece aprire le ali a Verdi, in quanto una
settimana dopo chiedeva a Tomaghi di inviargli al più presto «carta da musica del
formato e qualità dei modelli che mando. Raccomando sia carta ben rigata e che non
macchi» e partecipò a Muzio: «Io lavoro e lavoro molto».
Dato che vi erano delle dispute tra gli aspiranti traduttori in francese, Muzio sollevò
ancora una volta il maestro del problema, affidando il lavoro a Wilder e Nuitter, e
mettendo da parte senza mezzi termini Ruelle, che avanzava delle pretese. Mentre in
una lettera del 6 febbraio 1881 aveva scritto a Verdi: «Non sarò lungo colla mia
lettera perché il tempo è prezioso per Lui, che lo impiega così bene col comporre...»,
qualche tempo dopo, mentre era in corso l'intricata questione del fallimento di
Escudier e dei conteggi di Peragallo, lo aveva rassicurato: «Sembra che Egli si dia
molto pensiero di questo affare non ci pensi affatto. I suoi interessi sono in buone
mani, avrà ogni soldo, non ci pensi, non si disturbi, si occupi tranquillamente dei suoi
affari, dell'acqua, del fuoco e soprattutto del negretto e lasci fare a me...». Questo era
l'Otello.
Muzio non nascondeva il compiacimento di riuscire ad essere uno stimolo per Verdi:
«Il Maestro mi scrive che lo tormento appena arriva a casa. Che il lavoro per il Don
Carlos è grande, e che non si tratta di piccole cose, che se si leva un atto bisogna ben
rifare gli altri, o almeno qualche parte di essi, e che non può obbligarsi a finire per un
dato tempo. Lo lascio tranquillo per ora, ma quando sarò a Sant'Agata fra una
quindicina di giorni, tornerò, in tempo opportuno, all'assalto». Nel contempo lavorava
per Ricordi, per il quale combinò una serie di incontri con gli editori, che erano
succeduti a Escudier nella proprietà delle opere di Verdi, per giungere a una
composizione amichevole delle questioni pendenti, riuscendo nello scopo. «Feci questa
cosa per evitare i processi e Ricordi ne è felicissimo».
Se è certo che da Verdi non volle alcun compenso per le incombenze che sbrigava per
lui, non sappiamo come fossero regolati i rapporti con casa Ricordi, dato che era solito
percepire una provvigione quando promuoveva dei contratti. Terminati "les affaires"
causati dal fallimento Escudier, il 17 marzo 1882 Muzio scrisse laconicamente
all'editore: «Non c'era bisogno che tu mi facessi un regalo del quale ti ringrazio».
Per il progetto del baritono Maurel di far risorgere dalle ceneri il Théàtre Italien, Muzio
si era recato a una riunione, cui avevano preso parte alcuni eventuali finanziatori.
Esperto di cose teatrali, attento e meticoloso nei conti, volendo procedere con
realismo, a quanto pare gettò molta acqua sul fuoco dei facili entusiasmi: dopo
qualche tempo, infatti, comunicava a Verdi che non aveva più visto il cantante: «Io
sto lontano da Maurel e da tutti, egli da me, perché dicono che non vedo che delle
difficoltà». Il progetto del baritono a suo parere era poco realizzabile, «tanto più che
sino ad ora è lui solo che è prima donna, tenore e basso». Scarsa fiducia riservava
all'uomo Maurel: aveva infatti suggerito a Ricordi di parlare poco con lui, «credilo pure
da mattina a sera la lingua di quel artista è come un mulino a vento che non si ferma
mai».
Si era costituita anche in Italia la Società degli Autori, ma Muzio aveva dei dubbi: «lo
non la credo profittevole ai Maestri, e solamente d'utile per gli impresari». Ed è
probabile non avesse torto, in quanto uno dei più attivi promotori era stato Ricordi,
certo più impresario che musicista.
CAPITOLO XVI
Eugène Durot
Il 5 aprile 1882 in una lettera a Carlo D'Ormeville troviamo per la prima volta citato
quello che fu l'alunno prediletto di Emanuele Muzio, Eugène Durot, «il mio tenore». Ne
intui le doti e, anche se il rapporto ebbe inizio su di una base commerciale, gli si
affezionò come a quel figlio che non aveva, riversò su di lui le speranze, lo istrui per
anni, lo raccomandò, gli procurò scritture, nell'esordio lo segui nei giri artistici anche
all'estero, gli fece da testimone al matrimonio, da padrino al figlioletto, lo ricordò nel
testamento, gioi per l'ascesa di questo cantante, che l'Abbiati giudicò uno dei più
autorevoli successori di Tamagno
Muzio aveva chiesto da Parigi: «Fammi il segnalato favore di domandare per me alla
Signora Giovannina Lucca la parte di Fernando nella Favorito, ma coi tagli come si usa
in Italia, perché per la stretta del finale non voglio affaticare studiandolo intero il mio
tenore. Sì, ho proprio un tenore nel quale ho confidenza e che avrei potuto già farlo
scritturare per Covent Garden per cinque stagioni cominciando dalla primavera 1883.
E' Ulman che ne è entusiasta e che volle lo facessi sentire a Gye, al quale piacque
assai, ma io preferisco prima di farlo debuttare nel prossimo inverno, [...] ma non ho
premura. Avendolo per otto anni non voglio fare un passo falso».
Si rileva da questa lettera come il teatro lirico italiano avesse istituzionalizzato quella
tendenza di offrire al pubblico uno spettacolo della durata ottimale: uno dei segreti di
ogni buona partitura, infatti, era considerato il taglio, che la viva esperienza del
palcoscenico aveva suggerito rispondente a quella regola irrinunciabile del divertire, o
quanto meno del non annoiare. Era una misura di scelta: lo stretto necessario
all'intelligibilità e alla sensazione. In un'epoca in cui il teatro lirico era creativo, valeva
esattamente il principio opposto di quello attualmente vigente, in cui esso non
produce più, ed è ridotto a titillarsi in restauri filologici miranti a vendere (anche nel
senso materiale del termine) per novità una cosa che nuova non è. la conseguenza
prima è che il taglio, come pure l'esecuzione non in lingua originaria, oggi sono
additati alla stregua della censura, della prepotenza autoritativa, dell'ignoranza la più
retrograda.
Muzio aveva intenzione di passare qualche mese dell'inverno in Italia. «Porterò il mio
tenore Durot perché voglio senta a cantare in Italia per tre o quattro mesi prima di
debuttare. Verdi e sua moglie l'intesero e la voce fece ad essi una vera sensazione.
Insomma vedremo. i tenori sono la rara avis. [...] E' un poco lento nell'imparare; ora
studia a memoria le opere che dovrà cantare».
Nel secolo scorso l'Italia fu tormentata spesso da catastrofi naturali: «Questa sera
abbiamo una riunione dei polentoni per organizzare qualche festa onde venire in aiuto
agli inondati». L'organizzazione ricadde sulle spalle di Muzio, che fece eseguire il
Requiem di Verdi al Trocadero, con buon successo di cassetta. «Ho fatto come meglio
ho potuto col personale che potei ottenere, e spero che il comitato potrà mandare
qualche migliaio di franchi, che non saranno che una goccia d'aqua nel mare, perché
mi si dice che i danni sono per molti e molti milioni». Raccontava anche che la sera del
28 settembre si era recato a una cena dell'Herald, in cui l'ospite d'onore era il famoso
esploratore Henry Stanley, di ritorno da una spedizione in "Affrica", compiuta per
conto del re del Belgio.
Ai primi di novembre si sarebbe trasferito a Nizza, dove il tenore avrebbe debuttato al
Teatro del Casino Municipale. Aveva ridotto il numero degli allievi a quattro, a
sufficienza per le spese, e questi - tre ragazze e il tenore - lo avrebbero seguito a
Nizza. Avrebbe preso un appartamento ammobiliato con un salotto per darvi le lezioni,
e tenuto il tenore con lui: «Divideremo le spese, cosi continuerà i suoi studi e
ripasserà con me le opere che dovrà cantare, il resto lasciamolo alla sorte». L’8
novembre era ancora a Parigi: in casa Rothschild aveva saputo in via confidenziale che
la società gerente il casino municipale di Nizza era in cattive acque e prossima
all'insolvenza. «Se è vera l'informazione, cercherò un'altra scrittura per il mio tenore,
del quale per essere sincero e senza farmi illusione sono contento dei suoi progressi».
Nel massimo teatro parigino, intanto, era attesa la programmazione dell'Enrico VIII,
per il quale prevedeva un altro fiasco. «Non fuvvi ancora un solo successo al Opera da
che fu aperta, eccettuata l'Aida? La Jeanne dArc di Mesmit, l'Esclave di Membré, Le
Polyeucte di Gounod. La reine Barthe di Joncières, Le tribut de Zamora di Gounod,
Francesca da Rimini di Marinas. E' una vergogna per questi compositori e per la
grrrrande école francaise».
Intanto cominciava a correre la voce che i lavori al casino e all'annesso teatro di Nizza
erano sospesi, e che la società sarebbe stata dichiarata insolvente. Non aveva ricevuto
alcuna comunicazione ufficiale, e il tenore era legato da contratto per la stagione della
riapertura con una paga di 3000 franchi al mese. Muzio era soddisfatto della
preparazione e, oltre alla Lucia, con la quale avrebbe dovuto debuttare, aveva fatto
studiare a memoria Aida, il trovatore, Emani, Rigoletto, La traviata, e Faust.
Per recarsi a Nizza, passò per Milano, dove fece udire il suo pupillo alla Scala in
un'audizione cui assistettero la Lampugnani, la Lucca, la Stolz, Ricordi, Filippi, Fano,
D'Ormeville, Faccio, e altri, «e tutto andò bene». Il giorno dopo si recò a Voghera, per
udire un'allieva che cantava in quel teatro, e poi andò a trovare il maestro a Genova.
Due anni prima, l’11 aprile 1881, durante una rappresentazione della Lucia, il Teatro
di Nizza era stato gravemente danneggiato da un incendio, che aveva causato un
centinaio di vittime, e si stava procedendo alla ricostruzione. Se a Parigi Muzio aveva
lasciato la pioggia, a Nizza aveva trovato il sole, ma vi tirava un forte vento e c'era un
grande freddo. «La primavera eterna è un sogno dei poeti».
Alla metà del secolo scorso un ricco inglese, lord Brougham, arrivato a Cannes, si era
innamorato della natura, e aveva deciso di stabilirsi su quella costa abitata soltanto da
poveri pescatori. Presto i rappresentanti delle antiche famiglie e dei nuovi ricchi
avevano cominciato a darsi appuntamento in Riviera, e vennero elevati a templi della
mondanità invernale Spelugue, presto ribattezzata Monaco, Antibes, Saint-Tropez,
Nizza, Juan-les-Pins. Si vide cosi la fioritura di un coacervo di costruzioni neogotiche,
moresche o svizzere, e vi era stato anche chi si era rifatto a qualcosa che
assomigliava a un palazzo delle Mille e una notte, o a un castello stile Luigi XIII. A fine
secolo, a por termine a questi orrori, irruppe vittorioso un nuovo linguaggio che
presentava elementi coerentemente e originalmente elaborati, tanto che venne
denominato "arte nuova", art nouveau, modero style. Questa art nouveau si diffuse
con una orchestrazione di decori e ornamenti su architettura e arredi: dalle vetrate, al
ferro battuto, ai lampadari, alle decorazioni per soffitti, alle ceramiche, ai tappeti, al
mobilio.
Come aveva preannunciato, Muzio prese a prezzo modico due camere ammobiliate:
con la pensione per il tenore, senza i pasti per sé, in quanto preferiva pranzare senza
impegni d'orario e libero nelle scelte. Malgrado il freddo, lamentava la presenza delle
zanzare, «La mia faccia è piena di morsicature e il povero tenore che è giovane
sembra che abbia avuto il vajolo». Non perse l'occasione di recarsi a trovare il
maestro a Genova, e portò con sé l'allievo per farlo udire nuovamente: «Verdi fu
contentissimo e trovò che fece grandi progressi», rispetto a quando lo aveva udito nel
maggio precedente. Intanto, per occupare il tempo, gli insegnava Un ballo in
maschera, e aveva iniziato anche La forza del destino.
Muzio passò il natale 1882 con Verdi. Non sappiamo se per celebrare la festa
mangiarono il piatto della tradizione, gnocchi e lumache. Secondo una consuetudine
pluriennale, era Ricordi a inviare il panettone. Alla vigila erano già a tavola, e il dolce
meneghino non era ancora arrivato. Muzio descrisse a Ricordi l'attesa del dolce che,
con il passar del tempo, diventò quasi ansiosa: «Nella giornata il Maestro diceva "Non
è ancora arrivato"; ed io rispondeva "Arriverà". Ritornati a casa da una passeggiata:
"Vedete che non è giunto", la stessa risposta: "Arriverà". Alle sette una tirata di
campanello, il Maestro ed io esclamiamo "il paneton", la Signora Peppina e [l'ingegner
Giuseppe] De Amicis dicono di no: allora il Maestro ed io scommettimici un soldo ed il
domestico annuncia la famosa cassa. Il Maestro la vede ed esclama: "C'è una statua";
tutti diciamo "E' la statua d'Otello". Aperta la cassa con molta delicatezza, si pone il
monstre in tavola; Verdi scioglie i nodi, leva il coperchio e si scopre mezzo Otello. Fu
un grido di meraviglia, si bevve affinché da qui a un anno s'alzi in piedi ed abbia le
gambe, ed io auguro di essere come in quest'anno presente alla grande cerimonia
dell'Otello in cioccolata e musica».
Anche durante la visita, stimolò il maestro a concludere l'opera: questi si schermi,
asserendo che «è fatto nulla ed ora non ci penso». Muzio insistette, ricordandogli che
quello era il mezzo per pagare le spese dell'ospedale che voleva costruire a Villanova
d'Arda e per fargli anche la dote. Non se ne parlò più: qualche giorno dopo, però,
aveva visto sul pianoforte qualche foglio di musica e il libretto dell'Otello che prima
non c'erano...
Ritornato a Nizza, il 9 gennaio 1883 raccontò a Verdi un furto di cui era stato vittima.
Era seduto al caffè insieme ad un amico, e stava leggendo delle lettere che gli erano
giunte da varie personalità del mondo della musica. L'amico, viste tante firme
prestigiose, gli aveva detto: «Ma voi avete là dentro dei tesori». Poco dopo, nel tavolo
accanto, occupato da alcuni inglesi o americani, era scoppiato un parapiglia, e il
cappello di uno di essi era caduto sul tavolo di Muzio. I litiganti avevano fatto allora
mille scuse per l'accaduto e se n'erano andati. Dopo tuta mezz'ora, nel lasciare il
caffè, Muzio aveva cercato le sue lettere, ma queste erano svanite, o meglio gliele
avevano rubate: avevano creduto che le parole «voi avete là dentro dei tesori»
alludessero a denaro o altri valori.
Riguardo a questo furto, Alessandro Luzio descrisse altrimenti l'accaduto, in quanto
sembra che «il mezzo migliaio almeno di lettere» di Verdi rubate, Muzio lo tenesse nel
portafoglio... poi. quattro pagine dopo, scrive che nel testamento, steso il 22 ottobre
1890, vi era la clausola, «mia assoluta volontà» che le lettere di Verdi, «riunite in
pacchi legati [...] siano tutte bruciate».
Nel gennaio 1883 Ricordi aveva vinto la causa contro gli eredi di Escudier, e scritto a
Muzio per ringraziarlo della collaborazione: «proprio ti si deve essere grati che in
quest'affare ci hai guidati come meglio non si sarebbe potuto».
Il 30 gennaio era addivenuto a un accordo con la società del casino di Nizza, e
«l'indennizzo di franchi 2500 è stato pagato questa mattina, così tutto è terminato, ed
approfittando della libertà, giovedì sera Durot comincierà a cantare nei concerti
paganti. Sono contento che tutto sia finito. Più tardi, nel mese prossimo, andrò a
Milano e troverò una scrittura. Per Aix-les-Bains non ho ancora firmato perché non dà
riputazione, e la più piccola scrittura in un teatro d'Italia con un successo sarebbe più
per Durot che cantare in una stazione di bagni. Veramente poi vi è un'altra ragione,
che io non vorrei più dirigere orchestre».
«Tutti si lamentano del poco concorso di forestieri in questa città: la mancanza
assoluta di un teatro si fa molto sentire e vi ha una grande influenza». La situazione
migliorò qualche giorno dopo con le feste del carnevale che «fece il suo ingresso fra
un turbine di vento e pioggia mercoledì sera. ieri cielo sereno, si videro nel corteggio i
carri e le maschere ed oggi pure col sole vi è la prima battaglia dei fiori»•. Il balcone
del suo appartamento occupava l'angolo della strada principale.
Pur avendo abbandonata la carriera direttoriale, Muzio era ancora ricercato in quanto,
evidentemente, aveva lasciato un ottimo ricordo di sé. Negli Stati Uniti si stava
preparando la stagione di inaugurazione del teatro Metropolitan, e l'impresario Henry
Eugene Abbey stava scritturando quanto di meglio c'era nel campo della lirica. «Ho
avuto un'offerta per ritornare agli Stati Uniti con Abey, l'impresario che ha scritturato
Campanini, la Nilsson, la Valleria e Del Puente, e gli dico il vero che non mi sorride
punto, abbenché l'interesse sarebbe buono franchi 5000 per mese e sette mesi di
scrittura; ma mi pare impossibile che la Nilsson possa resistere. L'agente di Abey deve
arrivare verso la metà del mese, e siccome quel ciarlone di Campanini, vantandosi di
avere una paga superiore a quella che ha realmente, disse che io sarei incaricato di
completare la compagnia, gli agenti di Milano, in capo Brosovich, mi scrivono lettere
su lettere perché dia incarico ad essi di scritturare artisti. Ho fatto la stessa risposta a
tutti: non sono incaricato di nulla e non so con quale fondamento si siano sparse
queste ciarle da Galleria».
Che Campanini fosse "ciarlone" è probabile: ma è incontestabile che in quella stagione
tutti i cantanti vennero retribuiti come mai. La conseguenza di queste paghe
astronomiche fu che Abbey perdette un'infinità di denaro, e rinunziò a prendere
l'appalto del Metropolitan anche per la stagione seguente, passando la mano. «Anche
quel buon uomo di Villate vuol fare l'impresario nel suo paese all'Avana con una
società di capitalisti del paese. Quanti pazzi da catena!».
Il tenore Italo Campanini, che aveva cantato con lui negli Stati Uniti nella storica
stagione del 1873-74, insisteva affinché tornasse a dirigere nella metropoli
d'oltreoceano. Ma Muzio scriveva a Verdi: «Troverò Campanini in collera perché non
voglio ritornare a New York. Ora quel che mi preme è di far debuttare il tenore». E
qui, dal confronto delle lettere scritte a diversi destinatari, risulta come avesse detto
una piccola bugia al maestro, anche se con il buon intento di fargli credere che
pendeva dal suo giudizio: «La Lampugnani mi scrisse se volessi acconsentire a farlo
cantare in un concerto al Conservatorio, ma prima di dire di si, sentirò al mio
passaggio qual è la sua opinione».
Profittando dell'occasione, comunicava anche l'ultimo pettegolezzo del mondo dello
spettacolo: «Che pazza è mai Sarah Bernard, fa scritturare il marito per Bruxelles, lo
fa sciogliere pagando 22.400 franchi di penale, poi il Damala rinuncia alle scene
perché riconosce che è un mediocre artista e si fa soldato ingaggiandosi nella legione
straniera!».
L'amica Lampugnani gli aveva scritto che si era molto divertita ai veglioni di
Carnevale. Ed egli, rispondendo, se ne usci con delle meditazioni alla Lorenzo dei
Medici del "Chi vuol esser lieto sia". Le trascriveva, infatti, i versi di due poeti. Uno
diceva:
A soixante ans il ne faut pas remettre
L'instant heureux qui promet un plaisir
e l'altro
Si la vie est un passage
Sur ce passage au moin jetons des fleurs
per concludere con: «Cara mia amica, bisogna divertirsi finché si vive, perché chi sa
quanta noia vi deve essere nell'altra vita nella eterna contemplazione di quell'Essere
che chi sa poi dov'è che si trova».
Giulio Ricordi aveva suggerito di far studiare La Gioconda a Durot, cosa che Muzio
aveva fatto: Ponchielli successivamente aveva ripassato la parte al tenore, e si era
dichiarato contento.
Muzio profittava di ogni lettera per mettere al corrente Verdi di quanto avveniva nel
mondo della lirica: Filippo Filippi era partito per Parigi per "rendere conto" dell'Enrico
VIII, che sarebbe andato in scena il prossimo lunedi; la domenica precedente, intanto,
aveva udito in un concerto la figlia di Piave, Adelina: era poca cosa, la voce limitata
assomigliava a quella che aveva la madre venticinque anni prima, nei suoi riguardi
presentava però il vantaggio di essere più bella, ma era fredda e mancava di
espressione. Nella capitale francese era stato rappresentato il Mefistofele senza
successo: «Se Boito fosse stato a Parigi credo che avrebbe ad ogni modo avuto l'onore
di un banchetto. Non credo che sia mai esistito un compositore che con una sola opera
abbia avuto più banchetti». Si era poi svolto a Milano un duello fra i wagneristi prof.
Andreoli e Aldo Noseda, a causa delle critiche dei concerti che quest'ultimo aveva
rivolto al primo. Andreoli aveva dimostrato inequivocabilmente con la spada, inferendo
al Noseda quattro ferite di punta e tagliandogli due arterie, che sapeva dirigere
Wagner.
Dell'opera nuova al Teatro alla Scala. Dejanice di Alfredo Catalani, si dovevano fare le
ultime prove, ma il vestiarista Zamperoni non voleva consegnare i costumi in quanto
non l'avevano ancora pagato: anche l'andata in scena era incerta essendo il tenore
ammalato, «ma non mi sorprenderebbe che l'indisposizione sia piuttosto dal lato della
Lucca che non vuol pagare che da quello dell'artista. L'orchestra lesse prima la musica
e v'impiegò quattro prove; la musica è assai difficile e la figurazione anche per
leggerla. Di più malamente scritta per gli strumenti ad Arco e Rampazzini dovette
correggerla per renderla eseguibile, mi disse che vi erano squarci da concertista e che
un virtuoso avrebbe dovuto studiarli. So che Catalani ha dovuto anche fare molti
cambiamenti nelle parti vocali perché ne la Turolla ne Vergnet hanno note acute nella
voce».
Il 17 marzo Durot dette un concerto a Milano: era andato «più che bene e fece più
effetto nella romanza della Forza che in quella di Gounod: dicevano ci piace la voce
ma non il pezzo». La sera stessa andò in scena alla Scala l'opera di Catalani: il
giudizio di Muzio fu negativo: non aveva trovato «ne novità, ne invenzione, ne estro,
ne fantasia. Quelli che intesero la prima opera Elda dicono che è in progresso, ma è
ancora lontano le mille miglia prima di arrivare ad essere un operista. Manca d'estro,
è freddo e non credo che sia mai stato appassionato quantunque abbia 29 o 30 anni.
Insomma é una musica ammalata... In quanto a me la giudico nata e morta».
