LICEO CLASSICO J. STELLINI NEL DOLOROSO CARCERE Monica Delfabro Sira Mandalà Sandro Minisini Francesca Venuto In copertina foto di Daniela Isola PREMESSA L’Istituto ha promosso, fin dal lontano 2009, a cura del gruppo di ricerche dantesche del Liceo “J. Stellini” coordinato dal prof. Minisini, alcuni momenti di riflessione e ricerca interdisciplinare sul “Tempo vissuto nella Commedia di Dante”. Ho accolto con piacere la decisione del gruppo di lavoro di dare alle stampe anche l’ultima fatica in ordine di tempo, “Nel doloroso carcere”, presentato nell’aula magna del nostro liceo il 4 aprile 2014, nell’ambito dell’ottava edizione delle “Lezioni di civiltà e letteratura classica”. Nel frattempo il prof. Minisini, motore infaticabile di queste iniziative e fine dantista, ci ha lasciato. A noi, che lo abbiamo conosciuto ed apprezzato come insegnante e come studioso, il compito quindi di raccogliere una non facile eredità, fatta di passione per l’insegnamento e amore per la cultura. Questo libretto è a lui dedicato, con riconoscenza, da tutta la comunità dello Stellini. Udine, luglio 2015 Pino Santoro Dirigente Scolastico INTRODUZIONE Venerdì 4 Aprile 2014, nell’Aula Magna del Liceo Stellini di Udine, è stata presentata la conferenza “Nel doloroso carcere. Una rilettura contemporanea della tragedia di Ugolino”, a cura di un gruppo di docenti, tre insegnanti dello stesso Liceo (le scriventi) e Sandro Minisini, che era stato in servizio nella stessa scuola fino a poco tempo prima (2011). L’incontro era stato inserito nel ciclo di conferenze, organizzate dalla prof.ssa Annarosa Termini, dal titolo Lezioni di Civiltà e di Letteratura Classica, giunto nel 2013-2014 all’ottava edizione. Nel programma di presentazione, la curatrice Beatrice Rigatti aveva scritto: “Costituisce un evento speciale la lezione a quattro voci di aprile, che esplora la tensione poetica di una drammatica vicenda politica del mondo medievale”. Questa era infatti la chiave di lettura che si era voluto dare della famosa vicenda rievocata da Dante nel XXIII canto dell’Inferno. Per comprendere l’impostazione di tale lavoro è opportuno richiamare un’analoga esperienza compiuta alcuni anni prima. La lezione dantesca proposta nell’aprile 2014 seguiva da vicino, nell’impalcatura generale, il modello della “trilogia” presentata tra novembre e dicembre 2009, un percorso intitolato Il tempo vissuto nella Commedia di Dante. Partendo dalla lettura-recitazione di alcune parti del poema medievale e dalla proiezione di immagini, l’allora costituito “Gruppo di ricerche dantesche dello Stellini”, con la partecipazione degli studenti per l’accompagnamento musicale (con musiche registrate ed esecuzioni dal vivo, a cura di alcuni allievi facenti parte dell’orchestra del Liceo) e per la lettura del testo, aveva promosso un’iniziativa che, in relazione ai programmi di “Scuola aperta” (con il Liceo Stellini trasformato in centro culturale aperto alla cittadinanza), era stata ideata per diffondere la conoscenza di alcuni aspetti salienti dell’opera dantesca in base a una visione aperta, filologicamente accurata ma anche opportunamente attualizzata, fondata su nuove interpretazioni del testo poetico. Ognuno dei testi prescelti era stato infatti 6 Nel doloroso carcere rivisitato in una pluralità di prospettive letterarie e artistiche tramite una ricerca che aveva coinvolto varie discipline: la critica dantesca, le letterature classiche, la letteratura inglese, la storia dell’arte. I temi trattati nelle tre Lecturae Dantis erano incentrati su tre luoghi “esistenziali” della Commedia di Dante indagati come percorsi della memoria, la cui origine va collocata nell’esperienza vissuta del Poeta poiché sullo sfondo, emblematizzato, si staglia sempre e comunque, in controluce, il luogo della memoria per eccellenza, la Firenze della fine del Duecento, richiamo desumibile anche tramite l’indicazione dei tre differenti fiumi che attraversano i luoghi considerati e trovano nell’Arno il loro emblema unificatore. Gli argomenti degli incontri sono stati i seguenti: Metafore del Limbo, Il Paradiso in terra, o dell’innocenza; Un Paese guasto: Dante e Brunetto. Furono allora predisposti per il pubblico i risultati della ricerca raccolti in tre piccole monografie, redatte dai componenti del Gruppo ricordato, che radunavano i singoli contributi critici su Dante, Eliot, Shelley, le fonti classiche, il repertorio iconografico di supporto (che spaziava dagli antichi illustratori di Dante ai maestri più recenti, desiderosi di attingere ripetutamente alla Commedia come linfa creativa, e a immagini del passato e del presente collegabili per analogia tematica), espresso tramite un ricco corredo di immagini a colori. Con ciò si era voluto lasciare una traccia concreta di quanto era stato meditato ed elaborato - in forme anche innovative, dal punto di vista metodologico - al fine di costituire un supporto ed uno stimolo ad ulteriori itinerari interpretativi nell’inesauribile immaginario dantesco. Era stato importante perciò radunare e proporre di volta in volta ai partecipanti alle serate il materiale che documentava un’impresa accuratamente preparata in una serie di incontri a quattro e portata avanti nel giro di alcuni mesi, alla presenza degli studenti, con una serie di confronti e di prove che si infittivano in prossimità delle scadenze. L’impresa stava molto a cuore a Sandro Minisini, appassionato e raffinato dantista, che aveva progressivamente coinvolto noi tre colleghe in un impegno che ci aveva all’inizio spaventato e poi, grazie alla sua forza di convincimento e di coinvolgimento, sempre di più entusiasmato, il tutto corroborato dalla presenza degli studenti in qualità di attori, musicisti e collaboratori a vario titolo: un’espe- Introduzione 7 rienza in équipe davvero unica che ci ha insegnato molto, sul piano intellettuale senz’altro e ancor più quello umano. Si era infatti creato un forte legame d’amicizia, schietto e sincero, che ci avrebbe sostenuto nel tempo. Dopo quella significativa esperienza, che tanto ci aveva gratificato, per il positivo riscontro esercitato sul pubblico, per diverso tempo si è parlato di riprendere il lavoro su Dante in maniera analoga, legandolo però ad altre tematiche. Tuttavia, trascorsi alcuni anni, con vari impegni o circostanze di vita o di salute che nel frattempo avevano dilazionato la ripresa del lavoro, il progetto aveva subito una temporanea battuta d’arresto. Chi non aveva distolto il suo pensiero dall’approfondimento dantesco è stato Sandro Minisini, che sosteneva con forza le ragioni di un rinnovato impegno. Andato precocemente in quiescenza per via della lunga attività svolta all’estero, si era potuto dedicare a Dante in modo continuativo, anche in una serie di lezioni che proponeva all’Università della Terza Età, ma nel frattempo non rinunciava a proporre quello che per lui doveva essere la naturale continuazione del precedente progetto. A cambiare dovevano essere naturalmente le tematiche. Dopo ulteriori rallentamenti e impedimenti di vario genere, la