LE NOVITA’ LEGISLATIVE INTRODOTTE DALLA RIFORMA GIOVANNINI
IN MATERIA DI: APPRENDISTATO – TIROCINI – CONTRATTO A TERMINE –
DISTACCO – LAVORO INTERMITTENTE – LAVORO A PROGETTO. I PRIMI
PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO RENZI.
Seminario 27 marzo 2014. Associazione Industriali Massa Carrara.
SOMMARIO: 1)L’INTERVENTO DEL GOVERNO LETTA IN MATERIA DI LAVORO, I PRIMI
PROVVEDIMENTI
DEL
GOVERNO
RENZI
E
LE
ULTERIORI
PROSPETTIVE.
-
2)L’APPRENDISTATO. - 2A) Le nuove linee guida e gli interventi. - 2B)Il piano formativo
secondo il Governo Letta. - 2C) La registrazione della formazione. - 2D) La formazione per le
imprese multi localizzate. - 2E) La “trasformazione” per il contratto di apprendistato di
primo livello. - 2F) Le misure adottate dal Governo Renzi. - 3)I TIROCINI. - 3A) La nuova
disciplina. - 3B) L’accordo in sede di Conferenza - 3C) Il tirocinio nei settori beni culturali e
in genere pubbliche amministrazioni. - 3D) Imprese multilocalizzate. - 3E) L’indennità di
partecipazione al tirocinio. - 3F) I tirocini curriculari ed extracurriculari. - 3G) Valutazioni
complessive. - 4)IL CONTRATTO A TERMINE. - 4A)La riforma del Governo Renzi - 5)IL
DISTACCO. - 6)IL LAVORO INTERMITTENTE. - 7)IL LAVORO A PROGETTO. - 7A)Le scelte
del legislatore del 2012. - 7B)La circolare ministeriale 29/2012. - 7C)Le sanzioni e le
presunzioni legali. - 7D) Il recesso. - 7E)Entrata in vigore. - 7F)Gli interventi del decreto
Giovannini. – 8)VALUTAZIONI CONCLUSIVE.
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1)L’INTERVENTO DEL GOVERNO LETTA IN MATERIA DI LAVORO, I PRIMI
PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO RENZI E LE ULTERIORI PROSPETTIVE.
Con il Decreto Legge del 28/6/2013 n. 76, convertito in Legge 9/8/2013 n. 99, il
Governo Letta è intervenuto su alcuni istituti in materia di lavoro, apportando
anche modifiche alla disciplina stabilita un anno prima dalla Legge Fornero (Legge
28/6/2012 n. 92).
1
L’intervento del legislatore in materia di diritto di lavoro, spesso con aggiunte e
ritocchi rispondenti a ratio particolari, ha contribuito alla notevole dispersione e
frammentazione della materia, che è uno dei mali a cui oggi si vorrebbe
rispondere con norme di semplificazione.
Il c.d. job act annunciato dal Governo Renzi, oltre a concrete misure legislative
che saranno esaminate più avanti, include, almeno nelle intenzioni dichiarate,
l’idea di una semplificazione della normativa lavoristica propugnata a suo tempo
da Pietro Ichino e fatta propria da Scelta Civica.
Non sarà un’opera semplice, tenuto conto della vera e propria “giungla” legislativa
che si è creata negli ultimi quindici anni, e che evoca la “giungla retributiva” di cui
si parlava a fine anni ’70 e che rese necessari interventi, soprattutto ad opera
della contrattazione collettiva, per eliminare e comunque razionalizzare voci
retributive, ad esempio indennità differite, che si erano moltiplicate.
Nel settore bancario, si arrivava, in alcuni casi, a contare anche sedici mensilità.
La razionalizzazione retributiva richiese un enorme sforzo, con risultati
apprezzabili anche se non sempre del tutto soddisfacenti.
La semplificazione e razionalizzazione della normativa lavoristica appare ancor
più complicata.
Per semplificare occorre avere un controllo pieno sulle innumerevoli e
frammentate disposizione in materia e idee chiare sugli obiettivi strategici.
L’approccio iniziale, con i provvedimenti su apprendistato e soprattutto su contratti
a termine, è stato dirompente, come si vedrà in seguito.
Vedremo se agli annunci del nuovo Governo sulla creazione di un Codice del
Lavoro corrisponderanno esiti soddisfacenti dal punto di vista legislativo.
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Per quanto riguarda il precedente Governo Letta, al di là degli annunci, gli
interventi realizzati appaiono, per la maggior parte, ritocchi cosmetici collegati a
specifiche problematiche.
Era ed è del tutto illusorio pensare che interventi sulla legislazione del mercato del
lavoro possano dare risposte immediate alle sollecitazioni delle parti sociali per il
superamento della crisi occupazionale.
Si potrà creare occupazione facendo ripartire la crescita economica, che dipende
da un complesso di fattori di cui il mercato del lavoro costituisce solo una parte, e
forse neppure la più significativa.
Ma se ciò è vero anche per ambiziosi progetti di riforma di tutta la legislazione
lavoristica, lo è certamente ancora di più per i modesti ritocchi apportati dalla c.d.
Riforma Giovannini.
Di fronte al dramma sociale della disoccupazione crescente è comprensibile
riporre speranza negli interventi legislativi a costo zero in materia di diritto del
lavoro per cercare di migliorare la situazione ma, ad una valutazione realistica,
non può sfuggire che la legislazione in materia di diritto del lavoro non costituisce
una bacchetta magica capace da sola di far comparire i posti di lavoro mancanti.
Gli interventi frammentati contenuti nella Riforma Giovannini hanno toccato una
vasta area del diritto del lavoro comprendente l’apprendistato, i tirocini, il contratto
a termine, il distacco, il lavoro intermittente, il lavoro a progetto, il lavoro
accessorio, che verranno trattati nell’ambito dei due seminari in programma.
Vi sono poi ulteriori misure straordinarie per la promozione dell’occupazione, in
particolare giovanile e della coesione sociale, tra cui incentivi per nuove
assunzioni a tempo indeterminato, il piano per il mezzogiorno e le misure per i
lavoratori svantaggiati, la carta acquisti per la promozione dell’inclusione sociale
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nel mezzogiorno, misure sui fondi strutturali, e per l’attuazione della c.d. “garanzia
per i giovani”.
Sempre nell’ambito degli interventi di natura assistenziale si possono ricordare le
modifiche in materia di fondi di solidarietà, incentivi per le assunzioni stabili di
percettori di assicurazioni sociali per l’impiego, e altre previsioni in materia di
salute e sicurezza sul lavoro e vigilanza, nonché misure in materia di assunzione
nelle imprese agricole e in materia di lavoro degli extracomunitari.
Queste, come altre misure in materia previdenziale sul Durc, sulla sicurezza del
lavoro, su inchieste amministrative in materia di infortunio etc., potranno
eventualmente essere trattate nell’ambito di specifici seminari ad hoc.
2)L’APPRENDISTATO.
2A) Le nuove linee guida e gli interventi.
All’art. 2 del D.L. 28/6/2013 n. 76 convertito in legge 9/8/2013 n. 99, si prevedono
interventi straordinari per favorire l’occupazione giovanile e, al secondo comma, si
dispone che al fine di restituire all’apprendistato il ruolo di modalità tipica di entrata
dei giovani nel mondo del lavoro, entro il 30/9/2013 la Conferenza Permanente
Stato regioni avrebbe dovuto adottare linee guida volte a disciplinare il contratto di
apprendistato professionalizzante (o di mestiere), con l’obiettivo aggiuntivo di dare
maggiore uniformità sul territorio nazionale alla relativa disciplina.
Vengono poi indicati una serie di interventi che secondo il legislatore dovrebbero
essere inseriti nelle linee guida, in deroga al D.Lgs 14/9/2011 n. 167 che ha
uniformato in un Testo Unico la disciplina dell’apprendistato.
In particolare, si prevedono interventi derogatori in base ai quali:
a) Il piano formativo individuale di cui all’art. 2, comma 1, lettera a) è
obbligatorio esclusivamente in relazione alla formazione per l’acquisizione
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delle competenze tecnico – professionali e specialistiche. Sul punto
vedremo gli interventi del Governo Renzi.
b) La registrazione della formazione e della qualifica professionale ai fini
contrattuali eventualmente acquisita, è effettuata in un documento avente i
contenuti minimi del modello di libretto formativo del cittadino di cui al
decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali del 10/10/2005
recante “approvazione del modello di libretto formativo del cittadino”.
c) In caso di imprese multi localizzate, la formazione avviene nel rispetto della
disciplina della regione dove l’impresa ha la propria sede legale. Queste
previsioni trovano diretta applicazione in caso di mancata adozione delle
linee guida, che possono però anche successivamente intervenire sulla
materia.
Il Ministero ha emesso in materia una circolare del 29/8/2013 n. 35 che in
sostanza ripete la disciplina legislativa.
E’ previsto anche un sistema di monitoraggio degli effetti di queste normative,
invero di modesta rilevanza, sull’apprendistato ed il suo uso.
Prima di analizzare nel dettaglio il provvedimento normativo, non si può non
ribadire come l’apprendistato venga evocato a parole come la tipologia
contrattuale normale di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma nei fatti le
cose non stiano così.
Il numero dei contratti di apprendistato è costantemente diminuito, in quanto tale
figura contrattuale richiede adempimenti non semplici ed è circondata da altre
fattispecie, in materia di tirocini, così come in materia di contratti a termine
acausali, che di fatto hanno spinto gli imprenditori ad utilizzare molto più
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frequentemente queste figure, che presentano meno rischi sotto il profilo del
contenzioso e talvolta anche meno costi.
Tant’è che vi è stato un drastico calo nell’attivazione dei contratti di apprendistato
subito dopo l’entrata in vigore della Legge Fornero.
Insomma, alle parole non corrispondono i fatti.
Vi è poi da dire che le misure in materia di apprendistato, si inseriscono in una
normativa (legge 9/8/2013 n. 99) che all’articolo 1 prevede, sempre allo scopo di
promuovere l’occupazione giovanile sino ai 29 anni di età, la possibilità di ricorrere
in via sperimentale a incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori
di età ricompresa tra i 18 e i 29 anni che siano privi di impiego regolarmente
retribuito da almeno sei mesi o comunque siano privi di un diploma di scuola
media superiore professionale.
Questo incentivo è pari a un terzo della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini
previdenziali ed è corrisposto per un periodo di diciotto mesi mediante conguaglio
nelle denunce contributive mensili del periodo di riferimento, fatte salve discipline
speciali in materia agricola.
L’incentivo è corrisposto poi per un periodo di dodici mesi ed entro il limite di €
650,00 mensili per lavoratore in caso di trasformazione di un rapporto precedente
in contratto a tempo indeterminato, sempre che ricorrano condizioni previste dai
commi 2 e 3, con esclusione di quei lavoratori per i cui i datori di lavoro abbiano
già usufruito di benefici di cui al comma 4.
Questo
tipo
di
assunzioni
devono
portare
ad
un
effettivo
incremento
occupazionale netto.
I primi dati statistici rilevano un notevole successo di queste forme di incentivo,
che sembra abbiano effettivamente creato variazioni positive nelle assunzioni.
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Anche in questo caso siamo in presenza di un intervento che dovrebbe essere
armonizzato con quelli previsti in materia di apprendistato, per cui si è affermato
che non è chiaro se i nuovi incentivi saranno operativi alle condizioni e nei limiti
previsti dalla legge anche per le assunzioni in apprendistato, in alternativa o in
aggiunta agli incentivi comunque previsti.
Ritengo che non vi siano ostacoli all’applicazione degli incentivi al rapporto di
apprendistato, poiché anche il contratto di apprendistato è da considerarsi
contratto di lavoro a tempo indeterminato e ciò era stato precisato dalla
giurisprudenza in passato e riaffermato nel D.Lgs 14/9/2011 n. 167.
Tuttavia, in effetti, anche l’opinione di coloro che non ritengono cumulabili i
benefici merita considerazione, sia perché effettivamente gli apprendisti godono
già di uno specifico sistema di incentivi e sia perché l’art. 1 in materia di incentivi
parla di assunzione per forme di occupazione stabile, mentre all’interno del
contratto di apprendistato vi è la possibilità di recesso al temine del periodo di
formazione senza giustificazione causale, e quindi a stretto rigore potrebbe anche
non essere definito come una forma di occupazione stabile; senza dimenticare
che gli incentivi hanno comunque durata diversa rispetto a quelli specifici stabiliti
in materia di apprendistato.
In definitiva le incertezze applicative e la concorrenza di altri istituti, potrebbero
ancora
una
volta
deludere
le
aspettative
all’apprendistato.
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2B)Il piano formativo secondo il Governo Letta.
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di
incremento
del
ricorso
Venendo alle singole misure che, secondo la c.d. Riforma Giovannini, devono
essere contenute anche all’interno delle linee guida della Conferenza Stato Regioni, la prima di esse è quella relativa al piano formativo individuale.
Il Testo Unico sull’apprendistato del 2011, prevede tre forma di apprendistato:

l’apprendistato
professionalizzante
o
contratto
di
mestiere
per
il
conseguimento di una qualifica professionale ai fini contrattuali da parte di
soggetti compresi tra i 18 e i 29 anni (che è l’unico effettivamente utilizzato
in misura significativa)

l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale che costituisce
una evoluzione dell’originario apprendistato per l’espletamento del diritto –
dovere di istruzione e formazione previsto dall’art. 48 del D.Lgs 276/03 e
riguarda soggetti che abbiano compiuto 15 anni e fino al compimento del
25 anni,

l’apprendistato di alta formazione e ricerca, per il conseguimento di un
diploma di istruzione secondaria superiore, dei titoli di studio universitari e
dell’alta formazione e riguarda giovani tra i 18 e i 29 anni.
In tutte le forma di apprendistato, nel Testo Unico era previsto un piano formativo
che deve identificare in concreto la durata del contratto e le modalità di
svolgimento, sulla base di quanto previsto dalla contrattazione collettiva, nel
rispetto dei limiti massimi previsti da ciascuna delle tre categorie di apprendistato.
Secondo il Testo Unico, il piano formativo individuale può anche non essere
contestuale alla conclusione del contratto e in tal caso deve essere definito
comunque entro 30 giorni dalla relativa stipulazione anche sulla base di moduli e
formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali (qualche
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contratto collettivo ha previsto una sorta di parere di conformità da parte degli enti
bilaterali).
Il D.L. 76/2013, convertito in legge 99/2013, ha previsto che questo piano
formativo sia obbligatorio esclusivamente in relazione alla formazione per
l’acquisizione delle competenze tecnico – professionali e specialistiche, e non per
la formazione pubblica.
È stato rilevato (Sartori in R.I.D.L., 2013, III, 225) che in tal modo viene
depotenziato il ruolo della formazione di base trasversale che, nell’ambito degli
altri ordinamenti, e in primo luogo quello tedesco, viene considerato come
indispensabile
per evitare
l’iperspecializzazione
e
contenere
i
rischi
di
obsolescenza delle competenze, garantendo nello stesso tempo una maggiore
mobilità professionale del lavoratore.