Inviando lo spartito a Verdi, gli fece notare che aveva sottolineato «le sole
riminiscenze di Wagner, lasciando quelle di Gounod e Bizet che abbondano». Ultimo
epigono di quella che era stata la rivoluzionaria scapigliatura milanese, dopo il
riavvicinamento tra Verdi e Boito, e l'atteggiamento filoverdiano di Gomes e di
Ponchielli, adesso Catalani era il solo musicista a mantenersi fedele a quei principi che
avevano dato luogo al movimento. Si può ben comprendere che fosse poco gradito a
Muzio, che aborriva il genere sinfonico di stampo franco-tedesco, di cui erano pervase
le musiche del giovane compositore.
A metà aprile Muzio senti il bisogno di giustificarsi con Verdi che si era lamentato con
lui per qualche indiscrezione rilasciata alla stampa. «Egli sa quanto me che il
giornalismo è peste di tutti i paesi, di un mucchio di polvere ne fanno una montagna,
e di un piccolo rumore un temporale. Miserie umane e grazie al Cielo... piccole».
Era in corso in Italia la tournée del direttore tedesco Angelo Neomann con la
Tetralogia di Wagner, e Muzio non poteva non scriverne al maestro: «Si è suonato un
poco troppo di musica tedesca in questi ultimi mesi, ma il pubblico non la gusta e non
la gusterà mai. L'impresario Netnnann se ne è accorto e dopo Torino va a Trieste e di
là a Vienna e Pesth. Credo che è stata un bene questa campagnata che hanno fatto i
tedeschi, ché non si troverà un impresario che vorrà rischiare le opere di Wagner, ed il
pubblico si asterrà in avvenire. A Roma il pubblico lasciò deserto l'Apollo dove si
recitava la Walkiria, e riempiva il Costanzi ove si cantava Il trovatore». A conferma
degli umori del pubblico per la musica tedesca, scriveva che, dopo Fidelio di
Beethoven al Dal Verme di Milano, pieno soltanto per un terzo, «al sortire si diceva
"non me ciapen pu"».
Quando era a Milano, Muzio non mancava mai nel salotto di Carlo D'Ormeville, al n. 1
di piazza Paolo Ferrari. Vi convenivano le celebrità del presente e le glorie del passato.
Alle cinque venivano servite bibite, liquori, dolciumi. La bevanda alla moda era
l'assenzio all'acqua, centellinata da un sovrapposto imbuto di vetro, ma non mancava
mai l'acqua di pomi allo zucchero. A un ospite che gli chiedeva come mai insistesse a
offrire questa bibita ormai caduta in desuetudine, l'anfitrione aveva risposto: «Nelle
sere d'inverno l'acqua di pomi è un preservativo dalle raucedini: servendola ad antichi
virtuosi, è un omaggio che rendo alla loro celebrità, poiché, come ho collaborato alle
loro scritture nel tempo della gloria, collaboro ora a conservarne i ruderi...».
IL 22 maggio 1883 ricorreva il decimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni,
e Milano si apprestava all'inaugurazione di un monumento nella piazza che gli era
stata intitolata. Per l'occasione si sarebbe eseguita la Messa da requiem di Verdi, che
era stato invitato a dirigerla "in persona". Il maestro rispose che detestava i bis, e
l'esecuzione venne affidata a Franco Faccio: il tenore fu Durot.
Qualche giorno dopo, Muzio ritornò a Parigi: aveva affidato il pupillo alla Lampugnani,
e continuava a pagargli l'alloggio, le lezioni di dizione e di arte scenica. Aveva cercato
l'alloggio in una famiglia dove si parlasse solo italiano, e nessuno conoscesse neanche
una parola di francese: lo sistemò presso Broglio, il vecchio direttore della Gazzetta
dei teatri. Era contento della soluzione, «specialmente se è vero che ora è sobrio».
Durot era un giovane oltremodo timido, e lo stesso Muzio stupiva ancora «come non
abbia il coraggio di parlare almeno quel poco che sa. [...] Ha il cuore sensibile e
piange tanto per la bontà che si ha per lui, che per la severità». La Lampugnani,
decisa donna d'affari, dette un consiglio per il tenore: «Se non potrà fare i primi teatri,
dovrà contentarsi dei secondi e dei terzi; se guadagnerà mangierà, altrimenti
digiunerà ed allora forse si risveglierà di più».
Profittando della circostanza, Verdi gli dette un incarico: portare un sussidio di cento
lire al vecchio basso comico Scalese, che nel lontano settembre 1890 aveva cantato
nella meno riuscita delle sue opere, Un giorno di regno, e che adesso abitava a Parigi.
«In che miseria è quel povero vecchio, con una moglie di settantanove anni. Come
sono alloggiati! Quantunque sia in età avanzata, avrà ancora anni di vita poiché è
grasso, ha buon colorito, occhio vivo, voce forte e lingua sciolta. Vi era anche la figlia
e tutti e tre mi dissero che si raccomandavano a Lui a che non li dimentichi», relazionò
a missione compiuta.
CAPITOLO XVII
La rinascita del Theatre Italien
Nella capitale francese l'impresario Enrico Corti e il baritono Maurel stavano tentando
di ridar vita al Theatre Italien. L'opinione pubblica, specialmente i non musicisti,
avevano accolto la notizia con il massimo piacere. Nei progetti, a leggere dai giornali,
c'erano Simon Boccanegra, Don Carlos e l'Otello, tutte e tre le opere messe in scena e
dirette alla prima da Giuseppe Verdi, "lui méme", poi da Franco Faccio, con l'orchestra
e i cori della Scala. Se a questi l'impresa avesse unito una buona compagnia di canto,
notava Muzio, l'effetto sarebbe stato certamente irresistibile, e allora «il y aura encore
des beaux jours pour la musique ballerine à Paris». Sulla presenza di Faccio sulle
scene parigine, Muzio prospettava invece delle perplessità: diceva che faceva male a
venire, e specialmente se portava i suoi strumenti a fiato: «c'intendiamo - scriveva
alla Lampugnani - sempre fra noi, a Faccio manca l'eleganza, la corda del sentimento
che piace qui. Magnifico per i finali, le marcie». E i fatti gli dettero poi ragione.
Muzio era dell'avviso che in un'impresa teatrale contavano solo gli abbonamenti, e
questi non potevano venire che dall'aristocrazia e dai magnati, «essendovi da contare
poco o nulla colla piccola borghesia e con publico avventino». Siccome stava
riprendendo quota in Francia il movimento monarchico, era auspicabile che i nobili
dessero sostegno all'iniziativa. Dietro alla nuova impresa c'era comunque il banchiere
Camondo, quello che aveva lucrato riccamente con la costruzione delle strade ferrate
turche. Non c'era da sperare sulle sovvenzioni governative, date le spese per la guerra
in corso in Asia.
Pur riconoscendone i meriti di artista, su Maurel direttore di teatro„ esprimeva giudizi
dubitativi: «Non vuole vere e buone voci vicino a lui» e «se si contentasse solamente
di cantare, sarebbe meglio». Ammetteva che comunque, bene o male, fosse andato il
nuovo Théàtre Italien, bisognava rendergli giustizia, in quanto aveva lavorato con
impegno per trovare un buon numero di azionisti nell'aristocrazia.
Questi erano finanziatori che, probabilmente, erano indifferenti al guadagno: cosi, se
la nuova impresa apriva bene il fuoco con il Simon Boccanegra, se aboliva il sistema
delle stelle, rovina delle opere, se riusciva ad allestire un insieme di buone esecuzioni,
poteva avere la speranza di riuscire. Tra le previsioni di Muzio circa il successo della
stagione, ve ne erario anche di natura metereologica: non sarebbe andata bene se
l'inverno fosse stato rigoroso «perché i ricchi non amano far sortire i loro cavalli ne
stazionare quando fa freddo per tema che si raffreddino»; altra componente del
successo era l'esito degli affari finanziari e industriali: se fossero stati cattivi, «non so
se le classi agiate vorranno o potranno spendere». Un'eccellente idea era quella di
dare ogni domenica alle due una matinée d'opera a prezzi ridotti del '1O o 50%. Era
l'orario in cui si davano i concerti strumentali Colonne, Poedeloup e Larnoureux: da un
po' di tempo però non attiravano il pubblico, che preferiva quelli con i cantanti. «La
voce umana sarà sempre il più degli strumenti, ed il solo che parla al cuore. Gli altri
teatri di musica preparano una grande guerra col mezzo dei giornali al loro soldo, e
guai se qualcosa andasse di traverso o a male».
Un tocco di delicatezza verso il settantenne maestro, Muzio lo manifestò ancora una
volta in occasione della traduzione francese del Simon Boccanegra: comunicava
all'editore che l'indomani Nuitter si sarebbe recato da lui per leggerla insieme,
«sonando la musica e cantandola affinché dopo, dovendola tu mandare a Verdi per la
revisione finale, Egli abbia meno fatica da fare».
Come si seppe che era tornato a Parigi, venne assalito da richieste di lezioni di canto:
«Sono qui da diciotto giorni e vedendo che la noia mi cresceva di giorno in giorno,
causa l'ozio, ho accettato quattro allievi! Non si tratta di fare degli infelici, ché essendo
già in carriera, lo sono più o meno, ma di occupare alcune ore della giornata. Non
voglio più responsabilità con principianti». I maggiori impresari si rivolgevano a lui per
ottenere cantanti sicuri, ed egli, non solo contattava i migliori, ma, se segnalava dei
giovani, li presentava preparati nelle parti che avrebbero dovuto cantare. Così fece
adesso con la Montalba, sia per la parte di Elisabetta che di Eboli del nuovo Don Carlos
alla Scala; «Essa è giovane, bella, e vedrai che si farà strada». Il contratto con la
Scala successivamente fu sciolto e la donna, sempre istruita da Muzio, si recò a
cantare il Mefistofele al Teatro di San Carlo di Napoli per la somma di 20.000 lire.
Aveva anche fatto sentire «a Louis XV e alla Pompadour» [Maurel e signora]
un'allieva, il soprano drammatico Nazary: era piaciuta, e il giorno dopo avrebbe
cantato al Teatro delle Nazioni per l'impresario Enrico Corti, che nel mese di giugno
aveva preso anche la gestione del Teatro alla Scala.
La vita parigina era ripresa come al solito: il professor Garibaldi, che ebbe
consuetudine di rapporti con lui, raccontava che lo si incontrava spesso verso il
tramonto sui grandi boulevards: aveva la nomea di essere un po' selvaggio in quanto,
miope, non riconosceva una persona nemmeno a pochi passi. Godeva però della fama
di egregio musicista, e aveva estese conoscenze tra la nobiltà, l'alta società, il mondo
artistico e letterario. Appassionato di politica, sempre informato, era in stretto
contatto con le redazioni dei più importanti giornali parigini, e lo si poteva trovare
agevolmente presso l'agenzia Gallignani's Messager, dove aveva quasi un recapito.
Per il Simon Boccanegra e Don Carlos, Corti e Maurel si dovevano rivolgere alla
Società degli Autori per la stesura del contratto, e Muzio era stato chiamato dalla
commissione della Società per stabilire la percentuale. La tassa, eguale per le opere di
dominio pubblico e per quelle di proprietà "particolare", parimenti all'Opera e l'Opera
Comique, gravò il Theatre Italien con l'aliquota dell'8%. Corti comunicò a Ricordi che
non intendeva pagare, in quanto il teatro non godeva di sovvenzioni. Muzio ribatté
senza mezzi termini che il teatro Chateau d'Eau, che non aveva più la dote, pagava il
10%, e che certi autori pretendevano addirittura per la prima il 15%, e concludeva:
«Corti dovrà pagare l'8% e lo pagherà». Aveva avvertito di fare attenzione nella
concessione dei noli delle opere, di mettere in evidenza la clausola che il contratto
sarebbe stato nullo se non si fosse provveduto preventivamente alla "scrittura delle
carte" con la Società degli Autori, alla quale anche la vedova di Wagner si era
associata. Intanto, su sua iniziativa, erano cominciati i sequestri di quei materiali
d'orchestra che Escudier aveva distribuito a larghe mani: «Bisogna agire a ferro e
fuoco per guarire la piaga!».
Dato che la Società degli Autori dava il diritto al compositore di intervenire anche
nell'esecuzione, Muzio, rappresentante di Verdi, se ne avvalse e fece sostituire due
cantanti al Chàteau d'Eau, prima di concedere l'autorizzazione a una ripresa del
Trouvère. Scriveva nel contempo a Ricordi che era della massima importanza che
fosse pronta per ottobre l'edizione francese del Simon Boccanegra, in quanto il colto
pubblico parigino amava leggere la musica prima di recarsi all'opera. Da parte sua
aveva già spedito il libretto e lo spartito, cui Nuitter aveva messo le parole in
francese, lavoro che aveva pagato per conto di Ricordi con 1000 franchi. In caso
occorressero correzioni, avrebbero potuto provvedere direttamente a Milano senza
rispedire le carte a Parigi.
Non volendo mancare al debutto di Durot nella Gioconda, si recò a Sant'Agata dal
maestro, e di là proseguì per Forlì. Non sapendo il giorno in cui sarebbe arrivato,
scrisse che avrebbe preso il treno per Borgo San Donnino, indi una carrozza:
solitamente, quando era in grado di comunicare l'ora, Verdi gli mandava il calesse alla
stazione.
Assistette alle prove, e fu contento di Durot, ma, sempre critico riguardo alla musica,
vi trovò molte cose oziose; apprezzò, invece, e molto, «la danza bellissima come
concetto musicale ed istrumentale con una varietà ed eleganza squisita». Premendogli
che D'Ormeville mettesse in risalto l'avvenimento sulla Gazzetta dei teatri, gli scrisse
che avrebbe telegrafato l'esito dopo la fine dello spettacolo: «lo non potrò nel
telegramma elogiare Usiglio con molte parole, tu le aggiungerai ché lo merita avendo
concertato l'opera con intelligenza ed impegno». Il 30 luglio confidava a Verdi: «Se i
successi futuri saranno come quello di jeri sera, potrò essere compensato delle mie
fatiche e denaro sborsato e raccogliere buona messe coi contratti di Durot. Ha cantato
bene [...] e fu un vero successo per tutti ed anche per la musica quantunque i
Bolognesi accorsi ne dicano plagas. Domani andrò a Milano e l'8 settembre partirò per
Parigi».
Su suggerimento dell'impresario Corti, dette al Theatre Italien la disponibilità per
occupare il posto di "chef du chant". Per un impegno dalle 12 alle 4 di ogni giorno, e
l'assistenza al principio di ogni spettacolo, con il diritto di assentarsi qualora non vi
fossero cambiamenti o casi imprevisti, chiese 1500 franchi al mese. La somma sembrò
eccessiva, e non se ne fece nulla. Un tariffa applicata da Muzio, d'altronde, era
elevata: sappiamo che da m.me Cordier, moglie di un banchiere, riceveva 30 franchi
per lezione.
Sull'esempio francese, anche in Italia si era costituita una Società degli Autori. Muzio
però lamentava che non vi erano ancora degli accordi internazionali, sicché gli italiani
erano privi di tutela in Francia, a meno di non diventare membri anche di quella
Società, e lo stesso avveniva in Italia.
Durot aveva avuto successo ad Alessandria, ma Muzio aveva rinunciato alla scrittura
che Corti gli aveva offerto «prima perché è troppo presto per farlo cantare a Parigi,
secondo perché non vorrei mai farlo debuttare in un'opera che non avrà successo».
Per i primi passi voleva uno spettacolo sicuro, del genere de Il trovatore, La Gioconda
o Lucia di Lammermoor.
In ottobre, durante la preparazione del Simon Boccanegra in francese, vi fu il giallo
della cabaletta scomparsa: Ricordi diceva di averla spedita a Verdi per le modifiche da
apportare nella strumentazione, e intanto aveva distrutto tutte le copie. Il maestro
però non l'aveva. Muzio, interpellato in merito, scrisse a Verdi, chiedendogli di rifarlo:
«Se Egli non lo fa, chi oserebbe mettere mano nella sua musica? Nessuno. A Venezia
ne feci io stesso la riduzione per canto e piano, e siccome sentii le prove e le tre prime
recite e poi a S. Agata continuai a lavorare alla riduzione a quattro mani, mi ricordo lo
strumentale. L'arpeggio era eseguito da Mirco col clarinetto, al pizzicato dei
contrabassi vi succedeva sul secondo quarto quello delle viole e violini, e mi ricordo
ancora l'effetto magico stragrande alla ripresa, quando la voce era accompagnata dal
flauto ed oboe e chiudeva con la scala cromatica fra un subisso di aplausi». Per merito
di Muzio, il giorno dopo la questione si risolse, e un telegramma di Ricordi annunciò di
aver trovato a Napoli lo strumentale della cabaletta «E' buona cosa avere ancora un
po di memoria. Non andavo errato quando ti scrissi che forse a Napoli vi sarebbe la
partitura, tanto meglio perché t'assicuro ch'ebbi molta pena col Maestro».
Nel Figaro del 6 ottobre si leggeva che Corti e Maurel avevano nuovamente aperto gli
abbonamenti per il Théatre Italien: «Ciò vuol dire che era una blague ciò che faceva
scrivere nei giornali che non c'era più un palco ne una sedia e che la sottoscrizione per
l'abbonamento ammontava ad un milione di franchi». Frequentando casa Rothschild
aveva conosciuto dei particolari sulla società: era a responsabilità limitata, con un
capitale di 500.000 franchi di capitale, di cui però soltanto 300.000 versati, che una
parte era già stata spesa per il semestre di affitto anticipato del teatro, che c'erano da
pagare ancora le riparazioni, gli impianti, i tappeti e via dicendo, per un totale stimato
in 75.000 franchi. Maurel, intanto, faceva spese incredibili: aveva preso in affitto un
intero albergo senza mobili a 12.000 franchi all'anno e una carrozza con due cavalli a
1000 franchi al mese. «E’ veramente pazzo e un giorno morirà all'ospedale». Intanto
litigava con il socio Corti, in quanto si era fatto stampare i biglietti da visita con la
dizione: «Maurel fondateur de l'Opera Italien».
Avere a che fare con i due era difficile anche per una persona coriacea come Muzio. Si
riprometteva, messa in scena l'opera, di non vederli più «perché gli ripeto farebbero
ammalare una statua di bronzo; sempre gridi, sempre storie l'una più ridicola
dell'altra. Mercanteggiano, non vogliono sottomettersi ai pesi inerenti all'impresa,
cercano di pagar nulla, ed è vergognoso che un artista come Maurel si immischi in
affari, di commissioni, provvigioni ecc.». Proseguivano le prove del Simon Boccanegra
e, per evitare di incontrarsi con i due, si asteneva dal recarsi a teatro: aveva modo di
sapere quanto avveniva tramite il direttore dell'orchestra Franco Faccio. Preferiva
andare al Chàteau d'Eau con il pittore Boldini ed assistere al Trouvère mentre, a
rendergli rosee le giornate, era arrivato un telegramma da Treviso, dove Durot
interpretava Il re di Lahore: «Grand grand succes, fureur». Subito si premurò di
chiedere alla Lampugnani «di farne una bella notizietta».
Il 28 novembre si tenne la rappresentazione di gala del Boccanegra: oltre a darne
telegraficamente l'esito a Verdi, si dilungò in una lettera nel descrivere la serata. «Vi
fu un inconveniente. L'impresa invitò il Presidente Grevy per le Otto; ed egli non fece
aspettare un minuto. Sui biglietti d'invito non v'era indicata l'ora... cosicché alle otto
v'era quasi nessuno, si fecero le scuse al Presidente il quale aspettò tranquillo
quaranta minuti, si cominciò il prologo con mezzo teatro e fu eseguito in mezzo alla
distrazione per osservare i nuovi venuti ecc. Al principio del primo atto il teatro era
quasi pieno. [...] Il quarto atto fu un successo dal principio alla fine e Maurel fu
veramente grande. Non avrei mai aspettato tanti applausi e chiamate da un pubblico
composto dalla nobiltà, aristocrazia delle arti e del denaro. Il più illustre personaggio
era Victor Hugo che restò in piedi quasi tutto il tempo del quarto atto. [...] Il mio
amico Boldini che sedeva vicino a me era entusiasmato. [...] I giornalisti non
potevano sentirla con attenzione, vi erano troppe distrazioni nel teatro e troppe belle
donne, scollate; molte fra esse di facile conquista, le altre pronte a ricevere gli
omaggi. insomma troppo salon e poca attenzione. Il pubblico pagante sarà meno
distratto».
Non mancò neppure alla sera della prima recita: «Inter nos gli dico che Faccio è
disapuntato perché non lo aplaudirono quando si presentò e perché non lo hanno
chiamato con gli artisti alla fine dell'opera. Mi chiese se non c'era l'uso, risposi che
solo Verdi quando diresse la Messa e l'Aida era chiamato alla scena».
Il 10 gennaio 1884 ritornò alla Scala, diretto da Verdi, il Don Carlos, nella versione
ridotta in quattro atti. Muzio, come aveva preannunciato, era venuto a Milano, ma non
poté assistere alla prima in quanto si recò a Verona, dove il suo tenore cantava
nell'Africana.
Circa l'esecuzione del Don Carlos, Verdi gli scrisse che il pubblico era stato freddo al
secondo atto; rispose che i milanesi, dopo averne sentito tanto parlare, volevano
essere riscaldati dalla nuova opera ancora in gestazione, l'Otello. «Certo che sarebbe
un bene per tutti e specialmente per l'arte e per i giovani compositori. E' vero che si
scrivono, ma che opere! Se ne scrivono pure fuori d'Italia ed i Francesi hanno invaso
in questo inverno tre teatri Pietroburgo. Bruxelles, Anversa, ma se non fossero i
giornalisti ed i loro collaboratori non se ne parlerebbe. I giornalisti sanno fare articoli,
ma i geni non li faranno mai».
A Parigi Muzio si recò nuovamente dal vecchio Scalese: «Jeri mattina ho portato le
cento lire a Scalese. Mai e poi mai ho visto in vita mia più grande squallore e miseria,
ne sono ancora turbato. Senza fuoco, senza sapere se avrebbero da mangiare, senza
aqua. il padre in letto, un canile; la moglie seduta in una sedia inviluppata in una
vecchia coperta di lana, tutta intirizzita e la figlia in un angolo che rapezzava un
corpetto. Sarebbe una vera provvidenza se tutta la famiglia se n'andasse nell'altro
mondo. Questa mattina sono stato subito a vedere Delle Sedie per vedere se si può
fare qualche cosa per quei tre infelici; mi diede 30 franchi, Faccio 20: domani col
mezzo del segretario di Rothschild vedrò di fargli dare qualche cosa: la regola è non
più di 50 franchi. Poi bisogna che cerchiamo un asilo perché col 14 gennaio devono
sloggiare; andrò dal Console e se trovo appoggio nella Società di beneficenza italiana
farò tutto quello che potrò. Ne il medico, ne Delle Sedie, ne persona del Consolato
vogliono andare a vederlo perché veramente si sorte ammalati per lo squallore e
l'odore»...
Per soccorrere il vecchio cantante, organizzò un "Concerto della Polenta" che fruttò
2000 franchi. Il povero Scalese non poté godere di questo sussidio, in quanto mori il
giorno prima del concerto. L'introito venne consegnato al console italiano perché ne
desse venti franchi alla volta alla vedova per vivere e non per pagare i debiti. I
"signori della Polenta", però, si sdegnarono per due cose: la vedova e la figlia, morto il
rispettivo marito e padre. lasciarono il cadavere e se ne andarono ad alloggiare in
albergo, in secondo luogo perché sprecarono quasi la metà della somma raccolta, 700
franchi, in un funerale di lusso.
