Le parole di cui ci nutriamo.
L’italiano fra tradizione
e modernità
ESPERIENZE
Sono le persone, le loro idee e i loro
progetti, che ogni giorno, nella scuola
e nella società, danno significato
e valore all’apprendimento. Conoscere
come lavorano, quali sono le passioni
e le ragioni che orientano il loro agire
è la via per trovare nuovi stimoli
e nuove direzioni.
RIFLESSIONI
Apprendimento è cambiamento.
E perché il cambiamento possa
assumere senso e significati
positivi è necessario che coinvolga
e contamini i saperi, che trovi
equilibrio fra tradizione e
innovazione, che metta al centro
i temi della cittadinanza e dell’etica.
RICERCHE
Il lavoro dell’editore è azione
quotidiana. Questo vuol dire
anche sperimentare, indagare,
collaborare con enti e
istituzioni, in Italia
e nel mondo. Condividere
i risultati delle nostre
ricerche è un modo
per essere in sintonia
e in dialogo con chi opera
nel campo dell’apprendimento.
MAGAZINE
Imparare è qualcosa
che va di pari passo
con la mancanza di paura.
Marco Paolini
> SAPERI
> FORMAZIONE
> AGGIORNAMENTO
> COMPETENZE
> CITTADINANZA
iS magazine è uno strumento
di dialogo, servizio,
condivisione.
Due numeri l’anno, in edizione
cartacea e in versione digitale,
scaricabili su computer,
tablet e smartphone.
NEWSLETTER
> INTERCULTURALITÀ
> IDENTITÀ
> COLLABORAZIONE
iS espresso è un
appuntamento mensile
di informazione e di
intervento: attualità,
approfondimenti,
resoconti delle ricerche
e delle attività in corso.
> DIALOGO
> RICERCA
> PROGETTAZIONE
> VALUTAZIONE
> INNOVAZIONE
> TECNOLOGIE
> LINGUAGGI
SITO WEB
is.pearson.it è l’indirizzo web
dove trovare tutti i materiali
del progetto iS, le espansioni
multimediali e gli approfondimenti.
editoriale
N
ell’intervista che apre questo numero, la presidente della Camera
Laura Boldrini racconta il suo percorso formativo e professionale,
insistendo sul ruolo che vi ha giocato il carattere multiculturale
e multilinguistico della sua esperienza presso l’ONU. Più oltre, un
fisico e un filosofo, Giorgio Parisi e Mauro Ceruti, ci spiegano che cosa sia
la “complessità” e come essa abbia bisogno di un linguaggio che la possa
descrivere e concettualizzare.
Mentre è chiaro che l’educazione economica e finanziaria, nella quale è ormai
impossibile non riconoscere una competenza-chiave di cittadinanza, si traduce
innanzitutto nella padronanza di un lessico che è tecnico ma al tempo stesso,
nell’èra dello spread, parte del linguaggio quotidiano.
Dunque: il linguaggio e la parola come strumenti di comprensione del mondo
e di comunicazione interpersonale. Proprio qui si apre un problema, che un
linguista non certo facile ai sensazionalismi come Tullio de Mauro denuncia
in preoccupante crescita in Italia (oltre che in Europa): sempre di più sono
quelli che sanno decifrare un testo ma non capirlo. Sono, con termine tecnico,
“analfabeti funzionali”. Periodicamente, quando si pubblicano i dati delle
indagini nazionali e internazionali sulle competenze linguistiche dei giovani
(INVALSI e PISA) si alzano querimonie e lamenti: sul banco degli accusati,
naturalmente, la scuola, le nuove tecnologie, la televisione… Poi non è che
succeda granché. Forse perché accrescere le competenze linguistiche non è
percepito davvero, nella pubblica opinione, come un grande obiettivo nazionale.
Ricette non ce ne sono; ma certo non si faranno passi avanti senza creare un
contesto in cui la straordinaria importanza e ricchezza della parola - dentro
la società moderna, non contro di essa – siano comprese e diffuse.
La scuola e l’educazione vi possono e devono giocare un ruolo decisivo.
Perciò abbiamo dedicato alla Lingua salvata il dossier che fa da perno a questo
numero iS.
L’editore
Imparare è un verbo ricco di significati.
Imparare vuol dire migliorarsi,
crescere, vivere senza barriere.
Non solo a scuola ma ovunque,
e a qualunque età.
Il nostro sogno?
Un mondo dove la scuola
sia di nuovo considerata maestra,
perché i buoni insegnanti
aiutano a crescere.
Un mondo dove anche chi è adulto
possa continuare a imparare
per realizzare i propri desideri.
Noi di Pearson ci crediamo.
A questo lavoriamo.
direzione
Massimo Esposti
Rivista aperiodica distribuita gratuitamente
nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A.
comitato editoriale
Marika De Acetis
Luciano Greco
Elena Grossi
Marina Loffi Randolin
Paolo Magliocco
Valentina Murelli
Si autorizza la riproduzione dell’opera purché
parziale e a uso non commerciale.
grafica
Antonella Regina
iS è un marchio di proprietà di Pearson Italia S.p.A.
Corso Trapani 16 -10139 Torino
ricerca iconografica
Cecilia Lazzeri
RI651800103M
Stampato per conto della Casa Editrice presso
Arti Grafiche DIAL, Mondovì (CN), Italia
correzione bozze
Elisa Manera
immagine di copertina
© Manuela Boldi
L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per eventuali non volute omissioni in merito
a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite
in questo numero.
Tutti i diritti riservati
© 2013 Pearson Italia S.p.A.
www.pearson.it
[email protected]
sommario
Portfolio
Intervista
Laura Boldrini,
12
L'inquietudine
e la costanza
Una vita alla
continua ricerca
del nuovo,
senza perdere
di vista i propri
punti fermi
di Farian Sabahi
Esperienze: la scuola si confronta
La scommessa economica
Il punto sull'alfabetizzazione
economico-finanziaria
nelle scuole italiane.
E l'esigenza di un progetto
unitario
di Paolo Prati
Maghi dei numeri
per un giorno.
Torino
18
Toccare il cielo
con un dito.
Nus, Valle d'Aosta
Osha, mikono!
Nairobi, Kenya
6
Dialogo
In viaggio nella complessità
Giorgio Parisi, fisico e matematico,
incontra Mauro Ceruti, filosofo della scienza
di Paolo Magliocco
25
Esperienze:
la scuola si racconta
La matematica
non convenzionale
Studenti, docenti
e ricercatori universitari
insieme per trasformare
una materia astratta
in un'avventura
di Eleonora Viganò
32
sommario
36
Dossier
La lingua salvata
Otto riflessioni sull'importanza di conoscere e padroneggiare la lingua italiana
ITALIANO
> pag. 39 Se 2000 parole posson bastare di Luca Serianni
Tecnologia della comunicazione > pag. 42 La miniera digitale, intervista a Gino Roncaglia
di Nicola Tramontana
Sociolinguistica > pag. 48 Gioventù creativa, intervista a Michele Cortelazzo
di Paolo Panella
LETTERATURA MIGRANTE > pag. 53
Io, venditore di italiano di Pap Khouma
ITALIANO > pag. 59
Una lingua sempre più amata di Giuseppe Patota
Linguaggio scientifico > pag. 64
Nessuna è come la madre di Maria Luisa Villa
Linguistica computazionale > pag. 69
Matematica, bit e parole di Mirko degli Esposti
ENIGMISTICA > pag. 75
Parlare è un po' giocare di Ennio Peres
Eppur si muove
Benchmark
La difficile arte di valutare
l'istruzione
La difficoltà
di preparare prove
standardizzate
valide per tutti
di Roberto Ricci
Che cosa
significa
saper leggere
Quel buco che riempie un vuoto
Un modo nuovo di apprendere,
dalle periferie urbane dell'India
di Donato Ramani
80
L'allarme per
l'analfabetismo
funzionale
di Silvia Paris
sommario
Cittadinanza
Piccoli cittadini crescono
Educare alla cittadinanza attiva,
uno studio comparativo in Europa
di Erica Cimò
101
Esperienze: oltre la scuola
Il valore della conoscenza
Perché la conoscenza è diventata il bene
più prezioso e come si può metterla a
frutto
di Isabella di Nicola
96
iS continua:
- online, sul sito is.pearson.it
- con la newsletter iS espresso: scopri sul sito come iscriverti
- nei social network:
twitter.com/iS_Pearson
www.facebook.com/iSPearson
www.youtube.com/user/iSPearsonVideo
sommario
107
Focus Tech
Uniti si impara
Idee per sfruttare al meglio le nuove
tecnologie nella scuola
di Filippo Bonaventura
Dalla tavoletta al tablet
Miti e realtà della tavoletta elettronica
e del modo in cui può essere usata
in classe
di Marco Meschini
Laboratorio Pearson
E tablet sia!
Viaggio in un liceo laboratorio che ha deciso
di mettere i tablet alla prova
di Davide Coero Borga
L'aiuto che vale
L'importanza delle tecnologie assistive
per i DSA
di Stefano Federici e Cristina Gaggioli
4C per disegnare il futuro
Quali sono i concetti chiave
per la formazione dei giovani?
di Donato Ramani
116
PORTFOLIO
MAGHI DEI NUMERI PER UN GIORNO
Torino
Foto:
Pasquale Juzzolino/FGA
Il mondo magico della matematica può aprire le porte all’improvviso ai
bambini delle scuole elementari e rivelare, almeno per un giorno, i suoi tesori
e i suoi misteri. Così è successo a Torino, grazie alla collaborazione tra la
Fondazione Agnelli, l’associazione culturale CentroScienza, l’Ufficio scolastico
regionale e le facoltà di matematica e fisica dell’Università, che hanno
organizzato il primo workshop La matematica conta, dedicato a 400 allievi
delle scuole primarie del Piemonte. Nelle grandi sale del Museo dell’auto
i bambini hanno potuto giocare con la logica, i calcoli e la statistica aiutati
dai ricercatori universitari e dal fatto di trovarsi in un ambiente così
diverso da quello dell’aula di una scuola. L’obiettivo è trasmettere non tanto
conoscenze quanto, proprio come nel libro di Hans Magnus Enzensberger,
Il mago dei numeri, lo stupore e il fascino del contatto quotidiano con una
materia così rigorosa da apparire fredda, ma in grado di aiutare grandi e
piccoli a tentare di comprendere e dominare l’incertezza del mondo.
P.M.
PORTFOLIO
Toccare il cielo con un dito
Nus, Valle d’Aosta
Foto: NUS
Il telescopio punta dritto su Saturno, il gigante gassoso che, con i suoi anelli, è una
delle meraviglie del Sistema solare. All’Osservatorio astronomico della Regione
autonoma Valle d’Aosta di Lignan, nel comune di Nus, è una delle serate dedicate
alle scuole superiori, ma sulla terrazza didattica si alternano bimbi e ragazzi di ogni
età e anche adulti. In un incontro tipo si imparano a riconoscere le costellazioni,
si ascoltano esperti raccontare di pianeti, evoluzione stellare o buchi neri e, grazie
ai 7 telescopi disponibili, si possono guardare immagini spettacolari. Anelli
di Saturno compresi. Un’occasione unica perché, a differenza di quanto accade
con altre discipline scientifiche, l’astronomia è davvero difficile da “toccare con
mano”. All’Osservatorio ci si riesce, anche perché qui non si fanno solo didattica e
divulgazione, ma pure ricerca, quella vera, con progetti che spaziano dallo studio
della corona solare a quello degli asteroidi, dalle indagini sulle emissioni luminose
delle galassie attive a quelle sui pianeti extrasolari. E così si può scoprire dal vivo
in che cosa consista davvero il lavoro spesso misterioso dell’astronomo. V.M.
PORTFOLIO
OSHA MIKONO! (lavati le mani)
Nairobi, Kenya
Foto:
Xinhua/Eyevine/Contrasto
Da qualche anno c’è anche la giornata mondiale del “lavarsi le mani”, messa a
calendario il 15 di ottobre. Verrebbe da sorridere, senonché in questo caso la faccenda
è di non poco rilievo, e i dati sono drammatici. Oltre due milioni di bambini sotto
i cinque anni muoiono ogni anno di diarrea e polmonite, una cifra che potrebbe
drasticamente abbassarsi se si diffondesse l’abitudine di lavarsi le mani con il sapone.
Il CDC (Center for Diseases Control) di Atlanta ha valutato che questa forma di
“vaccino fai da te” ridurrebbe fino al 50% la mortalità da infezioni gastroenteriche
e dal 20 al 40% quella da gravi affezioni polmonari. Senza contare che queste malattie
sono massimamente responsabili delle assenze a scuola. La promozione di una simile
pratica con qualunque mezzo può diventare una pietra miliare nel miglioramento
delle condizioni di salute di moltissime persone, non solo, anche se lì prioritariamente,
nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta inoltre di una pratica poco costosa
e di relativamente facile e capillare attuazione. Il Kenya è tra le nazioni più impegnate
nella campagna, e intende coinvolgervi oltre un milione di abitanti. M.L.R.
INTERVISTA
L’inquietudine
e la costanza
di Farian Sabahi
intervista
La presidente della Camera Laura Boldrini racconta
sé stessa, tra la smania di conoscere e viaggiare
e un impegno che dura da sempre a favore delle
persone svantaggiate, l’importanza dello studio e quella
dell’esperienza sul campo, la necessità delle regole
e la capacità di cambiare idea. Una vita alla continua
ricerca del nuovo senza mai perdere di vista la
necessità di trovare una sintesi. E una mediazione
S
ono cresciuta in provincia di Ancona e ho trascorso l’infanzia nella campagna di
Jesi. Quell’ambiente provinciale ha stimolato la mia curiosità, il desiderio di conoscere e andare oltre. In un certo senso il percorso che ho intrapreso nasce da queste
esperienze giovanili». Così racconta se stessa, sorridendo, Laura Boldrini, nella penombra del suo ufficio a palazzo Montecitorio in un caldo pomeriggio estivo. Cinquantadue anni, marchigiana, presidente della Camera dei deputati dal marzo 2013 dopo più
di quattordici anni come portavoce dell’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati. «Tanti
anni di impegno nelle agenzie delle Nazioni Unite mi stanno tornando utili in politica. L’esperienza di mediazione maturata all’ONU, diversa rispetto a quella di coloro che hanno una formazione di partito, è importante per
“Dare delle regole talvolta può
chi deve essere super partes».
essere pesante, ma è un atto
Presidente, nella sua storia emerge l’intreccio tra lo studio e i viagd’amore perché solo così i figli
gi, i libri e l’esperienza sul campo. Che peso dà alla formazione?
diventeranno adulti”
Laura Boldrini
La formazione fornisce gli strumenti essenziali per interpretare la
realtà ed è alla base della consapevolezza: difficilmente si è consapevoli senza una formazione adeguata. Quando la scuola forma
bene, fornisce gli strumenti per diventare buoni cittadini. Lo stesso vale per le istituzioni:
quando sono buone, suscitano rispetto e facilitano il compito di diventare buoni cittadini.
In questo senso, gli insegnanti svolgono un ruolo di fondamentale importanza perché sono
il baluardo della legalità, anche nei contesti più difficili. Un ruolo non sempre riconosciuto.
Per questo sarebbe opportuno dar loro un riconoscimento materiale e sociale, affinché si
sentano essenziali nella formazione dei giovani. Vedere gli insegnanti lavorare con poche
risorse deve far riflettere. In tempo di crisi la scuola non andrebbe penalizzata. Al contrario,
•Laura Boldrini sul suo
seggio di Presidente
è nei periodi di maggior incertezza che la scuola e la cultura dovrebbero essere sostenute
della Camera: è stata
eletta il 16 marzo 2013. come fanno tanti Paesi emergenti investendo nella ricerca, nell’educazione e nell’innovazio Foto: Augusto Casasoli/A3/
ne, riuscendo così a far decollare l’economia.
Contrasto
Come è stato il rapporto con i suoi genitori, l’uno avvocato e l’altra insegnante d’arte
e antiquaria? Quanto hanno contato nelle sue scelte?
Come la scuola, anche la famiglia è fondamentale. Mio padre era severo, poco incline alla
modernità, nel tempo libero amava studiare e non era granché disponibile a relazionarsi
con noi figli. Se da mia madre ho imparato l’empatia con gli altri, a socializzare e a entrare in contatto con le persone, da mio padre ho acquisito il rigore, il senso delle regole, il
rispetto dell’impegno preso, che per me diventa un imperativo.
•Laura Boldrini parla
con alcuni rifugiati
palestinesi
e iracheni durante una
visita come portavoce
dell’UNHCR
a Riace (Reggio
Calabria).
Foto: Antonio Zambardino/
Contrasto
Lei ha una figlia, studentessa in un ateneo inglese. Quanto conta dare delle regole,
anche severe, ai figli? O forse imporre dei limiti è un modo superato di porsi?
I genitori devono saper ascoltare i figli e avere un rapporto aperto con loro, ma devono anche essere normativi e quindi dare delle regole. Talvolta può essere pesante, ma è un atto
d’amore perché solo così i figli diventeranno adulti, facendosi carico delle loro responsabilità.
Porre dei limiti, per esempio nelle uscite, è assolutamente positivo e sotto sotto i ragazzi
intervista
lo apprezzano. Le regole si possono anche non rispettare, ma se questo accade bisogna sapere dare delle motivazioni ed essere all’altezza della sfida: una sfida che rafforza i giovani.
C’è un momento in cui ricorda di aver deciso quale sarebbe stato il suo futuro? Oppure il suo impegno si è definito passo dopo passo?
Durante il mio primo viaggio in America centrale ho capito che non avrei trattenuto la curiosità: come si fa a vivere tutta una vita senza sapere che cosa c’è oltre? È scattata la frenesia di conoscere altre dimensioni, culturali e religiose. Ho capito che quello che è assoluto
in un luogo non lo è altrove, e ho relativizzato. È successo, per esempio, quando ho notato
che una religione così sentita in un paese è invece demonizzata in un altro. Viaggiando si
ha uno sguardo talmente diverso che si è obbligati a realizzare una sintesi. E nella sintesi c’è
la maturità di chi riesce a prendere il meglio delle cose. Oggi questa conoscenza mi porta
ad avere una maggiore capacità di mediazione rispetto a chi è cresciuto e ha vissuto con le
stesse convinzioni di sempre, le stesse idee dei genitori e dei nonni.
Come è cominciata la sua avventura nelle agenzie dell’ONU?
Ho fatto il concorso per JPO, Junior Professional Officer, sono stata selezionata, da lì ho iniziato a lavorare prima alla FAO e al World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite per
i programmi alimentari di emergenza, poi all’Alto commissariato per i rifugiati.
Volevo dare un senso alla mia vita. Mi piaceva scrivere e raccontare, ma non
“È necessario
mi bastava. Allora ho pensato che lavorare al servizio di una causa umanitaria
rivoluzionare
potesse darmi più motivazione rispetto al solo scrivere. Per questo ho lavorato
l’immagine femminile,
ventiquattro anni in varie agenzie delle Nazioni Unite.
perché incide sul
Cosa vuol dire essere dipendenti di un organismo così complesso come le Narispetto nei confronti
zioni Unite? E come si impara a collaborare in ambito internazionale?
delle donne”
Laura Boldrini
È un esercizio di convivenza tra più culture: i miei superiori sono sempre stati
stranieri e quindi ho lavorato in lingue diverse dall’italiano. Quasi sempre in
inglese, francese, spagnolo. Certo, in Italia si usa anche l’italiano, ma la nostra
non è una lingua ufficiale delle Nazioni Unite. In un ambiente del genere bisogna avere la
flessibilità per confrontarsi con persone di formazione diversa, è un esercizio di convivenza.
Un esercizio a doppio senso: si impara e si insegna.
Ci sono cose che ha imparato sul campo e che dovrebbero invece far parte del percorso di ognuno?
La formazione scolastica, teorica, pone le basi, ma è l’esperienza diretta a darti una marcia in più.
Solo sul campo puoi mettere a frutto quello che hai imparato sui libri.
Lei presta grande attenzione alla comunicazione attraverso i social media, come
Facebook e Twitter, che aggiorna quotidianamente. Non crede siano mezzi troppo
frettolosi e superficiali per affrontare certi argomenti?
I social media sono uno strumento al servizio dei diritti, lo abbiamo visto in Iran, in Turchia e
nei Paesi arabi. Di fatto la società è sui social media, che riescono a combattere la solitudine
e a colmare il divario tra istituzioni e società civile. Per questo credo sia giusto e opportuno
che le istituzioni comunichino anche attraverso questi mezzi, che le rendono più trasparenti
e sono un modo per arrivare a persone che altrimenti non si interesserebbero alla politica.
intervista
Le istituzioni devono fare uno sforzo di comprensione e trasparenza, e in questo i social
media sono utili. Ora vorrei che la Camera diventasse “la casa della buona politica” e per
questo stiamo avviando una campagna di ascolto, sul web.
Una delle sue battaglie è sul diritto di cittadinanza: perché è tanto importante
concedere, con lo ius soli, la cittadinanza ai figli degli immigrati nati e cresciuti sul
territorio italiano?
Concedere la cittadinanza a questi giovani significa da una parte dar loro un senso di appartenenza e dall’altra ottenere maggiore coesione sociale, e quindi una società meno segmentata. Non dare il diritto di cittadinanza a questi ragazzi, che spesso non sono mai stati
nel Paese di origine dei loro genitori e non ne parlano la lingua, significa perdere risorse. È la
contemporaneità a chiederci di coinvolgerli. Va a vantaggio del nostro Paese, lo arricchisce
senza togliere nulla agli altri. Perché dare diritti a una categoria non vuol dire toglierli ad altri.
Un’altra sua battaglia è quella contro i femminicidi: che cosa resta da fare dopo
la ratifica della Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione della violenza sulle
donne e contro la violenza domestica?
Il Parlamento italiano ha compreso l’importanza di prevenire la violenza contro le donne, mettendola al centro del dibattito. Camera e Senato hanno sottoscritto la posizione
secondo cui la violenza contro le donne è un fatto gravissimo e rientra nell’ambito dei
diritti umani. Adesso occorre mettere in atto tutte le misure, anche preventive, previste
Un lungo impegno nella cooperazione
Nata a Macerata nel 1961, Laura Boldrini è laureata in Giurisprudenza ed è giornalista
pubblicista. Si è sempre occupata di cooperazione e nel 1989 ha cominciato a lavorare per
le Nazioni Unite. Dal 1998 al 2003 è stata portavoce dell’UNHCR, l’Alto commissariato
dell’ONU per i rifugiati. Su questa sua esperienza ha scritto un libro, Tutti indietro
(Rizzoli). È stata sposata e ha una figlia, Anastasia, nata nel 1993. Nel 2013 è stata eletta
alla Camera dei deputati nelle liste di Sinistra, ecologia e libertà.
Libro preferito. Negli ultimi tempi ho letto con piacere
Chicago dell’egiziano Ala al-Aswani e Il fondamentalista
riluttante di Mohsin Hamid. Tornando indietro con gli anni,
sono stati determinanti Il giardino dei Finzi-Contini di
Giorgio Bassani, Il diario di Anna Frank, Il barone rampante
di Italo Calvino.
