anno IV
numero 34
febbraio 2007
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“I have a dream” è una delle frasi più celebri della storia. È di Martin Luther King, famoso attivista nella lunga lotta per
l’affermazione dei diritti del popolo afro-americano. Accanto a lui, leader della resistenza non violenta, c’erano le
pantere nere che scelsero la strada dell’autodifesa e chi alle parole e all’azione preferì la musica.
La musica era per i neri una grande opportunità per emanciparsi, per riscattarsi e poter realizzare il proprio sogno. Così
come racconta il film a cui abbiamo dedicato la copertina: Dreamgirls, appunto. Sogni in celluloide, vite raccontate
dalla pellicola e musiche capaci di raccontare una storia, di amplificarne le emozioni. Di questo abbiamo deciso
di parlare nelle prossime pagine: di film e delle loro colonne sonore. Suggestionati dall’Oscar alla carriera a Ennio
Morricone, innamorati di Beyoncé nei panni di Diana Ross in Dreamgirls, trepidanti nell’attesa del nuovo film di Dario
Argento. E proprio l’alter ego musicale di quest’ultimo abbiamo intervistato: Claudio Simonetti, autore di celebri colonne
sonore. Insieme a lui, ospite di Coolclub.it, Francesco Cerasi giovane autore pugliese presto nelle sale con la colonna
sonora del nuovo film di Ernrico Cappuccio con Fabio Volo. In questo primo numero del 2007, tornano le nostre rubriche
di sempre con un occhio particolare alla musica, uno sguardo sui nuovi libri e quattro salti nel cinema. Questo mese
Daniele Sepe ci parla del suo nuovo disco ispirato dagli anni ‘70. Profetico per quel che ci riguarda. Il prossimo numero
sarà infatti dedicato al ‘77, anno importantissimo per molte cose. Chiunque volesse partecipare con un ricordo (io non
ero ancora nato) o una riflessione può spedirci le sue idee a [email protected].
Ma tornando a questo numero, abbiamo parlato con il leccese attore/autore Mario Perrotta del suo fortunato Migranti
espress trasmesso da Radio 2. Ancora spazio alle realtà emergenti con le interviste a due nuove band (Montecristo
e MURiél), all’etichetta discografica Suiteside e alla casa editrice Instar. È ancora possibile abbonarsi al giornale, un
piccolo sforzo per voi, un’operazione vitale per noi.
Chiudo questo mese salutando Togliatti, il mio gatto, anzi il gatto di alcuni di noi. Togliatti, tra le altre cose, è stato uno
dei personaggi che ha popolato i primi editoriali di questo giornale, il mio primo animale, la prima cosa di cui mi sono
preso veramente cura.
Buona lettura.
Osvaldo Piliego
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Anno 3 Numero 34
febbraio 2007
Iscritto al registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Hanno collaborato a questo
numero: Berardino Amenduni,
Giovanni Ottini, Giuseppe
Muci, Livio Polini, Gennaro
Azzollini, Signor Php, Camillo
Fasulo, Nicola Pace, Valentina
Cataldo, Ilario Galati, Marcello
Zappatore, Rossano Astremo,
Stefania Ricchiuto, Nino D’Attis,
Silvia VIsconti, Sabrina Manna,
Cosimo Papa, Roberto Cesano
4 La colonna
sonora di una
vita
6 Claudio
Simonetti
Ringraziamo le redazioni
di Blackmailmag.com,
Primavera Radio di Taranto
e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase
(Le), Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
QuiSalento, Pugliadinotte.net.
26 Livio
Romano
Progetto grafico
dario
31 Alessandro
Piva
Impaginazione
Danilo Scalera
Mago Pancione
29 Be Cool
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso senza l’ausilio di
internet...ma grazie a Demon
Per inserzioni pubblicitarie
Pierpaolo Lala 3394313397
32 Mario Perrotta
36 Appuntamenti
38 Fumetto
7 Francesco
Cerasi
9 Keep Cool
19 Daniele
Sepe
23 Coolibrì
}
CoolClub.it C
Dopo cinque nomination e una serie
infinita di grandi successi alle spalle il
maestro Ennio Morricone il prossimo
25 febbraio riceverà un prestigioso
Oscar. Nessun film in concorso,
nessuna novità
nelle sale da
promuovere,
solo una
carriera
incredibile
da celebrare
come era già
accaduto
a Federico
Fellini e
Michelangelo
Antonioni,
Sophia Loren
e Dino De
Laurentis.
I numeri della
carriera del
settantottenne
trombettista
e direttore d’orchestra romano
sono impressionanti: più di 400
colonne sonore (tra film e fiction
televisive), circa 100 composizioni di
musica classica, numerose canzoni.
Diplomato presso il Conservatorio
di Santa Cecilia, Morricone arriva
alla musica per film quasi per una
esigenza più che per caso.
“Il continuo storcere il naso dei critici
musicali sulla musica del cinema è
fuori luogo”, sottolineò il maestro
due anni fa quando per la prima
volta si esibì a Lecce. “Prima o poi
dovranno scrivere di questa musica
se vorranno scrivere della musica
del Novecento e del nostro secolo.
Le colonne sonore fanno parte del
nostro costume, della nostra civiltà,
dei nostri bisogni, di tutto quello che
avviene oggi, anche dei nostri vizi,
delle cose negative. E loro, i critici,
dovranno fare i conti con questa
musica”.
Morricone, che per “prepararsi”
all’Oscar si è esibito ad inizio
febbraio in un paio di concerti negli
Stati Uniti, ha sottolineato anche
che alla cerimonia di Los Angeles
parlerà in italiano, tradotto dal figlio
Giovanni.
Il Maestro era stato nominato
per I giorni del cielo, Mission, Gli
Intoccabili di Brian De Palma e
Bugsy. Nel 2000 era giunta l’ultima
nomination per Malena di Giuseppe
Tornatore, con il quale aveva già
collaborato per Nuovo Cinema
Paradiso. Il nome e la musica di
Morricone sono però legati in
maniera indissolubile agli “Spaghetti
western” di Sergio Leone. Nel 1965
la prima esperienza con Per un
pugno di dollari cui seguirono Il
continua a pag. 6
La nostalgia è un sentimento bellissimo. È
un misto di tristezza e rimpianto per cose,
persone, luoghi, tempi che non ci sono
più. La nostalgia accende la voglia di
vivere delle cose che, per un motivo o per
un altro, non si possono avere.
“La nostalgia funziona”, lo sostiene
anche Michael Atkinson famoso critico
cinematografico. Quando la nostalgia
è provocata da un personaggio molto
popolare, che in vita ha fatto grandi
cose, attirando intorno a sé un gran
numero di persone, il ricordo di lui è vivido,
spesso enfatizzato, affidato non solo alla
memoria, ma anche a libri e film che ne
narrano la vita.
I film biografici hanno sempre avuto un
grande successo e allo stesso modo
sono stati sempre criticati. Hanno sempre
successo perché stuzzicano il nostro lato
voyeristico, nutrono la nostra voglia di
vivere il privato di personaggi inarrivabili,
o di seguire crescita, ascesa e declino di
una star. Sono sempre criticati perché la
riduzione di una vita per il cinema rischia di
essere imprecisa, di smitizzare o idealizzare
troppo il personaggio in questione. In linea
di massima i film biografici raramente
riescono a rimanere nella cronaca.
Tra i film biografici, un posto di riguardo
occupano quelli dedicati ai musicisti,
celebrazioni in pellicola della vita e
della musica di grandi artisti. Non solo le
immagini raccontano una vita, ma anche,
forse più di tutto la musica, la vera eredità
che un musicista lascia al suo passaggio e
la cosa che più in assoluto rappresenta il
suo sentire, la sua intimità.
A
pochi
giorni
dalla
scomparsa
dell’enorme James Brown (nella foto a
destra), è già stato annunciato il film che
ne racconterà la travagliata esistenza.
La regia sarà affidata a Spike Lee. Tra i
nomi in lizza per interpretare “il padrino
del soul” Andrè 3000 degli Outkast, Lenny
Kravitz, Eddie Murphy e Jamie Fox già
interprete del bellissimo Ray. Questo film
vide, nella sua preparazione, la diretta
partecipazione di Ray Charles che,
oltre a impartire consigli a Jamie sul
comportamento, la postura al piano e al
canto, scelse anche le canzoni. Tra i film
che narrano le gesta di rock star uno dei
più celebri e chiacchierati è sicuramente
The Doors di Oliver Stone. La figura di Jim
Morrison, interpretata da Val Kilmer, è infatti
travisata, come ha affermato lo stesso
Ray Manzarek (tastierista del gruppo), e
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Dopo venticinque anni di successo mai sopito a
Broadway sbarca nelle sale Dreamgirls, trasposizione
cinematografica del musical portato sul grande schermo
da Bill Condon (adattamento per Chicago). La pellicola,
che dalla storia delle Supremes e di Diana Ross prende
solo larga ispirazione, si inserisce in un filone già nutrito di
film musicali che negli ultimi anni hanno ritovato spazio e il
favore del pubblico, dopo la crisi degli anni ‘80 e di buona
parte dei ‘90. Interpretato da un cast praticamente all
black in cui spiccano i nomi di Eddie Murphy, Beyoncè
(nella foto a destra), Knowles e Jamie Foxx (Oscar per Ray), Dreamgirls trova la sua
collocazione spazio-temporale nella Detroit degli anni ‘60 e ‘70, periodo in cui i diritti
civili erano ancora appena sussurrati.
In questo scenario un gruppo di tre splendide ragazze di colore, le Dreamettes
(ribattezzate poi The Dreams - nella foto centrale), trainato da un ambizioso
venditore di automobili deciso a sfondare come manager, cerca la sua strada per
il successo. Coinvolgente e sentimentale è un film che si regge, neanche a dirlo, su
una trascinante colonna sonora e sulla ricostruzione perfetta di fotografia, costumi e
ambientazioni di quegli anni favolosi in cui soul e rock and roll scuotevano i giovani
del mondo intero e le comuni coscienze. Storia a parte, il filo conduttore rimane
ovviamente quello dell’ascesa e della realizzazione di un sogno che se da un lato
si palesa attraverso il copione, dall’altro trova riscontro nella realtà di una delle
giovani protagoniste, Jennifer Hudson, prima scartata nel reality canoro American
idol ed ora ad un passo dall’Oscar. E proprio nelle candidature la pellicola incassa
la sua maggior delusione con nessuna delle ben otto nomination nella categoria
più ambita, quella di miglior film, soprattutto per colpa di una regia piatta che non
va mai oltre il necessario e per dei personaggi carismatici ma mai messi a nudo e
caratterizzati come le vicende richiederebbero. Ma queste pecche non influiscono
sulla tenuta di un film che vola e fa volare, come sempre accade nelle storie di
chi, venuto dal nulla, riesce a fare il grande salto che lo separa dall’anonimato. Gli
esempi in questo senso non mancano e vanno dai recenti Moulin Rouge, Chicago
e Ray al capostipite È nata una stella (1954), tutte pellicole capaci di riprendere un
percorso tortuoso e di trasformarlo in un finale scontato. Tutti in fondo, almeno con la
fantasia, hanno il diritto di vedere un obiettivo realizzarsi e il cinema è come sempre,
dei sogni la massima espressione.
Michele C. Pierri
il personaggio viene trasformato in icona
generazionale. Un altro angelo caduto,
un maledetto della musica, raccontato
questa volta splendidamente da Clint
Eastwood e interpretato magistralmente
da Forest Whitaker, è Charlie Parker. Il film
Bird dipinge con poesia e drammaticità
la scalata artistica e il declino umano
di
uno
dei
più
grandi
innovatori
della musica jazz.
Ancora sul binomio
musica ed eccessi
un film esemplare
è sicuramente Sid
& Nancy, in cui il
rapporto burrascoso
tra Nancy Splungen
e il bassista dei Sex
Pistols
Sid
Vicious
viene colto nel suo
tragico epilogo.
Ma esiste anche il lato
positivo e giocoso
della musica e del
rock. Un film mitico
in questo senso è
Leningrad Cowboys
Go America, la storia
delirante del viaggio di una band assurda
alla conquista del sogno americano.
Grandi registi si sono confrontati nel
raccontare la musica, basti pensare a
Win Wenders e al suo film su Ry Cooder
e i Buena Vista Social Club che ha sortito
l’effetto di catalizzare l’attenzione su
una band e di consacrarla al successo
planetario (operazione
inversa
rispetto
alle
normali dinamiche dei
film su musicisti).
Altri film hanno riportato
l’attenzione su artisti il cui
ricordo andava via via
sopendosi: è il caso per il
rock di film come Great
balls of fire dedicato
a Jerry Lee Lewis o La
Bamba su Ritchie Valens.
Sempre
restando
in
ambito rock, alcuni dei
film che in questi ultimi
anni hanno risollevato
l’interesse verso pellicole
di questo tipo sono stati
senza dubbio Quando
l’amore brucia l’anima,
pellicola dedicata alla
figura ombrosa e controversa di Johnny
Cash, l’enigmatica interpretazione degli
ultimi giorni di Kurt Cobain da parte di
Gus Van Sant in Last Days, e, ancora, 8
Miles sugli esordi di Eminem. Dai cattivi
del rock ai film da favola in cui gli artisti
interpretano se stessi ma immersi in storie
di pura invenzione (dai primi film sul jazz,
a quelli mitici interpretati da Elvis o alla
straordinaria filmografia dei Beatles).
Pellicole importanti ma che tradiscono il
filo biografico di cui parliamo in queste
righe. Tra realtà e fantasia anche altri
film che racchiudono in un personaggio
caratteristiche di vari artisti (un esempio
è Velvet Goldmine, che ripercorre il
fenomeno glam, in cui il personaggio di
Bowie si fonde con quello di Marc Bolan
e quello di Iggy Pop con Lou Reed).
Insomma, a conti fatti, la lista di musicisti
omaggiati dalla pellicola è lunghissima,
segno di un legame forte e destinato a
continuare nel tempo.
È già annunciato il film sulla vita di Jimi
Hendrix, Johnny Depp da tempo anela
a realizzarne uno su Ozzy Osbourne, in
cantiere anche quello su Brian Wilson,
leader dei Beach Boys.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it C
buono, il brutto, il cattivo, C’era una
volta il West, Giù la testa. Intensa e
bellissima anche la colonna sonora
di C’era una volta in America,
epopea sui gangster italo americani
del regista romano. Il tema
principale del film sarà interpretato
nella serata delle stelle da Celin
Dion. Un brano che rientra nel cd
tributo We all love Ennio Morricone
che ospita, tra gli altri, Bruce
Springsteen, Roger Waters, Metallica,
Quincy Jones e Andrea Bocelli.
“L’Academy con questo premio
vuole riconoscere non soltanto
l’importante numero di colonne
sonore composte da Morricone
ma anche il fatto che molte di
queste sono amatissimi e popolari
capolavori”, ha detto Sid Ganis,
presidente della Academy of Motion
Picture Arts and Sciences. Musiche
così amate anche oltreoceano
da provocare uno spiacevole
errore. Una quindicina di anni fa
un’enciclopedia statunitense scrisse
infatti che Nicola Piovani era lo
pseudonimo di Ennio Morricone.
Un equivoco che si è protratto
nel tempo, nonostante i moltissimi
film firmati e le numerose rettifiche
fatte (anche da Morricone). Nel
1998 Piovani però superò il maestro
conquistando l’Oscar per La
vita è bella di Roberto Benigni a
coronamento di una carriera iniziata
alla fine degli anni ’60 e passata
attraverso le collaborazioni con
Fabrizio De Andrè e con alcuni tra i
migliori registi e autori italiani come
Silvano Agosti, Marco Bellocchio, i
fratelli Taviani, Nanni Moretti, Mario
Monicelli, Vincenzo Cerami e molti
altri ancora.
L’altro italiano premio
Oscar per la sua musica
è l’indimenticabile
Nino Rota che ha reso
memorabile Il Padrino
di Francis Ford Coppola
e ha accompagnato
con le sue melodie
alcuni dei film italiani più
apprezzati nel mondo.
Il suo nome è legato
al genio di Federico
Fellini. Rota “commenta”
infatti le immagini di Lo
sceicco bianco, Prova
d’orchestra, La strada,
La dolce vita, Otto e
mezzo, Amarcord.
Claudio Simonetti è nato in Brasile dove
ha vissuto fino all’età di dodici anni. Figlio
d’arte, una volta trasferitosi a Roma con la
famiglia, incomincia a studiare pianoforte
presso il conservatorio di Santa Cecilia.
Da metà anni Settanta ha intrapreso una
notevole carriera in qualità di compositore,
arrangiatore, tastierista e produttore
discografico; ed ha indissolubilmente
accostato il suo nome e la sua carriera,
prima con i Goblin e poi da solista, al mondo
del cinema horror e trhiller. In particolare,
ha legato la sua musica a molte delle
pellicole prodotte e dirette dal regista Dario
Argento.
Come ha avuto inizio la tua carriera?
Ho cominciato a studiare il pianoforte a
otto anni anche se poi, anche grazie al
periodo dei Beatles e Rolling Stones, mi sono
avvicinato di più alla musica suonando
la chitarra nei complessini dell’epoca e
contemporaneamente verso i 12 anni mi
sono iscritto al Conservatorio di Santa Cecilia
di Roma dove ho studiato pianoforte e
composizione. Ho avuto parecchi gruppetti
ma Il ritratto di Dorian Gray è stato il mio
primo vero gruppo. Suonavamo le cover
dei vari gruppi dell’epoca come Deep
Purple, King Crimson, Yes, ecc. e abbiamo
partecipato al Festival Pop di Caracalla
del 1971. Poi il gruppo
si è sciolto, riformandosi
poco dopo in una
formazione a tre (tastiere,
batteria e basso). Siamo
stati tra i primi a proporre
il rock sinfonico nel
nostro paese ispirandoci
soprattutto ai Nice e agli
Emerson, Lake & Palmer.
In seguito, nel 1973, ho
formato, con Massimo
Morante, il gruppo dei
Goblin.
In che modo iniziò il
tuo lungo sodalizio con
Dario Argento?
Dopo essere stati in
Inghilterra
nel
1974
per quasi un anno
con i Goblin (allora ci
chiamavamo
Oliver)
siamo tornati in Italia per registrare il nostro
album e in quell’occasione, Argento ci
chiese di registrare la colonna sonora di
Profondo Rosso grazie al nostro discografico
della Cinevox, Carlo Bixio, che gli fece
ascoltare il nostro materiale. Eravamo poco
più che ventenni e ci siamo trovati davanti
ad un grande regista, allora Dario era
all’apice della sua carriera, però abbiamo
subito legato perché comunque era
una persona semplice, anche con Daria
Nicolodi, allora sua compagna, abbiamo
subito fatto amicizia. La mia amicizia e
sodalizio con Dario dura tuttora e supera
ormai i 30 anni.
Le tue colonne sonore nascono prima o
dopo aver visto il film?
Tutte le musiche che ho scritto per i film
le ho composte sempre dopo aver visto
le scene girate. Di solito il musicista vede
il film, spesso insieme al regista, e poi con
lui si discute sullo stile della musica, dove
metterla e quali scene sottolineare in
particolare. Normalmente Dario mi da
alcune indicazioni iniziali però mi lascia poi
libero di interpretare il film come voglio.
A quale componimento realizzato per il
cinema ti senti più legato?
Sicuramente i due episodi di Argento fatti
per la TV americana e questo ultimo, La Terza
Madre, anche se non l’ho ancora finito.
Per la prima volta userò un grande coro
con l’orchestra sinfonica visto che molto
spesso ho lavorato più con i sintetizzatori
che con l’orchestra vera e propria. In realtà
ho iniziato a lavorare con Dario in questo
modo già per i sui 2 film americani Jenifer
e Pelts, dove ho usato un piccolo organico
di archi insieme ai sintetizzatori. Questi due
lavori fanno parte di una serie televisiva in
USA che si chiama Masters of horror che
vede insieme molti registi famosi come
John Carpenter, Toby Hooper, John Landis
e molti altri. Dario è l’unico regista europeo
della serie e l’episodio Jenifer è quello che
ha avuto più successo di tutti. Il DVD ha
venduto più di un milione di copie solo negli
Stati Uniti.
Non hai mai pensato di coinvolgere i restanti
tre Daemonia nella scrittura di musiche per
film?
Per adesso ancora no e poi dipende anche
CoolClub.it
dal tipo di film. Per adesso sto componendo
musiche molto classiche e orchestrali dove
sicuramente il sound rockettaro stonerebbe
sicuramente. Ma spero al più presto di
poter realizzare un film tutto all’insegna del
nostro sound.
In merito al nuovo film di Dario Argento, La
terza Madre, musicalmente cosa dovremo
attenderci?
Come ho già anticipato prima, La Terza
Madre avrà una musica molto classica e
non avrà niente in comune con Suspiria
come forse molti si aspetteranno. D’altronde
il film, anche se sarà l’ultimo della trilogia
Argentiana “stregonesca”, è anche molto
diverso dai suoi due precedenti (Suspiria
e Inferno) e quindi anche il sound non
potrebbe
ricalcare
ovviamente
i
precedenti.
Un po’ come
fece
anche
Keith Emerson
per Inferno che
non prese in
considerazione
le musiche dei
Goblin come
riferimento.
Il
sound
della
mia
musica
del film sarà
tutto realizzato
con l’orchestra
sinfonica
e
cori gotici con
pochissimo uso
di sintetizzatori.
Per
adesso
sto lavorando
sulla
preproduzione per poi andare a registrare
l’orchestra in un grande studio (non so
ancora se in Italia o all’estero). Spero che il
film, come la colonna sonora, soddisfi tutti
i fan che aspettano finalmente La terza
madre da quasi 30 anni e io, naturalmente,
sono molto onorato di musicarlo.
Nicola Pace
Il cinema pugliese è in netta crescita
grazie a registi come Edoardo Winspeare,
Fluid Video Crew, Alessandro Piva, Sergio
Rubini e molti altri. Ma nel settore c’è
un’altra componente che sta muovendo
passi importanti. Numerosi musicisti
pugliesi prestano le proprie musiche
al grande schermo e, in alcuni casi,
diventano protagonisti o comparse di
pellicole. È il caso (ovviamente fortunato)
dei salentini Negramaro che con La
febbre di Francesco D’Alatri hanno
lanciato il loro cd Mentre tutto scorre. Il
musicista tradizionale Antonio
Castrignanò
ha
musicato
Nuovomondo di Emanuele
Crialese. Cesare Dell’Anna e
i suoi Opa Cupa cureranno
la colonna sonora del film
Frankie Faccia Tosta alla
ricerca del successo, scritto
e diretto da Gianni Torres
con Jhonn Turturro. Sembra
indissolubile il rapporto tra
Ivan Iusco e Alessandro Piva
(vedi intervista a pag 31).
Il panorama è in continuo
e perpetuo movimento e
ovviamente
questi
sono
solo alcuni esempi. Un posto
di rilievo in questo settore
se l’è costruito Francesco
Cerasi. Il ventiseienne barese,
cantautore, già anima del
gruppo “Le stanze comunicanti”
e ottimamente accolto dalla
critica per il suo mini cd
d’esordio Il Viaggiatore, nel
2004 è approdato sul grande schermo
con le musiche del bel film Volevo solo
dormirle addosso di Enrico Cappuccio.
Com’è nata questa collaborazione?