La proposta di linee guida della Conferenza Stato - Regioni emanata in data
17/10/2013 si è limitata a ripetere quanto previsto dalla legge, ribadendo che
l’inserimento della formazione di base e trasversale nel piano formativo è
facoltativa.
Il Ministero del Lavoro, con la circolare 35 del 29/8/2013, ha sottolineato il ruolo
della formazione tecnico professionale specialistica, disciplinata normalmente
dalla contrattazione collettiva, chiarendo che la valutazione della correttezza degli
adempimenti in capo al datore di lavoro deriva essenzialmente dal rispetto del
piano formativo e che gli ispettori dovranno adottare eventuali provvedimenti
dispositivi o sanzionatori esclusivamente in relazione ai suoi contenuti.
L’affermazione è oggi svuotata dall’intervento legislativo del Governo Renzi, di cui
si dirà tra poco.
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2C) La registrazione della formazione.
Alla lettera b) del primo comma dell’art. 2 si prevede che la registrazione della
formazione e della qualifica professionale ai fini contrattuali eventualmente
acquisita, potrà essere effettuata in un documento avente i contenuti minimi del
modello di libretto formativo del cittadino (modello approvato con decreto del
Ministero del Lavoro del 10/10/2005).
La proposta di linee guida della Conferenza Stato – Regioni del 17/10/2013 ripete
pari pari la previsione legislativa, precisando che il documento deve prevedere le
informazioni personali dell’apprendista (cognome, nome, codice fiscale etc.) e la
descrizione dei contenuti e delle attività formative svolte in apprendistato.
L’intervento legislativo appare comprensibile, visto che il libretto formativo previsto
sin dalla Legge Biagi e approvato dal Ministero del lavoro in data 10/10/2005, non
ha mai avuto attuazione.
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2D) La formazione per le imprese multi localizzate.
Infine, nella lettera c, si prevede che in caso di imprese multi localizzate la
formazione avviene nel rispetto della disciplina della regione ove l’impresa ha la
propria sede legale.
La proposta delle linee guida della Conferenza Stato – Regioni si limita a ripetere
la previsione contenuta nella legge.
Peraltro, la disposizione era già presente in modo analogo nel Testo Unico
sull’apprendistato che all’art. 7 comma 10 prevede che “i datori di lavoro che
hanno sede in più regioni possono far riferimento al percorso formativo della
Regione dove è ubicata la sede legale e possono altresì accentrare le
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comunicazioni (obbligatorie) ….nel servizio informatico dove è ubicata la sede
legale”.
Secondo alcuni (Tiraboschi, Il lavoro riformato, 2013, p. 108) non vi è un obbligo
di applicare sempre necessariamente la normativa della regione dove si trova la
sede legale.
Si tratterebbe semplicemente di una facoltà, che lascerebbe l’impresa libera di
applicare, anche ai fini dei relativi incentivi, regole diversificate in funzione della
diversa offerta formativa pubblica delle Regioni in cui si trovano i propri uffici,
impianti o semplici sedi operative.
In effetti anche nella proposta di linee guida si usa il verso “possono” e ciò sembra
salvaguardare diverse scelte aziendali, come già previsto del resto nel Testo
Unico.
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2E) La “trasformazione” per il contratto di apprendistato di primo livello.
Nella disposizione di legge non vi è alcun riferimento all’apprendistato di alta
formazione e di ricerca, mentre vi è una norma (art. 9 comma 3 D.L. 76/2013) che
aggiunge il comma 2 bis all’art. 3 del D.Lgs 167/2011 e prevede la possibilità di
trasformare il contratto di apprendistato di primo livello in contratto di
apprendistato professionalizzante, una volta conseguita la qualifica o il diploma
professionale, per ottenere la qualifica professionale prevista dai contratti collettivi.
In questi casi la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non
può eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva.
La circolare ministeriale 35 del 29 agosto 2013 prevede che la trasformazione da
una tipologia all’altra di apprendistato sia possibile soltanto quando la
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contrattazione collettiva abbia individuato la durata massima dei due periodi di
apprendistato, cosa che non risulta accada spesso nella contrattazione collettiva.
Al di là dei problemi che la circolare, pur non avendo forza di legge, pone,
comunque vi sono state osservazioni molto critiche nei confronti della disposizione
in oggetto.
Si è rilevato come l’apprendistato di primo livello, che ha come obiettivo una
maggiore integrazione tra scuola e lavoro, essendo volto al conseguimento di un
titolo di studio e della formazione professionale, non abbia avuto alcun riscontro
concreto e la previsione della trasformazione abbia poco senso e non lo aiuti a
decollare.
Tra coloro che hanno avuto una valutazione critica della disposizione di legge, vi è
chi ha sostenuto che, secondo la lettera della legge, la trasformazione appare
possibile nel caso in cui l’apprendistato di primo livello non abbia dato luogo al
riconoscimento di una qualifica professionale ai fini contrattuali (che è proprio
l’obiettivo cui tende la trasformazione).
Il riconoscimento di tale qualifica in effetti è sempre possibile ai sensi dell’art. 2
comma 1 lettera f) del D.Lgs 14/9/2011 n. 167, anche al termine del periodo di
apprendistato di primo livello.
In questa prospettiva è stato ipotizzato un conflitto di interesse “Tra l’apprendista,
interessato ad acquisire all’esito del percorso formativo sia la qualifica come titolo
di studio del sistema dell’istruzione e della formazione professionale sia la
qualifica ai fini contrattuali e il datore di lavoro, che potrebbe non riconoscere la
qualifica contrattuale per poter beneficiare degli incentivi economici e normativi di
un secondo percorso di apprendistato, di tipo professionale o di mestiere, in luogo
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della prosecuzione del rapporto di lavoro come normale contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato” (Tiraboschi, op. cit. 356).
È stata altresì rilevata anche l’imprecisione tecnica del termine trasformazione
anziché prosecuzione per indicare il passaggio dal primo al secondo livello.
In particolare, poiché ai sensi dell’art. 9 comma 3 del D.L. 76/2013 la
trasformazione è possibile successivamente al conseguimento della qualifica o
diploma professionale ai sensi del D. Lgs 17/10/2005 n. 226, e poiché quindi il
primo percorso si è concluso, secondo un autore sarebbe più giusto parlare di
continuazione o prosecuzione anziché trasformazione (Tiraboschi, op. cit. 357).
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2F) Le misure adottate dal Governo Renzi.
Su questo intervento del Governo Letta proprio in questi giorni si sono innestate
una serie di misure modificative introdotte dal Governo Renzi.
In particolare è stato precisato nel Decreto Legge 34/2014 emanato dal Governo,
che il ricorso alla forma scritta è previsto ad substantiam per il contratto e il patto
di prova e non per il piano formativo individuale.
L’art. 2 lettera a) del T.U. è stato sostituito con la frase “forma scritta del contratto
e del patto di prova”. La sussistenza della formazione può essere provata con
ogni mezzo dal datore di lavoro, che è comunque sempre gravato del relativo
onere.
Sono stati poi abrogati i commi 3 bis e ter del D.Lgs. 167/2011 che erano stati
introdotti dalla Legge Fornero e quindi sono state eliminate le norme che
prevedevano la possibilità di assumere nuovi apprendisti solo in caso di conferma
in servizio di almeno il 30% degli apprendisti già assunti al termine del percorso
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formativo per i primi 36 mesi dall’entrata in vigore della legge 92/2012 e il 50% per
il periodo successivo.
Nulla è modificato in ordine al rapporto proporzionale tra apprendisti e lavoratori
qualificati.
È stato mantenuto il rapporto di 1 a 1 per datori di lavoro che occupano fino a 9
dipendenti, mentre per quelli che occupano da almeno 10 dipendenti in avanti il
rapporto può essere di 3 apprendisti per 2 lavoratori specializzati e ciò trova
applicazione dal 1 gennaio 2013.
La proporzione è riferita dall’organico aziendale.
La tesi prevalente (Ciucciovino, Riv. 2012) fa riferimento al complessivo organico
aziendale e non alla singola unità produttiva.
Nel conteggio rientrano anche gli apprendisti utilizzati in somministrazione e ciò
era previsto anche dal T.U. (art. 2 comma 3).
Peraltro la Riforma Fornero ha anche previsto un divieto espresso della possibilità
di assumere apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato,
mentre viceversa è incentivata l’assunzione di apprendisti a tempo indeterminato.
Per gli apprendisti del primo livello (apprendistato per la qualifica e il diploma
professionale) che riguarda soggetti che abbiamo compiuto 15 anni e fino al
compimento dei 25, è previsto che la retribuzione dell’apprendista, per la parte
riferita alle ore di formazione, sia pari al 35% della retribuzione del livello
contrattuale di inquadramento, fermo restando il diritto al pagamento del 100%
della retribuzione per le ore in cui ha effettivamente prestato servizio. Si tratta di
una misura che dovrebbe affiancarsi all’avvio di un programma sperimentale di
apprendistato a scuola.
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Resta tuttavia salva la possibilità per la contrattazione collettiva di disporre
diversamente.
In materia di apprendistato professionalizzante (per il conseguimento di una
qualifica professionale ai fini contrattuali da parte di soggetti compresi tra i 18 e il
29 anni) viene ribadita l’eliminazione dell’obbligo di integrare la formazione di tipo
professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica.
Quest’ultima pertanto resta discrezionale.
Vengono definitivamente meno tutte quelle previsione del Testo Unico
sull’apprendistato, integrate dalla Legge Fornero che prevedevano comunque
l’obbligatorietà di tale formazione.
In realtà, come abbiamo già visto, non si tratta di una novità assoluta, in quanto
già il Decreto Legge Giovannini aveva previsto che il piano formativo fosse
obbligatorio solo per la l’acquisizione delle competenze tecnico professionali
specialistiche e non per la formazione pubblica.
E ciò era stato recepito nelle proposte delle linee guida dello Stato-Regioni
emanate in data 17/10/2013.
La Riforma Renzi introduce comunque ulteriori elementi di semplificazione nel
tentativo di rilanciare l’apprendistato che, come si è visto, tutti dicono di voler
considerare quale forma prevalente di ingresso nel mondo del lavoro ma di fatto
ha avuto un sensibile calo negli ultimi anni.
Vi è da rilevare che comunque il Pacchetto Renzi non è intervenuto sulla
contribuzione, che è resta praticamente azzerata solo nelle aziende che occupano
fino a 9 dipendenti, per cui è previsto a carico dell’azienda il solo il contributo ASPI
pari all’1,61%.
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Viceversa per le aziende con oltre 9 addetti il contributo del datore di lavoro resta
all’11,61%.
Per quanto non previsto restano in vigore le previsioni del T.U. sull’apprendistato
del 14 settembre 2011 n. 167, nonché le altre misure introdotte dalla Riforma
Fornero e non intaccate dal Governo Renzi.
Quindi, tra le altre, resta in vigore il limite minimo di durata dell’apprendistato che
vale per tutte le tipologie di contratto.
In particolare l’apprendistato non può avere durata inferiore a 6 mesi, il che
significa che il periodo di formazione non può essere inferiore a 6 mesi, dal
momento che l’apprendistato non è un contratto a termine.
Peraltro il T.U. ammette l’assunzione a termine, con contratto di apprendistato
professionalizzante, e come eccezione, per quelle imprese che operano su cicli
stagionali (art. 4 comma 5; art. 2 comma 1, lett. A bis del T.U.).
Restano le durate massime previste dal T.U. e cioè tre anni per il contratto
finalizzato alla qualifica triennale di operatore professionale, quattro anni nel caso
di conseguimento di un diploma professionale tecnico, limiti eventualmente stabiliti
dalla Legge Regionale per l’apprendistato di alta formazione o ricerca e tre anni
per l’apprendistato professionalizzante salvo che per i profili professionali che
caratterizzano la figura dell’artigiano per i quali si può arrivare sino a cinque anni.
In merito vi è da dire che per la legge questi profili caratterizzanti la figura
dell’artigiano vengono individuati dalla contrattazione collettiva di riferimento e
quindi potrebbero anche andare oltre una accezione rigida delle imprese artigiane
come definita dalla legge 443/1995.
Rileva il contenuto sostanzialmente artigianale dell’attività cui l’apprendista è
adibito.
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Il recesso dell’apprendista è stato toccato dalla legge 92/2012 che ha chiarito un
dubbio in merito.
L’art. 2 comma 1 lettera M del T.U. stabiliva che il periodo di preavviso a seguito di
recesso decorresse dal termine del periodo di formazione. Andando oltre il periodo
di formazione, ci si chiedeva se in quel periodo dovesse ancora applicarsi la
normativa dell’apprendistato.
La legge 92/2012 precisa ora che nel periodo di preavviso continua a trovare
applicazione la disciplina del contratto di apprendistato.
Secondo un’opinione, il recesso sarebbe oggi esercitabile soltanto alla fine
dell’apprendistato e quindi nello spazio del giorno esattamente coincidente con il
termine dell’apprendistato (Ciucciovino, op. cit, 79).
La tesi mi sembra che porti a conseguenze irragionevoli, anche se è ispirata a
finalità cautelative per evitare di sentirsi contestare che il recesso è avvenuto
quando non vi era il relativo potere.
Il preavviso è il termine iniziale dell’atto di recesso per cui (al contrario della tesi
sopra richiamata) riterrei possibile l’esercizio di un atto di recesso i cui effetti si
producono al termine del periodo di formazione anche se intimato prima.
Se l’efficacia del recesso parte dal termine del periodo di formazione non mi
sembra che si possa sostenere che si tratta di un potere esercitato prima che
sorgesse, solo perché lo si è intimato prima con effetto posticipato.
Viceversa il recesso per giustificato motivo può essere esercitato in ogni momento
durante il rapporto di apprendistato.
La legge 92/2012 prevede che anche al recesso al termine del periodo di
apprendistato consegua l’obbligo di pagamento del contributo sul licenziamento
previsto dall’art. 2 comma 31 della legge 92/2012.
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In caso di malattia, gravidanza, matrimonio, il recesso libero ai sensi dell’art. 2118
viene posposto al termine del periodo di interdizione della possibilità di
licenziamento.
Sul punto comunque vi potrebbero essere ulteriori problemi interpretativi già
affrontati dalla dottrina (Ciucciovino, op. cit., 712).
La legge 92/2012 prefigura un percorso regolativo (non ancora attuato) in ordine
alla questione della certificazione della competenze (su cui si rinvia a Ciucciovino,
op. cit., 716 ss.).
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Per capire in quale quadro si inserisce l’intervento del Governo Renzi, è bene
precisare che oggi il 67,9% dei nuovi contratti di lavoro è a termine, il 16,1% è a
tempo indeterminato, il 7,4% è dato da contratti di collaborazione, il 6,2% da
contratti di formazione lavoro presso la pubblica amministrazione, da contratti di
inserimento, da contratti con agenzie di lavoro a tempo indeterminato e
determinato, da contratti intermittenti a tempo determinato e indeterminato, da
contratti
nello
spettacolo
e
da
contratto
interinale
con
le
pubbliche
amministrazioni, mentre solo il 2,4% è dato da contratti di apprendistato.