Film. Viva la libertà di Roberto Andò. E soprattutto Lincoln
di Steven Spielberg, una bella rappresentazione di come
la politica debba talvolta essere un po’ cinica per ottenere
grandi traguardi di civiltà (e per me solo in questi casi).
Brani musicali. Tutti i cantautori e i Radiodervish, un gruppo italiano di world music.
Un luogo in cui tornare. Vorrei tornare in tutti i Paesi in cui sono stata per vedere come
sono cambiati, ma non credo che ci riuscirò!
intervista
•Laura Boldrini con
il Presidente della
Repubblica Giorgio
Napolitano.
Foto: Antonio Scattolon/A3/
Contrasto
dalla convenzione: la formazione delle forze dell’ordine, i finanziamenti alle case rifugio,
l’offerta di alternative alle donne che vogliono sfuggire alla violenza.
È una battaglia culturale, a 360 gradi. Sono tanti gli elementi da tenere in considerazione, in primis il basso tasso di occupazione delle italiane: nel nostro Paese solo il 47%
delle donne lavora, ma senza un reddito non si è indipendenti e non si riesce a sfuggire
alla violenza. In secondo luogo dobbiamo riflettere sulla comunicazione pubblicitaria
e televisiva che veicola un’immagine di donna-corpo, muta, ridotta a presenza fisica e
quindi oggetto. Ma di un oggetto l’uomo fa quello che vuole. Ed è breve il passo verso
la violenza. È necessario rivoluzionare l’immagine femminile, perché incide sul rispetto
nei confronti delle donne. •••
Esperienze:
la scuola si confronta
di Paolo Prati
esperienze: la scuola si confronta
A
ltro che scienza triste. Portata nelle aule scolastiche, messa a contatto con
gli studenti di ogni livello, vissuta come l’irruzione del mondo reale tra i muri
di scuola, l’economia si libera d’incanto della sua sinistra fama di argomento
noioso e per niente allegro, e diventa attraente e piena di risorse. Se si guarda
quello che succede nelle scuole sul tema dell’educazione economica, sono due gli aspetti
che emergono. Il primo è che il numero di scuole, di classi, di docenti e di ragazzi coinvolti
continua a crescere, anno dopo anno, senza sosta. Quaranta scuole su cento dichiarano di
aver partecipato durante gli ultimi tre anni a qualche progetto, ancora di più nelle regioni
del Nord e nelle scuole secondarie di secondo grado. Certo, siamo ancora al di sotto di un
livello che possa far pensare che presto tutti i ragazzi durante il loro percorso scolastico
avranno l’occasione di una formazione, seppure solo sporadica, su tali argomenti.
E, come tutti dicono, la crisi economica sempre più profonda (arrivata in Italia al quarto
anno consecutivo) è stata di sicuro un forte incentivo a parlare di più, durante le ore di
lezione, di quello che succede nel mondo della finanza, del lavoro, delle industrie, dei mercati. Il fatto che molti ragazzi sperimentino attraverso le proprie famiglie problemi come
disoccupazione, cassa integrazione, difficoltà a mantenere il proprio tenore di vita ha reso
inevitabile discuterne con loro.
Però, e questa è la seconda evidenza, nelle scuole il confronto non
“Sappiamo che l’educazione
ha mai preso un’intonazione depressiva, non è mai stato vissuto
economica è importante e che
come la necessità di difendersi da un pericolo, incombente e inenella scuola funziona.
sorabile. In qualche modo, parlare di economia ha significato apriPer compiere il passo decisivo
re la mente alla possibilità di affrontare i problemi, anziché subirli.
serve uno schema d’insieme”
In principio, nessuno saprebbe dire quando, a portare un po’ di
scienza economica tra le mura scolastiche furono probabilmente
professori con l’occhio particolarmente lungo e attento e genitori con qualche competenza in materia, per esempio perché docenti universitari. Erano incontri dedicati a trasmettere qualche concetto di base o anche solo a spiegare fenomeni un po’ magici, come
il valore che tutti attribuiamo a un pezzo di carta chiamato banconota. Poi sono state le
banche a proporre alle scuole di cominciare a spiegare concetti come il risparmio, il tasso
di interesse, l’accumulo di un capitale. Con un reciproco vantaggio: per i docenti di avere
a disposizione qualcuno in grado di parlare di ciò che nei programmi scolastici e nei libri
di testo non c’è, per le banche di avvicinare i ragazzi al proprio mondo.
esperienze: la scuola si confronta
Il percorso verso
la cittadinanza
economica
COLLOCANDO ARGOmENTI
SpECIfICI NELL’AmbITO DI
“CITTADINANzA E COSTITuzIONE”
COmE pERCORSO
DI INSEGNAmENTO TRASvERSALE
A DIvERSE mATERIE
49,9%
di Arrows & Letters
38,2%
11,9%
SCARSO INTERESSE
DELLE fAmIGLIE
SCARSO INTERESSE DEI
DOCENTI
SCARSO INTERESSE
DEGLI STuDENTI
DIffICOLTà LEGATA
ALL’ESTEmpORANEITà
DELLE INIzIATIvE
REALIzzATE
bASSO COINvOLGImENTO
DEL CORpO DOCENTE
DIffICOLTà DEGLI
STuDENTI NELLA
COmpRENSIONE DEI
CONTENuTI pROpOSTI
DIffICOLTà DI
COINvOLGImENTO
DEGLI STuDENTI
5. PER LE sCuOLE dOVREbbE EssERE INsEgNATA COsì
28,5%
21,2%
20,0%
9,9%
5,0%
3,8%
2,1%
EDuCAzIONE ALL’uTILIzzO
CONSApEvOLE DEL DENARO
CONOSCENzA DEL SISTEmA
bANCARIO
CONOSCENzA DEL DENARO,
DEI pREzzI E DELLA mONETA
EDuCAzIONE
ALL’ImpRENDITORIALITà
GESTIONE DEL buDGET
pRObLEm SOLvING
EDuCAzIONE AL RISChIO
CONSumO pRESENTE
E CONSumO fuTuRO
pREvENzIONE
DELL’INDEbITAmENTO
EDuCAzIONE pREvIDENzIALE
4. PRINCIPALI CRITICITà dELLE INIZIATIVE mEssE IN CAmPO
18,1%
14,6%
13,5%
10,6%
9,0%
8,1%
7,4%
6,8%
4,8%
3,6%
3. I TEmI TRATTATI NEI PROgRAmmI FORmATIVI
SCuOLA
SECONDARIA
II GRADO
62,2%
SCuOLA
SECONDARIA
I GRADO
SCuOLA
pRImARIA
30,9%
29,8%
2. sCuOLE CHE HANNO ORgANIZZATO PROgRAmmI
GENITORE
O GRuppO
CONSIGLIO
DI ISTITuTO
CONSIGLIO
DI CLASSE
SINGOLO
DOCENTE
DIRIGENTE
SCOLASTICO
GRuppO
DI DOCENTI
0,4%
1,1%
8,4%
26,3%
29,1%
34,7%
1. CHI PROPONE L’INIZIATIVA
Fonte: Fondazione Rosselli | Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica.
COmE
mATERIA
AuTONOmA
esperienze: la scuola si confronta
•La sede della Banca
Centrale Europea a
Francoforte.
Nella pagina di
apertura, la statua del
toro di Bowling Green
park, vicino alla Borsa
di New York di Wall
Street, opera di Arturo
Di Modica e simbolo
dell'andamento positivo
della finanza.
Foto: Eightfish/Getty
La prima vera svolta, però, è stata nel 2004, quando il consorzio Patti Chiari, nato l’anno
prima per aumentare la trasparenza del sistema bancario e la fiducia da parte dei cittadini, ha dato il via al proprio programma per gli studenti. È stato il primo progetto di livello
nazionale e potenzialmente rivolto a tutte le scuole. Semplice, immediato, basato sull’incontro di studenti ed esperti per esplorare insieme alcuni argomenti, ha funzionato subito.
Così nel giro di poco tempo la sperimentazione è stata estesa a tutti i livelli scolastici, dalla scuola primaria alla secondaria superiore. «La risposta dei docenti è stata subito ottima,
abbiamo portato l’esperienza al Miur e agli Uffici scolastici regionali e da quel momento le
porte sono state sempre più aperte», racconta Alessandro Malinverno, segretario generale
di Patti Chiari. Alessandra Franceschi, professoressa di lettere al liceo classico D’Azeglio di
Torino, è una dei docenti che hanno cominciato per caso a partecipare al programma, appassionandosi subito, e oggi è diventata un punto di riferimento per i suoi colleghi: «Non
pensavo che i ragazzi avessero così tanta voglia di impegnarsi. E a me ha dato competenze
esperienze: la scuola si confronta
in più, stimoli nuovi». Dal 2004, il dibattito sulla necessità di un’educazione finanziaria
nelle scuole ha cominciato a prendere piede a tutti i livelli, anche grazie all’intervento
dell’Ocse, che nel 2005 ha emanato una direttiva con la quale ha invitato tutti gli Stati
a promuoverla. Un passo importante.
Grazie all’Ocse per la prima volta è stato ufficialmente detto che cosa si intenda con
educazione finanziaria, che «può essere definita come il processo attraverso il quale consumatori e investitori possono migliorare la loro conoscenza dei prodotti finanziari e, attraverso l’informazione, la formazione e la consulenza indipendente, sviluppare le competenze e la consapevolezza dei rischi e delle opportunità in materia finanziaria, per
formulare scelte consapevoli e intraprendere azioni efficaci per aumentare il
proprio livello di benessere finanziario».
È stata solo la prima mossa di un impegno sempre più deciso
che ha portato l’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico a inserire nel test Pisa del 2012
una rilevazione sistematica, estesa alla gran parte
dei Paesi che partecipano al test, delle competenze in materia economico finanziaria. Per la prima
volta è stato verificato (ma i risultati non sono
ancora disponibili) quale sia il livello di preparazione degli studenti di tutto il mondo su questo argomento. Ma anche, o soprattutto, per
la prima volta l’educazione finanziaria è stata
trattata come una componente fondamentale,
al pari delle competenze in ambito umanistico
o scientifico-matematico, della preparazione
scolastica dei ragazzi. Nel frattempo, parecchie
cose sono accadute nel mondo e anche in Italia.
Un po’ ovunque i programmi scolastici, e non solo,
si sono diffusi. Proprio mentre iniziava la sperimentazione di Patti Chiari anche la Banca d’Italia si stava muovendo per fornire alle scuole il proprio aiuto. La
banca centrale ha deciso di partire direttamente rivolgendosi a tutti i livelli scolastici e lo ha fatto puntando alla
formazione dei docenti anziché al contatto con gli studenti:
nel suo progetto i formatori non entrano nelle classi, ma incontrano gli insegnanti, a loro trasmettono i concetti e presentano
il materiale divulgativo, spiegando come usarlo, così danno
loro gli strumenti per tornare dai propri studenti e affrontare
argomenti mai toccati prima. Spetta poi a maestri e professori, però, decidere come sfruttare davvero ciò che hanno in
mano, quanto tempo dedicare, come presentare gli argomenti.
Naturalmente ci sono anche importanti analogie tra i progetti.
Per esempio il fatto di prevedere sempre una valutazione prima e una
dopo sulle conoscenze dei ragazzi coinvolti, in modo da poter avere una misura, seppure
non precisa, dei risultati ottenuti. E poi l’idea di produrre materiale che finisca in mano
esperienze: la scuola si confronta
agli studenti e magari li accompagni anche a casa. Nel caso di Patti Chiari, dalle dispense
di carta si è passati anche a cd e dvd. «Per noi questa è stata una bella sfida, ha voluto
dire confrontarci con un modo di raccontare le cose davvero diverso, che fosse adatto a
tutti» racconta Maurizio Trifilidis, a capo del gruppo di lavoro della Banca d’Italia, che si
è concentrata su quaderni didattici dedicati alla moneta e, per i più grandi, alle diverse
forme di pagamento.
I ragazzi, e anche i loro genitori, hanno apprezzato molto, come racconta Maria Gentile,
maestra di una scuola primaria di Roma, che ha sperimentato quest’anno per la prima volta il progetto messo a punto in via Nazionale. «Per ora ci siamo occupati della parte storica sulla moneta, senza arrivare a toccare concetti più difficili come per esempio l’uso di un
assegno, ma certamente porterò avanti il lavoro anche l’anno prossimo». Per l’Osservatorio
Giovani-Editori puntare in modo diretto sui temi economici è stato un passo naturale e
inevitabile: chi vuole aiutare i ragazzi a impadronirsi dei giornali deve aiutarli a padroneggiare anche concetti e parole che ormai sono usciti dalle pagine dedicate all’economia
per colonizzare quelle dedicate alle cronache politiche, agli esteri e persino a quella locale.
Così all’interno del lavoro dell’Osservatorio è nato il progetto Cultura finanziaria a scuola:
per prepararsi a scegliere, che nell’ultimo anno si è articolato su dieci temi e ha prodotto
anche un quaderno di lavoro. Nel frattempo, molti altri soggetti, dalle assicurazioni alle
associazioni dei consumatori a quelle dei promotori finanziari, hanno continuato a proporre alle scuole il proprio aiuto, con iniziative grandi e piccole.
Che cosa potrà succedere da qui in poi non è facile capirlo. Se si dovesse far decidere
ai docenti, la stragrande maggioranza farebbe entrare l’educazione economica subito nei
programmi scolastici, ma come percorso di insegnamento trasversale a diverse materie,
piuttosto che come disciplina autonoma. E riprendendo in mano le redini del discorso con
la propria classe. La professoressa Paola Spinelli, alla secondaria di primo grado dell’Istituto Settembrini di Roma, ha scelto di parlare di economia partendo dalla geografia, sia
perché era la materia che insegnava a più classi, sia perché la considera davvero quella
che può essere più trasversale nel gruppo lettere. Ha aderito a un bando del Comune, ha
usato i seminari di Patti Chiari, poi ha invitato genitori, giornalisti, commercialisti o esperti di legalità e in questo modo ha dato vita a un progetto più articolato sulla cittadinanza
attiva, che ha entusiasmato lei per prima, ma pure i ragazzi, arrivati a confezionare autonomamente un libretto. Anche lei pensa che l’educazione finanziaria debba entrare subito
nel curriculum, ma non come nuova materia.
Le strade da esplorare sono tante. Il consorzio Patti Chiari ha creato un portale in cui
sta progressivamente allargando i contenuti e le forme in cui vengono presentati. Adesso economi[a]scuola.it accoglie anche video realizzati in formati che tentano di essere
accattivanti per i giovani ed è stata aperta una sezione dedicata ai genitori (il tema del
ruolo delle famiglie è certamente uno di quelli ancora poco esplorati e destinati a prossimi
sviluppi). Inoltre, è stato creato uno spazio per un’idea che molti docenti di lettere hanno
accarezzato: trovare l’economia nei romanzi, usando la letteratura anche per capire come
funziona il mondo della produzione o della finanza (dai Malavoglia ai Buddenbrook, da
Balzac a Tolstoj, gli spunti non mancano). Da qui a cercare l’economia anche nei film, il
passo è stato breve. Poi ci sono i giochi di ruolo, che restano giochi fino a un certo punto:
con il progetto di Patti Chiari i ragazzi sono spinti a realizzare un vero e proprio business
esperienze: la scuola si confronta
plan per far funzionare dal punto di vista imprenditoriale una propria idea originale.
Quest’anno ben settanta piani sono approdati alla finale nazionale, mentre qualcuno di
quelli presentati negli anni scorsi rischia di diventare un vero progetto industriale grazie
alla collaborazione con grandi aziende.
Con il gioco si può fare di tutto: il Museo del risparmio di Torino (l’unico del genere in Italia) ha realizzato una app che propone di diventare primo ministro di un’isola e impegnarsi
per ridurre il debito pubblico del proprio Stato. I giocatori simulano le decisioni finanziarie
e il software restituisce i risultati che si saranno ottenuti anche a distanza di dieci o venti
anni con le proprie scelte. «La vera sfida è proprio sul livello della comunicazione, per trovare quella più adeguata per ogni gruppo e per ogni tipo di messaggio» dice Malinverno.
Potranno tutte queste sperimentazioni dare vita a un vero e proprio programma scolastico, perché l’educazione economico-finanziaria entri nel curriculum dei ragazzi italiani?
E come trasformare un bagaglio di conoscenze, certamente indispensabili per orientarsi
nel mondo, in vere competenze?
«Sappiamo che l’educazione economica è importante e che nelle scuole funziona. Per compiere il passo decisivo serve uno schema d’insieme» sostiene Francesca Traclò, direttrice
della Fondazione Rosselli, che da alcuni anni sta monitorando quello che succede in Italia
e che sta portando avanti proprio l’idea di un vero programma da proporre a tutte le
scuole e in tutte le classi, dalla prima elementare al diploma delle superiori. Lo sta facendo rileggendo insieme agli autori le sperimentazioni in corso, grazie a un comitato permanente attivato con l’Ufficio scolastico regionale del Piemonte, coinvolgendo economisti,
psicologi, matematici e altri esperti ancora. Convinta che l’ingresso nel curriculum sia un
passo indispensabile e anche abbastanza urgente. I problemi da affrontare sono ancora
molti. Da quello più tecnico della messa a punto di un sistema di valutazione fino a quello
di realizzare una reale cittadinanza economica, che dalle scuole si propaghi rapidamente a
tutta la società. Senza dimenticare il nemico da sempre in agguato quando le innovazioni
diventano obblighi istituzionali: che l’entusiasmo dei docenti, ma soprattutto quello
che mostrano i ragazzi quando hanno a che fare con qualcosa che non faccia parte del
solito programma, tenda a spegnersi riportando l’economia ad aderire al suo stereotipo di scienza triste.
•••
> Il portale economi[a]scuola del consorzio Patti Chiari, con i programmi scolastici, video, canali tematici
per docenti e genitori. www.economiascuola.it
> Conoscere per decidere Il progetto della Banca d’Italia, con i quaderni da scaricare in formato PDF.
www.bancaditalia.it/serv_pubblico/cultura-finanziaria/conoscere/edufin-scuola
> Il progetto dell’Osservatorio Giovani-Editori www.osservatorionline.it/page/702/cultura-finanziaria
-a-scuola#content
> Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica L’indagine della Fondazione Rosselli
sulla realtà italiana e internazionale. www.fondazionerosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/attivita_
ricerche1&rice_id=522
Guarda i video dei
laboratori dell’ISIS
Romero
> Il Museo del risparmio di Torino www.museodelrisparmio.it/
http://link.pearson.
it/5E64C86A
> L’economia buona, di Emanuele Campiglio, Bruno Mondadori, 2012
> Sai cos’è lo spread? Lessico economico non convenzionale, di Andrea Fumagalli, Bruno Mondadori, 2012
dialogo
di Paolo Magliocco
Foto di Paolo Magliocco
e Steve Mezzadri
Giorgio Parisi
incontra
Mauro Ceruti
dialogo
››Giorgio Parisi
e Mauro Ceruti, un
fisico matematico e
un filosofo da anni
impegnati a studiare
la complessità, hanno
discusso per noi che cosa
significhi abbandonare
l’idea di un mondo che
può essere compreso
fino in fondo per entrare
nell’era di sistemi che
cambiano e si evolvono
attraverso meccanismi
probabilistici. Un nuovo
paradigma che parte
dalla scienza per arrivare
a coinvolgere anche il
sistema educativo, la
società, il nostro intero
universo culturale ‹‹
•Giorgio Parisi
insegna Meccanica
statistica
e fenomeni
critici presso il
dipartimento di fisica
dell'Università la
Sapienza di Roma.
è stato allievo di
Nicola Cabibbo.
G
iorgio Parisi e Mauro Ceruti sono due tra le persone che più in Italia hanno lavorato e lavorano sul tema della complessità. Un argomento di cui si è cominciato a
parlare quasi quarant’anni fa, un tema chiave per guardare al mondo di oggi, capire l’evoluzione del sapere, individuare le necessità, soprattutto quelle dei giovani, affrontare i problemi. Fisico il primo, filosofo il secondo, Parisi e Ceruti in tanti anni
di lavoro parallelo sulla complessità non avevano mai avuto l’occasione di parlarne faccia
a faccia: hanno accettato di farlo per iS, in collegamento via Skype tra Roma e Bergamo.
dialogo
PARISI. La definizione di complessità è sempre stata problematica.
Mi ricordo che 20 o 25 anni fa, quando se ne cominciava a parlare
nell’ambito della fisica, uno dei relatori a un incontro aveva detto
di aver trovato in letteratura 65 definizioni di complessità, molto
diverse tra loro. Quasi tutte facevano una forte distinzione
tra complicato e complesso. Mi spiego: un jet è complicato, ma non è considerato complesso, perché ogni parte
ha un suo scopo e sappiamo che cosa succede se, per
esempio, tagliamo un filo. Un sistema complesso, invece, non è stato costruito a tavolino, ha certamente
una sua funzione, ma spesso è il frutto di un’evoluzione e non abbiamo idea di come modificarlo
per farlo funzionare in una maniera diversa.
•Mauro Ceruti insegna
Filosofia della
Scienza all'Università
di Bergamo, dove
è stato Preside
della Facoltà di
Lettere e Filosofia
e Direttore della
Scuola di dottorato in
Antropologia
ed Epistemologia
della Complessità.
è stato allievo di
Ludovico Geymonat.
CERUTI. Hai formulato in modo semplice
il problema della complessità... Perché la
complessità è un problema, che ho appreso a formulare anche dai tuoi colleghi fisici e matematici. Anch’essi hanno scoperto, col tempo, che molti
dei loro oggetti erano davvero
complessi e, invece, molti problemi che credevano complessi erano semplicemente complicati.
E dunque hanno dovuto per forza
approfondire la questione.
Ma il punto essenziale, per loro
come per me, è che il modello di conoscenza e razionalità elaborato in particolare dalla
fisica del diciottesimo e diciannovesimo secolo a un certo punto non funzionava più.
Non funzionava più il criterio per definire la verità o anche l’affidabilità di una teoria
Chi è Mauro Ceruti
Mauro Ceruti, filosofo, professore di filosofia della scienza all'Università di Bergamo,
è il maggior teorico dell'epistemologia della complessità nel nostro Paese, con un lungo
elenco di libri pubblicati in molte lingue attorno a questo tema.
Ha cominciato a occuparsi di complessità trent'anni fa e l'ha fatto anche insieme a colui
che è stato tra i primi a sviluppare il concetto stesso di pensiero complesso, il filosofo
francese Edgar Morin. Il volume da lui pubblicato nel 1985 con Gianluca Bocchi
(La sfida della complessità, Bruno Mondadori) è riconosciuto come un classico nel
dibattito internazionale sulla complessità.
dialogo
scientifica. E questo criterio era la sostanziale sinonimia fra determinismo, previsione e
prevedibilità. L’imprevedibilità, o il fatto che una teoria non permettesse di prevedere lo
stato futuro di un sistema, faceva pensare che ci fosse un difetto intrinseco alla teoria,
che quindi avrebbe dovuto essere cambiata in senso maggiormente predittivo. Oppure
che ci fosse un difetto della nostra capacità di osservazione. Di questa opinione, ad esempio, era lo stesso Albert Einstein rispetto alla teoria dei quanti. In ogni caso questa epistemologia si fondava sull’idea che in linea di principio, se non di fatto, esiste comunque un
punto di vista da cui il comportamento di ogni sistema è perfettamente prevedibile. Nel
momento in cui la teoria del caos ha rotto la sinonimia tra il determinismo e la previsione
si è posto un problema che dal punto di vista filosofico si è rivelato estremamente interessante: viene meno l’idea che uno solo sia il comportamento degli oggetti studiati dalla
scienza, e quindi uno solo il metodo. Si impone il problema del pluralismo epistemologico,
metodologico.