In maniera molto casuale. Un mio amico,
che stava curando il sito del film, mi fece
vedere questa sceneggiatura. Il titolo
mi ispirò una canzone. La sera stessa
mettemmo su insieme al gruppo tre temi
strumentali. La registrazione di questi pezzi
passò poi dal mio amico a Cappuccio
che mi chiamò dopo alcuni mesi. Così
nacque la colonna sonora del film. In
realtà è stata una evoluzione casuale ma
naturale del lavoro che già facevo con
la band. Durante i concerti cercavamo
sempre di proiettare qualcosa, di fare
interagire suoni e immagini.
Sei molto giovane ma hai già una lunga
esperienza alle spalle
Dopo il film sono stato invitato a Venezia,
dove il film era in concorso, come il più
giovane compositore della storia della
Mostra. Da lì ho continuato su questa via.
In tutto ho musicato sette lungometraggi
e numerosi corti. A marzo uscirà Uno su
due sempre di Capuccio con Fabio Volo.
Qui farai anche una piccola parte, se non
sbaglio.
Si, canto una mia canzone. Insomma
faccio me stesso.
Qual è stato finora il rapporto tra la tua
musica e i film?
Finora le musiche sono state sempre scritte
leggendo la sceneggiatura. Secondo me
bisogna avere un grande senso della
struttura narrativa altrimenti si rischia di
fare solo una compilation.
Invece devi avere il senso del racconto,
devi sapere quale personaggio far risaltare
e quali sentimenti mettere in evidenza.
Nella scelta di alcuni strumenti inoltre
bisogna essere influenzati dalla fotografia.
Il freddo ti porta a stare su certe frequenze
mentre qualcosa di più caldo ti porta ad
avere propensione per altri strumenti.
Nel tuo futuro non ci sono solo colonne
sonore?
No, cerco sempre di continuare ad essere
un compositore che canta. Tra qualche
mese dovrebbe uscire il mio nuovo cd. Un
disco pop, diretto giacché le cose troppo
di nicchia mi fanno arricciare il naso.
Pierpaolo Lala
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
The Good, The Bad and The Queen
The Good, The Bad and The Queen
Parlophone
Rock / ****
Eccoci qui, questo album è finalmente
giunto alle stampe. Difficile, negli
ultimi anni, un tale entusiasmo per una
formazione che ho qualche problema
a definire emergente, vista l’età media
(e l’esperienza) dei componenti, ma
che comunque irrompe nel panorama
musicale a dare freschezza e a scaldare
i cuori degli addetti ai lavori. E non si
può affatto dire che l’attesa non sia
stata adeguatamente ripagata. Presi
singolarmente, abbiamo a che fare
con dei piccoli geni del rock (e del pop,
diciamolo). C’è Damon Albarn (nella foto),
leader dei Blur (compianti? Si riuniscono?),
del side-project extralusso (Gorillaz), uno
che potrebbe vivere di rendita ma che
non ha nessuna intenzione di smettere
con la musica e con il divertimento
insito nella sperimentazione; Simon Tong,
chitarra dei Verve (loro non si riuniscono di
certo), poi degli ultimi Blur (post-Graham
Coxon) e dei Gorillaz stessi. Ancora, c’è
Paul Simonon, il bassista dei Clash, colui
il quale distrugge il proprio strumento
nella storica copertina di London Calling,
cd-icona della formazione capeggiata
da Joe Strummer: non esattamente uno
scarso, come scarso non lo è per niente
il responsabile della batteria e delle
percussioni, ovvero Tony Allen, che alla
veneranda età di 67 anni, dopo aver
inventato l’afrobeat con Fela Kuti, si fa
trascinare da Albarn in questo progetto.
Dietro le quinte, Dangermouse: dopo
aver fatto incazzare la Emi per i suoi
magheggi sul White Album dei Beatles,
si fa mettere sotto contratto per questo
album, fortemente voluto da Mr. Albarn,
(i due hanno già collaborato per Demon
Days dei Gorillaz).
Volendo parafrasare, volendo fare
parallelismi con un buon cocktail,
abbiamo a che fare con 3/5 di Gorillaz,
1/5 di Africa e una spruzzata di Punk.
E parafrasando il titolo del progetto
(l’album non ha un suo vero e proprio
titolo), potremmo andare a cercare
chi, del quintetto, è il Buono, chi il
Cattivo e chi la Regina (ogni riferimento
a Morricone, sia nel nome che nelle
sonorità non è affatto casuale). Il Buono
appare Dangermouse, silenzioso quanto
indispensabile manovratore dietro le
quinte, capace di modernizzare quello
che appare volutamente “vintage”
nelle sonorità, permettendo agli altri
componenti della band di parlare del
futuro col linguaggio del passato. Il
Cattivo? Chi se non Paul Simonon, il
quale, a 51 anni, si mette realmente in
gioco. Crudo nelle interviste, nelle foto,
nel modo di essere, mansueto (forse
troppo?) nella band. La Regina è senza
alcun dubbio Damon Albarn, capace di
entusiasmare turnisti di assoluto spessore
(come Tong e Allen) e soprattutto tutti
noi musicanti pseudo-alternativi, che
abbiamo bisogno di emozioni forti.
Come dite, non ho parlato dell’album?
Perché, voi non ve lo comprereste un cd
con queste premesse? Confidando nella
vostra furbizia, vi suggerisco, nell’ascolto,
di partire dall’ultima traccia. Non a caso,
si chiama proprio The Good, The Bad and
The Queen, non a caso, sembra una jam
session a cielo aperto. Visto i protagonisti,
più che un consiglio, è un dovere morale
partire da lì, e magari ascoltare il cd in
random. Tanto, che differenza fa.
Berardino Amenduni
KeepCool
10
The Beatles
Love
Emi
Pop/****
Non ci si stanca mai dei Beatles, chi ne detiene i diritti lo sa certo
meglio di noi. Ed ecco che sistematicamente, casualmente
poi in periodo natalizio, esce un nuovo disco dei fab four.
Disco che al contrario dei soliti pacchi natalizi non è buono
da regalare ma da regalarsi. Si, perché questo Love altro non
è che una dichiarazione d’amore di George Martin (storico
produttore della band) ai Beatles, un regalo a chi di loro è
rimasto e a chi non c’è più. Un gioco di scatole cinesi, un mash
up, si dice in gergo, che attinge ai nastri delle registrazioni
del tempo, ne prende spezzoni, li taglia, li incolla, donando
alle classiche canzoni dei Beatles nuova veste e nuova forma. Arrangiamenti di un
brano diventano tappeto di un altro, canzoni si fondono, altre pompano più che
mai. Si ingaggia, tra gli appassionati, una gara al particolare, alla citazione. Love
non è l’ennesima consacrazione del quartetto ma una nuova e affascinante
interpretazione. (O.P.)
My chemical romance
The Black Parade
Reprise/Warner
Rock / ***
I
My
Chemical
Romance sono un
circo in cui glam, rock,
punk, metal sfilano
tirati a lucido. Roba per
adolescenti verrebbe
da liquidare. Belli e
maledetti
sono
un
po’ dark nell’aspetto,
decadenti nei testi, disperati ed emo.
Con tutte queste caratteristiche almeno
una dovrà piacerti, hanno pensato.
Ed è così, perché alla fine dei conti
piacciono quasi a tutti. Quasi, è meglio
precisare, perché c’è chi di questi lamenti
generazionali ne ha piene le scatole.
Per chi come me si è già depresso con
Radiohead e Smashing Punpkins gruppi
come questo fanno ridere...sempre meglio
che piangere. (O.P.)
Fratellis
Costello music
Island Universal
Rock / ***
Tutti ne parlano, tutti li vogliono. Una
formula perfetta pronta ad innescare
il detonatore del divertimento. Sono i
Fratellis, nuovo fenomeno inglese. Legati
tanto al punk dei Buzzcocks quanto al
power pop dei Jam, i Fratellis ricordano un
po’ i Supergrass del primo album. Freschi
sono freschi, hanno un tiro non indifferente,
sono rock and roll, beat. Senza prendersi
troppo sul serio, molto convincenti negli
episodi più adrenalici. Fatti per ballare, la
nuova febbre del sabato sera. (O.P.)
Rob Crow
Living Well
Temporary Residence
Pop da camera / ***
Sono belli i dischi che rappresentano un
uomo, un one man band come si suol dire.
Artigiani della canzone che producono
dischi realizzati quasi completamente
in casa. È il caso di
un artista come Rob
Crow. Basta poco per
vivere bene, sembra il
messaggio di questo
album. La tranquillità
animata da una velata
inquietudine rock è già
nel concept grafico di questo disco. In
copertina campeggia l’artista che posa
nel giardino della sua villetta con un tazza
di caffè in mano, all’interno una foto che lo
ritrae con un bambino in braccio (il figlio?),
nella quarta di copertina (?) stringe a sé la
moglie incinta. Sullo sfondo campeggiano
decorazioni di Halloween. Digressione
inutile se non riproducesse perfettamente
il contenuto del disco. Quattordici brani,
messi lì come fossero appunti, brevi (alcuni
sotto i due minuti) cantanti con quanto
fiato basta, dolci e dimessi come il buon
Elliot Smith ci aveva abituato. Sullo sfondo
un senso di irrequietezza tenuta a freno da
minimalismi, chitarre sporche, accenni di
folk post in stile Jim’O’Rourke. (O.P.)
Deftones
Saturday Night Wrist
Maverick
Nu-Wave-Metal / ****
La
musica
dei
Deftones si è spesso
basata
sull’equilibrio
precario dei rapporti
tra Steve Carpenter
e
Chino
Moreno.
Chitarrista a spigoli vivi
e paladino del rumore
amplificato il primo,
cantante viscerale e sensibile il secondo,
infatuato delle romanticherie new wave
inglesi anni ’80 e col poster degli Smiths in
camera. Anni di divergenze artistiche, litigi
e musi lunghi che loro malgrado si sono
tradotti musicalmente in affascinanti e
originalissime forzature stilistiche di ibrida
bellezza. Ciò ha permesso al gruppo di
Sacramento di smarcarsi, quasi subito,
dalla pletora di band nu-metal, i cui
sopravvissuti hanno finito poi per diluirsi
in certo pop da classifica o perdersi in
un’autocitazione grottesca e senza fine. In
questo disco i Deftones abbandonano un
po’ le bizzarrie soniche dell’ultimo omonimo
album e continuano invece la ricerca
alchemica, iniziata con White Pony (2000),
di nuovi possibili connubi tra distorsioni
irruente e tormenti melodici. Formula che
qui si ripete più volte, ma che funziona
maledettamente bene. Il trasporto che
si crea in Beware,Cherry Waves, Riviere
e Xerces (quasi Mogwai in apertura) ne
sono la prova. Non manca comunque
la furia cieca di pezzi come Rapture e
Rats!, minaccioso monito all’incolumità
delle rotule nei concerti prossimi venturi.
Ma questo è un disco con le chitarre più
smussate del solito, l’impatto è più emotivo
che sonoro. Questa volta l’ha avuta vinta
Chino Moreno.
Giovanni Ottini
Thomas Belhom
No border
Ici d’ailleurs
Space folk / ****
Mai titolo più azzeccato
per un disco così. No
border, nessun confine.
Musica per ampi spazi
quella di Thomas Belhom,
musica
che
nasce
dall’infinitamente piccolo
per conquistare lo spazio,
dilatarsi. Un disco senza confini per ché
registrato in viaggio (Londra, Monaco,
Parigi) ma anche per i suoi paesaggi
sonori. Sono i grilli a introdurci una discesa
in praterie dove le corde di una steel guitar
sembrano toccare il cielo...proprio lì dove
tra letti acustici e slide lontani chilometri si
fa avanti la voce di Thomas. Solo leggere
gli ospiti di questo suo nuovo album offre
una panoramica precisa del suo mondo
musicale: Stuart Staples (Tindersticks),
Volker Zander (Calexico), Paul Nohaus
(Lambchop). La musica di Belhom viaggia
lontana perché è leggera, come un
aereoplano di carta, come una piuma, la
sua impronta stilistica è così raffinata da
non rinunciare a riminescenze europee
pur sembrando bluegrass. Dalle origini da
percussionista la carriera e il talento di
Belhom sono cresciute e ci regalano oggi
un talentuoso polistrumentista e un grande
autore.
Osvaldo Piliego
The Magic numbers
Those that brokes
Heavenly
Pop / ***
I Magic Numbers confermano il loro stato
di grazia artistica. Con questo nuovo
album Romeo e soci dimostrano di avere
la grande capacità ad intrecciare melodie
vocali e imbastire strutture semplici ma
travolgenti. Musica tenera, sembra la
colonna sonora di una puntata di Love
boat, a volte un po’ più smaliziata in stile Tre
cuori in affitto. La loro dichiarata passione
per gli anni 60 e per Band come Mamas
and Papas, Beach Boys, Lovin’Spoonfull si
sente ancora. Il disco ha una manciata di
singoli, qualche mid tempo irresistibile, e
momenti più caramellosi che piacciono ai
romantici.
KeepCool
Field Music
Tones Of Town
Memphis Industries/V2
Indiepop / ***½
I fratelli Peter e David
Brewis,
insieme
al
tastierista
Andrew
Moore, formano i Field
Music, un talentuoso
trio experimental pop
di
Sunderland,
nel
Regno Unito. Dopo un
esordio omonimo ed
una raccolta di b-sides ed inediti (Write
Your Own History), il secondo album
“ufficiale”, Tones Of Town, prosegue
con successo il percorso intrapreso dalla
band. Non si può fare a meno di notare
certi richiami anni ’80, band del calibro
di XTC e Genesis (quelli di Peter Gabriel),
andando ancora più indietro si potrebbe
finire nel pop inglese anni ’60. Richiami,
dicevamo, perché la formula Field Music
comprende tanto ed altro ancora.
Innanzitutto la sperimentazione, questa
è la cosa più importante, probabilmente
facilitata dall’assenza di pressioni o
richieste, o modifiche che a volte le
etichette discografiche impongono, infatti
quest’album, come anche i precedenti
lavori, è completamente autoprodotto,
e registrato, tra l’altro, nel proprio studio,
l’Eight Music. Originali ed intelligenti, ben
scritte ed arrangiate, le canzoni di Tones
Of Town scorrono via con piacere, i giochi
11
di voce, i motivetti, cori e controcori, suoni
synth e pianoforte, le chitarre allegre,…
in certi casi anche gli archi. Sarà uno dei
migliori album del 2007? È presto, si vedrà.
Livio Polini
The Shins
Wincing The Night Away
Subpop/Audioglobe
Indiepop / ***1/2
Puoi
pensare
all’etichetta
Subpop
senza farti venire in
mente solo il periodo
grunge? In questo ti
aiutano gli Shins, che
bisogna
dire
sono
bene accompagnati
da nomi validi come
Rogue Wave, Wolf Parade, Iron and Wine,
Comets On Fire, Wolf Eyes, ecc.. Arriva
dopo una lunga attesa (ben quattro
anni) il terzo disco della indiepop band
di Portland capitanata da James Mercer.
Due illustri nomi hanno collaborato alla
realizzazione tecnica di Wincing The Night
Away: Phil Ek (Modest Mouse, Built to Spill)
e Joe Chiccarelli (Beck, Rufus Wainwright,
Brian Wilson). I brani risultano coinvolgenti,
dinamici, ricchi di estro e ben curati,
emozionanti, non privi di finezze. La formula
powerpop raggiunge la perfezione, e
con quest’ultimo lavoro, non si fa fatica
a dirlo, c’è un ulteriore salto di qualità.
La band probabilmente raggiungerà la
Bloc party
A weekend in the city
Wichita
Rock / ****
Viste le aspettative create dall’esplosivo esordio di Silent
Alarm, devo ammettere che questo secondo disco dei
londinesi Bloc Party era tra quelli che aspettavo con
più ansia in questo inizio 2007. Internet ha reso l’attesa
meno straziante per molti, visto che l’intero album era
facilmente reperibile in rete già a fine novembre, con
due mesi di anticipo sulla data di uscita ufficiale.
Era inevitabile il confronto con l’ingombrante
predecessore, e sarebbe stato fin troppo facile per i
quattro ragazzi sfornare un “Silent Alarm Part II”; più
difficile imboccare un sentiero nuovo, senza snaturare
la propria essenza sonora, puntando piuttosto a
ridefinire un sound originale. Ma se il risultato di due
anni di lavoro in questa direzione è A Weekend At The City, allora i Bloc Party hanno
di nuovo centrato l’obiettivo. Pezzi come Song For Clay, un crescendo ipnotico che
esplode con potenza nel ritmo incalzante del ritornello, o Hunting For Witches, con
un riff che ricorda forse troppo Helicopter, costituiscono l’anello di congiunzione tra
passato e presente. L’intero album ruota attorno al tema della vita nella metropoli
del ventunesimo secolo, indagata nei suoi molteplici aspetti: le parole di Kele, nel
susseguirsi dei pezzi, rivelano tutta l’alienazione e la desolazione celate dietro i gesti
più abituali, mentre le chitarre continuano a disegnare armonie spigolose scandite
dall’incedere ossessivo della batteria. Ottimo il primo singolo, The Prayer, che ha tutte
le carte in regola per diventare un inno, ma ancora migliore Uniform, a mio avviso il
pezzo più ispirato dell’intero album, il cui testo descrive perfettamente l’omologazione
e il vuoto della “generazione internet & MTV”. Nella seconda parte l’album allenta un
po’ il tiro, anche se non mancano altre perle, come l’onirica Kreuzberg o la delicata
Sunday, che insieme ad I Still Remember strizza l’occhio nientemeno che agli U2.
A Weekend In The City è un buon disco, raffinato e curato nei minimi dettagli, che
comunica il meglio di se solo dopo qualche ascolto. I Bloc Party hanno stile, questo
è il loro miglior pregio, e con questo cd hanno confermato di saper comporre piccoli
gioielli “indie”, canzoni orecchiabilissime ma mai banali, osando ma al tempo stesso
rimanendo fedeli a se stessi.
Giuseppe Muci
consacrazione e arriverà a farsi conoscere
ad un pubblico ancora più ampio. Ancora
di più? Ma gli Shins non erano quelli che
avevano venduto più di un milione di
copie? Già, sono loro. E in Italia, chi li
conosce? Non lo so, non ho chiesto in
giro, ma tra la partecipazione alla colonna
sonora di un film (La Mia Vita a Garden
State) e quella di un telefilm (The O.C.),
di sicuro il nome, almeno tra i teenagers,
circola già.
Livio Polini
Of Montreal
Hissing Fauna, Are
Destroyer?
Polyvinyl/Goodfellas
Indiepop / ***½
You
the
Ottavo album per la band psych-synthpop di Athens. Sulla scena indie mondiale
da circa dieci anni, album dopo album,
i cinque statunitensi capitanati da Kevin
Barnes si muovono sempre di più verso
suoni synth e battute dance, ma anche
in quest’occasione di sicuro non manca
la varietà di genere. Di inalterato, rispetto
al passato, c’è l’amore per il sixty-pop,
un amore che non tramonta mai (avete
presente Brian Wilson e soci?). Dodici
tracce di materiale elettrizzante, una
miscela perfetta di stili, dal rock di Suffer
for Fashion al disco-funky di Gronlandic
Edit, dal kraut di The Past is a Grotesque
Animal al synthpop di Heimdalsgate Like a
Promethean Curse. Ed il titolo dell’album,
Hissing Fauna, Are You the Destroyer?, sarà
una provocazione o un urlo ambientalista?
Sempre più maturi, gli Of Montreal,
sembrano non sbagliare più un colpo,
esperti, si muovono con naturalezza in tutti
gli ambiti e le sfumature del pop moderno.
Già col precedente, The Sunlandic Twins,
avevano dato l’idea di questa spontaneità,
traspare facilmente nelle loro canzoni il
divertimento che si prova nel far musica.
Ancora un colpo vincente messo a segno
da questo abile quintetto, un’altra prova
di qualità.
Livio Polini
Sophia
Technology wont save us
City Slang
Rock / ***
Robin
Propper
Sheppard
torna
con i suoi Sophia a
tormentare
i
nostri
poveri cuori malati.
Dopo il rumore dei
God machine Robin
si è rifugiato in questo
nuovo progetto che
ha trovato nella calma la risposta alle
tensioni degli anni 90. dopo il bellissimo
People are like seasons arriva Technology
wont save us ed è subito sera. Le ballate
notturne di questo nuovo album sono
emozionanti, struggenti. Non mancano
le tracce di un passato ruggente, tracce
più lisergiche, ma anche parti orchestrali
( basta ascoltare il maestoso incipit del
disco). Acustico elettrico elettronico Robin
Propper Sheppard fa sempre centro...al
cuore naturalmente.
KeepCool
12
Idlewild
Make another world
Sequel/Edel
Guitar pop / ****
La band scozzese torna con questo nuovo Make another world
dopo aver tirato a lucido il suo inconfondibile sound. Guitar
pop che fa scuola e si distingue nella febbricitante ricerca
del gruppo più giovane possibile. Gli Idlewild sono robusti, non
risparmiano le distorsioni senza perdere mai di vista la melodia.
La voce di Robby Woomble, fresco di album solista, è come
sempre bellissima, capace di ammaliare come Morrisey
sapeva e sa fare, o di essere tagliente come Molko. Fedeli
alla linea gli Idlewild riescono anche a superarsi scendendo
in pista con un irresistibile No emotion. Make another world
è invece la testimonianza che crescere è inevitabile e necessario, un esempio di
maturità artistica. ma è solo una manciata di minuti. L’attacco della seguente If it
takes you home è così punk rock che sembra essere dei Green Day. Alcune aperture
corali sono da togliere il fiato, i momenti più riflessivi hanno un che di Rem, giusto un
retrogusto. Quello che rimane alla fine di questo Make another world è la conferma
di una grande band.
Osvaldo Piliego
Matt Elliott
Failing songs
Ici D’Ailleurs
Folk / ****
Dopo
la
definitiva
deriva
folk
del
vecchio manipolatore
elettronico
inglese
con
l’emozionante
Drinking songs, c’era
molta attesa sul dove
sarebbe andato a
sbarcare. Ma invece di
un approdo il nostro sembra esser del tutto
naufragato nei vortici della sua profonda
e complessa psiche. Racchiuso in una
splendida confezione cartonata completa
per la prima volta anche di testi (e che
testi) questo nuovo Failing songs rivela
infine la sofferenza di un’anima travagliata
che tuttavia, in fondo, era stata sempre
presente fin dagli albums firmati Third Eye
Foundation, in cui le tentazioni modaiole
drum’n’bass
venivano
destrutturate
da uno spirito malinconico. Ora la
drammaticità viene messa infine in primo
piano, esasperata, esposta agli occhi
di tutti in modo evidente (e la presenza
dei testi scritti lo dimostra), e in questo
processo di estrinsecazione psicanalitica
si realizza propedeuticamente anche
una trasformazione sul piano stilistico. Per
raccontare in modo diretto la propria
sensibilità segnata recide definitivamente
ogni legame con la freddezza del suono
digitale per affidarsi a strumenti (piano,
chitarra, violino, violoncello e melodie di un
profondo passato). Si ha uno spostamento
fin’anche geografico: dall’avanguardia
della ricca Inghilterra si muove verso
territori rimasti legati a temi e caratteri
antichi, semplici, poveri, provinciali.
Nenie infantili, lente ballate corali, danze
gitane, atmosfere spettrali, funeree,
solenni melodie, continue riprese di temi
popolari tradizionali mitteleuropei, slavi,
greci, spagnoli, francesi. Storie di fallimenti,
disagio, e di insofferenza per un mondo
che non sente il proprio. Tuttavia alla fine
del viaggio, in Gone, sembra aprirsi uno
spiraglio di luce, di salvezza, di positività: “...
bad thoughts are gone, war is won, and alls
in it’s plce, the day’s all ours...”. Attenzione:
ve ne innamorerete perdutamente se lo
fate entrare a piccole, piccolissime dosi, vi
sarà insopportabilmente pesante se preso
tutto in una botta.