Se all'Opera Vaucorbeil stava preparando con solennità la centesima replica dell'Aida,
del Theatre Italien Muzio temeva imminente, per usare il suo francese, un "flambè
financier". Vi regnava un'anarchia senza esempio: nella riunione degli azionisti del 18
gennaio 1881 Corti aveva espresso l'intenzione di ritirare i 100.000 franchi che aveva
investito nell'affare, incontrando l'opposizione degli altri azionisti: erano stati elevati
diciassette sequestri sulla paga spettante a Maurel per i debiti accesi da lui e dalla
moglie; gli strumentisti si assentavano spesso, ed erano insolenti nei riguardi del
direttore Gialdini; Maurel e Corti litigavano continuamente, al punto da essere venuti
ai pugni; il pubblico aveva iniziato a disertare gli spettacoli; gli abbonati erano furiosi;
i lavori eseguiti, Manon ed Erodiade, avevano fautori e detrattori, ma «la generalità le
proclama opere noiose, troppo studiate, complicate e assordanti». Secondo quanto gli
aveva confidato il segretario di Rothschild, il capitate di 440.000 franchi era ormai
irrimediabilmente perduto, a causa delle spese folli che Maurel aveva fatto: 100.000
franchi in pubblicità, 5000 per un viaggio in carrozza a quattro cavalli, l'albergo, e via
dicendo... «Maurel grande artista, grande cantante, grande attore, grande comediante
è la causa d'ogni male del Teatro Italiano che si chiamerà tale per qualche mese indi
sarà batezzato col nome di Teatro Internazionale. Sarà dunque l'Internazionale, e
dopo la Comune come nel 71 colle stragi, morte e mina dell'... Opera Italiana».
Tra le notizie teatrali del suo personale "gazzettino", raccontava al maestro che il
prossimo 6 marzo si sarebbe fatta cristiana una cantante del Theatre Italien, il
soprano americano Emma Wixont, in arte Emma Nevada, in omaggio alla terra natale.
Allieva della Marchesi, era una brillante interprete belliniana, al punto che il nome
adesso figura sul piedistallo del monumento del Cigno di Catania, accomunato a quelli
della Malibran e della Pasta. «Il mistico Gounod padrino; un coro di americane allieve
della Marchesi accompagnerà la cerimonia quando il prete verserà l'acqua sulla testa».
Intanto aveva scritto a Villate a La Habana per ordinargli cinquecento sigari, trecento
per Verdi e duecento per sé: «I sigari buoni sono rari e davvero si fumano volentieri».
Arrivarono come un omaggio per Verdi, «ma quando sarà di ritorno da Madrid gliene
domanderò il costo e penserò io a saldarlo dicendogli che Egli non vuole obbligazioni».
«Questa sera abbiamo il pranzo della polenta; dopo si farà un poco di musica. Capponi
ha inventato il filet à la Gayarre e la bomba Lucrezia Borgia...».
Pur volendo un gran bene a Durot, gli affari erano affari e prescindevano da ogni
sentimento. E da questo punto di vista il tenore lo aveva deluso. Dopo averlo fatto
cantare nella Gioconda, ci tenne a puntualizzare: «Ho lasciato cantare Durot alla Scala
perché si aveva mangiato non solo tutto il denaro che guadagnò ma anche quello che
mi apparteneva delle ultime due quindicine, del resto non l'avrei fatto. lo non voglio
più sborsare un soldo, faccia carriera o no, guadagni o no... A Milano diedi
incombenza ad un amico per esigere il denaro, e lo farò dapertutto da ora in avanti».
Oltre a stimolare Verdi a concludere l'Otello, continuava nell'opera di curatore degli
affari e delle pubbliche relazioni del maestro. Avendo deciso la Società degli Autori
francese di dividere gli utili, Verdi aveva rinunciato alla sua quota a favore di un
vecchio compositore francese di settantatre anni, Boisselot. La notizia comparve sui
giornali francesi per merito di Muzio, che dovette darne spiegazioni a Verdi: «So che a
Lui ripugnano queste cose, ma è necessario farlo sapere. Se Egli non fosse stato
italiano e Verdi, l'avrei taciuto». Per un vaglia di 500 franchi, gli spiegava la fonte:
«Per Monte Carlo non esiste il diritto d'autore, l'amministrazione ha deciso di dare un
compenso ai compositori, e siccome Cohen mi mostrò la ricevuta di Ambroise Thomas
e di Gounod per egual somma, non esitai a ricevere quello che gli mandai». Tra le più
varie notizie vi era quella letta su di un giornale inglese: un sedicente conte di Isla,
alloggiato al Palace Hotel di Edimburgo con segretario e domestici, e conosciuto come
nipote di Verdi, aveva scritturato una compagnia drammatica. Venuto il giorno della
paga, aveva detto che andava alla stazione a ricevere sua cugina, la marchesa di
Terracina. Ancora attendevano lui e la cassa della compagnia: «Che ne dice del falso
nipote?».
Dopo l'esecuzione di un concerto di Giovanni Sgambati al Trocadero, narrò che fu
l'unico pezzo che piacque: «Ma i poveri francesi che disfatta. E' una aberrazione una
vera calamità questa smania di far della pittura musicale. Il realismo, il naturalismo,
non c'è ancora chi annuncia della musica pornografica, ma verrà». Il pubblico non si
interessava a nulla, «insomma la nota del giorno, a Parigi almeno, è l'indifferenza per
ogni cosa, politica, letteraria e teatrale. C'è bisogno di un genio che svegli questi
Parigini».
Al Theatre Italien le cose andavano di male in peggio, al punto che la Lucia non era
stata rappresentata. L'inviato della ditta Zamperoni non aveva voluto consegnare i
costumi, in quanto non si era provveduto al pagamento di 17.000 franchi, e in cassa
non c'era un soldo: «Maurel è ammalato fisicamente e moralmente. Teme una
inchiesta giudiziaria». II Theatre Populaire Chateau d'Eau aveva dovuto chiudere per
mancanza di fondi: non potendosi pagare la quindicina, l'orchestra si era rifiutata di
suonare. All'Opera, intanto, era andata in scena l'ultima opera di Gounod:
«L'impressione generale non era favorevole al successo dell'opera... e dopo l'opera si
diceva c'est un désastre. [...] La prova generale e la prima recita bastano a me e
certo non tornerò al Opera per questa Saffo».
Muzio, dopo dieci anni, aveva perduto la pazienza con Maurice Strakosch, e aveva
fatto cominciare a New York la causa: «Sono 13.305 franchi senza contare gli interessi
dal 1875»...
CAPITOLO XVIII
Giovanni Boldini
Un personaggio che teneva banco in quella Parigi della belle époque era un
elegantissimo pittore ferrarese, considerato uno dei massimi ritrattisti europei,
Giovanni Boldini. Tranne le ore in cui dipingeva, l'esistenza era tutto un minare di
ricevimenti, giochi, feste, teatri, gite, donne magnifiche, cose belle, omaggi dei
potenti di tutto il mondo, che lo invitavano ovunque per aver l'onore di essere effigiati
da lui.
Emanuele Muzio era entrato in confidenza con questo artista, un patriota imbevuto di
spirito risorgimentale, che cantava sempre volentieri: specie quando lavorava.
Cresciuto negli anni che portarono all'unità d'Italia - era nato il 31 dicembre 1842 Boldini prediligeva le arie d'opera: e questo non poteva che portare a Giuseppe Verdi.
L'accordo tra Boldini e Muzio fu immediato, essendo ambedue adoratori di uno stesso
"idolo", e il pittore non cessava mai di chiedere notizie e particolari a questa persona
che aveva avuto la fortuna di vivere a contatto di gomito con il maestro, ne riceveva
lunghe lettere, e sapeva tutto di lui. La massima aspirazione, ritrarre Verdi, fu resa
possibile tramite Muzio. Nel 1882 Verdi si era recato a Parigi e, profittando
dell'occasione, il pittore lo aveva effigiato in un bozzetto. Recandosi Muzio a Genova,
glielo aveva dato, pregandolo di consegnarlo al maestro con i suoi omaggi e, qualora
gli fosse piaciuto, si dichiarava pronto a fargli il ritratto.
Il 22 novembre Muzio gli scrisse: «Sono venuto a Genova due giorni più tardi di quello
che io pensava, ecco la ragione del ritardo nel dargli le notizie prima del suo idolo
Verdi poi, se mi permette, del suo nuovo amico Muzio. Il Maestro non cessa di fare gli
elogi del ritratto che lo dice più che bello, e che si vede è fatto da un grande artista,
faccia un inchino a se stesso. Non è ancora sulla cornice perché Verdi non è qui che da
due giorni. […] Mi disse che Boldini non ha bisogno di lettere di presentazione, ma che
sarà felicissimo di fare la conoscenza di un artista che ammira da anni. Egli ha dunque
il suo passpartout in tasca». Recatosi a Nizza, scrisse al maestro che Boldini «è nella
gioia al solo pensare che Egli accettò. Mi disse è una cambiale che vorrei pagasse
presto».
Oltre al rigore, la riconoscenza fu una delle caratteristiche precipue della natura di
Muzio: questa si manifestò anche nei riguardi di Busseto, pur non ignorandone i difetti
e la litigiosità degli abitanti. Il 24 giugno 1884 scriveva a Verdi che, quando Boldini
aveva fatto quel ritratto a penna, che poi aveva donato al maestro, il pittore gli aveva
detto: «Se verrà Verdi a Parigi te ne farò uno di lui per te, se accetta il tuo che gli
mandi». Adesso Boldini gli aveva donato il quadretto e, alla richiesta di cosa ne
avrebbe fatto, aveva risposto che lo avrebbe tenuto con sé fino a quando restava in
vita, «e che volendo lasciare un ricordo e rendere al Monte di Pietà il bene che mi fece
la pensione, oltre l'aumento di uno studente lascierei anche come memoria al Monte di
Pietà il quadretto, cosi sono certo che non se ne farà un commercio dopo che non ci
sarò più».
I rapporti tra il pittore e il musicista si erano nel frattempo fatti cordiali. E' del 26
novembre 1883 una lettera a Boldini: «Ho un biglietto per domani martedi e uno per
giovedì. Se domani verrete a pranzo già bello, bellino, andremo insieme perché i
fauteuils 90 e 92 sono sulla stessa carta di invito. Buonappetito».
Boldini fu l'autore dei più bei ritratti di Verdi e di Muzio. Di quello di Muzio, un olio
dipinto nel 1882, ora nel Museo del Teatro alla Scala, Jacopo Canoni scrisse che era
un capolavoro: «Ho visto raramente un'opera di cosi piccola dimensione produrre una
tale impressione, Muzio che dirige un'orchestra invisibile, bacchetta in mano, in piedi,
sembra vivo». Invece di uno, i ritratti di Verdi divennero poi due. Il pittore, d'accordo
con Muzio, aveva deciso che fosse un quadro di grande formato. Questi scrisse allora
al maestro che intenzione del pittore era di donarlo in occasione dell'inaugurazione
dell'ospedale di Villanova d'Arda, «lasciando alle generazioni future un ritratto
rassomigliante, poiché non c'è pittore che scolpisce cosi bene il suo sogetto come
Boldini. Dice che non ha bisogno che Egli faccia lunghe sedute, passeggierà, leggerà,
parlerà, farà quello che vorrà senza noia e senza fatica. In quanto a compenso il solo
che chiederà sarà di permettere che lo esponga». Osservava che non era però il
momento per recarsi in Francia, in quanto infieriva il colera: gli inviava intanto le
sinfonie di Berlioz, che gli aveva richiesto.
Passarono due anni prima che il progetto si realizzasse. Nella primavera 1886,
accompagnato dalla moglie e da Muzio, Verdi si recò nell'atelier dell'artista in place
Pigalle 11. Il ritratto, però, nacque male fin dalla prima posa: il pittore raccontò che
Giuseppina, dopo aver rilevato che l'ambiente era umido, non faceva che rammentare
al marito quest'impegno o quell'appuntamento, Muzio non la smetteva di ragionare di
spartiti, di cantanti, di date, di si bemolli e, fatalmente, il quadro prese un avvio
convenzionale, e fu terminato di furia e malavoglia. La tela, ora nella Casa di Riposo
per Musicisti di Milano, non soddisfò il pittore, anche se venne esposta al Salon del
1887: dopo il Falstaff nel 1893, venne donato dall'autore al maestro.
Subito dopo Boldini aveva traslocato nella "villetta rossa", al n. 41 di boulevard
Berthier, con le camere di abitazione al piano terreno e lo studio al primo piano.
Terminato il trasferimento, il pittore tornò a chiedere al maestro un'altra occasione,
un'unica posa, «per rifarsi del cattivo risultato dell'opera precedente». Questa volta gli
chiese di venire da solo, per evitare distrazioni.
Boldini narrò centinaia di volte come nacque questo capolavoro, ed esistono versioni
sempre diverse, man mano che gli anni si allontanavano: la mattina del 9 aprile 1886
Verdi, intento alla preparazione dell'Otello con il baritono Maurel, trovò il tempo di
recarsi alla villa. Tirava un vento gelido, e aveva l'aria infreddolita: Boldini apri il
portoncino e lo vide con l'aria accigliata, il cilindro nero sui capelli bianchi, scarmigliati,
la corta sciarpa annodata al collo: restò folgorato dall'immagine, gli raccomandò di
non togliersi il copricapo, e lo accompagnò subito nello studio. Parlarono di musica, e
Boldini canticchiò La traviata, mentre si andava sempre più infervorando
nell'esecuzione del pastello. In un intervallo, dopo due ore di lavoro, Verdi sedette al
pianoforte e suonò per il pittore il "Credo" dell'ancora inedito Otello. Voltatosi al
termine dell'esecuzione, vide quanto il pittore aveva fatto, e ne rimase impressionato.
Anche se aveva un appuntamento, rimase a colazione, per fare un altro paio d'ore di
posa: dopo di che l'opera fu terminata.
Boldini ebbe carissimo questo ritratto, e rifiutò di venderlo al principe di Galles: lo
presentò all'Esposizione Universale di Parigi nel 1889, alla prima Biennale di Venezia,
e a una personale a New York nel 1897. Nel 1918 ne fece dono allo stato italiano, a
seguito dell'interessamento della principessa Letizia di Savoia: adesso si trova a Roma
nella Galleria d'Arte Moderna.
Sempre attento al denaro, in quel mese di luglio Muzio rinunciò a recarsi a New York,
spesato del biglietto d'andata e del soggiorno, offertogli dall'amico Bennet dell'Herald:
«Avrei dovuto pagare il viaggio di ritorno e perdere quattro o cinque settimane di
lezioni. In questi tempi di crack non bisogna disprezzare ne il denaro ne il guadagno».
Dopo aver passato le vacanze di natale a Genova con Verdi. tornato a Parigi inviò al
maestro cinquanta fogli di carta da musica da ventiquattro righe, per invitarlo a
concludere la stesura dell'Otello, e due fagiani maschi che gli avevano donato.
E' dei primi mesi del 1885 il giudizio espresso sulla prima opera di Puccini, Le Villi. Il
31 maggio 1884 era stata presentata al Teatro Dal Verme di Milano, e Verdi ne aveva
sentito parlare bene, scrivendo in tal senso a Muzio. Questi si era congratulato con
Ricordi, in quanto finalmente aveva trovato quello che cercava da trent'anni «un vero
maestro, certo Puccini che pare veramente abbia qualità non comuni». Adesso però,
confidandosi con Verdi, anche se con giudizi più sfumati dei soliti sulle opere degli altri
compositori, si espresse in questi termini: «Ho letto lo spartito delle Villi; mi sembra
che il Puccini essendo giovane dovrebbe avere idee e fuoco, e quando un giovane ne
ha e li sa condurre eccitano; in quest'opera credevo trovare altra cosa, e la musica mi
pare fredda e pesantuccia; sarà altra cosa alla scena, ma quando il pubblico alla
seconda e successive rappresentazioni diminuisce è brutto segno... Lamperti mi scrive
che la musica è fatta con la birra, non c'è un gocciolo di vino».
Alla fine di ottobre, malgrado la bancarotta della stagione precedente, il Theatre
Italien di Parigi riaprì i battenti: la previsione di Muzio era che non avrebbe resistito
più di qualche mese. All'Opera, intanto, si tenevano le prove del Rigoletto: non
soddisfatto di come era diretto da Altés, «ora non l'abbandono più, ci sto vicino, ed un
poco col piede, e colla mano sul dorso lo tengo in moto. L'orchestra capirà i tempi e
tutto finirà per andare bene». I tempi, cosi, durante la rappresentazione «erano più
mossi, ma io parlai con alcuni professori e dissi ad essi fate come alle prove, non
guardate Altés, seguite la Krauss e Deveims e la Richard che hanno ritmo... e andate
avanti». Circa il successo che l'opera incontrò, scriveva: «E' certo che i compositori
francesi e gli adetti della nuova musica wagneriana non amano la nostra musica
italiana e dicono che la tedesca ha distrutto la nostra. Il publico però non è ancora di
questa opinione». Victor Hugo, attraverso il suo rappresentante, chiese un decimo del
diritto d'autore, adducendo i più vari pretesti: Verdi era anche disposto a lasciar
correre, non cosi Muzio che, duro e tenace, si oppose alla pretesa.
Negli ultimi giorni del febbraio 1835 a Muzio si presentarono dei problemi familiari:
temeva «che l'affare di mio fratello Giulio sia più grave di quello che ne dice il dott.
Carrara nella sua lettera. L'assicuro che da quattro giorni sono in uno stato
d'agitazione grande assai che non mi da tregua ne riposo». Era accaduto che il
fratello, che fino allora aveva fatto il mestiere del padre, cioè il ciabattino, diceva di
aver trovato un "buon" posto da commesso viaggiatore e che aveva bisogno di una
cauzione di 1500 lire. Non aveva chiesto a Emanuele la somma direttamente, bensi
tramite il dott. Carrara. «E fece bene perché avrei rifiutato. Il pescatore faccia il
pescatore, il ciabattino faccia il ciabattino ma guadagni il vitto col suo mestiere. L'ho
scritto oggi netto in risposta ad una lettera di mio fratello stesso». A quanto pare
l'irrequietezza del carattere aveva portato a tutta una serie di speculazioni sballate:
«Ho pensato e ripensato nella notte al debito di mio fratello, che è un'enormità,
pensando anche alle ipoteche che ha sulla casa: e siccome si ridurrà al punto di non
sapere cosa mangiare, ho deciso di serbare il denaro per soccorrerlo quando non potrà
o non vorrà lavorare nel suo legittimo mestiere di calzolaio o ciabattino. Ebbi torto di
pagare il debito a Giovanni Barezzi di 600 lire, ecco il perché ne fece degli altri, e se
pago queste 3238 lire in alcuni anni verrà alla carica col doppio di questa somma. Mi
rincresce ch'Egli abbia avuto queste noje, scrivo al dott. Carrara che se mio fratello
abbisogna di qualche centinaja di lire per mangiare gliele dia, ma a poco a poco, non
in sola volta. Ho un altro fratello che potrebbe pretendere di dargli un eguale somma,
ma devo rendergli giustizia, non ma mai chiesto nulla, e ciò che gli diedi fu di mia
propria volontà che lo feci».
La nipote Enrichetta gli aveva scritto che era stata a Busseto e che suo padre Giulio
era in ottima salute, allegro e fiducioso di potersi fare una buona posizione a Milano.
Emanuele, invece, era «afflitto, molto ma molto, ma non devo incoraggiare il
disordine ne aprovare la sua condotta. Se si saprà a Busseto diranno plagas di me, ma
li lascierò dire e quando verrò a Sant'Agata non metterò piede in città». Poi, però, il
buon cuore e l'affetto per la famiglia ebbero il sopravvento, e inviò al dottor Carrara
un assegno di mille lire «per pagare il debito, perché non andrebbe bene ch'egli fosse
in disborso di una somma troppo forte». Carrara gli relazionò come era andata tutta la
"dolorosa" storia in dettaglio: le 1000 lire erano servite per pagare due cambiali da
500 lire ognuna, ed egli stesso aveva proceduto a fare un rogito con cui il fratello
aveva ipotecato in favore dei creditori la casa per 3000 lire. Ed Emanuele concluse:
«Ora farà quel diavolo che vorrà ma per me la è finita. Non c'è da stare allegri, e
lascio andare le cose come vanno, perché non c'è modo di rimettere al lavoro di prima
mio fratello».
La fantasia di questi era, però, senza freni: pur essendo analfabeta o quasi, e avendo
più di cinquant'anni, adesso gli era venuta un'altra idea, dopo quella, a quanto pare
accantonata, di fare il commesso viaggiatore. Aveva scritto infatti al fratello per
ringraziarlo dell'aiuto fornitogli: diceva che non poteva tornare a Busseto per ragioni
troppo gravi e che adesso, assieme ad altri due signori, voleva rilevare un collegio e
mettervi la figlia Enrichetta come direttrice. Veramente spaventato, Muzio aveva
scritto alla nipote di restare dov'era e di stare bene attenta a lasciare il certo per
l'incerto.
Trascorso l'agosto a Sant'Agata, il 1 settembre 1885 scrisse dal nuovo indirizzo di
Parigi, Hotel Calais. 5 rue des Capucines, a Verdi per ringraziarlo dell'ospitalità,
purtroppo passato troppo presto, e lo pregava nel contempo di investire le 5000 lire
che aveva vinto con una giocata al lotto. Sappiamo che ogni tanto arrischiava qualche
lira in quel gioco, ma siamo propensi a credere che la dizione fosse scherzosa, e che in
verità si trattasse di risparmi sudati con il lavoro. Con plico a parte gli spediva I
maestri cantori e il Parsifal. Non è chiaro a chi alludesse quando scriveva, «aspetto
venerdì il Cherubin da Firenze e sabato mattina alle 7,40 se ne andremo a Parigi»: al
suo tenore candido come un cherubino, o a una cherubina?
Circa le notizie, "brutte campane", che aveva raccolto a Milano sulla solidità
patrimoniale di Ricordi, si affrettò a renderne edotto Verdi: «Egli non può immaginare
quanti debiti abbia tanto Giulio che la moglie. Devono da ogni parte, il marito non ha
finito di pagare il mobiglio di casa, ma persino colui che ha appesi i piatti non gli fu
saldato il conto. la moglie deve alla sarta il conto del 1882-83-84 ed è minacciata
come il marito dai creditori che se non hanno un buon acconto, o se non sono pagati
interamente consegneranno le liste di credito ad un avvocato Enrico Ricordi poi ebbe
in protesto cambiali per 40.000 franchi, e siccome Tornaghi si oppose fermamente al
padre che avrebbe pagato scappò a Londra. Tutte queste cose fanno un gran torto al
credito della casa mercantile». Tornaghi stesso «mi spifferò tutto tutto, e disse "La
casa è una vacca da cui tutti mungono, ma rende, rende, rende". Tito spende più di
100.000 franchi per anno e dice che ha pochi anni da vivere e che non vuol pensieri.