decisione presa dal Gruppo nel 2013 fu quella di riprendere comunque il lavoro e di incentrare l’attenzione su un personaggio di tale forza e straordinarietà da catturare l’attenzione del pubblico come caso emblematico, suscettibile di aperture ad interessanti confronti trasversali. Sandro Minisini lo aveva già in mente quando, ancora nel 2012, scriveva che: “La conferenza su Ugolino può essere suddivisa in tre atti (i primi due brevi, il terzo lungo), che dovrebbero riprodurre la tragedia di Ugolino in una sequenza teatrale, come procedendo per allargamenti successivi del campo visuale: il primo atto sarà costituito dalla recitazione del testo con la sottolineatura del tema del dolore; il secondo atto sarà centrato sul tema della fame e della passione rievocando la passione di Cristo; il terzo atto sull’odio e la fame nella guerra irlandese”. Ciò sarebbe risultato evidente con il richiamo a Seamus Heaney, poeta irlandese Premio Nobel 1995, scomparso il 31 agosto 2013, che 8 Nel doloroso carcere tanto aveva amato e tradotto interi canti della Commedia in inglese. E nel lavoro sarebbe emerso un preciso riferimento alla scuola dei dantisti americani, a dimostrazione delle interessanti chiavi di lettura del poema da parte dei critici d’oltreoceano. Minisini era già alla ricerca delle musiche di supporto, per cui aveva suggerito, ad esempio, scelte sofisticate ed evocative, quali ad esempio la musica franta e spezzata, demoniaca, di Etude aux accidents di Luc Ferrari (1958), l’inizio di Novars di Francis Dhomont (1989), “un frammento musicale che agglomera oggetti fluidi e spigolosi, giustapposti e stratificati”, il Cantus tenebrarum di Jacques Lejeune (1985) come intermezzo musicale, oltre ad altri brani di Patrick Ascione e Denis Smalley per quanto riguarda i riferimenti alla guerra irlandese. Ciò dà la misura della sua attenzione, rigorosa e meticolosa, ad ogni aspetto di quello che sarebbe dovuto diventare l’evento, di cui sosteneva a viva forza la necessità, proprio nelle forme che avrebbe assunto, non canoniche ma capaci di toccare le corde più profonde del pubblico. Il gruppo di lavoro si è riunito più volte alla fine del 2013 e all’inizio del 2014, per definire e completare le singole parti, stendere i singoli apporti e confrontarli con le varie componenti, in un procedimento “in progress” di sorvegliata attenzione, mentre si erano definiti anche i compiti da assegnare a due studenti: Riccardo Ricobello (allora promessa nel campo teatrale dell’Istituto, quindi ammesso nell’autunno scorso all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma) per la voce recitante e Camilla Colutta (allieva diplomatasi nell’estate 2015) per il coordinamento tecnico. A fine marzo si sono susseguite alcune prove, continuate sino a pochi giorni prima dell’incontro, perché tutto doveva procedere in modo consequenziale, con quella “disinvoltura” che era il frutto di una attenta cura di ogni singolo dettaglio. L’evento tanto atteso si è svolto, come ricordato in apertura, venerdì 4 aprile, alla presenza di un folto pubblico, costituito da spettatori di provenienza eterogenea (allievi e docenti della scuola, ex studenti, conoscenti e amici, cittadini…) che ha gremito la pur ampia Aula Magna del nostro Istituto ed ha seguito con partecipazione e crescente interesse la rappresentazione, svoltasi nell’arco di un’ora e 9 Introduzione terminata con un lungo applauso, a segno di un gradimento non formale ma entusiasticamente convinto. Dell’evento resta testimonianza grazie al video girato dal Dirigente Scolastico prof. Giuseppe Santoro, inserito nel sito della Scuola: decisivo appare oggi questo contributo per tutta una serie di motivi, a partire dal desiderio di documentare fedelmente un’esperienza multisensoriale che unisce recitazione, approfondimenti critici, rassegna visuale e contributi musicali (furono poi scelte, rispetto alle riflessioni iniziali, le musiche di François Donato, Ivo Malec, Denis Smalley e Bloody Sunday degli U2). Tuttavia oggi questa testimonianza costituisce un ricordo prezioso e toccante soprattutto perché, ripercorrendo quell’evento in tutti i suoi apporti, fa rivedere e risentire l’intervento di Sandro Minisini, anima e motore di tutto il progetto, che sarebbe poi scomparso inaspettatamente, aggredito dal male con cui negli ultimi tempi aveva combattuto con indomito coraggio e determinazione, solo pochi mesi più tardi, il 17 agosto 2014. Quello che non eravamo riusciti a compiere per la lezione-reading, cioè radunare - come Sandro aveva in animo di fare fin dal principio - gli scritti preparati per l’evento, ora - a un anno di distanza - vede finalmente la luce. Per esaudire in primo luogo ciò che sentivamo come una necessità, lasciando così traccia del lavoro svolto. Sandro desiderava fortemente che portassimo a termine questo impegno, che era rimasto incompleto. Speriamo con queste pagine di aver esaudito il suo desiderio, che si è fatto nostro, nel dare forma non effimera a un evento così tenacemente perseguito e fortunatamente portato a termine. Ora, in forma di pubblicazione, può rimanere a disposizione di coloro che desiderano leggerlo e tenerne conto, per ripartire da lì e - attraverso un “viaggio” pur soggettivo ma vivo e stimolante - proseguire l’itinerario di conoscenza e di immersione nella grande opera dantesca, sempre viva ed attuale, come Sandro Minisini non ha smesso mai di ricordare. Monica Delfabro Sira Mandalà Francesca Venuto Sandro Minisini 11 DANTE INFERNO XXXIII LICEO CLASSICO STELLINI VENERDÌ 4 APRILE 2014 VOCE DI Riccardo Ricobello MUSICHE DI François Donato, Ivo Malec, Denis Smalley, U2 Bloody Sunday COORDINAMENTO TECNICO Camilla Colutta Monica Delfabro Pisa, la novella Tebe Sandro Minisini “Colpa e passione” secondo John Freccero Francesca Venuto Ugolino nell’immaginario artistico Sira Mandalà Una “lettura” di Seamus Heaney 13 NEL DOLOROSO CARCERE INFERNO XXXII Noi eravam partiti già da ello, ch’io vidi due ghiacciati in una buca, 126 sí che l’un capo a l’altro era cappello; e come ‘l pan per fame si manduca, cosí ‘l sovran li denti a l’altro pose 129 là ‘ve ‘l cervel s’aggiugne con la nuca: non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, 132 che quei faceva il teschio e l’altre cose. «O tu che mostri per sí bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, 135 dimmi ‘l perché», diss’io, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, 139 se quella con ch’io parlo non si secca». INFERNO XXXIII La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’capelli 3 del capo ch’elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme 6 già pur pensando, pria ch’io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, 9 parlare e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giú; ma fiorentino 12 mi sembri veramente quand’io t’odo. Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: 14 15 18 21 24 27 30 33 36 39 42 45 48 Nel doloroso carcere or ti dirò perché i son tal vicino. Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda la qual per me ha ‘l titol de la fame, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, m’avea mostrato per lo suo forame piú lune già, quand’io feci ‘l mal sonno che del futuro mi squarciò ‘l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane. Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l’ora s’appressava che ‘l cibo ne solёa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti’ chiavar l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sí dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio Inferno XXXIII 51 54 57 60 63 66 69 72 75 78 81 84 disse: “Tu guardi sí, padre! che hai?” Perciò non lagrimai né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscío. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia di manicar, di súbito levorsi e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia”. Queta’mi allor per non farli più tristi; lo dí e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi? Poscia che fummo al quarto dí venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?” Quivi morí; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ‘l quinto dí e ‘l sesto; ond’io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dí li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno». Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ‘l teschio misero co’ denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ‘l sí suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sí ch’elli annieghi in te ogne persona! Che se ‘l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te de le castella, 15 16 87 90 Nel doloroso carcere non dovei tu i figliuoi porre a tal croce Innocenti facea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata e li altri due che ‘l canto suso appella. 17 Monica Delfabro PISA, NOVELLA TEBE Tra i canti di Dante, e tra i canti dell’Inferno in particolare, il XXXIII è sicuramente uno dei più famosi. E certamente uno dei motivi che l’hanno reso così celebre è la sua formidabile forza evocativa e l’orrore che suscita. Proprio per la sua potenza icastica il canto ha ispirato molti artisti nel corso dei secoli, pittori e scultori; ma ha anche stimolato varie interpretazioni, soprattutto oltreoceano, negli Stati Uniti, dove Dante continua a essere letto, amato e commentato; e infine ha colpito la sensibilità di poeti vicini a noi nel tempo, che hanno sentito la necessità di creare una nuova traduzione del canto di Ugolino, sotto l’urgenza delle analogie che avvertivano tra la situazione cantata da Dante e quella del loro tempo. Naturalmente anche l’Alighieri ha avuto i suoi modelli, che sono, oltre a quelli biblici, i testi classici, greci e latini. Per questo canto in particolare, la fonte principale è Stazio, con la sua opera Tebaide. Stazio non è un autore che gode di particolare fortuna nella nostra scuola, schiacciato dal confronto con Virgilio. Ma nel Medio Evo egli godette di grande successo. Ricordiamo brevemente chi è Stazio: fu un poeta romano, vissuto in età imperiale, probabilmente tra il 40 e il 96 d.C, sotto i Flavi. Oltre alla Tebaide, ci sono di lui pervenuti un altro poema, l’Achilleide, interrotto al II libro forse a causa della morte, e la raccolta di poesie Silvae. Ma è la Tebaide l’opera che nel Medio Evo, e non solo, fu più letta, e fu letta soprattutto nelle scuole, dove venne utilizzata come testo scolastico. Come dice il titolo, si tratta di un poema epico in esametri che narra le vicende relative alla città di Tebe, in dodici libri. Come l’Eneide di Virgilio: è evidente, infatti, che Stazio ha come modello di riferimento Virgilio, che richiama in più punti, ma da cui volutamente si discosta in altrettanti. Innanzitutto, a differenza dell’Eneide, il suo contenuto è esclusivamente mitologico, e esclusivamente greco. Esso riguarda il mito dei Labdacidi, ovvero 18 Nel doloroso carcere le vicende relative alla stirpe di Labdaco, il capostipite. Figlio di Labdaco è Laio, ucciso dal ben più famoso Edipo, padre di Eteocle e Polinice, e di Antigone, personaggi con i quali si conclude la catena di violenze, colpe e maledizioni che rende questa dinastia mitica una delle più tragiche. E non uso il termine a caso, perché la saga tebana, nota già ad Omero ma molto probabilmente materia di poemi indipendenti, forse coevi all’Iliade e all’Odissea e di cui restano solo frammenti, fornì un argomento per tutti e tre i tragediografi: per Eschilo, per I sette contro Tebe, per Sofocle, per l’Antigone, e infine per Euripide, per le Fenicie. Il mito è presente anche nel teatro tragico latino, nelle Phoenissae e nell’Oedipus di Seneca. Di tutta la vicenda, Stazio si concentra sulla guerra fratricida tra Polinice ed Eteocle, argomento che era stato già trattato ne I sette contro Tebe. Si veda l’inizio della Tebaide: le prime parole che leggiamo, disposte in efficace ossimoro, prima dell’invocazione alle Muse, sono fraternas acies (“schiere fratene”). Noi sappiamo, già da Eschilo, che, dopo l’accecamento e l’esilio di Edipo dalla città di Tebe, conseguente alla scoperta dell’incesto e del parricidio, il governo della città passò ai figli, Eteocle e Polinice, i quali avrebbero dovuto regnare ad anni alterni. Inizia a regnare Eteocle. Ma, allo scadere dell’anno, egli si rifiuta di cedere il regno al fratello: questa sembrerebbe la versione più plausibile, anche se in Eschilo non è del tutto chiaro se Polinice viene scacciato e quindi si rifugia ad Argo o se spontaneamente vi si reca per cercare alleati per scacciare egli stesso il fratello. La versione di Stazio è questa: è l’ombra di Laio, il padre di Edipo, a esortare Eteocle a infrangere il patto con il fratello Polinice, mentre quest’ultimo è ad Argo, ospite del re Adrasto. Molto efficace è nel I libro di Stazio la maledizione che il vecchio Edipo invoca sui figli, chiamando in soccorso le Furie, Tisifone in particolare, per punire la loro superbia e il disinteresse nei suoi confronti: Huc ades et totos in poenam ordire nepotes (“Vieni qui e ordisci la trama della discendenza con destini di pene”). La profezia si avvera: Polinice muove guerra al fratello Eteocle, in una spedizione di cui fanno parte, oltre a lui, Adrasto, il re di Argo, e altri cinque eroi argivi: Tideo, Ippomedonte, Capaneo, l’indovino Anfiarao e il più giovane, Partenopeo. A ognuno di essi Eteocle Pisa, novella Tebe 19 contrapporrà un eroe tebano presso una delle sette porte: a Polinice contrapporrà se stesso. Ecco allora che capiamo l’appellativo “novella Tebe” con cui Dante apostrofa Pisa: non certo per presunti legami con la città della Beozia, come invece suggeriva Pietro Alighieri, figlio di Dante, il quale, nel suo Commento alla Divina Commedia, scrisse a proposito di Pisa: “fu fondata da alcuni Greci, che giunsero da una terra appartenente a Tebe, che veniva chiamata Pisa”. È vero che possediamo fonti antiche (Virgilio, Eneide, Catone, Origines, Strabone e Plinio, Nat. Hist.) che ci parlano della fondazione greca della città toscana di Pisa, ma non è chiaro né documentato il legame specifico tra Tebe greca e Pisa in Italia. Più sagge mi sembrano le parole di Niccolò