Nel quarto trimestre del 2013 sono state registrate come esistenti 1.539.435.000
nuove assunzioni a tempo determinato, 364.972.000 nuove assunzioni a tempo
indeterminato, 167.438 contratti di collaborazione e 54.073 contratti di
apprendistato (fonte: Sistema Informativo delle Comunicazioni Obbligatorie).
Dopo la riforma del contratto a termine(v.infra), è molto difficile che, nonostante gli
interventi del governo Renzi, il contratto di apprendistato decolli. L’unico concreto
vantaggio è quello contributivo, e non è poco, tuttavia non sembra sufficiente a
rendere appetibile il ricorso a questa forma contrattuale. L’ assenza di forma
18
scritta per il piano formativo, come l’eliminazione dei vincoli di stabilizzazione per
poter assumere nuovi apprendisti, potrebbe suscitare nelle imprese un maggior
interesse verso questa forma contrattuale, ma dubito che sia sufficiente, vista la
assoluta libertà di assunzione a tempo determinato introdotta dal decreto legge
34/2014.
3)I TIROCINI.
3A) La nuova disciplina.
Il D.L. 76/2013, convertito in legge 99/2013, ha apportato modifiche alla disciplina
dei tirocinii formativi e di orientamento, su cui vi erano stati in precedenza
interventi legislativi nel 2011 (art. 11 D.L. 138/2011 convertito in legge 148/2011 e
art. 1 commi 34-36 delle legge 92/2012 – c.d. Legge Fornero).
Si tratta di misure tese a fronteggiare la grave situazione occupazionale che
coinvolge i giovani, come si legge testualmente al primo comma dell’art. 2 del D.L.
76/2013.
Tuttavia vi è stato una modifica nel passaggio tra decreto legge e legge di
conversione. In particolare la legge di conversione ha soppresso i commi 4 e 5
dell’art. 2, che erano diretti a colmare un vuoto legislativo in materia di tirocinii che
si era creato in alcune regioni.
In particolare al comma 4 si prevedeva che nelle regioni e nelle province
autonome dove non era stata adottata la normativa sui tirocinii, fosse comunque
ammesso il ricorso a tali forme sulla base della previsione di cui all’art. 18 della
legge 196/1997 (c.d. Pacchetto Treu) e del D.M. 142/1998.
Probabilmente la soppressione è collegata al fatto che il legislatore aveva timore
di un intervento della Corte Costituzionale, che già con la sentenza 287/2012
aveva
dichiarato
l’illegittimità
costituzionale
19
di
norme
che
prevedevano
l’applicazione del pacchetto Treu, in assenza di interventi legislativi regionali, per
violazione dell’art. 117 della Costituzione, che al comma 6 vieta l’adozione di
regolamenti statali in materia di competenza regionale.
L’abrogazione dei commi in oggetto è poi forse dovuta anche al fatto che nel
periodo ricompreso tra il decreto e la legge di conversione molte regioni avevano
recepito le linee guida in materia di tirocinii formativi e di orientamento
professionale, secondo quanto stabilito dall’accordo del 24/1/2013 in sede di
Conferenza Stato Regione.
Tuttavia, poiché non tutte le regioni hanno attuato le linee guida dell’accordo del
gennaio 2013, in queste regioni potranno trovare applicazione, ove esistenti, le
normative regionali già vigenti in materia di tirocinio formativo e orientamento.
Viceversa non potranno essere applicate le previsioni del c.d. pacchetto Treu.
I principi e criteri contenuti nelle linee guida contenute nell’accordo del gennaio
2013, trovano applicazione anche quando soggetto ospitante è una pubblica
amministrazione, sempre sulla base della normativa regionale.
3B) L’accordo in sede di Conferenza
La Conferenza Stato Regioni, nella seduta del 24/1/2013, ha stabilito alcune linee
guida in materia di tirocini formativi e di orientamento.
La Conferenza richiama l’intesa tra Governo e regioni del 17/2/2010 e in
particolare l’impegno che in quella sede le parti si erano assunte per definire un
quadro più razionale ed efficiente dei tirocini, valorizzandone le potenzialità in
termine di occupabilità e per prevenire l’abuso e l’uso distorto di questo strumento.
Viene altresì richiamato il documento di lavoro della Commissione della Comunità
Europea del 18/4/2012 che pone la questione della qualificazione del tirocinio
quale strumento fondamentale per inserire i giovani nel mondo del lavoro, e ciò
20
dovrebbe essere oggetto di una prossima raccomandazione da parte del
Consiglio.
Tenuto conto di tali premesse, la Conferenza ha enunciato una serie di principi al
fine di qualificare l’istituto e limitarne gli abusi, ed in particolare:
a) il tirocinio non può essere utilizzato per tipologie di attività lavorative per le
quali non sia necessario un periodo formativo.
b) I tirocinanti non possono sostituire lavoratori con contratti a termine nel
periodo di picco delle attività e non possono essere utilizzati per sostituire il
personale del soggetto ospitante nel periodo di malattia, maternità o ferie
né per ricoprire ruoli necessari dall’organizzazione dello stesso.
E’ previsto anche un impegno per la definizione di politiche di accompagnamento
e avviamento al lavoro, con misure di incentivazione per la trasformazione del
tirocinio in contratti di lavoro nell’ambito del settore privato.
E’ infine previsto il monitoraggio delle misure volte a sostenere i tirocini.
Con l’adozione delle linee guida regioni e province si sono impegnate a recepirle
all’interno delle normative di loro competenza, tenendo conto anche, con appositi
accordi, delle particolari esigenze di aziende multilocalizzate.
Le linee guida contengono una disciplina molto articolata sia per quanto riguarda i
soggetti promotori, i soggetti ospitanti, le modalità di attivazione e attuazione dei
tirocini, l’assicurazione Inail, le comunicazioni obbligatorie, il numero massimo dei
tirocini in relazione alle dimensioni del soggetto ospitante, l’esistenza e la funzione
del tutor, l’attestazione dell’attività svolta e della competenza acquisita, l’indennità
di partecipazione (non inferiore a 300 euro lordi mensili), misure di vigilanza,
controllo ispettivo e disciplina sanzionatoria.
21
E’ una disciplina vasta, che richiama la normativa europea e la precedente
normativa nazionale, prevedendo principi comuni a tre tipologie di tirocini, ed in
particolare:
a) Tirocini formativi e di orientamento, che sono finalizzati ad agevolare scelte
professionali ed occupabilità dei giovani nella transizione scuola – lavoro. I
destinatari sono i soggetti che hanno conseguito un titolo di studio entro e
non oltre dodici mesi. La durata massima non può essere superiore a sei
mesi.
b) Tirocini di inserimento e reinserimento al lavoro diretti verso i disoccupati
anche in mobilità e inoccupati, estensibile anche a favore di lavoratori in
CIG sulla base di specifici accordi. La durata non può essere superiore a
dodici mesi.
c) Tirocini di orientamento e formazione o di inserimento e reinserimento in
favore di disabili e persone svantaggiate richiedenti asilo e titolari di
protezione internazionale. La durata non può essere superiore a
ventiquattro mesi.
Gli interventi legislativi del 2013 hanno una portata modesta, ma in materia
bisogna tener conto dei limiti derivanti dalle competenze regionali, che non
aiutano a creare una disciplina uniforme.
3C)
Il
tirocinio
nei
settori
beni
culturali
e
in
genere
pubbliche
amministrazioni.
Dopo l’eliminazione dei commi 4 e 5 dell’articolo 2, sono rimaste in vigore solo le
previsioni di natura finanziaria dei successivi commi 5 bis e 6, che costituiscono
misure di incentivo per promuovere l’utilizzazione degli istituti sia nel settore dei
beni culturali che comunque da parte delle pubbliche amministrazioni ospitanti.
22
3D) Imprese multilocalizzate.
Inoltre al comma 5 ter si prevede che per i tirocinii formativi di orientamento di cui
all’accordo Stato Regioni del 24/1/2013, i datori di lavoro pubblici e privati con sedi
in più regioni possono far riferimento alla sola normativa della regione dove è
ubicata la sede legale e possono accentrare le comunicazioni di cui all’art. 1
commi 180 e ss. della legge 27/12/2006 n. 296 (legge di stabilità 2006) presso
servizio informatico nel cui ambito territoriale è ubicata la sede legale (si tratta di
una previsione analoga a quella in materia di apprendistato).
Naturalmente le aziende possono optare anche diversamente, facendo riferimento
alle varie normative delle differenti regioni dove hanno sedi operative.
Nell’accordo quadro del 24/1/2013, al punto 3, si faceva riferimento ad accordi
delle singole regioni che tenessero presente le esigenze delle imprese multi
localizzate.
Il legislatore ha preferito creare un trattamento omogeneo rimettendo al datore di
lavoro la scelta.
In questa prospettiva (Garofalo C., I tirocinii formativi e di orientamento, in Il
Lavoro nella giurisprudenza, 2013, 47 ss. in part. 50) le regioni hanno tuttora la
competenza a definire con appositi accordi disposizioni che tengano conto delle
esigenze delle imprese multi localizzate, anche in deroga al principio della sede
legale del datore di lavoro.
Il datore di lavoro potrà poi scegliere quale criterio utilizzare.
Permane pertanto la competenza delle regioni, evitando così rischi di
incostituzionalità, ma al datore di lavoro è data una possibilità di scelta.
3E) L’indennità di partecipazione al tirocinio.
23
Per consentire
alle
pubbliche
amministrazioni
di
erogare
l’indennità
di
partecipazione ai tirocinanti prevista dalle linee guida, all’art. 2 comma 6 del D.L.
76/2013, è stata prevista l’istituzione di un fondo con dotazione di due milioni di
euro annui per gli anni 2013, 2014 e 2015, che interviene quando per comprovate
ragioni una amministrazione dello stato ospitante non può far fronte al relativo
onere.
3F) I tirocini curriculari ed extracurriculari.
Vi è stato poi un intervento in materia di tirocini formativi curriculari e in orario
extracurriculare.
Al fine di promuovere l’alternanza tra studio e lavoro è autorizzata una spesa di 3
milioni di euro per l’anno 2013 e 7,6 milioni di euro per l’anno 2014 da destinare al
sostegno delle attività di tirocinio curriculare da parte degli studenti iscritti ai corsi
di laurea nell’anno accademico 2013/2014. Il Ministero dell’Istruzione prevede la
distribuzione delle risorse che attivano tirocinii della durata minima di tre mesi con
enti pubblici o privati.
Le Università provvedono all’attribuzione agli studenti delle risorse economiche
disponibili sulla base di graduatorie formate secondo tre criteri di premialità: a)
regolarità del percorso di studi; b) votazione media degli esami; c) condizioni
economiche dello studente, individuate sulla base dell’indicatore della situazione
economica equivalente, di cui al D.Lgs 31/3/1998 n. 109 e successive
modificazioni.
Ciascuna Università assegna le risorse agli studenti utilmente collocati in
graduatoria fino all’esaurimento delle stesse, dando priorità agli studenti che
hanno concluso gli esami del corso di laurea, nella misura massima di 200,00
euro mensili a studente.
24
L’importo sarà assegnato come cofinanziamento, nella misura del 50%, del
rimborso spese corrisposto da altro soggetto pubblico o privato, portando così il
totale corrisposto a euro 400,00.
°°°°°°°°°°°°°°°°°
Al comma 14 dell’art. 2 del D.L. 76/2013 si prevede che siano fissati con decreto
(Miur di concerto con Mef) i criteri e le modalità di definizione di piani di intervento,
di
durata triennale, per la realizzazione
di tirocini
formativi
in orario
extracurriculare in imprese, altre strutture produttive di beni e servizi o enti
pubblici, da destinare agli studenti della quarta classe delle scuole secondarie di
secondo grado, con priorità per quelli degli istituti tecnici e degli istituti
professionali, selezionati in base all’impegno e al merito.
Dovrebbero altresì essere fissati i criteri per l’attribuzione di crediti formativi alle
esperienze di tirocini, senza oneri finanziari per la finanza pubblica.
Il tirocinio formativo extracurriculare è destinato a soggetti che sono ancora in
formazione scolastica.
A questi tirocini non si applica la disciplina prevista dalle linee guida dell’accordo
del gennaio 2013.
3G) Valutazioni complessive.
E’ stato rilevato come nell’intervento del Governo vi sia una contraddizione
interna, poiché “da un lato… il Governo prospetta un ambizioso intervento di
contrasto alla disoccupazione giovanile con un piano di incentivazione dei rapporti
di lavoro stabili e strutturati e con l’immancabile rilancio del contratto di
apprendistato. Dall’altro, tuttavia, mentre…..(il Governo Letta) ha aperto…. ancora
troppo timidamente al contratto a termine di tipo soggettivo o acausale,
circondandolo di vincoli e paletti, si spalanca la strada ad un ampio e incontrollato
25
ricorso ai tirocinii.” (Tiraboschi, Il lavoro riformato, Giuffrè 2013, 111). La critica
dovrà essere rivista alla luce della Riforma Renzi sui contratti a termine.
Secondo una parte di opinione, quindi, il tirocinio, anziché diventare ponte di
collegamento tra scuola o formazione universitaria e lavoro, rischia di diventare
una modalità di elusione della disciplina e soprattutto dei costi del rapporto di
lavoro subordinato, tant’è che nella Legge Fornero erano state introdotte norme
restrittive proprio per evitare l’abuso, recepite nelle linee guida della Conferenza
Stato Regioni del 24/1/2013.
Sempre in un’ottica critica, si è precisato che “a fronte di un tasso di
disoccupazione giovanile che si avvicina al 40% e a una stima dei giovani inattivi
pari a ben 2 milioni, pare davvero poca cosa un piano di incentivazione di mere
esperienze formative come i tirocinii che (nel 2014) non supererà le 20 mila unità”
(Tiraboschi, op. cit., 114).
In alternativa “le poche risorse disponibili andavano forse utilizzate per la
strutturazione in termini professionali degli uffici placement di scuole e
universitarie che sono uno degli anelli deboli della transizione dalla scuola al
lavoro nel nostro paese e non certo per misure tampone che non sono di per sé in
grado di costruire un sistema per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro…”
(Tiraboschi, op. cit., 115).
4)IL CONTRATTO A TERMINE.
Il Governo Letta è intervenuto sul contratto a termine con l’art. 7 comma 1 del D.L.
28/6/2013 n. 76 convertito in legge 9/8/2013 n. 99.
L’intenzione del Governo era quella di ridurre alcuni eccessi di rigidità introdotti
dalla Legge Fornero.
26
Sullo stesso tema è intervenuto in questi giorni il Governo Renzi e pertanto la
disciplina complessiva ha subito delle radicali trasformazioni.
In una prima fase verranno analizzate le modifiche introdotte dal Governo Letta
per poi passare a quelle inserite nel Decreto Legge 20 marzo 2014 e cercare di
ricostruire sistematicamente la materia.
È stato fatto notare (Tiraboschi, op. cit., 176) che sul contratto a termine vi sono
stati ben 14 interventi specifici e dal 2001 ad oggi, uno ogni due anni.
In effetti la disciplina del contratto a termine è diventata una cartina di tornasole
dell’approccio verso il diritto del lavoro e per una riforma complessiva della
materia.