Giulio fa spese inutili, la nuova fabbrica costò 150.000 franchi più di quello che era
stato calcolato, ed in verità vi è un gran lusso in tutto in mobili che sarebbero buoni
per case signorili; inoltre volle ancora fare il giardino intorno la stamperia che costò
due o tremila lire. Tornaghi vorrebbe avere qualcuno che facesse intendere la ragione
a Giulio affinché dia sesto ai suoi affari privati, perché pregiudicano lo stabilimento».
In ottobre Durot aveva cantato a Firenze, e dato notizia del successo a Muzio, che
aveva trasmesso il foglio a Verdi con l'annotazione: «Quando avrà letto questa lettera
di Durot riderà, comincia già ad esser vano. Non me la rimandi e la getti nel paniere».
Il tenore aveva scritto che alla prima dell'Aida vi era stato nei suoi confronti «un vero
fanatismo», e dopo la romanza «un vero entusiamo d'aplauso», e anche negli atti
successivi «tutte le mie belle frase il publico ha aplaudito con calore», aveva bissato i
duetti con Amneris e Aida e dopo l'ultimo atto «era un vero fanatismo. Il successo non
poteva essere più completo, ed il merito è tutto vostro per la maniera che m'avete
insegnato. […] Se voi aveste visto che bel Rhadames, tutte le donne aveva
innamorate ed io erava innamorato di me stesso».
Assieme al tenore, nel novembre si trasferi a Nizza, dove prese in affitto per la
stagione invernale un appartamentino ammobiliato. Anche qui il giovane ebbe
successo, ma l'insegnante era preoccupato per il modo di cantare: «E' veramente in
progresso, ma però ha esagerazioni di voce, una esuberanza che se non si modera
non durerà lungo tempo. Il torto è del publico che aplaude agli éclats della voce, e
chiama e richiama l'artista alla scena». Amante dei maestri che dirigevano con foga e
tempi stretti, espresse la disillusione per il direttore della stagione di Nizza, Cleofonte
Campanini. «E' di natura floscia, fredda; forse avendo inteso tante volte suo fratello a
cantare allargando, lo fa di continuo. Se non si scalda farà la carriera dei piccoli
teatri». Il pronostico non si avverò: anche senza "scaldarsi", Cleofonte Campanini
divenne il massimo interprete dell'opera francese nei primari teatri d'Europa e
d'America nel primo ventennio del XX secolo. Era, però, proprio quel genere di opere
che Emanuele aborriva.
Bolognini, l'impresario del Teatro del Casino Municipale, era in bolletta: essendo in
ritardo nei pagamenti, Durot si rifiutò di cantare, e si dichiarò libero per offerte da altri
teatri. Muzio gli procurò una scrittura per finire la stagione al Teatro di San Carlo di
Napoli. Lui rimase a Nizza, dato che aveva pagato la pigione fino a primavera: «Del
resto Durot non ha più bisogno ch'io sia presso di lui», e nel frattempo citava
Bolognini per la quindicina non ancora pagata al tenore. Gli avevano offerto di dirigere
la stagione di Nizza per la riapertura di febbraio e marzo: era tentato, anche perché la
prima opera in cartellone era l'Aida. Poi, come al solito, lasciò perdere: «Vianesi fa
ogni impegno».
A fine febbraio 1886 si recò a Napoli, dopo essersi fermato qualche giorno a Roma.
Preannunciando una visita a Verdi al ritorno, questi gli aveva risposto: «Potete
immaginare che sarò lietissimo di stringervi la mano, e sentire i pettegolezzi di
Roma...». Anche da Nizza, aveva informato il maestro di quanto era avvennuto sotto i
suoi occhi: gli spettacoli della stagione, i trionfi della Krauss, la delusione che gli
aveva procurato l'esibizione della Patti. Il giudizio negativo stilla "divina" non fu
espresso soltanto da lui: «i giornali furono disagradevoli; il Matin scrisse che ora
"Rosina è all'età di poter sposare D. Bartolo". Un altro "Esperiamo non sia una
rientrata, ma bensi una sortita". Poi ancora altre insolenze». Riguardo all'esecuzione
della Traviata, confermò quanto fosse invecchiata: i quarantatre anni compiuti due
giorni prima si facevano vedere impietosamente nella faccia e sentire nella gola, la
respirazione era corta, spezzava le frasi ogni momento, e la voce legava pochissimo
nelle note medie. Anche se aveva eseguito con brio la cabaletta, le note picchettate
non possedevano più quel suono argentino degli anni passati, e il trillo, breve per
colpa del fiato, non aveva prodotto sensazione. Nel secondo atto aveva cantato
superbamente, con un sentimento intenso e profondo, l'assolo nel duetto "Dite alla
giovane", che era stato lo squarcio eseguito meglio in tutta la sera. «Dopo "Parigi o
cara" saltò addirittura al finale, all'entrata di Germont. Non parlo di altri tagli cesarei,
specialmente nel duetto col baritono». Seguivano altri particolari sulla decadenza della
"divina", e concludeva: «Ieri le feci la mia visita; nella pelle del collo si vedono gli anni
più che nel resto».
CAPITOLO XIX
L'Otello
Ai primi di marzo 1886, Muzio, dopo il viaggio a Napoli, si recò a Genova, dove Verdi
aveva finalmente ultimato il tanto atteso Otello. Il 14 marzo raccontò a Giulio Ricordi
che Boito era entrato nella stanza del maestro, proprio quando era al pianoforte, e gli
faceva sentire per la seconda volta il duetto finale del primo atto, pezzo che non
aveva ancora udito.
Malgrado l'opposizione di Muzio, Verdi era convinto che soltanto Maurel potesse
cantare con efficacia la parte di Jago: decise pertanto. anche se aveva settantadue
anni, di recarsi a Parigi per ascoltarlo. Muzio poi ammise con Ricordi: «Inter nos,
Maurel è necessario, è un grande artista, è il sogno di Verdi che non darebbe l'Otello
senza di lui». Il 7 aprile parti con Verdi da Parigi, passando questa volta dalla
Svizzera, per vedere una nuova meraviglia del progresso: il traforo del Gottardo. Lo
accompagnò fino a Sant'A,gata. per ritornare a Parigi, dopo aver espletato per lui un
delicatissimo incarico. Verdi aveva concesso l'Otello a casa Ricordi, a condizioni assai
favorevoli che, data la freddezza che regnava nei rapporti, aveva fatto conoscere
tramite Emanuele Muzio, che si era recato appositamente a Milano: «ieri ebbi un
colloquio con Giulio Ricordi e Tornaghi ai quali esposi le condizioni per la cessione dello
spartito Otello. Essi le accettarono con riconoscenza ed oggi vedrò, come siamo intesi
e prima che la spediscano, la lettera d'accettazione. Dissi a tutti e due che rinunciò
una somma forte per la Francia e Belgio che gli devono essere riconoscenti, e di più
che avendomi a Parigi chiesta la mia opinione sul valore commerciale della nuova
opera dissi che valeva pour tous pays 250.000 franchi. Da quello che potei leggere
sulla faccia di Tornaghi fu una espressione di sodisfazione quando intese le condizioni,
crede va domandasse una somma più forte. Giulio restò impassibile, ma poco dopo
disse che v'era generosità in tutto, nel prezzo e nell'avere rinunciato alle offerte degli
editori di Parigi. Se non è contento della redazione della lettera la faccia cambiare: io
l'ho letta ben bene con riflessione ma mi sembra che vi sia detto tutto quello che è
necessario per ora; quando farà il contratto allora fisserà le epoche per gli altri tre
pagamenti».
Da Parigi, per non perdere l'abitudine, parlando dell'opera nuova che era in cartellone,
Salambò, scrisse che avrebbe dovuto intitolarsi Ottone, in quanto le trombe, i
tromboni, i clabassi, e i cimbali dominavano la partitura: ci si trovava dinanzi a
un'opera nata morta, per assistere alla quale era convenuto poco pubblico. Anche su
un'altra opera nuova il giudizio fu il consueto: «Sono stato a sentire Maitre Antbòs di
Widor ma nei quattro atti di quest'opera non c'è l'ombra di un'idea e dopo poche
rappresentazioni andrà con i lavori di tutti i giovani compositori (fra i quaranta e i
cinquant'anni) che seguono Wagner». Di Mors et vita, il 23 maggio 1886, l'opinione
fu: «E' un bel lavoro, ma assai monotono, sempre lo stesso colore, sdolcinato e senza
nervo. Persino il "Tuba mirum" è pallido. E' un fatto che il publico lasciava la sala
prima che fosse terminata l'esecuzione. Non sarà piaciuto a Gounod, ma non v'è
publico al mondo che resterebbe per tre ore a sentire sempre la stessa nenia».
Analogo esodo accadde poco dopo alla presenza di Liszt, quando Vianesi diresse al
Trocadero La leggenda di S. Elisabetta. Il giorno dopo il famoso pianista-compositore
aveva lasciato Parigi: «Vianesi non ha osato tentare una seconda esecuzione».
Accennava anche che l'editore Choudens si era rivolto a lui per avere l'autorizzazione
ad eseguire in francese La battaglia di Legnano, che aveva fatto tradurre con il titolo
di Pour la patrie: assicurava che gli artisti sarebbero stati discreti, l'orchestra regolare
e il direttore uno dei migliori che lavoravano in provincia. Da parte sua aveva
promesso l'assistenza, qualora si fosse trovato a Parigi.
Muzio era diventato indispensabile: avendo l'avvocato Michelet di Pietroburgo chiesto
di essere nominato agente della casa Ricordi per la Russia, aveva contattato gli editori
francesi Choudens, Brandus e Heugel per avere informazioni sulla persona e la
solvibilità e, dato che l'italia non aveva trattati sul diritto d'autore con la Russia, gli
avevano insegnato il modo di assicurarsi la proprietà in quel paese senza ricorrere a
una cessione fittizia ad uno di loro. Ricordi, per far fronte alle richieste, gli chiese se
poteva far ridurre in incisione il ritratto di Verdi, opera del Boldini. Come al solito si
offri di occuparsi di tutto, assicurò che il pittore sarebbe stato presente per suggerire
eventuali ritocchi, e avrebbe pagato il conto, per farsi rimborsare in seguito. La
frequentazione con Boldini era diventata stretta: una sera, scrisse a Verdi, erano
andati al Teatro di Montmartre per assistere a una passabile esecuzione del Trouvère.
«Il teatro era pieno, ma che pubblico, che mescolanza. Boldini ha fatto li per lì questi
tre disegni che mi disse di mandargli...».
Non perdeva occasione per narrare a Verdi tutte le notizie che lo riguardavano, ben
sapendo che il maestro, anche se le accoglieva con il fare scontroso di chi non ne vuol
sapere nulla, era invece molto interessato a queste voci: «Eccone una bella e buona.
Incontrai Massenet e mi disse che aspetta con impazienza l'Otello che deve essere una
composizione tutta differente da quelle che Egli ha fatto sino ad ora pour voir de quel
coté je dois aller dans mon prochaine ouvrage (per vedere in quale direzione devo
andare nella mia prossima opera). Non ho risposto nulla ma ho pensato fra me stesso
che se non lo sa da che parte deve andare all'età di 44 anni non lo saprà mai più. E'
un poseur e voleva un complimento...». Sempre nei riguardi delle opere
contemporanee, il 2 giugno ribadiva: «E' certo che guardandosi ben d'intorno non c'è
da rallegrarsi nel mondo musicale, e quello che si fa si regge qualche tempo
coll'artificio, poi passa e muore». Non restava che attendere l'Otello, cui pronosticava
un trionfo. Nel giugno La traviata fu il successo della stagione parigina: «Non c'era un
francese malcontento e Boldini era nella gioia perché sentiva da ogni parte elogi e
persone che dicevano voila de la melodie...».
Dalla Krauss aveva incontrato diverse volte Charles Gounod, che era intento alla
stesura di un Abelardo ed Eloisa. L'editore Choudens gli aveva confidato che il
compositore gli aveva offerto la cessione, ma al lui non interessava: non era un
soggetto da opera, si prestava troppo al ridicolo, ed era una continua discussione
teologica...
La Patti fu un personaggio ricorrente nel "gazzettino": non poteva mancare il suo
matrimonio, che sarebbe stato celebrato il 10 giugno; siccome in Inghilterra non era
ammessa la sola cerimonia civile, la cantante e Nicolini non potevano sposarsi,
essendo ambedue di religione cattolica, che non consentiva lo scioglimento se non
tramite la Sacra Rota. L'ostacolo era stato elegantemente aggirato con la conversione
dei due al protestantesimo... Anche questa unione, però, non fu di lunga durata. Nel
1890 la bella Adelina convolò con il barone svedese Cederstrom, confermando quanto
aveva predetto Muzio: che Nicolini sarebbe rimasto con un palmo di naso, e che la
diva avrebbe sposato un nobile. E questa volta non occorse nemmeno cambiare
religione, in quanto il barone era già protestante.
Negli ultimi tempi la salute di Durot era stata cagionevole, e Muzio si sarebbe recato
presto a Milano per accertarsi delle sue condizioni, «poiché ogni mese bisogna che gli
anticipi denaro per la pensione». Giulio Ricordi aveva prospettato di cantare l'Aida a
Lucca: «Se son rose fioriranno, ma hanno spine pungenti per la mia borsa». Prima,
però. doveva fare un viaggio a Londra di una diecina di giorni, in quanto aveva «un
affaruccio da combinare per una allieva».
Nella capitale britannica, oltre a frequentare l'ambiente teatrale, aveva effettuato una
gita a Richmond e all'Agriculture Hall, per vedere gli elefanti lavorare nei campi, nelle
fabbriche, nel trasporto di pietre, legname e via dicendo... Del tenore Gayarre, che
era «ancora ammalato di voce, sembra a quanto mi disse Maurel che è offeso perché
Egli non l'ha chiesto per cantare l'Otello, invece di quel gridatore di Tamagno. Bisogna
proprio dire che gli artisti non si conoscono». Si narra - ma è un aneddoto fonte
spagnola di cui non possiamo confermare l'autenticità - che Muzio, nei riguardi di
Gayarre, si fosse cosi espresso: «Quando Iddio terminò le fatiche della creazione, si
accorse che mancava l'imbecille. e allora dette voce al tenore».
Al ritorno da Londra, si recò da Durot. che il maestro Bevignani aveva richiesto per
Mosca. Professionista serio e coscienzioso, voleva accertarsi se il giovane fosse in
grado cantare. Se a Lucca avesse dimostrato di essere a posto, la proposta sarebbe
stata presa in considerazione. Dopo una prova poté constatare che la voce era più
bella di prima, e che avrebbe potuto ricominciare presto a cantare, dato che le offerte
non mancavano. Intanto a Milano aveva concluso degli affari per alcuni artisti che
aveva contattato a Londra, e ad agosto stilò il contratto di Durot con il teatro di
Mosca: 5.000 lire al mese, una buona paga per un giovane agli inizi della carriera. Si
recò indi a Sant'Agata, dove si acuirono i reumatismi, per cui andò ad Acqui per una
serie di fanghi e bagni, che lo rimisero in sesto: da qui fece spedire a Verdi cinquanta
bottiglie di Barolo "della primissima qualità".
Boldini - accompagnandolo con un biglietto rosso fiammante, il colore prediletto, in
quanto risaltavano meglio gli schizzi e le figure a penna con cui amava ornare le
missive - aveva spedito da Parigi il ritratto a Verdi, chiedendogli di rinviarglielo, in
quanto doveva finirlo.
Creando l'imballaggio dei problemi, Verdi scrisse a Muzio che era "un bel pasticcio".
Questi si spiegò male, e il pittore, pensando che il maestro alludesse alla pittura,
rimase mortificatissimo.
L'isteria per la prossima prima dell'Otello era al massimo: arrivavano prenotazioni da
tutta Europa, e Muzio aveva portato da Parigi le richieste per diciannove poltrone e un
palco a qualunque prezzo. Dovette successivamente indicare le persone cui non si
poteva negare il biglietto: «Converrà vedere se quando sapranno il prezzo qualcuno
poi non mancherà». In questa circostanza suggeri a Verdi il modo di disobbligarsi con
Boldini per il ritratto: la poltrona, «il fauteuil per l'Otello e niente altro».
«Sono disperato ed evito le conoscenze e gli amici come un debitore i suoi creditori.
Ora c'è il famoso, il grande Clemenceau che mi pregò per un posto, non lo potei
assicurare». I posti fuori abbonamento erano cinquantasei, mentre le domande
superavano le seicento: i prezzi alle stelle, e un palco di quarta fila era stato ceduto
per 750 lire. L'approssimarsi della prima, come scrisse a Boldini, inviandogli un
panettone che si augurava giungesse in buono stato, stava suscitando «una follia che
ha invaso tutte le teste, ed oggi ed ogni giorno i proprietari dei palchi ne aumentano il
prezzo: 1000, 1200, 1500 fr. sono nulla. I fauteuils 200, 300 fr. e chi sa a quanto
amonteranno prima della rappresentazione».
La fantasia della stampa intanto galoppava, e Muzio espresse il suo disappunto:
«L'idra del giorno sono i giornalisti; si nutrono di errori. contumelie e calunnie».
Anche Muzio lavorò intensamente per la realizzazione dell'opera: oltre a correggere le
bozze di stampa, trovandovi degli errori, spiegò e passò al pianoforte con Maurel la
parte di Jago, affinché fosse pronto prima di recarsi a Genova per farsi udire da Verdi.
Sotto la sua guida, stava diventando uno Jago perfetto: intendeva anche tagliargli la
barba, cosa di cui avrebbe parlato con Verdi e il figurinista Alfredo Edel, sia perché la
barba rendeva il viso dolce, sia perché si vedesse meglio l'espressione del volto.
A casa di Maurel veniva spesso anche Boldini per assistere alle prove. Il 9 novembre,
riferendosi alla famosa incisione che, a quanto pare, tardava a vedere la luce, Muzio
scriveva: «Se per caso Boldini non venisse stassera dalla "Mère Morel", andrò domani
da lui a parlargli del ritratto. Potrebbe egli stesso fare un'acquaforte che lavora
mirabilmente». E il 22 novembre a Ricordi: «In questa settimana o più certo nella
prossima ti manderò il disegno del ritratto...».
Fu proprio Maurel, il meraviglioso Jago, che per poco non mandò a monte la prima
dell'Otello. Il 26 novembre 1886 Muzio scriveva al maestro: «Jeri sera ebbi la sua
car.ma scritta prima ch'Egli partisse per Milano. Spero che sarà contento di Tamagno.
per Maurel ne son certo, ma questo benedetto uomo ha tanti pasticci che sarò ben
contento il giorno che lascierà Parigi. Si figuri che jeri poco mancò che l'arrestassero
insieme alla moglie per concubinaggio (tutto questo inter nos perché fui il solo
testimonio). Da qualche giorno rimarcai che quando studiava era distratto, si
sbagliava, poi si scusava dicendo "ho il pensiero altrove, pensavo ad altra cosa"».
Muzio, dunque, era a casa del baritono, quando arrivò la polizia per constatare il
concubinato, ma, al loro arrivo, Maurel si era eclissato dalla scala di servizio. La
moglie dapprima aveva creduto che fossero venuti per mettere sotto sequestro i
mobili, e aveva protestato asserendo che erano di sua madre: poi, inteso il motivo,
dichiarò che non vi era alcun Maurel, e che lei viveva in quella casa con la madre. il
delegato affermò che, prima di entrare, aveva sentito cantare e, con prontezza, la
signora affermò che era stato il presente maestro Muzio. E questi, per salvare la
situazione, dovette confermare l'asserzione della donna. Andata via la polizia, gli era
stato spiegato che la signora, divorziata, si era risposata in Svizzera con il cantante,
ma che tale matrimonio non era valido in Francia, ed era considerato concubinato.
Dato che c'era di mezzo una questione di eredità e di interessi, il primo marito aveva
presentato denuncia per il reato suddetto. E la lettera concludeva: «Scampato da una
condanna per i 10.000 franchi nell'affare Corti, ecco che ora rischiava di farsi arrestare
e compromettere tutto. L'assicuro che jeri ne pranzai, ne potei dormire per tutta la
notte e non sarò tranquillo che quando l'avrò messo in vagone».
«Ho messo in salvo Maurel nel mio albergo in una stanza col suo figliioletto vicino a
me sotto altro nome. Il direttore di polizia Clement aqueta la faccenda ed il 9 potrà
lasciare Parigi. lo stesso lo condurrò alla stazione. Domani riprenderà lo studio della
parte di Jago e siccome siamo vicini di stanza può leggere con maggiore facilità sulla
parte stampata della quale mi servo per accompagnare». Questo raccontò Muzio al
maestro il 28 novembre 1886, dopo aver accennato alla musica del ballo da inserire
nell'Otello: «Nessuno ha da approvare o disapprovare ov'Egli introdurrà il ballet, ma
mi pare proprio che quello sia il posto per fare un bel divertissement dandoci anche
una certa importanza con una festa veneto-orientale, ed oso esprimere un'altra
opinione ed è che si potrebbe fare una danza nel coro del primo atto quando si canta
"Fuoco di gioia"».
Mentre provvedeva all'incisione che rappresentava Verdi, continuava a curare la
preparazione di Maurel che, sistemata la pendenza, era potuto rientrare nel suo
appartamento. Alla metà di dicembre, dopo che il baritono era già stato a Genova e
adesso era a Milano. Muzio si portò nella città ligure, portando a Verdi una fotografia
dell'ormai famosissimo ritratto. Scrisse a Boldini che il maestro l'aveva mandata già a
incorniciare, e che la Peppina ringraziava vivamente: «Domani sera si mangierà i
gnocchi».
Passò le feste con Verdi e lo accompagnò a Milano, dove sabato 5 febbraio 1887 fu
presente alla Scala all'apoteosi della prima dell'Otello. Il mattino seguente, Tito Ricordi
invitò a colazione all'Hòtel Milan i giornalisti italiani e stranieri, le personalità, gli artisti
intervenuti alla rappresentazione: tra gli altri c'erano il sindaco, il prefetto, Boito,
Faccio, i fratelli Corti, Muzio, Boldini, Caponi, Giacosa, Depanis, Bellaigue, Bazzini,
Martucci, Panzacchi, Pascarella, D'Arcais, Sivori, Michetti, Reyer, D'Ormeville, Filippi...
Anche se gli applausi erano tutti per Verdi, Boldini ebbe il suo momento di gloria,
quale felicissimo immortalatore del compositore. Non fece che raccontare come il
ritratto era nato, e le infinite offerte che aveva ricevuto per quel pastello compiuto nel
giro di poche ore. Aggiungeva che era un messaggio di italianità per il mondo, e che
avrebbe continuato ad esporlo ogni qual volta lo avessero invitato a mostre. Sulla
facciata della casa natale del pittore a Ferrara, una lapide ricorda quest'opera d'amore
propiziata da Muzio: «La potenza del suo pennello lascia Giuseppe Verdi vivo alle
future generazioni».
Rientrato a Parigi, mentre portava avanti le trattative per presentare l'Otello, e
comunicava che l'Aida all'Opèra era giunta alla 113a replica, continuando con gli stessi
introiti delle prime serate, rilevava che "quel dormitorio" della Proserpina di SaintSaéns era un four capitonnè (fiasco imbottito). Aggiungeva che l'Eden Théàtre
sarebbe stato venduto per rimborsare le banche dei debiti che gravavano su di esso. A
sentire le voci che circolavano, sarebbe diventato «la principale stazione del
Metropolitan che si costruirà sotto la città, giacché in certe ore della giornata vetture,
carri, omnibus, tramway ingombrano tanto le strade che c'è un pericolo permanente
nel traversare».