PARISI. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il cambiamento della predicibilità
è un punto fondamentale. Se vogliamo applicare la vecchia idea della predicibilità allo
studio del movimento dei singoli atomi, questo paradigma non funziona più. Se siamo
interessati a sapere la distribuzione delle velocità delle particelle in un gas, non possiamo
pensare di misurare tutte le velocità e le posizioni, sarebbe complicatissimo e allo stesso
tempo inutile. Si passa insomma dal fare previsioni certe a fare previsioni estremamente
probabili. La probabilità che un bicchiere d’acqua in una stanza a temperatura ambiente
ghiacci è praticamente nulla, estremamente piccola, possiamo tranquillamente dire che
l’acqua resta acqua. Però dobbiamo renderci conto che non è una predizione certa, ma
con una probabilità estremamente, estremamente alta. A livello microscopico, nei decadimenti radioattivi ci sono sostanze in cui per esempio dieci atomi possono decadere: prima
uno, poi l’altro e poi l’altro. Il problema è che dal punto di vista concettuale, ma anche
Chi è Giorgio Parisi
Giorgio Parisi, fisico e matematico, docente all'università
La Sapienza, è considerato uno degli scienziati più
importanti in Italia oggi, si è occupato di un gran numero
di argomenti diversi, dalla fisica delle particelle alla fisica
statistica e alla matematica e ha collezionato un lungo
elenco dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali,
dalla Medaglia Boltzmann al Premio Dirac, dal Premio
Galileo alla Medaglia Max Planck. Ottenuti ogni volta
per meriti diversi, i riconoscimenti hanno sempre premiato
questa sua capacità di spaziare su fronti differenti.
Inevitabile, allora, che ottenesse nel 2009 anche il Premio
Lagrange: premio che viene assegnato proprio agli
scienziati che abbiano più contribuito allo sviluppo della
scienza della complessità.
dialogo
da quello sperimentale, non possiamo assolutamente sapere quale atomo decadrà prima:
gli atomi sono tutti uguali e hanno tutti la stessa probabilità intrinseca di decadere. Non
ci sono variabili nascoste, come pensava Einstein, non c’è un angelo che passa e quando
passa batte le ali e le ali colpiscono un atomo che allora si disintegra.
CERUTI. La complessità non è una nozione nel senso in cui lo sono tradizionalmente i
concetti della fisica o della biologia. Può assumere una vasta gamma di significati. Però
l’etimologia del termine è significativa. Complessità deriva dal verbo latino plectere, che
vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso
è qualcosa di intrecciato più volte. Complessità evoca una pluralità di componenti, ma
anche un’idea di unità: è quasi un ossimoro. Anche il contrario di complesso, cioè semplice, viene da plectere, unito però alla particella sim, e vuol dire intrecciato una volta sola.
Questo ci porta all’idea che nella semplicità manchino le dimensioni temporali, storiche,
evolutive, che invece sono inscindibili dalla complessità.
PARISI. Non avevo mai pensato all’etimologia della parola e mi piace molto. Mi piace perché una delle
caratteristiche da sottolineare dei sistemi complessi è
che puoi descrivere lo stesso sistema a livelli diversi.
Prendiamo un essere umano. Lo puoi cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi e dei singoli elettroni,
ma lì non c’è molto di interessante. Puoi descriverlo a
livello di ciò che fanno le singole proteine e il DNA, poi
a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle
informazioni che le cellule si scambiano tra loro, prima
quelle più vicine e poi quelle più lontane, per arrivare
a ciò che quest’uomo sta pensando, se è sveglio o dorme, se è allegro o triste e così via.
Ci sono tutti questi livelli di descrizione che si intrecciano tra di loro. In teoria è possibile
capire il comportamento delle proteine a partire da quello dei singoli atomi, quello delle
cellule a partire da quello delle proteine e così via. È possibile, non è detto che sia fattibile. Ma quando passi al livello successivo di spiegazione devi introdurre nuovi concetti,
nuove parole, e quindi i vari livelli di descrizione si intrecciano e si influenzano. Un sistema
semplice lo puoi invece descrivere a un solo livello. Un modo per tentare di catturare la
complessità è pensare di doverne fare una descrizione. Un testo della Divina Commedia
lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli canti, poi discutere dei vari significati. Su un testo complesso possiamo dire moltissime cose e quindi
in qualche modo la complessità ha bisogno di un linguaggio complesso. Bisogna passare
dalla complessità dell’oggetto in sé alla complessità del linguaggio che devi utilizzare per
descriverlo. Per un sistema semplice è sufficiente un linguaggio semplice, per un sistema
complesso è necessario un linguaggio complesso, più ricco, con molti più concetti che
interagiscono tra loro.
CERUTI. Hai sollevato alcuni problemi filosofici che appartengono alla grande tradizione
e che oggi restano assolutamente ineludibili. Innanzitutto il problema dell’implicazione
dell’osservatore nelle sue osservazioni: la complessità sta nella realtà o nell’osservatore,
sta nell’oggetto o nel linguaggio attraverso il quale cerchiamo di studiare l’oggetto?
dialogo
PARISI. Per me è difficile dirlo, perché in qualche modo io posso “toccare” le cose solo
con il linguaggio. Con il tipo di linguaggio e di cervello che ho, per me certi sistemi sono
complessi. Però potrei anche immaginare che un extraterrestre con un cervello diverso
dal mio troverebbe semplice quello che a me appare complesso e viceversa. Quindi non
mi azzardo a dire qualcosa della realtà, preferisco limitarmi a dire che io descrivo la
realtà conoscendo il linguaggio che uso.
CERUTI. E poi c’è la questione della separabilità dei componenti di un sistema e della
loro conoscibilità in modo distinto. Galileo Galilei, quando introdusse la sua idea della
nuova scienza, si pose il problema di quali fossero i limiti di ciò che possiamo conoscere. Per lui, la conoscenza della natura era come la
costruzione progressiva di un grande mosaico. Tra la
“Complessità significa
conoscenza umana e quella di dio secondo Galileo non
c’è alcuna differenza qualitativa, ma solo quantitativa:
passare da un mondo
i tasselli del mosaico che la scienza umana conosce li
di previsioni certe
conosce bene quanto la mente divina. Ma ne conosce
a uno di previsioni basate
pochissimi, rispetto all’onniscienza divina, che li conosulla probabilità”
sce tutti. Compito della scienza umana è aggiungere
Giorgio Parisi
nuovi tasselli nella ricostruzione del mosaico. Qui nasce
peraltro l’idea di progresso, lineare e cumulativo. Ma
questo significa anche che l’aggiunta di conoscenze nuove non retroagisce a modificare
la natura della conoscenza dei tasselli già conosciuti. Si tratta di un’ipotesi non solo
epistemologica, ma anche ontologica. I sistemi possono essere scomposti in tasselli che
possono essere conosciuti separatamente e la conoscenza di tasselli nuovi non cambia
la conoscenza di quelli già acquisiti. Certo, Laplace, introducendo il calcolo delle probabilità per studiare nuovi ambiti di realtà, riconobbe che neanche dal punto di vista
qualitativo la conoscenza umana può diventare perfetta come quella divina, perché
rispetto a questi ambiti dobbiamo “accontentarci” di una conoscenza probabilistica. Ma
aggiunse: se ipotizziamo un demone onnisciente, che in un dato istante conosca tutte
le leggi di natura e, insieme, lo stato di ogni particella dell’universo, questo demone saprebbe prevedere non solo il futuro dell’universo, ma anche quello di ogni singola particella. E saprebbe anche ricostruire tutto il passato. Dunque, l’ipotesi è che esista un
punto di osservazione assoluto dal quale l’universo si rivelerebbe come un meccanismo,
come dicevi tu, complicato, ma non complesso. La dimensione temporale non ne sarebbe costitutiva e il tempo, come credeva anche Albert Einstein, sarebbe solo un’illusione.
In una visione del mondo complicata, e non complessa, di volta in volta cerchiamo di
spiegare perché le cose siano andate così e perché fosse inevitabile che andassero così.
In una scienza dei sistemi complessi, al contrario, rispondiamo ad un’altra domanda:
perché le cose sono andate così, anche se non era inevitabile che andassero così e sarebbero potute andare diversamente?
PARISI. Questo mi ricorda un bel libro di Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa, in
cui si poneva proprio questa domanda. Lui guardava a tutte le specie che erano presenti
530 milioni di anni fa, tra cui c’erano solo uno o due vertebrati, su cui nessuno avrebbe
scommesso. Se per qualche motivo si fossero estinti, non avremmo mai avuto i vertebrati.
Quello su cui insiste molto Gould è il tema della contingenza: non è necessario che le cose
dialogo
accadano in un certo modo e sarebbero potute andare in maniera assai diversa. Questo
non vale solo per la Storia con la esse maiuscola. Per esempio è stato calcolato che il
numero di specie presenti su un’isola è proporzionale alla radice quarta della superficie
dell’isola stessa. Ma, detto questo, calcolato il numero di specie che possiamo aspettarci, non si può sapere di quali tipi di specie si tratterà, se millepiedi o pettirossi o altro.
Quello che è avvenuto su ciascuna isola resta completamente ignoto. Anche la fisica ha
potuto fare passi avanti accettando di fare un passo indietro, come capita spesso: ha
dovuto rinunciare a capire ciò che succede in ogni singola situazione e cercare di capire
la statistica dei comportamenti in situazioni assai diverse. Sapere che il sistema potrebbe comportarsi anche in modo diverso da quello in cui si comporta è fondamentale.
CERUTI. In effetti un sistema complesso è un sistema in cui le proprietà del tutto non
corrispondono alla somma delle proprietà delle singole parti. Sono qualcosa di più, ma
anche di meno: tutto dipende dalle loro reciproche interazioni. E Stephen Jay Gould,
proprio ne La vita meravigliosa, per parlare della complessità della storia della vita ricorre alla metafora molto efficace del film della vita: se potessimo riavvolgere il film
della storia della vita sulla Terra, dalle origini fino a noi, e lo proiettassimo da capo, ogni
volta avremmo un finale diverso. Non solo per la sensibilità del sistema alle condizioni
inziali, ma anche per quella che Gould definisce contingenza. La contingenza non è una
semplice attenuazione della necessità ad opera del caso: è la caratteristica ineludibile
dei sistemi complessi. La conoscenza dei sistemi complessi non può trascurare l’effetto
del tempo sulla loro evoluzione. Ciò non significa criticare in toto la scienza “classica”.
Significa piuttosto introdurre un pluralismo metodologico ed epistemologico dipendente dalla pluralità degli oggetti della ricerca scientifica. E la sfida della complessità
pone oggi anche una questione educativa: quanto i modi di organizzazione dei saperi
nelle nostre scuole e università, non solo nell’ambito di ciascuna disciplina ma anche
nelle relazioni tra le varie discipline, possano mutare per favorire il sorgere di quella
che chiamerei una sensibilità a un modo di conoscere volto ad evitare la riduzione di
un qualunque oggetto di conoscenza a un solo livello di descrizione, di osservazione.
Il grande successo della scienza attraverso la proliferazione degli specialismi oggi può
avere effetti recessivi e ostacolare la produzione di nuova creatività scientifica.
PARISI. Hai toccato molti argomenti interessanti. Questo legame della complessità
con l’emergenza di proprietà collettive è estremamente importante. Le proprietà collettive ci sono anche in sistemi non complessi: il nostro bicchier d’acqua quando cambia
la temperatura della stanza gela o bolle, e questo è un comportamento collettivo, perché dall’esame dei singoli atomi non è affatto chiaro come un decimo di grado faccia
diventare completamente solido ciò che era liquido. La differenza fondamentale è che
le proprietà collettive dell’acqua sono semplici: o è un solido o è un liquido, oppure un
gas. Nei sistemi complessi invece il numero di possibilità è estremamente più alto. Prendiamo il DNA e la miriade di piante e animali a cui può dare vita, il modo in cui possono
ripiegarsi le proteine...
L’altro tema, quello di mettere insieme la specializzazione e la capacità di cogliere cose
che vengano da un settore diverso, nelle nostre università o nella scienza in generale, è
un problema molto serio e delicato. Una mia paura, che forse era più forte in passato, è
che nelle università si tenda a selezionare persone iperspecializzate. La prima cosa che
dialogo
fa una commissione è verificare quali delle pubblicazioni di una persona sono rilevanti
per il settore in cui fa domanda. È una cosa un po’ insensata: se un fisico ha dato contributi importanti in epistemologia, questi lavori sono una ricchezza, anche se concorre
per fisica matematica. Per esempio, c’è un’interdisciplinarietà molto forte tra la fisica
e la biologia, ci sono fisici che studiano i sistemi viventi utilizzando strumenti concettuali che vengono dal mondo della fisica. Posso capire che nell’Ottocento il mestiere del
fisico, del biologo o del matematico fossero molto lontani tra loro, ma oggi si stanno
sempre più sovrapponendo.
CERUTI. Penso che le crisi che stiamo attraversando siano soprattutto crisi cognitive.
Albert Einstein sosteneva che il pensiero che crea un mondo non sarà in grado di governare il mondo che ha fatto emergere. Il mondo attuale, interdipendente e globalizzato,
è anche figlio del taylorismo economico e dello specialismo tecnico-scientifico. Oggi
tocchiamo con mano che ogni problema rilevante è complesso, cioè costituito da una
molteplicità irriducibile di dimensioni interconnesse. E inoltre ogni problema o oggetto
di conoscenza è interconnesso irriducibilmente ad altri altrettanto complessi. Eppure
le intelligenze che sono chiamate a risolverli sono per lo più intelligenze specialistiche.
Così le soluzioni cercate e proposte sono il più delle volte esse stesse parte del problema. Il caso più eclatante è quello della scienza economica, che manifesta oggi tutta
la sua inadeguatezza, non solo a risolvere i problemi, ma soprattutto a formularli in
maniera adeguata. Le maggiori difficoltà nell’affrontare la crisi stanno soprattutto nel
nostro “non sapere di non sapere”, e nel modo in cui è organizzata la nostra conoscenza, fin dai primi anni della scolarizzazione: un modo che produce una sempre maggiore
frammentazione delle conoscenze, laddove i problemi, sempre più complessi, esigono
l’intreccio di differenti dimensioni e punti di vista. Abbiamo bisogno di attrezzarci a
pensare la complessità, di attrezzarci a pensare nella complessità non solo in senso tecnico, ma anche cercando di elaborare una cultura all’altezza degli specialismi scientifici
e tecnologici di cui disponiamo oggi, e quindi all’altezza della complessità dei problemi
che sfidano l’attuale condizione umana.In particolare, la valorizzazione della diversità
come condizione essenziale nell’evoluzione della vita, delle culture, delle lingue, va sostenuta all’interno del continuo percorso formativo di ciascuno di noi, fin da quando
siamo bambini. Non si tratta solo di lasciar convivere la diversità fra gli uni e gli altri,
ma si tratta anche di valorizzare le diversità entro noi stessi: altrimenti queste diversità
non si sapranno rapportare tra loro. E ciò penalizzerà la creatività di ciascuno. Bisogna
che io abbia la capacità di porre domande al professor Parisi, anche senza avere le sue
competenze, per formulare i miei problemi epistemologici. E per saperlo ringraziare per
avermi insegnato, come oggi, a riformulare alcuni dei miei problemi.
•••
Guarda il video
dell’incontro tra
Giorgio Parisi
e Mauro Ceruti
http://link.pearson.it/
FB818DFD
>
>
>
La sfida della complessità, Bruno Mondadori, a cura di Mauro Ceruti con Gianluca Bocchi, 2007
Il vincolo e la possibilità, di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina, 2009
La chiave, la luce e l’ubriaco, di Giorgio Parisi, Di Rienzo Editore, 2006
Esperienze:
la scuola si racconta
La matematica
non
convenzionale
Studenti, docenti e ricercatori universitari insieme
alle prese con problemi che riscattano la materia più
astratta che ci sia e la trasformano in una grande
avventura, in cui la soluzione non è più il frutto di
quello che sta scritto sui libri ma della fantasia e
dell’ingegno di ciascuno
esperienze: la scuola si racconta
C
ome si fa a suscitare interesse nei confronti della matematica? Lei vuole una risposta che non sono mai riuscito a dare negli ultimi venti anni». Paolo Mora, docente
del liceo scientifico Lussana di Bergamo, è abbastanza spietato nei confronti della
materia. La matematica si presta poco, meno di altre discipline scientifiche, alla
divulgazione. In fisica è possibile trovare agganci alla vita reale, in matematica si può al più
leggere qualche saggio divertente, ma l’approccio rigoroso resta tutto formule e gesso alla
lavagna. Eppure anche Mora, come tanti altri suoi colleghi, ha deciso di partecipare, con un
gruppetto di studenti, a MATh.en.JEANS, un progetto nato in Francia nel 1989 per insegnare
la matematica in modo non convenzionale, e importato nel nostro Paese quattro anni fa
grazie al centro interuniversitario Matematita per l’apprendimento informale della matematica e a Kangourou Italia, associazione per la divulgazione della matematica, in accordo con
la realtà francese.
MATh.en.JEANS è l’acronimo di Méthode d’Apprentissage des Théories mathématiques en
Jumelant des Établissements pour une Approche Nouvelle du Savoir che in italiano si può
tradurre come Metodo di apprendimento delle Teorie matematiche attraverso il gemellaggio degli istituti scolastici per un approccio nuovo al sapere. «Ogni anno è una scoperta» ammette Paola Testi Saltini, responsabile dell’organizzazione. «Anche se le modalità
di partecipazione hanno una struttura fissa: un ricercatore, che può essere un dottorando
•In queste pagine,
alcuni dei lavori
presentati dai
ragazzi durante
l'edizione
2012-2013 di
MATh.en.JEANS
Foto: MATh.en.JEANS
o uno studente di matematica, propone a studenti di medie e superiori un problema matematico da risolvere, lasciandoli liberi di esprimere le proprie idee, senza conoscenze pregresse e senza aspettare che l’insegnante faccia il primo passo». Le novità di quest’anno
sono state il coinvolgimento della sede di Trento - insieme a Milano - per l’organizzazione del convegno finale, quello in cui i ragazzi presentano in una sorta di grande festa
i propri risultati a tutte le altre scuole coinvolte; la scelta di ricercatori giovani, tirocinanti del terzo anno, e infine la presenza di un ospite “straniero”: il liceo francese Stendhal di Milano. «Non so se vi saranno novità per le prossime edizioni, ma penso che siamo in una fase in cui il primo obiettivo sia quello di diffondere il progetto nelle altre regioni
esperienze: la scuola si racconta
italiane, al di là della Lombardia, che ha una presenza ben radicata», afferma Paola Testi.
La partecipazione viene gestita dalle scuole nel modo che ritengono migliore: alcune scelgono di far partecipare intere classi, di utilizzare le ore di lezione e di sfruttare la comunicazione tra scuole che condividono lo stesso problema e lo stesso ricercatore, altre invece
preferiscono il lavoro autonomo e il reclutamento volontario, sulla base dell’interesse per la
matematica e le sfide che suscita. «L’adesione volontaria è indispensabile perché il problema
da risolvere richiede troppo impegno, sono necessari una forte motivazione e un minimo di capacità», sostiene uno studente della quinta superiore del liceo scientifico Lussana di Bergamo.
Tutti hanno a disposizione una piattaforma online per comunicare sempre sia tra studenti dello stesso gruppo di lavoro, sia con altri gruppi e, ovviamente, con il ricercatore, che si
presenta fisicamente in classe per tre incontri, lasciando poi i ragazzi liberi di cimentarsi nel ragionamento. Ma proprio l’organizzazione, intesa come gestione dei tempi,
e la capacità di usufruire della piattaforma online per comunicare tra scuole e classi diverse, rappresentano i pro“Il bambino, a
blemi principali. Il forum di condivisione in alcuni contesti
scuola, diventa
è stato utilizzato con timidezza, senza commentare le idee
primo protagonista
di altri, e con un pizzico di pudore nell’esporre le proprie.
dell’apprendimento,
Alexandro Redaelli, futuro insegnante di matematica, è ormai
costruttore e fautore
un veterano di questa attività didattica: dopo quattro anni è
della propria
riuscito a coglierne gli aspetti più complessi e a rendersi conto
conoscenza”
di quanto sia utile non solo ai ragazzi, ma anche agli stessi
ricercatori. «La scelta del problema da sottoporre è di sicuro
l’aspetto più complesso» commenta Alexandro. «È fondamentale che sia un quesito che
accenda l’interesse degli studenti, che non sia né troppo facile, né troppo difficile, e infine
che insegni qualcosa anche a noi che lo progettiamo con l’aiuto dei professori universitari
che ci supportano». La soluzione è rigorosamente in mano ai ragazzi: i ricercatori non
devono svelarla, i docenti delle scuole neppure saperla. «Alcuni prof vogliono partecipare
esperienze: la scuola si racconta
in modo prepotente alla risoluzione, vogliono metterci il becco. Un po’ per passione, un po’
per curiosità», svela una “ricercatrice in jeans”. Dopo aver proposto il problema – dalla teoria dei giochi, alla geometria – il ricercatore lascia che emergano idee, fantasia, soluzioni
probabili e, perché no, anche voli della mente poco praticabili. Ogni cosa è utile affinché
si inneschi una prima discussione e i ragazzi inizino a familiarizzare con il quesito. Quando sono soli, gli studenti si confrontano e lavorano in gruppi per arrivare a risolverlo. «La
parte più difficile è convincere i compagni che la tua idea è quella giusta, mentre le loro
non funzionano. Siamo tutti convinti di avere la soluzione migliore» commenta Eleonora,
dell’Istituto di Istruzione Superiore Italo Calvino di Rozzano, Milano, che con la sua classe
si è impegnata nella teoria dei giochi. «È molto stimolante cimentarsi su un problema che
sembra non avere nulla a che fare con la matematica, che la renda più appealing e interessante». Il ricercatore svolge un po’ il ruolo di un Socrate della materia: deve indirizzare
senza svelare, deve fare domande e non dare risposte, in modo che i ragazzi siano spinti a
ragionare facendo attenzione agli elementi giusti, ritornando sul percorso quando fanno
qualche deviazione di troppo e giungere insieme alla meta finale.
I ragazzi delle medie, grazie a questa esperienza, iniziano ad approcciarsi alle parole matematiche, ai ragionamenti, alle intuizioni e ai suoi metodi. Gli studenti delle superiori,
un po’ più formati, affrontano invece la fase finale della formalizzazione, e imparano a
gestire un problema matematico in modo corretto. «La discussione era accesa e i ragazzi molto curiosi» racconta Giulia Bernardi, studentessa laureanda all’Università di Milano
Bicocca, che ha proposto la teoria dei giochi. «Mi ha stimolato l’idea di presentare qualcosa che si discostasse dalla matematica classica a studenti che spesso non la amano».