Molti associano il contratto a termine ad una forma di precarietà diffusa (CGIL),
mentre altri (ad es. CISL) evidenziano che il contratto a termine è pur sempre una
forma di rapporto di lavoro subordinato sottoposto a tutte le relative
regolamentazione, mentre gli abusi si realizzano nel’area dello pseudo lavoro
autonomo (lavoro a progetto, partite IVA) o lavoro senza contratto (tirocini
formativi e di inserimento).
°°°°°°°°°°°°°
Dopo la riforma del contratto a termine contenuta del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 si
erano manifestate le prime diverse interpretazioni della causale di carattere
generale contenuta all’interno dell’art. 1 del D.Lgs. 368/2001.
Secondo una parte di opinione, poi divenuta assolutamente minoritaria, il
legislatore aveva inteso liberalizzare il contratto a termine per cui l’indicazione
della causale espressa come “ragioni di carattere tecnico-produttivo-organizzativo
o sostitutivo” avrebbe espresso proprio questa volontà di liberalizzazione, non
27
essendo consentito al giudice un sindacato di merito sulle ragioni che
determinavano l’assunzione a termine.
Viceversa in giurisprudenza si è affermata una interpretazione complessivamente
abbastanza restrittiva della norma di legge sotto il profilo della necessaria
temporaneità delle esigenze, che se pur non straordinarie, sarebbero certamente
riconducibili ad una valutazione di temporaneità.
Altro profilo su cui ha posto particolare attenzione la giurisprudenza è la specificità
della ragioni; sono stati dichiarati illegittimi tutti quei contratti che, specie dopo
l’entrata in vigore del D.Lgs. 368/2001, si limitavano a riportare le causali indicata
dal legislatore.
Viceversa per i giudici “il datore di lavoro ha l’onere di indicare in modo
circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali
ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto le circostanze
che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle
esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato, contesto aziendale la
prestazione a tempo determinato, si da rendere evidente la specifica connessione
tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive e
organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del
lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione e in stretto
collegamento con la stessa “ (Cass. 11/10346).
Dalla stessa lettura dei passaggi della motivazione di una delle tante sentenze di
Cassazione in materia, emerge la grande attenzione dei giudici di legittimità alla
specificità e temporaneità delle ragioni e al loro nesso causale con l’assunzione
del lavoratore.
28
Vi è una certa ridondanza nei passaggi delle motivazioni dei giudici, che
esprimono la preoccupazione di sottolineare come il contratto a termine sia una
ipotesi eccezionale da valutare rigorosamente.
Talvolta il rigore è eccessivo ed è molto difficile per il datore di lavoro dimostrare
nesso causale, specificità, temporaneità, perché è molto facile scivolare sulla
buccia di banana di una interpretazione che quasi mai riesce a cogliere i requisiti
all’interno delle singole fattispecie esaminate.
In effetti il legislatore, specificando che il contatto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, ha ribadito
l’eccezionalità del contratto a termine.
Nei dieci anni successivi alla riforma del 2001 i contratti a termine hanno
conosciuto una notevole espansione della loro utilizzazione, nonostante
l’approccio restrittivo della giurisprudenza.
Oggi costituiscono i due terzi delle nuove assunzioni.
In pratica si era verificata una situazione in cui una grandissima massa di contratti
era comunque conclusa a tempo determinato e sembrava che gli imprenditori
volessero accettare il rischio di incappare nelle maglie di una giustizia molto
severa, perché comunque il rischio valeva la candela.
È vero che vi sono stati caso clamorosi di contenzioso seriale come quello delle
Poste Italiane che tuttavia, nonostante i costanti esiti negativi, sono stati ben
assorbiti da quella società.
Gli imprenditori più piccoli spesso assumevano a termine sperando che tutto
andasse bene.
29
Di fronte a questa situazione un po’ schizofrenica, la Legge Fornero ha tentato di
fare ordine anche se è stata immediatamente accusata a sua volta di eccessiva
rigidità e astrattezza.
La più grande novità introdotta dalla legge era la possibilità di un primo rapporto a
tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi per lo svolgimento di
qualunque tipo di mansione, sia nella forma di contratto a tempo determinato sia
nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di
somministrazione.
Il tutto senza alcuna necessità di una specifica causale.
Era poi fatta salva la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere in
luogo dell’ipotesi precedente un contratto acausale (sia a termine che di
somministrazione) nell’ambito di processi organizzativi determinati dall’avvio di
nuova attività, dal lancio di un prodotto o servizio innovativo, dall’implementazione
di un rilevante incremento tecnologico, dalla fase supplementare di un significativo
progetto di ricerca o sviluppo, dal rinnovo o dalla proroga di una commessa
consistente.
Il tutto nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’unità
produttiva.
Con la Legge Fornero si era creata una situazione particolare in cui era preferibile
che la contrattazione collettiva non si occupasse della materia, perche il contratto
acausale era completamente libero e l’unica condizione era dato dal fatto che
fosse il primo rapporto con il datore di lavoro.
Invece nell’ipotesi alternativa demandata dalla contrattazione collettiva vi erano
requisiti molto più stringenti in realtà anche sotto il profilo causale (processi
organizzativi etc.), oltre il limite del 6%.
30
Per il contratto acausale era previsto anche il divieto di proroga.
In sostanza con la prima ipotesi di acausalità del contratto a tempo determinato
introdotto dalla Legge Fornerno emergevano le due anime che si manifestano
sempre nella lettura e interpretazione del contratto a termine.
C’è chi crede che il contatto possa essere un utile strumento per mettere in
contatto lavoratore e azienda permettendo di conoscersi e funzionando come una
prova allungata.
Questa filosofia si esprime nel contratto acausale.
In questa prospettiva il contratto a termine diventa un’occasione di lavoro e quindi
viene visto favorevolmente perché propedeutico per un eventuale contratto a
tempo indeterminato.
Si tratta di una sorta di “prova allungata” che, per evitare abusi era stata
comunque limitata nel tempo (12 mesi).
Secondo altri, viceversa, ogni breccia aperta nella regola della eccezionalità del
contratto a tempo determinato, produceva conseguenze negative, perché avrebbe
spinto i datori di lavoro a ritenere ordinario il ricorso a contratti a termine come
modello di organizzazione aziendale.
A compensazione dell’apertura sul primo contratto acausale, la Legge Fornero era
originariamente intervenuta irrigidendo il regime delle proroghe dei contratti a
termine, prevedendo intervalli minimi molto più lunghi tra un contratto e l’altro e
suscitando una reazione molto accesa da parte di Confindustria.
In questo quadro, si inserivano gli interventi del Governo Letta (c.d. Mini Riforma
Giovannini).
L’art. 7 della legge 9/8/2013 n. 99, confermando l’acausalità del contratto a
termine nel caso di primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore
31
ad un anno, precisava che nel computo dei 12 mesi rientrava anche l’eventuale
periodo di proroga.
Veniva quindi ammessa all’interno dell’anno la possibilità di proroga.
Pertanto con il Decreto Giovannini un lavoratore poteva essere assunto per 6
mesi senza causale con successiva proroga per altri 6 fino al limite di 12 mesi. Si
era anche precisato che, nella logica del contratto, la proroga non avrebbe dovuto
avere alcuna motivazione essendo acausale il contratto originale.
Ciò peraltro era stato confermato anche in riferimento a contratti sottoscritti prima
del decreto legge 28/6/2013 n. 76, dalla Circolare Ministeriale (Min. Lav.) 35/2013.
Un’altra importante modifica dal Decreto Giovannini è relativa all’ipotesi alternativa
al contratto acausale previsto dalla legge.
La lettera B del nuovo comma 1 Bis dell’art. 1 del D.Lgs. 368/2001, così
modificato, prevedeva che non fosse richiesto il requisito causale delle ragioni
tecnico-produttive o sostitutive “in ogni altra ipotesi individuata dai contratti
collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e
dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Scompariva il riferimento alle ragioni previste all’art. 5 del D.Lgs. 368/2001 e
anche il limite percentuale.
Vi è da dire che, dalla lettura del testo, si ricavava che la contrattazione collettiva
poteva prevedere la possibilità di stipulazione di contratti anche più lunghi di 12
mesi e nelle ipotesi più svariate, fermo restando il limite generale dei 36 mesi.
Inoltre le ipotesi previste dalla contrattazione collettiva non erano più alternative
rispetto al contratto acausale previsto dalla legge, in quanto nel testo di legge
della precedente Riforma Fornero si usava l’espressione “in luogo dell’ipotesi…..”.
32
Con
la
Riforma
Giovannini
la
natura alternativa
delle previsioni
della
contrattazione collettiva non c’era più, in quanto le ipotesi individuate dai contratti
collettivi si affiancavano eventualmente a quelle più generali previste dalla legge.
I contratti collettivi avrebbero potuto prevedere anche limiti quantitativi nel ricorso
a contratti a termine privi di causale.
Restava il problema di cosa doveva intendersi, anche nella Riforma Giovannini,
come primo rapporto a tempo determinato ed in particolare se il concetto di primo
rapporto dovesse riferirsi esclusivamente a forme di lavoro subordinato o
viceversa a forme di lavoro autonomo come il lavoro a progetto e di
collaborazione occasionale, e se dovesse ricomprendere anche precedenti
contratti di somministrazione o addirittura tirocini o borse di studio o di lavoro.
Considerando che la finalità della legge era quella di evitare abusi nell’utilizzo di
contratto acausale per la prima volta introdotto, probabilmente andava esclusa la
possibilità di ammettere la conclusione di contratti acausali in caso di precedenti
rapporti di lavoro autonomo o subordinato.
Anche il Ministero del Lavoro nella circolare n. 18 del 2012 (18/7/2012 n. 18) ha
precisato che il contratto a termine acausale si configura come una sorta di “prova
lunga” per cui non dovrebbe ammettersi un’ulteriore possibilità di contratto
acausale per lavoratori sperimentati dal datore di lavoro.
Peraltro con la circolare del Ministero del Lavoro del 29/8/2013 n. 35 relativa al
D.L. 36/2013 convertito in Legge 99/2013 il Ministero afferma che tra gli ampi
poteri consentiti dalla contrattazione collettiva vi sarebbe quello di permettere il
ricorso al contratto acausale anche con un lavoratore che ha avuto un precedente
rapporto di lavoro subordinato con lo stesso datore di lavoro.
33
Con ciò, confermandosi a contrario che per il rapporto acausale, per la legge,
permane il requisito dell’assenza di precedenti rapporti di qualsiasi tipo tra datore
di lavoro e lavoratore.
È stato osservato come l’ipotesi di cui alla lettera B del comma 1 bis del D.Lgs.
368/2001 come modificato dalla Legge 8/8/2013 n. 99 sia da assimilare a quella
prevista a suo tempo dalla legge 28/2/1987 n. 56, che all’art. 23 attribuiva ai
contratti collettivi la possibilità di introdurre l’ipotesi di contratto a termine in deroga
alla legge allora in vigore (Legge 230/1962 e successive modifiche).
In entrambi i casi alla contrattazione collettiva, per l’opinione dominante, era
attribuito un potere molto ampio (una sorta di delega in bianco), pur rimanendo i
vincoli formali previsti dalla legge (forma scritta, ripartizione dell’onere della prova,
etc.).
Al di fuori delle ipotesi di acausalità confermate e ampliate dal Decreto Giovannini
restavano in vigore le causali di carattere generali previste dall’art. 1 del D.Lgs.
368/2001 (ragioni tecnico, produttive, organizzative e sostitutive), pur attinenti
all’ordinaria attività aziendale.
Prima della Riforma Renzi ci si poteva chiedere se la maggiore liberalizzazione
del contratto a termine avrebbe prodotto qualche effetto sulle interpretazione
molto restrittive della giurisprudenza in relazione all’ipotesi causale e cioè dei
requisiti della temporaneità, specificità e nesso causale tra ragioni annunciate e
singole assunzioni.
°°°°°°°°°°°°°
Un altro settore dove la Riforma Giovannini ha avuto un notevole impatto è quello
relativo agli intervalli tra i contratti a tempo determinato.
34
La Riforma Fornero prevedeva un intervallo di 60 o 90 giorni tra un contratto a
tempo determinato e quello successivo a seconda che il contratto fosse superiore
o inferiore a 6 mesi.
Già una prima modifica della legge aveva previsto che i contratti collettivi
potessero prevedere la riduzione di questi periodi rispettivamente fino a 20 giorni
e 30 giorni nei casi in cui l’assunzione a termine fosse avvenuta nel’ambito di un
processo organizzativo determinato dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di
un prodotto o di un servizio innovativo, dall’implementazione di un rilevante
incremento tecnologico, dalla fase supplementare di un significativo progetto di
ricerca o sviluppo, o di rinnovo o di proroga di una commessa consistente.
Il Decreto Giovannini viceversa modifica l’art. 5 del D.Lgs. 368/2001, riducendo gli
intervalli a 10 giorni per un contatto di durata fino a 6 mesi ovvero 20 giorni per un
contratto superiore a 6 mesi.
Qualora neppure questi termini vengano rispettati, il secondo contratto si
considera a tempo indeterminato.
Vi sono poi delle deroghe alla regola degli intervalli in caso di lavoratori impiegati
nelle attività stagionali, nonché in relazione alle ipotesi individuate nei contratti
collettivi.
I lavoratori stagionali sono quelli individuati dal comma 4 ter dell’art 5 del D.Lgs
6/9/2001 n. 368 di riforma del contratto a termine, il quale a sua volta rinvia
all’elenco delle attività stagionali contenute nel DPR del 7/10/1963 n. 1525 e
successive modifiche e integrazioni, nonché ad avvisi comuni e contratti collettivi
nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro
comparativamente più rappresentative.
35
Per quanto concerne i contratti collettivi che prevedono deroghe, possono essere
stipulati a qualsiasi livello, e quindi anche aziendale, dalle organizzazioni dei
sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi
sul piano nazionale.
Il contratto aziendale può, a mio avviso, anche escludere totalmente l’intervallo
temporale, anche se vi è chi sostiene che l’esistenza di un intervallo minimo tra le
parti non sia disponibile tra le parti sociali, che potrebbe soltanto ridurlo.
In merito ha fatto discutere anche l’espressione “in relazione alle ipotesi
individuate dai contratti collettivi” perché vi è chi ha letto la norma come riferita a
delle ipotesi particolari ed oggettivamente verificabili, escludendo che le parti
sociali potessero semplicemente ridurre o eliminare l’intervallo temporale senza
che ciò fosse ancorato all’individuazione di fattispecie verificabili.
°°°°°°°°°°°°°°
Per quanto concerne la prosecuzione di fatto del rapporto al termine della
scadenza dello stesso, il D.L 76/2013 e la legge di conversione 99/2013 non sono
intervenuti sui termini di massima tolleranza, che restano di trenta e cinquanta
giorni a seconda che il contratto abbia durata superiore o inferiore a sei mesi.
Viceversa è stato abrogato il comma 2 bis dell’art. 5 del D.Lgs 368/2001 introdotto
dalla
legge
28/6/2012
n.
92
che
prevedeva
l’obbligo
di
comunicare
preventivamente al Centro per l’Impiego la prosecuzione del rapporto oltre il
termine pattuito.
E’ stato osservato come “resta evidentemente salvo il diverso obbligo di cui all’art.