Tommaseo, anche lui autore di un commento alla Divina Commedia, uscito nel 1837: Pisa, nota Pietro di Dante, fu fondata dai tebani, venuti dalla ellenica Pisa. Ma qui il poeta allude ai tragici casi di Tebe e agli odi fraterni. Pisa dunque ricorda a Dante Tebe, perché anche Pisa era stata lacerata da lotte fratricide, in un periodo in cui anche altri comuni, basti pensare a Firenze, vivevano profonde divisioni. In particolare, in questo canto, il poeta toscano allude a fatti che accaddero durante la sua giovinezza Pisa si trovava allora in una situazione difficile, in seguito alla sconfitta subita per mano della rivale Genova, nella battaglia della Meloria. In questa emergenza la città decise di dare pieni poteri a Ugolino della Gherardesca, ghibellino, il quale, durante il suo governo, compì delle azioni che lo misero in cattiva luce agli occhi dei ghibellini presenti in città: cedette alcuni castelli appartenenti a Pisa, a Lucca e Firenze, forse con lo scopo di rompere l’alleanza tra Genova e le due città toscane; si associò al potere il nipote Nino Visconti, guelfo; infine pare che facesse molte concessioni alla parte guelfa, popolare. Tutto ciò portò all’esasperazione il partito ghibellino, capeggiato dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, che, approffittando dell’assenza dalla città di Ugolino, scacciò dal governo il nipote Nino. Ruggieri richiamò quindi, sembra con promesse di accordi, Ugolino a Pisa e a tradimento lo fece imprigionare. Con lui furono rinchiusi i figli Gaddo e Uguccione, e i nipoti, Nino detto il Brigata (non il 20 Nel doloroso carcere Visconti) e Anselmuccio. I cinque furono tenuti in carcere nove mesi e fatti morire di fame. Ruggieri e Ugolino sono dunque i nuovi Eteocle e Polinice: fratelli, anche se non di sangue, ma di città e partito; traditori entrambi della patria: Ruggieri, oltre che per probabili mutamenti di fronte che caratterizzarono la sua vita politica, per aver teso un tranello ad un concittadino; Ugolino, forse, per aver tradito il suo partito ghibellino e per la cessione dei castelli. Ma più che alle vicende storiche precise, a cui solo allude, a Dante interessa rendere questi due uomini due personaggi paradigmatici di una temperie politico-culturale che egli stesso ha vissuto, fatta di sospetti, diffidenza, paure reciproche, vendette, orrori senza fine. Come a Tebe, dopo l’assassinio che aveva visto i due fratelli uccidersi reciprocamente, non c’era stato più spazio per la pietà e il riscatto, e all’assassinio si era aggiunto l’orrore di un editto che vietava la sepoltura di uno dei due, Polinice, e quindi la condanna a morte di colei, l’impavida sorella Antigone, che aveva infranto l’editto stesso, preferendo alle leggi degli uomini quelle degli dei; così a Pisa, all’orrore dei tradimenti si era aggiunto l’orrore dell’agonia a cui fu condannato Ugolino, insieme ai propri figli, figli alla cui morte Ugolino venne costretto, impotente, ad assistere. Ecco perché a Ruggieri è inflitto un supplemento di pena: non solo si trova per l’eternità nel ghiaccio insieme agli altri traditori, ma è costretto per l’eternità ad affondare i suoi denti nel cranio di Ugolino. Una punizione che richiama per contrappasso la fame che ha inflitto al nemico o, forse, la colpa che egli stesso, Ruggieri, ha fatto in modo che Ugolino compisse, rendendosi quindi doppiamente e più terribilmente colpevole. Faccio riferimento al verso, che Dante lascia volutamente e poeticamente ambiguo: Poscia più che il dolor poté il digiuno, verso che potrebbe anche alludere ad un atto di disperato cannibalismo da parte del padre. Per immortalare la pena di Ruggieri, Dante riprende ancora la Tebaide, citandola con una similitudine, che, nel contesto che abbiamo tratteggiato, acquista maggiore senso e completezza: non altrimenti Tideo si rose / le tempie a Menalippo per disdegno. Tideo, come abbiamo visto sopra, è un eroe argivo, che fa parte della spedizione Pisa, novella Tebe 21 contro Tebe. Nell’VIII libro della Tebaide, nei versi conclusivi, egli viene ferito mortalmente da Melanippo - o Menalippo, come dice Dante, con la metatesi l-n, presente nei codici staziani -, ma a sua volta riesce a ferirlo mortalmente. Neppure in punto di morte, tuttavia, Tideo placa il suo odio. Erigitur Tydaeus vultuque occurrit et amens / laetitiaque iraque, ut singultantia vidit / ora trahique oculos seseque agnovit in illo, / imperat abscisum porgi, laevaque receptum / spectat atrox hostile caput, gliscitque tepentis / lumina torva videns et adhuc dubitantia figi. / Infelix contentus erat: plus exigit ultrix / Tisiphone... (Alla vista del corpo di Melanippo, recatogli da Capaneo, Tideo si drizza, con lo sguardo va incontro al nemico e, fuori di sé per la gioia e lo sdegno, come lo vede rantolare e stravolgere gli occhi, riconoscendo in lui la propria immagine, comanda che gli taglino la testa e gliela porgano: prende con la sinistra il capo del nemico, lo contempla ferocemente ed esulta vedendo in quel volto ancor caldo gli occhi torvi e ancora restii a fissarsi nella morte. Il disgraziato era pago di questo: Tisifone pretese di più). Atena stessa, sopraggiunta nel frattempo per offrire un filtro salvifico a Tideo, non riesce a sostenere la visione che le appare: atque illum effracti perfusum tabe cerebri / aspicit et vivo scelerantem sanguine fauces = “e vide quello ricoperto dal liquido del cervello spaccato e intento a deturpare la sua bocca di sangue vivo.” Atena fugit, ci dice Stazio, e ritorna nell’Olimpo solo dopo essersi purificata gli occhi con la luce di una fiaccola mistica e abbondante acqua del fiume Ilisso. È una scena da cui anche noi fuggiamo, un scena “orrida”, che infatti non compare in Eschilo, attento a non mettere in scena ciò che è sconveniente. Ma compare in Stazio, così come scene simili compaiono nelle opere dei suoi contemporanei Lucano e Seneca, in un’epoca che amava il macabro e i particolari più raccapriccianti. Ecco perché nel Medio Evo, la Tebaide e, insieme, i Pharsalia di Lucano e le tragedie di Seneca, hanno successo: perché essi offrono un repertorio di exempla orridi, che servono a rappresentare allegoricamente il male, il peccato. Tebe in particolare, e mi avvio alla conclusione, rappresenta per Dante la città di Dite, e la Tebaide, con i suoi protagonisti, - qui Tideo, ma in un altro punto dell’Inferno (c. XIV) il più famoso Ca- 22 Nel doloroso carcere paneo, collocato tra i violenti contro Dio, ostinato nella sua rabbia blasfema - è un modello per l’Inferno, l’emblema del destino dei dannati, ovvero un ciclo di violenze e sofferenze reiterate, senza alcuna possibilità di redenzione. 