Elena Panzeri è invece tornata indietro, alle sue personali esperienze:
«Vedi gli studenti ricostruire la soluzione del problema senza avere
alcuna base, ed è sorprendente. Quando studiavo all’Università
ricevevo queste conoscenze in modo rigoroso e spesso passivo». Più il ricercatore è giovane e più viene visto come
un compagno con il quale confrontarsi, senza paura di
sbagliare, ma con la sensazione di imparare qualcosa di
nuovo e stimolante. I professori sono soddisfatti dell’investimento di risorse e tempo: «È un approccio concreto
che risponde alla domanda che tutti i ragazzi delle medie
si pongono: a che cosa serve la matematica?», commenta
Cinzia del Chiaro, dell’Istituto Comprensivo Statale di Valmadrera. Alla scuola secondaria inferiore Santa Maria della
Pace di Brescia, che si è occupata delle figure solide, il progetto
ha permesso di affrontare un argomento utile per il programma, che
i ragazzi assimilano per l’anno successivo, e in più tra gli studenti si è respirato un forte
entusiasmo, perché hanno potuto assaporare la bellezza dell’autonomia di un lavoro interamente frutto della loro mente e delle loro idee.
•••
Guarda il video del
racconto di che
cos’è MATh.en.JEANS
http://link.pearson.
it/6B3E906C
> Il sito di MATh.en.JEANS con il racconto delle edizioni passate e le informazioni per iscriversi il prossimo
anno www.mathenjeans.it/
Così Elias Canetti titolava la prima parte della sua autobiografia, dedicata all’infanzia e all’adolescenza,
dove l’amore per la lingua e per la «coscienza delle parole» intesse a ogni passo la narrazione.
Veicolo di scambio e di identità diverse, strumento per rappresentare il mondo e per capirlo, gioco,
nutrimento, svago, mezzo di espressione ed emancipazione personale.
Sono queste – e altre ancora - le potenzialità della lingua, e la loro salvaguardia ci tocca da vicino, nell’Italia
di oggi come nella Bulgaria di inizi Novecento.
Le lingue sono alfabeti non solo perché composte di lettere, ma perché introducono alla realtà e consentono
di metterla in comune. Non conoscerle e padroneggiarle (i contributi che seguono ne esplorano alcuni
contorni) significherebbe accettare una mutilazione.
M.L.R.
ITALIANO
Se 2000 parole
posson
di Luca Serianni
Foto: Falconia/Shutterstock
Linguista e filologo, è docente
di Storia della lingua italiana
all'università La Sapienza di
Roma e autore di molti saggi
ITALIANO
I vocaboli del lessico fondamentale della nostra lingua,
quello composto dalle parole più usate, sono poco più
di 2000. In realtà l'80% dei discorsi è fatto di 500 termini.
Ecco come ci esprimiamo e quanto è cambiato
l'italiano dai tempi di Dante
L
Foto: Falconia/Shutterstock
e parole non sono tutte uguali. Non solo perché divergono nei significati e nelle funzioni, ma per la differente frequenza con cui le usiamo. In
un’ideale piramide che rappresenti il patrimonio del lessico virtualmente
disponibile in una certa fase linguistica (quello accolto in un vocabolario
dell’uso di taglio medio) nella parte apicale potremmo collocare le poche parole
davvero “fondamentali”, perché ricorrenti più e più volte in qualsiasi testo che
ci capiti di produrre oralmente o per iscritto. Il grosso delle parole, quelle che
occuperebbero la parte
più ampia della nostra
piramide, sono parole rare che anche un
"Ciao era una parola
parlante colto non conosce o non usa: sono
sconosciuta a
parole marcatamente
letterarie
(l’aggettivo impronto «che mostra improntitudine,
Dante, ma la
sfacciato») e soprattutto proprie di un lessigran
parte
dei
co specialistico, noto
solo a una minoranza:
vocaboli del lessico
iperdulia (religione),
entelechia (filosofia),
anticresi (diritto), disgeusia
(medicina),
fondamentale è
esterificazione (chimica), autovalore (mategià contenuta nella
matica). Le parole fondamentali si ritrovano
Commedia dantesca"
in tutte le lingue, con
poche differenze interne: è intuitivo che
le parole usate per indicare la neve saranno
più frequenti nelle lingue dei paesi artici rispetto a quelle parlate nei paesi caldi. Per l’italiano, Tullio
De Mauro, che al tema ha dedicato studi decisivi, ha fissato il numero dei vocaboli fondamentali (o di base) in 2049. A una cifra così precisa si arriva attraverso
un campionamento bilanciato di corpora di vari testi, parlati e scritti, prodotti in
un ventaglio di situazioni comunicative sufficientemente ampio. Queste duemila parole rappresentano circa il 90% delle occorrenze lessicali rinvenibili in un
testo italiano contemporaneo. Il dato ha un’evidente importanza applicativa: sia
per i docenti che insegnano l’italiano come lingua seconda (e da tempo la glottodidattica è sensibile a questo aspetto) o si rivolgono a bambini madrelingua (fin
dai primi anni della scuola primaria tutti gli alunni dovrebbero padroneggiare
questo patrimonio); sia per i funzionari che redigono un avviso destinato alla
ITALIANO
massa dei cittadini (pagamento delle
imposte, riscatto di una casa popolare,
ecc.): è un dovere civico ridurre il tasso di tecnicismi giuridici e burocratici e
attingere il più largamente possibile alle
parole di uso davvero condiviso.
Ma quali sono le parole del lessico fondamentale? Vi troviamo prima di tutto
parole “vuote” o grammaticali come
articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni. Poi, parole semanticamente generiche e quindi usate, specie nel
parlato, quando il contesto è più che
sufficiente per capire il contenuto del
messaggio («Sempre le stesse cose!»:
cose può indicare parole, comportamenti, preparazioni culinarie...):
cosa, roba, dare, dire, fare ecc. Ma
un nucleo consistente è rappresentato da parole astratte come problema o senso e da parole concrete,
che indicano realtà che incidono
nel nostro vissuto, come cane o
gatto. Naturalmente il fatto che
un lemma rientri nel lessico fondamentale non implica che siano altrettanto centrali tutte le
sue accezioni: tutti sappiamo che
cos’è un gatto, moltissimi conoscono il gatto delle nevi, che però
non rappresenta certo una nozione centrale nella nostra esperienza,
come avviene, a maggior ragione,
per la lingua di gatto “tipo di biscotto”, il gatto a nove code “tipo di
frusta” o il gatto inteso come “macchina d’assalto usata nel Medioevo”.
Le differenze di frequenza tra scritto e parlato sono minori di quel che
si potrebbe credere. Confrontando
due diversi sottouniversi, De Mauro ha calcolato che le prime 500
parole coprono l’80,4% di un
corpus di italiano parlato e il
78,1% di un corpus di italiano
scritto. Il 2,3% di differenza
ITALIANO
documenta comunque la maggiore varietà e specificità dello scritto; ma è significativo che, raggiunte le 2.500 parole più frequenti, le due cifre quasi si sovrappongano: 92,54% per il corpus di parlato e 92,45% per quello di italiano scritto.
Può cambiare però il rango all’interno dei due gruppi.
Nel parlato sono molto più frequenti verbi come scusare, succedere, significare,
legati a tipici moduli pragmatici («Scusami», «Che è successo?», «Che significa?»), o avverbi come praticamente, sicuramente, chiaramente, usati per attenuare un’affermazione («Praticamente la partita si è chiusa al primo tempo») o per
enfatizzare una dichiarazione di assenso («Non potevo che agire in questo modo»
- «Chiaramente»). Gli avverbi in -mente sono pesanti come carico sillabico: una
caratteristica che non hanno le parole che occupano i primi posti quanto a frequenza. Si tratta di parole immancabilmente brevi, come si ricava pensando alla
più comune formula di saluto confidenziale, ciao, ma anche ai suoi corrispettivi
in altre lingue, quali l’angloamericano hi o lo spagnolo hola.
Se ciao era una parola sconosciuta a Dante (si diffonde solo nel XIX secolo, dal
veneziano), la gran parte dei duemila vocaboli che costituiscono il lessico fondamentale è già contenuta nella Commedia dantesca, a dimostrazione della proverbiale stabilità della nostra lingua. Una prova a portata di mano: «Nel mezzo del
cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era
smarrita». In questi tre versi abbiamo stampato in corsivo le parole che rientrano
nelle 2049 censite da De Mauro per l’italiano di oggi: cioè quasi tutte. •••
> Lessico di frequenza dell’italiano parlato, di Tullio De Mauro e altri, ETAS Libri, 1993
> Le parole dell’italiano. Lessico e dizionari, di C. Marello, Zanichelli, 1996
> Grande dizionario italiano dell’uso, di Tullio De Mauro, UTET, 1999
> Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua, di Tullio De Mauro, Isabella Chiari,
Aracne, 2005
Foto: Bevis Fusha/Anzenberger/Contrasto
tecnologia della comunicazione
di Nicola Tramontana
La lingua ai tempi di Internet sta scoprendo un numero sempre
maggiore di modalità espressive, sostiene Gino Roncaglia,
docente di informatica applicata alle discipline umanistiche
all’Università della Tuscia. Il rischio che si corre, sostiene,
non è l’impoverimento del lessico, bensì l’abbandono di forme
complesse di ragionamento e di scrittura
tecnologia della comunicazione
C
redo che la domanda su ciò che sappiamo del modo in cui si è modificata la nostra lingua nell’incontro con i media digitali vada formulata
dividendola in base alle diverse situazioni di uso della lingua e ai diversi
strumenti utilizzati, dall’email alla chat, ai social network, ecc.» sostiene Gino Roncaglia, che come docente di informatica applicata alle discipline
umanistiche all’Università della Tuscia da tempo lavora sull’incrocio tra i nuovi
strumenti di comunicazione e i cambiamenti linguistici. «Io non condivido l’impostazione, seguita per esempio dal Cnr in un lavoro di qualche anno fa, che
tende a considerare Internet come uno strumento unico e alla comunicazione digitale come se fosse tutta dello stesso tipo. Porta a trarre delle conseguenze non
necessariamente corrette. A ciascuno strumento di comunicazione corrispondono invece registri linguistici e comunicativi diversi». Naturalmente ci sono casi
in cui strumenti nuovi utilizzano registri già collaudati, almeno in parte: «Per
esempio la posta elettronica riprende in parte i codici della forma epistolare. Però
ci sono anche molti
cambiamenti, dovuti a
uno scambio più rapido che porta a una sor"L’abitudine alla brevità rapidità, con la spinta
ta di neo-oralità». La
all’abbreviazione che
porta con sé, è certafinisce per imporre
mente un tratto comune, che però, di nuovo,
una
costruzione
più
si declina in modo differente a seconda del
debole dei testi.
contesto e del registro.
«I messaggi di stato dei
social network (oggi di
sicuro una delle cose
Quello che tende a
interessanti da studiare) hanno un carattere
ridursi è la scrittura
estremamente sintetico
e frammentario, però
complessa, ragionata"
spesso un livello di ricercatezza linguistica
maggiore rispetto a
chat, email e sms, che
sono tutte forme di comunicazione di tipo
privato, mentre i messaggi di stato hanno un carattere pubblico. Per i giovani,
però, questo è meno vero, perché anche sui social network hanno la percezione
di parlare all’interno della propria comunità». E la stessa neo-oralità, l’uso di un
linguaggio sempre più simile a quello parlato anche in comunicazioni scritte,
che è sembrata uno dei fenomeni più importanti, oggi secondo Roncaglia va in
parte ridimensionata. Perché nel giro di pochi anni sono cambiati gli strumenti
utilizzati e dalla prevalenza di sms e chat, più vicini alla lingua parlata, si è
passati ai social network, dove convivono tante forme diverse.
Creare un vero e proprio catalogo degli strumenti e delle forme di comunicazione, una sorta di matrice che dica le caratteristiche di ciascuno, sarebbe
dunque possibile, ma non così facile, perché ci sono molti intrecci e molte forme
di contaminazione. «I tweet come lunghezza sono paragonabili agli sms, però
hanno un carattere pubblico, mentre gli sms sono una comunicazione privata.
I sistemi di instant messaging possono essere in qualche modo tutti assimilati
alle chat. E così via» continua Roncaglia. «Ci sono le forme di comunicazione
scritta, ma anche quelle di comunicazione orale. Il modello di Skype è certamente quello della comunicazione via telefono e probabilmente nell’uso del
linguaggio non ci sono particolari varianti. Mentre invece se si guarda alla
tecnologia della comunicazione
comunicazione tra ragazzi che giocano insieme online, che sia scritta o orale è
comunque strettamente gergale. Poi ci sono contaminazioni: il linguaggio dei
blog ha sicuramente influenzato il linguaggio giornalistico, favorendo la diffusione di articoli che sono più l’espressione di opinioni personali, mentre all’inizio era vero il contrario, era il linguaggio giornalistico che aveva influenzato
quello dei blog, nati soprattutto come tentativo di costruire un proprio giornale
personale. Il post di un blog spesso è breve, ma talvolta si avvicina alla lunghezza dell’editoriale tradizionale.
Il blog è scritto in prima persona e questo uso forte della prima persona è una
caratteristica comune a molte forme di comunicazione attraverso la rete».
tecnologia della comunicazione
Ma è vero che c’è una certa omologazione del linguaggio, con l’uso diffuso di
formule standard e quindi in definitiva un impoverimento della lingua? Secondo Roncaglia, in parte sì, però c’è anche un grande aumento del numero di canali disponibili. «Piuttosto che dal punto di vista del lessico, vedo un problema
nella costruzione sintattica e ancor più in quella argomentativa. L’abitudine alla
brevità, comune a tutti questi canali seppure in ciascuno in forme diverse, finisce per imporre una costruzione più debole dei testi. Quello che tende a ridursi
è la scrittura complessa, ragionata. L’idea che ci siano dei temi che richiedano
un certo tempo, un certo spazio, per essere affrontati, tende un po’ a perdersi
rispetto alle 2 o 3000 battute del post di un blog. Questo ha a che fare non tanto
con la difficoltà di lettura di testi lunghi sugli schermi elettronici, in particolare
sul computer (benchè la qualità degli schermi ormai sia molto alta e i tablet restituiscono la possibilità di leggere muovendosi, o in poltrona e a letto) quanto
con le caratteristiche degli strumenti digitali e dei canali di comunicazione».
In sintesi, l’idea di Roncaglia è che «se c’è un cambiamento determinato dall’uso degli strumenti digitali, questo è soprattutto la moltiplicazione dei contesti
comunicativi e delle forme di comunicazione, che continuano ad aumentare nel
tempo». Un arricchimento, insomma. «Ci sono casi in cui lo spazio web diventa
tecnologia della comunicazione
addirittura una nuova palestra di uso della lingua. Per esempio c’è il fenomeno
interessante e vivace della fan fiction, fatta di comunità dedicate alla scrittura
di prosecuzioni o versioni alternative di libri noti o di storie ambientate in uno
specifico universo narrativo, da Twilight a Harry Potter o Sherlock Holmes. La fan
fiction è piuttosto diffusa tra i giovani e soprattutto tra le ragazze (quelle tra i 13 e
i 18 anni rappresentano il 70% del totale) e ha un effetto positivo di allargamento
delle competenze linguistiche. Forse dovrebbe essere seguita di più, per esempio dal
mondo della scuola». E ci sono anche altre opportunità. Wikipedia anziché essere considerata solo un’enciclopedia già scritta,
usata dai ragazzi soprattutto per fare “copia
e incolla”, potrebbe diventare uno strumento
"Se sai creare bene
per realizzare delle esercitazioni: sul modo di
etichette poi sai anche
scrivere una voce dell’enciclopedia stessa, sul
cercare bene informazioni,
controllo delle informazioni, sulla verifica di
perché sai metterti
quali siano le voci mancanti. «Noi lo facciamo
a livello universitario, ma si potrebbe estendere
nella testa di chi quelle
tranquillamente a livello di scuola superiore».
informazioni le classifica"
Un altro fenomeno importante è il miscuglio
delle forme di comunicazione, l’incrocio di foto,
testi, video in una multimedialità che prima di Internet non era possibile. Sarebbe
molto interessante andare a guardare il tipo di uso comunicativo che si fa di immagini e video, dice Roncaglia, ma, aggiunge subito, c’è un altro fatto importante
e poco considerato che l’uso delle immagini porta con sé: «Stiamo probabilmente
affinando le nostre capacità nell’uso classificatorio e descrittivo del linguaggio. Mi
spiego: quando usiamo un tipo di informazione non verbale, come una fotografia,
poi abbiamo bisogno di associare alla foto delle etichette, che consentano di individuarla e ricercarla, e questo è un uso particolare della lingua, fino a ieri riservato
ad archivisti, bibliotecari o curatori di musei. È un tipo di uso della lingua che richiederebbe probabilmente una formazione, che oggi manca».
Anche perché saper usare in questo modo il linguaggio potrebbe avere risvolti
importanti, dal momento che «vuol dire costruire un tipo particolare di competenza
linguistica che progressivamente diventa sempre più importante. Se sai creare bene
etichette poi sai anche cercare bene informazioni, perché sai metterti nella testa di chi
quelle informazioni le classifica. E la ricerca delle informazioni è un’altra situazione di
uso della lingua relativamente nuova: sapere come creare una ricerca funzionale a ciò
che si vuole trovare su Google è una forma di uso della lingua non banale».
•••
> Il parlar spedito. L’italiano di chat, email, sms, di Elena Pistolesi. Esedra Editore, 2004
> La lingua italiana nell’era digitale Lo studio pubblicato dal Cnr sul rapporto tra la nostra lingua
e le tecnologie digitali, www.meta-net.eu/whitepapers/e-book/italian.pdf
SOCIOLINGUISTICA
di Paolo Panella
SOCIOLINGUISTICA
Il lessico utilizzato dai giovani è la dimostrazione di una capacità
di giocare con la lingua che ogni generazione utilizza soprattutto
per identificarsi e distinguersi. Ecco perché il vero linguaggio
giovanile è quasi inafferrabile e sfuma appena lascia i confini
del gruppo a cui appartiene. Come racconta Michele Cortelazzo,
docente di linguistica italiana all’Università di Padova
P
rofessor Cortelazzo, si può davvero parlare di linguaggio
giovanile, o magari di linguaggi, al plurale?
C’è stato dibattito su questo, ma io credo che una cosa sia certa: si può parlare di un lessico giovanile. Ci sono alcune parole che sono tipiche della comunicazione tra giovani e che non fanno parte del patrimonio comune della lingua
italiana. Di solito si cerca di spiegarsi con degli esempi, ma la verità è che una delle
caratteristiche di questo linguaggio giovanile (chiamiamolo così, per semplicità,
anziché lessico) è proprio di essere alternativo a quello comune. Quindi nel momento in cui una parola comincia a diffondersi fuori dalla cerchia dei giovani, a quel
punto non è più una parola caratteristica dei giovani stessi. È una sorta di paradosso: se noi le conosciamo, vuol dire
che le parole del lessico giovanile
sono già fuoriuscite da quella che
è la loro funzione principale, vale
a dire di essere prima di tutto segnale di appartenenza al mondo
giovanile e in genere a uno specifico mondo giovanile. Perciò, in
realtà, è più giusto parlare di linguaggi, al plurale, dal momento
che solitamente ogni gruppo giovanile ha un suo lessico o per lo
meno alcuni elementi che lo caratterizzano.
Quando sono nati questi linguaggi giovanili?
L’esigenza dei giovani di avere un loro linguaggio nasce probabilmente con la nascita dei giovani stessi, intesi come categoria. Perché ci sia un linguaggio giovanile
bisogna che ci sia un gruppo giovanile che si caratterizza in quanto tale. E l’idea che
ci siano i giovani come categoria viene soprattutto dall’ultimo dopoguerra, quando
si è allargata moltissimo quella fascia di persone che non sono più bambini e non
ancora adulti, nel senso di persone che si guadagnano da vivere o, come sarebbe
SOCIOLINGUISTICA
meglio dire oggi, si danno da fare per guadagnarsi da vivere. Le prime tracce cospicue di linguaggio giovanile le abbiamo avute a partire dalla seconda metà degli
anni cinquanta e a Milano, proprio per il suo carattere di metropoli più avanzata
nel suo ruolo di ristrutturazione dei ruoli sociali, anche perché quello che prima
era sostanzialmente il linguaggio degli studenti, e particolarmente degli studenti
delle superiori, si stava dilatando e si estendeva agli universitari e a quella fascia
“di attesa” che si ha dopo l’università. Prima i linguaggi studenteschi avevano più le
caratteristiche di gergo in senso stretto, tipici di quelle realtà chiuse, come i collegi,
mentre non ci sono forti attestazioni di lessico giovanile come lo intendiamo noi,
qualcosa che sia anche libero e creativo e che si alimenta di continuo. Al di là delle
forme in cui si realizza, è un fenomeno comune a tutti i Paesi della cultura occidentale. Ce ne sono tracce ne Il giovane Holden, come prima attestazione letteraria. Poi,
per esempio, negli anni settanta accade un fenomeno molto interessante: il linguaggio giovanile scompare perché coincide con il linguaggio politico.
Da Dove nasce, da dove trae origine il lessico dei giovani?
Nasce, io dico, come nascono le barzellette: prima che una barzelletta si imponga
ne sono nate probabilmente altre cinque, magari prodotte dalla stessa persona, che
non hanno attecchito e delle quali non sapremo mai nulla. Quindi il lessico dei giovani nasce dall’inventiva culturale di un leader del gruppo che ottiene successo. E
uno dei bisogni del linguaggio giovanile è quello di rinnovarsi. Se è un modo per
distinguersi, i primi dai quali ci si vuole distinguere sono gli altri gruppi giovani
SOCIOLINGUISTICA
e in particolare quelli immediatamente precedenti. Quindi c’è il costante tentativo,
che a volte riesce e a volte no, di creare denominazioni sempre nuove con un processo che è di creazione inventiva, che viene condivisa. Ci sono parole straniere che
vengono adattate all’italiano, magari con altro significato; parole che già esistono e
alle quali viene dato un altro significato; parole che vengono deformate. Insomma,
ci sono alcuni modelli di composizione. Ogni generazione, o meglio ogni coorte
di giovani, utilizza un lessico che in piccola parte è quello creativo suo proprio e
per la maggior parte viene dalla tradizione del linguaggio dei gruppi giovanili che
l’hanno preceduta. La specificità di un gruppo è legata a quante “variazioni sul
tema” riesce a fare, quanto riesce ad aggiungere o a sostituire rispetto al lessico
tradizionale. E questo è legato anche alle altre forme comunicative, come la gestualità o le “protesi” comunicative come sono state in alcuni periodi il motorino, lo
zainetto, il lettore di mp3. Il giovane si caratterizza dal punto di vista dei simboli e
dei segnali, del modo in cui si veste, degli oggetti da cui si fa accompagnare, dalle
passioni musicali e dalla lingua: in genere un insieme in cui tutto si tiene.
Oltre a questa funzione di identificazione del gruppo, quali altre
funzioni assolve il linguaggio giovanile?
La prima è quella di identificazione del gruppo e di esclusione degli altri gruppi.