L'Europa era in corsa verso la trasformazione del suo sereno modo di vivere, e la
costruzione delle linee sotterranee per limitare gli effetti del traffico iniziò in quegli
anni. Muzio non giunse, però, a vedere l'apertura del metro di Parigi, in quanto si
dovette attendere il 1900.
Dato che gli sforzi non approdavano a nulla, il 2 aprile 1887 Verdi gli scrisse: «Vi
incarico di avvertire formalmente in nome mio i signori Direttori dell'Opera, che da
questo momento restano sciolte tutte le trattative in rapporto ad Otello». Muzio fece
di più, dando ai giornali parigini la lettera di Verdi, con disappunto di Ritt e di
Gailhard: si dovette attendere il 10 ottobre 1894 perché l'opera, in francese, arrivasse
all'Opera.
«Il tenore Campanini mi scrive che ha recuperato la voce con la cura pneumatica
respirando l'acqua salsojodica di Salsomaggiore, che andrà nel America del Nord a
fare un giro di concerti ed opere per proprio conto. Ha volontà, mi pare, di mangiarsi
una possessione facendo una speculazione teatrale. Gli rispondo dissuadendolo, ma è
tanto pieno di se stesso che non mi darà ascolto». Cosi comunicava a Verdi il 21
aprile.
All'arrivo di Durot, Muzio si recò a Milano per insegnargli l'Otello: dopo aver fatto una
breve tappa a Sant'Agata, subito partì per Roma per assistere il I maggio al Teatro
Costanzi all'opera di Verdi. Qui fu raggiunto da un telegramma di Ricordi, che gli
chiedeva di contattare Maurel per interpretare il Moro anche in una stagione
straordinaria a Napoli. Il baritono aveva ottenuto un trionfo a Roma ed era stato
invitato a esibirsi all'ambasciata di Francia, poi dalla marchesa Visoni: questa gli
aveva promesso che avrebbe mosso le sue aderenze per fargli conferire una
onorificenza. «Quando avrà il cavalierato chi potrà guardarlo in faccia? Ha tanta vanità
il poveretto che se il sindaco del fallimento del Teatro Italiano non m'avesse
incombenzato di controllarlo per il denaro, darebbe qui pranzi e cene come a Parigi.
Jeri dissi a lui ed a sua moglie "Se voi non vi limitate nelle spese, non arriverete mai
ad avere un soldo di risparmio": e la moglie ha una figlia da maritare e lui un maschio
da educare». Un inciso: la "figlia da maritare", Hedy, fu quella che negli anni Venti di
questo secolo scriverà Victor Maurel: ses idées, san art.
Sappiamo che anche Muzio era stato insignito del titolo di cavaliere soltanto in quanto
l'abbiamo trovato scritto in un diploma di benemerenza. Il 14 aprile 1887 la Società
Internazionale di Mutuo Soccorso fra gli artisti lirici e maestri affini, che si era
costituita a Milano nel 1883. aveva acclamato "il generoso benefattore e illustre
maestro Cav. Emanuele Muzio" socio onorario. Lui non se ne fregiò mai.
Il 5 maggio partì per Venezia, per assistere ancora all'Otello. Se il successo di critica
fu grande, a Venezia era mancato il pubblico. «La città è povera, e i soli forestieri non
possono riempire il teatro», scrisse a Verdi: «E' il primo spettacolo che fu sbagliato,
ma già vi sono impresari che più diventano vecchi di teatro. meno ne imparano».
Sia per Verdi che per l'allievo termometro solo ed unico di un successo era l'incasso.
Una critica, anche se favorevole, non suffragata dalla presenza del pubblico pagante,
era solo un insieme di vacue chiacchiere. Muzio aveva portato con sé Durot, al quale
stava insegnando l'Otello, operazione cui Maurel collaborava: «E' una necessità di
avere giovani artisti con pretese moderate, poiché i 1500, i 3000 non si possono dare
da nessuna impresa. Tamagno chiede a Canori 6000 lire per rappresentazione ossia
72.000 per dodici sere».
A Parigi era avvenuta una tragedia: l'Opera Comique era stata distrutta da un
incendio, e nel rogo erano morte un centinaio di persone. Muzio osservò che vi erano
dei responsabili: non sarebbero stati puniti, «ma vi sono». Nel concerto benefico
organizzato per le vittime «da un comitato di persone che vogliono far parlare di sé»,
Maurel espresse il desiderio di cantare il "Credo" dell’Otello. A un Verdi furente per la
scelta del baritono, Muzio scrisse che aveva fatto osservare a Maurel che non era un
pezzo idoneo per la sua struttura, e per Boito era come «cantare l'apologia della
bestemmia in un concerto di beneficenza». Comunicava altresì al maestro che, non
fidandosi della parola del cantante di modificare la scelta, aveva scritto a Londra
all'impresario Harris, chiedendogli di inviare a Maurel un lettera, nella quale lo
richiamava all'obbligo di trovarsi a Londra per il prossimo giorno 8, cosa che avrebbe
elegantemente risolto la questione. Il programma del concerto fu poi composto di
pezzi del repertorio dell'Opera Comique, cantato dagli artisti dello sventurato teatro,
che avrebbero comunque continuato la stagione o alla Gaiete o alla Porte Saint
Martiri, in attesa della ricostruzione. La conseguenza della tragedia fu che la
commissione contro gli incendi propose di togliere nei teatri tutti gli strapuntini e
alcune poltrone per agevolare l'uscita del pubblico. Gli impresari erano preoccupati per
il calo degli introiti: il pubblico ricominciava ad andare all'Opéra, «ma negli altri teatri
vi è quasi il deserto e chi va per prendere posti chiede quelli che sono vicini alle
porte».
Il 16 giugno era a Londra per contattare un impresario di New York che intendeva
mettere in scena l'Otello con Maurel con un contralto di due mesi. Avrebbe dovuto
dirigere lui. «Vedrò...». Durot, intanto, cantava a Padova, e presto avrebbe debuttato
nell'Otello. «Credo proprio che diviene maturo per i grandi teatri». Ad agosto si recò
ad Acqui per una settimana di fanghi, poi alla Spezia dove si esibiva il suo tenore,
infine a Busseto, indi ad Aix-les-Bains, per un altro incontro con l'impresario
americano che voleva allestire l'Otello. Saputo che aveva poco denaro - sebbene
Maurel, che era anch'egli là e offriva pranzi e cene, insisteva perché accettasse - non
ne volle sapere. Al casino si giocava, e Tosti e Bottesini erano assidui ai tavoli: «io non
sento la tentazione. Alla briscola rischio 10 o 20 centesimi, ma al bacarat bisogna
mettere sulla carta almeno 20 franchi. No, no». Preferiva le escursioni.
Dovette poi recarsi a Milano per raccomandare la nipote Enrichetta affinché fosse
inclusa in terna per la nomina a istitutrice nel Collegio Reale. Qualche giorno dopo
confidava a Verdi che non c'era nulla da sperare: «in un'ultima visita trovai un
galantuomo in un assessore che mi disse la verità: cioè che il posto era già stabilito a
chi darlo, e che il concorso fu aperto per pura formalità». Se lo avesse saputo prima,
si sarebbe risparmiato molti passi, noie e disturbi. «Ma come si fa altrimenti? il sangue
non è acqua e bisogna adoperarsi per i suoi». La nipote, d'altronde, un posto lo aveva,
anche se a Caltagirone, in Sicilia.
Il 29 settembre 1887 Giulio Ricordi rilevò l'intera casa editrice: Carlo Erba entrò come
socio con 800.000 lire, e Verdi, contrariamente a quanto pensava Muzio, vi lasciò le
200.000 lire che gli spettavano per l'Otello. Il giorno dopo Muzio gli scriveva. «ieri poi
seppi, caro Maestro mio, che Egli ha combinato tutto, e Giulio gli deve un bel
candelotto».
Di nuovo a Parigi, spediva al maestro una copia del Figaro. che riportava la notizia che
questi stava musicando un Romeo e Giulietta. Aveva incontrato Gounod che era
preoccupato per questa scelta, e Muzio godeva nel tenerlo sulla corda: «Ha una
grande paura che gli lascio in corpo, a meno che Egli non mi dia l'ordine di
tranquillizzarlo». L'autore drammatico Paul Milliet gli aveva addirittura descritto il
libretto e parlato per mezz'ora del quadro musicale stupendo che era l'incontro tra i
Capuleti e Montecchi. Parlando di se stesso proseguiva: «Dunque Egli respira perché
mi sa a posto; ma quando non si ha ne tetto, ne casa, ne famiglia come si fa per
restare sempre nello stesso luogo? Io sto bene di salute, ma quando viaggio sto
ancora meglio: è vero che viaggiando si spende molto più denaro che a restare fermi
a Parigi, ma quando non si hanno impegni di famiglia, è bene il godersela un poco».
Intanto, ogni giorno. impartiva qualche lezione di canto a dilettanti per rinnovare il
loro repertorio d'inverno. Aveva anche una professionista, la Briard, soprano dalla
voce buona e intonata. cui insegnava la parte di Desdemona.
La fiducia di Verdi era massima, e anche questa volta si rivolse a lui per chiedere
informazioni su di un principe che intendeva scrivere un libro sulla sua vita. La pronta
risposta fu come sempre, quanto mai dettagliata ed esauriente: il principe di Valori,
un francese che si diceva discendente da una antica famiglia fiorentina, aveva circa
sessant'anni: era una bravissima persona, ultra codino, papista, legittimista, legato
alle grandi famiglie del faubourg Saint Germain, segretario di don Carlos di Borbone
pretendente al trono di Spagna, con il quale aveva viaggiato recentemente nelle Indie
e nelle Americhe. Poté anche riferire che era un appassionato di musica, della quale
però non capiva il progresso che era avvenuto, era conosciuto per un mediocre
scrittore, aveva la reputazione di uomo integerrimo. Poteva rispondergli, in quanto la
lettera non sarebbe caduta in mani indegne. Il libro Verdi et son oeuvre qualche
tempo dopo vide la luce a Parigi presso Calman-Levy.
Strakosch era morto: «così ha pagato il debito e buona notte». Luigi Mancinelli stava
preparando una cantata, Isaia, che un editore inglese gli avrebbe pagato 300 sterline
in varie rate, mentre il centenario di Mozart stava passando molto freddamente:
«Piacquero molto le ballerine! Ecco tutto».
«Il sangue non è acqua», aveva scritto Emanuele Muzio. La pace era tornata con il
fratello Giulio, nei cui riguardi aveva deciso di aprire la borsa per pagargli i debiti. Il 6
novembre 1887, cosi, inviò a Verdi da Parigi 1239 lire da consegnare al dottor Angelo
Carrara per pagare una cambiale di mille lire che scadeva il giorno 11; le rimanenti
239 lire erano per lo stesso notaio Carrara, presso il quale il fratello aveva anche
questa piccola pendenza. «Sono preparato e ho il denaro per pagare gli altri debiti.
Col fratello, colla nipote ho una famiglia; non sono proprio senza famiglia».
Alla fine dell'Ottocento, se si toglievano i dipendenti pubblici e i militari, che
ricevevano una pensione - e nemmeno tutti, in quanto i suonatori delle bande del
Regio Esercito non maturavano questo diritto, essendo "scritturati" con contratti di
natura privatistica, varianti a seconda della bravura e delle disponibilità economiche
del reggimento nel quale prestavano servizio - una volta cessata l'attività lavorativa,
si doveva vivere con quanto si era risparmiato durante la vita. La vecchiaia era un
rischio oggetto di assicurazione, come una malattia o un incidente, e la previdenza
non era gestita dal pubblico bensì, per chi poteva, era privata. D'altronde la stabilità
della moneta, ancorata all'oro, permetteva di potersi ritirare a vivere di rendita, senza
timori per il futuro.
L'ansia di avere disponibilità per affrontare una vecchiaia serena, era acuita in Muzio
dalla coscienza di essere solo, di non avere una famiglia su cui contare quando,
inevitabilmente, le forze e la salute sarebbero venute meno con gli anni. Per questa
ragione - oltre all'affetto e al buon nome della famiglia - si sobbarcò al non
indifferente onere di sopperire alle necessità economiche del fratello che, comunque,
rappresentava una muta, un porto, presso cui avrebbe potuto un domani poter
trovare riparo. Così, il successivo 13 novembre, sempre tramite il maestro, inviava
3204 lire per un altro debito, di cui il disinvolto fratello non aveva pagato nemmeno gli
interessi.
Riguardo alle novità teatrali sulla piazza parigina, raccontava che la commedia L'abbé
Constantin aveva avuto successo al Gymnase: faceva piacere e allargava il cuore
vedere qualcosa di onesto, senza stupri. adulteri, ecc. Sarebbe stata presto
rappresentata anche la Tosca di Sardou: «Vedremo se saranno le solite ficelles, o se
veramente ha fatto un lavoro originale». E aggiungeva: «Qui niente di nuovo
musicalmente, in politica ve ne sarà, e molto». Le fonti di Muzio erano ben introdotte,
e spesso anche i pronostici più ardui si avveravano: presto il presidente della
Repubblica Grevy dovette dare le dimissioni per una serie di scandali, circostanza che
segnò l'ascesa alla presidenza del generale Boulanger.
Durante le festività natalizie, come consuetudine, si recò a Genova dal maestro. Da
qui a Modena dove Durot, dopo un successo ad Ascoli Piceno, cantava in quel teatro
Comunale Nabucco, Otello ed Ernani nella stagione di carnevale. In una lettera a
Boldini, narrava che tutta la pianura padana era ammantata da una coltre di neve,
quale non si vedeva dal 1829: «Io credo che tutto avenne per quei jettatori di
pellegrini quantunque non ne siano andati a Roma che soli 14.500. Questo arrabiò i
preti; ed il giubileo sino ad ora è un fiasco. Chi ne guadagna sono gli albergatori che
in previdenza fecero pagare somme favolose per gli alloggi. Venni qui per assistere
alle prove dell’Otello che andrà in scena l'11. [...] Non ho potuto fare i tuoi saluti al
papagallo perché già da mesi, con gran dolore della moglie di Verdi se n'andò nel altro
mondo dei papagalli. [...] Fra alcuni giorni (non so quanti a cagione delle strade
ferrate) riceverai un zampone».
Confessò al maestro che la sinfonia del Nabucco di Modena lo aveva fatto ringiovanire.
Usiglio, che dirigeva la stagione, quando venne in teatro, non si sentiva troppo bene:
dopo il primo atto, aggravatasi la febbre, e se ne andò a letto. Muzio malignò: «Non
era febbre che aveva Usiglio, ma aveva alzato, come al solito, il bicchiere per
festeggiare l'Epifania». L'attesa della città era però rivolta all'Otello: Muzio, dopo la
prova generale, scrisse che la compagnia era omogenea, che nessun artista faceva
ombra all'altro, ma che la voce più bella era quella di Durot. Benché avesse l'abitudine
di bere, ammetteva che come direttore Usiglio era molto attento, e che aveva provato
con molto impegno: «Ah, se non avesse quel vizio!».
Dopo la prima, come era avvenuto in tutta Italia, fu un'orgia di declamazioni
trionfalistiche, nelle quali trovarono spazio le più eclatanti esagerazioni e si lesse
anche sui giornali che, per illustrare l'esito di questo allestimento dell'Otello,
bisognava trovare nuovi aggettivi superlativi. Muzio scrisse al maestro: «Gli artisti
fecero tutti il loro dovere. La Meyer è come fisico una Desdemona come Egli l'ideò e la
creò colla sua musica. Ma che bella Desdemona, caro Maestro. Bisogna contentarsi
d'ammirare e mandar giù la saliva». Durot era stato superlativo: «E' felice e lo
ringrazia di avere permesso che canti questa parte, ed io che glielo chiesi gliene fo i
più vivi e sentiti». L'impresario Nacmani, per sfruttare al massimo il successo, fece
cantare al tenore l'Otello cinque volte in una settimana. Muzio si indignò «poiché
sarebbe pazzo l'artista che canterebbe quattro volte per settimana l'Otello», e
concludeva con un filosofico «chi è colpa del suo mal pianga se stesso».
Si rammaricava di non essere stato presente a una riunione in casa del maestro
«anche per accompagnare al piano l'amico Sivori, come lo feci altre volte in teatro e in
private riunioni». Anni prima, nel maggio 1882, aveva infatti chiesto a Ricordi di
inviargli la parte del violino solo del terzetto dei Lombardi, in quanto l'allievo di
Paganini aveva intenzione di eseguirlo al pranzo della Polenta. A metà gennaio, dopo
aver assistito alla Scala alla Regina di Saba, raccontava che il teatro era deserto,
l'opera pesante, noiosa, monotona e di nessun effetto teatrale. Il libretto non
presentava alcun interesse e non c'era né movimento né azione.
Fu in questi primi mesi del 1888 che Muzio ebbe occasione di esprimere tutta la sua
foga nello stigmatizzare un evento di pirateria teatrale che coinvolse l'Otello. Era
successo che, a causa dell'elevatissimo costo del nolo imposto da Ricordi, un
impresario aveva trovato più economico provvedere a una stesura autarchica per
l'America del Sud, non legata all'Italia con un trattato in difesa del diritto d'autore.
Suonava nell'orchestra del Teatro alla Scala uno strumentista parmigiano, il cornista
Paolo Pezzoni (indicato da Muzio come Pissarno), violinista, compositore, direttore
d'orchestra, un vero Pico della Mirandola delle note. Pagato dall'impresario Ciacchi,
dato che le parti e la partitura dell'Otello erano sotto la più stretta sorveglianza, aveva
risolto il problema, riscrivendo a memoria giorno per giorno la partitura di quanto
veniva suonato durante le prove.
«E' una vera infamia! - scriveva a D'Ormeville - Se un ladro ruba una forte somma, e
si sa che è a bordo di un bastimento, lo si fa arrestare prima che sbarchi; perché non
si può fare lo stesso per la musica e farla sequestrare prima che sia sbarcata? […]
Assolutamente bisogna trovare il mezzo di impedire a Ciacchi di rappresentare quel
opera o si essa è stata instrumentata o si siano rubate le parti; ma credo che per il
sequestro sia meglio di dire che lo spartito, parti ecc. furono rubate». Il
rappresentante di casa Ricordi chiese il sequestro, ma il giudice sudamericano rifiutò.
Il 30 gennaio 1888 Muzio era a Roma dove si recò alla rappresentazione de Le Villi di
Puccini, il giovane astro nascente di casa Ricordi: «A me sembra che in quest'opera vi
è troppa musica per il sogetto e non adatta eccettuato nella parte fantastica. Non vi è
sentimento e quando ne fa si sente Gounod. In due parole è musica che non da
emozioni, e si perde in descrizioni sinfoniche ed i personaggi non sanno che fare sulla
scena». Fu poi a Napoli per assistere all'Otello, per essere nuovamente a Roma dove,
al Teatro Argentina era prossima ad andare in scena l'opera di Verdi. Rilevò che
l'orchestra era equilibrata, aveva delicatezza, precisione ed un calore sorprendenti, «e
gli dirò in un orecchio che è migliore di quella della Scala».
Aveva scritto a Boldini da Napoli: «Sono sempre più innamorato di Napoli, del suo
clima, del cielo e delle belle vedute del golfo che godo dall'albergo sulla riviera di
Chiaia. Ti scrivo colle finestre aperte ed il mio amico Du Locle già direttore dell'Opera
Comique di Parigi, ha dato la caccia ad una vespa. Fui a Roma ma sono fuggito per il
cattivo tempo, neve, acqua, freddo. Ci devo ritornare fra qualche giorno, ma non mi
fermerò che uno o due giorni per ritornare a Genova, e quando saranno terminati i
rumori del carnevale a Nizza andrò colà a passare il resto dell'inverno. […] Fui a
vedere Morelli: il povero artista è assai adorato per la perdita della moglie e non ha
volontà di lavorare. Che fai ora?... Sei sempre attorniato da belle signorine che si
fanno fare dei ritratti...». Raccontava che era solito andare a teatro, e quella sera si
sarebbe recato ad assistere all'Otello, rappresentato dalla Gabbi, Tamagno,
«Kassmann (Jago), un italiano della terra irredenta Trieste».
Come abbiamo detto, il tenore Campanini aveva manifestato l'intenzione di farsi
impresario, e adesso dall'America, e il fratello Cleofonte da Madrid, lo invitavano a
imbarcarsi per gli Stati Uniti per dirigervi Otello, assicurando che «il denaro sarà
pronto». Italo Campanini, infatti, dopo aver assistito alla prima alla Scala, ed averne
scritto la cronaca per un importante quotidiano di New York, si era intestardito a
volerlo rappresentare negli Stati Uniti, dove grande era il suo prestigio. Aveva
acquistato gli scenari di Gerolamo Magnani, che erano serviti al Teatro Regio di
Parma, aveva preso l'esclusiva per la rappresentazione, e si era fornito dei costumi a
Milano. Quando la musica e i costumi non erano ancora partiti, Muzio, diffidente,
aveva scritto: «Se gli artisti ascolteranno il mio parere non si muoveranno. Marconi
accettò il contratto senza anticipazioni. Sta fresco!».
Le perplessità erano fondate: conosceva troppo bene il mondo del teatro e il mercato
per prendere cantonate. Cosi, qualche tempo dopo: «Campanini ha finito con una
catastrofe. E' a New York e non sa come fare per ritornare per mancanza di denaro.
Dopo un inizio buono, avendo fatto fiasco Marconi, fu Campanini che assunse la parte
di Otello i giornali stamparono che era Otello senza Otello. Dopo la prima settimana le
cose andarono di male in peggio anche a Boston e Filadelfia, finché l'impresario di
Chicago ordinò il sequestro di scene attrezzi e vestiario. Povero diavolo, deve trovarsi
in una posizione assai triste». L'11 giugno comunque Campanini gli scrisse, e
«assicura di pagare tutti, me compreso, anche se dovesse vendere la camicia... Ora
c'è un altro tenore che si mette a fare l'impresario: Masini. E' proprio cosi: ha preso il
teatro di Pietroburgo e farà figurare come homme de paille il basso Ughetti. E’ più
ricco di Campanini e ne ha di più da perdere».
Ricordi intanto aveva acquistato lo stabilimento Lucca: «Un giornale scrive che fu
pagato 1.200.000, un altro 2.000.000. Sono prezzi che credo esagerati».
Erano sul punto di andare in porto le trattative tra la Società degli Autori francesi con
la corrispondente italiana per la tutela reciproca dei concerti e delle composizioni
brevi. Souchon scrisse a Muzio il 31 maggio: «Se io riesco in questa ricerca, non
dimenticherò che voi vi avete contribuito coi vostri buoni uffici e col vostro benevolo
appoggio». Trasmettendo la lettera a Verdi, Muzio gli faceva rilevare un altro passo
del progresso industriale: la missiva era scritta con la macchina da scrivere americana
Remington, «ingegnosa, che ha una specie di tastiera e che non affatica chi scrive.