23 Sandro Minisini “COLPA E PASSIONE” secondo John Freccero Il doloroso carcere, la torre della Muda, in cui conviene ancor ch’altrui si chiuda, è il luogo nel quale si consuma l’agonia sofferta per mesi e che infine precipita negli ultimi sei giorni, quando la torre viene sigillata e il cibo non viene più portato ai prigionieri. La torre è il luogo claustrofobico senza scampo che porta alla morte, all’annullamento, alla cancellazione. Ed è il luogo di una tragedia macabra che sembra provenire da un Medioevo nero primitivo e barbarico perché la morte per fame di prigionieri murati vivi e lì abbandonati, dimenticati dai viventi, è la morte più nefanda e orrida che si possa immaginare, ci riporta alla memoria città antiche assediate e prese per fame e sete, in guerre animate da odi empi e profanatori. Il segno della profanazione estrema è il pasto bestiale di Ugolino che rode il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, in un’eterna reiterazione dell’atto interrotta solo per raccontare con fatica, con tremenda fatica, la propria terribile esperienza. Molta critica dantesca ha insistito sul tema del dolore, Ugolino infatti comincia: Tu vuo’ ch’io rinovelli/ disperato dolor che ‘l cor mi preme… Successivamente chiede a Dante: e se non piangi, di che pianger suoli? Fino ad esclamare: ahi dura terra, perché non t’apristi? E infine concludere con quel verso famoso, famoso perché reticente, perché figura retorica della reticenza: Poscia, più che ‘l dolor, potè il digiuno, rammaricandosi d’esser morto per fame mentre avrebbe preferito morire di dolore. Questa dunque la chiave di lettura seguita dalla nostra critica dantesca. Ma è sui figli, vittime innocenti poste in croce, che si fissa l’attenzione del dantista americano John Freccero, a iniziare da quei versi 24 Nel doloroso carcere dell’invettiva finale piena di sdegno contro Pisa, dove Dante dice Che se ‘l conte Ugolino aveva voce/ d’aver tradita te de le castella,/ non dovei tu i figliuoi porre a tal croce./ Innocenti facea l’età novella… I figli di Ugolino sono le vittime innocenti poste in croce, sono l’archetipo della Vittima e della Crocifissione. Dall’immagine di questa croce così evocata, John Freccero, che è professore di Letteratura Italiana alla New York University, inizia la sua interpretazione cristologica dell’intero episodio. Dice Freccero che quella croce richiama la Passione di Cristo e che forse l’allusione più esplicita alla Passione di Cristo sta nell’invocazione di Gaddo, nel punto culminante del racconto, quando Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,/ dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti? Parole, dice Freccero, che rievocano le parole di Cristo sulla croce: Elì, ‘Elì, lammà sabachtàni! - Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (Matteo, 27.45). Le parole di Gaddo sono le stesse parole pronunciate dal Salvatore prima della sua morte nel momento della Passione. Ma un’altra allusione cristologica ancora più evidente si trova nel punto culminante, quando i figli offrono se stessi al padre, quando sembrano fraintendere come fame il suo mordersi le mani per la disperazione: ambo le man per lo dolor mi morsi;/ ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia/ di manicar, di súbito levorsi/ e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia/ se tu mangi di noi: tu ne vestisti/ queste misere carni, e tu le spoglia’. L’offerta che i figli fanno di sé al padre è un sacrificio eucaristico da Ultima Cena. Dice Freccero che questi non sono i pietosi abbellimenti di una terribile storia infernale, sono invece la vera chiave di volta per l’interpretazione del testo. È, questa, la Passione del conte Ugolino. I figli offrono al padre la Redenzione col sacrificio di sé, in un pasto spirituale, essi sono l’Agnus Dei, l’Agnello biblico del sacrificio. Ma è un sacrificio fallito che si risolve in uno scacco perché Ugolino non si può redimere. Il suo cuore è indurito dall’odio, lui stesso ha detto: sì dentro impetrai, divenni duro e insensibile come una pietra, non può quindi cogliere il significato spirituale delle parole dei figli. Capisce solo l’atto bestiale della loro offerta prendendola alla lettera, non accoglie il messaggio che quel cibo spirituale gli offre la Salvezza, la Redenzione, gli sfugge completamente il significato nascosto delle loro parole. Colpa e passione 25 Ugolino rimane prigioniero della fame inesauribile del suo odio, confitto nel gelo che è simbolo del gelo dell’anima di un traditore a sua volta tradito, bloccato definitivamente nella ripetizione infinita di un gesto bestiale e orribile. Così si spiegano le allusioni belluine sparse nel testo al rodere, al cibo, alle agute scane delle cagne magre, studiose e conte, alla caccia del lupo e i lupicini al monte. Sono le immagini del sogno premonitore, quand’io feci ‘l mal sonno/ che del futuro mi squarciò ‘l velame, come dice Ugolino. Quel velame di cui parla è il velo del Tempio, come si legge nel Vangelo di Matteo, il velo che si squarciò nel momento della Crocifissione: “Ed ecco, la cortina del Tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si schiantarono, le tombe si aprirono”. È un ulteriore segno della Passione di Cristo nella passione del conte Ugolino. Ma anche in questo caso Ugolino, al suo risveglio, ne coglie soltanto il significato generale, cioè che morirà insieme ai figli, mentre gli sfugge di questo sogno la vera rivelazione, il significato specifico che allude alla forma della sua dannazione, cioè al cannibalismo infernale a cui è condannato in perpetuo. Questa l’analisi del Freccero, che si dimostra un dantista d’eccezione per la sua competenza sia del testo dantesco che delle Sacre Scritture. E la competenza scritturale, va sottolineato, è la specifica qualità della scuola dei dantisti americani, qualità che manca ai dantisti italiani talvolta così pieni di pregiudizi nei confronti della cultura americana. Il tema della Passione, nella morte di Ugolino e dei suoi figli, è di grande originalità, così che il fatto che le colpe del padre ricadano sui figli innocenti ci permette di riconoscere nella sua giusta potenza lo sdegno di Dante contro Pisa e contro le lotte fratricide tra guelfi e ghibellini. Per questo Pisa diventa vituperio de le genti/ del bel paese là dove il sì suona, vituperio, potente latinismo che significa vergogna, offesa, onta e disonore, parola usata una volta sola in tutta la Commedia a sottolineare l’unicità dell’obbrobrio degli innocenti annientati per le colpe dei padri. 