Quella che invece viene spesso vista come funzione “criptica”, di non farsi capire,
è una funzione secondaria. È indubbio che ci sia, ma è piuttosto una conseguenza.
Poi c’è una funzione di narcisimo della creatività, una funzione ludica e di divertimento che è molto forte, perché gran parte del lessico giovanile è fatto di trasformazioni e di giochi con le parole. E poi c’è anche una funzione espressiva, perché il
lessico giovanile non si occupa dell’universo mondo, non parla di tutto, ma sostanzialmente di scuola, di amore e sesso (spesso dimostrando un po’ dell’insicurezza
dei giovani, con l’uso ancora frequente di eufemismi per indicare gli organi sessuali, che non si citano con il loro nome), il mondo dello sballo, che forse attualmente
SOCIOLINGUISTICA
è quello che più trova spazio nel linguaggio giovanile. E poi c’è tutta un’area degli
apprezzamenti e deprezzamenti.
questo linguaggio Lascia traccia, o nasce e poi scompare?
Lascia traccia perché alcuni elementi diventano patrimonio condiviso della lingua
informale, basta pensare a parole come figo. Ma anche il successo di ciao è molto legato all’uso che ne è stato fatto dai giovani. Molto, però, si perde. Basterebbe
guardare il linguaggio giovanile messo insieme da Ambrogio Casalegno alcuni
anni fa per la Utet e controllare quante di quelle parole ciascuno conosce: pochissime. Quel che stupisce è che c’è un’altra cosa che si perde. Il linguaggio giovanile
è una ricchezza perché mostra creatività, magari un po’ anarchica, e capacità di
manipolare la lingua. Poi solo una piccola parte della popolazione dirotta questo
potenziale su usi più istituzionalizzati, come saper scrivere bene un articolo o un
post su un blog. È quasi come se questa forza creativa fosse patrimonio più del
gruppo che del singolo, e il singolo da solo non la sapesse più esprimere.
In un’epoca di globalizzazione, tende a globalizzarsi anche il linguaggio giovanile?
Sono stati individuati dei fenomeni di mistilinguismo accentuato e fittizio: giovani che proprio perché vivono in gruppi di diverse provenienze producono testi che
sono fatti di apporti di varie lingue. Specialmente l’Erasmus, in Europa, ha favorito
il contatto di giovani di lingue diverse e il linguaggio giovanile nasce e si sviluppa
soprattutto per contatto. è chiaro che dipende dalla globalizzazione, ma anche dal
fatto che le culture simili alla nostra hanno tutte un linguaggio giovanile e quindi
i giovani sono predisposti ad avere un loro linguaggio.
Il linguaggio ci dice qualcosa sui giovani che lo usano?
Io credo che sia possibile capire qualcosa, ma è ancora un’ipotesi di lavoro, soprattutto osservando di che cosa parla il linguaggio giovanile. Tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta la presenza di parole che riguardavano il
mondo della droga era più forte di adesso, mentre l’abbondanza di termini che
hanno a che fare con lo sballo più ingenuo, da ubriacatura, è tipica del periodo
a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. Però questa, ripeto, è
un’impressione e non viene da studi empirici fondati. C’è un grado di dispersione
degli ambiti semantici che rende difficile questa analisi. Perché esiste poi sempre
il problema di attingere a questi linguaggi per chi non fa parte del gruppo: ci
dobbiamo basare sull’autocompiacimento di chi appartiene ai gruppi, che magari lo porta a diffondere certi termini oltre il confine del gruppo stesso. •••
> Scrostati Gaggio. Dizionario storico dei linguaggi giovanili, di Renzo Ambrogio e Giovanni Casalegno,
Utet - Università, 2004
> I linguaggi giovanili, Gli atti del ciclo di incontri tenuti da linguisti sul tema dell’italiano e i giovani,
Accademia della Crusca, 2011
LETTERATURA MIGRANTE
di Pap Khouma
L’avventura linguistica di uno straniero arrivato in Italia come
ambulante e oggi scrittore nella nostra lingua, imparata tra
Lupo Alberto, Drive In, i cartelli stradali e le caserme della polizia
LETTERATURA MIGRANTE
E
•In apertura,
Pap Abdoulaye
Khouma, giornalista
e scrittore, è nato a
Dakar, in Senegal ed
è arrivato in Italia
nel 1984. Nel 1990
ha scritto con Oreste
Pivetta il suo primo
libro, Io, venditore
di elefanti, sulla
sua esperienza di
venditore ambulante
e immigrato
Foto:Alex Lorenzini
ravamo cinque ragazzi, quattro arrivati dal Senegal e uno dal Gambia,
non parlavamo l’italiano, eravamo tutti clandestini in Italia e non avevamo un lavoro regolare. Erano gli anni ottanta. Naturalmente i miei
amici e io parlavamo due o tre lingue (tra il francese, l’inglese, il wolof,
che è la lingua più diffusa in Senegal, o altre). Eravamo coscienti che imparare
in fretta l’italiano ci avrebbe permesso meglio di tirare avanti aspettando un’ipotetica regolarizzazione della nostra situazione giuridica e, dopo, trovare magari
un lavoro, uno stipendio, una casa. Tanti immigrati arrivati da adulti, come noi,
hanno imparato l’italiano oralmente, parlando con la gente, ascoltando la radio,
guardando la televisione.
Insieme avevamo comprato in Francia una Peugeot 504 di colore rosso. Giravamo
per le strade di Emilia-Romagna, Marche e Umbria dentro la nostra macchina con
la targa di Parigi. Nella macchina tenevamo i nostri vestiti e i prodotti artigianali africani che cercavamo di vendere per comprare benzina, mangiare e trovare
i soldi per poter dormire ogni tanto in qualche pensione economica. Lo spazio
era ridotto. Ero il più alto del gruppo di cinque sventurati e avevo le gambe più
lunghe perciò gli altri mi
concedevano di sedermi
a fianco del guidatore
di turno. Non avevo la
“In televisione sentivo
patente, come loro, però
«parlavo meglio l’italiano» e il posto davanti,
che era più spazioso per
la parola ‘minchia’.
allungare le gambe, era
anche più strategico per
Suonava bene e
leggere i cartelli stradali
e chiedere informazioni
cominciai a usarla
in italiano. Ma soprattutto toccava a me negoziare e giustificare la
nostra presenza illegale
in ogni circostanza”
sul suolo italico le volte
in cui venivamo controllati, fermati, arrestati, portati in caserma
dalle pattuglie di polizia, carabinieri, finanzieri o vigili urbani. In realtà parlavo
una lingua che sembrava una macedonia di parole in francese, spagnolo, italiano, inglese, ma non aveva nulla a che vedere con l’esperanto. I miei amici erano
convinti che se venivamo rilasciati senza troppe magagne era grazie alla mia
“macedonia sciolta” che spacciavo per italiano. Poiché la conoscenza della lingua
era una via d’uscita indispensabile, mi impegnai a migliorarla con i mezzi che
avevo a disposizione. Ascoltavo con più attenzione la radio della Peugeot rossa,
leggevo i giornali che qualche sconosciuto abbandonava in giro già nel pomeriggio, compravo fumetti usati: Lupo Alberto di Silver e Sturmtruppen del fumettista
antimilitarista Franco Bonvicini alias Bonvi. Quindi scoprivo una nuova lingua e
delle parole italiane nuove in maniera divertente e le traducevo in francese o in
wolof ai miei compagni.
Samba, il siciliano
Ho imparato tante parole italiane divertenti anche davanti alla televisione, soprattutto guardando insieme ai miei quattro amici Drive in, che andava in onda
al sabato sera su un canale televisivo del Cavaliere Silvio Berlusconi. Era una
serie di sketch di comici e di tante ragazze bellissime, con scollature vertiginose
e gonne millimetriche, che erano chiamate conigliette, come le ragazze della rivista Playboy. All’epoca avevamo l’alibi di essere tutti maschi e giovani. Quando
LETTERATURA MIGRANTE
guardavamo Drive in sentivamo la
parola minchia che veniva ripetuta
dai comici. Suonava bene alle orecchie e mentre i miei amici usavano
le parole cioè, però, caspita, io credevo che minchia fosse un intercalare ancora più raffinato. Così iniziai
a frapporla tra una frase e l’altra e
in ogni circostanza, per dimostrare con orgoglio al mio interlocutore che avevo finalmente imparato
bene l’italiano. Qualche tempo dopo
mio fratello Samba mi raggiunse
in Italia e mi impegnai a insegnargli l’italiano. Un giorno Samba, che
è molto scaltro, mi chiese in wolof:
«Fratello, sai cosa significa la parola minchia?». Minchia… non mi ero
mai posto la domanda e non so cosa
significa, dissi tra me e me. Samba
proseguì: «Fratello mio, tu non sai il
significato di questa parola!». Replicai con una menzogna: «Certo che
lo so. Parlo l’italiano meglio di te».
«Minchia è siciliano e ci sono circostanze in cui è meglio evitare… fratello», disse Samba.
Oltre a ignorare il significato, io non
sapevo neppure che fosse siciliano,
ma non lo dissi a Samba. Inoltre
pensavo ingenuamente che se veniva detta in televisione era una parola come un’altra.
Samba aggiunse: «Ho un amico siciliano e lui mi detto il significato…». In quel
momento passarono nella mia mente tutte le occasioni meno opportune in cui ero
stato orgoglioso di ostentarla: con poliziotti o carabinieri, nei momenti delicati,
dicevo minchia per dimostrare che dicevo loro la verità; all’impiegato dell’ufficio
postale, così per scambiare una battuta; per dire di cuore “grazie mille” ai preti
che ci davano una mano o al tranviere che mi aveva aspettato quei secondi in
più per farmi salire sul mezzo; era un modo per fare colpo su una ragazza appena
incontrata, dimostrandole che parlavo bene l’italiano; era un mio modo cordiale
per dire buongiorno o arrivederci di qua e di là. Una sera avevo incontrato una
signora di cui avevo sentito parlare con deferenza da nuovi amici. Era la prima
volta che incontravo un personaggio così importante da quando ero in Italia. Era
Rossana Rossanda. La mia autostima era balzata alle stelle. Cercavo di sedermi
vicino a lei prima e dopo cena e più di una volta avevo costellato le frasi della
LETTERATURA MIGRANTE
signora con minchia. Il fratello Samba era presente alla cena e non gli avevo lasciato lo spazio per dire una parola. Forse fu quella sera, quando uscimmo, che
mi fece la domanda: «Fratello, sai cosa significa la parola minchia… e tante altre
parole che usi a caso?».
Il monito di Samba era stato fondamentale, mi aveva spinto a usare il dizionario,
i manuali di grammatica italiana, le tavole dei verbi, ad ascoltare e a chiedere
il senso delle parole che sentivo per la prima volta e soprattutto a scoprire e a
leggere pian piano gli scrittori italiani, per citarne alcuni Pavese, Ungaretti, Calvino, Moravia, De Luca, Mafai, Baricco, Benni, Bobbio, Levi, Ginzburg.
Negli anni ottanta e in parte all’inizio degli anni novanta era difficile trovare un
corso serale dove si insegnava la lingua italiana per stranieri. In ogni caso era
difficile conciliare i tempi per mettere i documenti in regola, ricercare un lavoro o, quando andava meglio, affrontare i turni di lavoro e frequentare un corso
serale di lingua italiana. Bisognava arrangiarsi per imparare e parlare l’italiano.
L’attore e scrittore di origine senegalese residente da anni in Italia Mohamed Ba
racconta di avere imparato l’italiano ascoltando tutti i giorni Radio Maria, una
radio religiosa. I giornalisti di Radio Maria scandivano ogni parola come se fosse
una breve preghiera e lui ripeteva parola dopo parola.
LETTERATURA MIGRANTE
Lingue di qui e di altrove
L’immigrato dall’Africa subsahariana in genere è abituato a parlare più di una
lingua, tra cui una o due sono di origine europea. In Africa si contano attualmente più di 2000 tra dialetti e lingue. Alcune sono scritte da secoli (l’amarico,
il tigrinio, il tamazig, l’arabo… anche il wolof, il fulbe, lo haussa, lo yoruba, il
somalo, il gikuyu, ecc.) altre sono orali. La maggior parte dei paesi dell’Africa
Occidentale ha conquistato l’indipendenza dalle potenze europee, Francia e Inghilterra, tra il 1957 (Ghana) e il 1965 (Gambia). Senegal, Costa D’Avorio, Nigeria, sono diventati Paesi sovrani nel 1960 e tutti hanno conservato come lingua
ufficiale quella del colonizzatore: inglese, francese, spagnolo, portoghese.
In Senegal, la gente parla almeno due lingue tra wolof, peul, serere, francese, ecc.
Sono appena tornato dalla Guinea Conakry e tutte le persone che ho incontrato nella capitale parlano almeno queste quattro lingue: peul, malinké, soussou
e francese. Qui parliamo l’italiano imparato oralmente da adulti, inserendo il
nostro background linguistico culturale. Sono di madrelingua wolof, sono cresciuto in un ambiente in cui si parlano altre lingue africane, sono stato educato
nella lingua francese,
ma scrivo in italiano.
Quando scrivo racconti o poesie in italiano
"Parlavo una lingua
attingo, in maniera
cosciente o casuale,
alle figure retoriche
che appartengono alle
che sembrava una
tradizioni orali dell’Africa Occidentale. Nei
macedonia
di
parole
miei libri in italiano ho
colorato le descrizioni
in francese, spagnolo,
con francesismi e wolofismi. Ho stravolto le
strutture logiche delle
frasi, scompigliato la
italiano, inglese, ma non
sintassi a volte senza
farlo appositamente,
aveva nulla a che vedere
costruito dei neologismi italo-francesi,
con l’esperanto. I miei
italo-inglesi, inserito
tante parole in wolof,
peul: n’depp, rap, yaay,
waaw, maam, baay
amici erano convinti che
(n’depp è un rito accompagnato da canti,
se venivamo rilasciati
balli e tamburi per invocare gli spiriti, rap
era grazie alla mia
sono gli spiriti, yaay
vuol dire mamma,
macedonia sciolta che
waaw sì, maam nonno
o nonna, baay padre).
Conosco il wolof, perché è la mia lingua
spacciavo per italiano"
materna, perché la
parlo, ma la leggo con
fatica e tanto meno
la so scrivere perché
sono stato educato nella scuola francese. A questo proposito cito qualche esempio di “figure letterarie” o folcloristiche nella tradizione dei wolof e di altre etnie africane che sono spesso accompagnate da coristi, tamburi, musica. Il bakk,
si svolge durante le cerimonie di lotta sportiva. È un canto autocelebrativo per
intimidire l’avversario. Il bakk è come quando Mohamed Ali intimidiva i suoi
avversari prima e dopo i combattimenti dicendo più o meno: «I’m the greatest»
«Sei finito», ecc. Oppure, più esattamente, è simile all’haka dei maori che abbiamo visto eseguire dalla squadra degli All Blacks durante le partite di rugby allo
stadio. L’haka dei maori può essere definito un bakk senegalese perfetto. Il tagh è
un panegirico con delle rime sincopate indirizzate ai valorosi, agli eroi e anche ai
potenti di turno. Si possono anche dire e cantare temi provocatori, violenti, erotici,
LETTERATURA MIGRANTE
offensivi, blasfemi. Il tassu è più legato al folclore e viene esibito in occasione delle
danze di festa del matrimonio, del battesimo. Sono dei versi rimati che possono
essere leggeri o spinti, che fanno allusione all’amore e in maniera esplicita al sesso.
Il khakhar è una forma di tassu ma più provocatoria. I suoi versi, accompagnati o
no dal tamburo, cancellano i tabù nella lingua, infrangono le regole del galateo,
possono essere blasfemi e accompagnati da una mimica pornografica. Nell’occasione del khakhar è permesso prendere di mira una persona presente o un parente
e denigrarla, insultarla di fronte a un pubblico di tutte le età. Di regola la persona
presa di mira deve solo abbozzare. Tutto dovrebbe finire senza rancore.
L’italiano, una lingua “macedonia”
Questi e altri termini che sono radicati e legati a un contesto geografico e culturale molto ben definito, risultano difficilmente traducibili per lo scrittore di origine
africana che scrive nella lingua di Dante. Non è neppure facile tradurli in francese.
Quando scrivo in italiano o in francese lascio questi termini nella loro versione
originale (bakk, tassu, tagh, ndepp, rap…) e dopo spiego il significato al lettore. Ancorché il francese, lingua coloniale, ha il vantaggio o la sfortuna di avere
convissuto con il mosaico linguistico dell’Africa. Di fatto nei secoli, espressioni,
sintassi, lemmi africani e di altrove si sono in qualche modo inseriti nella lingua
di Molière e sono comunemente usati nelle letteratura e nelle poesie. Si possono
vedere e leggere i poeti della négritude che sono Leopold Sedar Senghor (Senegal),
Gontra Damas (Guyana), Aimé Césaire (Martinica). Oppure Amadou Kourouma
(Costa d’Avorio), Ampathé Ba (Mali), Sembene Ousmane (Senegal), Ferdinand Oyono (Camerun), ecc. Fino ad arrivare alla generazione attuale di scrittori e saggisti
francofoni dell’Africa subsahariana. Il professore Boubacar Boris Diop (Senegal),
che ha pubblicato tanti romanzi in francese, in seguito ha scritto un romanzo in
wolof, che è stato poi tradotto in francese. «Quello che il francese ha vissuto per
secoli (come l’inglese, lo spagnolo, il portoghese), l’italiano lo ha vissuto parallelamente all’interno con i suoi dialetti», scrive la professoressa Itala Vivan, studiosa
di cultura e di letteratura postcoloniali e massima esperta italiana di letteratura
africana. In realtà, l’italiano è una delle lingue più contaminate d’Europa. L’italiano
è una lingua “macedonia” con una fragranza di latino. Oltre ai neologismi francesi,
balcanici, tedeschi, turchi, russi e a quelli più recenti ma più irruenti in inglese,
la lingua italiana è stata nei secoli contaminata da lingue extraeuropee. Qualche
esempio di parole arabe, berbere, persiane divenute italianissime? Azzurra, carciofo, pigiama, caffé, valigia, cotone, magazzini, camicia, ragazza, divano, dogana,
zucchero, arance, facchini, sciroppo, alcol, caraffa, garbo, meschino, cifra, assassino, tara, tariffa, darsena, limoni, albicocche, algebra, algoritmo, zero, ammiraglio, aguzzino, tazza, baldacchino, zecca… •••
> El Ghibli, la rivista online di letteratura della migrazione diretta da Pap Khouma http://www.el-ghibli.
provincia.bologna.it/
>Noi italiani neri, di Pap Khouma, Baldini & Castoldi Dalai, 2010
ITALIANO
di Giuseppe Patota
Linguista, è docente di storia italiana
ed è autore di testi scientifici
e divulgativi sulla lingua italiana
ITALIANO
L'italiano all'estero conosce una diffusione sempre
maggiore e l'interesse per la nostra lingua è legato
soprattutto alla straordinaria cultura di cui è il veicolo.
Un'occasione per riscoprire l'importanza dell'italiano
all'interno dei confini e ripensare al suo rapporto
con le altre lingue del continente
A
ll’inizio del 2010 il Ministero degli Affari Esteri ha affidato a Claudio
Giovanardi e a Pietro Trifone il compito di valutare, attraverso un’inchiesta su scala mondiale, l’interesse che l’italiano suscita fuori dei confini nazionali. L’obiettivo, già dichiarato nel titolo della ricerca (Italiano 2010. Lingua e cultura italiana all’estero), era ed è quello di aggiornare i risultati
della precedente indagine Italiano 2000, a suo tempo affidata dallo stesso Ministero
a un gruppo di lavoro diretto da Tullio De Mauro e formato da Massimo Vedovelli,
Monica Barni e Francesco Miraglia. I risultati della nuova ricerca sono ancora in
corso di elaborazione, ma Giovanardi e Trifone ne hanno anticipato i più significativi in quattro diversi interventi. Da Italiano 2010 risulta che nel 2009-2010 gli
Istituti Italiani di Cultura hanno somministrato 6.429 corsi di lingua italiana: quasi il doppio rispetto ai 3.548 registrati dalla precedente rilevazione. Dall’indagine
è risultato anche che la motivazione che ha spinto gli utenti dei corsi a studiare
la nostra lingua è, ancor più che nel 2000, quella culturale: l’italiano si studia in
quanto lingua che veicola una grande, straordinaria cultura. Il che fa dire ai due
studiosi: «Oggi più di ieri, la crescita dell’interesse per la lingua italiana nel mondo
è in stretta relazione con la crescita dell’interesse per la cultura italiana […] si tratta
ITALIANO
di un messaggio importante, soprattutto di questi tempi, e sarebbe auspicabile che
i nostri politici ne tenessero conto». Ho poco da aggiungere a queste considerazioni, se non tre domande: quanta ricchezza produce la somministrazione di corsi di
lingua e cultura italiana in Italia e all’estero? Quanto potrebbe crescere il numero
dei turisti che vengono a visitare il nostro paese, e quanto il successo del made in
Italy, se si investisse di più nelle istituzioni che garantiscono il prestigio e la
diffusione della nostra lingua? Quanti
studenti provenienti da altri Paesi, interessati allo studio delle lettere e delle arti, potremmo attirare nelle nostre
università arricchendo e potenziando
il sistema di insegnamento dell’italiano agli stranieri, anche attraverso
vecchi e nuovi media? Naturalmente quella che sto indicando non è una
battaglia di retroguardia contro l’inglese, ma una battaglia d’avanguardia
per l’italiano.
In una campagna elettorale di qualche anno fa fu agitato uno slogan che proponeva una scuola scandita da tre i: inglese, Internet, impresa. Quando ne sentii parlare,
fui felicissimo: finalmente, pensai, si comincia a pensare a una scuola moderna,
aperta al plurilinguismo, ai nuovi media e alle esigenze del territorio. Poi ci ripensai. Purtroppo, chi aveva coniato quello slogan non aveva pensato a far precedere
queste tre i, che personalmente considero importantissime, da un’altra i, senza la
quale non c’è inglese, non c’è Internet, non c’è impresa che tenga: la i di italiano.
Senza una buona conoscenza della lingua nazionale i nostri giovani non potranno andare molto lontano. Personalmente creInsegnare l’italiano
do che le quasi quotidiane grida d’allarme sull’analfabetismo di
agli stranieri residenti
massa che colpisce i nostri studenti siano da ridimensionare, ma
non da sottovalutare. Senza una buona conoscenza, senza una
in Italia, o comunque
buona competenza nella lingua italiana i giovani che frequengravitanti intorno alla
tano le nostre scuole e le nostre università non potranno mai
nostra cultura, non è solo
raggiungere un livello apprezzabile di preparazione in nessuno
degli ambiti di studio in cui sono impegnati, né quel buon livello
un dovere civile ma anche
di conoscenza e competenza nella lingua inglese che il presenla premessa per una
te e il futuro richiedono: al contrario, finiranno coll’adoperare
convivenza più serena"
un italiano scorretto e un inglese approssimativo, o un composto un po’ indigesto dell’una e dell’altra lingua. Invece, bisogna
lavorare per una scuola in cui si insegnino e si imparino un ottimo italiano, un
ottimo inglese e anche una terza lingua diversa dall’italiano e dall’inglese. Non mi
sento un visionario; e se mai lo fossi, sarei in buona compagnia. Nel sito dell’Unione europea, infatti, si legge che la politica linguistica dell’Unione mira a tutelare
la diversità linguistica e a promuovere la conoscenza delle lingue. L’obiettivo è che
ogni cittadino europeo conosca almeno altre due lingue oltre a quella materna.