Ricordi ne voleva acquistare una per Tornaghi che non può tenere a lungo la penna in
mano». Non mancava, nel contempo, di mettere al corrente Verdi di quanto bolliva
nella pentola politica francese: «Il Governo, malgrado tutte le fazioni che si
combattono resterà repubblicano, ciò che è meglio per noi italiani. E' vero che non ci
amano, ma con una monarchia sarebbe peggio perché i clericali metterebbero per
condizione di sostenerla di risvegliare la questione romana».
Tito Ricordi non stava bene, e due volte al giorno gli venivano fatte iniezioni di
caffeina: «La sua fortuna è che non ha che un medico: quando ne avesse più d'uno il
caso sarà disperato».
Se Muzio al casino non si avvicinava al baccarat, ma si limitava a giochi più popolari e
modesti quali la briscola, qualche volta non disdegnava di puntare qualche lira sul
lotto, cosa che, quando era in Italia, faceva con D'Ormeville e con Peppina Verdi. Al
primo infatti scriveva: «Sono le 21 e mezza e non ricevo il famoso dispaccio. Oh i
pazzi che giocano al lotto; ma alle volte quando sono in Italia ci capito ed arricchisco il
Tesoro».
Concluso l'ultimo contratto, quello con Maurel, prima di rientrare a Parigi comunicava
a D'Ormeville: «Speriamo che la sia finita e che non ne senta più parlare, giacché
l'assicuro che se io restava ancora ventiquattro ore a Milano sarei caduto ammalato di
nervi». Questo contratto invece lo perseguitò anche a Sant'Agata, dove si era recato
per le consuete vacanze estive. Se pur era uno dei migliori clienti, il baritono era
individuo assai difficile da trattare. L'8 settembre Muzio era ancora in ballo: «Da
quanto sembra leggendo la lettera di Maurel mi pare che per cantare a 2000 franchi
per rappresentazione si sente offeso dalla tua lettera. però a 2500 passa su tutto...».
Era accaduto che l'impresario Canori, avuta la notizia che Muzio aveva contattato
positivamente Maurel per lui a Roma, aveva pubblicato la notizia sui giornali musicali,
ricevendo le proteste del cantante. Stando così le cose, Muzio il 10 settembre gli si
rivolse con la consueta schiettezza:
Caro Maurel! Voi non avete risposto alla mia ultima lettera ma voi avete rimandato le
scritture a Canori senza firmarle. Ora, ricordatevi bene che il 15 luglio voi mi avete
incaricato di scrivere a D'Ormeville che voi accettavate franchi 2000 per
rappresentazione e l'ho scritto per memoria nel mio portafoglio. Canori ha avuto il
diritto di ritenervi come scritturato ed ha acquistato il diritto di pubblicare il vostro
nome sul cartellone, e se voi rifiutate ancora di firmare il contratto e di andare a Roma
volete avere ancora un processo? Sarò cattivo giacché se sono chiesto come
testimonio dirò la verità. Voi avete perduto più di una causa, voi non vorrete
aggiungerne un'altra che vi farà ancora del torto e vi farà perdere l'affezione di
qualche amico che vi restano ancora. Credete alla mia vecchia esperienza, firmate il
contratto e vi risparmierete noie, disturbi, spese d'avvocati, di tribunale, ecc. Quanto
a me io non vi ringrazierò di farmi presentare in tribunale: sarà la prima volta in vita
mia che ci metterò piede, non come pubblico. Pensatevi bene, pensatevi due volte
prima di prendere una decisione definitiva e credete al...
La questione andò a posto, ma poi fu Muzio che dovette sudare le proverbiali sette
camicie per riuscire a farsi liquidare la mediazione.
Durante la permanenza a Parigi, come sempre aveva aggiornato il maestro su quanto
avveniva nel mondo della musica: Gounod aveva composto un Inno alla patria che
definì la «Marsigliese della Beata Vergine. Io non so se sia musica mistica o ortodossa,
ma non ci trovo ne melodia ne carattere e neppure ispirazione. Ad ogni nuova
composizione Gounod va più indietro e diventa bambino. Vedremo cosa sarà la
Charlotte Corday, se è vero che sta lavorandoci e che la produrrà».
Il 19 agosto era nuovamente ad Acqui per le cure termali. Da qui si recò a Brescia per
assistere all'Asrael diretta da Faccio: «se Franchetti ripassasse il secondo atto ne
assicurerei l'esito alla Scala». Da Brescia andò a Cremona, e da qui in vettura a
Busseto.
Il 7 settembre 1888 moriva a Milano Tito Ricordi. Sempre attento a tutti i particolari,
descrisse al maestro quanto era avvenuto dietro le quinte familiari:
Jeri Giulio e sua moglie Giuditta mi diedero dei dettagli sul testamento senza celare il
loro disapuntamento e gran dolore di Giulio perché suo padre non fece neppure
menzione del suo nome, ne gli lasciò a parte una piccola piccolissima memoria. Ci fu
un momento che Giulio diede in un dirotto pianto. Ecco le disposizioni principali del
testamento. Alla vedova lasciò 12.000 lire di rendita, l'usufrutto della villa di Blevio e
dell'appartamento della casa in via Omenoni. Otto parti eguali agli otto figli; ai gemelli
un quinto di meno degli altri figli, e questa fu l'aggiunta al testamento che fece alcune
settimane prima di morire. Lire 500 ai poveri della parrocchia di San Fedele e 5000
lire a Tornaghi che dice gliene aveva promesse 10.000.
Appena Tito spirò la vedova lasciò la casa e andò dalla vedova di Enrico dicendo a
Giulio e alla Giuditta se avete bisogno di qualche cosa per vestire Tito, Peppo ha tutte
le chiavi e vi darà ciò di cui potrete avere bisogno. Subito finito il funerale la vedova
coi figli partì per Blevio ove si trova tutt'ora portando seco tutte le carte, le
corrispondenze del Tito, e sono ancora tutti alla villa che, a quanto mi dice Giulio, si
divertono, e non sono ancora vestiti a lutto.
Il giorno precedente la morte del padre, uno dei figli che era impiegato nel negozio in
Galleria, chiese a Giulio il permesso d'andare a Firenze per le nozze dell'altro fratello
non ricordo il nome. Giulio gli disse che non era il momento d'assentarsi perché il
padre poteva morire da un momento all'altro, ma se ne andò lo stesso e quando Giulio
telegrafò al fratello di venire a Milano perché il padre era agonizzante, rispose che non
poteva perché l'indomani si sposava. Infatti celebrò il matrimonio.
Il 2 ottobre continuò la cronistoria: Giulio, esecutore testamentario, stava cercando
«col banchiere Pisa la somma per completare le 900.000 lire e rimborsare i fratelli cosi
sarebbe libero da ogni ingerenza di essi. Credo che riescirà a trovare i fondi
necessari».
CAPITOLO XX
Verso il tramonto
A ottobre Muzio si recò a Roma dove Durot cantava al Teatro Argentina con
l'impresario Canori: qui ricevette, inaspettata, una lettera di Campanini che gli
liquidava ogni spettanza. Il tenore parlava della nuova compagnia che stava formando
per ritornare a New York e che gli costava due terzi di meno. A giudizio di Muzio,
questi erano «peggio che cani» e gli rispose che, invece di sobbarcarsi in un'altra
impresa teatrale, era meglio che pagasse i debiti e che si mettesse a vivere in pace
con quanto gli restava.
A Roma era venuto l'imperatore di Germania, per contrapporre ai nostalgici clericali
francesi il riconoscimento alla capitale "intangibile" dell'Italia. Spinse tale
atteggiamento fino a porre, dopo la visita al papa, una corona di fiori a Porta Pia sulla
lapide dei caduti del 20 settembre 1870. Muzio rilevò: «Qui tutto va bene, un ordine
perfetto, una calma una dignità ammirabile, si aplaude l'imperatore ma senza
servilismo. Insomma è una grande vittoria e come dicono la più grande dal 70 in poi.
Ora gli stranieri si persuaderanno che tanto il povero pellegrino come il più potente dei
sovrani d'Europa, trovano la libertà di andare al Vaticano come lo vogliono e che il
papa non è prigioniero. Sa che è una gran cosa vedere le truppe italiane schierate sino
alla porta del Vaticano, portare l'arma all'imperatore, attenderlo e poi ripiegarsi in
ordine nelle loro caserme. E' un grande trionfo per l'Italia che io amo come tutti
devono amarla».
Per quel che lo riguardava, scrisse a Verdi che non sarebbe ritornato a Parigi prima di
vedere come veniva applicata la nuova legge sui forestieri, giacché diceva che non
avrebbe mai preso né la piccola né la grande cittadinanza francese.
Alla notizia che Verdi aveva fatto nominare Bottesini direttore del nuovo Conservatorio
di musica di Parma, commentò: «Ecco uno che mette tranquillo». Dopo aver
incontrato a Roma i Carrara e il senatore Piroli, con il quale era stato diverse volte a
colazione, si recò al Costanzi per l'Orfeo ed Euridice di Gluck: «Ciò ch'io ammiro prima
di tutto è l'istrumentazione che è nutrita, piena, sonora. Il quartetto è trattato in un
modo straordinario, i cori bellissimi e la musica delle danze e della pantomima
elegantissima. L'entrata di Orfeo quando penetra nell'inferno è sublime e quei no
replicati dei cori fanno una impressione terribile. la voglio risentire».
I teatri di Roma erano adesso il Costanzi e l'Argentina in quanto nell'estate 1888, per
l'apertura del lungotevere, era iniziata la demolizione del glorioso Teatro Apollo di
Tordinona: l'impresario dell'Argentina era Guglielmo Canori, mentre Edoardo
Sonzogno aveva preso per otto mesi la gestione del Costanzi. La lotta tra i due
divampò senza esclusione di colpi, in quanto dietro Canori vi era Ricordi, che cercava
di scalzare in ogni luogo l'editore-impresario rivale, che però non era elemento da
sfuggire alla rissa, ed era capace di rispondere per le rime. La lotta serrata, se non fu
un bene per le finanze degli impresari, portò a Roma il vantaggio di avere due teatri
d'opera che cercavano di superarsi nella qualità degli allestimenti. I forestieri giunti
per assistere alle feste per l'imperatore di Germania, trovarono spettacoli a
profusione: due grandi teatri d'opera; due primarie compagnie di prosa; l'operetta al
Teatro Quirino; Pulcinella al Teatro Metastasio; la compagnia dialettale romanesca al
Teatro Rossini: una compagnia equestre al Nuovo Politeama; i drammi popolari al
Teatro Manzoni: il café-chantant all'Orfeo e al Varietà, locali questi che non avevano
eguali in Italia.
All'Argentina Durot cantò applaudito nell'Aida e nella Forza del destino. Nel cartellone
vi era anche l'Otello: e fu ancora un trionfo dell'opera. Tamagno era in voce,
l'orchestra meravigliosa, gli archi di una potenza meravigliosa, «il solo dei
contrabbassi mai più lo sentirò eseguito così bene». Edoardo Mascheroni era l'artefice,
e Muzio suggeri al maestro di inviargli una parola per la circostanza: e Verdi rese
felice il direttore con un telegramma. La regina si era recata a teatro «con atto gentile
e delicato» prima che incominciasse la rappresentazione per non interrompere
l'esecuzione. Muzio, certamente per interessare la Peppina, scrisse che l'aveva
osservata bene e non gli era parsa «così grassa nella gola come la rappresentano le
fotografie».
Sempre attento anche a quanto avveniva nel mondo della finanza - come nel 1876
aveva messo in guardia Fassi dall'acquistare «le obbligazioni egiziane a 221,25» - il
22 novembre 1888 scriveva a Boldini, facendo un'analisi della situazione economica e
politica del momento:
Ciò che ti posso dire della rendita italiana è che già sino dal 15 novembre le casse
governative pagano in anticipazione il coupon del I gennaio 1889, però a Parigi esiste
una combricola di banchieri e società finanziarie che hanno al loro soldo alcuni
giornalisti o che hanno giornali di loro proprietà coi quali fanno la guerra alla rendita
italiana. Qui non ho mai inteso il più piccolo lamento e vedrai che si staccherà il
coupon della rendita al corso di 98 circa, già è più alta in Italia che in Francia. Credo
che nella settimana prossima Maglioni farà il suo esposto sulla situazione finanziaria
del governo, e vedremo se le di lui conclusioni saranno per nuove tasse o per
emissione di boni del tesoro. Vedremo insomma i suoi provvedimenti per suplire alle
spese straordinarie di guerra e marina e per il deficit che realmente esiste, ma non è
tale quale lo dicono i giornali francesi. In quanto a Crispi la sua politica, buona o
cattiva, gode del favore popolare; l'alleanza è anch'essa popolare in Italia. La
riconferma di Roma capitale intangibile fu fatta in un modo solenne. Qui esiste la pace
civile e religiosa e lo si vede con i propri occhi ogni giorno quanto rispetto si ha per i
preti che portano il SS Viatico ai morenti in processione, come per i religiosi di ogni
ordine che accompagnano i morti al cimitero salmodiando e cantando. come lo fanno
d'altra parte i framassoni colle loro bande stonate. Libertà civile e religiosa intesa per
tutti. Il Papa amoreggia con Marianna, fa la corte alla Russia e cerca accarezzare
quello che chiama un ragazzo, l'Imperatore di Germania. Ma la prima ha da grattarsi
in casa, la seconda cerca espandere la sua religione non la cattolica ed il terzo credo
che sa far bene i propri affari. Quando vi sarà un papa che saprà conciliare il papato
col presente allora sì, vi sarà la pace universale. Ma ora il Papato ha cessato di essere
un elemento conservatore ed è diventato un elemento di turbolenza che provoca
disordini in più d'uno Stato, e cerca di vivere facendo chiasso. […] Tranquillizza
dunque l'amico Borrel, al quale scriverò presto. per la sua rendita che è sicura.
Muzio aveva trovato un pieno equilibrio esistenziale, e adesso rileviamo che aveva
smussato certe spigolosità del carattere, e sapeva apprezzare i lati sereni della vita.
Se aveva scritto a D'Ormeville - cosa impensabile qualche anno prima - «Il puntiglio in
affari è cattivo consigliere», così concludeva la lunga lettera a Boldini: «Ogni giorno
Roma mi piace sempre più e t'assicuro che non sarei lontano dal prendervi da qui a
qualche tempo dimora permanente. Domenica scorsa fui a sentire la musica in S.
Pietro che eravi una grande festa ed intesi un soprano meraviglioso certo Vicentini che
ha i baffi ed è padre di famiglia. Voce bella, piena, pieghevole, estesissima, un vero
fenomeno; se quello trovasse o avesse un Barnum per portarlo in giro e dare concerti
si guadagnerebbe un bel gruzzolo di denari».
I parenti erano una continua fonte di seccature: nel dicembre 1888 la nipote
Enrichetta, degna figlia di Giulio, aveva rinunciato al posto di maestra a Caltagirone, si
trovava a Milano disoccupata, e cercava un incarico di maestra. Emanuele aveva
interpellato il senatore Piroli, che gli aveva risposto che non c'erano posti disponibili;
essendo la giovane disposta a recarsi ovunque, Francesco Crispi le mise a disposizione
il migliore tra quelli vacanti all'estero: al Pireo, «che credo sia il porto di Atene»,
specificò lo zio Emanuele.
Il 5 novembre 1888 Verdi aveva aperto l'ospedale di Villanova sull'Arda, «senza
apparato, semplicemente, come si dovrebbero fare tutte le opere di carità», scrisse
Giuseppina Strepponi al canonico Avanzi: la cerimonia consistette nell'ammissione dei
primi dodici infermi. E basta. Scrivendo dieci giorni dopo al senatore Piroli, Verdi
accennò al nuovo progetto umanitario che aveva in mente: costruire qualcosa di
simile, ma meglio, di quell'Asilo Rossini per cinquanta vecchi cantanti, cui la vedova
del compositore pesarese aveva destinato due milioni, e che sarebbe stato aperto in
Francia nell'estate 1889. Muzio era stato attivato nella ricerca di documentazione e
informazioni, cosa che fece con sollecita puntualità, trasmettendo le notizie richieste.
Qualche giorno dopo, preannunciando l'arrivo natalizio, raccontava al maestro che
«per la ragione che la vita è breve e bisogna stare allegri» aveva festeggiato per due
giorni la visita di amici inglesi e americani, con la conseguenza che si era procurata
una indigestione. «Il 22 alla sera, perché arriverò troppo tardi per presentarmi a
pranzo, cominceremo le nostre briscole allegre».
Anche se il male che presto lo avrebbe portato alla tomba già doveva aver iniziato la
sua opera, Muzio era ancora pieno di vita e curioso di nuove esperienze: «Sono qui da
tre giorni ed ho l'immenso piacere dirti che Verdi e sua moglie sono in perfetta salute
e che fecero onore al pranzo magro di jeri sera [...] Credilo, amico mio. - scriveva a
Boldini - ci si sta bene a Roma e vi passai tre mesi deliziosi. Conto di ritornarci verso il
20 Gennaro e poi fare il giro della Sicilia. Avevo l'idea il progetto di fare un viaggio più
lungo, ma lo rinvio all'autunno poiché essendo stata nominata mia nipote direttrice
della scuola italiana che si stabilisce al Pireo, le promisi d'andarvi per vederla e cosi di
là mi inoltrerei a Costantinopoli che non ho mai visitato. Che ne dici?... Ci verresti, tu
che voleva fare quel viaggio l'anno scorso?... Temo che l'Esposizione ti incateni a
Parigi. Domani sera è il S. Stefano, giorno d'apertura dei teatri: qui al Carlo Felice
andrà in scena l'Asrael del barone Franchetti. Non domani, ma una sera v'andremo
tutti a sentirlo».
Da Milano, tra le varie notizie, comunicò che «se io dicessi che sto bene direi una
bugia». Si sarebbe trattenuto una diecina di giorni «per vedere di calmare i nervi e
riavere il mio appetito di una volta»: nel gennaio 1889, però, si recò a Roma. Qui
l'impresario Canori volgeva in cattive acque: aveva intestato tutti i beni alla figlia, e
lasciato la capitale. Durot era stato richiesto dal teatro di San Carlo di Napoli per
marzo e aprile, e così perse relativamente poco, anche se era creditore verso Canori
di due quartali, cioè 9000 lire. A Napoli avrebbe percepito 8000 lire al mese con
l'obbligo di cantare tre volte alla settimana, o dodici al mese. In repertorio c'era
l'Otello, e l'accoglienza fu favorevole. Il tenore conviveva con una ragazza di Ancona,
Rita, dalla quale attendeva un figlio. Comunicandolo a D'Ormeville, Muzio scrisse che
stava «aspettando un piccolissimo Otellino o una biondina Desdemona».
A Verdi raccontava che Tamberlick era morto a sessantanove anni: «poteva vivere
ancora per anni se non avesse fatto la vita da giovinotto, esponendosi ogni giorno al
freddo alle corse e conservando non una, ma due amicizie femminili»; Tosti, con la
morte della duchessa di Cambridge, perdeva la pensione di 100 lire sterline, cioè
10.000 lire; la Richard era ancora ammalata ed era stato «un amante che le regalò
una brutta malattia che si portò alla gola, e sarebbe la stessa malattia che si dice
abbia Oxilia». Anche se gli anni passavano, i pettegolezzi erano sempre graditi.
Per l'Esposizione Universale del centenario della Rivoluzione Francese, cominciavano a
giungere fiumi di forestieri. I prezzi erano già cresciuti nei caffè e nei ristoranti: molte
erano le cose straordinarie, ma quella che faceva la maggior impressione era la torre
Eiffel, dimostrazione delle possibilità architettoniche dell'acciaio. Boldini, presidente
della sezione delle Belle Arti italiane, non era contento dei quadri ricevuti dall'Italia per
il padiglione: cosi ne aveva esposti una diecina dei suoi, e sperava di ottenere la
grande medaglia e la Legion d'Onore. Il 22 maggio, Muzio raccontava che sarebbe
andato a visitare l'Esposizione, dato che dentro i recinti, allietato dalla musica della
banda "La lira italiana", si sarebbe tenuto il pranzo della Polenta, cui Caponi aveva
invitato i notabili italiani in visita.
Anche negli Stati Uniti intanto era stata approvata la legge che tutelava il diritto
d'autore agli stranieri: inviando copia della norma a Ricordi, gli suggerì di farla valere
con l'impresario Grau, che aveva un contratto per rappresentare Aida, Otello,
Mefistofele e La Gioconda. Avvisando nel contempo Verdi annotava: «Ricordi che corre
dietro a meschinerie ed intavola qui processi che poi è obbligato ad abbandonare gli
dirò quando sarò a Milano verso la metà di settembre che è meglio occuparsi di affari
grossi». Nel condurre la guerra contro Sonzogno, Ricordi gli aveva rifiutato per la
stagione di Roma il nolo delle opere di Verdi: il maestro non era favorevole a questo
genere di lotta, ma Muzio, per rabbonirlo, gli fece sapere che Sonzogno era in cattive
acque finanziarie anche come editore, e che il Teatro Costanzi stava andando male.
Intanto a Parigi era rappresentata l'Esclarmonde di Massenet, in cui era più dilettato
l'occhio per la messa in scena che l'orecchio: per la parte fantastica l'autore aveva
pescato a piene mani da Wagner, lo strumentale era pesante, assordante, le idee
poche e non nuove, mancava l'originalità e, secondo Camillo Bellaigue, «era un
Lohengrin femmina». Musicalmente Muzio era restato radicato a un mondo che stava
tramontando. Lui stesso l'aveva scritto il 18 gennaio 1886, quando aveva saputo
dell'immaturo decesso dell'autore della Gioconda: «Ho letto la fatale notizia. Povero
Ponchielli, sarei venuto per onorare la melodia che se ne va...». Oltre che nel gusto
musicale lui, comunque, non cambiava mai: anche nelle gioie più alte, sembrava non
potesse fare a meno di considerare la componente materiale; troppi anni aveva
passato nell'indigenza, per non restarne segnato. Il 15 maggio, scrivendo che era nato
un bambino dopo ventiquattro ore di doglie, e che il medico aveva dovuto adoperare i
ferri, concludeva: «Durot pagò al dottore 500 lire». Narrava poi dell'organista di
Como, Ernesto Bossi che per venire a farsi ammirare in un concerto al Trocadero,
aveva chiesto e pregato di essere accettato: quando poi le cose si erano incamminate
bene, si era messo a dettare condizioni sulla retribuzione, sui tempi, e via dicendo.
«Ho volontà di mandarlo a farsi benedire».