4 bis comma 5 del D.Lgs 21/4/2000 n. 181, sanzionabile ai sensi dell’art. 19
comma 3 del D.Lgs 10/9/2003 n. 276 – relativo alla comunicazione, entro cinque
giorni, della proroga del termine inizialmente fissato o della trasformazione da
36
tempo determinato a tempo indeterminato.” (M. Giovannone, in Tiraboschi, op.
cit., pag. 185)
In effetti la proroga volontaria è una cosa, una prosecuzione di fatto è altra cosa.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Dopo l’intervento della legge Giovannini, era rimasta invariata la disciplina della
proroga del contratto con causale, così come previsto dalla legge Fornero.
La proroga era possibile una sola volta quando il contratto iniziale era inferiore a
tre anni e doveva esserci il consenso del lavoratore.
Non doveva necessariamente trattarsi di eventi eccezionali e la durata della
proroga poteva essere anche superiore al contratto iniziale.
La motivazione della proroga doveva essere oggettiva e riferita alla stessa attività
per la quale era stato stipulato il contratto iniziale.
L’onere della prova era a carico del datore di lavoro anche in materia di proroga.
°°°°°°°°°°°°°°°°
Un ulteriore intervento è stato operato sulla disciplina dei contratti a termine
stipulati con lavoratori iscritti nelle liste di mobilità ai sensi dell’art. 8 della legge
223/91.
Dopo la lettera c bis) dell’art. 10 del D.Lgs 368/2001 è stata inserita la lettera c ter)
che prevede per l’appunto l’esclusione espressa di tali contratti dalla disciplina più
generale sul lavoro a termine, ferma restando l’applicazione del principio di non
discriminazione e i criteri di computabilità di questi contratti ai fini dell’applicazione
del titolo terzo Statuto dei Lavoratori, che ricomprende anche l’art. 18. In sostanza
anche questi dipendenti devono essere computati ai fini del raggiungimento della
soglia numerica per l’applicazione dei diritti sindacali e dell’art. 18 St. Lav..
37
L’art. 8 del D.Lgs 368/2001 è oggi sostituito dall’art. 12 comma 1 della legge
6/8/2013 n. 97.
Il computo dei dipendenti a termine avviene sul numero medio mensile di
lavoratori a tempo determinato impiegato negli ultimi due anni, sulla base della
effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.
In precedenza (fino al 31/12/2013), il computo dei contratti a termine veniva
effettuato soltanto per quelli di durata superiore a nove mesi.
Anche a questo tipo di contratti a termine si applica poi il principio di non
discriminazione (in ragione della assunzione a tempo determinato) derivante
direttamente dal diritto comunitario.
E’ stato così risolto il contrasto giurisprudenziale relativo alla natura speciale dei
contratti a termine in mobilità (ritenevano speciale quel contratto Trib. Bolzano
2411/2009 e Trib. Monza 24/1/2008; in senso contrario Trib. Busto Arsizio
29/11/2010 n. 528 e Trib. Milano 11/5/20016).
In questi casi la giustificazione del rapporto a termine non è oggettiva, ma
esclusivamente soggettiva e deriva dal fatto di essere disoccupato iscritto nelle
liste di mobilità.
Permane il divieto di cui all’art. 3 di cui al D.Lgs 368/2001 di assunzione a tempo
determinato di lavoratori licenziati al termine di procedure collettive di riduzione
del personale negli ultimi sei mesi dall’ultimo licenziamento e in relazione alle
stesse mansioni svolte dai dipendenti licenziati.
Tuttavia questa esclusione non trova applicazione per i contratti a termine che
prevedono la sostituzione di lavoratori assenti, per quelli stipulati ai sensi dell’art.
8 della legge 223/91 e per quelli che hanno la durata iniziale non superiore a tre
mesi.
38
Con gli interventi operati dalla legge Giovannini venivano confermate due distinte
tipologie di contratti a termine: quella collegata a ragioni di carattere tecnico,
organizzativo, produttivo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del
datore di lavoro, e la diversa fattispecie svincolata da causali oggettive, collegata
solo alla previsione legale (durata determinata e primo rapporto a tempo
determinato); accanto a questa vi era la possibilità di contratti a termine acausali
gestiti autonomamente dall’autonomia collettiva, nonché l’ipotesi particolare di cui
all’art. 8 legge 223/91.
4A)La riforma del Governo Renzi
In questo quadro abbastanza vario e con una recente tendenza ad una maggiore
liberalizzazione dei contratti a termine, si inseriscono gli interventi legislativi di
questi giorni disposti dal Governo Renzi, che imprimono una svolta netta verso la
liberalizzazione del contratto a termine, che produrrà probabilmente conseguenze
ulteriori su altre forme contrattuali, quali l’apprendistato.
Il contratto a termine può essere sempre stipulato senza alcuna causale.
L’articolo 1 del decreto legge 20/3/2014 n. 34/2014 ha modificato l’articolo 1 del
D.Lgs 368/2001 eliminando ogni riferimento alle esigenze tecniche, organizzative,
produttive e sostitutive che giustificavano il ricorso al contratto a termine,
sostituendolo con una nuova formulazione che prescinde da qualsiasi causale. In
particolare, secondo il nuovo primo comma dell’art. 1 del D.Lgs 368/2001 “E’
consentita l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato di durata
non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe concluso tra un
datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento per qualunque
tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato sia nell’ambito
di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4
39
dell’art. 20 del Decreto Legislativo 10/9/2003 n. 276. Fatto salvo quanto disposto
dall’articolo 10 comma 7 il numero complessivo di rapporti di lavoro costituiti da
ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite
del 20% dell’organico complessivo. Per le imprese che occupano fino a cinque
dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo
determinato”.
Con questa modifica l’assenza di causale diventa la regola e non più l’eccezione,
tant’è che la stessa norma di legge abroga il comma 1 bis, introdotto dalla legge
Fornero, che per la prima volta aveva introdotto un’ipotesi particolare di contratto
acausale.
Pertanto oggi non è più necessario che il contratto acausale costituisca il primo
rapporto di lavoro a tempo determinato con l’impresa, e il lavoratore può essere
addetto a qualsiasi mansione.
Ciò significa che il contratto acausale può essere avviato anche nei confronti di
lavoratori che hanno già avuto rapporti di lavoro con l’impresa, per le stesse o
diverse mansioni.
Resta la necessità della forma scritta, dal momento che è stato sostituito il comma
2 del D.Lgs 368/2001 che prevedeva oltre alla forma scritta l’obbligo di specificare
le ragioni dell’assunzione a temine.
Il nuovo comma 2 prevede che “l’apposizione del termine di cui al comma 1 è
priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente da atto scritto”.
Resta da chiedersi cosa intenda la legge quando usa le espressioni “direttamente
o indirettamente”.
Probabilmente si riferisce alla possibilità che il termine si ricavi indirettamente dal
contenuto dell’atto, e ciò può accadere tutte quelle volte in cui vi sono dei chiari
40
riferimenti ad eventi cui si collega una durata determinata. In tal caso il termine si
ricava dal riferimento all’evento.
L’esempio tipico è sempre stato quello della sostituzione di lavoratore assente con
diritto alla conservazione del posto, dal momento che la durata del termine è
collegata alla durata dell’assenza.
E’ pur sempre vero che nella lettera di assunzione non è necessario indicare la
ragione, e quindi è difficile che il termine possa essere ricavato indirettamente.
Tuttavia il datore di lavoro può avere interesse ad indicare una ragione sostitutiva
(sostituzione di lavoratore assente) perché, come vedremo, in quel caso quel
rapporto non soggiace al limite del 20% dell’organico complessivo.
In questa ipotesi pertanto può in concreto accadere che il termine si ricavi
indirettamente.
E’ possibile prorogare il contratto di lavoro a termine fino a un massimo di otto
volte in 36 mesi. Unica condizione per le proroghe è il fatto che il lavoratore svolga
la stessa attività lavorativa per la quale è stato stipulato inizialmente il contratto.
Il decreto legge prevede un limite del 20% dei contratti a termine rispetto
all’organico complessivo del datore di lavoro.
Il limite del 20% consente di mantenere una coerenza interna rispetto
all’affermazione contenuta nella parte iniziale dell’art. 1 del D.Lgs 368/2001
secondo cui il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la
forma comune di rapporto di lavoro.
Se non ci fosse il limite del 20%, quell’affermazione sarebbe del tutto vanificata.
Tuttavia non bisogna dimenticare che il 70% delle nuove assunzioni già oggi è a
tempo determinato, per cui l’affermazione di principio secondo cui il contratto a
41
tempo indeterminato costituisce la forma comune potrebbe essere posta in dubbio
da questo imponente dato statistico.
Qualche
dubbio
interpretativo
può
far
sorgere
l’espressione
“organico
complessivo”. In particolare ci si può chiedere se l’organico complessivo vada
considerato tenendo presente i soli contratti a tempo indeterminato (come ritengo
preferibile) o viceversa nel calcolo vadano inclusi anche gli stessi contratti a
termine nonché quelli di somministrazione.
L’interpretazione data dai giudici in relazione a norme dei contratti collettivi è quasi
sempre quella secondo cui il riferimento debba essere ai soli dipendenti a tempo
indeterminato. In ogni caso vanno esclusi gli apprendisti, secondo quanto previsto
dall’art. 7 comma 3 del D.Lgs 14/9/2011 n. 167 (Testo Unico apprendistato) e
viceversa inclusi proporzionalmente al minor orario di lavoro i rapporti part time.
Tuttavia è fatta salva la disposizione dell’art. 10, comma 7, del D.Lgs 368/2001
che prevede la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro di individuare
diversi limiti quantitativi.
Inoltre sono certamente esclusi dai limiti quantitativi, sempre ai sensi dell’art. 10
comma 7 sopra menzionato, i contratti conclusi per ragioni di carattere sostitutivo
o di stagionalità (per il concetto di lavoro stagionale bisogna fare riferimento anche
alle attività previste nel DPR 10/7/1963 n. 1525), oltre che nella fase di avvio di
nuove attività sempre definite dalla contrattazione collettiva, o in caso di contratti
per specifici spettacoli anche radiofonici o televisivi, o per lavoratori di età
superiore a 55 anni.
Si prevede infine che le imprese che occupano sino a 5 dipendenti possano
comunque stipulare sempre contratti a termine senza alcun limite quantitativo,
42
perché non potrebbero altrimenti mai rispettare il limite del 20% che sarebbe
sforato anche con un solo dipendente a tempo determinato.
In merito è stato rilevato che la legge, probabilmente per un refuso, fa riferimento
alle “imprese”, per cui apparentemente sembrano esclusi i soggetti che non sono
imprenditori, quali i liberi professionisti e le associazioni.
Per questi soggetti, qualora occupino fino a quattro lavoratori a tempo pieno, non
si potrebbe mai fare ricorso a contratti a termine.
Mi sembra che la conclusione sia del tutto irragionevole, per cui in sede
interpretativa il riferimento alle imprese dovrebbe essere considerato atecnico e
quindi come generalizzabile a tutti i datori di lavoro.
In caso contrario è opportuno che in sede di conversione del decreto questo
aspetto sia chiarito.
Vi è da dire che la norma fa riferimento solo al contratto di lavoro a tempo
determinato e non alla somministrazione, che invece è richiamata nella prima
parte del comma1; quindi, se è vero che il limite del 20% vale anche per la
somministrazione, l’assenza di riferimenti a quest’ultimo contratto per quanto
concerne le imprese che occupano fino a 5 dipendenti, porterebbe ad escludere
per tali imprese la possibilità di concludere contratti di somministrazione.
Mi sembra che anche in questo caso sia opportuno un chiarimento in sede di
conversione in legge e, in sua assenza, credo che dovrebbe applicarsi
analogicamente la normativa richiamata espressamente per il lavoro a tempo
determinato.
Una volta ammesso il ricorso all’analogia, ci si è chiesti se sia possibile utilizzare
nelle imprese fino a 5 dipendenti sia un dipendente a termine, sia un dipendente
in somministrazione congiuntamente o viceversa alternativamente.
43
In effetti, poiché il limite del 20% sembra riferito alla somma dei due tipi di
contratto (termine e somministrazione), credo che anche per le imprese minori
dovrebbe essere considerata la possibilità di un solo rapporto o a termine o in
somministrazione.
Anche per quanto concerne la somministrazione, i contratti collettivi possono
prevedere diversi limiti quantitativi (senza alcun’altra limitazione) (art. 20, comma
4 D.Lgs 276/2003 come ora modificato).
°°°°°°°°°°°°°°°°°
Della vecchia disciplina sul contratto a termine restano le ipotesi speciali (servizi
aeroportuali, scuola, poste, lavoratori in mobilità) che un tempo consentivano con
maggiore facilità il ricorso a questa figura. Oggi sono assoggettate alle vecchie
regole comunque più restrittive rispetto a quelle attuali.
Si tratta probabilmente di un refuso, perché dovrebbero essere abrogate tutte
queste speciali previsioni, che non hanno più senso in un quadro di totale
liberalizzazione.
Non è stata toccata dalla riforma la norma sull’onere della prova scritta delle
ragioni della proroga, ma l’opinione pressoché unanime ritiene che si tratti di una
svista, dal momento che non è richiesta alcuna ragione, così come sviste sono
quelle relative alla mancata abrogazione delle norme che contengono riferimenti
all’art. 1 comma 1 bis, che costituiva la vecchia disciplina, ora abrogata, della
acausalità.
Restano in vigore tutte le normative in essere in materia di intervalli tra un
contratto a termine ed un altro, di dieci o venti giorni a seconda che il precedente
contratto abbia avuto una durata superiore o inferiore a sei mesi.
44
Per cui vi è liberalizzazione in materia di proroghe, ma non in materia di rinnovi di
contratti scaduti.
Resta altresì la normativa sulla prosecuzione di fatto di un contratto a termine
dopo la sua scadenza disciplinata dall’art. 5 del D.Lgs 368/2001, come modificato
nel corso del tempo, che prevede incrementi retributivi e comunque un tetto di 30
o 50 giorni, a seconda che il contratto avesse una durata inferiore o superiore a
sei mesi.
Dopo di che vi è trasformazione a tempo indeterminato.
Si può rilevare che il decreto legge nulla dice in merito alla possibilità per la
contrattazione collettiva di individuare tetti superiori ai 36 mesi di cui all’art. 5
comma 4 bis del D.Lgs 368/2001, che prevede che siano fatte salve diverse
disposizioni dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o
aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più significative sul
piano nazionale in ordine al tetto complessivo dei contratti a termine.
Ci si può chiedere se l’autonomia collettiva può comunque ancorare lo sforamento
del termine massimo a determinate causali.
L’ampiezza del rinvio fa propendere per la risposta affermativa.
Resta altresì ferma la previsione contenuta sempre nell’art. 5 comma 4 bis del
D.Lgs 368/2001, secondo cui un ulteriore successivo contratto a termine tra gli
stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta successivamente alla
scadenza massima del termine dei 36 mesi, a condizione che la stipula avvenga
presso la Direzione Territoriale del Lavoro, con l’assistenza di un rappresentante
delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Le stesse organizzazioni sindacali stabiliscono con avvisi comuni la durata del
predetto ulteriore contratto.