ITALIANO
Il problema è che fra i tanti poteri che l’Unione europea non ha c’è anche quello relativo all’insegnamento delle lingue seconde o terze nei vari Paesi: il contenuto dei
programmi di formazione, infatti, rimane compito esclusivo dei singoli Stati membri. Stando così le cose, la prima rivoluzione da fare è di ordine culturale, e dobbiamo farla noi insegnanti, mostrando ai nostri studenti che le tante lingue d’Europa
sono sì diverse, ma meno lontane fra loro di quel che saremmo portati a pensare se
non riflettessimo sulla loro struttura e sulla loro storia. Qualche esempio, tratto da
un libro di Alberto Nocentini programmaticamente dedicato all’Europa linguistica,
mi aiuterà a dimostrarlo. Prendiamo in considerazione una parola italiana come
classe. Il suo corrispondente spagnolo è clase, il corrispondente francese è classe,
quello inglese è class, quello tedesco è Klasse. Ripetiamo l’esperimento con cultura,
immagine, persona, storia: avremo cultura, imagen, persona, historia in spagnolo,
culture, image, personne, histoire in francese, culture, image, person, history in
inglese, Kultur, Bild, Person, Geschichte in tedesco. Ciò che emerge a prima vista
è che i lessici delle tre lingue neolatine sono sovrapponibili, che l’inglese concorda
con questi e che il tedesco se ne discosta sì, ma non sempre. Quel che unisce molte
lingue d’Europa, insomma, è più di quello che le divide.
•Il padiglione
dell'Italia alla Borsa
Internazionale del
Turismo.
Nella pagina
precedente, il
manifesto del Festival
del cinema di Buenos
Aires
Foto: Adriano Castelli/
Shutterstock/web
(manifesto Buenos Aires)
C’è poi un altro motivo che impegna tutti noi in direzione di un insegnamento più
esteso e approfondito della nostra lingua: è quello dell’integrazione. La ben nota
“questione della lingua”, per secoli al centro del dibattito intellettuale italiano, non
può considerarsi esaurita, ma solo mutata nei termini, nei contenuti e negli obiettivi: da questione letteraria che fu fino all’Ottocento, essa è andata via via spostandosi su un piano più generale, investendo anche la società e la politica. A partire
dalla seconda metà del XIX secolo essa si è concretizzata nell’obiettivo del “fare
linguisticamente gli italiani”, del tutto (o quasi del tutto) realizzato soltanto alla
fine del secolo scorso. La sua versione di oggi, “nuovissima questione della lingua”,
ITALIANO
s’identifica a mio avviso nel problema che segue: come favorire la conoscenza e la
diffusione della lingua italiana, premessa di qualunque possibile integrazione, tra i
lavoratori stranieri che contribuiscono alla crescita economica (e anche demografica) del nostro Paese? Il problema, come si può capire, è di ordine culturale, sociale
e politico. Non a caso se ne sono occupati a più riprese sia il Presidente Emerito
Carlo Azeglio Ciampi sia il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «La
prospettiva di chi viene in Italia per studiare e per lavorare» dichiarò il primo nove
anni fa «deve poter essere il conseguimento della cittadinanza italiana. Dovrebbe
essere possibile ottenerla in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto oggi, ma
condizionato ad alcuni fondamentali requisiti. Il primo di essi non può che essere la
conoscenza, sufficiente e certificata, della lingua italiana». Qualche tempo dopo il
secondo ha scritto della necessità di aiutare «cittadini di altri Stati a inserirsi nella
nostra cultura, attraverso gli atti comunicativi più semplici, quelli che passano attraverso il buongiorno e la buonasera, parole che aprono e chiudono una giornata
di fatica quotidiana, accompagnata, forse, anche da qualche grazie ricevuto e dato».
Alla fine del secolo scorso, in un intervento dedicato a Identità linguistica e unità
degli italiani, Luca Serianni segnalava che quella «di espandersi di là dal gruppo di
parlanti originari, diventando il secondo idioma per alcune popolazioni del bacino
mediterraneo […] e per gli immigrati nel nostro Paese» era, per la nostra lingua,
«un’occasione da non perdere: insegnare l’italiano agli stranieri residenti in Italia,
o comunque gravitanti intorno alla nostra cultura, non è solo un dovere civile ma
anche la premessa per una convivenza più serena». Il saggio di Serianni è del
1997. A distanza di sedici anni, le sue parole assumono un valore profetico, e invitano a sostenere tutte le iniziative che possano favorire la conoscenza e lo studio dell’italiano, nel mondo e in Italia.
•••
> Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta
Maraschio e Domenico De Martino, Laterza, 2012
> La questione della lingua per gli immigrati stranieri. Insegnare, valutare e certificare l’italiano,
a cura di Monica Barni e Andrea Villarini, Franco Angeli, 2001
> Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della cerimonia di
consegna dei Diplomi di certificazione della Società Dante Alighieri a studenti stranieri, Roma, Palazzo
del Quirinale, 24 settembre 2004 www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/Ciampi/dinamico/
discorso.asp?id=25365
> Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso fra stranieri, di Tullio De Mauro,
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Lorenzo Miraglia, 2002
> A che punto è lo studio dell’italiano fuori d’Italia?, di Claudio Giovanardi, Pietro Trifone, in
Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Storia della lingua e storia dell’Italia Unita.
L’italiano e lo Stato nazionale, Atti del IX Convegno ASLI, a cura di Annalisa Nesi, Silvia Morgana,
Nicoletta Maraschio, Cesati, 2011, pp. 353-371
> La nuova questione della lingua, Saggi raccolti da Oronzo Parlangèli, Paideia, 1971. Nicoletta Maraschio,
2011, pp. 353-371
> L’Europa linguistica: profilo storico e tipologico, di Alberto Nocentini, Le Monnier, 2002
> La diversità linguistica: riflessione teorica e sfida civile. Introduzione, in Lingue e diritti umani, a
cura di Stefania Giannini e Stefania Scaglione, Carocci, 2011, pp. 23-39
Illustrazione: Lele Corvi
linguaggio scientifico
di Maria Luisa Villa
Insegna Patologia generale
alla facoltà di Medicina
dell’Università di Milano
linguaggio scientifico
La possibilità di
trasmettere rapidamente
i concetti della scienza
si può ottenere più
facilmente con l’uso
di un idioma comune
come l’inglese.
Ma questa è solo una
delle funzioni del
linguaggio: la ricchezza
di sfumature della
propria lingua madre
è indispensabile per
orientarsi all’interno
delle proprie mappe
mentali. Ecco perché
anche la scienza va
studiata in italiano, con
cui abbiamo imparato
a parlare, spiega una
docente universitaria
che da anni ha avviato
una riflessione su
questo tema con
i propri studenti
C
ontrariamente all’opinione comune, che le
vede come oggetto di studio privilegiato
per letterati e filosofi, il confronto più serrato con le lingue naturali è stato impegnato per secoli dagli uomini di scienza. La lingua
degli scienziati è altrettanto varia e fantasiosa di
quella ordinaria (basta pensare a un termine come
quark), ma ne differisce perché in essa le parole
diventano termini, dotati di un valore tendenzialmente preciso.
La creazione di una terminologia è il cuore del
linguaggio scientifico ed è alla base delle grandi
classificazioni tassonomiche degli esseri viventi (a
partire da Linneo), nonché della riforma della nomenclatura chimica, realizzata sul finire del XVIII
secolo da Lavoisier. I termini favoriscono una comunicazione efficace, capace di superare agevolmente le barriere nazionali e tendono a generare l’illusione che il linguaggio della
scienza sia indifferente alle singolarità
delle lingue storiche. In realtà sia la
scienza che la tecnologia continuano
ad avere bisogno delle lingue naturali
per essere comprese dagli uomini. «Nessun matematico pensa per formule» affermò
con incisiva brevità Albert Einstein, e Werner Heisenberg in Fisica e Filosofia, commentava: «Questa
intrinseca incertezza del significato […] ha portato
alla necessità delle definizioni[…] Ma le definizioni
possono venir date solo con l’aiuto di altri concetti e
così in definitiva è necessario appoggiarsi ad alcuni
concetti che sono presi come sono, non analizzati
e non definiti». In breve, la scienza ha un rapporto
complesso con il linguaggio: essa esige di trasformare le parole in termini e simboli di significato
univoco, ma per creare i termini, per definirne e
aggiornarne il significato, dipende dalla ricchezza
imprecisa delle parole comuni. Il linguaggio scientifico, codificato e ripetitivo, è utilissimo nel lavoro
quotidiano e nelle descrizioni che non coinvolgono concetti nuovi e cognitivamente impegnativi.
La comunicazione non esaurisce però la funzione
delle lingue, che servono anche per elaborare le
proprie idee, con un impegno tanto maggiore
quanto più alta è la ricchezza speculativa e il
potenziale innovativo delle stesse.
linguaggio scientifico
•Qui sopra, una
lezione in inglese
all'università:
l'inglese è utilizzato
in tutte le imprese
scientifiche
internazionali,
dall'esplorazione
dello spazio (nella
pagina seguente
l'astronauta italiano
Luca Parmitano)
alla fisica delle
particelle (nella
pagina successiva,
il Premio Nobel
Carlo Rubbia).
Foto: Babak Tafreshi,
Twan/SPL/Tips
Andrea Merola/Splash
News/Corbis
In ogni disciplina, i momenti creativi sono contrassegnati dalla ricerca talvolta
tormentosa delle parole capaci di descrivere cose mai immaginate prima e di riplasmare la nostra visione del mondo. Se ha successo, questa ricerca arricchisce
il linguaggio e genera le metafore fondanti della chimica, dell’evoluzione, della
genetica, che implicano una percezione intuitiva della somiglianza nella diversità
e permettono di esplorare un campo di conoscenza nuovo, usando un campo noto
come mappa. La consapevolezza acuta e quasi dolorosa della difficoltà di trovare le
parole giuste per descrivere “in modo definito” realtà non direttamente sperimentabili, risuona nelle famose parole di Niels Bohr: «Siamo sospesi nel linguaggio. Non
sappiamo ciò che è giù e ciò che è su. Nelle nostre lingue europee ci sono oggetti ben
definiti, rappresentati dai nomi, che interagiscono tramite forze e campi, rappresentati dai verbi. Questo linguaggio però rispecchia il mondo newtoniano: non è adatto
a comprendere il mondo della fisica quantistica».
Nel terreno incerto dove nascono i nuovi concetti, la scienza riscopre così le singolarità delle lingue storiche e le loro connessioni con il patrimonio culturale che le
alimenta. Qui le lingue non si equivalgono e, per ciascuno di noi, quella materna
ha una superiore capacità di dar corpo ai pensieri e trasformarli in parole chiare.
Alla maniera di una bussola, la lingua nativa orienta le idee all’interno delle mappe
mentali, costruite per comprendere, assimilare e trasformare la realtà.
Come il nome di una piazza richiama al residente, con una precisione irraggiungibile per il nuovo arrivato, l’immagine del reticolo di vie che se ne diramano, così
nella lingua nativa una parola ne veicola altre ad essa associate, con una ricchezza
linguaggio scientifico
di collegamenti che una lingua secondariamente appresa difficilmente ricrea. È
suggestivo ricordare come Einstein, secondo molte testimonianze, commutasse
spesso la lingua delle sue esposizioni, e tornasse dall’inglese al tedesco, quando la
discussione scientifica toccava un punto interessante e difficile, come la spiegazione di alcuni aspetti cruciali della relatività.
Le neuroscienze confermano le peculiarità della lingua madre e sottolineano che
la sua acquisizione, diversamente dall’apprendimento successivo di nuove lingue, avviene insieme all’assimilazione di conoscenze concettuali,
sensoriali e normative, che lasciano una traccia cerebrale documentabile. In una pregnante riflessione sui problemi di comprensione interlinguistica, il premio Nobel per la chimica Harold Kroto ricorda che il
cane (dog) che lo impauriva da bambino era irrimediabilmente diverso
dal chien incontrato sui libri nei quali faticosamente e con dubbio successo aveva tentato di imparare il francese. Ad ogni livello, come studente
o come studioso, le operazioni intellettuali che richiedono l’assimilazione
di nuovi concetti e nuovo sapere si giovano del ruolo strutturante della lingua
madre, che consente una padronanza cognitiva virtualmente impossibile in una
seconda lingua.
Questa realtà sembra essere ignorata da chi propone di adottare l’inglese come lingua franca esclusiva dell’istruzione superiore. Milita a favore dell’anglificazione la
realtà della scienza attuale, dove le nuove parole e i nuovi stili retorici sono
inglesi e dove le espressioni in altre lingue si possono usare, entro i confini
nazionali, purché abbiano un facile equivalente in inglese. I ricercatori finiscono per sentirsi a casa nella lingua inglese perché la lettura quotidiana è in
inglese, i metodi e i reagenti hanno nomi inglesi, e spesso il lavoro di ricerca
è condiviso con lontani laboratori, dove tutti parlano in qualche modo l’inglese. I
limiti del vissuto di familiarità appaiono però evidenti quando i
ricercatori non anglofoni devono trovare le giuste parole
e le frasi del mestiere per trasferire
con chiarezza il proprio pensiero da una lingua all’altra. È nella
verbalizzazione che si svelano la
povertà e l’approssimazione cognitiva nella comprensione dei testi ed
è qui che si palesa la distanza tra la
generica convinzione di avere capito e il reale livello di appropriazione
del testo. Pur avendo studiato su libri
scritti in inglese, e pur essendo capaci di
capire e parlare
questa lingua, quando arrivano
alla stesura del
loro primo lavoro
in inglese, molti giovani
linguaggio scientifico
ricercatori sperimentano
la difficoltà di padroneggiarne i modelli mentali
e di comprendere i riferimenti e le citazioni implicite che compaiono nelle
parti meno tecniche e più
discorsive della letteratura
scientifica. «Le nostre menti sono piene di idee grezze, di pensieri subliminali e
di spiegazioni parziali […]
è nel processo di verbalizzazione richiesto per una
riunione di lavoro o nella
scrittura di un testo che le
nostre idee diventano reali»
afferma in un articolo di qualche anno fa il premio Nobel per la chimica Roald
Hoffmann. L’uso esclusivo di una lingua appresa secondariamente rischia di essere una zavorra che mortifica la possibilità di accesso alle risorse più vive della
mente, perché non fornisce l’ambiente cognitivo che esse reclamano. Fa ombra
alla riflessione sull’argomento la diffusa convinzione che il possesso della lingua madre sia un bene gratuito e che essa si possa accantonare e ritrovare ogni
qualvolta occorra. In realtà una lingua non più usata è condannata alla rapida
atrofia. Gli scienziati non ne sono solo utenti, ma contribuiscono, ciascuno nel proprio dominio, a plasmarla e a rinnovarla ogni giorno, nel momento stesso in cui la
usano. Nel volgere di pochi anni l’italiano, espulso dall’istruzione e dalla ricerca,
perderebbe la capacità di esprimersi nel dominio scientifico. Nessuno potrebbe allora più ricorrervi per superare i passaggi cognitivamente difficili. Anche la narrazione della scienza, necessaria per divulgare in modo diffuso le nuove conoscenze,
diventa inefficace se il linguaggio non intercetta l’universo culturale dei destinatari. Questo è un punto cruciale perché lo scambio di informazioni, che fino
a pochi decenni addietro avveniva quasi esclusivamente tra i membri della
comunità scientifica, coinvolge ora a vario titolo l’intera società ed esige l’uso
di una lingua comune, adatta a comunicare in modo pervasivo le conoscenze necessarie al funzionamento della società. Molti temi come l’atomo, l’ambiente,
il genoma, con i loro correlati etici, pongono problemi che dominano il dibattito
collettivo, trasformandosi spesso in quesiti referendari. Gli scienziati non possono
ignorare questi problemi e sono chiamati a dedicare una rinnovata attenzione ai
problemi del linguaggio e della lingua usata per comunicarli.
•••
> L’inglese non basta. Una lingua per la società, di Maria Luisa Villa, Bruno Mondadori, 2013
linguistica computazionale
Che cosa hanno a che fare lo stile di un autore
e l’analisi di un testo con i programmi che
comprimono i file? Si può davvero capire chi ha
scritto un libro solo grazie a un modello statistico?
Storia e promesse della linguistica computazionale
linguistica computazionale
I
linguaggi sono sistemi estremamente complessi, tutt’altro che statici o immobili nel tempo. I linguaggi nascono, si evolvono, si mescolano tra di loro, si
trasformano e a volte muoiono, scomparendo. I linguaggi sono fatti da parole
e anche le parole hanno una loro vita che segue e si adegua agli eventi sociali,
storici e di opinione. Linguisti, semiotici, filologi, neuroscienziati e linguisti computazionali, solo per citarne alcuni, si sono dedicati allo studio del linguaggio, di
come si apprende, di come si evolve e di come si trasforma. Ma da qualche tempo,
e sempre più spesso, anche i matematici si sono avvicinati a tali questioni, per cercare di comprenderle, per crearne dei modelli e per misurarne quantitativamente
i fenomeni e i processi coinvolti. Un testo, per esempio un libro o un romanzo, è
(almeno per un matematico, ma non solo) una stringa/sequenza unidimensionale
di caratteri, presi da un alfabeto fatto di lettere, numeri e caratteri particolari (lo
spazio incluso). Ovviamente la sequenza è ben lungi dall’essere aleatoria, le lettere
si mettono insieme per motivi fonetici, le sillabe si uniscono per vincoli sintattici e grammaticali, le parole sono legate (correlate, in termini più rigorosi) grazie
alla semantica, all’argomento, alla storia che si sta raccontando. Il tutto condizionato dalla scelta dell’autore che seleziona le parole e il loro ordine anche in funzione dello stile e del suo animo. Interpretare e comprendere automaticamente il
linguaggio scritto, estrarne i contenuti e catalogarne l’informazione contenuta è
l’obiettivo principale della linguistica computazionale e degli esperti di Natural
Language Processing (NLP). Questo lavoro è fortemente dettato e condizionato da
naturali esigenze pratiche dettate dal recente “boom digitale”. Ma vi sono altre questioni, forse più fondamentali, che ricercatori provenienti da diverse aree si stanno
ponendo e investigando. Per esempio se sia possibile misurare lo stile di un autore.
Se sia possibile che, al di là dell’argomento e della storia che sta raccontando, ciascun autore lasci una traccia, una sua impronta digitale che sia possibile misurare
e che ci permetta di riconoscerlo. Insomma, possiamo capire chi sia l’autore di un
testo semplicemente misurando delle quantità contenute nel testo? E possiamo
studiare, anche matematicamente, lo stesso processo creativo che porta a un testo
scritto? Possiamo capire come si è evoluto un testo classico, un testo sottoposto
a diverse versioni dal suo autore, tramandato nei secoli attraverso operazioni di
copiatura (si pensi agli amanuensi), spesso non prive di interventi e di modifiche,
linguistica computazionale
a volte casuali, a volte volute? Non è del tutto assurdo
che certi argomenti vengano
affrontati con occhi puramente (o quasi) matematici.
Creatività significa generazione di nuove strutture,
originali e coerenti, ottenute
combinando elementi essenziali (le parole ad esempio)
attraverso regole. Ma la generazione di strutture è esattamente quello che un matematico studia e fa quotidianamente (più o meno, diciamo) e alcuni di noi ritengono
che certi aspetti legati alla creatività, allo “stile” (qualunque cosa significhi) e a concetti simili possano essere tradotti in modelli, quantificati e misurati. Ovviamente
dire che ogni autore possiede uno stile unico e riconoscibile, misurabile precisamente in ogni sua opera, non è solo una dichiarazione scientificamente scarsa, ma
probabilmente anche del tutto errata. Però non si può negare che in ogni processo
creativo nulla viene veramente generato dal nulla e ogni processo di creazione di
un qualche contenuto (come un testo) è il risultato di una complessa interazione
tra l’esperienza e le capacità dell’autore sviluppate nel tempo, tra ciò che l’autore
ha creato fino a quel momento e l’argomento di cui sta parlando, il suo desiderio di
essere originale e certamente anche molti altri elementi.
“Creatività
Proprio per questo non è del tutto folle immaginare che
significa
esistono certi pattern che caratterizzano lo stile dell’augenerazione di
tore, celati all’interno di ogni sua opera. Quasi certanuove strutture,
mente questo non sarà sufficiente per individuare e dioriginali e
scriminare l’autore rispetto al resto dell’universo, ma
coerenti, ottenute
probabilmente (ed è quello che accade in realtà) quecombinando
sti pattern sono sufficienti per identificare e distingueelementi
re l’autore all’interno di un numero finito e coerente di
elementari
possibili autori. Più precisamente, noi pensiamo che cerattraverso regole”
te quantità astratte, un poco più generali delle usuali strutture semantiche o sintattiche (ad esempio, le parole), contengano in effetti quella informazione necessaria per discriminare
un autore da altri. Questo è essenzialmente l’obiettivo della cosiddetta Authorship Attribution, un’area di ricerca piuttosto antica, oggi all’intersezione tra
filologia, informatica e, per noi, matematica e fisica. Uno dei passi cruciali nella storia, ormai piuttosto lunga, di questa disciplina risale al lavoro del fisico americano Thomas Corwin Mendenhall (1841-1924), che nel suo articolo The characteristic curves of composition del 1887 fu attratto dalla similarità
tra le distribuzioni statistiche delle lunghezze delle parole (quante parole ci sono
lunghe 1, 2, 3 caratteri, e così via) e gli spettri generati da quella che era una
tecnica innovativa e molto discussa nel XIX secolo, l’analisi spettroscopica.
linguistica computazionale
•Platone, Antonio
Gramsci
e William
Shakespeare
sono tre casi di
autori ai quali è
stata applicata
la linguistica
computazionale
per definire
l’attribuzione delle
opere o, nel caso
del filosofo greco,
definire la loro
cronologia.
Foto: Platone e Shakespeare/
Photos.com; Gramsci/
Contrasto
Ora si è capito che se si vogliono affrontare problemi quale il riconoscimento dell’autore o l’analisi dei suoi sentimenti o del suo stato d’animo è utile abbandonare la
parola quale elemento fondamentale del testo e rivolgere l’attenzione alle sequenze
arbitrarie di caratteri. Assumere che un testo è “solamente” una sequenza di simboli significa non tenere in considerazione il contenuto del testo o i suoi aspetti
grammaticali: lettere dell’alfabeto, segni di interpunzione, spazi tra le parole sono
soltanto simboli astratti, senza una gerarchia. Questo approccio trova le sue radici nella Teoria dell’Informazione e ha aperto significative promettenti prospettive.
La Teoria dell’Informazione, nata nel 1948, è quella teoria che risolve il problema
di definire matematicamente il contenuto di informazione di un messaggio, per
esempio un testo o più generalmente una sequenza arbitraria di simboli. Nel 1948
Claude E. Shannon determinò esattamente il contenuto di informazione di un messaggio come il numero minimo di bit necessari per trasmetterlo completamente
Quanti bit fanno una lettera?