Dopo il successo nei teatri di prosa, nel giugno 1889 Ricordi scrisse a Muzio perchè
chiedesse a Sardou «il permesso di fare il libretto di Tosca per Puccini; lo feci ed egli
mi telegrafa oggi di vedere Roger al quale diede le sue istruzioni. Vorrà un
compenso». Il 21 ritornò sull'argomento: «Lo vidi (Roger] e mi lesse una lettera di
Sardou piena di lamenti per la cattiva accoglienza fatta alla sua Tosca in Italia e
specialmente a Milano ove la stampa lo maltrattò senza riguardo e rispetto. Sardou è
un uomo d'affari prima di tutto, anzi per me un vero mercante. Non si sente molto
disposto a permettere che della sua Tosca se ne faccia un libretto italiano, perché un
giorno o l'altro un compositore francese potrebbe farne un'opera francese. Però
vorrebbe sapere quale compenso proporrebbe Puccini; egli non vuole dettare
condizioni, ma sentirà l'offerta che dovrebbe essere una somma in contanti ed una
partecipazione sui diritti o sulla location de la partition per i teatri d'Italia riservandosi
i diritti d'autore in Francia. Tosca gli fu chiesta anche da Mario Costa al quale non
rispose. Un altro maestro napoletano, del quale disse non ricordarsi il nome, gliela
chiese pure, e domandò informazioni al suo agente in Italia. Io mi lusingo che darà la
precedenza a Puccini, ma bada bene che non cederà per qualche migliaio di franchi,
vorrà essere pagato profumatamente. Il trattato di Berna gli ha assicurato la proprietà
della Tosca in Italia. Siccome lessi nell'Evenement che già gli eredi di Musset volevano
fare una causa per Edgar di Puccini. interrogai Roger e mi disse che Musset in Italia è
di dominio pubblico. Comunicherò a Roger, che è l'agente di Sardou, la risposta che
mi darai e se sarà necessario andrò a Marly-le-Roy».
Il I luglio Muzio era a Londra dove Durot avrebbe dovuto cantare l'Otello diretto da
Faccio con una orchestra fatta venire dall'Italia. Si sarebbe esibito con Maurel e la
Cattaneo, dopo che Tamagno, che era stato scritturato per le prime sei recite, avesse
terminato i suoi spettacoli. Dato il successo conseguito, invece, Tamagno cantò anche
nelle altre repliche, e a Durot toccò di rimanere dietro le quinte.
Mentre al Lyceum si dava l'Otello, al Covent Garden erano in scena I maestri cantori
diretti da Luigi Mancinelli. Giulio Ricordi, ora che aveva rilevato la casa editrice Lucca,
intendeva presentare l'opera di Wagner alla Scala per l'apertura della stagione: così
aveva inviato il figlio a Londra, Puccini a Bayreuth, e si proponeva di assistervi anche
lui per studiare i tagli da apportare. Anche Muzio era stato contattato a questo scopo,
e ne scrisse a Verdi: «Mantengo la mia opinione espressa ieri sul terzo atto; ma gli
altri due e specialmente il primo sono più che nojosi. Il primo è assai pericoloso più
del secondo per il pubblico italiano e specialmente per il milanese. lo impresario della
Scala non darei quest'opera malgrado l'ottimismo di Giulio che lo palesa in una lettera
diretta a Faccio. Darei il Tannhauser, e mai, mai l'opera che intesi jeri sera. [...]
Faccio esita, non ha energia per dire no e mi chiese di esporre a Giulio la mia
opinione; mi rifiutai apertamente perché non è mio sistema d'invischiarmi degli affari
altrui».
Le condizioni di salute di Faccio si stavano aggravando, e Muzio scriveva che era
incapace di prendere decisioni, e che sembrava «molto cambiato, la mente affievolita
e la memoria debole, e siccome l'opera di Wagner non può piacere, la colpa cadrà su
di lui e non sarei sorpreso che non potesse resistere alle prove lunghe e faticose,..
Brutto affare». L'opera invece non dispiacque, ma Faccio poco tempò dopo fu colpito
dalla malattia cerebrale che lo portò alla tomba: una ragione per far sì che il lavoro di
Wagner si meritasse subito la nomea di jettatore. Si dovette attendere il 26 dicembre
1898 perché l'opera, ammirata più che gustata, risalisse sulle scene della Scala sotto
la bacchetta di Toscanini.
Anche D'Ormeville era a Bayreuth, e Muzio gli scrisse: «Sei andato alla ricerca, è vero
un po' lontano, d'un piacere che avresti potuto avere a Milano quando eseguiranno
l'opera di Wagner. Che sia proprio una nuova religione il wagnerismo? I greci
andavano alle olimpiadi, dico bene? I turchi vanno alla Mecca, i cattolici a Roma, i
wagneriani a Bayreuth».
Recatosi a Londra, espresse a Verdi le sue impressioni: «Ecco un paese quieto,
l'Inghilterra, colla loro birra, la Bibia e la venerazione per l'aristocrazia. Gl'inglesi non
faranno per secoli avvenire nessuna rivoluzione. Vi sono dei radicali, ma sono amatori,
dilettanti, filosofi»; riguardo a Parigi, dove era rientrato, aggiungeva: «La vita attiva
mi piace; ma ora v'è proprio troppo movimento».
Il 7 luglio 1889 era morto a Parma Giovanni Bottesini, e Verdi, tramite Muzio, scrisse
a Faccio esortandolo ad accettare di subentrare nel posto di direttore di quel nuovo
Conservatorio di musica. Il 12 agosto Muzio rispose al maestro: «Sabato sera appena
ricevuta la lettera per Faccio gliela mandai e jeri mattina lo vidi e mi diede a leggere la
di Lui lettera. Mi chiese cosa dovrebbe fare, gli risposi di accettare senza esitazioni. la
Pantaleoni che era presente soggiunse: "Ecco quello che ho detto anch'io". Ma, mio
caro Maestro, non ne farà nulla. Faccio non è un carattere, non sente la sua
decadenza ed in breve perderà il posto alla Scala e quello ancora più precario di
Londra. Bisogna averlo praticato più di un mese come io per giudicarlo. Siccome le
chiederà di venire a Sant'Agata per parlargli, lo studi e vedrà che non sono in errore».
Questo suggerimento indispettì il suscettibile Verdi, e Muzio si affrettò a sminuire
quello che voleva essere un consiglio: «So benissimo ed a molto tempo ch'Egli
conosce gli uomini ed il loro carattere e che non ha bisogno di studiarli, e quello che
gli dissi di osservare Faccio fu letto accademicamente e nulla più».
Nell'ambiente della musica italiana Muzio era considerato il miglior referente per
quello parigino. Dopo che l'affare della Tosca era andato in porto, scriveva a Ricordi:
«Dopo domani farò io stesso la tua commissione, e parlerò a Sardou che lo vedrò
come ogni venerdi alle 9 alla sede della Societé des Auteurs et Compositeurs
dramatiques. Qualche volta non viene specialmente in estate benché sia vice
presidente della Società. Io allora incaricherò Roger di parlargli per la cessione del
diritto di fare un libretto dell'opera della Teodora. Ci vorranno molti quattrini se
acconsentirà. Vorrei riescire per l'amico Marino (Mancinelli) che fu oltremodo gentile lo
scorso inverno con Durot a Napoli, e per te pure».
La fine del XIX secolo fu caratterizzala dai progressi vertiginosi che fecero la scienza e
la tecnica, dando la speranza di un mondo migliore in tutti i sensi: spirito che fu
ingenuamente esaltato dal grande ballo coreografico Excelsior. Con tale visione scrisse
al maestro: «Jeri 24 agosto sono entrato nel 68° anno di vita; ma ora che c'è il mezzo
di ringiovanire, non me ne importa se ne avessi 78. Se diverrò debole, malaticcio o
condannato al letto mi farò spedire dal America del Nord la nuova medicina del Dott.
Brown-Squarci che da vigore e nuova vita ai vecchi. E' un estratto dai testicoli di
montone con altri ingredienti, del quale si fanno iniezioni cutanee nel corpo umano. Vi
sono per questa scoperta molti scettici ed increduli, ma ve ne furono sempre per tutte
le grandi scoperte». Concludeva dicendo che a Sant'Agata lo avrebbe messo al
corrente di come era andata la visita al Refuge Rossini, per vedere di far ammettere
«un disperato corista Vercellini che lo seccò molte volte anche Lui». Nel venire in Italia
sarebbe passato per Lucerna e Interlaken per una visita di qualche giorno, poi sul lago
di Como a Villa Serbelloni, infine a novembre a Milano per il matrimonio di Durot «e il
battesimo del suo bel maschiotto del quale sarò padrino».
Verdi e Ricordi dovettero ricorrere di nuovo a lui per una questione che era intanto
sorta in Francia circa i diritti d'autore del Trovatore: «Muzio è partito da Sant'Agata un
momento fa. Egli è all'Albergo di Francia, parlategliene, chi sa che egli non possa darvi
qualche schiarimento». In attesa di tornare a Parigi, Muzio scriveva a D'Ormeville: «In
quanto a me puoi assicurare l'amico Canori che gli concerterò Romeo e Giulietta
avendo quest'opera come si dice sur le bout des doigts perché già la diressi, ma in
quanto all'orchestra ne voglio parlare là su in alto prima di dire si o no». Poneva una
condizione: che facesse cantare Leonora Dexter.
Da Milano inviò 1300 lire al notaio Carrara, per saldare un altro debito del fratello, che
adesso stava bene in salute, dopo averlo tenuto in ansia qualche giorno. Intanto a
Susa, in Tunisia, dove era stata trasferita, stava per sposarsi anche la nipote
Enrichetta: avrebbe dovuto attendere dopo natale «perché i preti (ah! i preti) dicono
che è l'avvento ed è proibito il matrimonio».
CAPITOLO XXI
Cala il sipario
La causa in Francia per i diritti d'autore della Traviata e del Trovatore riguardava casa
Ricordi più che Verdi. Ritornato a Parigi alla metà del novembre 1889 Muzio se ne
interessò subito, e scrisse al maestro che per l'editore le cose si mettevano male, in
quanto a suo tempo si era comportato con leggerezza nei rapporti con Escudier. E,
ancora una volta, vide bene: il tribunale, infatti, dette ragione a Benoit, che aveva
acquistato i diritti dal fallimento di Escudier.
La salute, intanto, non andava bene: «I miei nervi non sono più quelli di una volta:
per calmarli ho cessato di fumare, e se sarà necessario per guarirli del tutto
sacrificherò anche il caffè, ché non voglio avere alcun impedimento per passare con
Egli qualche settimana due volte per anno. Credo però che gli anni che ho sulle spalle
e quelli che v'aggiungerò faranno cessare del tutto quei sobbalzi che mi tormentano
ancora, ma raramente».
Per recarsi a natale a Genova dal maestro, passò da Torino, dove Durot cantava Gli
ugonotti al Teatro Regio: «Ho trovato i nostri sposi in buona e perfetta salute ed il
bambino raggiante di bellezza, vigoroso, allegro. Figurati che stamattina alle 9 e
mezzo me lo vedo comparire in braccio alla dry nurse come dicono gli inglesi d'una
nutrice che non allatta».
L'ultima lettera a Boldini fu del 29 dicembre 1889 da Genova. Se si trattasse di quella
di un uomo di governo potremmo definirla il testamento politico. Denota quale fosse
l'orientamento di quell'Italia borghese di fine secolo, in cui Muzio si era inserito in
pieno: un atteggiamento miope ed utopistico che, se da una parte rallentò sviluppo
sociale ed economico, dall'altra portò in dieci anni ad Adua prima e all'impresa
gloriosa di Bava-Beccaris dopo.
Se gli ultimi decenni del XIX secolo furono in Europa un'arcadia pacifista che, con il
senso mistico dell'umanità e della giustizia, emerse a dignità di filosofia e di religione,
il giovane regno d'Italia, attratto dall'esteriorità del rutilante bellicismo teutonico, volle
assurgere a potenza espansionistica, e abbracciò invece la dialettica della guerra, o
più semplicemente della lotta, come intrinseca alla realtà umana. «Uno stato è
potenza, non perché tale si battezzi da sé platonicamente, ma perché come potenza si
attua e si afferma. E questa attuazione e questa affermazione di se stesso non può
avvenire altrimenti se non con la forza; e la sua forza uno Stato l'ha in tutte le sue
membra, ma la concreta e la disciplina per la lotta fisica in una istituzione che è
l'esercito»: così ebbe a scrivere un famoso letterato.
Adesso, in questa lettera all'amico ferrarese, diceva:
Qui gli affari non vanno così male come se lo figurano i francesi ed a poco a poco
potremo far senza i cari vicini. La nazione poi, è sana e vuole mantenere (dillo pure a
tutti anche al secretario del [nome illeggibile]).
1° Il principio monarchico-costituzionale con la Dinastia di Savoia.
2° Il principio unitario-anticlericale con Roma capitale.
3° Principio militare, con armamenti adeguati ai doveri di grande potenza ed ai pericoli
di nuova potenza.
Con tutto questo cosa vogliamo? Finir bene quest'anno, cominciare meglio il nuovo ed
inf… del resto.
Il 4 gennaio 1890 ringraziava i Verdi dell'ospitalità, e anche questa lettera sembra
contenere il consuntivo di un'esistenza: «Non sono un uomo che possa divertirli, e la
mia affezione per essi è silenziosa, e quando sono a Sant'Agata o a Genova mi trovo
contento come un vecchio cane che ha col padrone sempre atteggiamenti umili e gli
occhi che guardano sempre il padrone».
Il sentimento della gratitudine era a quel tempo una componente del vivere civile, e in
diverse occasioni Muzio aveva riconosciuto questi veri e propri «debiti» di
riconoscenza, come manifestò sempre nei riguardi del maestro - che lo aveva portato
lungo le vie dell'arte - del Monte di Busseto e di Antonio Barezzi che lo avevano
sovvenuto nel bisogno.
Faccio aveva intanto accettato la direzione del Conservatorio di Parma e doveva
essere sostituito alla direzione della Scala. Durante la malattia aveva diretto Gaetano
Coronaro, e Muzio si augurava che fosse nominato lui. Cinque giorni dopo comunicava
a Verdi che Faccio, secondo un medico, soffriva di un principio di spinite, e che era in
piena crisi fisica e morale: ripeteva che non si sentiva più lo stesso, aveva nella testa
qualche cosa che non comprendeva, e la memoria non era più quella di una volta. Non
cedeva però il posto al teatro, e non era disposto a dividere il lavoro con Coronaro,
come auspicavano la direzione del Teatro alla Scala, Corti e Ricordi. Muzio, da parte
sua, non si sarebbe recato alle prove del Boccanegra, sia perché era a pranzo con la
Lampugnani, la Stolz e famiglia, sia per stare lontano dagli intrighi, «che ce ne sono
molti».
Dopo aver fatto scritturare Durot per il Teatro Real di Madrid per la stagione 1890-91
a 16.000 pesetas d'oro al mese, dove per primo in Spagna avrebbe cantato l'Otello,
ritornò in Francia. Aveva altresi procurato un contratto per il Teatro Regio di Torino
all'allieva Leonora Dexter per la Loreley dopo che Catalani gli fece sentire la parte di
Anna, aveva cominciato a fargliela leggere. Una settimana dopo avvisava Carlo
D'Ormeville, autore del libretto, che le prove al pianoforte erano terminate, e
l'indomani si sarebbero iniziate quelle con l'orchestra. Muzio, che evidentemente
aveva il potere di farlo, lo invitava a venire a mettere a punto la messa in scena del
lavoro: «Non è fatica per te, perché sei un poco come me "il moto perpetuo" come
dice Verdi». Da quanto poteva giudicare avendola udita "interrottamente", l'opera di
Catalani gli sembrava destinata a vivere. «La melodia vi è in abbondanza, elegante,
l'orchestrazione sapiente e non pesante. Esperons!», opinione modificata però dopo la
seconda recita: «l'opera nell'insieme è monotona», pur essendovi delle belle pagine.
Basandosi sull'esperienza, consigliava un rifacimento che le conferisse più teatralità.
«Mettiti all'opera giacché Loreley merita miglior sorte. Certamente tu renderai il
secondo atto gaio ed interessante, ma anche Catalani non deve essere col pensiero
sempre fra le nuvole e variare la tavolozza. I pezzi di musica sono ben concepiti, ma il
colorito è eguale. E' come vedere un quadro con gruppi di figure ben disegnati, ai
quali il pittore li dipinge tutti o in verde, o in altro colore; ecco Loreley sempre la nota
triste meditabonda».
Il 15 febbraio la nipote si era sposata: «posso dire Enfin! Essa mi ha cavato denari
sino agli ultimi momenti, ma quando scrisse alla Lampugnani di mandarle dolci,
confetti, liquori per un trattenimento di venti persone, scrissi alla Lampugnani che non
lo pagherei. Quella donna non ha la bosse dell'economia, ma spero che il marito
metterà dell'ordine in quella testolina giacché fra i due hanno uno stipendio che
oltrepassa le 5000 lire».
Dieci giorni dopo comunicava al maestro che era andata a monte una scrittura per
dodici rappresentazioni dell'Otello a Palermo per il suo tenore, in quanto coincidevano
con Torino: «Che tentazione visitare la Sicilia che non conosco, ma temo il calore. Il
mese d'aprile sarebbe stato un bellissimo mese». Contava di andare a fargli visita per
mostrargli come si preparava per arrivare a settant'anni, cessando l'uso dell’«aqua di
Miss Allen che da ai capegli il colore naturale». Sarebbe stato un Emanuele bianco:
«Vede che ho giudizio: ho lasciato di fumare, ora abbandono il bagno settimanale ai
capegli. Cosa mi resterà da fare dopo? Non proteggere più le debuttanti. Però non
voglio essere, se continuerò ad avere la mia buona salute, un vecchio melanconico e
brontolone. A settanta anni mi stabilisco e finisco di viaggiare». Qualche giorno dopo
aggiungeva: «Ho i baffi quasi bianchi, cominciano anche i capegli, specialmente sulle
tempie e sul collo. Ora voglio fare il vecchietto coquet».
Il 27 febbraio, fra le altre visite a Milano, si recò da Faccio, ma il medico aveva
proibito a chiunque di vederlo: «Sembra che domani il medico chirurgo debba fargli un
taglio in un tumore che ha nel collo. Ho sentito brutte nuove, si parla di una paralisi di
cervello che ha attaccato la lingua, e che si siano anche riprodotti certi mali di peccati
di gioventù». Sempre a Verdi, dopo «stasera ultima della Loreley, che non è L'or è
lei», scriveva che Il re d'Ys non aveva avuto fortuna a Roma. «Quando penso che
Ricordi voleva comprarlo malgrado le mie coscienziose informazioni ne provo
sodisfazione. Fu un successo parigino d'occasione, come l'Esclarmonda di Massenet
causa l'Esposizione».
Per il giorno dell'onomastico augurava ai Verdi: «Ecco San Giuseppe che è il protettore
dei lavoratori, e siccome Egli ha lavorato molto col cuore la testa e la mano, lo
proteggerà ancora per lunghi e lunghi anni» mentre, rientrato a Parigi, raccontava che
all'Opera non vi era stata mai prova generale piir triste e noiosa di quella dell'Ascanio:
«Saint-Saèns è un maestro che sa molto, un virtuoso sul piano, sul organo, fa il
critico, il poeta ed istrumenta magnificamente, ha dei bei coloriti in certe
composizioni, ma non è operista ne sarà mai capace di comporre un opera».
Il 31 marzo Muzio era a Milano. e ascoltò in duomo la Messa di papa Marcello di
Palestrina, e il giudizio conferma ancora una volta che le parole di Verdi non cadevano
su un terreno sterile. «Ma che bella musica, come è chiara, come le armonie si
succedono le une alle altre naturali, senza grandi artifici e senza urti. [...] Non so se
Egli abbia letto il Parsifal di Wagner che deve avere studiato profondamente
Palestrina. Perché si lascia da parte questa musica antica che è più moderna di tutte
le opere che si scrivono ora? Hanno paura che l'antico faccia tono al moderno.
Bisognerebbe mettere tutti i giovani compositori a fare una cura colla musica di
Palestrina». Comunicava inoltre a Verdi che Boito, a detta di Corti, aveva terminato il
Nerone e che, per allestire le scene e il vestiario, sarebbe andato in scena nel 189091. Verdi era al corrente della cosa e aveva detto «che Muzio gli farà fare un affare»,
pensando evidentemente alla ripresa parigina.
Anche a Milano era arrivato con Leonora Dexter, cui faceva studiare il repertorio:
profittando dell'amicizia con l'autore, le aveva fatto ripassare il Mefistofele con lui. Del
soprano aveva scritto a "Carlino" D'Ormeville: «anche questa farà carriera e tu
dovresti pensare per la primavera a Lei, ma seriamente. La voce è bella, risuona bene
in teatro, lascio il fisico».
'l'ornato a Parigi, dopo aver ripreso in mano la questione dell'editore Benoit, e averne
fatto relazione al maestro, chiedeva a D'Ormeville il favore di una commissione per la
«brutta, brutta signorina» Leonora Dexter, che aveva seguito Muzio anche a Parigi. Il
23 giugno gli comunicava - e questa è l'ultima lettera del carteggio con l'impresario che aveva fatto aprire alla sua protetta le porte di casa Rothschild, dove aveva
cantato in due concerti: il padrone di casa «fu così soddisfatto che oltre un buon
ceque ed un gioiello di regalo gli diede lettere per le due famiglie di Londra che la
faranno cantare pure. Domenica 29 partiremo per Londra, ma io non so se mi vi
fermerò». Muzio era in cordialità, tra gli altri, con il finanziere Guy de Rothschild, del
quale frequentava il salotto sia a Parigi che nel castello di Férrières, dove il magnate
era solito passare i mesi da ottobre a gennaio.
Il 17 maggio aveva trionfato a Roma la seconda opera di Mascagni: «Ho letto e riletto
Cavalleria rusticana e mi piace assai. Questo Mascagni è una bella speranza: e spero
(se non si è ubbriacato) che alla seconda opera [non] cadrà anche lui come gli altri. La
melodia non è certo elevata ne originale, ma ciò che mi colpisce sempre è che la
musica si associa si bene all'azione. E una buona qualità. Vedremo alla seconda
[opera], è là che l'aspetto». Abbiamo scritto che Cavalleria, a differenza di quanto
detto comunemente, è la seconda opera di Mascagni, e non la prima. La prima, infatti,
fu Ratcliff, che era stata presentata - con esito negativo, malgrado l'apprezzamento
espresso da Bottesini - in un concorso espletato a Napoli nel 1889.
Gounod, intanto, aveva scritto un libro sul Don Giovanni di Mozart, «col quale aspira a
diventare uno dei Quaranta Immortali della Academie de France. E poi si deve tacere?
Prima di tutto tocca a lui a stare al suo posto di maestro, e non fare l'entdito e il
filosofo. E' un libro che è un ammasso di parole». Aggiungeva poi che Gounod sarebbe
probabilmente andato in America del Nord per una serie di concerti che gli avrebbero
fruttato mezzo milione di franchi. «La famiglia esige che il figlio l'accompagni per tema
che faccia pazzie colla pianista Miclos che è la sua presente amica».
Il 19 agosto 1890, scrivendo al maestro da Parigi, dava la prima notizia della malattia
che in tre mesi lo avrebbe portato alla tomba: «Grazie dal più profondo del mio cuore
per la sua lettera e la sua cara fotografia, che la tenni sotto il cuscino e vi dormii
sopra lunedì sera. Stamattina vi fu consulto, e la malattia fa il suo corso, non sono
ancora in convalescenza; lo vorrei bene. I medici dicono che sarà cosa lunga ed io
credo che ne avrò ancora per un mese». Quattro giorni dopo confermava: «pur troppo
è vero il proverbio che dice che le malattie vengono al galoppo e se ne vanno a piedi».
In proposito il Belforti scrisse che «nell'autunno del 1889, trovandosi di nuovo a
Milano, ebbe un leggero attacco d'itterizia: ma, confidando nella robusta sua tempra,
esso non se ne diede gran fatto per inteso, e continuò nella vita abituale, piena di
movimento, recandosi a Nizza, a Milano, a Londra. Purtroppo si trattava invece di un
primo avviso di quella malattia che doveva poi avere conseguenze letali, sviluppandosi
nell'autunno dell'anno successivo».