Gennaro Azzollini
house diventerà un
istituzione. Passano
gli anni, arrivano i 90
e Kenneth fa uscire
la compilation Music
for dreams, che sarà
madre di un suono,
di uno stile di fare
musica, in senso più
generale chill out,
musica in parte ispirata all’ambient, ad
atmosfere da sogno per l’appunto. Music
for dreams, che vanta collaborazioni di
altissimo livello, diventa subito famosissima
fino a trasformarsi in una vera e propria
etichetta. Questo Fragments from a
space cadets, è un po’ come la Guida
per autostoppisti dello spazio, una serie
di stralci, di pillole. Un’introduzione a un
mondo che non è terreno. Dentro queste
tracce ci sono Brian eno, il Kraut rock,
campioni di brani celebri e colonne sonore,
l’acustica che incontra l’elettronica, il glith,
l’hip hop, atmosfere jazzy swing alla Koop.
Il lungo finale The day after yesterday è un
frammento diviso in cinque momenti (ad
un tratto sembra di aver messo su i Gotan
project) che si conclude con un duetto
tra Julee Cruise e il grande Syd Matters...
semplicemente bellissimo.
Osvaldo Piliego
Amy Winehouse
The Cinematics
Back to Black
Island
Soul / ***½
A strange Education
TVT Rec
Brit / ***
Dopo Interpol ed Editors
arrivano nel lettore CD
o nell’Ipod degli amanti
della “New New Wave”
anche i quattro scozzesi
Cinematics,
due
chitarre basso batteria
che
si
immergono
totalmente nei suoni
e nelle atmosfere che vanno tanto di
moda oggi indifferentemente ad est ed
ovest dell’oceano Atlantico. Indie Rock
allo stato puro, misto a un voce alla Tom
Smith (degli Editors) con una spruzzatina di
Morrisey. Il Cd apprezzabile nel package
e di piacevole ascolto contiene oltre le
12 tracce due video della band. Su tutti
i brani Break, il singolo da Dance Floor
(accompagnato anche dal video), Sunday
Sun ammiccante brano in puro stile BritPop
anni novanta, Keep Forgetting che strizza
l’occhio (forse troppo ai già citati Editors e
ai Bloc Party). Insomma un disco che dice
poco di nuovo e che a tratti ricorda troppo
altre cose, ma che vale la pena ascoltare
per la qualità dei brani, per l’ottima
registrazione ed esecuzione.
Cesare Liaci
Kenneth Bager
Fragments from a space cadet
Music for dreams/ family affair
Elettonica / ***
La storia comincia negli anni 80 quando
Kenneth Bager cominciò a muovere i
suoi primi passi. Siamo a Copenaghen e
Kenneth nell’ambito della musica acid
Lei è nata a settembre del 1983 ed è al
secondo album. Io sono di qualche mese
più giovane e mi limito a inseguirla. Mi
sembra anche giusto. Talento purissimo del
soul inglese, cresciuta a pane e musica nel
nord di Londra, dopo un discreto successo
commerciale e gli applausi della critica
con il suo debut-album Frank, torna Amy.
In Italia non abbiamo niente di questo
livello, e questo varrà per chissà quanto
tempo purtroppo. Ok, dalla sua c’è la
voce, e lì non c’è geografia che tenga: il
suo timbro, spesso paragonato a quello di
Macy Gray (ma dov’è finita?), la porterà
dovunque. Probabilmente anche il suo
carattere. Ideale per ciò che canta e
per come lo fa. Di certo c’è la colonna
sonora del prossimo Bond: i produttori
hanno deciso di investire nel suo futuro.
Nel suo presente grossi disordini alimentari
(continuo oscillare tra bulimia e anoressia,
per la gioia dei tabloid...etica? No grazie),
qualche sbronza un po’ troppo pubblica.
KeepCool
E un anno e mezzo di totale inattività.
Poi arriva Mark Ronson (ha prodotto Lily
Allen, vuoi vedere che diventa il Pharrell
d’Albione?) e la luce si riaccende. Qualche
perla (la title-track su tutte), un paio di pezzi
più che buoni per la radio (Re-Hab già la
ascoltiamo da noi, You Know I’m no good
arriverà a breve), un soul anni ‘60 giusto un
po’ in ritardo (Love is a losing game). Tre
o quattro pezzi appaiono completamente
inutili, ma bisogna pur arrivare a quota
35 minuti, e mettere insieme 11 tracce,
altrimenti la multinazionale non paga
più. Ha 23 anni, speriamo non le mettano
pressione almeno fino al quinto album. A
meno che non vogliano far felici i tabloid
a vita..
Dino “doonie” Amenduni
Saint privat
Superflu
Dope noir
Easylistening / ***
Se qualcuno di voi
avesse la fortuna di poter
fare un giro in Yacht
in Costa azzurra... beh
questo disco sarebbe
l’ideale. Per chi, poi,
fa dell’eleganza una
questione di stile innato
...beh questo disco è
perfetto. Perché la musica contenuta in
questo Superflu è roba capace di arredare
una stanza, di rendere “cool” un soggiorno
ikea. Saint privat è un progetto che unisce
la voce della bella e francese Valerie e
il produttore viennese Waldek. Niente di
più facile, easy listening appunto capace
con poco di creare suggestioni musicali
d’altri tempi congelate da una discreta
elettronica e consegnate all’eternità.
Il divertissement è di casa così come le
citazioni che il duo accenna. Da un riff di
chitarra che sembra omaggiare i velvet
undergound si passa a piccoli intermezzi
barocchi, per poi montare su un jet privato
e scomodare il tropicalismo, il jazz. Suoni
del passato si incastrano senza stridere ma
morbidi con i nuovi ritmi, protagonisti di una
moderna spy story. Il francese poi è velluto
color porpora su questa musica: sensuale,
caldo, avvolgente. (O.P.)
Co’ Sang
Chi more pe’ mme
Relief Records
Hip hop / ***
Acclamati come una
delle migliori novità
nel panorama hip-hop
nostrano, i Co’Sang si
presentano all’esame
del primo album su
major forti di featuring
di rilievo sui dischi di
Inoki, Mr.Phil e Rischio.
E la prova sulla lunga distanza è coerente
con quanto dimostrato finora dal gruppo,
nel bene e nel male. Non aspettatevi un
disco facile, i Co’ Sang non cercano singoli
da mettere in classifica, e non cercano di
aiutare l’ascoltatore poco esperto: il che
si traduce in musica con un suono cupo e
scarno, estremamente coerente dall’inizio
13
alla fine del disco, ritornelli che poco si
distaccano dal flow delle strofe, melodie
quasi assenti e liriche profonde e di peso.
In altre parole, hip-hop hardcore al 100%,
e di un livello che non veniva raggiunto
in Italia da quasi un decennio. L’altro lato
della medaglia è una certa monotonia
che emerge a tratti, complice anche l’uso
esclusivo del dialetto partenopeo, che
rende ostica la comprensione dei testi. E
quando si arriva alla splendida title-track,
forte di un ottimo inciso melodico, ci si
chiede come mai non ci siano più pezzi
un po’ più “orecchiabili” come questo.
Preparatevi, avrete bisogno di più di un
ascolto per entrare in questo disco, ma
la fatica sarà ricompensata: i Co’ Sang
sono uno dei migliori gruppi mai usciti da
Napoli, e con Chi more pe’ mme entrano
di diritto nella storia dell’hip-hop italiano
più intransigente, eredi di artisti del calibro
di OTR e Sangue Misto.
Signor Php
Eagles of death metal
Death By Sexy
Columbia / Sony BMG
R’n’r /***
Contrariamente
a
quanto si legge in giro
questo non è un sideproject voluto da Josh
“pelo-rosso” Homme. La
band nasce, invece, da
un’idea di Jesse Hughes
che del leader dei
Queens Of The Stone
Age è amico fraterno. Questo non significa
che gli Eagles of death metal siano i fratellini
minori dei Qotsa, anzi, è proprio perché per
Homme questo rappresenta un “giocoso
divertimento” che la faccenda acquista
un suo proprio valore aggiunto. Del gioco
fanno parte anche Mark “prezzemolo”
Lanegan, l’attore/musicista Jack Black,
Dave “Foo Fighters” Grohl e qualche
altro amico capitato lì forse per caso. La
proposta è chiaramente scanzonata e
vuole essere ammiccante e sexy, come
suggerisce anche il titolo, ma il risultato è
tutt’altro che disprezzabile. Sudaticcio,
sgangherato ed anfetaminico r’n’r, in
rigorosa bassa fedeltà, che non sposa
soltanto la solita filosofia del sex, drugs
& rock’n’roll, ma mette sul piatto anche
ottime canzoni country, blues e pop viste,
però, attraverso una patina di polverosa
sabbia desertica che ne dà un aspetto
ancor più primordiale se è possibile.
Complessivamente Death By Sexy gira a
pieno regime, offrendo momenti di sano
e genuino divertimento, proprio come
lascia trasparire l’autentico entusiasmo dei
personaggi coinvolti. Troppo poco? Molto
più di quanto offrano un sacco di altri
dischi di questi tempi!
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
Squarepusher
Hello Everything
Warp/Self
Drum’n’Bass, Fusion / ****
Album numero 10 per Tom Jenkinson.
Fedele alla sua linea... di basso. Diplomatosi
al conservatorio in questo prezioso
strumento, oberato (immaginiamo) da
regole e precetti rigidi, continua a divertire e
divertirsi giocando con l’elettronica e la sua
eccellente tecnica musicale. Già, le regole:
quelle della critica musicale vorrebbero
una denominazione accanto a ogni
album. Provare a catalogare Squarepusher
è probabilmente, prima di un’operazione
complessa, un’enorme fesseria. Eppure,
vai su Wikipedia (di certo non la Bibbia,
ma il più lampante dei Signs o’the Times)
e trovi non meno di 5,6 definizioni per le
sue produzioni. Gongola Tom, sorridono
ai vertici Warp. L’etichetta più insolente
di sempre continua a sfuggire a tutto (e
MTV, silenziosamente, apprezza, inserendo
di tanto in tanto pezzi del loro repertorio
in scaletta). E sforna grandi cose: in Hello
Everything basso e batteria appaiono
strumenti caldi, quasi orecchiabili, pur
mescolati in accelerazione. Planetarium
è piena di jazz, Welcome to Europe è il
manifesto postumo di una generazione
lisergica e nostalgica, Hello Meow è il
Commodore 64 che abbiamo sempre
sognato. Theme from sprite e Circlewave
ci riportano al conservatorio, ma anche
alla fusion (Thelonius Monk vi dice nulla?)
Limiti? Si, certo: prima di tutto, l’album è
strumentale, il genere è a dir poco oscuro:
non regalatelo alla vostra fidanzata. Poi,
la traccia numero 5: l’onestà intellettuale
di Jenkinson, che la chiama Vacuum
Garden, non può comunque giustificare
uno svarione di queste dimensioni in un cd
che paghiamo circa 20 euro.
Berardino “doonie” Amendun
Garoto
Garoto
Ponderosa
Pop / ***
Vengono da Lisbona, ma è solo un indizio.
Perché la loro è una musica cittadina del
mondo. Sono i Garoto, un’orchestrina
stramba che con il minimo indispensabile
ha creato un sound unico e senza confini
geografici. Due chitarre, una tuba, una
batteria e il gioco è fatto. Il portoghese è
il lascia passare per atmosfere che sanno
di Brasile che ammiccano alla bossa. Ma
è solo una delle carte in mano ai Garoto.
Lo spagnolo è dietro l’angolo è subentra
cadenzato come nel Manu Chao più
acustico. Sbarazzino e sensuale, sembra
un mambo, non lo è, forse un cha cha cha,
neanche. Semplicemente sono i Garoto.
Le atmosfere si fanno più jazzy quando è il
francese a fare capolino, il sound si fa più
KeepCool
14
cittadino e lo swing della mini orchestrina
si anima. Come se si cambiasse d’abito,
come se a seconda della lingua usata per
le liriche ci si immedesimasse in un nuovo
ruolo. Camaleontici sulla strada del pop:
questo sono i Garoto. Bravissimi musicisti
riescono a spaziare nei generi fino a
diventare blues, rock. Una scoperta.
Osvaldo Piliego
The Blue Van
Dear independence
Ivi records
Rock / ****
Il rock and roll nord
europeo da fenomeno
è ormai diventato
una scena radicata
e
esportata.
Se
l’America ha i suoi Von
Bondies e l’Australia i
Jet, la Danimarca ha i
suoi Blue Van. Dimostrazione che gli anni
60 e 70 hanno lasciato un segno profondo
in tutto il mondo e che oggi più che
mai questi suoni sono stati metabolizzati
ed elaborati. L’organo Hammond già
dall’apertura non lascia scampo, con un
mix esplosivo di Led zeppelin e Motown (un
po’ Zutons per restare nel contemporaneo).
C’è un attitudine molto soul che si alterna
a momenti più garage, altri più blues alla
Doors o alla Cream. Ci sono tante cose,
un revival che attinge a piene e mani al
passato ma con passione e personalità.
Sentire riff che sembrano dei Kinks affiorare
nel bel mezzo di una canzone fa piacere.
Per chi ama le sonorità dei gruppi citati
in queste poche battute i Blue Van non
potranno che piacere. Un disco ruggente.
Osvaldo Piliego
Evereve
Triede & Faled
Massacre Records
Gothic-metal/**
Ne hanno fatta di
strada gli Evereve
da
quel
disco
immortale
che
fu
Seasons,
un’opera
che
amalgamava
in un’unica ricetta
svariate
sfumature:
gothic, black-metal,
dark, elettronica e qualche accenno a
soluzioni progressive. Gli Evereve di oggi
li definirei maestri del gothic-metal a tinte
elettroniche. Il loro modo di suonare e
comporre con il tempo è notevolmente
cambiato, si è snellito di molti elementi,
ma la componente metal, sorretta
dalla potentissima ritmica, è rimasta
costantemente su un piano di prima
importanza; in più l’atmosfera emozionale,
fragile ed introspettiva dei brani non si è
snaturata. Lo scopo artistico della band
sembra quello di colpire nel cuore e
nell’anima l’ascoltatore di turno, attraverso
le scelte artistiche del momento. La musica
nelle mani degli Evereve è solo un mezzo
da plasmare a proprio piacimento, con
lo scopo di comunicare una sensazione
alla parte più intima e sensibile degli esseri
umani.
Nicola Pace
My Brightest Diamond
Tear It Up
Asthmatickitty
Remixes / **1/2
Rafter
Music For Total Chickens
Asthmatickitty
indiepop / ***1/2
Ancora due nuove uscite per l’etichetta
di Sufjan Stevens. Una è una raccolta di
remixes dell’apprezzato album d’esordio
della affascinante Shara Worden aka
My Brightest Diamond (nella foto), uscito
appena qualche mese fa. Tra i remixers
trovate Alias (Anticon), che ritocca
leggermente ma con gusto Golden Star;
Murcof, che riempie di glitchs e sbuffi di
tramontana Dragonfly; Lusine, che rende
ancor più calda Workhorse; Stakka, che
per Disappear riprende un pò certe
atmosfere soft dell’elettronica nordica;
Haruki invece aggiunge un delicato
tocco di eleganza orientale a We Were
Sparkling; e Siamese Sisters, che, dando
maggior spazio alla propria creatività
che al brano su cui lavorare (The Good
And The Bad Guy), realizza un bel pezzo
quasi tutto strumentale. Da dimenticare
invece le due agghiaccianti versioni
elettro di Freak Out (quella di dj Kenny
Mitchell ricorda antichi ritmi post d’n’b
stile prima Warp, mentre la Gold Chains
Panique Mix è tanto insulsa che non
la passerebbe nemmeno Albertino). Il
prodotto nel complesso non è niente male
(tutta sta down-beat costantemente
accompagnata dagli archi ricorda a
tratti gli U.n.c.l.e., e in generale il triphop), semmai un pò troppo leccato,
comunque perfetto per i lounge cafè
fichi o per serate adulte semi-informali.
Con questa roba di certo non farete
brutte figure. Tuttavia, personalmente,
Firebird
Hot wings
Rise Above/Audioglobe
Hard rock / ***
Tornano i Firebird,
senza tanti giri di
parole, una eccellente
classic hard rock band
inglese fondata dal
chitarrista Bill Steer, in
un’altra vita anche
membro dei Napalm
Death e dei Carcass.
Hot Wings è il quarto lavoro per i Firebird e
mostra una vena ancor più marcatamente
blues dei precedenti album. Datemi pure
del retrogrado, ma questo è il miglior hard
rock-blues che si possa ascoltare oggi. Non
è musica fatta per compiacere le mode,
ma per placare la sete di chi gode di questi
suoni. Musica fatta con il cuore. Tuttavia,
per quanto sembri strano, questo rock
suona fresco ed assolutamente al passo
con i tempi e non come una mera rilettura
di un seppur glorioso passato. Una lunga
serie di aggressioni rock-blues o blues-rock
che dir si voglia… un lavoro dove esplode
un’inattesa anima color profondo porpora
e dove è un continuo intrecciarsi di discorsi
queste operazioni non le riesco più a
gradire. L’altra novità è questo strano
disco dall’improbabile titolo firmato
Rafter (nome completo Rafter Roberts).
Se questo nome non dice niente a più,
allora conviene tener presente che il
nostro è uno che già da lungo tempo
ha messo le sue mani nei più disparati
progetti musicali: dai Castanets ai Fiery
Furnaces, dai Black Heart Procession ai
Gogogo Airheart, dai Kill Me Tomorrow
ai Rocket From The Crypt. Inoltre, il suo
lavoro ufficiale è produrre jingles per gli
spot pubblicitari... Inevitabilmente da
uno così non poteva che uscire fuori
un disco folle e incasinato in cui stili e
atmosfere delle più distanti e inconciliabili
si ingarbugliano strambamente, come se
più che a un disco suonato ci trovassimo
di fronte a un collage di frammenti di
tutte le sue collaborazioni precedenti. E
il bello è che il tutto funziona alla grande.
Il disco è godibilissimo e divertente,
nonostante si perda continuamente il filo
del discorso. Un disco indiepop suonato
con spirito free jazz. Da non perdere se vi
siete finalmente rotti delle solite stronzate
indiepop.
Gennaro Azzollini
che rimandano ad altri eroi del settore, dai
Bluesbreakers ai Canned Heat, da Muddy
Waters a Steve Ray Vaughan. In tutto
questo i Firebird mantengono inalterato
il loro vigore puramente hard, ma per il
resto si lasciano trasportare dalla corrente
blues. In Hot Wings arde tanto fuoco da
incendiare gli animi di tutti i veri rockers e
questo, scusate se è poco, vi dovrebbe
bastare!
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
Novembre
Materia
Peaceville Records
Dark-rock(a tratti metal) / ***
Nati nel 1990 con il
nome
Catacomb,
dalla mente dei fratelli
Orlando, pubblicano
un demo ed un’E.P. di
ottimo death-metal, in
seguito all’evoluzione
della
loro
musica,
meno violenta e più
riflessiva, decidono di cambiare moniker
in Novembre. Di qui in poi i nostri incidono
numerosi dischi, firmano per la prestigiosa
KeepCool
Century Media e si imbarcano per tour di
supporto a Moonspell, Katatonia e Opeth.
Dopo un intenso lavoro nel 2006 esce per
la piccola etichetta inglese Peaceville
Rec. Materia, un album difforme rispetto
ai precedenti nel quale la musica,
completamente emancipata dagli schemi
death-metal, si orienta su un sound costruito
su melodie chitarristiche ariose e ricercate.
Carmelo Orlando ha quasi definitivamente
abbandonato lo scream che tuttavia è
presente solo in quattro episodi, infatti, il
massiccio uso delle clean- vocals meglio si
sposa con la scrittura melodica dei brani,
anche se a volte gli arrangiamenti delle
stesse sono completamente da rivedere.
Altro punto interessante di questo disco è
l’impiego di versi scritti in lingua italiana,
operazione artisticamente ben fatta ma
che non riscuoterà molti consensi.
Nicola Pace
Micecars
I’m the creature
Homesleep
Indie / ***
Sembra aprirsi come
Boces
dei
Mercury
Rev questo I’m the
creature dei Micecars,
un muro di feedback
tra cui voci sognanti si
fanno strada. Andando
avanti nell’ascolto una
galleria di gruppi che
mi fanno impazzire mi investono. Sento i
Pavement, i Grandaddy, Beta band, Pixies,
Lemoheads, Dinosaur Jr. Chi più, chi meno,
fanno capolino in un sound travolgente e
in canzoni suonate con la giusta attitudine.
In un periodo in cui forse ci si prende troppo
seriamente, paranoici e cervellotici, un
gruppo come i Micecars fa bene. Sguaiati,
teneri, potenti, pop quanto basta per
ronzarti una giornata nelle orecchie. Nulla
di trascendentale o di particolarmente
originale, roba che ascolti per staccare la
spina, bere una birra e muoverti sotto un
palco...ed è per questo che è irresistibile.
(O.P.)
Muffx
...Saw the...
Beard of stars records
Stoner / ***
L’intro di piano è
spaesante,
ma
ha
già in sé qualcosa di
malato, la tensione che
dopo pochi secondi
esplode in ...Saw the...
brano che da il titolo a
questo disco dei Muffx.
15
La neonata formazione salentina, porta in
realtà sulle spalle la pesante (e nel caso
del loro sound è proprio il caso di dirlo)
eredità di un progetto come i Child from
hell e vira il suo percorso verso territori
stoner. Questo rock desertico, fatto di
calustrofobia ma anche di grandi aperture
sembra gemellare salento e america per
affinità di paesaggi fisici e sonori. Il primo
nome che viene alla mente ascoltando la
traccia Omertà è quello dei Queen of the
stone age e in particolare quelli di Song
for the deaf. Ma proseguendo la lista delle
influenze si fa più ampia e il loro sound si
infittisce di reminescenze punk, piccoli
scream alla Metallica, rock and roll grezzo
Alibia
Fra tutto e niente
Cni
Pop/***
Dopo le riflessioni psicopatologiche sul
male di vivere il rock italiano ha scoperto
la quotidianità. A cavallo del pop senza
paura di cadere nel banale con un
obiettivo: arrivare subito. Gli Alibia sono
una di quelle band che ha in sé un pregio
raro: la capacità di scrivere canzoni.
Canzoni, le loro, che riescono a conciliare
la vocazione pop con un’attitudine
musicale rock. discrete, non invadenti
come tormentoni. Canzoni che parlano
di cose semplici, intime, tenere. Un po’
come i Baustelle, gli Alibia fanno il gioco
dei ruoli. Maschile e Femminile sono le
anime cantanti della band, due spiriti
vicini, soffusi, come sfumature di uno
stesso colore. Il paragone con i Baustelle si
ferma però a un’impronta. Gli Alibia sono
decisamente più rock, fortunatamente
più acerbi, meno impostati ma più
spontanei. Superata anche la prova
falsetto, mossa pericolosissima, tecnica
canora ormai abusatissima nel rock
italiano. Destinati a fare strada.
Osvaldo Piliego
(So fucking way it). C’è spazio per momenti
più psichedelici che rimandano al passato
(Greatful dead?) e altre soluzioni più
blues. Il sound e compatto, saturo, tirato.
A volte si nota qualche sbavatura vocale
e qualche ridondanza compositiva ma
l’effetto complessivo è esplosivo. (O.P.)