27 Francesca Venuto UGOLINO NELL’IMMAGINARIO ARTISTICO Nella galleria dei personaggi dell’Inferno Ugolino della Gherardesca si staglia potente nella sua tragica condizione: maledetto, in uno strazio destinato continuamente a rinnovarsi - con una forza espressa nella sua intensa drammaticità - in una vendetta che si ripete all’infinito, mentre il protagonista addenta e rode, con furia cannibalesca, la nuca dell’avversario (“sì che l’un capo all’altro era cappello;/ e come ‘l pan per fame si manduca”), in un’immagine sigillata con gran forza dall’autore ottocentesco francese Gustave Doré. 28 Nel doloroso carcere L’atteggiamento estremo riporta alla memoria, come abbiamo sentito, la mitica figura greca di Tìdeo, uno dei sette principi che intrapresero la spedizione contro Tebe, qui evocato in un particolare del Bronzo A di Riace, identificato appunto in Tìdeo, dalla furia antropofaga. La furia insaziabile di colui che si palesa come il conte Ugolino ha fatalmente attratto l’attenzione di tanti illustratori, originando una nutrita iconografia, a partire dai miniatori medievali ai maestri della Rinascenza come il fiammingo naturalizzato fiorentino Giovanni Stradano), Ugolino dell’immaginario artistico 29 30 Nel doloroso carcere sino ad emergere con la potenza visionaria di un autore preromantico come l’inglese William Blake, che sull’atteggiamento bestiale ha imperniato molte sue tavole, fino ad autori più recenti, come il veneto Alberto Martini con la sua fantasia perturbante in chiave simbolista: due figure scheletriche e contorte, deformate, brutali, mentre, sotto la superficie ghiacciata, si scorge il modellino della Pisa medievale, oggetto dell’invettiva finale. Ugolino dell’immaginario artistico 31 Ed ancora la macabra scena viene rievocata da artisti contemporanei: ad esempio il toscano Quinto Martini, in Italia, si concentra sull’atto bestiale ove il furore espressionistico, pur rintracciabile, viene contenuto in una rilettura dolente, o ancora Michael Mazur, statunitense, che con visione personale e innovativa, rielabora le fonti antiche e propone in chiave surreale e raggelata la disperata sopraffazione operata da Ugolino - vittima anche lui - nei confronti del suo avversario, la cui testa viene appena suggerita, omettendo i tratti somatici che ne consentano l’identificazione. 32 Nel doloroso carcere L’azione viene resa in maniera astratta dall’inglese Tom Phillips, influenzato dalla Pop art, ove le due teste, scarnificate e ridotte a giganteschi gherigli bianchi duplicati in negativo, vengono illuminate da un riflettore (con sua fonte nel cerchio con la dicitura “eve”, veglia, a evocare il tragico antefatto), riflettore dicevamo che le isola drammaticamente su un palcoscenico tramutato in uniforme distesa di ghiaccio. Per converso, più narrativa, deformata e grottesca, la versione proposta dall’illustratore contemporaneo italiano Lorenzo Mattotti distorce i corpi che fuoriescono dal mare ghiacciato e insiste sul rituale cruento e sulla rabbia di Ugolino, tanto da far retrocedere sullo sfondo la figura di Dante che, sconvolto, cerca rifugio tra le braccia di Virgilio. Ugolino dell’immaginario artistico 33 La vigoria disumana con la quale l’azione viene perpetrata riporta alla mente l’immagine sconvolgente di Saturno che divora i suoi figli realizzata dallo spagnolo Francisco Goya per la serie delle “Pitture nere” (18191823), specchio delle ossessioni di un autore turbato che, persa ogni certezza, fa affiorare il caos di una mente allucinata. La ripetizione infinita del supplizio che ossessiona Ugolino suggerisce un avvicinamento all’incisione del maestro siciliano Renato Guttuso che, nella serie della Divina Commedia (eseguita nel 1970), tramite un’inquadratura ravvicinata e tratti marcati e taglienti, quasi inestricabili, sintetizza con furore espressionista la furia bestiale del protagonista che fagocita l’avversario. 34 Nel doloroso carcere Al termine di tanta devastazione, come suggerisce lo spagnolo Salvador Dalì, su un palcoscenico desolatamente vuoto, non rimarrà altro che un gigantesco teschio invaso da insetti, ripetuto in un teschio più piccolo, mentre Ugolino, al termine di questa prospettiva, come un relitto di figura umana percorsa da crepe e lesioni, affonda da metà busto in poi e ripiega il capo come a ripercorrere mentalmente, senza sosta, inesorabilmente, la fosca vicenda che lo ha visto protagonista e vittima. Ugolino dell’immaginario artistico 35 A Dante, che lo interroga circa il motivo per cui è “tal vicino” a quel personaggio che sta addentando nell’infimo inferno, tra i dannati condannati in perpetuo al ghiaccio dell’Antenòra, loro che furono gelidi nei confronti della carità divina, Ugolino con estremo dolore (“parlare e lagrimar vedrai insieme”) rievoca l’antefatto: accusato di ribellione e tradimento, Ugolino era stato a sua volta tradito dall’arcivescovo Ruggieri, condannato e catturato nella torre pisana della Muda, sigillata, e fatto morire di fame in carcere con i suoi figlioli. È l’incipit di un racconto che si incentra su un dolore lancinante: nel sogno premonitore di Ugolino che apre la fosca tragedia, Ruggieri con i suoi appare come colui dà la caccia e sbrana un branco di animali composto da lupo e lupicini. Tutto si svela la mattina dopo la cattura, quando i figlioli di Ugolino, a loro volta imprigionati e piangenti nel sonno, chiedono di che sfamarsi: qui si preannuncia l’irreparabile, che reclama una condivisione empatica. “E se non piangi di che pianger suoli?”. Alternativo alla violenta immagine iniziale dei due dannati in un fiero groviglio, questo cupo scenario che porta i prigionieri della torre ad una morte senza scampo risulta complementare, in un crescendo di orrori che nondimeno sollecita l’umana pietà. L’interpretazione fornita da William Blake aderisce a questo fosco presagio: scorgiamo i figli gementi in un grido di dolore che immaginiamo sempre più flebile, mentre si assottiglia il confine tra sogno/incubo/veglia e il gesto di protezione di Ugolino è ben lungi dall’arrecare il soccorso insistentemente invocato dai giovani innocenti. Nel corredo illustrativo ottocentesco, che va dal Neoclassicismo al Simbolismo, l’aspetto descrittivo prevale, con notevole indugio sull’ambientazione, la cupa torre-prigione ove la situazione precipita tragicamente: l’inclinazione a narrare puntualmente il procedere dell’azione risulta ai nostri occhi di moderni meno efficace della forza delle parole. E tuttavia merita d’essere evocata tramite la rilettura dell’episodio illustrato da Gustave Doré offerta dall’illustratore contemporaneo Donald Newman (New York 2004) in chiave di serrata sequenza di momenti decisivi. Il gruppo composto da Ugolino e i suoi figli si staglia sullo sfondo della cupa cella, percorsa da bagliori di fuoco, rossi del sangue del sacrificio. 36 Nel doloroso carcere Questi bagliori balzano in primo piano mentre il gruppo, che scorgiamo in lontananza, pare dissolversi: in modo ellittico siamo proiettati al fosco esito terreno della vicenda. Anticipazione del dramma finale è altresì offerta dallo sguardo impietrito di Ugolino - reso con empatia da parte del pittore inglese settecentesco Joshua Reynolds - che non riesce a rivolgersi alle sue creature imploranti che gli chiedono una prima volta “che hai?”. Ugolino dell’immaginario artistico 37 Il tempo passa con lentezza inesorabile: Ugolino vede riflettersi nei volti dei figli morenti il suo stesso sembiante, per cui disperato si morde le sue stesse mani (“ambo le man”), spunto scelto dallo scultore francese ottocentesco Jean-Baptiste Carpeaux per palesare, sulla scia delle espressioni tormentate di matrice michelangiolesca, una disperazione che non può più essere razionalmente trattenuta, posta a raffronto con la resa patetica dei figli che invocano una risposta. 