Conte Ugolino Alume Stefano 3°F Dante come Patricia Cornwell? Parrebbe di sì, almeno secondo il Comune di Pisa che ha incaricato un’équipe di studiosi della locale Università di una ricognizione scientifica sui resti del conte Ugolino. Scopo: verificare se risponde al vero il sospetto di antropofagia più celebre nella storia della letteratura mondiale. Che è appunto come cercare la soluzione di un thriller. E pensare che abbiamo sempre immaginato come punto di forza di questa straordinaria figura della Commedia proprio l’ambiguità nascosta tra le pieghe, la capacità (che forse corrispondeva alla volontà) di Dante di celare dietro il velo del non-detto, del non-esplicito, il mistero della Torre della Fame. L’incertezza, insomma, come crinale tra la verità del dramma e la rappresentazione allegorica. Non un dato realistico, ma una resa poetica del conflitto tra le ragioni del sangue e del sentimento e la spietata legge della sopravvivenza. Perché l’arte dovrebbe tollerare un’autopsia? IL CONTE UGOLINO: IL RITO DELL’ANTROPOFAGIA Dante è sceso nel nono cerchio dell’Inferno, dove sono condannati i traditori della patria e del partito politico e i traditori degli ospiti. Lo scenario che si apre al poeta è ‘agghiacciante’, nel vero senso della parola: questi dannati sono infatti conficcati nel ghiaccio e subiscono pene eterne tremende. È proprio qui che Dante incontra un personaggio dalla vicenda terribile e dolorosa, simboleggiata per la legge del contrappasso da una punizione altrettanto feroce. È il Conte Ugolino della Gherardesca, nobiluomo pisano di parte ghibellina, il quale aveva tramato contro la sua città e il suo partito, aiutando il genero Giovanni Visconti a instaurare a Pisa un governo guelfo. Dopo alterne vicende, nel 1288 il Conte Ugolino fu esiliato e accusato di tradimento dall’Arcivescovo Ruggieri, capo dei ghibellini pisani e a sua volta intrallazzatore politico senza scrupoli, e fu in seguito imprigionato nella Torre dei Gualandi con due figli e due nipoti, vittime innocenti; lì furono lasciati morire di fame. La prima parte del Canto XXXIII dell’Inferno è tutta incentrata sul racconto che il Conte Ugolino fa della sua vicenda è un lungo monologo a cui Dante assiste silenzioso, che ricrea in un’atmosfera densa di pathos lo strazio e la rabbia del Conte per la sorte toccata ai quattro giovani innocenti che egli non può vendicare. C’è un ultimo passo in cui, secondo alcuni critici, torna il tema dell’antropofagia, in modo più sottile e macabro: I figli (in realtà, due nipoti e due figli) del Conte sono ormai morti; ma che cosa significa "il digiuno poté più che il dolore"?. Ci sono qui due interpretazioni: secondo la prima, il digiuno ha finalmente la forza di far morire Ugolino, cosa che il dolore non era riuscito a fare; secondo la seconda interpretazione, la fame prolungata vince il dolore e Ugolino si ciba delle carni dei figli per sopravvivere. Questa visione cannibalistica è sostenuta da diversi critici. In ogni caso, la figura del Conte, pur nell’orrore dei peccati e della condanna, acquista un certo rispetto per il dolore e la disperazione sofferti, che in parte anche Dante aveva conosciuto nel periodo dell’esilio. La vicenda del Conte Ugolino copre i primi 90 versi del Canto XXXIII e, per non perdere la concentrazione e il pathos di questi versi, bisognerebbe riportarli tutti e non interrompere il lungo e doloroso racconto del dannato. Lo faremo in un prossimo articolo, sperando di venire incontro alle vostre curiosità e alla vostra "fame" di sapere. La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a'capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se' né per che modo venuto se' qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand'io t'odo. Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond'io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. Il conte Ugolino della Gherardesca (Pisa, circa 1220 – Pisa, marzo 1289) era un aristocratico toscano di origine sarda, uomo politico guelfo e comandante navale del XIII secolo. Ugolino ricopriva un'importante serie di cariche nobiliari: era infatti Conte di Donoratico, secondo in successione come Signore del Cagliaritano e Patrizio di Pisa; divenne Vicario di Sardegna nel 1252 per conto del Re Enzo di Svevia, e fu uno dei vertici politici di Pisa dal 18 aprile 1284 (come podestà) al 1 luglio 1288, giorno in cui fu deposto dal ruolo di capitano del popolo. Gli attriti con Ruggeri degli Ubaldini (arcivescovo di Pisa nonché capofazione ghibellino) portarono la sua posizione a peggiorare a tal punto che finì con alcuni figli e nipoti rinchiuso in una torre, dove morì per inedia nel marzo 128 Questo ben si adattava alle esigenze politiche di una città come Pisa, che storicamente appoggiava l'Impero contro il Papato. Egli era però passato alla fazione guelfa grazie a una serie di frequentazioni e a un'amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti, tanto che una delle sue figlie andò in sposa a Giovanni Visconti, Giudice di Gallura. Tra il 1271 e il 1274 guidò una serie di disordini contro il podestà imperiale ai quali partecipò lo stesso Visconti, e che finirono con l'arresto di Ugolino e l'esilio per Giovanni. Morto Giovanni nel 1275, Ugolino fu mandato in esilio un confino terminato qualche anno dopo manu militari, grazie all'aiuto di Carlo I d'Angiò. Secondo alcune testimonianze dell'epoca, durante la battaglia Ugolino non riuscì a concludere alcune manovre navali, in particolare il ritiro di alcuni vascelli da una parte dello specchio d'acqua per rinforzarne altri: si convenne dunque che Ugolino stesse cercando di scappare con le forze a sua disposizione, e si generò il sospetto che fosse null'altro che un disertore, fermato più dal precipitare degli eventi che da un effettivo ripensamento.