Bruise Violet
Calliphora Vicina
Autoproduzione
Indie / ***
Un disco così dalla scena salentina non te
lo aspetti. Ha dello stupefacente! Ma non
c’è nulla di “drogato” in questo lavoro. Al
contrario, ci sono sei brevi canzoni dirette
e potenti che ben rappresentano lo stato
dell’arte dell’italica scena indie-noise. Un
prodotto indipendente sotto tutti gli aspetti,
dalla non-omologazione a qualsivoglia
trend
del
momento,
all’attitudine
spiccatamente elettrica di questa band.
Ma l’ascolto di questo piccola raccolta
riserva ancora delle altre sorprese: stupisce
intanto la particolare voce di Claudia
capace di dar corpo all’eterogeneità delle
proposte qui racchiuse che contengono
richiami ad una seppur vaga psichedelia
macchiata di malinconia, ad un rock
spigoloso, sporco e indolente tipicamente
metropolitano fino a certa “vecchia”
oscura e goticheggiante new wave, e
stupisce poi anche la padronanza con cui
queste diverse influenze vengono esposte.
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
Grimoon
La lanterne magique
Macaco records
Indie / ***
I Grimoon sono uno di quei gruppi a
cui fatichi per trovare un posto. sospesi,
senza un tempo un luogo a cui poterli
legare. Come un sogno lasciano una
scia che ti accompagna, una sensazione
piacevole che rimane, tra le pieghe del
cuscino nella penombra delle imposte
ancora semichiuse. La formazione italofrancese fa galleggiare la sua musica tra
le acustiche ballate per carillon possibili e
atmosfere più colte e quasi “art” di scuola
americana come alcune chitarrone
western alla Calexico. Surreale è la galleria
KeepCool
16
di personaggi che accompagna Magiche
le lanterne che illuminano di una luce fioca
ma calda le canzoni di questo album, che
fa sorridere quando cita 007 ma che fa
anche bene alle orecchie per il suo essere
discreto e profondo come uno sguardo.
(O.P.)
Blessed child opera
Happy Hark
Delta Italiana/ Cni
Indie / ***
Sarà questo il suono
del nostro tempo, sarà
che l’aria ha questo
peso. Che la nuova
onda, è forse più
dolce e carezzevole
ma porta con sé
l’inquietudine. E quello
che ti prende subito
di questo nuovo lavoro dei Blessed Chld
opera è questo suo essere lirico e terreno,
così difficile e spontaneo al tempo stesso. Il
gruppo partenopeo conferma con questo
lavoro una maturità di band in senso
assoluto. Ci sono tracce dei Cure in quelle
chitarre che sembrano non finire mai,
ci sono i Radiohead di Ok Computer in
quella capacità di fare della voce e della
canzone materiale resistente e non usa e
getta, la bellezza di un uomo fragile come
in Sophia. Happy Hark è un disco che ha
bisogno del suo tempo per essere vissuto e
lo merita tutto.
Osvaldo Piliego
Hot club de Paris
Drop It Till It Pops
Moshi Moshi Records
Pop-punk / ***
Hot club de Paris.
Non proprio osannati
da tutta la critica
internazionale,
c’è
chi li ama e chi non
proprio. Due anni
sui
palchi
come
support band senza
lasciare indifferente il
pubblico. In tournèe
con Maxïmo Park, Dirty Pretty Things e più
recentemente Dartz! e Slow Club tanto
per citarne alcuni fra molti, suonano e se
la spassano in giro senza interruzione (per
questo nuovo anno già una serie di date
fissate tra Inghilterra Germania Svizzera e
Ronin
Lemmig
Ghost records
Rock / ****
A più di due anni di distanza dall’omonimo album di debutto
tornano i Ronin di Bruno Dorella con un disco che sorprende
per il peso specifico della musica che contiene. Bruno,
figura chiave del nostro underground (Ovo, Bachi Da Pietra,
gestore dell’etichetta Bar La Muerte), ha concepito un lavoro
di rara intensità, evocativo, capace di flirtare con generi
apparentemente distanti. Nel sound desertico della band
non è difficile scovare echi lontani, siano essi provenienti dal
continente nero o dal sud delle Americhe, dal jazz o dalla
musica sperimentale. Le melodie, che giocano un ruolo chiave, tendono spesso
all’epico, a dispetto di un mood opprimente che pervade tutti i pezzi del lotto.
Musica profondamente cinematica, che scorre via non senza lasciare piacevoli
strascichi di inquietudine e che riesce, con delle piccole deviazioni inaspettate, a
colpire per originalità. L’umore noir infatti, è l’unica caratteristica presente in tutte le
composizioni, che si presentano profondamente assortite e affatto monocorde. Su
tutte si erge il canto anarchico Il Galeone, con ospite alla voce la bravissima Amy
Denio, un ibrido tra canzone popolare italiana e sound di frontiera di insolito vigore
e bellezza.
Ilario Galati
Austria). Chitarre frenetiche, riff di semplice
ascolto e ritmo in levare. Canzoni senza
pretese, piccoli scatti di eccitante poppunk, molti buoni propositi e idee frizzanti
e genuine, titoli esageratamente lunghi
e originali. Gli Hot Club de Paris, trio
proveniente da Liverpool, nascono nel
2004 e questo è il loro album di debutto.
Danno tutta l’idea di essere giovani e
freschi, oltre che simpatici. Sul loro sito, tra
news e discografia, anche un diagramma
biografico..(??) per chi volesse conoscerli
più a fondo. Drop It Till It Pops contiene
tredici tracce in cui The Futurheads e
Snoop Dogg fanno da sfondo. L’etichetta
è la Moshi Moshi Records e loro sono da
provare.
Valentina Cataldo
NAS
Hip Hop is dead
Def Jam
Hip-hop / ****
Il signor Nasir bin Olu Dara Jones, meglio
conosciuto come NAS, acronimo del
conciliante “Niggas Against Society”,
Ne(g)ri contro la società (“Niggas” è termine
spesso usato offensivamente dai bianchi
americani contro le persone di colore)
è uno di quei artisti che viene elogiato
tantissimo dalla critica e dai colleghi, ma
che poi non
riesce
mai
a
sfondare.
Abbiamo
infatti a che
fare con il
miglior album
del
rapper
originario del
Queens, giunto alla sua ottava fatica in
studio. All’apice della maturità come uomo,
ne consegue una grande consapevolezza
come artista. Non è più così infrequente
assistere, in questo genere di album, a
un’autentica parata di stelle, e questo
“Hip-Hop is dead” non fa eccezione:
tutti vogliono esserci, sia gli amici (Kanye,
Snoop, The Game), sia i presunti nemici
(Jay-Z,). Cosa distingue NAS dal resto del
gruppo (e volendo pensare male, è questo
il motivo per cui non ha mai sfondato) è la
voglia di dire qualcosa. Il titolo dell’album,
che potrebbe sembrare una semplice
provocazione, è figlia del dissapore, suo e
di un numero sempre crescente di rapper,
verso il governo degli Stati Uniti. E così,
può, con Jay-Z, lanciare un pamphlet non
privo di autocritica (“Black Republican”).
I campionamenti non mancano, nel più
classico trend del genere, ma è nella
scelta degli stessi che NAS appare al
momento insuperabile. “In a gadda da
vida” per la title-track, primo singolo
KeepCool
estratto dall’album, Diana Ross (con “The
interim”) per “Still Dreaming” (con Kanye,
che oramai studia da star pop), ma il
momento migliore dell’album, quello che
unisce il tributo allla genialata, arriva alla
traccia numero 14, quando Nat King Cole
(con “Unforgettable”) impreziosisce “Can’t
forget about you” (con Chrisette Michele),
decisamente il pezzo migliore (non a caso,
sarà il secondo singolo). Il Signor Kelis (è
sposato con Miss Rogers), a 34 anni, entra
ufficialmente nel gruppo di quelli che non
sono solo bravi, ma anche di successo.
Anche perché, citando la finale “Hope”,
“Hip-Hop will never die”. Altrochè, è in
forma smagliante. (consiglio per la lettura
della recensione: se amate il genere,
aggiungete una stella alla valutazione,
fidatevi).
Ilario Galati
Triad Vibration
Triad Vibration
Zapted / Kiver
Tribal jazz / ****
È sicuramente interessante il tribal jazz dei
Triad Vibration, trio milanese che ha da
poco pubblicato questo primo omonimo
cd. La band composta da Ezio Salfa (basso
elettrico e percussioni minori), Gennaro
Scarpato (percussioni e batteria), Tannì
(didgeridoo e percussioni minori) viene
affiancata dagli ospiti Gendrickson Mena
(tromba), Lucia Minetti (voce), Giovanni
Venosta (piano), Luz Amparo Osorio
(voce) che danno ulteriore spessore ad
un lavoro curato in tutti i dettagli. Gli otto
inediti si muovono infatti su registri molto
diversi: il groove iponotico e la ripetitività
quasi ossessiva di Clito e Crazy dog,il
divertente gioco di Happy Walk, i ritmi più
funky di The product, le aperture jazzistiche
di Funk around the world, le atmosfere da
club e la melanconia di Cote d’azur, i ritmi
arabeggianti di Kusha e il finale sognante
riservato alla ninna nanna accarezzata
alla chitarra per il piccolo Jacopo.
17
Nicola Andrioli
Alba
Dodicilune
Jazz / ****
Tessere le lodi di Nicola
Andrioli, pianista brindisino
(di
recente
adozione
parigina) classe 1977 è
un’operazione
ardua,
poiché si rischia di cadere
facilmente nel retorico o nel
già detto, visto che la sua
perizia artistica e musicale
è fuori da ogni discussione
ed è al di là di ogni più rosea aspettativa.
In particolare in questa sua opera prima
(frutto del meritevole impegno produttivo
della Dodicilune) si può felicemente
constatare, nelle meravigliose composizioni
di Nicola, la perfetta fusione tra scrittura
e improvvisazione, tra melodia e ritmo,
tra intricate tessiture ritmiche hard bop e
modulazioni armoniche talvolta costruite
su semplici triadi ‘metheniane’ (alla faccia
dei jazzisti ‘duri e puri’), tra il classicismo
di Chopin filtrato attraverso Bill Evans (è
da ricordare il passato accademico di
Andrioli in ambito classico, ricco di premi)
e il lirismo più moderno di Brad Mehldau – è
da notare come abbia citato due pianisti
notoriamente amanti della formula del trio,
scelta anche da Nicola in compagnia dei
bravissimi Mimmo Campanale e Giuseppe
Bassi. Che sia un alba il cui tramonto non
arrivi mai.
Marcello Zappatore
Ennio Rega
Lo scatto tattile
Edizioni Scaramuccia
Canzone d’autore / ***
Il primo ascolto non rende sicuramente
giustizia a questo nuovo lavoro del
cantautore salernitano d’orgine e romano
d’adozione Ennio Rega. Dopo Concerie
(e il mini album con video clip Scritture ad
aria) il pianista e cantante, già vincitore
della Targa Tenco del 1993 e di numerosi
altri riconoscimenti, torna infatti con Lo
scatto tattile che racchiude quattordici
brani non semplici, da metabolizzare e
imparare ad apprezzare. Molto ben curati
gli arrangiamenti, realizzati da Rega con il
chitarrista svedese Lutte Berg, realizzati “in
diretta” da una piccola orchestra. I pezzi si
muovono tra jazz e pop con una spruzzata
di musica classica. Nel complesso il lavoro
è ben riuscito anche se in alcuni casi Rega
esagera troppo nei testi (anche se fa parte
del suo stile, quindi prendere o lasciare) e in
alcuni frammenti echeggia troppo un certo
Battiato.
Abash
Madri senza terra
CD il Manifesto
Etno-rock/****
La storia degli Abash non parte da
molto lontano, nel 2001 portarono live
nelle piazze salentine, e non solo in
queste ultime, il frutto del loro primo
disco Salentu e Africa, un’originale
miscela a base di rock e musica etnica.
Successivamente, passando per la
seconda ed evolutiva prova in studio
Spine e Malelingue (2003), gli Abash
sono giunti a Madri senza terra, un lavoro
in cui hanno progressivamente ampliato
la loro proposta artistica fagocitando nel
proprio sound numerose contaminazioni
che oggi più di prima contribuiscono in
maniera attiva nel plasmare uno “stile”.
Personalmente gli definirei una band
dedita ad un etno-rock determinato
da ritmiche energiche e tendenti
nella forma e nelle sonorità a soluzioni
contigue al più semplice e comune softmetal; per non parlare dei molteplici
incisi, fraseggi ed interventi solistici in cui
tastiere, chitarre e teremin si intrecciano
richiamando alla mente molte delle
modalità
tecnico-estetico-espressive
tipiche dell’esperienza progressiva degli
anni Settanta. Particolarmente incisivo è
l’impiego, non eccessivo, del vernacolo
salentino che riesce a donare profondità
ai temi impegnati sviscerati nei versi
dei brani, fra cui sottolineo i concetti,
in nessuna maniera retorici, d’amore,
pace, uguaglianza e fratellanza.
Nicola Pace
KeepCool
18
Davide Viterbo è un musicista poliedrico.
Violoncellista, chitarrista, arrangiatore,
tecnico del suono, produttore, ha lavorato
(tra gli altri) con Radio Dervish, Rosa
Paeda, Nura, Skizo e Rene Aubry. Proprio
dalla collaborazione con il musicista
francese è nato lo spettacolo Distant
City presentato in anteprima assoluta a
novembre nell’ambito del festival barese
TimeZones, diretto da Gianluigi Trevisi.
Davide Viterbo è un nome per niente
“altisonante”, per niente “internazionale”,
per niente “hype”, per niente “blasonato”
o “osannato”, eppure proprio quel nome
ha regalato forse la più bella sorpresa di
questa ventunesima edizione del festival
di musiche possibili.
Il progetto da te ideato ha un titolo molto
evocativo, Distant city. Ci vuoi parlare un
po’ di quali erano le intenzioni, i sentimenti
e le idee che gli hanno dato vita?
Sono
da
tempo
attraversato
da
molteplici percezioni legate a possibili
rappresentazioni del tema città, ed ho
iniziato ad osservare questo perimetro
deflagrante ed implodente, da varie
intime prospettive mentre, al contempo,
seguivo al di fuori di me, i fili che mi
legavano a precedenti artisti che avessero
trattato il tema in precedenza. Il racconto
di Edgar Allan Poe L’uomo della folla mi
ha donato importanti avvii di riflessione
(desidero tuttora realizzare una pièce a
se stante). Le poesie di Dora Lapolla, - a
cui avevo già messo mano in privato, con
l’utilizzo di sfondi elettrici e riverberanti hanno tracciato il solco e reso necessaria
questa rappresentazione. Quando parlo
di necessità intendo stabilire una linea di
confine fra le idee artistiche e l’urgenza
di raccontare: le idee fanno parte di un
accostamento, spesso autoreferenziale, di
elementi che potrebbero o no stabilire un
contatto tra artista e pubblico; l’urgenza
di raccontare impone all’artista di non
risparmiarsi nella ricerca dell’alchimia che
veicoli il suo operato nell’immaginario
di chi osserva al di fuori di se. Avevo
dunque iniziato a scrivere un lavoro
piuttosto ambizioso per grande orchestra,
ma tornato alla realtà, ho deciso di
comporre per un ensemble più agile che
costituisse corpo unico e fosse occasione
di coesione umana fra gli elementi che ne
avessero preso parte (chi ascolta, vede..)
Nel corso della mia attività di sound
engineer ho avuto modo di conoscere
tanti musicisti e, senza fretta, ho fatto le
mie scelte, rivelatesi ora al di sopra delle
migliori aspettative. Tornando al titolo,
Distant city l’ho costruita come sequenza
di immagini musicali intorno all’elemento
simbolico della “citta distante”; una
possibile soundtrack, rappresentazione di
un globale movimento ansioso, privo di
meta; ma anche rappresentazione della
citta osservata da lontano che rapisce
con le sue luci e riverberi, priva di attriti e
contrasti, calma ed avvolgente.
Nel tuo passato hai attraversato diversi
generi e “scene”, in particolare sei stato il
chitarrista di uno dei più significativi gruppi
punk italiani (gli Skizo). Raccontaci un pò
di quel periodo e cosa è rimasto di quelle
esperienze.
Mi costringi a ripercorrere cose lontane
nel tempo e di questo ti ringrazio perché
mi dai modo di affrontare una sintesi del
mio percorso, benché non nascondo che
la cosa mi par fatica alquanto. Comincio
col dire che gli Skizo se pur collocati
nella scena del punk italiano, non si
riconoscevano pienamente in essa o per
meglio dire erano già oltre: il nichilismo che
aleggiava nella nostra poetica costituiva
un elemento di rottura nei confronti delle
certezze proposte da una cultura che con
i suoi movimenti tendeva ad inglobarci
in strutture di pensiero precostituite e
demagogiche. Non che ora le cose siano
cambiate, ma neanche noi. Desidero
citare per questo un aforisma del mio caro
amico e compositore Antonio Breschi: “io
non ho cambiato il mondo, ma neanche
lui è riuscito a cambiare me, sicchè siamo
pari!”. Anziché cambiare le cose intorno,
c’era l’intuizione che fosse necessario
lavorare dentro di se, ed il disagio
esistenziale lo si esorcizzava beffandoci
di chi, dall’alto della conoscenza dei
testi sacri, proponeva pietanze rafferme.
Cosa dire di più, è stato il periodo della
mia formazione di cui porto ancora delle
reminescenze tanto nella musica che nel
pensiero.
A quale pubblico è principalmente
indirizzata la tua musica?
A orecchi di ogni forma e dimensione; non
ho tuttavia un indirizzo di marketing e non
possiedo magie da pifferaio di Hamelin;
resto molto soddisfatto da questo dato
che mi rende onore e mi da la possibilità
di continuare a comporre per un pubblico
che desidera partecipare ad eventi di
vera comunicazione, dove sul palco ci sia
qualcuno che abbia necessità e cose da
raccontare.
Le tue composizioni fanno subito pensare
alle opere di musica da film. Lo stesso
Distant city è stato accompagnato dal
lavoro di un videomaker. La scrittura dei
brani è stata pensata fin da subito come
qualcosa da legare a delle immagini, o è
un’idea nata successivamente?
Quando compongo ho sempre delle
immagini che scorrono nella mia mente,
ciò che faccio è colonna sonora di
quanto osservo sia dentro, sia oltre me:
dovendo quindi collocare il mio lavoro in
un archivio musicale virtuale, credo che
sarebbe a suo agio fra le colonne sonore;
anche se qualcuno potrebbe chiedermi
“ma di quale film?”
“Non importa” - gli risponderei - “basta
osservarsi intorno o chiudere gli occhi”.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Considero Distant city un cantiere aperto,
ed al momento solo un punto di partenza
per un ampio spazio di rappresentazione,
dove far confluire contributi esterni
filmati, letterari e musicali: unirsi intorno
ad un progetto è più interessante che
appartenere ad un genere. Al momento
gli strumenti ed il sound utilizzati sono
prevalentemente acustici, ma prevedo
di collaborare a breve con manipolatori
elettronici del suono e di utilizzare sounds
elettrici e noise, lasciando però invariata
la poetica del lavoro.
Gennaro Azzollini
19 19
È interamente dedicato agli anni ‘70 il nuovo disco di Daniele Sepe.
Il vulcanico musicista napoletano ha realizzato un concept su un
decennio spesso bollato come funesto ma che ha rappresentato
un momento di estrema libertà capace di investire tutti i settori
della società. Una spinta al rinnovamento che ha fortemente
condizionato l’arte e particolarmente la musica.
Il tuo nuovo lavoro si presenta con un titolo che parafrasa Mao,
una stella a cinque punte in copertina, il nome della band che
è mutuato dalla Raf tedesca… insomma, più di qualcuno sarà
impallidito…
Hai detto bene, fare impallidire un po’ di gente… era quello che
volevo fare. Mi sembra che oggi ci sia una situazione sociale nella
quale impallidiamo solo noi… call-center, co.co.pro. lavoro a
chiamata, a progetto… tutto questo ci rende palliducci. Mentre i
padroni sono come sempre abbronzati e ingrassati e in splendida
forma. La mia provocazione con questo disco è quella di ricordare
ai più che c’è stato un momento in cui noi si stava meglio e loro, i
padroni, stavano peggio.
Gli anni ’70 sono stati un decennio difficile, dalla alta conflittualità
e dalle grandi istanze sociali, e al contempo sono stati anni molto
fervidi sul piano della creatività e della produzione artistica.
Naturalmente tu concordi sul fatto che c’è una relazione tra questi
due dati?
Sicuramente. Ci si poneva il problema del perché fare determinate
cose. L’arte, e soprattutto la musica, non era un esercizio fine a se
stesso, o peggio, per fare soldi. Era uno modo per esprimersi in un
momento in cui il politico entrava dappertutto, anche nei rapporti
interpersonali, anche con le nostre fidanzate… Ovviamente io
ho fatto questo lavoro per misurare i cambiamenti che si sono
prodotti nel nostro paese negli ultimi trent’anni. Per esempio, nel
libretto che accompagna il cd c’è una vignetta del Male che
ritrae Wojtyla con due prostitute sedute sulle sue gambe, mentre
oggi se uno come Crozza fa l’imitazione di Ratzinger passa i guai
e gli levano il programma. Oggi sarebbe impensabile fare satira
come la faceva il Male, il che significa che siamo tornati indietro
anziché andare avanti.
Visto che parlavamo del libretto (che contiene tante piccole
memorabilia delle cultura antagonista di quel periodo, ndr)…
anche questo disco esce per i Materiali Musicali del Manifesto,
che vuol dire anzitutto prezzo giusto e confezione ben fatta.
Insomma, questo sodalizio procede bene.
Si, io mi trovo bene perché nonostante tutte le difficoltà che ci
possono essere ci guadagniamo tutti. Ci guadagno io che faccio
questo disco, che evidentemente non sarebbe potuto uscire per
Bmg. Ci guadagnano i miei ascoltatori che possono acquistare un
disco a ‘prezzo politico’. Ci guadagna il Manifesto che con i soldi
del disco si finanzia.
E sorprendentemente si riesce anche a vendere molto, come nel
tuo caso.
Si, Viaggi Fuori dai Paraggi sta sulle 40mila copie. Il disco nuovo
ha già esaurito la prima stampa, che vuol dire 8mila copie.
Sono numeri alti anche per artisti mainstream. Comunque, io
continuerei a far musica anche se mi comprassero in 50 persone.
E poi naturalmente fare i dischi col Manifesto per me significa
anche veicolare un certo tipo di idee.
Il disco si apre con Zappa e si chiude con Hasta Siempre di Carlos
Puebla. Perché queste scelte?
Penso che la musica di Zappa sia eccezionale e mi piace molto
anche quello che diceva Zappa, da Plastic People in poi. Ha
scritto dei testi formidabili. Poi, con la scusa che Zappa ha scritto
roba difficile, in pochi si misurano con il suo repertorio. È vero, ci
sono cose impossibili. Ma ci sono tante cose che possiamo suonare
anche noi mortali. Volevo aprire il disco con un personaggio
totalmente fuori dalle regole così ho scelto Peaches En regalia.
Il pezzo di Puebla invece l’ho scelto perché volevo chiudere in
una certa maniera. Dall’America Latina ci arrivano notizie molto
confortanti, con intere popolazioni che si sono rotte le palle e, con
Chavez, Morales e altri, hanno deciso di riprendersi quello che gli
spetta. Insomma, mi sembra che da quei paesi ci arrivi una lezione
di dignità.
Napoli? Non posso non farti una domanda sulla tua città. Che
effetto ti fa leggere le notizie di cronaca?