45
Restano altresì in vigore le disposizioni derogatorie in materia di durata per le
attività stagionali indicate nel comma 4 ter dell’art. 5 sopra menzionato, nonché il
diritto di precedenza regolato dall’art. 5 commi 4 quater, 4 quinquies e 4 sexies del
D.Lgs 368/2001.
Apparentemente la riforma non modifica alcunché in materia di divieti di
apposizione del termine ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs 368/2001.
I divieti sono relativi alla sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di
sciopero, a unità produttive interessate da licenziamenti collettivi nei sei mesi
precedenti in relazione a lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il
contratto di lavoro a tempo determinato, salvo alcune eccezioni indicate dalla
norma e comunque salva diversa disposizione degli accordi sindacali.
Stesso divieto in caso di riduzione di orari con trattamento CIG (sempre per le
stesse mansioni) e per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei
rischi.
E’ probabile che il contenzioso si vada a concentrare su questo tipo di divieti che
ad oggi non risultano abrogati.
Resta altresì il limite di indennizzo previsto dall’art.. 4 bis nelle residue improbabili
ipotesi di violazione degli artt. 1, 2 e 4 (ad esempio mancanza di forma scritta,
adibizione ad altra attività del lavoratore in caso di proroga e violazione dei limiti
previsti per servizi aeroportuali, poste etc.).
Resta il principio di non discriminazione del trattamento di lavoratori a termine
rispetto a lavoratori a tempo indeterminato e l’obbligo di formazione sui rischi.
Non sono state abrogate le disposizioni sui criteri di computo dei lavoratori a
tempo determinato (art. 8 D.Lgs 368/2001), gli obblighi di informazione ai
46
lavoratori a tempo determinato previsti dall’art. 9 e le esclusioni contenute nell’art.
10, ulteriori rispetto a quelle del comma 7 sui limiti quantitativi, già esaminate.
Tuttavia questa normativa dovrà essere rivista, perché vi sono comunque delle
incongruenze.
Un’ultima annotazione può essere fatta in tema di contratto a termine nel pubblico
impiego.
La disciplina del pubblico impiego (D.Lgs 165/2001) fa riferimento sempre a
esigenze di carattere temporaneo o eccezionale per procedere ad assunzioni
flessibili tra cui quella a tempo determinato.
Ciò è previsto dall’art 36 del D.Lgs 165/2001 che non risulta modificato.
È pertanto ipotizzabile che permanga il vasto contenzioso giudiziale in materia di
contratto a termine nel pubblico impiego.
°°°°°°°°°°°°°°°°°
La riforma ha notevole portata, e liberalizza in modo pressoché integrale il
contratto a termine, vista la possibilità di instaurare rapporti di lavoro a tempo
determinato senza causale per tutto il periodo massimo di durata del contratto a
termine. Sono messi completamente fuori gioco i contratti a termine causali. La
previsione di otto proroghe (molto criticata) consente anche di frazionare tale
periodo, cessando il rapporto ove il datore di lavoro non ritenga per qualsiasi
ragione di proseguirlo, valutando negativamente l’operato del proprio dipendente.
Una riforma così sconvolgente non poteva non suscitare reazioni di tipo opposto,
e così se per un verso si è affermato che sarà molto più facile avvicinare i giovani
alle imprese, che possono di fatto godere di un periodo di prova di ben 36 mesi,
altri stigmatizzano l’eccessiva precarietà che deriva soprattutto dal numero alto di
proroghe e che potrebbe indurre il datore di lavoro a sfruttare al massimo il
47
periodo di 36 mesi per poi passare ad utilizzare altri lavoratori sempre con
contratti a termine.
In effetti l’obiezione potrebbe essere pertinente, ma presuppone che il datore di
lavoro non sia interessato a formare manodopera che nel lungo periodo apporti un
fattivo contributo alla crescita dell’impresa.
Ricorrendo continuamente a contratti a termine l’impresa rischia di non avere mai
personale di esperienza, tale da garantire i migliori risultati possibili in mercati
sempre più competitivi.
Occorre comunque ricordare anche che dal 1° gennaio 2013 ai rapporti di lavoro
subordinato non a tempo indeterminato si applica un contributo addizionale, a
carico del datore del lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini
previdenziali.
Il contributo addizionale non si applica in caso di sostituzione di lavoratori assenti,
per lo svolgimento di attività stagionali e per altre ipotesi individuate (sino al
31/12/2015) dalla contrattazione collettiva. Non si applica altresì agli apprendisti e
ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di un contributo che viene restituito in caso di trasformazione del rapporto
a tempo indeterminato (anche con nuova assunzione nei sei mesi successivi alla
cessazione del contratto a termine).
Indubbiamente può costituire un disincentivo rispetto all’uso di contratti a termine,
ma poiché non ha disincentivato per nulla già prima della riforma Renzi, si può
pensare che non produrrà alcun effetto restrittivo rispetto all’utilizzazione così
ampia e libera del contratto a tempo determinato.
5)IL DISTACCO.
48
In materia di distacco il D.L. 76/2013, ed in particolare la legge di conversione
9/8/2013 n. 99, è intervenuta aggiungendo all’art. 30 del D.Lgs 276/2003, già
modificato dalla legge Fornero, il comma 4 ter.
L’art. 30 del D.Lgs 276/2003 prevede che il distacco si configuri quando un datore
di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più
lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata
attività lavorativa.
Il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a
favore del lavoratore.
Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso
del lavoratore e quando comporta un trasferimento ad una unità produttiva sita a
più di 50 chilometri da quella a cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire
soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
Qualora il distacco sia avvenuto in violazione del primo comma dell’art.30, e
quindi senza un interesse temporaneo del datore di lavoro, il lavoratore può
chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro con il solo utilizzatore, citando in
giudizio lo stesso.
Perché il distacco possa avvenire deve esserci quindi un effettivo interesse
dell’impresa distaccante e quindi un interesse finalizzato a soddisfare esigenze
produttive e/o organizzative di quest’ultima impresa.
La riforma Giovannini al comma 4 ter ha previsto che “qualora il distacco di
personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di
impresa che abbia validità ai sensi del D.L 10/2/2009 n. 5, convertito con
modificazioni dalla legge 9/4/2009 n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge
automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di
49
mobilità dei lavoratori previste dall’art. 2103 c.c.. Inoltre per le stesse imprese è
ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il
contratto di rete stesso.”
L’articolo 4 ter del D.L. 5/2009 a sua volta stabilisce che mediante il contratto di
reti le parti “si obbligano sulla base di un programma comune di rete, a
collaborare in forme e ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie
imprese, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale,
commerciale, tecnica o tecnologica, ovvero ancora ad esercitare in comune una o
più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa. In questo modo si accresce
la competitività delle imprese stesse aderenti alla rete”.
In questi casi il distacco di personale nell’ambito di contratto di rete tra imprese
che fanno parte della rete stessa, è legittimo in quanto si presume sussistente
l’interesse del distaccante proprio in ragione dei rapporti contrattuali delle imprese
che fanno parte della rete.
Si è osservato che in tal modo “la causa del contratto di rete sostanzialmente
integra la causa del negozio di distacco” (così D. Venturi, in Tiraboschi, op. cit. p.
205).
Vi è da dire che la previsione riguarda esclusivamente i contratti di rete e non può
quindi applicarsi a consorzi o ATI (Associazioni Temporanee di Imprese) rispetto a
cui opererà la più generale previsione dell’art. 30 e quindi dovrà essere dimostrato
l’interesse in concreto del distaccante.
Per quanto non disposto si applicano comunque tutte le previsioni dell’art. 30.
Appare di significativa importanza la previsione di una ipotesi di codatorialità per
le imprese collegate da un contratto di rete, che possono assumere
congiuntamente uno o più lavoratori.
50
Naturalmente restano problematici gli aspetti attuativi di questa previsione, in
particolare quelli relativi all’esercizio dei poteri datoriali e agli obblighi contributivi.
In effetti la norma rinvia per la disciplina del rapporto a regole stabilite attraverso il
contratto di rete stesso.
La disciplina è troppo vaga, anche perché si pongono tutta una serie di problemi
collegati alla solidarietà delle imprese in rete.
Sul tema sono stati introdotti anche i commi da 3 bis a 3 quinquies in coda all’art.
31 del D.Lgs 276/2003 (v. art. 9 comma 11 D.L. 76/2013).
Anche in questi casi si prevede un’ipotesi di codatorialità per le imprese agricole,
anche cooperative, appartenenti allo stesso gruppo, riconducibili ad un medesimo
proprietario o comunque a soggetti legali da vincoli di parentela o affinità entro il
terzo grado, che possono procedere congiuntamente all’assunzione di lavoratori
dipendenti per la prestazione di attività lavorative presso le relative aziende.
La stessa norma prevede che l’assunzione in regime codatoriale, che può essere
effettuata anche da imprese legate da un contratto di rete, purché almeno il 50%
di esse siano agricole, implica la responsabilità solidale dei datori di lavoro per le
obbligazioni contrattuali, previdenziali e di legge, affidando al Ministero del lavoro
il compito di definire le modalità con le quali procedere alle assunzioni congiunte.
Si tratta di una materia nuova e nello stesso tempo complessa che a mio avviso
pone notevoli problemi sia nella gestione del rapporto (potere direttivo etc.) sia
nell’apertura di posizioni contributive e nell’adempimento dei relativi obblighi.
Solo il tempo, e i successivi interventi anche regolamentari, diranno se l’istituto
riscuoterà successo e se aprirà nuove prospettive al di fuori delle ipotesi per ora
previste.
6)IL LAVORO INTERMITTENTE.
51
L’articolo 7 comma 2 lettera a) del D.L. 76/2013 interviene sulla disciplina dei limiti
temporali del lavoro intermittente.
In particolare introduce il comma 2 bis all’art. 34 del D.Lgs 276/2003, per cui, fermi
restando i requisiti soggettivi e oggettivi di instaurazione del rapporto intermittente,
potrà essere utilizzato l’istituto per un periodo complessivamente non superiore
alle 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari.
Superato tale limite il rapporto di trasforma a tempo pieno e indeterminato.
Il limite delle 400 giornate si applica al singolo rapporto di lavoro con il medesimo
datore di lavoro e non a tutti quelli intrattenuti dalla stessa persona presso aziende
differenti.
E’ stata poi introdotta una eccezione al limite delle 400 giornate nei settori del
turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.
Vengono computate le giornate di effettivo lavoro successivo all’entrata in vigore
del decreto legge (28/6/2013), senza tener conto del momento in cui le parti
hanno sottoscritto il contratto, che può essere anche anteriore.
Per il resto resta invariata la disciplina del lavoro intermittente, così come
modificata dalla legge Fornero, che brevemente riporto.
Il lavoro intermittente, disciplinato in un primo tempo dal D.Lgs 276/03, poi
abrogato dall’art. 1 comma 45 della legge 247/2007 e reintrodotto dal D.L. 112/08,
è un rapporto di lavoro subordinato che si caratterizza per prestazioni di carattere
discontinuo o intermittente con limiti individuati dalla stessa legge.
La Legge Fornero è intervenuta sulla materia all’art. 1 commi 21 e 22 cui ha fatto
seguito la Circolare Ministeriale n. 20/2012 dell’1/8/2012 (oltre ad altri interventi
ministeriali minori).
52
Il contratto può essere sia a tempo determinato che indeterminato e si caratterizza
per intervalli tra le varie prestazioni.
E’ possibile far ricorso a questo tipo di contratto secondo quanto previsto dall’art.
34 commi 1 e 2 del D. Lgs 276/03:
1) Per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo e saltuario
secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da
associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentativi sul piano nazionale o territoriale, ovvero per periodi
predeterminati nell’arco della settimana del mese o dell’anno.
2) Con soggetti con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di
età fermo restando in questo caso che le prestazioni contrattuali devono
essere svolte entro il 25° anno di età.
La previsione del secondo comma è stata inserita dalla Legge Fornero ed ha
sostituito il disposto precedente che prevedeva la possibilità di concludere contratti
intermittenti con soggetti con meno di 25 anni di età o con lavoratori con più di 45
anni di età anche pensionati.
Nella circolare Ministeriale si fa presente che, ove la contrattazione collettiva non
regoli il lavoro intermittente nelle ipotesi previste dal punto 1, è possibile ricorrervi
in base quanto disposto dal D.M. 23/10/2004 in relazione ad attività elencate in
una tabella approvata con Regio Decreto 2657/23.
La Legge Fornero ha abrogato l’art. 37 del D.Lgs 276/03 che consentiva di far
ricorso al lavoro a chiamata durante fine settimana, ferie estive, vacanze natalizie
o
pasquali,
nonché
nell’ambito
di
ulteriori
contrattazione collettiva nazionale o territoriale.
53
periodi
predeterminati
dalla
La circolare ritiene che i periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese
o dell’anno, menzionati al comma 1 dell’art. 1 del D. Lgs 276/2003, debbano
essere anch’essi demandati alla contrattazione collettiva.
Restano salvi i divieti di ricorso al lavoro intermittente per sostituzione di lavoratori
che esercitano il diritto di sciopero, ove il rapporto di lavoro intermittente sia
attivato presso unità produttive nelle quali si sia provveduto entro i sei mesi
precedenti a licenziamenti collettivi, sospensione dei rapporti o riduzione
dell’orario con diritto al trattamento di integrazione salariale, per i lavoratori adibiti
alle medesime mansioni, salvo che non vi siano diverse disposizioni previste da
accordi sindacali.
Infine permane il divieto di lavoro intermittente in caso di mancata valutazione dei
rischi o sua rivalutazione.
Il contratto intermittente o a chiamata può prevedere una indennità di disponibilità
se il lavoratore assume l’obbligo di risposta alla chiamata, nel rispetto del termine
di preavviso non inferiore a un giorno lavorativo.
In questo caso il datore è tenuto a corrispondere una indennità economica di
disponibilità.
La misura dell’indennità è stabilita dalla contrattazione collettiva o, in sua assenza,
dal DM 10/3/2004 che la prevede in misura non inferiore al 20% della retribuzione.
La legge Fornero ha abrogato l’art. 37 sulla chiamata nei fine settimana e in altri
periodi festivi e quindi anche quella disposizione per cui nei periodi predeterminati
l’indennità di disponibilità era corrisposta al prestatore di lavoro solo in caso di
effettiva chiamata dal datore di lavoro.
Quindi oggi, per i periodi predeterminati, l’indennità di disponibilità è sempre
dovuta.
54
Vi è stato un intervento della legge Fornero anche in materia di obblighi di
comunicazione.
In particolare all’art. 35 del D.Lgs 276/03 è stato aggiunto il comma 3 bis che
prevede che prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di
prestazioni non superiori a 30 giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicare la
durata con modalità semplificate alla Direzione Territoriale del Lavoro competente
per territorio mediante SMS o posta elettronica.
Il Ministero può individuare ulteriori modalità applicative e di comunicazione in
funzione dello sviluppo tecnologico.
In caso di violazione di questi obblighi vi è una sanzione amministrativa da 400,00
a 2.400,00 euro in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la
comunicazione, e si tratta di sanzione non diffidabile.