38 Nel doloroso carcere Da ciò una reazione di affetto disperato da parte delle giovani vittime (“Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi”), che sono pronte ad offrire il loro sacrificio per la salvezza del padre: un toccante richiamo all’Eucarestia, rivisitata attraverso questo itinerario di Passione. Si offrono consapevolmente a questa sorte tremenda, come i giovani nord-irlandesi rinchiusi nella prigione denominata “The Maze”, il labirinto, che scelsero lo sciopero della fame come arma di rivolta e sacrificarono coscientemente la propria esistenza opponendosi alla dura repressione inglese: i loro corpi scarnificati e il loro progressivo calvario (quasi cristologico) è stato riproposto con deliberata fisicità, distaccata e brutale, dal regista e video-artista Steve McQueen in un memorabile film non a caso denominato Hunger (2008), fame. Dopo le accorate parole dei figli, nulla viene più proferito, fino a che, in un’attesa senza scampo, Gaddo, il più giovane, supplica, dopo quattro giorni: “Padre mio, ché non mi aiuti?”, parole che evocano quelle di Gesù (“Padre mio, perché mi hai abbandonato?”). La sua morte è seguita da quella degli altri tre fratelli, un distacco inappellabile cui non giova l’accorato appello di Ugolino a richiamarli in vita, fino a che, dopo due interi giorni, “più che ‘l dolor, poté il digiuno”. Ugolino è destinato alla tremenda dannazione di dover sopravvivere ai figli: lo evidenzia con grande forza icastica un disegno dal tratto nervoso e potente del più grande scultore ottocentesco, il francese Auguste Rodin. Ugolino dell’immaginario artistico 39 L’invettiva contro Ruggieri, artefice di tanta efferatezza, termina in un disperato: “non dovevi tu i figliuoi porre a tal croce”, in cui si ravvede un ulteriore richiamo alla Via Crucis patita dai poveri innocenti. 40 Nel doloroso carcere “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”, sembrano ripetere oltre la morte, all’infinito, ossessionando Ugolino che, brancolando nel buio della cella, ancora si sforza disperato di riportare in vita le vittime inconsapevoli, come appare da questo dettaglio della Porta dell’Inferno di Rodin. Un dolore insostenibile, il suo, che lo porta ad una solitudine indicibile, mentre contempla una delle vittime in una sorta di laica Pietà, come viene proposta in un disegno di rara efficacia ancora dell’artista francese: la dissoluzione cui non può sottrarsi è la pena atroce, originata da un tradimento infame, da cui germinerà una vendetta inesorabile, destinata a tramutarsi in dannazione eterna. 41 Sira Mandalà THEN HUNGER KILLED WHERE GRIEF HAD ONLY WOUNDED Una “lettura” di Seamus Heaney Nel 1982 il gruppo irlandese U2 incide il celebre pezzo Bloody Sunday, ispirato al sanguinoso 30 gennaio 1972, in cui una marcia pacifica per i diritti civili della minoranza cattolica a Derry nell’Irlanda del Nord fu intercettata dall’esercito britannico e tredici persone furono uccise, delle quali circa metà erano ragazzi sotto i vent’anni; cinque tra i feriti furono colpiti alla schiena, nessuna delle vittime era armata. Il massacro di Bogside fu l’esordio brutale della guerra fratricida tra i protestanti, leali al Regno Unito, e i cattolici repubblicani e nazionalisti che volevano un’Irlanda unificata e indipendente. In circa 30 anni persero la vita più di 3.500 persone. È questo scenario di morte che Seamus Heaney ha in mente quando decide di tradurre in inglese il canto di Ugolino. Seamus Heaney, poeta nordirlandese premio Nobel per la letteratura nel 1995, scomparso solo lo scorso agosto 2013, inserisce con perfetta coerenza interna l’episodio di Ugolino nella raccolta di poesie Field Work del 1979, a chiusura della stessa. Heaney vede nella traduzione un mez- 42 Nel doloroso carcere zo per avvicinarsi a un autore che sente congeniale e affine e trova in Ugolino uno straordinario precedente storico e letterario di cui si appropria, liberandolo dai lontani confini medievali e attraversando le barriere linguistiche per dare luogo a una sovrapposizione tra i terribili eccessi, gli intrighi e i tradimenti della Toscana di Dante e l’Irlanda contemporanea, sulla quale proietta un’ombra infernale. Per Heaney Dante è ispiratore, modello e compagno di viaggio nel cammino di ricerca di una propria identità poetica e umana e della risposta a urgenti imperativi morali. La condanna di Dante dei due nemici colti nell’atto bestiale di consumare in eterno il loro odio insaziabile è la stessa del poeta irlandese, che afferma la necessità di allontanarsi dal vortice delle divisioni, della violenza e della vendetta, dall’assurdità delle morti inaccettabili e del sacrificio degli innocenti. Come Dante, Heaney vive l’esperienza dell’esilio, seppur volontario e velato da un vago senso di tradimento, quando si trasferisce con la famiglia nella contea di Wicklow, nella tranquilla Repubblica del sud. Eppure, anche lontano dall’orrore della guerra civile, nella serenità della vita domestica, il timore di una nuova, improvvisa esplosione della follia umana lo perseguita, come un volo di falene nere, fitto e scuro che uscisse inaspettatamente da un cassetto, a ricordargli le schiere di polizia armata e i berretti neri nell’Ulster. Heaney non nutre sentimenti di odio o rabbia nei confronti della fazione protestante poichè orientato a un nazionalismo costituzionale e non rivoluzionario e preferisce assumere una posizione al di sopra delle parti e sempre più lontana dalla partecipazione alla lotta, analogamente a quanto avvenne per Dante; restio a vincolare la sua poesia alla causa cattolica moderata e a cedere alle pressioni familiari e della comunità di appartenenza, rivendica il diritto di essere “a poet for poetry, not a citizen for a cause”. Convivono in lui pacificamente due anime, quella celtica/gaelica e quella anglosassone e la sua poesia tende alla conciliazione delle opposizioni binarie irlandese/inglese, repubblicano/unionista; ambisce Una “lettura” di Seamus Heaney 43 ad una libertà espressiva e creativa che egli vede incarnata in modo esemplare in Dante, che per lui è poeta libero, non asservito ad alcun dogma, scevro da costrizioni politiche o religiose. Heaney e Dante condividono la stessa sensibilità etico-politica e lo stesso valore morale affidato alla poesia e l’arte, un’arte che trascenda le bassezze e le degenerazioni della società umana e divenga strumento di pace. ‘The end of art is peace’ dice Heaney, alludendo anche all’inscindibilità tra creazione artistica e sofferenza, perché inevitabilmente l’arte nasce dal tormento e dal dolore. Alcune poesie della raccolta sono piene di immagini di vita, di ciò che andrebbe preservato, come la perfezione dell’arte, i ritmi semplici della vita dei campi e la bellezza della natura o la voce della fontana nel cortile della casa paterna a Mossbawn, la fontana che, saldamente ancorata a terra, sta ancora là a segnare il centro di un altro mondo, che sfida le crudeltà e le abiezioni della storia che le vorticano intorno. “Our Island is full of comfortless noises” (Sybil), l’Irlanda è infatti piena di rumori sgradevoli, che Heaney ci fa ascoltare in altre poesie: il roteare degli elicotteri di pattuglia, le esplosioni, i tiri incrociati, il