Mah, bisognerebbe dire anzitutto che dalle mie parti la criminalità,
la camorra, fa vivere un sacco di gente. La realtà dei fatti è che
il problema di Napoli non è certo il suo proletariato. Il problema
è una borghesia che è sempre stata parassitaria e non ha mai
espresso nulla di decente. Vive tranquillamente nei suoi spazi
fottendosene di quello che succede in città, tranne quando
gli scippano il Rolex. Il problema è che qui c’è una situazione
endemica di disoccupazione… sembrano discorsi vecchi ma
dalla chiusura dell’Italsider e delle altre grandi fabbriche non è
cambiato nulla. Solo un lavoro di facciata svolto dalla giunta
Bassolino. Qui la gente si arrabatta per campare e, nell’Europa
del 2007, non mi sembra che sia molto edificante. E non c’è la
volontà politica per risolvere la situazione perché le proposte sono
solo di natura repressiva… e in più il Ministro degli Interni ci viene
a raccontare che i neomelodici sono conniventi della camorra…
ma uno che vive a Secondigliano che canzoni vuole sentire,
secondo te?
Daniele, tu sei stato tra i primi musicisti della tua generazione a
interessarti al patrimonio musicale pugliese. Che idea ti sei fatto
della sovraesposizione che ha avuto la mia regione negli ultimi
anni?
Io sono stato uno dei primi anche ad abbandonarvi (ride). Mi
pare che sia diventata un’altra cosa. Cantare Matteo Salvatore
per me significava raccontare la condizione di vita dei nostri
nonni, cantare la sofferenza di una terra. Adesso tutto mi sembra
molto decontestualizzato e mi fa tristezza che tutto si debba
per forza trasformare in una festa. Significa perdere la memoria,
non recuperarla. Serve solo pe’ ffa soldi quindi approfittate del
momento (ride).
Ilario Galati
KeepCool
20
Nuovi arrivati in casa Sleepingstar: sono
i Montecristo. Fanno rock and roll senza
fronzoli, sono romani, un piede nel passato
l’altro nel presente. Si sono già esibiti al
fianco di gruppi come Eagles of death
metal, White flag, Raveonettes. È da poco
uscito il loro primo omonimo album.
La
vostra
musica
sembra
una
consacrazione. Da anni si parla di una
scena rock and roll capitolina ed oggi
arriva questo disco con Sleepingstar.
Come vivete questo momento?
È un bel momento. Roma negli ultimi
anni è in vero fermento come non la
vedevamo da metà dei novanta. C’è
molto indie, dell’ottimo garage, una scena
hardcore e punk sempre molto attiva e di
qualità. I locali chiudono e ne aprono altri,
c’è confusione sotto il sole, la situazione è
eccellente.
Montecristo porta alla mente tutto un
immaginario che in parte traspare anche
dal vostro sound, da dove viene l’idea?
Montecristo è un romanzo che ci è caro.
Un uomo viene rinchiuso per 14 anni e non
sa il perché. Deve trovare qualcuno che gli
spieghi come funziona il mondo per capire
il motivo della sua reclusione. È un romanzo
sulla perdita dell’ingenuità, più che sulla
vendetta. Il resto del nostro immaginario
ha a che vedere con i disegni di Corben,
Frazetta, Kirby, Robert Williams, i fumetti
di Len Wein e Bernie Wrightson, gli horror
della Hammer, la fantascienza classica
e quella “sociale” degli anni 60 e 70, film
come Occhi bianchi sul pianeta terra e
2022: i sopravissuti…in realtà siamo ancora
molto ingenui.
Un progetto giovanissimo, ma che ha subito
conquistato stampa e pubblico, almeno
così si dice in giro. Alle spalle però avete
già rodate collaborazioni, ce ne parli?
Ah, in giro si dice così? Bene. Effettivamente
ci siamo formati non più di due anni fa, ma
non abbiamo saltato tappe, siamo stati
molto veloci, perché dalla prima prova
ci siamo trovati con una grande voglia
di roccheggiare. Nel giro di venti giorni
abbiamo fatto i nostri primi concerti, uno
con gli Eagles of death metal. Il tipo del
locale voleva almeno un demo: “Non ce
l’abbiamo, facce sona’ e basta”. È chiaro
che il fatto di avere già esperienze musicali
ci ha aiutato nel conseguimento di questa
velocità d’azione. Flai viene dall’hardcore
romano metà anni ‘90, quando suonava
con Evidence, Student Zombie e qualche
altra band nata e morta nel giro di un mese.
Luca ha suonato il basso con Wow! e Tymes
Society, Emiliano canta da sempre, ed ha
inciso con i Moluart una compilation dove
quasi dieci anni fa hanno suonato anche
Flai e Valerio, il nostro batterista, che suona
tuttora con i Cosmonauti e fa parte del
progetto Ardecore con Zu e Jeoff Farina.
Ciò che è vintage o che trae comunque
ispirazione dal passato, ad alcuni sembra
inutile. Voi che avete nelle corde il glam,
il punk, l’hard rock come vedete questa
cosa?
Mah, anche il Boero sarebbe inutile, ma
è buono e c’è sempre la possibilità di
vincerne un altro. Le influenze di una band
sono necessariamente varie, in quanto
sono il vissuto musicale di ogni componente
del gruppo, e possono andare indietro
nel tempo fino ai canti gregoriani. Una
cosa sono le influenze, ed il fatto che per
alcuni di noi il mondo sia finito la serata di
Roma-Liverpool, tutt’altra cosa è ciò che
viene fuori quando ti metti a suonare con
una band, e le tue influenze si mischiano
a quelle degli altri e, perché no, al tuo
vissuto quotidiano e alle canzoni che senti
su “radio musica nuova” mentre sei in
macchina per arrivare in sala prove.
Il revival è fenomeno comunque di moda
in questi anni, credi sia l’unico rock
possibile?
Decisamente no. Anche perché non
sentiamo in alcun modo di essere una band
“revivalista”. Se c’è qualcosa che ricorda
il passato, ecco che forse abbiamo in/
consciamente compiuto un benjaminiano
“balzo di tigre” indietro negli anni, ma solo
per riportare ciò di cui avevamo bisogno
nell’adesso temporale, un po’ come fa
la moda ai suoi più alti livelli. Ci sentiamo,
nonostante tutto, un gruppo attuale, che
mangia ciò che vuole da dove vuole e te
lo rivomita nuovo nel 2007.
Ci parli un po’ del disco?
Lo abbiamo registrato nella primavera
del 2006 con la produzione artistica di
Tony James, fondatore di Generation X
con Billy Idol e successivamente di Sigue
Sigue Sputnik ed ora Carbon/Silicon con
Mick Jones dei Clash. È un disco di 12 pezzi
abbastanza eterogenei, con un’impronta
Rock’n’roll e un’attitudine punk, o forse
è il contrario. C’è un momento acustico,
un finale che potrà stupire qualcuno, e
una buona dose di pezzi fatti apposta per
smuovere le ossa in una serata a base di
tequila e birra doppio malto.
Due salentini hanno collaborato al disco,
come nasce la vostra amicizia con gli
Studio Davoli?
Più che amicizia è quasi amore. Flai, il
chitarrista, ha passato un paio di estati a
Lecce in compagnia degli SD e della loro
fantamica Alessandra e da allora tutto
è iniziato: ha fatto la regia del loro video
Superpartner, con Gianluca ha formato un
duo/trio da piano bar con il quale si sono
esibiti a Otranto e a Roma e con il quale
sperano di esibirsi ancora. Con la scioltezza
che ci contraddistingue, quando abbiamo
avuto bisogno di tastiere e di una voce
femminile il pensiero è corso subito a loro,
i quali, con la naturalezza degli dei, hanno
interpretato i pezzi dandogli in certi casi
quello shake che serviva ed in altri una
grazia vocale che ha pochi eguali in Italia.
Speriamo di averli con noi in qualche data
live: verrebbe fuori un concerto bomba.
Osvaldo Piliego
Il movimento necessario (Jato music) è il
primo album dei toscani MURIèL. La loro
musica è una convincente miscela di pop
e atmosfere più indie, rumore e melodia.
Paolo Benvegnù ai comandi è un sigillo di
garanzia, i consensi della critica un invito a
non perderli di vista.
Questo esordio è un disco tagliente e
carezzevole insieme. È questa la mia prima
impressione. Ho notato nella vostra musica
questi due registri: una forte componente
melodica accostata a un’attitudine più
rumorosa. Come definireste il vostro
sound?
Il sound dei MURIèL è ricco di sfumature, di
cui hai colto le due tendenze principali. Per
nostra stessa natura tendiamo ad amare
soluzioni inaspettate, questo fa convivere
una certa attitudine alla melodia con
la ricerca sonora alle sensazioni che
vorremmo esprimere. Forse si può dire che
il nostro sound è una forma di pop sospesa
tra una vena cantautorale ed una più
rock..una sorta di pop indipendente che
volge realmente verso una indipendenza
compositiva.
Il vostro sound sembra uscire indenne dagli
anni 90, decennio che ha scritto un certo
modo di fare rock in Italia. In particolare
ascoltandovi mi vengono in mente i C.o.d.,
grande band trentina. Cosa portate di
quegli anni con voi?
Gli anni ‘90 hanno investito in pieno sulla
nostra adolescenza. Certi gruppi della
scena italiana sono stati inevitabilmente
dei nostri “idoli” a suo tempo. Questo però
non significa che non si possa superare
certi cliché e cercare di esprimersi per quel
piccolo bagaglio di cose che si hanno
da comunicare. Forse è per questo che
la nostra attitudine alla composizione è
uscita “indenne” da un certo modo di fare
musica, perché è cresciuta naturalmente,
seguendo la via più adatta al nostro
modo di essere e comunicare. I C.o.d. li
conosciamo molto bene, sicuramente
abbiamo in comune un certo amore per
il pop, ma se dovessimo fare un nome
di un’artista italiano a cui ci sentiamo
particolarmente
legati,
facciamo
sicuramente quello di Paolo Benvegnù.
Cosa vi ispira e vi affascina fuori
dall’Italia?
Sicuramente le straniere! No, dai,
facciamo i seri...noi prima di essere MURIèL
siamo feroci ascoltatori di musica di ogni
tipo. Molto di quello che ci piace viene
da fuori, abbiamo le più svariate influenze,
ma se devo restringere il cerchio ti dico
dEUS, Doves, The Notwist, Calla, Lali Puna,
Soulwax, Karate, Motorpsycho, Tortoise,
Slint, The Police...ma proprio per citarne
pochi.
La produzione artistica del disco è affidata
a Paolo Benvegnù (e si sente), caro amico
di Coolclub.it, come si lavora con lui e
quanto ha contribuito alla confezione
finale dei vostri brani?
Paolo è una persona straordinaria.
Questo prima di qualsiasi altra parola da
spendere... con lui c’è stata un’intesa
umana totale, e da lui noi abbiamo solo
potuto imparare. Paolo si è immerso nel
nostro mondo, cercando di lavorare
soprattutto sull’attitudine, sull’approccio
e sull’intenzione di certe soluzioni
che adottiamo e facendo crescere
fortemente la nostra determinazione
per tutto quello che investe il progetto
MURIèL. Non è mai intervenuto in modo
invasivo sui brani, al contrario ha sempre
cercato di mantenere in modo fedele la
linea di certe idee di base, aiutandoci a
comprendere dove potevamo migliorare
e quali soluzioni alternative erano possibili
per comunicare in modo più efficace.
Nella fase di pre-produzione ha anche
suonato con noi, ed è stata un’esperienza
davvero importante. Alla fine su 11 brani,
solo due risultano davvero stravolti rispetto
ai provini del disco, e solo perché era
realmente necessario apportare delle
modifiche sostanziali.
Nell’ormai sterminata scena indipendente
italiana, quali gruppi seguite, quali vi
piacciono, con quali collaborate?
Assieme ai Dilatazione ed ai Soloincasa
abbiamo creato un progetto ad ampio
respiro dal nome Trydog Lab: si tratta di
un vero e proprio laboratorio musicale,
una piattaforma espressiva che unisce
diverse realtà legate da una comune
volontà comunicativa, nata con la finalità
di creare uno spazio vitale all’interno della
scena indipendente italiana. Come già
accennato in precedenza, ascoltiamo
davvero molta musica, in Italia ci sono
gruppi che seguiamo con particolare
attenzione, in questo caso mi limito a citare
i gruppi con cui abbiamo avuto contatti
di stima ed amicizia, come Perturbazione,
Gatto Ciliegia vs il Grande Freddo, Ulan
Bator, e nostri coetanei e conterranei
come Baby Blue e Gestalt (O.P.).
L’etichetta protagonista di questo numero
di Cooclub.it è la Suiteside Records. Monica
Melissano, di chiare origini salentine, è da
anni animatrice della scena indie italiana.
Oggi Suiteside cambia casa, da Bologna
a Genova, ma non cambia stile: aperta ai
generi e al nuovo, sempre in movimento.
Ne abbiamo parlato con Monica.
Ascoltando il vostro catalogo, la prima
cosa che colpisce è la varietà delle
proposte, poi si scopre che esiste una
traccia, un solco che accomuna i gruppi:
la canzone. Alla Suiteside piacciono le
canzoni?
Assolutamente sì. La musica non può essere
qualcosa di avulso dalla vita quotidiana.
Ricordate i versi di Morrissey? “Hang the dj,
‘cause the music he constantly plays don’t
tell nothing to me about my life”. Ecco,
suonare senza l’impulso di comunicare è posso scriverlo? - una masturbazione. Che
poi la canzone, o perlomeno un riff, un
ritornello, siano spesso il mezzo più efficace
per farlo è un’esperienza di ognuno. Per me
la musica ha sempre avuto un’importanza
non certo di sottofondo. Credo nelle
canzoni che si riascoltano dopo anni e
anni e fanno provare le stesse sensazioni
ed emozioni, credo in frasi che entrano in
testa e danno un senso ai propri pensieri
e al proprio vissuto. E non sopporto l’idea
che ci voglia una preparazione specifica e
settoriale per poter “comprendere”.
Come nasce l’idea di un’etichetta, quale
folle meccanismo ti ha spinto in questa
impervia avventura?
Il caso, solo il caso. Ho iniziato per
passione e amicizia a curare il booking e
la promozione dei Rollercoaster; vedendo
che le cose andavano bene altri gruppi mi
hanno chiesto di fare lo stesso. Poi io sono
un po’ accentratrice, nel senso che non mi
piace delegare, non avere il controllo su
quel che accade, e allora piuttosto che far
uscire il loro primo album per un’etichetta
già esistente si è preferito aprirne un’altra.
Quando (nel 2001) in giro comunque di
indies ce n’erano ancora poche.
Tu sei da molti anni nella scena indie
italiana, come si è evoluta o meglio com’è
cambiata?
Bhè, appunto, all’inizio eravamo in pochi,
e ci si arrangiava. A volte facendo passi
azzardati. Sbagli dai quali chi è arrivato
dopo ha tratto vantaggio, nel senso che le
nuove indies hanno le spalle parate a livello
di budget fin dall’inizio, si sanno muovere
meglio a livello di accordi di mercato. Molti
ora mettono comunque la sopravvivenza
dell’etichetta come fine ultimo, anni fa si
credeva di più nei gruppi, ci si “sporcava”
di più le mani, si azzardavano scommesse
non da poco per spingere un disco. Ora
mi sembra che i gruppi siano soprattutto
manager di se stessi, e l’etichetta sia
solo un aspetto della loro attività. Un po’
come il calcio… i giocatori il cui nome è
indissolubilmente legato a quello di una
squadra non ci sono più.
Quale tipo di rapporto stabilisci con le tue
band, se non sbaglio sei un po’ come una
mamma, ti occupi anche del booking...
Macchè mamma…. hai presente la
signorina Rottenmeier di Heidi? Ecco, così
bisogna fare! A parte gli scherzi, il booking
è la prima cosa, se il gruppo non suona
è insoddisfatto, e non si recuperano le
spese. Il disco alla fine è solo un mezzo per
far parlare del gruppo e procurargli date.
Poi più che altro mi sento un “tramite”,
nel senso che a volte sto ore a parlare coi
gruppi per fargli capire come funzionano
le cose a livello di live, di promozione,
per non creare false aspettative, per non
deluderne altre, per concordare assieme
le priorità. Che non sono uguali per tutti.
Il tuo catalogo, o almeno le ultime
produzioni in pochissime righe...
Sono molto fiera di aver pubblicato due
album agli antipodi. Il nuovo album
dei Morose, On the back of Each Day,
prodotto da Fabrizio Palumbo dei Larsen,
che è intenso, doloroso, oscuro. E Public
Talks, l’esordio dei genovesi The Banshee,
registrato da Giuseppe Barone (Valvola,
Shado rec.), che è graffiante, scanzonato,
garage pop vintage con un orecchio ai
Jam e l’altro ai Franz Ferdinand. Sarebbe
come dire che Il Cielo sopra Berlino è
meglio del primo Guerre Stellari. Sono due
cose diverse, e per fortuna, in momenti
diversi, mi ritengo in grado di apprezzare
entrambi.
Cosa bolle in pentola, in casa Suiteside?
Il nuovo album di Prague, coprodotto con
la label di Alessandro, Eaten by Squirrels,
in uscita in primavera. Poi vediamo, ho
contatti per un altro bel gruppo all’esordio,
e vorrei finalmente avere in catalogo
qualche licenza dall’estero.
Che rapporto hai con il Salento?
Pesante. Nel senso che ci sono tornata
dopo due anni e i parenti mi hanno
“bbinchiata” di orecchiette con le cime
di rapa, carciofi fritti, caffettini con panna
della Chantilly, rustici…1 kilo e mezzo
in più in quattro giorni! A parte questo,
il fatto che due anni e mezzo fa mi sia
trasferita da Bologna a Genova la dice
lunga su quanto mi mancavano il mare,
il clima mite, lu ientu e il pesce fresco. Mi
piacerebbe poter contribuire a qualche
evento salentino, prima o poi, per portare
un po’ della mia esperienza e contatti
a creare qualcosa lì, come voi state
facendo. (O.P.)
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Pecore vive
Carola Susani
minimum fax
Ho terminato la lettura di Pecore vive
di Carola Susani un mesetto fa. Ho letto
i cinque racconti che lo compongono
e poi ho depositato il volume sulla mia
scrivania, accanto alle carte (tutte in
perfetto disordine) che generalmente
lascio ben in vista perché da consultare.
Ero convinto che avrei ripreso il libro tra
le mani perché altrimenti lo avrei messo
direttamente sugli scaffali della mia
libreria. Nel corso di questo mese ho
letto altri libri, da Una vita da lettore di
Hornby a Diario di un lettore di Manguel,
da Colazione da Tiffany di Capote ad
Americana di DeLillo. Ho riletto Strade
morte di Burroughs e Dicerie dell’untore di
Bufalino, avendo sempre accanto a me
la glaciale copertina del libro della Susani.
Mentre leggevo i libri sopraelencati, a
volte sfogliavo le pagine di Pecore vive e
mi dicevo che lo avrei riletto al più presto
perché c’era un conto in sospeso tra me
e quei racconti. Ieri mattina finalmente
ho riletto i racconti. Non so perché questa
decisione. Forse perché ero rimasto
senza libri da leggere. Anzi, a pensarci,
stavo terminando la lettura di Strade
morte di Burroughs, non uno dei testi più
sperimentali dell’”uomo invisibile”, ma
pur sempre scritto in una prosa metallica
e a tratti snervante. Avevo bisogno di
storie domestiche, intime, familiari. Ecco
perché, in verità, la decisione di rileggere
Pecore vive. Non ho letto le cinque storie
da cima a fondo, ma mi sono soffermato
sulle parti che come mio solito sottolineo
con la mia matita rosicchiata sulla punta.
La verità è che avevo bisogno di rientrare
nei mondi narrativi creati dalla Susani
perché il dolore di cui sono intrisi non
possono richiedere una lettura sottile.
È uno di quei libri che necessita di una
lettura lenta, come quando assapori
un cibo dal gusto insolito e prelibato.
Allora allenti la masticazione perché
prefiguri con tristezza il momento che
segue l’ingerire del boccone. Le ferite
che coprono i corpi delle protagoniste
femminili del libro della Susani meritano
una lettura partecipata, perché possibili
figure che ci scorrono accanto, nella vita
di tutti i giorni, voci fragili che affrontano
le difficoltà dell’esistenza alternando
stati d’animo inquieti, folli, energici,
a volte paradossali e contrastanti.
Un’adolescente divisa tra madre adottiva
e madre naturale. Una ragazza alle prese
con un’ossessione amorosa. Due madri
di fronte alla malattia: quella del figlio
e la propria. Una vedova sola davanti
alla pazzia. Ecco le cinque protagoniste
dei racconti della Susani. Tutte con una
propria voce. Tutte con un mondo privato
da svelare con lentezza durante tessitura
del racconto.
Rossano Astremo
Coolibrì
24
24
L’olio della conversione
Luigi Caricato
Besa editrice
Una vita da lettore
Nick Hornby
Guanda
In Una vita da lettore, Nick Hornby ci racconta saggi e
romanzi, attraverso la realizzazione di queste sue “non
recensioni” di poche, felicissime righe che comunicano in
modo estremamente diretto le sensazioni di sorpresa o noia, la
felicità o il dispiacere, insomma i motivi per cui vale comunque
ancora la pena di leggere, anche se si è distratti da mille
altre faccende domestiche e quotidiane. In realtà il suo libro
altro non è che la raccolta di articoli comparsi dal settembre
2003 al giugno 2006 sul mensile The Believer. Questo però non
toglie per nulla il fascino di una lettura divertente, scorrevole
e appassionante. Un modo di avvicinarsi alla lettura non con i
mezzi propri della critica letteraria. Hornby somiglia piuttosto ad
un amico che ha scelto di accompagnarci in libreria e di farci
orientare tra migliaia di novità, di saggi e di classici ristampati. Ecco una delle tante
“perle di saggezza” che troviamo nel libro: “Perché essere un lettore è un po’ come
essere un presidente, salvo che la lettura comporta abitualmente poche cene di
Stato. Hai un’agenda che vorresti rispettare, ma poi vieni distratto dai casi della vita,
come i libri che arrivano per posta, la Terza guerra mondiale, e devi provvisoriamente
deviare dalla strada che hai scelto”. O, ancora, un modo di stroncare un libro senza
nominare autore e titolo: “È finita che ho fatto volare il libro per la stanza. Al momento
in cui scrivo non ho avuto modo di confrontarmi con l’amico che me lo aveva
raccomandato, ma temo che scorrerà del sangue”. Il solito Hornby. Inimitabile.
Rossano Astremo
Fantomas contro i vampiri
multinazionali
Julio Cortazar
Derive e Approdi
Questo
libro
di
Julio
Cortàzar
è
straordinario.
Il
suo
carattere
è
rivoluzionario,
metalinguistico,
surreale,
politico.
Quando uscì nel 75 in
Messico si presentava
sotto
le
mentite
spoglie di un fumetto
per
nascondere
il
suo
contenuto
di
denuncia.
L’idea
di superare il romanzo per diventare
illustrazione, fumetto, tavola e poi
tornare pagina fa parte di un gioco
e di un geniale artificio narrativo che
sembra quasi un manifesto della libertà.
Insieme ad altri colleghi scrittori (Octavio
Paz, Alberto Moravia, Susana Montag)
Cortàzar al fianco del mitico Fantomas
(celebre personaggio dei fumetti anni
60) ingaggia una lotta contro una setta
di fascisti decisi a eliminare li libri dal
pianeta. Un escamotage letterario che in
questo continuo dialogo tra immagine e
parole finirà per diventare denuncia alle
multinazionali e agli Stati Uniti e invito alla
lotta per la difesa dei propri diritti. Un libro
importante, ottima operazione di recupero
da parte dell’attenta DeriveApprodi.