L’unita di misura dell’informazione è il
bit; la misura dell’informazione quando
si sceglie tra due elementi alternativi:
on/off, aperto/chiuso, giusto/sbagliato,
vero/falso, 0/1 (che sono i due simboli
matematici del sistema binario). Con un bit possiamo esprimere due
diverse affermazioni; con due bit,
possiamo “esprimere” quattro lettere
(nel sistema binario: 00, 01, 10, 11); con
tre bit possiamo descrivere otto lettere,
e cosi via. Il contenuto informativo
rappresentato da otto bit e detto byte; con
un byte è possibile rappresentate 28 =256
lettere differenti e con 256 possibilità
tutto l’intero alfabeto di un linguaggio
occidentale può essere codificato;
infatti le lettere (incluse le maiuscole, le
lettere accentate, i numeri e i simboli)
sono sempre meno di 256. è possibile immaginare le codifiche più
strane, ad esempio per la sequenza TTT
TTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTT
TTTTTTTTTTTTTTTTTT (50 volte T) , il
contenuto di informazione è di 400 bits
se codifichiamo il messaggio usando
l’alfabeto latino (50 lettere per 8 bit per
ogni lettera), mentre è solo di pochi bit
se la codifichiamo con un linguaggio di
programmazione che dice “scrivi T 50
volte”. La domanda è quindi: qual è il vero
contenuto informativo della sequenza?
linguistica computazionale
e introdusse il concetto di entropia di un messaggio come il numero minimo di
bit per caratteri necessari per trasmettere tale informazione.
Può sembrare un po’ esotico, ma in effetti tutti noi usiamo quotidianamente
dei programmi, degli algoritmi, che automaticamente cercano di determinare il
numero di bit minimo necessario: sono i cosiddetti compressori o zippatori (ad
esempio Winzip, Gzip o Bzip2). L’evoluzione di queste idee ha portato allo sviluppo di algoritmi per l’attribuzione di un testo a un autore basati proprio sull’idea
di comprimere l’informazione di un testo usando (in poche parole) le informazioni dei possibili autori che si conoscono. Più precisamente, sviluppando le idee di
Shannon è possibile ottenere degli strumenti efficienti per affrontare il problema
dell’Autorship Attibution. Per esempio il concetto di entropia relativa.
Ma a questo punto, almeno dal punto di vista matematico, la vicenda diventa un
po’ complicata ed è forse più utile soffermarsi su qualche esempio concreto. I casi
famosi di attribuzione d’autore che coinvolgono testi e autori classici sono numerosi, ma tra tutti emblematico è forse il caso di Platone che ha rappresentato,
per secoli, stimolo allo sviluppo di diversi approcci all’attribuzione. Fu proprio lo
studio dell’ordine cronologico dei Dialoghi di Platone che nel 1897 portò il filologo Wincenty Lutoslawski a introdurre il termine e il concetto di stilometria, misurando e studiando numerose costruzioni linguistiche riscontrabili all’interno
dei testi del filosofo.
Le biblioteche digitali
Siamo sommersi da un diluvio digitale: ogni giorno milioni di persone scrivono email,
chattano, taggano, bloggano, producendo un’enorme quantità di dati digitali, spesso
sotto forma di informazione testuale. Informazione che narra storie, esprime opinioni,
riporta dati, scatena accesi dibattiti, ecc. D’altra parte, esiste un enorme patrimonio
digitale di testi classici e letterari, disponibili ed accessibili a tutti. Per esempio Progetto Gutenberg (http://www.gutenberg.org): un progetto iniziato
nel lontano 1971 con l’obiettivo di creare un'enorme biblioteca digitale, liberamente
accessibile. Attualmente raccoglie migliaia e migliaia di testi scritti, non solo in inglese,
e rappresenta uno dei patrimoni digitali sulla letteratura (contemporanea e non) più
importanti. Liber Liber (http://www.liberliber.it) è un progetto di biblioteca digitale
interamente italiano, avviato nel 1994. Attualmente contiene diverse migliaia di testi,
prevalentemente classici della letteratura italiana ma anche - con l'autorizzazione dei
detentori dei diritti - alcune opere contemporanee. Thesaurus Linguae Graecae (TLG,
http://www.tlg.uci.edu) è il più importante corpus digitale di testi greci antichi. Progetto
iniziato nel 1972 dalla Università californiana di Irvine. Infine, Perseus Digital Library
(http://www.perseus.tufts.edu) è una libreria digitale: iniziata nel 1985, contiene un
importante patrimonio di testi in greco ed in latino ed è dotata di numerosi strumenti
per la navigazione e l'esplorazione dei documenti.
linguistica computazionale
Fu ancora il problema della cronologia degli scritti di Platone che portò
David Roxbee Cox e Leonard Brandwood nel 1959 a caratterizzare lo stile essenzialmente attraverso la statistica delle cinque ultime sillabe di ciascuna frase,
evidenziando differenze quantitative ad esempio tra La Repubblica e le Leggi.
Ma forse il salto più significativo avvenne nel 1989 quando Gerard Ledger,
ignorando completamente la sintattica e la semantica delle parole, pubblicò
Re-counting Plato: A computer Analysis of Plato’s Style, dove introdusse metodi
e criteri specifici per l’analisi del testo attraverso strumenti informatici. È proprio a cavallo dell’inizio del nuovo secolo che l’analisi quantitativa si consolidò,
anche con la convinzione che i testi contengano all’interno delle strutture matematiche che possono essere (matematicamente) descritte. Un esempio più recente
è quello del riconoscimento di articoli anonimi, probabilmente scritti da Antonio
Gramsci. Su iniziativa della Fondazione Istituto Gramsci qualche anno fa si formò un gruppo di ricercatori per affrontare, con tecniche matematiche e quantitative, il problema di riconoscere scritti di Gramsci all’interno di un corpus di
articoli anonimi pubblicati tra il 1913 e il 1926 su quotidiani con i quali Gramsci
collaborava (Il Grido del Popolo, Avanti!, La Città Futura e altri) per offrire agli
studiosi altro materiale (presumibilmente) gramsciano. Partendo da un corpus
di testi certamente scritti da Gramsci è stato così sviluppato un metodo legato
alle frequenze di sequenze di caratteri e alla teoria degli algoritmi di compressione che ha permesso di definire una serie di strumenti di calcolo in grado di
misurare e quantificare la similarità di stile esistente tra i testi. Questo metodo,
insieme a una serie di test controllati, ha portato alla creazione di un algoritmo
per la misurazione della “gramscianità” di un testo di notevole efficacia, che è
stato poi applicato all’analisi di centinaia di articoli anonimi e che ha permesso
di svelare un numero cospicuo di articoli riconosciuti come gramsciani e offerti
all’analisi degli studiosi. È ancora ben lontano dall’essere un metodo universale,
però ha permesso anche di affrontare una lunga disputa su scritti contesi tra due
padri fondatori della cristianità del IV secolo, Gregorio di Nissa e suo fratello San
Basilio Magno. •••
L’algoritmo che racconta i cambiamenti
Giorno dopo giorno si diffondono sofisticati strumenti per l’analisi dei testi digitalizzati
e per lo studio dell’evoluzione dei linguaggi. Primo fra tutti il recente Google Ngram
Viewer (http://books.google.com/ngrams): un simpatico strumento grafico che permette
di seguire l’evoluzione nel tempo dell’uso di parole, combinazioni di parole o intere frasi
(ngrams). In continua crescita, con un database iniziale di 5,2 milioni di libri digitali
(prevalentemente in lingua inglese), originariamente pubblicati tra il 1500 e oggi,
Google Ngram Viewer permette di riportare su dei grafici la frequenza di uso di una o
più parole date, e di svelare così sia fenomeni di evoluzione del linguaggio sia fenomeni
legati al diverso uso delle parole, anche in relazione a eventi sociali o storici. Immagino
possa essere un interessante strumento per curiosi esperimenti anche in una classe.
ENIGMISTICA
di Ennio Peres
Matematico, divulgatore
scientifico ed enigmista,
preferisce definirsi "giocologo".
È autore di molti libri sui
giochi linguistici e matematici
PARLARe è un po'
ENIGMISTICA
I modi per divertirsi con la lingua sono moltissimi, anche
se tutti i giochi possono essere raggruppati in poche,
semplici categorie. Ciascun tipo di gioco, poi, può essere
declinato in infiniti livelli di difficoltà. Compreso il classico
cruciverba, che può diventare un percorso a enigmi
L
e parole costituiscono un insuperabile strumento ludico, non solo per
il vastissimo assortimento con cui è possibile reperirle, ma anche per
le loro caratteristiche peculiari. Una parola, analogamente a ogni altro
simbolo di comunicazione, è contraddistinta dall’unione di due principali
elementi: il significante (la forma ortografica che assume la parola); il significato (il contenuto semantico trasmesso dalla parola). L’associazione tra significato
e significante non è legata ad alcuna legge naturale, come dimostra la grande
varietà di idiomi parlati sulla Terra. Di conseguenza, soprattutto nelle lingue basate su un alfabeto, è possibile che più significanti corrispondano a uno stesso
significato. Per esempio, ragionare – meditare –
ponderare – riflettere – considerare hanno tutti il
medesimo significato di pensare; abitazione – alloggio – dimora – domicilio – residenza hanno il
medesimo significato di casa. È anche possibile,
però, che a uno stesso significante corrisponda
potenzialmente più di un significato, come nel
caso di aria, che significa espressione apparente
– miscuglio gassoso, inodore e insapore – motivo musicale oppure capitale, che significa molto
importante – somma di denaro – città principale
di uno Stato. In linea di massima, i giochi linguistici possono essere suddivisi in due principali categorie: giochi di parole, che richiedono
di agire sul significato o sul significante delle
parole (indovinelli, crittografie, rebus, anagrammi, metagrammi, Scrabble, Paroliamo, Ruzzle, e
così via); giochi con le parole, che vengono effettuati, manipolando degli insiemi di parole, senza modificarne il significato o il
significante (acrostici, lipogrammi, tautogrammi, crucipuzzle, cruciverba, Abaco–
zuzzerellone, Blablabla, Taboo, e così via). La categoria dei giochi di parole può
essere suddivisa, a sua volta, in tre gruppi: giochi sui significati, che sfruttano
essenzialmente i potenziali significati attribuibili alle parole, indipendentemente
da come devono essere scritte; giochi sui significanti, che richiedono di agire
sulla struttura ortografica delle parole, senza entrare nel merito dei loro possibili
significati; giochi misti, che ricorrono, in misura variabile, a entrambi i meccanismi precedenti.
•••
ENIGMISTICA
ENIGMISTICA
ENIGMISTICA
Le potenzialità del Cruciverba
Il gioco con le parole più praticato e conosciuto nel mondo occidentale, in base a sondaggi
attendibili, risulta essere il cruciverba. Gli enigmisti più intransigenti, però, non lo amano
molto in quanto, a loro parere, il procedimento risolutivo non richiede alcun tipo di ragionamento, ma solo uno sforzo mnemonico. A parte il fatto che la memoria è una componente
fondamentale dell’intelligenza, in genere è necessario elaborare delle considerazioni logiche
per riuscire a completare lo schema di un cruciverba non banale. In assoluto, comunque, è
sempre possibile trasformare una qualsiasi potenziale definizione in un piccolo enigma da
risolvere. Se un’impostazione del genere viene esasperata, la soluzione del gioco diventa
piuttosto ardua, come nel seguente esempio, dove ogni definizione è costruita su un doppio
senso, più o meno criptico.
> L’ultimo libro di Ennio Peres, È l’Enigmistica, bellezza! Lettere e cifre per allenare la mente, Ponte
alle Grazie, 2012.
> Il cruciverba più difficile del mondo e altri giochi enigmistici online di Ennio Peres, www.parole.tv/
xw/cruciperes.asp.
eppur si muove
di Donato Ramani
Un semplice computer messo a disposizione di bambini
e ragazzi là dove ogni forma di istruzione manca può
diventare il punto di partenza di un modo nuovo di
apprendere e trasmettere conoscenza.
È l’avventura di Hole in the Wall, che dalle periferie
urbane dell’India ha raggiunto altre aree del mondo
in cui l’istruzione fatica ad aprirsi un varco.
E adesso vuole proporsi come vero progetto educativo
I
•In queste pagine
alcune immagini
dell'esperienza di Hole
in the wall in India.
Nella pagina seguente,
Sugata Mitra in mezzo
ai bambini davanti a
una postazione.
Foto: Sugata Mitra, NIIT
Limited,
India and Newcastle
University, UK
l primo esperimento si svolse nello slum di Kalkaji,
Delhi. Correva l’anno 1999 e Sugata Mitra, da Calcutta, fisico di formazione e uomo assai curioso, allora impiegato presso la NIIT Ldt, compagnia pubblica dedicata alle tecnologie dell’informazione, assieme ad
alcuni colleghi volle mettere alla prova lì, in un contesto
dei più disagiati, un’idea coraggiosa. Verificare cioè le
potenzialità di un approccio pedagogico innovativo,
oggi battezzato Educazione minimamente invasiva, basato su dinamiche del tutto diverse da
quelle universalmente adottate. I concetti fondanti che caratterizzavano quella prima impresa erano pochi ma sconvolgenti: bambini
protagonisti e indipendenti, niente adulti
in giro, nessuna valutazione, nessuna
costrizione ma, anzi, libertà assoluta
di azione. Oltre a uno strumento del
tutto fuori contesto: un computer
inserito in una cabina posizionata in
uno spazio pubblico e costruita per
permetterne l’uso solo ai più piccoli: «I bambini dello slum di Kalkaji non
avevano mai visto un computer, non
conoscevano Internet, non parlavano l’inglese, a malapena andavano a
scuola. Ciò che scoprimmo allora e in
tutti gli esperimenti che si sono succeduti negli anni è che, semplicemente, i
bambini imparano ciò che vogliono imparare, ovvero ciò che gli interessa» ha
spiegato Sugata Mitra. Le immagini di un breve video tratto da quel primo test valgono
più di mille spiegazioni: mostrano un bambino di otto anni che, nelle parole di Mitra «insegna alla sua studentessa di sei come si fa a navigare in rete». Senza tutor, senza istruzioni, ma con la semplice curiosità e la collaborazione reciproca i bambini di Kalkaji erano
diventati in poco tempo dei navigatori provetti. Con buona sintesi l’iniziativa fu denominata Hole-in-the-Wall che significa, letteralmente, buco nel muro. Un buco che da quel
primo test, Mitra e l’organizzazione HiWEL (Hole-in-the-Wall-Education-Limited), nata
nel 2001, hanno saputo riempire negli anni di ricerche e risultati raccolti negli angoli più
remoti dell’India, dagli slum delle grandi metropoli alle zone rurali del Sud Africa o della
Cambogia. Verificando ogni volta che i ragazzi, in gruppo, indipendentemente da chi fossero e dove si trovassero, imparavano a utilizzare il computer da soli, in pochissimo tempo, capendone le potenzialità, ricavando le informazioni per loro interessanti e utilizzando
le funzionalità. Un esempio? Dopo sole quattro ore un gruppo di ragazzi di un villaggio
del Rajasthan era stato in grado di registrare la propria musica e di riascoltarla tutti insieme. Fu su questa base che partì un progetto decisamente più ambizioso, che affonda
le radici in un’osservazione dello stesso Sugata Mitra: «In ogni Paese ci sono luoghi in cui
eppur si muove
non esistono buone scuole e in cui i buoni insegnanti non vogliono andare. Eppure è proprio
lì che una buona educazione è davvero necessaria». È ancor più vero nei Paesi in via di
sviluppo. Il contesto indiano, dove l’iniziativa è nata, rappresenta in questo senso un ottimo esempio. In una popolazione che supera abbondantemente il miliardo, gli sforzi che
il governo ha messo in campo per assicurare un’educazione elementare a tutti i bambini
dai 6 ai 14 anni sono stati imponenti ma purtroppo ancora inefficaci. «Un sogno ancora
lontano» lo definiscono Ritu Dangwal e Suman Gope dell’organizzazione HiWEL in un loro
articolo apparso sulla rivista IJEDICT (International Journal of Education and Development
using Information and Communication Technology). Povertà e pregiudizi ancora presenti,
600.000 villaggi in cui strutture e personale docente sono totalmente inadeguati favoriscono il precoce abbandono della scuola da parte dei ragazzi. Secondo le ricerche, nel
2005 erano 40 milioni i bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni che non andavano a
•Laboratori di writing
e graffiti di Sfreno,
programma di
attività per gli
adolescenti
e giovani adulti.
Foto: archivio Mammut
eppur si muove
scuola, un quinto del totale. Si tratta soprattutto di bambine, di ragazzi lavoratori, disabili o cresciuti in contesti disagiati, di giovanissimi appartenenti alle classi più basse della
popolazione, spesso ancora emarginate per ragioni culturali.
Un network di bambini che imparano
Le nuove tecnologie o, per meglio dire, i sistemi
educativi basati sull’ICT vengono visti da tempo come un’alternativa possibile, funzionale,
efficace ed economicamente sostenibile contro
l’analfabetismo. L’approccio di HiWEL e di Sugata Mitra, nel frattempo diventato professore
di Tecnologie dell’Educazione all’Università di
Newcastle, si è mossa proprio su questa strada,
percorrendola però con mezzi e approcci che
rivedono radicalmente l’intero processo didattico. «Una nuova pedagogia», così è stato descritto il nuovo modello. Negli anni, le strade, i
luoghi pubblici, i cortili delle scuole dell’Asia e
dell’Africa hanno visto il fiorire di centinaia di
Hole-in-the-Wall-Education-Limited
Learning Station, postazioni con una serie di
computer equipaggiati con materiale didattico
di ogni tipo a coprire un vasto spettro di discipline: dalla matematica all’inglese alle scienze
sociali all’alfabetizzazione informatica. Ad utilizzarli, dicono le ricerche, sono soprattutto i
ragazzi delle classi più indigenti che, scrivono
Dangwal e Gope, «non solo imparano a chattare, mandare e-mail, giocare. Ma acquisiscono
anche un’istruzione di carattere formale». Il tutto in un contesto collaborativo, da pari a pari.
Perché ognuno impara dall’altro, ogni bambino
costruisce «un network di persone creato apposta per ottenere informazioni e acquisire nuove
competenze di carattere educativo, sociale, informativo ed emotivo».
Attorno alle Hole-in-the-Wall-Education-Limited Learning Station si sviluppa, in sostanza, un ambiente in cui ogni bambino è un attivo “produttore di significati”, fluido e informale, in cui l’adulto è estromesso dalla stessa architettura della stazione perché un
coperchio costruito all’altezza giusta impedisce a chi è troppo cresciuto di approcciarsi ai
PC. L’«Educazione minimamente invasiva» teorizzata da Mitra, insomma, costruisce un’isola a misura di bambino, donandogli uno spazio proprio che non solo aumenta la sua
istruzione colmando le lacune lì dove il sistema non riesce adeguatamente ad arrivare.
Ma agisce sull’elemento più prezioso e raro, quello che il contesto scolastico, culturale,
sociale non è in grado di trasmettere, causando ulteriore emarginazione: la motivazione
a imparare. Un processo che permette di sviluppare anche un altro fattore: la cosiddetta
eppur si muove
self-regulation, intesa come la capacità di pianificare, monitorare e modificare il sapere,
di gestire e controllare i propri sforzi per raggiungere l’obiettivo e infine di imparare, ricordare e capire. Un’abitudine all’autogestione che avrà influenze positive non solo sulle
performance didattiche ma anche sul comportamento come individui inseriti in un tessuto sociale nel presente e nel futuro. Che poi i ragazzi lasciati a loro stessi con le Learning
Station siano stati capaci di raggiungere obiettivi insperati, imparando concetti anche di
grande complessità, ci sono una quantità di esperimenti a dimostrarlo.
“I ragazzi delle classi
Grazie ai risultati raggiunti, l’esperienza di HiWEL ha
più indigenti non solo
superato altri confini - nel 2011 è sbarcata in Bhutan
imparano a chattare,
e ha raggiunto anche la Repubblica Centrafricana e lo
mandare e-mail, giocare.
Zimbabwe - e si è arricchita di nuove collaborazioni.
Ma acquisiscono anche
Come quella con Stichting Child Tuition, organizzaun’istruzione di carattere
zione olandese per la lotta all’analfabetismo con cui
formale”
sono state condotte con successo delle sperimentazioni per l’insegnamento dell’inglese attraverso software appositamente costruiti nello slum di Delhi così
come nel villaggio tribale di Hemalkasa. Mentre altri progetti stanno portando l’esperienza acquisita con Hole-in-the-Wall all’interno delle pareti della scuola, come supporto
alla didattica ma anche come un modo davvero nuovo di interpretarla. È questa la strada
che lo stesso Sugara Mitra sta perseguendo oggi, testandolo nelle scuole di tutto il mondo. Organizzazione in gruppi, ognuno con un computer a disposizione, e alcune grandi
domande a cui trovare risposta: questo l’approccio. Una variazione del modello Hole-inthe-Wall che, negli esperimenti dello studioso, hanno dato frutti importanti nell’apprendimento a breve e a lungo termine.
Protagonisti della propria educazione
Curiosità, motivazione, collaborazione, approccio peer-to-peer, assieme alle potenzialità
di Internet, nella visione di Mitra sono gli ingredienti di un mondo nuovo, di un’istruzione
nuova, in cui l’educazione è un sistema che si auto-organizza, in cui l’adulto ha la funzione di guida supportiva e incoraggiante, e non più minacciosa, nell’aiutare il ragazzo a
indagare delle domande intriganti e a trovare, da solo, le risposte. E un sistema in cui l’apprendimento è un fenomeno emergente, come una semplice e naturale conseguenza. È il
Self-Organized Learning Environment (SOLE), un’evoluzione del modello educativo sperimentato per le strade della periferia del mondo, sviluppato dal vulcanico Mitra e pronto a
scuotere dalle fondamenta l’istituto scolastico. Del resto, parole sue, «è molto di moda dire
che il sistema educativo come lo conosciamo è a pezzi. Non è a pezzi, anzi: è costruito meravigliosamente. È solo che non ne abbiamo più bisogno. È superato». È tutto? Nemmeno
per sogno. Un’altra idea ancora più azzardata, con cui Mitra ha conquistato il TED Prize
2013 e l’ammontare di un milione di dollari, è già bell’e pronta: «Ciò che voglio fare ora è
contribuire a disegnare il futuro dell’apprendimento supportando i ragazzi di tutto il mondo
a immergersi nel loro innato senso di meraviglia e lavorare insieme». E per far questo vuole
cominciare da un primo passo: la costruzione di una School in the Cloud, «un laboratorio
dell’imparare, dove, in India, i ragazzi possano imbarcarsi in imprese intellettuali facendosi
coinvolgere e connettendosi con le informazioni e gli educatori online». Una scuola virtuale, insomma, dove i bambini, ovunque si trovino, ricchi o poveri, possano farsi protagonisti
eppur si muove
della loro educazione, lavorando in gruppo e indipendentemente, trovando nella rete e con
un mentore in remoto la soluzione alle proprie domande. Sarà questa la strada per un’educazione più egualitaria e più moderna, a portata di tutti? È presto per dirlo. Quel che è
certo è che quest’avventura, iniziata 14 anni fa, lì dove la società sembrava essersi arresa,
forse ha trovato un nuovo inizio, dalle potenzialità davvero rivoluzionarie. •••
La nuova sfida: provarci tutti, ovunque
>Si chiama SOLE, Self-Organized Learning Environment, ed è la nuova idea
di Sugata Mitra. Per capire cos’è, forse, è più semplice dire come funziona:
«Un SOLE nasce ogni qualvolta docenti e genitori incoraggiano i ragazzi
a lavorare in gruppo per rispondere alle loro impellenti domande usando
Internet».