La comunicazione, anche se effettuata lo stesso giorno in cui viene resa la
prestazione lavorativa, dovrà intervenire prima dell’inizio della stessa.
La comunicazione può essere inoltre modificata o annullata attraverso l’invio di
una successiva comunicazione di rettifica da inviare sempre prima dell’inizio della
prestazione o comunque, nel caso in cui il lavoratore non si presenti, entro le 48
ore successive al giorno in cui la prestazione doveva essere resa.
Se non si rispettano gli obblighi sulla rettifica decorreranno gli obblighi retributivi e
contributivi.
Secondo la circolare ministeriale i 30 giorni relativi al ciclo integrato di prestazioni
di durata non superiore per l’appunto ai 30 giorni, possono essere considerati
quali giorni di chiamata di ciascun lavoratore e non più come arco temporale
massimo all’interno del quale individuare i periodi di attività dello stesso.
55
Secondo la circolare possono pertanto essere effettuate comunicazioni che
prendano in considerazione archi temporali molto ampi, purché i periodi di
prestazione all’interno di tali archi temporali non superino i 30 giorni.
La legge Fornero poi prevede al comma 22 un regime transitorio, disponendo che
i contratti di lavoro a chiamata stipulati prima del 18/7/2012 che non sia compatibili
con l’attuale quadro normativo, cessano di produrre effetti decorsi 12 mesi
dall’entrata in vigore della riforma.
I vecchi contratti potevano operare pertanto sino al 18/7/2013, qualora fossero
stati stipulati sulla base delle precedenti causali (diversi limiti di età, nonché
prestazioni durante il fine settimana etc.).
Nel caso non sussistano le condizioni che legittimano la stipulazione del contratto,
i rapporti di lavoro saranno considerati a tempo pieno e indeterminato, sulla base
di quanto disposto dal Ministero.
In materia di lavoro intermittente la circolare n. 20 del Ministero è stata affiancata
da una precedente circolare 18 del 18/7/2012 e da una serie di comunicazioni in
data 1/8/2012, 9/8/2012, 14/9/2012, 12/10/2012 e 26/11/2012 riguardanti
soprattutto le modalità della comunicazione.
7)IL LAVORO A PROGETTO.
Nell’ambito della riforma Giovannini vi è stato anche un intervento in materia di
lavoro a progetto.
La materia era già stata oggetto di importanti modifiche nell’ambito della legge
Fornero.
Per avere un quadro complessivo delle problematiche connesse a questa tipologia
contrattuale, è opportuno ripercorrere gli interventi realizzati dalla legge 92/2012
per poi mettere a fuoco le novità introdotte nel decreto Giovannini.
56
7A)Le scelte del legislatore del 2012.
In un quadro tendenzialmente immutato dal 2003 alla fine del 2011 il legislatore
del 2012 ha fatto una scelta chiara: ridurre drasticamente le possibilità di ricorrere
al lavoro a progetto ritenuto un ostacolo all’instaurazione di rapporti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, rendendone più rigida la disciplina.
A livello amministrativo la rigidità si è ancor più accentuata con una interpretazione
restrittiva della legge, già fortemente penalizzante il lavoro a progetto (v. circolare
29/2012 Min. Lav.).
È stato rilevato come il linea di massima la legge 92/20012 abbia confermato i
caratteri strutturali del contratto di lavoro a progetto indicati nel D.Lgs. 276/2003
nonostante si sia modificata la descrizione del contenuto tipico dello schema
negoziale (Pinto, “Prime chiose sulla nuova disciplina delle collaborazione a
progetto”, WOCSDLE, “Massimo D’Antona”.it-151 2012, pag. 5).
In effetti il legislatore, pur lasciando inalterata la struttura, ha ricondotto le
collaborazioni coordinate ad uno o più specifici progetti eliminando il riferimento ai
programmi di lavoro o fasi di esse.
La distinzione tra progetto, programma e fase non era mai stata delineata in modo
definitivo e chiaro dalla dottrina e giurisprudenza e spesso in giurisprudenza i
termini si ritenevano fungibili (Trib. Milano, 3/11/2010, L.G. 2011, 601), anche se
in verità dal punto di vista letterale fungibili non appaiono.
Oggi, dopo la legge Fornero, resta solo il progetto, di cui peraltro è stato
evidenziato come non sia stata fornita una nozione esplicita (Pinto, op. cit., 5).
Pur non definendo il progetto (e forse sarebbe obiettivamente difficile dare una
definizione plausibile) la legge 92/2012 ha precisato che deve essere
funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale e non può consistere in
57
una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente, avuto riguardo al
coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal
tempo impiegato e per l’esecuzione dell’attività lavorativa.
Si precisa ancora che il progetto non può comportare l’esecuzione di compiti
meramente esecutivi o ripetitivi (sulla “O” è intervenuta, come vedremo, la legge
Giovannini) e questo tipo di attività, escluse dal progetto, possono essere
individuate dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più
rappresentativi.
La legge recepisce gli orientamenti giurisprudenziali intervenuti in materia, che
hanno ribadito la necessaria specificità del progetto e il fatto che non potesse
limitarsi a riprodurre l’oggetto sociale (Trib. Torino, 5/4/2005).
Nel tentativo di dare un contenuto identificabile alla nozione di progetto si è
sostenuto che “debba essere inteso come chiarificazione di un’attività in vista
della produzione di un’opera o della realizzazione di un servizio destinati, in
entrambi i casi, ad essere funzionalmente integrati nell’organizzazione del
committente”. (Pinto, op. cit., 6).
In questa prospettiva “l’individuazione e la pianificazione di un’attività distinta
rispetto a quella giuridicamente riferibile al committente è la condizione essenziale
che legittima quest’ultimo a sottoscrivere questo contratto e, in definitiva, a
ricevere una collaborazione coordinata e continuativa. Il progetto, in questa
prospettiva individua indirettamente quell’interesse produttivo del creditore che,
proprio in quanto temporalmente circoscritto, giustifica il ricorso al contratto a
progetto” (Pinto, op. cit., 6).
Cercando di definire il progetto si è provato a mettere insieme la sua natura
unilaterale, in quanto proveniente dal committente, che individua “il risultato finale”
58
del progetto e la definizione consensuale propria del contratto attraverso cui
vengono definite le modalità di coordinamento tra il collaboratore a progetto e il
committente.
Secondo altri, viceversa, oggetto del contratto non è il progetto ma la prestazione
individuata nel contratto stesso ossia la prestazione d’opera o di servizio,
organizzata e realizzata dal prestatore, in funzione di un progetto aziendale
determinato e definito dal committente. (Perulli, in GDRLI, 2006, n. 2, secondo cui
lavorare a progetto non è di per sé una attività resa senza vicolo di
subordinazione).
Per questa opinione il progetto non è oggetto del contratto come invece ritenuto
dall’opinione maggioritaria.
La sottrazione di compiti meramente esecutivi e ripetitivi al contratto a progetto
tende ad evitare l’utilizzazione abusiva dell’istituto per mascherare un rapporto di
lavoro subordinato.
Vi è stato chi ha criticato questa impostazione perché il datore di lavoro dovrebbe
avere interesse all’esecuzione di un’opera o di un servizio destinati ad essere
funzionalmente integrati nella propria organizzazione ed allora la collaborazione
non subordinata resta tale anche se alcune operazione possono essere ripetitive o
di esiguo contenuto professionale (Pinto, op. cit., 9).
7B)La circolare ministeriale 29/2012.
Il Ministero del Lavoro con la circolare 29 dell’11/12/2012 ha valutato in modo
molto restrittivo i requisiti del progetto, con ciò ponendosi in contrasto con
l’approccio della precedente circolare dell’8 gennaio 2004 n. 1.
Nella circolare viene sottolineato come il progetto deve essere funzionalmente
collegato ad un determinato risultato finale, tant’è che in relazione alla forma oggi
59
è richiesta la descrizione del progetto, mentre in precedenza si parlava di
“indicazione del progetto” e nel descriverlo va individuato il contenuto
caratterizzante e il risultato finale che si intende conseguire.
La circolare enfatizza pertanto il ruolo del risultato finale inteso “quale
modificazione della realtà materiale che il collaboratore si impegna a realizzazione
in un determinato arco temporale” (ad es. sviluppo di uno specifico software e non
l’attività ordinariamente necessaria ai fini della sua gestione; ideazione di una
specifica scenografia per una rappresentazione di uno spettacolo teatrale e non
mero allestimento di un palco).
Proseguendo la circolare sottolinea come il progetto non può coincidere con
l’oggetto
sociale
del
committente,
richiamando
giurisprudenza
che,
pur
ammettendo che il progetto può rientrare nel normale ciclo produttivo dell’impresa,
precisa che deve distinguersi dall’attività principale stessa senza confondersi con
essa (Trib. Milano, 18/7/2011).
Insomma il progetto può rientrare pienamente nel ciclo produttivo dell’impresa ma
deve caratterizzarsi da un’autonomia di contenuti e obiettivi.
Nella circolare si fa ancora l’esempio di un’azienda di software, ritenendo possibile
un progetto avente ad oggetto la creazione di un software per la rilevazione di dati
per finalità statistiche o per finalità di ricerca, ma non ammettendo un’attività
generica di creazione di software per la clientela che andrebbe comunque a
confluire nell’oggetto sociale.
Significativa l’interpretazione che dà del divieto di compiti esecutivi o ripetitivi
(prima della riforma Giovannini).
Sono compiti meramente esecutivi quelli “caratterizzati dalla “mera attuazione” di
quanto impartito anche di volta in volta dal committente senza alcun margine di
60
autonomia anche operativa da parte dell’operatore”; in questi casi al collaboratore
non resta alcuna possibilità di autodeterminazione nelle modalità esecutive
dell’attività.
La circolare identifica poi i compiti meramente ripetitivi che per la legge Fornero
non potevano essere oggetto di contratto a progetto come quelli meramente
esecutivi (la legge usava allora il disgiuntivo “o” poi trasformato in “e” dopo la
riforma Giovannini).
Si tratta, per il Ministero, di attività rispetto alle quali non è necessaria alcuna
indicazione da parte del committente in quanto elementari.
Al collaboratore devono essere lasciati margini di autonomia, anche operativa,
nello svolgimento di compiti ad esso assegnati.
La circolare invita quindi gli Ispettori del Lavoro a considerare invalidi contratti a
progetto che in realtà mascherano sempre attività di lavoro subordinato indicando i
relativi profili che si riportano:
-
addetti alla distribuzione di bollette o alla consegna di giornali, riviste o
elenchi telefonici;
-
addetti alle agenzie ippiche;
-
addetti alle pulizie;
-
autisti e autotrasportatori;
-
baristi e camerieri;
-
commessi e addetti alle vendite;
-
custodi e portieri;
-
estetiste e parrucchieri;
-
facchini;
-
istruttori di autoscuola;
61
-
letturisti di contatori;
-
magazzinieri;
-
manutentori;
-
muratori e qualifiche operarie dell’edilizia;
-
piloti e assistenti di volo;
-
prestatori di manodopera nel settore agricolo;
-
addetti all’attività di segreteria e terminalisti;
-
addetti alla somministrazione di cibi o bevande;
-
prestazioni rese nell’ambito di call center per servizi c.d. in bound.
Il Ministero quindi esclude, per una serie ampia di attività, la possibilità di
concludere contratti di lavoro a progetto e vi è da ricordare che all’interno vi sono
anche commessi e addetti alle vendite oltre che addetti a bar e più in generale alla
ristorazione.
La
circolare
vincola
l’attività
ispettiva
e
non
costituisce
naturalmente
interpretazione vincolante per il Giudice; tuttavia ogni qual volta sia stato concluso
un contatto a progetto per questo tipo di mansioni gli Ispettori procederanno
senz’altro ad annullare il contratto, ritenendo sussistente un rapporto di lavoro
subordinato, e procedendo quindi all’irrogazione di sanzioni e al recupero dei
contributi.
Naturalmente ciò non impedirà al datore di lavoro di difendersi in sede giudiziale
ma, considerando la stretta imposta dall’intervento legislativo, la conclusione di
contratti a progetto dovrà essere valutata con estrema prudenza.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
L’intervento legislativo disciplina il corrispettivo del lavoro a progetto precisando
che “……deve essere proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro eseguito
62
e, in relazione a ciò nonché alla particolare natura della prestazione e del
contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo
specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili
tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo
alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi
sottoscritti dalla organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro,
comparativamente
più
rappresentative
sul
piano
nazionale
a
livello
interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, a livelli decentrati”.
La norma prosegue prevedendo che in assenza di contrattazione collettiva
specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale
dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzione minime previste dai contratti
collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure
professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello di
collaboratore a progetto.
La circolare sottolinea la novità della previsione legislativa, che in pratica porta ad
applicare a questo tipo di contratto i principi stabiliti dall’art. 36 Cost. ed evidenza
come il riferimento sia alle retribuzioni minime tabellari determinate dai contratti
collettivi di categoria e non al complesso di voci eventualmente previsti da tali
contratti.
In ogni caso ai fini contributivi la circolare precisa che l’assoggettamento è
collegato alle somme effettivamente erogate, a prescindere ad una valutazione di
congruità delle stesse.
7C)Le sanzioni e le presunzioni legali.
La legge aggiunge al comma 2 dell’art. 69 un ulteriore periodo prevedendo che
“salvo prova contraria a carico del committente, i rapporti di collaborazione
63
coordinata e continuativa, anche a progetto, sono considerati rapporti di lavoro
subordinato sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l’attività del
collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori
dipendenti dell’impresa committente, fatte salve le prestazioni di elevata
professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni
sindacali
comparativamente
più
rappresentative
sul
piano
nazionale”.
Si prevede poi, con norma di interpretazione autentica, che l’art. 69 comma 1 del
D.Lgs. 276/2003 debba essere interpretato nel senso che l’individuazione di uno
specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità di un rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la
costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
In relazione a quest’ultima previsione viene così superata la divisione tra chi
riteneva si trattasse di una presunzione assoluta e chi invece pensava fosse
relativa, con possibilità per il datore di lavoro di provare che il rapporto era
comunque autonomo.
La mancanza di specificità del progetto determina la trasformazione automatica
del rapporto.
Secondo la circolare ministeriale è possibile ritenere “assente il progetto” “qualora
lo stesso sia carente dei requisiti indicati (collegamento ad un determinato
risultato finale, autonoma identificabilità nell’ambito dell’oggetto sociale del
committente, non coincidenza con l’oggetto sociale del committente, svolgimento
di compiti non meramente esecutivi o ripetitivi)”.
64
È quindi evidente che, viste anche le indicazioni ministeriali, sostanzialmente
qualsiasi carenza nel progetto determinerà la trasformazione dello stesso in
lavoro subordinato.
Viceversa quando il progetto c’è ed ha i requisiti previsti, ma la prestazione si sia
svolta con modalità analoghe a quella dei lavoratori subordinati si ha una
presunzione relativa di subordinazione, suscettibile di prova contraria da parte
del committente, il quale potrà dimostrare in giudizio la genuinità della
collaborazione autonoma.
Non si rinviene la subordinazione in caso di prestazioni di elevata professionalità
che dovrebbero essere individuate dalla contrattazione collettiva.
7D) Il recesso.