(O.P.)
I sogni dell’alba
Piero Grima
Editrice nuovi autori
Piero Grima è un infettivologo di Galatina.
Dirige la divisione di Patologia Infettiva
dell’ospedale salentino, e si occupa, in
particolare, di ragazzi affetti da AIDS. Si può
comprendere così, già da queste poche
note biografiche, la resistenza di un lavoro
coraggioso, che si scontra ed incontra,
quotidianamente, con la sofferenza della
malattia; e in più, la tenacia di una missione
che, durante i percorsi di ricerca e di cura,
deve contenere, tra le altre ansie, la paura
più grande di tutte: quella della morte. Forte
dei tanti vissuti conosciuti, e degli immensi
timori accolti e coccolati, Grima costruisce
un personaggio-simbolo, ad immagine
e somiglianza dell’essere più timoroso di
quell’atto finale che tutto annulla e cessa.
E lo fa dandogli le sembianze di un uomo
avanti con l’età, cosciente di una fine
vicina, ma ancora potente per la forza
immensa della memoria, che sorveglia con
gelosia il senso dell’esistenza, e restituisce,
se evocata, frammenti preziosi di ricordi
ormai andati, e tracce prodigiose di tempi
lontani. Cino comincia, così, a salvare gli
scampoli rimasti di una vita consumata,
attraverso l’esercizio folle e gustoso della
rimembranza. Supera, con il racconto a se
di se, una paura di fatto inestistente, perchè
non si può temere l’inconoscibile, e la
morte sarà cosa nota una volta avvenuta:
prima di allora, qualunque aspettativa
legata ad essa peccherà di totale
inesperienza. Accetta, così, l’inevitabilità
di una sinergia splendida e complessa che
vede la morte danzare il mistero della vita,
e viceversa, con l’amore ad alimentare
questo fluire selvaggio eppure armonioso,
che anche nei suoi stalli obbligati ed oscuri
conserva tutta la sua ineluttabile creatività.
Romanzo sul senso della morte, esplorato
ed inquisito attraverso l’”espediente” della
vita. Per mezzo di una scrittura morbida ed
accogliente, la narrazione segue il giusto
ritmo della dolcezza espressiva, e rende
i momenti evocati come quadri rigorosi
eppure gentili. Lo stile docile sussurra una
fiaba, il respiro che lo sottende, invece, urla
senza ritegno l’urgenza di un messaggio
ancora troppo incomodo.
Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello
È il racconto
aspro e crudo di
una guarigione
miracolosa,
avvenuta grazie
all’olio di una
lampada votiva,
versato
sulle
natiche piagate
e
sofferenti
del
piccolo
Giuseppe Desa da Copertino. L’unzione,
in realtà, è l’ultimo appiglio di un anziano
medico benefattore, che pur convinto
uomo di scienza, non nega e non teme
l’esistenza dell’inspiegabile. E proprio
quell’inspiegabile,
che
opera
ora
attraverso le sue mani, benedice e salva
una vita ancora troppo acerba, eppure
già consacrata alle più feroci umiliazioni
ed atrocità. Non vengono risparmiati
particolari spietati, in questa pagine nude,
sulla tutt’altro che felice infanzia di un
bambino, destinato troppo precocemente
alla santità. E la storia intima e privata, di un
dramma che dall’inizio pare essere “solo”
familiare, nel giro di pochi, svelti capitoli
si manifesta in tutta la sua universalità
epocale. Così, non è solo narrazione
estatica di una fede avvertita prima di
tutto con il corpo, questa opera prima
di Luigi Caricato, e tanto meno cronaca
singolare di un sacrificio accolto giorno
dopo giorno, tra le cinghiate di una madre
troppo timorosa delle mollezze della vita,
e le parole offensive e gli atti violenti della
gente del tempo. Nei confronti di un ragazzo
umile e stolto, goffo e sbadato, che però
presto comincerà - e non in senso figurato a “volare”, non si muovono solo i sentimenti
delle conoscenze e degli affetti più prossimi,
ma la storia intera di un seicento viscido e
bastardo. La penna indagatrice scava
con ferocia nell’umanità, lo fa alternando
tempi e modi, definendo una struttura
narrativa centrata sul ritmo dinamico della
narrazione. Il risultato è il ritratto di un uomo
e della sua epoca, non il giudizio. Perchè
i voli son cosa mirabolante e prodigiosa,
e solo stupore, nient’altro che stupore,
devono suscitare.
Stefania Ricchiuto
Il Passo del Cammello
Lecce-Ravenna. Andata e ritorno
Maurizio Monte
Edizioni Clandestine
Lecce - Ravenna. Andata e ritorno. Non
un posto migliore del treno per leggere
questo libro, possibilmente quello che ti
sta riportando a casa. Maurizio Monte, alla
sua prima, vera e propria, opera letteraria,
viene definito un ulivo radicato nella sua
terra che si distorce dalla disperazione.
Lui - come Saverio, protagonista della
storia - “oggi vive fisicamente a Ravenna
e mentalmente nel Salento, terra natia e
musa ispiratrice”. Lui, come Saverio, come
tanti, ha fatto le valige ed è andato via in
cerca di lavoro e vive tra due mondi che
trova radicalmente distanti, in bilico tra la
nostalgia del vino rosso a San Martino e la
Coolibrì
soddisfazione per la
perfetta igiene delle
vie emiliane. Un libro
scritto per gli altri e non
per se stesso, parole
che
dipingono
le
situazioni e le sensazioni
di molti “emigranti”
per
necessità,
un
intreccio di persone e
paesaggi, quelli che
hai lasciato e quelli
che incontrerai, una
suonata a ritmo di blues e non di taranta.
Libro autobiografico - ovviamente- ma con
nomi note eventi frutto della fantasia del
suo autore. Maurizio scrive per passione ma
sente di rivestire un ruolo fastidioso, parlare
della sua terra e quello che non va, i suoi
coetanei e le coscienze sonnolente di chi
pensa che non sia possibile cambiare
qualcosa per non dover per forza andare
via. Sorridendo –amaramente - alla fine
si confessa: “Io però la soluzione nu la
tegnu”.
Valentina Cataldo
Il museo dei pesci morti
Charles D’Ambrosio
Minimum fax
Otto
racconti
compongono “Il
museo dei pesci
morti”, il primo
libro tradotto in
Italia di Charles
D’Ambrosio,
pubblicato
di
recente
dalla
minimum
fax.
Racconti
di
ricerche frustrate,
nei
quali
i
personaggi inseguono qualcosa di
perduto, o peggio ancora, qualcosa
che non hanno mai posseduto. Ogni
storia presenta uno o più di questi elementi:
una degenza in un ospedale psichiatrico,
il
fallimento
all’interno
dell’industria
cinematografica, o la perdita dei figli.
Storie dolenti, scritte in una prosa semplice,
diretta, che pone il lettore nel centro
focale della disperazione quotidiana
dei protagonisti. In “Sceneggiatore”
D’Ambrosio racconta la storia di un
uomo con disturbi mentali che instaura
un rapporto ai limiti del lecito con un’alta
paziente malata, una ballerina che tenta
continuamente di darsi fuoco, costretta
a dormire legata affinché non esegua i
suoi progetti da piromane scriteriata. Altro
racconto degno di nota è “Lo schema
generale delle cose”, la storia di due tossici,
Lance e Kirsten che per sopravvivere
si fingono volontari di un’associazione
che aiuta i neonati tossicodipendenti,
bussando alle porte delle case della gente
e chiedendo manciate di dollari che
possano sostenere questo fantomatico
progetto. Si susseguono nelle pagine di
D’Ambrosio fragili antieroi, sopravissuti
alle insidie dell’esistenza, come Caroline,
la protagonista femminile di “Su al Nord”,
che ha subito violenze da un amico di
famiglia a diciotto anni e che nella sua vita
non è riuscita mai ad avere un orgasmo.
D’Ambrosio è abile nel costruire piccoli
25
Depeche Mode Black Celebration
Steve Malins
Chinaski
Da Basildon, grigia città dell’Essex meridionale,
al firmamento dei grandi stadi, dei milioni di
dischi venduti in tutto il mondo, dell’influenza
esercitata su una lunga schiera di artisti emersi
dopo gli anni ’80 (Nine Inch Nails e Smashing
Pumpkins in testa). Passando inevitabilmente
per la strada dell’eccesso, la storia dei Depeche
Mode è tutta in crescendo, come dimostra
il recente exploit di Playing the angel (disco e
tour). Complici il matrimonio artistico con la Mute
Records di Daniel Miller, le collaborazioni con
produttori illuminati come Flood, Tim Simenon,
Ben Hillier, le invenzioni visuali di Anton Corbijn,
l’apporto degli ex membri Vince Clarke ed Alan
Wilder. Cifre significative: 26 anni, 11 album in
studio, una serie di singoli indimenticabili (51 in
tutto), l’energia live immutata dal tempo, dagli
stravizi, dagli acciacchi dell’età. Steve Malins,
già autore di volumi biografici dedicati a Duran Duran, Paul Weller, Gary Numan
e Radiohead esplora l’universo pubblico e privato della band inglese dagli esordi
ai giorni nostri. Il risultato è un libro eccitante che ha il merito di rivolgersi non solo ai
fans più ortodossi ma a tutti gli appassionati di musica in generale. Salite sulla ruota
panoramica e allacciate le cinture. (N.G.D’A.)
Neil Young - discografia illustrata
Stefano Frollano
Coniglio Editore
Tutto il Neil Young che collezionisti e fan non possono
ignorare: dal primo singolo in veste di autore e chitarrista
dei The Squires, registrato alla stazione radio canadese
CKRC nel luglio del 1963 e pubblicato da una piccola
etichetta locale specializzata in musica etnica, fino alle
più recenti sortite con Prairie wind (2005) e Living with war
(2006). Passando attraverso le esperienze con Buffalo
Springfield, CSN&Y, Crazy Horse, le livide istantanee di On
the beach (1974), la temporanea svolta elettronica di Reac-tor (1981) e Trans (1983). Impresa difficile, se non proprio
titanica, data la prolificità dell’artista di Toronto. Stefano
Frollano, classe 1962, ha spulciato meticolosamente tra
45 giri, album, promo, collaborazioni a vario titolo con
altri artisti centrando l’obiettivo di un’opera notevole,
da leggere e guardare con vivo interesse (centinaia
le riproduzioni di copertine, labels e manifesti). Il libro fa
parte della collana Discografie Illustrate, ideata da Francesco Coniglio e Fernando
Fratarcangeli e curata da Michele Neri. (N.G.D’A.)
Le canzoni George Harrison
Michelangelo Iossa
Editori riuniti
Nuovo capitolo della collana Pensieri e
parole di Editori Riuniti dedicato a George
Harrison. Un personaggio, quello del Beatles
tranquillo, spesso messo in ombra dalla
prorompente prolificità di John Lennon e Paul
Mc Cartney ma che “contribuì fortemente
alla crescita della band, proponendo
soluzioni musicali e vocali che definirono
letteralmente il sound complessivo del
gruppo. Elemento cardine della perfetta
alchimia che rese inconfondibile la “Beatles
Formula”. In questo libro la sua lunga
carriera viene ripercorsa attraverso le sue
canzoni e le sue parole. Dal periodo con i
Beatles in cui firmò canzoni bellissime come
While my guitar gently weeps, Here comes
the sun. E poi l’uscita dei All things must pass in cui recita “ un’alba non può durare un
intero mattino, un temporale non può durare un ‘intera giornata”. Nel libro c’è spazio
anche per i concerti di beneficenza (George fu il primo ad organizzarne uno), l’india
e un sacco di poesia trasferita in note. Un volumetto importante per chi vuole scoprire
che dietro il più giovane e timido dei quattro Beatles si nascondeva un grande uomo.
(O.P.)
Coolibrì
26
mondi suggestivi e realistici, popolati da
individui lacerati da ferite non arginabili,
vinti fotografati nei momenti di massima
inazione rispetto alla propria vita.
Rossano Astremo
Sarti Antonio e il malato
immaginario
Loriano Macchiavelli
Dario Flaccovio Editore
Una
bella
riedizione
della Dario Flaccovio
Editore di un classico di
Loriano Macchiavelli, a
ragione considerato tra i
maggiori esponenti della
detective story italiana e
padre letterario di Sarti
Antonio,
protagonista
indiscusso della storia
del giallo italiano. In
questo libro, però, per
venire a capo dell’enigma il sergente
deve dividere la scena con Poli Ugo,
archivista zoppo della questura di Bologna,
cinico, ripugnante, non propriamente un
personaggio capace di conquistare la
simpatia del lettore, eppure geniale. Sullo
sfondo una istantanea implacabile di una
Bologna che sta per scomparire, scattata
da un Macchiavelli disilluso e dolente che
stenta quasi a riconoscere una città che
sente non appartenergli più. Ed è in questo
contesto che Sarti si muove per risolvere un
caso di omicidio che mette a dura prova
la sua colite e lo costringe, suo malgrado,
a chiedere l’aiuto del questurino. Tra truffe
sanitarie,
ritornate
drammaticamente
di attualità, e scoperte sconcertanti i
due arriveranno forse alla chiusura del
caso, lasciando aperto il finale a mille
soluzioni possibili. Bellissime le tavole che
accompagnano il volume realizzate da
Magnus per la prima edizione.
Silvia Visconti
Il grande Bagarozy
Helmut Krausser
Barbera editore
Come si reagisce davanti
al nostro lato diabolico,
che lentamente emerge
e ci conquista? È questo
l’interrogativo
che
attraversa il romanzo
di
Helmut
Krausser,
facendoci
fare
un
viaggio tra i sotterranei
della nostra coscienza,
quelli di cui ignoravamo
l’esistenza. Attraverso le vicende di Cora
Dulz, psichiatra trentacinquenne dalla vita
matrimoniale piatta ma serena, l’autore
ci conduce in un mondo sospeso tra
realtà e soprannaturale, di cui è difficile
scorgere i confini. Tutto ha inizio quando
la protagonista entra in contatto con un
paziente singolare, che dapprima sostiene
di vedere il fantasma di Maria Callas, poi di
essere stato il suo cagnolino, infine di essere
addirittura il diavolo, dando credibilità alla
sua storia rivelando dettagli molto intimi
della vita privata della Divina. Pian piano
la psichiatra, dopo le diffidenze iniziali,
viene sempre più conquistata da questo
strano individuo, che farà emergere le sue
pulsioni più segrete e istintive, al di là di ogni
convenzione morale. Affascinante.
Silvia Visconti
Da Vendola a Prodi. I media
nelle campagne elettorali
2005-2006
a cura di Stefano Cristante e Paolo
Mele
Besa
L’Università del Salento, da alcuni anni
a questa parte, è sede di un osservatorio
di Comunicazione Politica che monitora
le campagne elettorali alla ricerca
della tanto invacata par condicio ma
non solo. Il volume, che si apre con
una introduzione del professor Stefano
Cristante, docente di Sociologia della
comunicazione e Sociologia dei fenomeni
politici, presenta una prima parte dedicata
alle elezioni regionali del 2005, vinte in
maniera sorprendente dal candidato di
Rifondazione Comunista Nichi Vendola, e
una seconda riservata invece all’analisi e
all’interpretazione del voto nazionale che
ha condotto alla risicata vittoria dell’Unione
di Romano Prodi.
Due casi diversi, seppur accomunati dal
successo del centrosinistra sul filo di lana,
che vengono sviscerati attraverso lo spazio
che le televisioni, le testate giornalistiche
locali e la rete di internet hanno concesso
ai due schiaramenti in campo. Il merito del
libro è quello di non essere un mero elenco
di numeri e minutaggi (che pure condiscono
le pagine) ma una interessante raccolta di
spunti di riflessione sulle due campagne
elettorali, molto diverse tra di loro, che ci
siamo lasciati alle spalle. Se nel primo caso
furono i comitati, gli incontri, la battaglia
“porta a porta” a fare la differenza, nel
secondo la padrona indiscussa è stata la
televisione con i suo talk show e gli spot.
Il libro ospita le riflessioni di docenti, e non
solo dell’ateneo salentino, come Onofrio
Romano, Salvatore De Masi, Carlo Formenti
Sergio Salvatore e Claudio Venuleo, ma
è anche l’occasione per l’esordio (se
così possiamo definirlo) di alcuni giovani
laureati che hanno partecipato al lavoro
dell’osservatorio coordinato da Paolo Mele.
Un libro per gli appassionati di informazione
e di politica che ci racconta un pezzo
d’Italia.
Trentottenne salentino di Nardò Livio
Romano dopo il successo di Mistandivò,
pubblicato con Einaudi nel 2001, è
diventato punto di riferimento per tutta
una generazione di scrittori del tacco
d’Italia. Insegnante d’inglese in una
scuola elementare, ha pubblicato una
racconto in Disertori (Einaudi), tre racconti
in Sporco al sole (Besa-Books Brothers), i
romanzi Mistandivò (Einaudi 2001) e Porto
di mare (Sironi, 2002), il lungo reportage
dalla Bosnia Dove non suonano più i fucili
(Big sur).
Torni nelle librerie dopo circa cinque anni
da Mistandivò e Porto di mare. Come mai
questa lunga attesa?
Non credo sia lunga. Gli scrittori non
devono fare un libro ogni anno come
i cantanti. Dopo Porto di mare ho
cominciato a prendere appunti per
questa storia pensando anche al modo di
Coolibrì
inserire tutto il gran materiale che avevo
per la testa in una trama che si rivelò
subito molto complessa da gestire. Alla
fine avevo la “scaletta” e, parlando a
lungo con un mio amico, anche il modo
di “mettere a sistema”, se così possiamo
dire, la miriade di storie, microstorie,
personaggi, argomenti che volevo mettere
in scena. Ho impiegato quattordici mesi
per scriverlo. Poi ho perso un po’ di tempo
con un editore a cui era molto piaciuto il
romanzo, infine sono approdato in Marsilio
dove è cominciato un editing faticoso e
attento con un editor giovane e capace,
Errico Buonanno.
Niente da ridere in poche battute…
Parliamoci chiaro. Questo è un romanzo
realista, con tutto quello che ciò significa
nel 2007. Realista e minimalista per la
pignoleria con cui si sofferma, per esempio,
su elementi del tutto prosaici come TAEG e
affini amenità che fanno parte della vita
di tutti noi occidentali. I libri degli ultimi
anni non parlano che di trentenni. Ma
si tratta di trentenni dimissionari, precari,
dinky, single, mammoni, cocainomani,
crapuloni, irrisolti, metropolitani. Nessuno
che si sogni di raccontare, come fanno
il cinema e la narrativa inglesi (Hornby
in primis, ma anche John O’Farrell, India
Knight, Jonathan Coe) pure le vite di quei
trentenni che hanno messo su famiglia,
della gente che prova a farcela, che fa
figli, che si barcamena fra familiari da
accudire, babysitter, infanzie tristi, debiti.
Nella quarta di copertina si legge “Il
romanzo di una generazione che rischia
di farsi scivolare tra le dita il diritto a un
attimo di felicità”. Ci spieghi un po’ questa
sensazione...
Questo è un romanzo che potremmo
ascrivere al genere “storie di famiglia”.
Si tratta di una famiglia pennacchiana,
fumettistica, allargata la cui casa è un
teatrino in cui compaiono e scompaiono
figuranti e protagonisti a una velocità
da sit-com. I coniugi titolari di questa
specie di caffetteria sono Gregorio e
Delia, il prototipo umano di quello che
viene sbandierato come “solidarismo
meridiano”, ma senza che loro due
riescano in alcun modo a godere di
un briciolo della parte “attiva” della
solidarietà stessa. Io son circondato da
colleghe che arrivano al lavoro gialle in
faccia e prossime al collasso per aver
assistito la vecchia mamma durante
la notte: ecco, Niente da ridere, che è
ovviamente un titolo ambivalente – nel
senso che c’è da ridere di continuo ma su
argomenti intorno ai quali non ci sarebbe
proprio da scherzare - porta al parossismo
il familismo mediterraneo in cui lo Stato
e i suoi meccanismi di protezione sono
assenti. Ne mostra i lati deteriori. Senza
scomodare Foucault, mette in scena
quanto una famiglia può diventare il
posto più violento del mondo.
Quanto
è
autobiografico
questo
romanzo?
Per niente e del tutto autobiografico.
Volevo inserire diversi materiali: un
“lamento” di fondo che desse voce
alla coscienza di Gregorio, la politica
(questa volta la messinscena delle
Elezioni Comunali), e poi introdurre una
materia che mi sta moltissimo a cuore: la
malattia mentale, sia quella gravissima,
sia quella, diciamo così, da stress della
vita moderna (il protagonista è un patito
delle benzodiazepine: già nell’incipit,
citando ovviamente Let it be, è “sora
Alprazolam” che lo soccorre in tempi di
guai, piuttosto che la vecchia cara Madre
Maria: una rivoluzione culturale che
rivela di che pasta è fatta la generazione
cresciuta negli anni Ottanta…). È vero
che il protagonista ha più o meno la mia
età e fa il maestro di scuola come me
(e attribuendo a questo personaggio la
maggior parte delle avventure che due
o tre persone devono avermi raccontato,
ho risolto ogni possibile problema potesse
loro derivare da questa pubblicazione…).
Ma già dopo dieci pagine mi accorsi di
quanto questo Gregorio Parigino vivesse
di vita autonoma, del tutto estraneo al
suo burattinaio.
Poi, è ovvio: ci sono anche episodi che
ho vissuto personalmente ma sai che
non so più, come al solito, dove finisce
la finzione e dove comincia la realtà?
Durante i giri di editing mi capitava di
rileggere dei pezzi e di chiedermi: “Ma
questa cosa, è successa sul serio? È
successa a me? E se non a me, a chi è
successa? Me la sono inventata?”. In
ogni caso, la moltissima vita reale che
pulsa in questo libro (lontana anni luce
dalle storie manierate alla Easton Ellis)
è stata talmente trasfigurata perché si
adattasse all’architettura di commedia
comico/amara che, se pure esistesse un
fatto raccontato “esattamente” come
è avvenuto nella realtà, la lingua e il
ritmo spazzerebbero via ogni illusione di
“candid-camera”.
Esci per una nuova collana della Marsilio
che ha pubblicato anche un altro
salentino (Gianni D’Attis). Sei soddisfatto
della nuova casa editrice?
Questa collana nasce con l’intento
di fare della narrativa di qualità e
“leggibile”, nell’accezione più nobile
del termine: storie che intrattengano,
che accompagnino il lettore dalla prima
all’ultima pagina senza farlo penare. Mi
son trovato molto bene con l’editor che
da un lato è stato inflessibile sul voler
eliminare un buon 30% di analessi (scelta
che a tutt’oggi condivido in pieno, per
quanto sulle prime mi sia costato dolore)
e un po’ di trucchetti a basso costo da
teatro comico, ma anche estremamente
rispettoso dell’opera così com’era stata
concepita.
Cosa leggi ultimamente?
Se scrivo, non leggo e viceversa. Ho
appena finito un romanzo che spezza
nettamente con tutte le cose fin qui
fatte. Prima di cominciarlo, ho riletto
Dostoevskij, per la prima volta l’Odissea,
un po’ di tragedie greche, moltissimi
autori israeliani, Joyce Carol Oates della
Famiglia americana, Joseph O’Connor
che è sempre una scoperta, un vero
genio del plot ma le due folgorazioni
dell’ultimo anno son state Le Correzioni
di Franzen e Revolutionary Road di Yates:
due capolavori che mi si sono appiccicati
addosso, ognuno per ragioni diverse, in
maniera indelebile.