Il 27 agosto specificava: «Jeri sera vi fu un nuovo consulto, ed i medici finirono
coll'annunciarmi di continuare lo stesso regime sino a martedì 2 settembre che si
riuniranno ancora. Chiesi se era cominciata la convalescenza ed il dott. Landouzy mi
rispose: è una grande parola che voi avete pronunciato e dovete sapere che la vostra
malattia è come un'opera in cinque atti ed ora non siamo che al secondo. Bella
consolazione! i medici sono d'accordo nel dire che questa malattia di fegato la portavo
in me già da tre anni. In allora raccontai dei dolori fortissimi che ebbi a Genova nel
gennaio 1888 e che attribuivo ai venti, mi risposero che erano dolori al fegato ed
anche i pochi dolori che ebbi l'anno scorso sono da attribuirsi al fegato. Se aveste
interrogato un medico non vi trovereste ora in questo stato... non siate impaziente
perché è cosa lunga, lunga assai».
Non poteva lamentarsi degli amici, che si recavano a trovarlo spesso, ed era venuta
anche la moglie di Maurel, che gli aveva parlato dei guadagni stratosferici del marito
in Argentina. «Io non lo credo perché cantò poche volte ed era sempre indisposto», fu
il commento di Muzio, raccontandolo a Verdi che, assieme alla Peppina, gli scrisse
anche il 28 agosto.
il 3 settembre raccontava al maestro che adesso aveva soltanto due medici e che il
doti. Landouzy, dopo avergli fatto una visita accuratissima, gli aveva annunciato un
vero progresso verso la guarigione, e che sperava in una convalescenza meno lunga.
«Io sono disposto a qualunque sacrificio basta che abbia salva la pelle, e l'avrò. Nei
dodici o quattordici giorni di vero pericolo non mi sono mai perduto di coraggio e noti
che il domestico ruppe due specchi piccoli nella mia stanza. Una persona superstiziosa
avrebbe detto, sono morto!».
Nella lettera del 16 settembre si alternavano speranze e timori: «Dopo
quarantaquattro giorni di prigionia forzata nella mia stanza jeri feci la mia prima
sortita in landau al Bois de Boulogne d'un'ora e mezzo. Mi dovettero sorreggere per
discendere le scale, e due uomini mi riportarono su d'una sedia nella mia stanza al
mio ritorno. Non potrei dire se mi fece bene o male quella passeggiata, ma so che mai
mi sono sentito così debole come oggi. Vuoi sapere il nome della mia malattia? Si
chiama Cirrhose Hypertrofique Polysclerose. Ciò che mi preoccupa è la gonfiezza delle
gambe e della pancia. Vi sono medici che levano subito l'acqua, altri aiutano la natura,
ma alla mia età, 69, prenderò tempo cinque o sei mesi. insomma prenderla da un lato
o dall'altro é brutto».
Quella al Bois de Boulogne fu l'ultima passeggiata di Emanuele Muzio. Il 19 settembre
comunicava al maestro: «Sono da jeri alle cinque nella Maison des Hospitaliers de
Saint Jean de Dieu che sono i fatebenefratelli. Sono venuto qua perché al hotel mi
mancavano molte cose necessarie, ed ora la gonfiezza delle gambe e della pancia, il
dottore non lo disse a me ma ad un mio amico, è proprio idropisia. dottore giura che
mi guarirà senza estrarre l'aqua, spero che terà la parola. Appeno sortirò da questa
casa esige ch'io vada a passare l'inverno a San Remo, oppure a Pisa. Questa casa di
salute dei fatebenefratelli è la prima di Parigi e costa caro 20 franchi per giorno non
compreso il medico e la farmacia. Ho un "fratello" che viene ogni istante a domandare
se ho bisogno di qualche cosa. Non potrei stare meglio in nessun altro luogo e sono
assai contento che il dottor Vio Bonato che s'è dato molta premura abbia potuto
trovare una bella stanza in pieno mezzogiorno che da sopra un vasto giardino».
Nell'Ottocento ci si curava e si moriva in casa, con i membri della famiglia che si
alternavano al capezzale del moribondo. A questo proposito è da rileggere la
descrizione fatta dal principe di Salina in occasione del grande ballo nel Gattopardo: in
qualche modo la morte era integrata alla vita. L'ospedale, invece, era il luogo dove
decedeva solo chi non aveva né mezzi né famiglia; lo stesso poteva dirsi delle cliniche
che, benché riservate a un ceto abbiente, erano parimenti considerate luogo di esilio
per una morte nascosta.
Verdi, intanto, già dal 6 settembre aveva scritto al senatore Piroli che Muzio era
ammalato al fegato piuttosto seriamente. «Jeri mi scrisse che la va meglio, ha attorno
tre medici! dico tre! Se il male anche non è grave, dovrà diventarlo certamente». E
alla Stolz: «Temo, abbastanza seriamente. Cosa è mai la vita? Quando si è giovani,
tutto sorride, si è spensierati, impertinenti, superbi, e pare che il mondo debba
esistere per noi. Quando si è vecchi...».
Oltre all'affetto che sentiva per il devoto amico, Verdi era preoccupato per
l'indisponibilità di quella persona che a Parigi gli aveva sempre appianato ogni
problema: adesso che era nel pieno la questione del Trovatore tutte le carte erano da
Muzio, e non sapeva come fare per mandare avanti la vertenza. Chiese così a Ricordi
di inviare dall'infermo il suo corrispondente di Parigi per recuperarle.
Il 26 settembre l'agente di Ricordi, Giacomo Pisa, spedì a Verdi una scatola ed un
pacchetto consegnatigli da Muzio, comunicando nel contempo che era curato con tutta
l'attenzione possibile, ma l'opinione dei medici era che la malattia sarebbe stata lunga.
«Speriamo che, come tanto spesso succede, i medici s'ingannino». Ringraziando,
Verdi espresse il desiderio di essere tenuto al corrente dell'evolversi della malattia, e
di ricevere notizie migliori.
Era adesso in cura - lettera del 4 ottobre - oltre che con il dottor Bonato, anche con il
professor Lancereau, una celebrità, membro dell'Accademia di Medicina, autore di un
libro in cui attestava un centinaio di guarigioni da malattie epatiche: «Sono 60 franchi
per visita». Il gonfiore alla gambe era diminuito, e cominciava anche a rilassarsi
l'addome. «Dormo bene, m'alzo verso le undici. mi corico su d'una siège longue sino
all'ora di coricarmi alle 7 e mezzo». L'infermità non gli impediva fare gli auguri a Verdi
per il prossimo compleanno, come pure di dispiacersi per lui, che lamentava dei
reumatismi: gli suggeriva di recarsi ad "Aqui" per le miracolose cure termali.
Malgrado l'asserito miglioramento, le lettere si andarono rarefacendo, e ne troviamo
pochissime, brevi, e solo a Verdi. Il 25 ottobre comunicava, dopo averlo ringraziato
della "buona e cara letterina", che i medici pronosticavano che la malattia sarebbe
durata un anno, che alle 4 e mezza gli avrebbero estratto "l'arpia" per vedere cosa
fare dopo, e che volevano sapere se a Pisa c'era una buona casa di cura: «Lo scrivere
mi stanca. Ho messo in regola tutte le cose mie». Tre giorni primi, infatti, aveva
redatto testamento, aggiungendovi una postilla per il maestro:
Mio carissimo Maestro ed amico Verdi,
Vi è una piccola noia nel mio testamento; prego di fare quanto dico. Me ne partirò
presto per l'altro mondo pieno di affetto e di amicizia per Voi e per la buona e cara
vostra moglie. Vi ho amati entrambi e ricordatevi che dal 1844 in poi la mia fedele
amicizia non venne mai meno.
Ricordatevi qualche volta di me ed arrivederci il più tardi possibile nell'altro mondo.
Baci e baci dal vostro fedele ed affezionatSimo amico
Ricevuta la lettera, Verdi scrisse a Ricordi: «Al momento non ho testa a nulla e quasi
non mi raccapezzo. Questo povero Muzio, in data 25 ottobre mi scriveva queste
precise parle: "Ho messo in ordine le mie cose". Lo so uomo d'ordine e avrà
certamente pensato a tutto; pure se mancasse qualche cosa, pregate il sig. Pisa di
fare per conto mio in così fatale circostanza tutto quello che si deve fare nel modo il
più conveniente. Peppina ed io ne siamo assolutamente desolati! Se non avessi 77
anni... ed in una stagione cosi rigida.., ma ho 77 anni!!».
La mano era malferma e la scrittura quasi illegibile nella lettera che Muzio inviò il 27
ottobre: «Sabato, dopo l'annuncio positivo dei medici che ci vorrebbe un anno per
guarire (chi lo garantirà) dall'idropisia, mal di fegato, ecc., essendosi i tre riuniti
all'istante mi decisi per la punzione ed in questa Casa di Salute essendovi sale d'ogni
specie si fece subito. 14 litri e 1/2. d'aqua furono lasciati sortire. Fui coricato per
quarantotto ore e alzatomi per farmi fare il letto gli do nuove e brevi e saluti».
Il 31 ottobre l'agente di Ricordi scrisse a Verdi, con notizie poco consolanti. Lo aveva
visto nella mattinata e gli aveva detto di dover dare una risposta al telegramma che il
maestro gli aveva inviato, ma che non aveva la forza di farlo. Era previsto lungo
tempo prima che la debolezza passasse. Essendo certo che il signor Pisa avrebbe dato
notizie sconfortanti per lo stato in cui lo aveva visto, lo stesso giorno Muzio si fece
forza per scrivere una lettera, dalla quale traspare un'altalena tra speranza e sfiducia.
«M'è rimasta una grande debolezza dopo l'operazione e ci vorrà tempo per
guadagnare le forze che saranno necessarie per una seconda punzione giacché l'aqua
ritorna, come già ben lo dissero i tre medici. Vi sono esempi di persone operate che
vivono lavorano come se non fossero mai state ammalate. Se devo prestare fede ai
medici, potrò recarmi in Italia alla fine di novembre, ma credo poco perché, scrivendo,
devo prendere fiato e riposare il braccio ogni due o tre parole che scrivo; e poi tutte
queste celebrità e sommità medicali me n'han dette tante e tante da quattro mesi e
nulla avvenne».
Il 7 novembre ringraziava il maestro che si era premurato di fargli avere notizie sulla
casa di cura Calderai di Pisa: «Ma caro mio Maestro la pancia si riempie ancora d'aqua
ed abbiamo tempo dopo che si sarà fatta la seconda punzione fra dieci o dodici giorni.
La mia malattia non è mortale ed un inglese sorte dalla casa dopo due operazioni,
spero che sarà lo stesso per me; ma il coraggio non mi manca e l'operazione non è
per nulla dolorosa. Quando Egli sarà a Genova avrà informazioni per Pisa da quel
bravo chirurgo che operò sua moglie e me le darà, ma ripeto c'è tempo perché
bisognerà fare un altro buco. I medici hanno sospeso tutte le medicine perché mi
facevano evacuare da ogni parte di troppo da rendermi debole quasi da non potermi
reggere. Sino a che potrò tenere la penna in mano scriverò sempre lo stesso, perché
mi riposo di tanto in tanto. Godo che la loro salute sia buona e se il Cielo mi farà la
grazia di rivederli sarà il più gran bene che mi darà».
Il 23 novembre 1890 l'ultima lettera.
Ho letto e riletto più volte quel documento stampato che mi mandò per la Casa di
Salute di Pisa e trovo i prezzi convenienti e credo alle informazioni che siano buone ed
esatte. Io ho bisogno di un'anima pietosa che mi prenda una stanza al primo piano,
grande, a mezzo giorno che l'occuperà nei primi otto giorni di dicembre e per essere
precisi la persona che ne sarà incaricata può fissarla per l’8 o 9 dicembre, che sarà da
uno di quei giorni a mie spese. Io poi telegraferò a Pisa il giorno lascierò Parigi e l'ora
del treno affinché mi si venga a prendere con una carrozza alla strada ferrata. Mi
metterò nel sleping car qui, per non sortirne che a Pisa. Conto però di partire col treno
delle 9 di sera per arrivare a Genova verso mezzogiorno e se il tempo non sarà brutto
spero che lo vedrò alla strada ferrata, perché a me sarà impossibile fermarmi.
Se posso resistere sino a sabato, la seconda operazione si farà in quel giorno,
altrimenti sarò bucato prima. Lo stato generale della mia salute è buono, acquisto le
forze, mangio bene e dormo anche abastanza bene. La notte scorsa non fu buona ed
ho la mano nervosa, ma è nulla. Spero che l'aria mite di Pisa, le buone cure daranno
buoni risultati; del resto lascio la fine nelle mani di Dio che spero m'aiuterà.
Sappia che non mi metto solo in viaggio, che ho un ajutante qui nella casa che
m'accompagnerà e poi ritornerà; i medici non m'avrebbero permesso che partissi solo.
L'intervento dovette essere anticipato, e il 26 novembre giunse a Verdi un
telegramma: «Causa soffocazione operazione anticipata riescita. Estratti oltre
diciassette litri acqua. Potrò partire per Pisa prossima settimana. Muzio», seguito,
però, da un altro: «Alquanto indisposto non posso partire per ora. Muzio».
Quello stesso giorno, 26 novembre 1890, Emanuele Muzio spirava.
Notizie delle ultime ore di Muzio si trovano nella lettera che Anna Maurel, la moglie del
baritono, scrisse a Verdi, «il suo migliore amico». Narrava che la domenica sera era
stata chiamata da lui, e che non aveva potuto trattenere un grido tanto lo aveva
trovato cambiato: magrezza estrema, debolezza spaventosa, ventre immenso, che
accresceva l'impressione data dalla sua gracilità. L'aveva rassicurata dicendo che dopo
la seconda puntura si sarebbe recato a Pisa in una casa di cura, dove sarebbe guarito,
non essendo la malattia mortale: era pieno di speranza, e aveva detto che era stato
Verdi a trovargli quella clinica. Le aveva comunque confidato che il testamento era in
mezzo alle sue carte. Sotto braccio, avevano poi fatto assieme una passeggiata su e
giù per la camera.
Anna Maurel gli aveva promesso che sarebbe ritornata il martedì; malauguratamente
nevicava, le strade erano impraticabili, e cosi gli aveva scritto domandandogli sue
notizie. Impressionala nel non ricevere risposta, si era recata alla casa di cura, dove
aveva saputo che era deceduto.
Era morto dopo ventiquattro ore di dolce agonia: in seguito alla seconda puntura era
stato assalito da una febbre violenta, e il martedì, munito dei sacramenti, dopo che
aveva richiesto l'estrema unzione, e recitato ad alta voce un atto di contrizione, era
spirato senza un lamento. «Povero caro amico morire solo in mezzo a sconosciuti...».
La sensazione provata da Verdi alla notizia traspare in una lettera del 9 dicembre a
Maria Waldmann, adesso sposata con il duca Galeazzo Massari di Ferrara: «Le vostre
lettere, mia carissima Maria, sono sempre una consolazione per me; ma l'ultima è
stata un ristoro, un balsamo in questo momento tanto triste per me. In una quindicina
di giorni circa ho perduto i due miei più antichi amici! Il senatore Piroli, uomo dotto,
franco, sincero e d'una rettitudine senza pari. Amico costante, inalterabile da
sessant'anni! Morto!... Muzio che avete conosciuto capo d'orchestra, a Parigi per
l'Aida. Amico sincero, devoto da circa cinquant'anni. Morto!... E tutti due erano meno
vecchi di me! Tutto finisce! Triste cosa è la vita! Lascio considerare a voi il dolore che
ho provato e che provo...».
Nella cappella di famiglia, sotto un busto che lo raffigura, si legge:
A 69 ANNI IL 26 9BRE SPIRAVA CRISTIANAMENTE IN PARIGI
EMANUELE MUZIO
UNICO ALLIEVO E AMICO PREDILETTO DEL MAESTRO VERDI
EBBE COMUNI COL VEGLIARDO GLORIOSO
LE GIOIE E I DOLORI DELL'ARTE
D'ANIMO NOBILE E RICONOSCENTE
LEGÒ A QUESTO MONTE DI PIETÀ L'ANNUA RENDITA DI £. 600
A BENEFIZIO DEL GIOVANE BUSSETANO
AVENTE SPECIALE VOCAZIONE
ALLE BELLE ARTI, ALLE SCIENZE O ALLA CARRIERA ECCLESIASTICA
I FRATELLI GIUSEPPE E GIULIO
Q.M.P.
Secondo le volontà dell'estinto, la mattina del 9 dicembre la salma giunse a Busseto,
accompagnata da un rappresentante del console italiano a Parigi. Assistevano alla
mesta cerimonia i rappresentanti del Conservatorio di musica di Parma, di casa
Ricordi, del Municipio, della scuola di musica di Busseto, delle scuole e degli enti della
cittadina. Il giorno prima, un manifesto del sindaco Valerio Demaldè aveva invitato la
cittadinanza ad associarsi al lutto.
Il 2 gennaio 1891 il notaio Angelo Carrara rimise a Verdi la copia del testamento di
Emanuele Muzio, che aveva ricevuto dal console italiano a Parigi. Lo stesso funzionario
avrebbe provveduto a spedire i libri e le carte. Era allegata una lettera di Durot da
Madrid, nella quale il cantante comunicava di tenere, secondo le istruzioni che aveva
ricevuto dal suo insegnante e agente, a disposizione di Verdi tre quindicine dei diritti
spettanti a Muzio, circa 6000 pesetas, e che aspettava istruzioni circa la spedizione del
denaro.
Pur non essendo stato cattolico praticante, e avendo dimostrato in più occasioni il suo
anticlericalesimo, il testamento di Muzio, datato Parigi 23 ottobre 1890, dalla Maison
de Santé des Hospitaliers de S. Jéan de Dieu, rare Oudinot 19, si apriva con una
dichiarazione di fede:
Questo è il mio Credo ed il mio Testamento.
Credo collo spirito e col cuore in tutto quello che m'insegnò e che credeva mia Madre,
che ho sempre venerato ed adorato. Vissi nella religione cattolica e proclamo ancora
in quest'ora il nome di Dio, perché è il Dio che adoro. Sentendomi molto ammalato ed
avendo il presentimento che lascierò la vita a Parigi, e se anche più tardi venissi a
mancare in altra città o in Italia, desidero che il mio corpo riposi presso quello di mia
madre nel cimitero di Busseto. Se è necessario per il trasporto l'imbalsamento lo si
faccia.
Il funerale si celebrerà a Busseto con semplicità senza pompa, secondo il rito della
Chiesa nella quale nacqui e nella quale dichiaro che morrò.
Dichiaro di lasciar una rendita di lire 600 annue al Monte di Pietà e d'Abbondanza di
Busseto per aiutare a compiere i suoi studi ad un giovane promettente in musica,
belle arti, carriera ecclesiastica, altre Scienze, e ciò in riconoscenza dell'aiuto ricevuto
per compiere i miei studi e per seguire il buon esempio dato dal M.ro Verdi, sperando
che sarà seguito il buon esempio dagli altri studenti che riceveranno l'eguale aiuto e
che riusciranno nella loro carriera accumulando grandi ricchezze, o modestissime
come le mie, non essendo a tutti dato di nascere col genio di Verdi, grande di cuore e
del quale porto con me l'amicizia sua, e della sua buona e cara moglie.
Il restante della rendita italiana di lire 4900, e le obbligazioni della Ville de Paris in
numero di 21 di varii prestiti, è a mio intendimento che siano ripartite fra i miei due
fratelli Giuseppe Muzzio e Giulio Muzzio che costituisco miei eredi universali. I pochi
gioielli, bottoni d'oro, orologio d'oro con catena, li lascio in dono al mio caro allievo,
artista di merito, Eugenio Durot che ora canta a Madrid, onesto e buon uomo. Se io
morrò prima della fine d'agosto 1891 egli continuerà a dare il terzo del prodotto della
scrittura, ed a rimetterla al Maestro Verdi che lo pagherà ai miei esecutori
testamentari per essere diviso in due parti eguali ai miei due fratelli, o loro eredi. Le
ipoteche che pagai e che pesavano sulla proprietà del fratello mio Giulio Muzzio, la
ricevuta essendo depositata presso mio nipote sig. Pietro Dettanti, ed altro denaro
prestato, sarà diviso fra i due fratelli Giuseppe e Giulio Muzzio. L'anello matrimoniale
della mia cara e santa Madre che porto al dito mignolo della mano destra desidero sia
dato alla piccola Maria, figlia di mia nipote Luigina Dell'unti che la proteggerà e farà
vivere virtuosa per tutta la vita.
La roba, gli oggetti di vestiario, libri, musica, se ne faccia l'uso che si vuole. In quanto
alle lettere del M.ro Verdi che sono riunite in pacchi legati è mia assoluta volontà che
siano tutte bruciate; perché non voglio ne che se ne faccian regali, ne col tempo si
faccia commercio di autografi per trarne profitto. Il denaro che diedi a Eugenio Durot
nel tempo dei suoi studi dal I ottobre 1881 e che a norma del nostro contratto del 19
settembre 1881 avrebbe dovuto rendermi nel secondo e terzo anno della sua
scrittura, glielo regalo. Quello però che gli prestai a più riprese, o che mandai con
cheque a madame Lampugnani, alla signora Broglio ed a lui stesso e che è di lire
5870,10 dovrà comprare altrettanta rendita italiana 5% per il mio figlioccio e figlio suo
Ernest Durot come regalo.
Seguivano le indicazioni di alcuni creditori - la casa di cura, il medico, l'albergo - per
liquidare i quali aveva depositato 3000 lire presso l'economato della clinica, e la
nomina degli esecutori testamentari nelle persone degli amici, il dottor Angelo Carrara
e il figlio Alberto.
E' da rilevare come il testamento, nella parte riguardante il fratello Giulio e l'allievo
Durot, tratteggi il carattere di Muzio: la precisione nei rapporti e nella contabilità non
ammetteva deroghe. L'affetto era a parte.
Da chi avesse preso Muzio in quanto ad esattezza, traspare nella lettera che Giuseppe
Verdi, sulla base delle istruzioni testamentarie, il gennaio 1891 scrisse a Durot:
Ella sa che sono stato incaricato per testamento dal nostro povero amico di ritirare da
lei il terzo del provento delle sue scritture. Il fu povero nostro amico parla di lei con
queste parole di lode: "il mio caro allievo Eugenio Durot, che ora canta a Madrid,
onesto e brav'uomo...".
Dietro tali frasi io non avrei altro a dirle che di mandarmi semplicemente la somma;
ma siccome io devo e voglio rendere esatto conto agli esecutori testamentari ed agli
altri eredi, così la prego volermi mandare, tacitamente alla somma dovuta agli eredi,
la cifra degli appuntamenti attuali a Madrid e dei futuri sino alla fine d'agosto 1891.
Non aggiungo parola per non rattristarla, e rattristarmi più a lungo. La perdita è
grave! Ella ha perduto il buon maestro; io l'amico di quasi cinquant'anni. Onoriamone
la memoria coll'adempire scrupolosamente alla sua volontà.
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da una ricerca di Almerindo Napolitano rielaborata