pianto dei familiari delle vittime, lo stridore dei carrarmati britannici che violano le sue strade, con i loro soldati impettiti, erti in torretta, emblema di virile arroganza; sono i charioteers, gli aurighi romani, personificazione di ogni dominatore antico e moderno, di ogni prepotenza imperialista. Tra Heaney e Dante si intreccia un dialogo vivace e stimolante, presupposto per uno scambio reciproco tra l’episodio originale di Ugolino e il suo trasferimento in inglese, cosicché la traduzione riecheggia l’originale, anche dove se ne allontana. La traduzione “impura” di Heaney rivela una profonda assimilazione della fonte, ma ne è allo stesso tempo una rielaborazione sofisticata e personale, con una chiara connotazione in senso nord irlandese. L’episodio dantesco ci viene dunque restituito arricchito di nuovi significati, perchè, come osservava un poeta russo, “è impossible leggere i canti di Dante senza indirizzarli alla contemporaneità. Furono 44 Nel doloroso carcere creati a questo scopo. Sono missili che catturano il futuro”. Da un punto di vista metrico, Heaney utilizza un adattamento della terzina che sfrutta pararima, assonanza, allitterazione e rima interna e pur non uguagliando il perfetto intreccio della rima dantesca (a causa di una minore presenza nella lingua inglese di parole in rima rispetto all’italiano), ottiene comunque un effetto di coesione, mentre sulla prosodia dell’endecasillabo prevale ed aleggia il ritmo più tipicamente inglese del pentametro giambico. Attento a catturare la sonorità di Dante e affascinato dalla qualità fonica dell’originale, pone meticolosa attenzione nel riprodurre analoghi effetti nella lingua replicante. È evidente già dall’inizio come Heaney non sia interessato a una traduzione letterale, rendendo i vv. 127-129 con: Gnawing at him where the neck and head Are grafted to the sweet fruit of the brain, Like a famine victim at a loaf of bread. Notiamo le tre parole finali della terzina, head-brain-bread, che risultano efficacemente legate da rima e allitterazione e sottolineano la trasformazione della testa di Ruggeri in pane (testa, cervello, pane), attraverso l’implicita metafora del cervello come un frutto (the sweet fruit of the brain). Ma soprattutto Heaney introduce in corrispondenza del v. 127 ‘e come il pan per fame si manduca’ una similitudine assente in Dante: ‘like a famine victim at a loaf of bread. Poco oltre, in corrispondenza del v. 131, Heaney inserisce una seconda immagine per descrivere la violenza con cui Tideo rode le tempie di Menalippo: ‘as if it were some spattered carnal melon’ (lett.: come fosse un carnale melone schizzato), anticipata dalla precedente immagine del frutto. Le due similitudini conferiscono un tocco pittorico alla scena di raccapricciante e selvaggia fisicità e sono in perfetta armonia con lo stile visivo di Dante, cui Heaney si conforma. Ma è l’inserimento dell’espressione famine victim l’aspetto più interessante del passo, che distanziandosi dalla fonte ci immerge in un ambiente decisamene nord irlandese: nonostante il falso parallelismo con l’italiano fame, il termine significa carestia e allude alla Una “lettura” di Seamus Heaney 45 storia e alla politica di un paese segnato dolorosamente dalla mancanza di cibo, come la tragica Great Famine del 1845-47, aggravata da una cattiva gestione del latifondo, dall’incuria dei proprietari terrieri e dall’indifferenza del governo britannico. Sia Dante sia Heaney sfruttano l’immagine del cibo e del pasto, exemplum e metafora della fame di vendetta, del rituale della violenza che si conclude con un banchetto di morte. La nota terzina che apre il canto XXXIII è ricca di suoni consonantici che si articolano tra labbra, denti e alveoli dentali (b, f, p) ovvero l’apparato finalizzato alla masticazione, assieme ad altre consonanti dure come la /k/ e la g che ben si addicono a una scena così cruda. Analogamente Heaney insiste su fonemi dentali e labiodentali, m di mouth (bocca) allitterato (mouth...meal...me), ð /t /v e sui suoni aspri g/k: That sinner eased his mouth up off his meal To answer me, and wiped it with the hair Left growing on his victim’s ravaged skull In corrispondenza dei vv. 7-9 Dante dice “Ma se le mie parole esser dien seme” e conclude con “parlare e lagrimar vedrai insieme”, mentre Heaney opera un’inversione enfatica, anteponendo il dolore di Ugolino Yet while I weep to say them, alla funzione delle sue parole, che egli seminerà come maledizioni, con una soluzione molto diretta e intensa. I would sow My words like curses Il giudizio di Heaney sul conte Ugolino è infatti più mite di quello di Dante, e il tradimento della propria fazione gli appare colpa meno grave dell’aver fallito come padre e aver condannato i propri figli a una tremenda ingiustizia, nel suo perpetrare l’odio e la vendetta. 46 Nel doloroso carcere Come nell’Ulster di Seamus Heaney, dove i figli ancora oggi pagano per i peccati dei padri; dietro Uguiccione e Brigata ‘che ‘l canto suso appella’ ci sono anche le vittime a volte casuali dei Troubles, che Heaney ricorda nei suoi canti, come il pescatore Louis O’Neill, ucciso dalla sua stessa fazione per non aver rispettato il coprifuoco imposto dai paramilitari dell’IRA in memoria delle vittime di Derry o Colum McCartney morto in una rappresaglia settaria nel 1975. Risulta particolarmente significativo come, in riferimento ai vv. 2223 (Breve pertugio dentro da la Muda / la qual per me ha ‘l titol de la fame), Heaney sposti la lettera maiuscola da Muda, che traduce con jail (prigione), a fame Others will pine as I pined in that jail Which is called Hunger after me La parola hunger, così evidenziata, è un primo richiamo tristemente profetico, agli hunger strikers, i dieci militanti repubblicani che alla fine degli anni ‘70 intrapresero una protesta nel carcere britannico di Long Kesh (The Maze), che culminò con uno sciopero della fame. Il riferimento ai fatti di Long Kesh è confermato nella parte finale del racconto, quando Heaney rende il celebre verso 75 (Poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno) con Poi la fame uccise dove il dolore aveva solo ferito. Dal punto di vista della qualità poetica, il ritmo giambico del verso esalta l’efficace accostamento dei verbi kill e wound, dal valore semantico allo stesso tempo affine e opposto. Spesso il traduttore è costretto a sacrificare la polisemia di un passo, ma qui Heaney ignora deliberatamente l’ambiguità dell’originale stabilendo che fu la fame ad uccidere, come accadde ai 10 detenuti di Long Kesh, tra i quali Francis Hughes, suo vicino di casa, che fu il secondo a morire nel 1981, solo due settimane dopo il più noto Bobby Sands. Una “lettura” di Seamus Heaney “Why don’t you help me, father?” He died like that, and surely as you see Me here, one by one I saw my three Drop dead during the fifth day and the sixth day Until I saw no more. Searching, blinded, For two days I groped over them and called them. Then Hunger killed where grief had only wounded. 47 Liceo Classico Jacopo Stellini UDINE - LUGLIO 2015