La Legge Fornero ha innovato anche in materia di recesso, escludendo che
questo possa essere previsto dal contratto liberamente, senza una specifica
causale, prima della scadenza del termine.
È stato così sostituito l’art. 67 comma 2 del D.Lgs. 276/2003 prevedendosi che “le
parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa. Il
committente può altresì recedere prima della scadenza del termine qualora siano
emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere
impossibile la realizzazione del progetto. Il collaboratore può recedere prima della
scadenza del termine, dandone preavviso, nel caso in cui tale facoltà sia prevista
nel contratto individuale di lavoro”.
Appare ragionevole che il committente possa recedere solo in presenza di
determinate causali, mentre il lavoratore possa farlo liberamente se ciò è previsto
dal contratto.
65
Naturalmente potrà discutersi che cosa si intende per giusta causa rispetto
all’ipotesi in cui emergano oggettivi profili di inidoneità professionale del lavoratore
che rendano impossibile la realizzazione del progetto.
Mi sembra che le previsioni siano difficilmente distinguibili perché questi ultimi
elementi vanno a confluire nella giusta causa.
7E)Entrata in vigore.
Tutte le novità introdotte fin dalla legge Fornero trovano applicazione per i contratti
di collaborazione stipulati successivamente al 18 luglio 2012.
7F)Gli interventi del decreto Giovannini.
Con la riforma Fornero l’art. 61 comma 1 del D.Lgs 276/2003 era stato modificato
prevedendosi che il progetto non può comportare lo svolgimento di “compiti
meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti
collettivi
stipulati
dalle
organizzazioni
sindacali
comparativamente
più
rappresentative sul piano nazionale”.
Con il decreto “Giovannini” e la relativa legge di conversione, la disgiunzione “o” è
stata sostituita con la congiunzione “e”, per cui, mentre in precedenze si faceva
riferimento a compiti meramente esecutivi o ripetitivi, oggi si richiamano compiti
meramente esecutivi e ripetitivi; pertanto, perché il contratto a progetto sia
dichiarato illegittimo, devono sussistere sia la mera esecutività sia la ripetitività dei
compiti, mentre in precedenza, anche secondo le circolari ministeriali, era
sufficiente uno dei due requisiti perché il contratto fosse dichiarato illegittimo.
Sul concetto di esecutività e ripetitività si è già detto poc’anzi illustrando la
circolare Ministeriale 29/2012.
Ricordo
solo
che
l’esecutività
esclude
qualsiasi
margine
di
autonomia
nell’esecuzione della prestazione, mentre la ripetitività esclude la necessità di
66
qualsiasi indicazione da parte del committente e fa riferimento ad attività
elementari.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Altro intervento nel decreto è quello relativo alla forma scritta richiamata all’art. 62
del D.Lgs del 10/9/2003 n. 276.
La norma di legge richiamava la forma scritta ai fini della prova.
Al di là delle questioni già esaminate in ordine al rapporto tra prova e presunzione
del lavoro subordinato in assenza del progetto, la riforma Giovannini ha soppresso
le parole “ai fini della prova”, per cui oggi la forma scritta è un requisito ad
substantiam dell’esistenza del rapporto e non solo ad probationem.
Senza l’atto scritto il contratto a progetto è sempre nullo.
Inoltre, stando alla lettera della legge, tutti gli elementi costitutivi del contratto a
progetto devono essere esplicitati per iscritto.
Tuttavia, mentre è certo che in caso di mancanza di progetto scritto si ha la
conversione del rapporto, dal momento che l’art. 69 comma 1 come modificato
dalla riforma Fornero prevede una presunzione assoluta di subordinazione, la
problematica è più aperta per quanto attiene altri elementi del contratto (ad
esempio durata non indicata direttamente oppure mancato riferimento all’attività di
coordinamento del committente).
Vi è da considerare che la durata potrebbe ricavarsi anche da elementi indiretti, e
quindi essere determinabile, pur non essendo direttamente prevista nel progetto.
E’ quindi difficile far derivare dalla mancata espressa indicazione della durata
sempre e comunque la conversione in rapporto di lavoro subordinato.
Lo stesso dicasi per il mancato riferimento alle modalità di coordinamento così
come per la mancata determinazione del corrispettivo o dei suoi criteri. Oggi, in
67
questi casi, sin dalla legge Fornero l’art. 63 del D.lgs 276/2003 prevede una
riparametrazione del compenso del collaboratore a progetto ai minimi tabellari
della contrattazione collettiva di riferimento del settore o, in mancanza, di altro
analogo.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Un terzo intervento del decreto si ha in materia di risoluzione del rapporto.
Il rapporto a progetto normalmente cessa:
-
al momento della realizzazione del progetto;
-
in presenza di una giusta causa;
-
qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del
collaboratore, tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto;
-
per volontà del collaboratore dando preavviso, quando tale facoltà sia
prevista nel contratto individuale;
-
per volontà del committente, dopo una sospensione per malattia o
infortunio di 30 o più giorni;
-
per mutuo consenso delle parti.
Il legislatore è intervenuto in materia di dimissioni del collaboratore o di risoluzione
consensuale, estendendo le garanzie già previste dalla riforma Fornero sia per la
lavoratrice in gravidanza, sia più in generale in tutte le ipotesi di dimissioni del
lavoratore.
In tale prospettiva si è introdotto il comma 23 bis all’art. 4 della Riforma Fornero,
che prevede espressamente l’estensione della applicazione dei commi precedenti
(da 16 a 23) al contratto a progetto.
Riassumendo, a seguito della riforma:
68
1) il committente che riceve i recesso o concorda la risoluzione consensuale
ha l’obbligo di invitare il collaboratore a convalidarlo presso le sedi
istituzionali a ciò abilitate, e quindi Centro per l’Impiego, Direzione
Territoriale del Lavoro, sedi individuate dai contratti collettivi. In alternativa
può invitare il collaboratore a confermare le dimissioni presso lo stesso
committente attraverso la sottoscrizione della ricevuta rilasciata dal Centro
per l’Impiego all’atto della comunicazione della cessazione. In caso di
inadempimento il recesso o la risoluzione consensuale si considerano prive
di effetto.
2) Sussiste inoltre l’obbligo di convalidare il recesso, o la risoluzione
consensuale, davanti a un ispettore della Direzione Territoriale del Lavoro,
quando il collaboratore si trovi in stato di gravidanza, o nei primi tre anni di
vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del bambino adottato o
in affidamento. Le stesse tutele si applicano anche al padre collaboratore
con l’ovvia eccezione relativa al periodo di gravidanza.
3) Se il collaboratore non risponde all’invito alla convalida entro sette giorni dal
relativo ricevimento, il contratto di collaborazione si intende risolto decorsi
inutilmente sette giorni.
4) Il collaboratore può revocare il recesso o la risoluzione consensuale entro
sette giorni dal ricevimento dell’invito alla convalida.
5) L’abuso del foglio firmato in bianco dal collaboratore al fine di simulare le
dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto, è punito con la
sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro, salvo che il fatto
costituisca reato.
69
In questo modo si è appesantita ulteriormente la disciplina del contratto a progetto
che dopo la Riforma Fornero ha già subito una drastica riduzione, essendo
diventato un contratto molto pericoloso per il committente.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Con la Riforma Giovannini viene introdotta una norma interpretativa (comma 2 bis)
secondo cui l’espressione “vendita diretta di beni e di servizi” contenuta nell’art 61
comma 1 del D.Lgs 10/9/2003 n. 276 si interpreta nel senso di ricomprendere sia
l’attività di vendita diretta di beni sia le attività di servizi.
Per meglio comprendere il senso dell’intervento legislativo è bene precisare che il
comma 1 dell’art. 61 si riferisce alla definizione e campo di applicazione del
contratto a progetto e inizia indicando alcune esclusioni con queste parole “ferma
restando la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio, nonché delle
attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center “out
bound” per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito
sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di
riferimento… i rapporti di collaborazione coordinata continuativa….. devono
essere riconducibili a uno o più progetti specifici….”.
Per i call center quindi, non si richiede il progetto se si tratta di attività di vendita
diretta o di beni o di servizi, mentre in precedenza qualcuno sosteneva che
dovesse trattarsi di un vendita congiunta di beni e di servizi.
Nello stesso senso della legge “Giovannini” si era espressa la Circolare
Ministeriale 2/4/2013 n. 14 sia la nota del Ministero del Lavoro del 12/7/2013.
Vi è da sottolineare che comunque in questi casi il corrispettivo deve essere
definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
70
Un ulteriore intervento si ha in materia di ricercatori scientifici prevedendosi che se
l’attività di ricerca viene ampliata per temi connessi o prorogata nel tempo il
progetto prosegue automaticamente (art. 61 comma 2 bis D.Lgs 276/2003
introdotto dall’art. 7 c bis della legge Giovannini).
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Infine, all’art. 9 comma 1 del D.Lgs Giovannini si prevede che le disposizioni in
materia di solidarietà negli appalti di opere o servizi di cui all’art. 29 coma 2 D.Lgs
276/2003, trovano applicazione anche in relazione ai compensi e agli obblighi di
natura previdenziale assicurativa nei confronti di lavoratori con contratto di lavoro
autonomo, e quindi anche al lavoro a progetto.
La norma prevede che non si applichi la solidarietà in relazione ai contratti di
appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni, e infine dispone che le
disposizioni dei contratti collettivi che possono andare in deroga all’obbligo di
solidarietà hanno effetto esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi e non
in riferimento ai contributi previdenziali e assicurativi, rispetto a cui resta stabilita la
solidarietà per legge.
8)VALUTAZIONI CONCLUSIVE.
Dovendo commentare unitariamente gli interventi legislativi del governo Letta (c.d.
mini riforma Giovannini) ed i primi atti del governo Renzi, si può misurare
immediatamente un peso specifico completamente diverso.
Da una parte (governo Letta) modeste integrazioni e modifiche, talvolta per
risolvere questioni interpretative conformemente alle circolari ministeriali, e un
timido tentativo di semplificazione e maggiore liberalizzazione.
Dall’altra (governo Renzi) un intervento certamente “rivoluzionario” piazzato come
un inaspettato colpo di ko in un incontro di pugilato.
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Le prime dichiarazioni del governo Renzi lasciavano supporre un disegno
complessivo di semplificazione del diritto del lavoro che passava attraverso
l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti.
L’idea era quella di un contratto a tempo indeterminato che per i primi tre anni
prevedesse la libertà di recesso (salvo forse modestissime indennità risarcitorie
incrementante con il passare del tempo), per poi giungersi alla integrale
applicazione delle garanzie previste contro il licenziamento ingiustificato.
L’idea piaceva soprattutto ai sindacati, perché valorizzava il contratto di lavoro a
tempo indeterminato e portava ad un drastico ridimensionamento del contratto a
tempo determinato, probabilmente previsto per le sole ipotesi sostitutive e
stagionali.
Il contratto unico a tutele crescenti si sarebbe inserito in una prospettiva di
semplificazione delle norme in materia di diritto del lavoro, con il nuovo codice del
lavoro.
La semplificazione e il codice del lavoro restano nei progetti del governo
attraverso un disegno di legge (probabilmente legge delega).
Non si riesce a comprendere se in questa riforma ci sarà posto per il contratto
unico a tutele crescenti, ma ciò che di fatto si è già realizzato è esattamente il
contrario di ciò che si pensava potesse accadere.
Il contratto a termine non è stato affatto ridimensionato, ma esaltato, e con
l’attuale disciplina è probabile che tenda a oscurare tutte le altre forme di ingresso
nel mondo del lavoro, ivi compreso il contratto di apprendistato, tanto amato a
parole, ma mai reso effettivamente appetibile.
Ho già rilevato come i vantaggi contributivi dell’apprendistato probabilmente non
basteranno a fermare l’ondata in piena dei contratti a termine privi di ogni causale.
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Il contratto a progetto dovrebbe a sua volta praticamente sparire, visti gli enormi
rischi.
E’ probabile che gli imprenditori apprezzino soprattutto la certezza di non andare
incontro ad un contenzioso devastante, considerandola prioritaria rispetto ai
vantaggi contributivi.
Può darsi che anche l’uso delle partite iva subisca un ridimensionamento,
soprattutto ai livelli più bassi di professionalità.
Non è da escludere che, ove la legge di conversione mantenga inalterate le
previsioni principali del decreto legge, sia sollevata da qualche giudice questione
pregiudiziale per contrasto con il diritto comunitario o questione di costituzionalità.
La direttiva comunitaria vieta ogni forma di discriminazione in ragione
dell’esistenza di contratti a tempo determinato e impone agli stati membri di
adottare norme che impediscano la reiterazione eccessiva nel tempo di contratti a
termine.
La normativa comunitaria non impedisce di per sé che sia eliminata la causale dal
contratto.
Tuttavia, il numero molto ampio di proroghe (8) in un arco temporale ampio (36
mesi), potrebbe far sorgere dubbi sostanziali sulla reiterazione eccessiva di
contratti a termine, anche se formalmente e tecnicamente la proroga non è un
nuovo contratto.
Si tratta di una questione aperta su cui è difficile avere oggi certezze assolute.
Vi è da dire che il limite del 20% dell’organico complessivo costituisce comunque
un argine rispetto ad un eccessivo ricorso ai contratti a termine, pur essendo
derogabile dalla contrattazione collettiva.
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Infine resta la considerazione cui ho già accennato in precedenza, e in particolare
se esista un rischio che le imprese modellino la propria organizzazione aziendale
sui contratti a termine, assumendo nuovo personale una volta raggiunto il tetto
massimo.
Sarei portato a pensare che la crescente domanda di lavoratori specializzati e
l’innalzamento del livello qualitativo delle produzioni, spinga le imprese ad
investire sulla formazione del personale, per poter ricavare prestazioni adeguate
ad un livello di competitività sempre più alto.
Ciò dovrebbe portare, in una prospettiva più o meno lunga, all’instaurazione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
In caso contrario, al di là dell’euforia momentanea per la facilità di assunzione a
tempo determinato, il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto, in quanto
imprese che non hanno bisogno di un alto tasso di esperienza, specializzazione e
fidelizzazione, probabilmente si collocano su una fascia bassa di mercato,
facilmente sostituibile con prodotti provenienti da paesi emergenti a più basso
costo, con un progressivo inevitabile declino dell’intero sistema produttivo.
Tuttavia occorre considerare che comunque esistono ed esisteranno imprese che
realizzano prodotti o servizi di non elevato livello specialistico e che anche
all’interno di imprese di alto livello tecnologico esistono mansioni più semplici,
facilmente intercambiabili.
In tutti questi casi potrebbe essere forte la tentazione di un uso costante del
contratto a tempo determinato.
Non credo vi sia da attendersi un effetto immediato del decreto legge sui livelli
occupazionali, dal momento che tutti gli osservatori concordano sia sul fatto che le
misure in materia di diritto del lavoro da sole non possono incrementare
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l’occupazione, sia sulla necessità del decorso di un ragionevole periodo di tempo
prima di poter misurare il grado di efficacia di determinate norme.
Carrara, 27 marzo 2014
Avv. Riccardo Diamanti
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LE NOVITA` LEGISLATIVE INTRODOTTE DALLA RIFORMA