Questo numero di coolclub.it è dedicato
alle colonne sonore. Qual è la colonna
sonora di questo libro? In generale cosa
ascolti?
Ovviamente la colonna sonora di Niente
da ridere è Let it be dei Beatles. È un
tormentone che comincia nell’incipit
e va avanti fino alla fine. Ma ci sono
anche gli Smiths, i Rem, i Radiohead,
RHCP, Elvis Costello, Tom Waits e tanti
altri. Ho trascorso tutti gli anni Novanta
ad ascoltare esclusivamente jazz. Da
qualche anno son tornato al rock’n’roll
riscoprendo il piacere di farmi stordire
dal suono della chitarra elettrica che,
secondo me, personifica quella musica.
Ma frequento volentieri anche territori
limitrofi: rhytm’n’blues e soul senza
disdegnare certi prodotti geneticamente
modificati ai quali non saprei affibbiare
un’etichetta: i Cowboy Jankees, che
musica fanno, di preciso?
Pierpaolo Lala
Coolibrì
28
La torinese Instar libri, nata agli inizi degli
anni novanta, si è subito fatta notare per
la cura nella scelta dei titoli ma anche
per un’immagine nuova nel panorama
editoriale italiano. Oggi Instar allarga il suo
catalogo e estende la sua distribuzione. Ne
abbiamo parlato con l’editor Francesco
Colombo.
La vostra casa editrice nasce più di dieci
anni fa. Cosa è cambiato da allora?
Tutto, ma soprattutto sono cambiati i
luoghi in cui si vendono i libri. Dieci anni fa,
in Italia, c’era una sola catena di librerie
che avesse un peso reale, e spesso i suoi
punti vendita si differenziavano dalla
concorrenza indipendente più che altro per
le dimensioni dei locali. Ora le catene sono
tre o quattro, e non vendono solo libri, ma
una quantità di prodotti più popolari che
favoriscono l’ingresso di nuovi potenziali
clienti. In più ci sono i supermercati, gli
ipermercati, le vendite on line… Una vera
rivoluzione, cui però i piccoli editori faticano
a stare dietro. I megastore del libro hanno
esigenze che chi non può permettersi
grandi tirature e investimenti
pubblicitari
difficilmente
riesce a soddisfare.
La vostra linea editoriale è
orientata
prevalentemente
verso la narrativa straniera, è
un caso o una scelta ?
In passato è stata una scelta,
ma a ben pensarci, credo,
una scelta obbligata. È molto
complicato trovare romanzi
e saggi italiani, richiede un
lavoro di scouting assai difficile
che, in qualche modo, nel
caso di libri comprati presso
case editrici estere è in parte
già stato fatto. Ma adesso ci
sentiamo pronti anche noi. Quest’anno
pubblicheremo il nostro secondo romanzo
italiano, s’intitola Per il resto del viaggio
ho sparato agli indiani, di Fabio Geda, un
esordiente in cui crediamo molto.
Nel vostro catalogo ci sono frecce, dirigibili,
antenne, ci spieghi la natura e l’idea che
c’è dietro queste collane?
L’idea è una collana di narrativa (i Dirigibili),
una di saggistica (le Antenne). Troppe
distinzioni non avrebbero senso per una
casa editrice delle nostre dimensioni, e in
generale mi sembra che troppe distinzioni
non abbiano mai tanto senso. Le Frecce
sono nate dall’esigenza di pubblicare
anche libri piuttosto esili – intendo come
numero di pagine – che richiedevano
un formato più piccolo. Il significato dei
nomi? Beh sarebbe una bugia attribuire
loro dei significati troppo profondi. Li
abbiamo inventati tornando da una
fiera di Francoforte, in un’atmosfera che
ricordo piuttosto giocosa. L’unica cosa
che sapevamo con certezza era che non
volevamo nomi altisonanti.
Un’altra caratteristica dei vostri libri è la
cura per la grafica, il packaging, il vostro
Natura morta con custodia di sax (nella
foto a sinistra) di Dyer è inserito in una sorta
di fodero, quindi, non solo attenzione per i
contenuti...
Nelle
nostre
intenzioni,
l’attenzione
al packaging vorrebbe essere una
“continuazione”
dell’attenzione
al
contenuto. Una copertina deve essere,
per così dire, un vestito adeguato, che
presenta il carattere di quello che sta sotto.
Fra l’altro abbiamo appena cambiato di
nuovo la grafica. Vogliamo
che le nostre copertine siano
il più possibile l’una diversa
dall’altra, come del resto
sono i libri: nessuna gabbia
fissa, in comune avranno
solo pochissimi particolari.
Speriamo
però
che
lo
“stile” sarà riconoscibile, e
soprattutto apprezzato.
Come è cambiato, se è
cambiato, il pubblico dei
lettori in questi anni?
Senz’altro è meno provinciale:
spesso i lettori conoscono
già un autore straniero prima
ancora che venga tradotto.
Forse, pero, è anche un po’ più succube
della pubblicità (ma come potrebbe essere
altrimenti), e finisce con il concentrarsi in
massa sui soliti due o tre titoli di grido.
Molti sostengono che esistano troppi libri,
che il mercato dell’editoria sia ormai
arrivato al collasso, cosa ne pensi?
È vero, purtroppo è assolutamente vero,
ma non certo per colpa dei piccoli editori.
Vengono pubblicati troppi libri, che di
conseguenza hanno vita breve, perché
i librai devono liberare continuamente gli
spazi su tavoli e scaffali per far posto alle
nuove uscite.
La piccola editoria è un modo per
preservare il lettore dall’omologazione o
solo un prodotto di nicchia?
Esagerando un po’, mi piacerebbe
poter dire che è un “luogo di libertà”. Un
piccolo editore può fare, anzi è costretto
a fare, conti economici diversi dai grossi
gruppi. Non deve rispondere ad azionisti,
e in questo senso è più libero nelle scelte.
Con ciò non voglio cadere nella retorica
del piccolo editore che fa libri di valore
senza badare all’aspetto commerciale.
Anche noi dobbiamo e vogliamo vendere,
e i grandi editori pubblicano tanti libri
importanti, solo che loro non possono
rischiare, devono andare sul sicuro. Così
è accaduto spesso che siano state le
piccole case editrici a portare in Italia
autori in seguito diventati famosissimi, e di
conseguenza finiti nei cataloghi di editori
più ricchi. Pensate a Brett Easton Ellis o a
Don De Lillo, pubblicati in prima battuta da
Pironti, a A.M. Homes, scoperta da Minimum
Fax, e a Vikram Chandra, che quest’anno
uscirà da Mondadori con quello che è
stato annunciato in tutto il mondo come
il romanzo dell’anno: i suoi primi due libri,
Terra rossa e pioggia scrosciante e Amore
e nostalgia a Bombay, li abbiamo tradotti
noi. (O.P.)
Be Cool
il cinema secondo coolcub
Rocky Balboa
Silvester Stallone
Bim distribuzione
Nel film Balle spaziali, irriverente parodia
della fortunata saga di Guerre Stellari
firmata da Mel Brooks, una delle tante
esilaranti battute è dedicata al mitico
pugile italoamericano Rocky Balboa.
In un futuro non meglio identificato un
critico cinematografico commentando
Rocky 5... mila sottolinea “visti i primi mille,
visti tutti”. E in effetti anche questo sesto
appuntamento con la storia drammatica
e speranzosa assieme del pugile di
Philadelphia che dai ring polverosi della
provincia diventa campione del mondo,
sfida i migliori atleti di tutte le razze,
conquista fama e denaro, torna nella
polvere per investimenti sbagliati da parte
del cognato, urla a squarciagola il nome
della sua amata storcendo in maniera
inconsueta la bocca, non aggiunge molto
ai primi capitoli. Comunque, quando
esce un nuovo Rocky bisogna vederlo
(e la stessa tenera soddisfazione che
provavo da piccolo alle nuove avventure
di Scuola di Polizia o Arma Letale).
Lo stallone italiano ha ormai sessanta
anni, gestisce un ristorante nella sua città,
ammorba i clienti con i suoi racconti di
sfide memorabili, piange sulla tomba
dell’amata moglie, ha problemi con il
figlio che non riesce a convivere con
l’ingombrante
passato
del
padre,
incontra una donna che da adolescente
aveva chiesto al grande campione un
autografo e che adesso vive con un figlio
scapestrato che Balboa cerca di redimere
(assieme alla madre...). Ad un certo punto
(e in realtà non è che si capisca bene il
perché, ma forse mi ero distratto) l’uomo
decide che nonostante l’età, la trippetta
e il fiatone, deve tornare sul ring. In realtà
Rocky penserebbe a qualche piccolo
incontro così per divertirsi, per tirare
qualche cazzotto invece di cucinare
leccornie per i proprio affezionati. Invece,
ironia della sorte e della sceneggiatura,
si ritrova a poter affrontare in una
“esibizione” il giovane Campione del
Mondo, imbattuto e imbattibile, che
nessuno osa più sfidare e che invece,
secondo un match al computer, sarebbe
messo ko dal miglior Balboa. E qui dalla
stanca prima parte, anche un po’
stucchevole se non patetica, si passa come da copione perfetto e immutabile
- nella fase due del film: duro allenamento
con materiale di scarto (compresi gli
immancabili quarti di bue del macello),
corsa sulla famosa scalinata (anche se
ormai la statua con le braccia al cielo
è stata tolta), frasi memorabili di una
poesia che fa rizzare le carni e incontro
sul quale nessuno scommetterebbe
un dollaro... e invece... Rocky sovverte
il pronostico e tira pugni come sassi,
cazzotti che sono tir in movimento, ganci
che smandibolerebbero anche uno gnù.
Il finale, ovviamente, è top secret (e
c’è anche un divertito Mike Tyson).
Comunque questo è, rispetto agli altri,
un
Rocky
molto
decoubertiniano.
L’importante è partecipare e dimostrare
a se stesso e agli altri che “è meglio
essere felici sacrificandosi per quello
che si ama piuttosto che essere infelici
rinunciandoci”.
Rocky non è solo un pugile. Rocky ha
accompagnato una generazione di
statunitensi, e per riflesso di europei, dal
sogno americano alla guerra fredda,
dall’amore al razzismo nei confronti
dell’immigrato pizza-mandolino, dalle
riflessioni sulla lealtà e sulla sportività alle
piccole storie senza importanza della
quotidianità. Peccato che in questo ultimo
round non ci fosse l’indimenticabile voce
di Ferruccio Amendola a urlare Adriana...
che è un po’ quello che vorremmo urlare
noi dopo ogni piccolo o grande successo
della vita.
Gazza
Be Cool
30
Shortbus.
permesso
L’arte del sogno
Michel Gondry
Mikado
Il regista – autore Michel Gondry ritorna al
grande schermo dopo Eternal Sunshine
of the Spotless Mind (con Jim Carrey
e Kete Winslet) del 2005 e dopo una
lunga parentesi di magistrali videoclip
musicali e spot pubblicitari. Nel suo
ultimo film L’arte del Sogno ci spiega la
“Science of Sleep” e fornisce la ricetta
per costruire i sogni: “Prendete i colori
e le emozioni del presente, mescolatele
con i suoni, le voci, le musiche, i ricordi
del passato aggiungete qualcosa delle
speranze per il futuro ed ecco il vostro
sogno”. L’artista Stephan (Gael Garcia
Bernal) torna in Francia, dopo un lunghissimo periodo in Messico, spinto dalla madre.
Il giovane pensa di aver trovato finalmente il lavoro della vita, che gli permetta di
esprimere tutta la sua creatività di disegnatore. Si ritrova, al contrario, catapultato
in una realtà che non sembra appartenergli. Tra mille difficoltà linguistiche, si muove
infatti tra francese, spagnolo e inglese, si ritrova rinchiuso in uno scantinato, con tre
impiegati e un capo dalla mentalità rigida, a realizzare tristi calendari aziendali.
L’incontro con la stralunata Sthephanie (Charlotte Gainsbourg), che casualmente
va a vivere proprio nella casa accanto alla sua, contribuisce a confondergli
ulteriormente le idee. A questo si aggiunge la sua impossibilità di scindere la realtà
dal sogno e la fantasia. Gondry è bravissimo a costruire un personaggio che sembra
uscito dall’animazione degli anni sessanta e settanta, tenero e vulnerabile. Gael
Garcia Bernal è perfetto alter ego del regista e si riconferma un grande interprete del
cinema d’autore (La mala education, I diari della motocicletta). Il regista francese
imprime alla perfezione su pellicola sia la spietata realtà di tutti i giorni che il mondo
onirico: si serve infatti spesso di scenografie, fatte di cartonati e sfondi volutamente
finti e della tecnica della stop motion, ormai elemento costitutivo dello suo stile.
Sabrina “Zero Project” Manna
La ricerca della felicità
Gabriele Muccino
Medusa
A distanza di quasi quattro anni dal suo
ultimo film (italiano!), Ricordati di me,
Gabriele Muccino torna nelle sale di tutto
il mondo con La ricerca della Felicità
(The pursuit of happness). Per battezzare
il suo esordio hollywoodiano, abbandona
completamente l’Italia borghese dei nostri
giorni per raccontarci l’America degli anni
ottanta. Nel suo ultimo film, il regista ci porta
per le strade di San Francisco,
quelle stesse che Chris Gardner
(Will Smith), un improbabile ma
tenace venditore porta a porta,
percorre tutti i giorni, pur di
piazzare i suoi scanner per ossa.
L’uomo, soffocato dai problemi
economici, ha una famiglia
da mantenere, il piccolo
Christopher (Jaden Christopher
Syre Smith), la moglie (Thandie
Newton) e una montagna di
affitti e rette dell’asilo che gli
assillano l’esistenza. È proprio
quando la compagna lo abbandona,
per cercare miglior fortuna a New York,
che Chris si rende conto di vivere ormai ai
margini del sogno americano. Comincia
ad affrontare con il figlio l’iter di tutti i
senzatetto: sfrattato dal suo appartamento,
si ritrova dapprima a dormire in un motel,
fino ad arrivare alla strada e ai ricoveri per
homeless. Ma è proprio durante questo
percorso che sembra giungere ad una
svolta. Viene assunto da stagista in una
grossa società finanziaria, con la speranza
di ottenere un giorno un posto di lavoro
retribuito. Il nostro protagonista intraprende
un viaggio, mosso dalla “ricerca della
felicità”, come nella migliore tradizione
delle storie e dei personaggi del cinema
neorealista di De Sica e della commedia
agro-dolce di Capra, a cui chiaramente
Gabriele Muccino si ispira e rende
omaggio. Il “manierismo mucciniano” è
presente nella recitazione urlata e sopra
le righe, che spesso riemerge in alcuni
tratti anche in quest’ultimo film, ma è
ben gestita da un grandioso Will Smith (in
corsa all’Oscar per questo ruolo), che ci
sta abituando a grandi ruoli
drammatici (vedi Alì). Il regista
lavora con una sceneggiatura,
che trova purtroppo debolezza
nella ripetitività degli ostacoli e
delle disgrazie, prima di arrivare
all’agoniato happy end. Lo stile
“internazionale”, caratterizzato
principalmente dagli ampi e
rapidi movimenti di macchina,
rimane comunque uno dei
grandi punti di forza del
regista.
Sabrina “Zero Project” Manna
Dove
tutto
è
John Cameron Mitchell
Bim
Sofia, terapista del
sesso, che non ha mai
raggiunto l’orgasmo.
La “dominatrix” in
corpetto di pelle nera
e frustino che - piedi
a mollo in acqua
calda - piange. L’ex
sindaco di New York
che si addormenta
sulla spalla di un
ragazzino di mestiere
modello dai capelli
biondi e il viso angelico. Soprattutto
James che ha così tanto intorno, ricordi
emozioni carezze fotografie, ma non lo
riesce a sentire - “è dura non sentire niente
nella vita”. Sai cosa è uno Shortbus? Hai
presente gli scuolabus gialli? Ecco, quello,
ma più piccolo. Lo shortbus è un salotto di
New York dai colori dispersi. Dove l’unico
padrone è il sesso. Il sesso spinto, etero
omo lesbo, a uno due tre quattro, il sesso
mostrato, violento dolce, lento frenetico,
allo specchio in mezzo ad altra gente che
fa sesso. Si guarda si prova si sperimenta si
analizza. Ognuno alla ricerca di qualcosa.
In fondo siamo tutti “dancers in the dark”,
balliamo al lume di candela, aspettiamo e
aspettiamo ma il tempo invece di schiarire
le cose le complica ancora di più. Un
film forte imbarazzante eccessivo erotico
spudorato insistente. Amaro estremo pieno.
Un film spiazzante, per lo meno all’inizio. Per
la regia di John Cameron Mitchell, musiche
degli Yo La Tengo, vietato ai minori di 18
anni, Shortbus: per capire che alla fine è
tutta una questione di giusta connessione,
non è in te il problema, né in lui. Solo, nel
collegamento. E un’altra cosa ancora,
non si smette mai di cercare le stesse cose,
lascialo entrare, dentro te, tutto quello che
prova a insinuarsi ma si ferma alla tua pelle.
Alla fine la luce ritorna.
Valentina Cataldo
Manuale d’amore. Capitoli
successivi
Giovanni Veronesi
Filmauro
Richiestissimo dal pubblico e stroncato (o
quasi) dalla critica, il secondo capitolo del
Manuale d’amore di Giovanni Veronesi è
uno dei successi (annunciati) dell’inverno.
Rispetto al primo fortunato episodio i temi
trattati, nel consueto schema, quattro
diversi racconti tenuti insieme da un filo
conduttore, sono più arditi e sfiorano
anche l’impegno sociale. Non convincono
affatto la Bellucci e Scamarcio (troppo belli
per essere veri) e Fabio Volo e la Bobulova
sul tema della procreazione assistita.
Decisamente divertenti il duo Rubini e
Albanese, coppia gay in bilico tra Salento
e Spagna, e Carlo Verdone, “anziano” alle
prese con un giovane amore. Tentativo
giusto quello di andare oltre la facile risata
ma in parte non riuscito.
Be Cool
Il regista e audace sperimentatore culturale
Alessandro Piva non smette di sorprendere.
Nato nel 1966 a Salerno, barese d’adozione,
è autore de LaCapaGira (1999) e di
Mio cognato (2003). Piva è un artista
poliedrico che si divide tra mille progetti,
come il reportage dell’abbattimento di
Punta Perotti e una sorta di backstage
della Notte della Taranta di Melpignano.
Regista, sceneggiatore, diplomato in
montaggio alla Scuola Nazionale di
Cinema, ha da poco intrapreso una
nuova esperienza come direttore artistico
della rassegna Deejay for a day del
Mavù, club masseria immerso nella Valle
d’Itria, nelle campagne tra Locorotondo
e Cisternino. Al centro di questo progetto
la partecipazione di un personaggio del
mondo dello spettacolo nelle inusuali
vesti di deejay. I primi due appuntamenti
hanno visto la partecipazione dell’attore
andriese Riccardo Scamarcio (nella foto
a destra) e di Asia Argento (nella foto in
basso), affiancata da Fernanda Lessa.
Dalla macchina da presa alla consolle.
Raccontaci di questa nuova esperienza
fuori dall’ordinario. E soprattutto, quando
potremo vedere anche te come dj?
L’idea di Dj for
a Day è nata
con l’intenzione
di regalare, a
chi
frequenta
l’ambiente delle
discoteche,
un’esperienza
diversa e lontana
da quella che è
la tipica uscita
per andare a
ballare. Da un
altro
versante
31
abbiamo invece cercato di attirare chi
in discoteca rifiuta di andarci, proprio per
una questione che riguarda l’andamento
delle serate in quei luoghi. Se vuoi è
un divertimento meno “gridato”, ma
pur sempre intrigante perché si ha
l’occasione di vedere un artista slegato
dal suo contesto abituale, avendo così
l’occasione di conoscerne meglio i gusti
e alcuni aspetti. Direi
che
l’esperimento
è riuscito, visto il
riscontro
ottenuto
con
Riccardo
Scamarcio,
ma
speriamo
che
si
possa
continuare
positivamente. Per
quanto riguarda una
mia partecipazione
attiva per il momento
sto a guardare, ma vedremo più in là.
L’esperienza del Mavù si presta ad
introdurre l’argomento di questo numero
di Coolclub.it, che è incentrato sulle
colonne sonore. Come vedi il lavoro di
compositore e quali sono le tue personali
indicazioni se ce ne sono?
Per abitudine non sono uno di quei registi
che pretende di dire la sua su tutto.
Lascio molto spazio ai miei collaboratori
e alle loro idee, nello specifico Ivan Iusco
che ha composto le musiche dei miei
lavori. Diciamo che mi limito a dare delle
semplici indicazioni su come intendo
quella scena e su come mi aspetto venga
resa al meglio. A volte mi capita di non
riconoscermi nel lavoro del compositore
e di proporre nuove soluzioni, mentre altre
rimango piacevolmente smentito. Il bello
del cinema è anche questo. Fare un film
si potrebbe paragonare ad un parto che
porta sempre ad una nascita, ma ogni
volta attraverso modi, tempi e risvolti
differenti.
Parlaci dei nuovi progetti che ti
aspettano...
Al momento sono al lavoro su un film
piccolo e su una grossa produzione.
Tornando al discorso di prima credo che
al giorno d’oggi, con i continui mutamenti
che ci sono, sia importante un artista saper
essere poliedrico. Non bisogna fossilizzarsi su
qualcosa ma essere disponibili a lavorare
su più fronti, e te lo dice una persona che
ci mette mediamente quattro anni a fare
un film.
In tutti i tuoi lavori è presente una matrice
locale, che hai conservato anche dopo
essere approdato al cosiddetto cinema
nazionale. Sei molto legato alla tua terra o
è solo una questione di opportunità?
Negli anni ‘80 andare a vedere film italiani
era considerato da sfigati. Negli ultimi
quindici anni le cose sono lentamente
cambiate e credo che si debba anche
a questa “decentralizzazione”. La gente
si era stancata di un romacentrismo in cui
non si riconosceva e si è riappropriata di
varie identità, le proprie. Ora il cinema si
riprende e trasmette nuovi segnali positivi
soprattutto perchè è cambiata questa
percezione della gente nei riguardi
dei nostri prodotti
culturali.
Chiudiamo
con
un’altra esperienza
locale,
legata
stavolta al Salento.
Hai avuto l’occasione
di
coordinare
per
Telerama
i
videomaker
che
documentavano la
“Notte della taranta”.
Che tipo di lavoro è stato e che opinione
hai delle accuse di approssimazione
culturale che questa manifestazione porta
con se?
L’esperienza della “Notte della Taranta”
è stata senza dubbio positiva. Lavorare
con altri artisti e avere l’opportunità
di raccontare le tradizioni e la loro
evoluzione è stato interessante. Da questo
vorrei potesse scaturire anche un video,
da distribuire prossimamente. Per quanto
riguarda le polemiche io cerco di vedere
sempre il bicchiere mezzo pieno. Forse è
vero che la faccia del Salento non è solo
questa, ma io penso anche agli enormi
vantaggi che questa manifestazione ha
portato al territorio, sia in termini economici
e turistici, che in termini di visibilità. Certo
bisogna stare attenti, ma senza distruggere
ciò che è positivo, ma semmai migliorarlo.
C. Michele Pierri
Nel periodo natalizio su RadioDue dalle 16,30 al posto di Condor,
seguita trasmissione di Luca Sofri, è andato in onda per 15 puntate
un racconto suggestivo della migrazione. La voce, con un
accento marcatamente salentino, era dell’attore leccese Mario
Perrotta. Classe 1970, dopo gli studi nella dotta Bologna (laurea
in Filosofia con una tesi su Pirandello), il giovane ragazzo che
proveniva dal sud ha intrapreso la carriera dell’attore fondando,
insieme ad altri amici, la Compagnia Teatro Dell’Argine. Nel
2002 è partito il suo progetto Italiani Cincali, che ha dato vita
a due spettacoli teatrali e ad un dvd distribuito con l’Unità, che
racconta l’emigrazione degli italiani verso l’europa, verso le
miniere, le fabbriche, narra dei soprusi e delle angherie che gli
italiani, sprezzantemente chiamati cincali (zingari) hanno dovuto
subire. Il passo successivo è stato questo Migranti espress che ha
affascinato da subito le gerarchie radiofoniche di mamma Rai
e che è stato un grande successo, come si dice in questi casi, di
pubblico e di critica.
Com’è nata l’idea della trasmissione?
C’era già stato un precendete fortunato. Davide Enia, che
viene associato per lo stile narrativo a me e ad Ascanio Celestini,
aveva infatti proposto Rembò. Ascoltando la sua trasposizione
radiofonica pensavo che avrebbe funzionato anche un progetto
sull’emigrazione. Io sono un grande ascoltatore di radio e reputo
di avere una buona cultura musicale, così ho pensato di mettere
insieme le parole e le note per raccontare questo lungo viaggio.
In realtà ho fatto una proposta a Radio Due con la convinzione
che non mi avrebbero mai preso in considerazione partendo
dal presupposto che in una struttura come quella è già difficile
capire con chi parlare. Invece l’idea è piaciuta, la puntata zero
ha convinto i direttori di rete e così siamo partiti.
La tua voce, i tuoi racconti, hanno subito incuriosito tutti. In Rai
sono soddisfatti?
Dal punto di vista commerciale è difficile dare già dei risultati certi
perché i dati vengono considerati su scala trismestrale. Abbiamo
però un importante punti di riferimento che è il podcast. Sul sito
di radio 2 l’ascolto e lo scarico in podcast già la prima settima
superava quota 12mila, l’11% del traffico nel suo complesso. È
difficile che un programma nuovo faccia così bene. Poi c’è stato
da subito l’affetto degli ascoltatori. Il forum della trasmissione
è stato invaso da commenti, da racconti di viaggi, qualcuno
addirittura dopo le prime puntate scriveva “Mi aspettavo di sentire
Sofri e invece mi ritrovo a piangere”. Inoltre ho ricevuto molte mail,
molti complimenti, racconti e testi teatrali da leggere. Insomma
è andata benissimo e sono entusiasta. La cosa sorprendente è
che non ho ricevuto commenti negativi; magari chi pensa male
non si è fatto sentire. Comunque per me è stato un salto siderale:
mediamente in un giorno mi ascoltavano le stesse persone che
dal vivo avrei raccolto in una decina d’anni. Arrivare a 300 mila
ascoltatori quotidiani è un passaggio stratosfertico senza contare
tutte le persone che hanno iniziato a scambiarsi gli mp3 con le
registrazioni delle puntate anche dopo la fine della trasmissione.
Da un po’ di anni tratti questo tema. Quale riflessione esce
sull’emigrazione!
La cosa che mi fa più disperare è la mia gente che dice che
è tutta colpa degli albanesi o degli extracomunitari. Nel 1988,
quando sono partito per l’Università, gli stranieri non si erano
ancora visti ed era tutto uguale. La cosa più evidente è
l’incapacità assoluta di ricordare quello che si è stati. Da questo
punto di vista è esemplare la frase che dice, in chiusura dell’ultima
puntata, un amico tunisino: Chi è stato schiavo cercherà sempre
di schiavizzare qualcun altro. L’idea alla base di Italiani Cincali e
di questo nuovo progetto nasce dal non sopportare di scendere
a Lecce e sentire queste cose.
C’era il rischio che non tutti comprendessero le tue parole.
Veramente non mi sono posto il problema, mi piaceva parlare
in un Italiano sporco. Ciò che non passa o viene tradotto, nel
simpatico glossario che chiude le puntate, o viene risarcito dalla
forza del dialetto che ha una carica emotiva molto più potente
dell’italiano.
Il programma ha una bellissima colonna sonora. Circa 160 brani
che svariano tra i generi senza mai cadere nel banale. Tra l’altro
c’è solo un pezzo della tradizione e non si tratta di una pizzica
“ortodossa”. Come mai?
La scelta principale è stata quella di evitare tutto ciò che fosse
etnico. Con il senno di poi posso dire che forse una pizzica l’avrei
anche messa ma Fabio Rizzo, musicista e regista del programma,
mi ha convinto che sarebbe stata troppo scontata. Le uniche
due eccezioni sono rappresentate da Tribal sound tarantolato
dei Mascarimirì, che apre la prima puntata, e dalle musiche
mediterranee di un gruppo armeno nel monologo conclusivo.
L’ultimo brano è Camera a sud di Vinicio Capossela. Si tratta di
uno dei pochi brani in italiano. Come mai?
Il motivo è soprattutto tecnico giacché una canzone italiana
sotto il parlato avrebbe distolto l’attenzione dell’ascoltatore che,
quando riconosce il pezzo, è portato a canticchiare, anche
involontariamente. E poi mi son lasciato affascinare da mondi
nuovi alla ricerca di panorami emotivi. Io e Fabio abbiamo fatto
un lungo lavoro per trovare la musica giusta che a volte doveva
solo accompagnare le parole a volte doveva aggiungere
senso. I Muse, ad esempio, aggiungono sempre senso a quello
che tu stai dicendo, mentre i Beatles accompagnano. Quando
poi ci serviva rilanciare il ritmo del programma inserivamo i Rolling
stones o Ben Harper. La ricerca è stata maniacale, abbiamo
impiegato sino a 4 ore per trovare un brano.
Prossimi appuntamenti?
La tournee prosegue sino all’estate, poi a ottobre dovrei lavorare
al mio nuovo progetto. Purtroppo continuo a rammaricarmi e
a soffrire poiché io a casa mia non lavoro. Non lo dico con il
rodimento di chi non lavora. Nelle ultime stagioni ho fatto circa
150 repliche all’anno, ma non riesco a lavorare in gran parte del
sud. Questo significa che c’è un politica culturale pari a zero.
Una politica fatta di commistioni tra organizzatori, assessori, sotto
assessori e i soliti spettacoli.
Pierpaolo Lala
CoolClub.it C
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CoolClub.it
Il 30 maggio dello scorso anno il Rolling
stone di Milano ha ospitato l’anteprima
de Gli Originali, uno spettacolo molto
particolare in cui alcuni noti personaggi
dell’hip hop italiano si sono uniti al maestro
compositore Franco Micalizzi e alla sua
band per dar vita ad un progetto musicale
mai concepito prima d’ora. L’hip hop esce
dai propri confini e va a confrontarsi con
sonorità decisamente più classiche, quelle
che hanno fatto da colonna sonora a
tanto cinema negli anni settanta.
Nel 2004 il compositore aveva già radunato
alcuni dei migliori musicisti dell’ambiente
romano e fondato con loro la Big Bubbling
Band, per eseguire dal vivo le sue musiche
da film. Se Morricone dirige Morricone,
Micalizzi dirige Micalizzi. In più B-Boys, Mc’s
e dj’s fondendosi con la band danno vita
a questo stravagante progetto e lo fanno
al meglio, sfruttando la spettacolarità
delle performance di Breakdance e Rap
e la musicalità ed il ritmo delle sondtracks,
adattate e riarrangiate per l’occasione
dallo stesso Micalizzi.
Classe 1939, dopo le prime colonne sonore
alla fine degli anni sessanta, l’autore
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ottiene il grande successo di
pubblico nel 1970 grazie al tema
portante de Lo chiamavano
Trinità, della coppia Bud Spencer
(nella foto) e Terence Hill. Negli
anni settanta il compositore
diventa l’anima sonora del
cinema “cult” di quel periodo
scrivendo le musiche di tantissimi
film dai nomi memorabili come
Roma a mano armata, Napoli
violenta, La banda del gobbo, Il
cinico, l’infame e il violento, Da Corleone a
Brooklyn e molti altri.
Gli orginali ha visto la partecipazione di
Kaos One, Moddi, i Colle Del Fomento,
Turi, Next One, solo per citarne alcuni.
Merita inoltre una attenzione particolare
la performance del Turntablist (traduzione
letterale giradischista) dj Tayone, uno dei
più grandi dj-scratcher italiani, originario
di Caserta, due volte campione italiano e
quarto al campionato mondiale del 1998.
Un turntablist di talento, che ha valorizzato
il giradischi per mezzo delle sue innovative
tecniche di scratch, sino a farlo riconoscere
come uno strumento perfetto anche per
creare musica...e non solo per riprodurla.
Nello spettacolo, dj Tayone si è prodotto in
una reinterpretazione per giradischi de Lo
chiamavano Trinità. Il video della serata è
reperibile su youtube.com, usando come
termini per la ricerca “tayone originali”.
Tay, oltre alla collaborazione con Micalizzi
è di continuo in giro per la penisola con
giradischi e mixer al seguito per presentare
i suoi nuovi progetti (Fluxer, Rajsful, The
stones) con sue performance da solista.
Sabato 17 Dj Tayone sarà ospite speciale
all’Istanbul Cafè di Squinzano. Al suo
fianco i due giovani talentuosi dj salentini:
Dj Kosmik e Mr nero.
CoolClub.it C
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MUSICA
giovedì 8 / Ohm al Jack ‘n Jill di Cutrofiano
(Le)
Gli Ohm sono riconosciuti come una tra le
migliori cover band d’Italia, musicalmente e
scenograficamente, cercando di emulare,
con le dovute proporzioni, il suggestivo
mondo dei Pink Floyd. Il repertorio è
composto da brani che si rifanno ai live e
album di maggior successo della mitica
band Inglese. La formazione è composta
da: Francesco Carrieri (chitarra elettrica,
acustica, classica, lap steel e voce), Italo
Morelli (voce, tastiere, chitarra acustica ed
effetti), Ivano Corvaglia (basso), Gian Piero
Tripaldi (batteria e percussioni).
giovedì 8 / Ennio Rega all’Otium di Bari
venerdì 9 / NonToccateMiranda +
Stonecutters ai Sotterranei di Copertino (Le)
venerdì 9 / Acoustic r’n’r selection al
Beerbanti di Giurdignano (Le)
sabato 10 / Tributo agli Iron Maiden
sabato 10 / Shoe’s killin’ worm al
Teatro Antoniano di Lecce
Con il concerto del quintetto Shoe’s
killin’
worm
prosegue
al
Teatro
Antoniano di Lecce la rassegna Suoni
a sud, realizzata in collaborazione con
l’associazione l’Orchestrina. I cinque
considerano l’embrione melodico come
canovaccio, punto di partenza per lo
sviluppo estemporaneo del flusso sonoro
emozionale. “Il nostro modo di suonare
risente di varie tendenze che vanno dal
pop, al post rock, all’indie e alla musica
elettronica. I testi possono essere sia in
italiano che in inglese, coerentemente
con le sonorità di cui necessita la canzone”
spiegano loro. Shoe’s killin’worm vuol
essere fondamentalmente un gruppo
live, la formazione si è arricchita con la
presenza dei nuovi componenti di una
maggiore pienezza di suono, potenziando
la gia marcata tendenza alla divagazione
psichedelica. Il gruppo è composto da
Luca Rossetti (voce, chitarra), Marco
Maruotti (chitarra), Michael Mitoli (basso),
Cris Nimo (batteria) e Gianluca Grazioli
(synth, chitarra, cori). Sipario ore 21.00.
Ingresso platea 10 euro (ridotto 8), galleria
5 euro. Informazioni e prevendita Teatro
Antoniano 0832.392567.
all’Istanbul cafè di Squinzano (Le)
martedì 13 / Jam Session al Madigan’s di
Lecce
Roberta & Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti
appassionati di tutti i generi. Dodici
appuntamenti per dodici locali tra le
province di Lecce e Brindisi. Ingresso
gratuito.
martedì 13 / Liquid Laughter Lounge Quartet
(Germania) al Bohemien Jazz Cafè di Bari
da mercoledì 14 a venerdì 16 febbraio /
Finali provinciali Arezzo Wave Band al Jack
‘n Jill di Cutrofiano (Le)
Tre giorni di musica dal vivo per ascoltare
le 12 band selezionate dalla giuria su una
cinquantina di gruppi partecipanti. Sul
palco un alternarsi continuo tra rock e
prog, musica folk ed elettronica, metal
e ska, tradizione e innovazione. Abash,
Ashram, Dinamo, Le Supersquillo, Logo,
Malgarbo, Otakatroi, Senza rancore Fran,
Shank, Spread Your Legs, Superpartner, Wild
Leaves si contenderanno la possibilità di
raggiungere la finale regionale.
mercoledì 14 / Josh T. Pearson alla Taverna
del Maltese di Bari
giovedì 15 / Niccolò Fabi al Teatro Italia di
Gallipoli (Le)
venerdì 16 / Exentia al Beerbanti di
Giurdignano (Le)
venerdì 16 / Giuseppe di Gennaro al
Caledonia di Lecce
sabato 17 / Masquerade Party ai Cantieri
Koreja di Lecce
sabato 17 / Dj tayone all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
sabato 17 / Cut al Demodè di Bari (BA)
sabato 17 / P40 a Cursi (Le)
sabato 17 / Liquid Laughter Lounge Quartet
(Germania) ai Sotterranei di Copertino (Le)
martedì 20 / Boduf Songs al Bohemien Jazz
Cafè di Bari
giovedì 22 / Seamus Blake Quartet al Teatro
Paisiello di Lecce
giovedì 22/ Paolo Zanardi a Controradio di
Bari
giovedì 22/ Leitmotiv al Jack’n Jill di
Cutrofiano (Le)
I leitmotiv sono un gruppo rock indipendente.
La formazione attuale si è costituita nell’estate
2001 - ma il nucleo è nato qualche anno
prima sulle spiagge dello Ionio, all’incrocio
con la terra del Salento. Da qui, il progetto
CoolClub.it
artistico è cresciuto raccogliendo stimoli
e fermenti lungo la penisola e ben oltre le
Alpi. Le loro canzoni, che coprono i generi
più diversi, sono infatti in italiano, francese
ed inglese. È dall’incontro e dallo scontro
del locale con il globale che la loro musica
prende vita e creatività, nelle sonorità e nei
contenuti testuali, cercando un difficile trait
d’union tra la forza e l’impatto del rock, la
tradizione cantautoriale e l’animosità della
musica mediterranea. La band è composta
da Giorgio Consoli (voce), Dino Semeraro
(batteria), Giovanni Sileno (chitarra e
piano), Giuseppe Soloperto (basso).
venerdì 23 / Andrea Sabatino Quartet al
Felix di Trepuzzi (Le)
Con il concerto del trombettista salentino
Andrea Sabatino prende il via una rassegna
che porterà al Felix di Trepuzzi il meglio
della scena jazz salentina dal sassofonista
Raffaele Casarano al contrabbasista
Marco Bardoscia, dalla cantante Agnese
Manganaro al sassofonista Francesco
Coppola. Un appuntamento per gli amanti
della buona musica. Ingresso gratuito. Info e
prenotazioni 0832755030.
venerdì 23 / Acoustic Ladyland al Beerbanti
di Giurdignano (Le)
venerdì 23/ Davide Tarantino al Db D’essai
di Lecce
Il cantautore, finalista Premio Recanati
2006, presenta in collaborazione con Nasca
teatri di terra e cine teatro db d’Essai il suo
nuovo progetto musicale.Lo spettacolo è
un connubio e un viaggio affascinante tra
Interpretazione, racconti, percorsi musicali
d’autore. Atmosfere rarefatte da jazz club
e momenti lirici di grande spessore dove
Tarantino e la sua band, danno vita ad
un crescendo di forti emozioni. Costo del
biglietto € 5.00. Info 0832. 390557
sabato 24 / Tob Lamare all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 24 / Non voglio che Clara alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
Musica ricca di atmosfere retrò e moderne
allo stesso tempo, malinconiche, intimiste.
Già due anni fa i Non Voglio Che Clara con
il loro esordio “Hotel Tivoli” lasciarono un
segno indelebile nel panorama musicale
italiano, grazia a una qualità di scrittura
senza precedenti e a uno stile personalissimo,
costruito guardando più alla migliore
tradizione della canzone italiana di Tenco e
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Ciampi che ai soliti modelli angloamericani.
Il nuovo omonimo album ha confermato
questa band come una delle più importanti
realtà della musica italiana pop rock. Il
concerto del quartetto apre l’edizione 2007
della rassegna Tele e ragnatele della Saletta
della Cultura di Novoli. Inizio ore 21.30. Info
347 0414709 – [email protected].
Ingresso 5 euro
lunedì 26 / Giovanni Allevi al Teatro Orfeo
di Taranto (TA)
mercoledì 28 / Akkura al Bellamì di Foggia
(FG)
giovedì 1 marzo / Epo al Caffé Letterario di
Lecce e ai Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
La band alle 19.00 terrà uno showcase
di presentazione del nuovo cd Silenzio
Assenso presso il Caffé Letterario di Lecce
presentati da Coolclub.it. Dalle 22.00 invece
live set al Jack’n Jill di Cutrofiano. Il gruppo
napoletano propone un mix tra i primi
RadioHead e la tradizione cantautoriale di
Battisti e De Andrè. Ingresso gratuito.
venerdì 2 / Agnese Manganaro al Felix
di Trepuzzi (Le). Ingresso gratuito. Info e
prenotazioni 0832755030.
sabato 3 / Kavanàh a Casarano (Le)
TEATRO
venerdì 16 / Vergine Madre ai Cantieri
Koreja di Lecce
Sei
canti
della
Divina
Commedia,
probabilmente i più noti. Sei tappe di un
pellegrinaggio nel mezzo del cammin
di nostra vita: Il viaggio (Il primo canto
dell’inferno), La Donna (Francesca il V),
l’Uomo (Ulisse, il XXVI), il Padre (Ugolino
il XXXIII), la Bambina (Piccarda il III del
Paradiso), la Madre (Vergine madre il XXXIII
del paradiso). È la Commedia Umana di
Dante, una strada che si rivela costeggiata
La redazione di CoolClub.it non è responsabile
di eventuali variazioni o annullamenti.
Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it
Per segnalazioni:
[email protected]
da figure “parentali”: quello che si compone,
guarda caso, è il disegno di una famiglia.
Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7).
Info 0832242000
domenica 18 / Via a Tuglie(Le)
giovedì 22 e venerdì 23 / Na specie de
cadavere lunghissimo ai Cantieri Koreja di
Lecce
Lo spettacolo, diretto da Giuseppe Bertolucci
e messo in scena dal Teatro delle Briciole
di Parma, nasce da un’idea di Fabrizio
Gifuni, con testi da Pier Paolo Pasolini e di
Giorgio Somalvico, e prende origine, come
scrive il regista, “dal desiderio di distillare,
nell’alambicco del monologo, sostanze
linguistiche dai sapori apparentemente
opposti”. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro
(ridotto 7). Info 0832242000
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C’era una volta l’universo Marvel, un
intero cosmo fumettistico popolato da
secchioni con poteri di ragno, divinità di
Asgard e reietti dal DNA impazzito; tutti
usciti dalla mente del “Sorridente” Stan
Lee e dalla matita di Jack Kirby, Steve
Ditko e John Romita Sr.
Ma ben 46 anni di storie in prosecuzione,
dense di trionfi e tragedie, amori, morti
e resurrezioni (troppe!) ad effetto, sono
di fatto indigeste da assorbire per chi
si
vuole accostare oggi ai fumetti
della “Casa delle idee” ( il nomignolo
affettuoso con cui i fans chiamano
la Marvel). Tale annoso problema è
stato risolto, alle soglie del ventunesimo
secolo, da Joe Quesada, il giovanissimo
direttore artistico della casa editrice
americana: sfruttando l’interesse sorto
nel grande pubblico grazie alle pellicole
Spiderman e X-men, Quesada ha
proposto una nuova, fiammante, linea
editoriale denominata Ultimate, nella
quale sono inseriti i personaggi Marvel
più noti, con origini e backgrounds nuovi
di zecca. Ecco, dunque, apparire nel
2000 Ultimate Spiderman e nel 2001
Ultimate X-men. La linea Ultimate ha il
pregio di combinare personaggi celebri
ed amati con atmosfere e tematiche più
vicine ai gusti delle nuove generazioni
di lettori, rispetto alle corrispettive serie
tradizionali. Tuttavia, se i nuovi titoli
dedicati all’Uomo Ragno ed agli Xmen sono qualitativamente eccellenti
(soprattutto il primo) ed hanno riscosso
un grosso successo di vendite, sarà
nel 2002 che la Marvel tirerà fuori il
suo asso nella manica: a marzo vede
la luce The Ultimates, la terza serie di
questo nuovo universo narrativo in cui
fanno la loro apparizione alcuni tra i
più rappresentativi eroi Marvel, come
Capitan America, Iron Man, Thor ed
Hulk. Ultimates dovrebbe essere l’alter
ego della classica collana The Avengers
(in Italia I Vendicatori) ma si discosta
totalmente da essa e dagli usuali canoni
del fumetto supereroistico americano.
Grazie alla perversa mente di Mark Millar
ed ai disegni certosini di Brian Hitch , il
fumetto è divenuto la punta di diamante
del parco testate Marvel, conquistando
i favori dei fans storici della “Casa delle
idee” e dei lettori più esigenti ed adulti.
Il motivo di tale successo di pubblico e
critica? L’ex sindacalista britannico Millar
ha reinventato i character con caustica
ironia: Thor è un dio no-global che
afferma di non odiare Bush perché non
è neanche ammesso alle riunioni dei suoi
“padroni” e massacra i carabinieri (!), rei
d’aver aggredito pacifici manifestanti
a Roma; Cap. America è un violento
soldato, incapace di adeguarsi alla
modernità e ben contento di scaricare
in una devozione psicotica verso la
patria le sue ansie e frustrazioni; Iron
Man è un multimiliardario così annoiato
da eccitarsi all’idea del tumore, che
gli sta consumando il cervello; Hulk è
un Mister Hyde maniaco sessuale, che
si vanta della sua eccezionale forza e
della dimensione del pene! Ed a tirare
le fila l’afroamericano più potente del
mondo, dopo Coondeleeza Rice, il
generale Nick Fury (modellato sui tratti
di Samuel Jackson), deus ex machina
delle vicende degli Ultimates deciso
a sfruttare per i fini, non troppo puri,
dell’amministrazione
Bush i super
umani. Millar ed Hitch imbastiscono una
fortissima critica all’imperialismo militare
USA ed alle sue vacue giustificazioni
retoriche, in maniera quasi del tutto
inedita per il fumetto popolare
d’oltreoceano; forti anche della lezione
di opere come Whatchman di Alan
Moore e Dark Knigth Returns di Frank
Miller, decostruiscono ulteriormente la
figura del supereroe a stelle e strisce, vera
e propria icona del sogno americano,
riducendolo a mero simulacro privo di
pathos. Entrambi, in tempi differenti,
hanno precedentemente intrapreso
tale discorso sull’iconoclasta titolo The
Authority (pubblicato in Italia da Magic
Press), in cui il mito del supereroe era
sezionato in mille, rivoltanti, pezzi. Gli
Ultimates combattono per mero profitto;
si accompagnano alle celebrità del
gossip; picchiano le mogli e deridono i
propri compagni; sono indifferenti allo
strazio degli orfani iracheni che loro
stessi hanno reso tali. In fondo agiscono
per il bene comune e per la sicurezza di
quel paese che ci piace tanto odiare e
criticare.
Roberto Cesano
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Coolclub febbraio2007