In questo modo, secondo i suoi creatori, la caccia alla risposta si
trasformerà in un vero viaggio intellettuale, molto più utile e formativo
del semplice apprendimento mnemonico.
SOLE, in realtà, è molto più di questo. Un laboratorio globale, così viene
descritto, e anche un test su vastissima scala, con cui tutti, ovunque,
possono mettersi alla prova per poi spedire il proprio feedback
a Sugata Mitra e agli altri studiosi. L’invito, in effetti, è più che esplicito:
«la parte più importante di questo esperimento è il feedback che
riceveremo da chi metterà in pratica questo approccio».
Per questo, online (www.ted.com/pages/sole_toolkit) è a disposizione un
kit apposito da scaricare, con tutte le istruzioni per testare questo nuovo
modello didattico, vedere come funziona, raccogliere esperienze, risultati
e riflessioni. Da condividere poi collegandosi all’indirizzo www.ted.com/
solefeedback e compilando le apposite sezioni.
Tra tutti coloro che parteciperanno inviando le loro opinioni saranno
selezionati fino a tre vincitori che si guadagneranno ciascuno un viaggio
per due persone (un educatore o un genitore più un bambino) per assistere
al TEDYouth 2013 che si terrà il 16 novembre 2013 a New York.
> Il sito di Hole-in-the-Wall www.hole-in-the-wall.com
> La pagina Facebook di Hole-in-the-Wall http://on.fb.me/RlfXi5
> Pagina dedicata alla SOLE challenge http://www.ted.com/pages/sole_challenge#download
> Pagina da cui scaricare il SOLE toolkit http://www.ted.com/pages/sole_toolkit
> Descrizione del progetto School in the Cloud http://www.ted.com/pages/prizewinner_sugata_mitra
> Servizio della CNN su Hole-in-the-Wall http://edition.cnn.com/video/#/video/world/2009/02/22/sidner.
india.slumdog.inspiration.cnn?iref=videosearch
> Lista delle pubblicazioni su Hole-in-the-Wall http://www.hole-in-the-wall.com/Publications.html
BENCHMARK
benchmark
N
egli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni si sono susseguiti profondi cambiamenti sociali ed economici, molti dei quali sono ancora in corso
e hanno esiti molto difficili da prevedere e da interpretare. La crisi finanziaria degli ultimi anni ha considerevolmente modificato le prospettive di crescita e di sviluppo delle società avanzate, ponendo al centro dell’attenzione la qualità
del capitale sociale di ciascun Paese. È ormai evidente ai più che l’aggravamento della
crisi economico-sociale degli ultimi anni richieda paradigmi nuovi per trovare possibili
soluzioni, salvaguardando i traguardi fondamentali che le moderne economie avanzate
hanno raggiunto nel secolo appena concluso.
Valutare la qualità dell’istruzione è un tema molto complesso e richiede la considerazione di aspetti diversi e di natura differente.
Tuttavia, è opinione diffusa, specie a livello internazionale, che qualsiasi valutazione non possa prescindere
da una solida misurazione degli esiti di apprendimento degli studenti, siano essi giovani studenti o adulti
in formazione, di qualsiasi tipo essa sia. Tale istanza è divenuta ancora più rilevante nel momento
in cui l’Italia, come molti altri Paesi, ha adottato
provvedimenti normativi volti alla riorganizzazione del sistema scolastico nazionale basandolo sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche. In questo contesto, già
a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si sono affermate ricerche comparative internazionali.Le più
importanti e le più conosciute sono
quelle promosse dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) e
dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico),
finalizzate alla misurazione dei livelli
di competenza degli studenti della
scuola primaria e secondaria
in alcuni ambiti di disciplinari, ossia le cosiddette
competenze di base fondamentali per l’esercizio dei
diritti di cittadinanza attiva, principalmente riconducibili alla comprensione della
lettura della lingua scritta, alla
matematica e, talvolta, alle scienze naturali. La partecipazione dell’Italia a queste ricerche è sempre stata
assidua, anche se le effettive ricadute sul sistema sono state modeste, se non addirittura
irrilevanti. Negli ultimi anni si è assistito a un’inversione di tendenza con la pubblicazione
di rapporti periodici e l’organizzazione di attività di formazione sui contenuti specifici
delle ricerche stesse. Nelle rilevazioni internazionali spesso l’Italia si colloca sotto le medie
internazionali e tali divari paiono aumentare quando si passa dalla scuola primaria a quella secondaria. Gli esiti
delle rilevazioni della IEA
e dell’OCSE mettono in
luce un quadro con molte
“Già a partire dal
ombre e poche luci, specie negli ambiti scientifici,
ma non solo.
2014, sarà possibile
Emerge con tutta evidenza che in un contesto
valutare gli esiti degli
comparativo internazionale il sistema scolastico
apprendimenti
italiano fatica a produrre
buoni livelli di competendegli studenti non
za, dimostrando quindi
la necessità di disporre di
misurazioni comparativamente solide per comsoltanto ogni anno
prendere gli esiti effettivamente prodotti dalla
separatamente,
ma
scuola italiana. A partire
dagli ultimi anni del deanche potendo
cennio appena trascorso
l’Italia si è dotata di un
servizio nazionale per la
rilevazione degli apprencogliere linee evolutive
dimenti di base mediante prove standardizzate.
e di sviluppo"
Esso mette a disposizione di ogni scuola, oltre
che dell’intero sistema
scolastico nazionale, anche nelle sue articolazioni regionali, dati comparativamente solidi e dettagliati. Inoltre, a
partire dall’anno scolastico 2012-13 l’INVALSI restituisce a ciascuna scuola gli esiti delle
prove nazionali anche in una prospettiva di valore aggiunto, ossia al netto dell’effetto del
contesto socio-economico-culturale in cui opera ogni istituzione scolastica.
In questo modo le scuole possono valutare in modo più appropriato l’esito del proprio operato, focalizzando la propria attenzione prevalentemente su fattori sui quali
esse possono agire e che non costituiscono, invece, variabili esogene e pertanto praticamente immodificabili. La realizzazione di un sistema nazionale per la rilevazione degli
apprendimenti ha rappresentato nel panorama italiano un elemento di forte innovazione, certamente ancora incompleto e con alcuni aspetti che hanno bisogno di ulteriori
aggiustamenti, in grado di fornire al Paese un’infrastruttura immateriale per promuovere l’innalzamento dei livelli di competenza degli studenti italiani. La costruzione del
sistema nazionale di valutazione ha rappresentato e rappresenta una sfida sotto diversi
punti di vista, non da ultimo quello metodologico-statistico. Per la prima volta su scala
nazionale sono state costruite prove secondo standard tecnico-scientifici adottati in
ambito internazionale, basati su rigorose metodologie psicometriche e statistiche.
Esse sono costruite all’interno della cornice definita da quadri di riferimenti pubblici
e oggetto di continue riflessioni e revisioni. Tali documenti sono fondamentali per la
comprensione del portato informativo delle prove proposte dall’INVALSI, valutandone
potenzialità e limiti, anche in confronto con quanto previsto dalle Indicazioni nazionali.
Nonostante le rilevazioni realizzate dall’INVALSI siano oggetto di un acceso dibattito
all’interno del sistema scolastico, raramente esso arriva a toccare realmente il contenuto delle prove e i criteri secondo i quali esse sono costruite. La costruzione di prove
oggettive standardizzate è il frutto di un lungo e delicato processo, sovente non com-
benchmark
pletamente conosciuto anche da molti degli utilizzatori delle prove stesse e dai diversi
soggetti che operano nel mondo della scuola e della formazione in generale.
Pochi realmente sanno che la formulazione di una prova standardizzata rivolta potenzialmente a centinaia di migliaia di studenti è l’esito di un lavoro profondamente e realmente interdisciplinare che coinvolge esperti con formazione ed esperienze specifiche
e molto differenti tra di loro. Non sempre è noto che la costruzione di una prova standardizzata richiede grandi sforzi e tempi piuttosto lunghi, mai inferiori ai 15-18 mesi, e
il rispetto di una procedura molto articolata. Per favorire l’allargamento del dibattito a
tutti gli aspetti connessi alle prove e al loro utilizzo l’INVALSI ha iniziato a promuovere
eventi, trasmessi anche via web, per ampliare l’accesso alla discussione, anche critica,
su temi così importanti e cruciali per lo sviluppo del sistema scolastico nazionale. I sistemi nazionali di valutazione sono, per definizione, strutture molto complesse e di non
facile gestione. Essi richiedono continui aggiustamenti e potenziamenti per fornire al
sistema scolastico, in tutte le sue articolazioni, informazioni solide e utili e, soprattutto, in grado di rispondere a istanze che cambiano rapidamente lungo diverse direttrici.
Come qualsiasi sistema di misurazione, anche il sistema nazionale di valutazione deve
essere costantemente monitorato per verificare che esso non produca delle distorsioni
ed eventualmente correggerle. L’approvazione del regolamento istitutivo del Sistema
Nazionale di Valutazione, finalizzato alla valutazione complessiva delle scuole e non
solo degli apprendimenti, rappresenta un notevole impulso per l’intero processo di valutazione delle scuole, al quale l’INVALSI dovrà fornire adeguate e convincenti risposte.
Per limitare l’attenzione alla rilevazione degli apprendimenti, l’INVALSI sta realizzando,
anche con la collaborazione del mondo accademico, l’ancoraggio diacronico delle prove
nazionali e l’ancoraggio tra le prove nazionali e quelle internazionali. Ciò renderà possibile nel giro di un paio d’anni, e già a partire dal 2014, di valutare gli esiti degli apprendimenti degli studenti non soltanto in una prospettiva sezionale, ogni anno separatamente, ma anche longitudinale, potendo quindi cogliere linee evolutive e di sviluppo.
In questo modo sarà pienamente a disposizione del Paese una vera infrastruttura sulla
quale basare, anche se ovviamente non in via esclusiva, linee d’intervento, fondate su
un solido riscontro empirico, volte all’innalzamento dei livelli di competenza dei giovani
italiani, favorendo quindi la crescita economica e sociale collettiva. Già da tempo l’istituto sta inoltre sperimentando la costruzione di nuove prove per la misurazione entro
breve degli apprendimenti nell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado e
di altri ambiti disciplinari (ad esempio l’inglese e le scienze naturali) rispetto a quelli
rilevati finora, ossia la comprensione della lingua scritta e della matematica. •••
> Leggi online il testo integrale di Roberto Ricci http://link.pearson.it/70C6FBCFù
> Un primo esperimento sullo studio diacronico dei risultati della prova nazionale INVALSI al termine
del primo ciclo di istruzione in Italia, di Patrizia Falzetti e Roberto Ricci, Induzioni, 21-34, 43, 2011
> La misurazione del valore aggiunto nella scuola, di Roberto Ricci, Collana Workingpaper della Fondazione
G. Agnelli, 2008
> Il senso delle prove, di Roberto Ricci, Paolo Sestito, La voce.info, http://www.lavoce.info/articoli/pagina
1003164.html
> Le prove standardizzate, di Roberto Ricci, L’Indice della scuola, 12, III, 21-23, 2011
> The global achievement gap, di Tony Wagner, Basic Books, 2008
BENCHMARK
Una crisi nascosta e allarmante investe l’Europa e l’Italia: l’analfabetismo
funzionale, quello di chi decifra un testo ma non sa comprenderlo davvero.
In Italia tre persone su quattro rischiano di finire in questa situazione.
Ma ci sono molti modi per intervenire, a cominciare dalla scuola
benchmark
L’
esperienza insegna quanto la capacità di leggere - che presuppone, ma non coincide, con quella di decifrare un testo - sia decisiva per orientarsi nel mondo e
partecipare in modo attivo alla vita sociale. Eppure il traguardo di una adeguata e
diffusa competenza alfabetica funzionale, definita dall’Ocse come la «capacità di
capire e usare l’informazione presente in testi stampati nelle attività quotidiane, a casa, sul
lavoro e nella vita sociale, per raggiungere i propri obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze
e potenzialità», è ancora da raggiungere, anche nei paesi avanzati. A fare il punto sui livelli
di literacy in Europa e proporre misure d’intervento è il recente Rapporto finale sul letteratismo, elaborato da un gruppo di esperti di alto livello nominato della Commissione Europea.
Nel Rapporto il neologismo “letteratismo”, che traduce il termine inglese literacy utilizzato
nei test Pisa, designa la competenza alfabetica funzionale così come descritta dall’Ocse.
Il documento prende le mosse da un’evidenza allarmante e inattesa: un europeo su cinque
non sa leggere e scrivere adeguatamente, risulta cioè incapace di interpretare e gestire in
modo competente e critico le informazioni.
Foto: racorn/shutterstock
L’analfabetismo
funzionale
in Europa
qu
a
reg
no u
nit
o
danimarca
svezia
hio?
risc
a
o
son
i
z
az
ag
r
i
nt
i
finla
ndia
09
irland
a
300
yd
el
P
litu
ani
a
finlandia
8,1%
estonia
13,3%
lettonia
17,6%
lituania
24,3%
svezia
17,4%
danimarca
15,2%
regno unito
irlanda
18,4%
paesi bassi
17,2%
polonia
14,3% germania
15%
18,5%
belgio
Percentuali di quindicenni
rep. ceca
17,7%
con punteggio inferiore al
23,1% rep. slovacca
lussemburgo
livello 2 nei test di literacy
22,3%
26% austria
del Pisa 2009
ungheria
romania
francia
27,5%
17,6%
40,4%
19,8%
slovenia
21,2%
bulgaria
italia
41%
spagna
portogallo
21%
19,6%
17,6%
grecia
21,3%
ia
polon
ia
gar
ul
cia
gre
nia
slove
gio
b
malta
36,3%
rom
ani
a
a
nci
fra
rep. ceca rep. slovacc
a
u
nghe
ria
paesi bassi
400
st d
i li
ter
ac
onia
lett
portogallo
di n
ei t
e
ia
on
est
na
spag
500
20
a
ell
d
za
an
t
r
po
Risul
tati
me
i
600
sa
l’i
m
di arrows & Letters
a
omic
n
o
c
ee
zion
i
d
con
studenti svantaggi
ati
studenti benest
a nt
be
l
italia
germ
ania
austria
lus
se
m
b
urg
o
Livelli linguistici e culturali in Italia
Il recupero del nostro Paese
Forme di analfabetismo
nel nostro Paese
15
Competenze alfanumeriche
nella popolazione
di 16-65 anni
italia
paesi avanzati
10
OcSE; IALS-SIALS, 2000 e 2005
5
La partecipazione
alle forme di cultura
A New Data Set of Educational Attainment in the World, 1950-2010,
Robert Barro e Jong-Wha Lee
2010
2000
1990
1980
1970
o
1960
paesi in via di sviluppo
1950
media anni scolastici a testa
andamento dell’indice di scolarità tra il 1950
e il 2010 in italia rispetto agli altri Paesi.
Persone tra 15 e 65 anni
che partecipano a differenti
attività culturali
IStAt, tavole multiscopo 2006
5%
analfabeti integrali
33% analfabeti funzionali
33% a rischio di analfabetismo funzionale
10% alfabeti con deficit di problem solving
19% alfabeti capaci di problem solving
1,9% partecipazione bassa
14,2% partecipazione medio bassa
30,8% partecipazione media
37,9% partecipazione medio alta
15,2% partecipazione alta
benchmark
L’importanza della comunicazione scrittA nell’era
digitale
I dati commentati nel Rapporto - che muovono dai risultati
dei test Pisa 2009 - raccontano di una crisi sociale nascosta,
prima ancora che di un’emergenza educativa. Perché la padronanza alfabetica, lungi dal costituire una semplice tecnica o
abilità acquisita una volta per tutte a scuola, è una risorsa che
accompagna le persone durante l’intero arco della vita, definendo l’identità e la ricchezza dei suoi scambi cognitivi, psichici, sociali, politici e relazionali con il mondo esterno. A questo
proposito, il documento ribadisce più volte che la «capacità
di leggere il mondo» costituisce un presupposto irrinunciabile
del benessere individuale e collettivo, e l’alfabetizzazione per
tutti un obiettivo minimo da raggiungere per un paese avanzato. Questo traguardo è ancor più urgente nell’attuale società
dell’informazione, poiché da un lato la digitalizzazione comporta un utilizzo sempre più capillare della parola scritta nell’interazione sociale, civica ed economica, dall’altro l’aumento della
mobilità e i fenomeni migratori producono un’evoluzione verso
una società multilinguistica che richiede capacità sempre più
solide di combinare un’ampia gamma di background culturali e
linguistici. Ne consegue un paradosso non più a lungo sostenibile tra il livello sempre più alto di
competenze alfabetiche e digitali richieste e quello inadeguato di competenze realmente possedute, minacciate per di più dal trend demografico di invecchiamento della popolazione - che
favorisce l’obsolescenza dei saperi - e dall’aumento della povertà in tempi di crisi, che alimenta
ed è a sua volta alimentata dall’analfabetismo. Da qui l’invito ad agire subito per contrastare
questo allarmante fenomeno, la cui fisionomia, dal punto di vista sociale, appare contrassegnata da diversi tipi di gap.
Divario socio-economico. I bambini poveri infatti sono generalmente caratterizzati da livelli
inferiori di alfabetizzazione rispetto agli altri.
Divario dell’immigrazione. Molti immigrati presentano livelli di alfabetizzazione inferiori
nella lingua del paese di arrivo.
Divario di genere. I livelli di alfabetizzazione dei maschi adolescenti sono inferiori e in diminuzione rispetto a quelli delle coetanee, a causa di una minore motivazione e impegno.
Divario digitale. I meno abbienti utilizzano meno Internet e, quando lo fanno, più per fini di
intrattenimento che di apprendimento. Inoltre molti studenti vivono uno scarto tra la pratica
a scuola, caratterizzata per lo più dall’uso di materiali stampati, e l’esperienza di lettura e
scrittura digitale vissuta in casa.
•Uno scrivano pubblico
al servizio degli
analfabeti a Napoli,
attorno al 1870. Nella
pagina successiva,
uno scrivano pubblico
a Reggio Calabria nel
1957.
Foto: Archivio Contrasto
Analfabetismi e perdita culturale in Italia
Per agire opportunamente bisogna anzitutto conoscere la specifica situazione del contesto
in cui si opera. Il linguista Tullio De Mauro, in occasione della conferenza Livelli e dislivelli
linguistici e culturali oggi in Italia, che si è svolta presso l’Accademia dei Lincei, ha tracciato
un quadro chiaro del contesto italiano, a partire dai dati del 2000 e del 2005 dalle rilevazioni Ocse Ials-Sials, la ricerca internazionale che fa il punto sulle competenze della
popolazione d’età compresa tra i 16 e i 64 anni di età. L’indagine identifica cinque livelli
benchmark
di competenza: analfabetismo integrale; analfabetismo funzionale; situazione a rischio di
analfabetismo funzionale; alfabetismo con deficit di problem solving; alfabetismo con piena capacità di problem solving. E mostra che il 71% della popolazione totale è o rischia di
diventare analfabeta totale o funzionale. Ciò significa che tre italiani su cinque non possiedono competenze di lettura sufficienti. Aggiungendo poi a questa percentuale il 10% di
pieni alfabeti con difficoltà nel problem solving si arriva alla conclusione che quattro italiani
su cinque risultano «incapaci di orientarsi nella vita di una società contemporanea». Il dato,
prendendo a riferimento le competenze alfanumeriche della popolazione adulta, non può
essere direttamente comparato con quello europeo citato nel Rapporto sul letteratismo.
Tuttavia segnala uno specifico problema italiano, e cioè l’ampia incidenza dell’analfabetismo
di ritorno: la perdita delle competenze di lettura e scrittura da parte degli adulti scolarizzati.
Nella ricostruzione di De Mauro, questa situazione si lega a un fenomeno di indebolimento
culturale più generale, che investe non solo le competenze alte, ma anche i «saperi strumentali e operativi propri della cultura della sopravvivenza e delle tecniche elementari». Lo mostra
l’indagine multiscopo dell’Istat del 2006 sul tempo libero, che - a partire da una nozione larga di cultura intesa come la capacità latina di còlere, ossia di coltivare
mente ed animo e migliorare le produzioni e arti materiali - ha censito
il livello di competenze degli italiani su 42 attività, raggruppabili in sei
tipologie di abilità e abitudini, ossia: fruizione di corsi di istruzione o
formazione formali o non formali; abilità linguistiche comprendenti
la propensione a parlare italiano o dialetto con estranei e il livello di
conoscenza di almeno una lingua straniera; attività di lettura nel tempo libero o per motivi professionali; fruizione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; abilità pratiche, come il cucinare,
fare lavori di manutenzione in casa, restaurare mobili o oggetti della
casa, curare i propri mezzi di trasporto, l'orto o le piante, praticare
uno sport; propensione a svolgere attività artistiche o amatoriali come
fare foto, video, scrivere, dipingere, suonare o ballare.
Dall’indagine emerge che meno del 2% della popolazione ha un alto
livello di partecipazione culturale: svolge cioè tra le 25 e le 42 attività
indicate. Per intervenire su una perdita di così vasta portata e trasversale è necessario identificare e lavorare sulle cause. E qui il discorso di De Mauro si rivolge contro chi punta il dito sulla «tanto vituperata» scuola italiana. Guardando all'andamento dell'indice di scolarità
a livello mondiale, emerge che negli anni cinquanta, nei Paesi in via di
sviluppo, il percorso di studi durava 2-3 anni, mentre in quelli sviluppati circa 6. Nel 2010, i Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto 6 anni
di studio a testa, quelli sviluppati 11-12 anni. L'Italia, che negli anni
cinquanta mostrava un indice di scolarità di poco superiore a quello
dei Paesi in via di sviluppo, ha oggi quasi raggiunto il livello degli altri Paesi avanzati. Ciò significa che, grazie al sistema d'istruzione, negli ultimi sessant'anni il nostro Paese, dal punto
di vista educativo, ha compiuto un notevole progresso verso il pieno sviluppo. Il problema,
conclude De Mauro, è che la scuola italiana è rimasta sostanzialmente isolata - affiancata,
solo in parte, dalla televisione - nel promuovere la crescita culturale della popolazione. La
mancanza di una rete di spazi, modi e interventi accessibili e diffusi di fruizione e partecipazione culturale e formativa e la trasformazione sociale e demografica che ha portato alla
benchmark
scomparsa della “bottega familiare” hanno favorito la perdita di saperi. Questo vale anche
per le competenze acquisite a scuola che, per essere preservate, devono invece essere continuamente allenate nel corso della vita, tenuto conto della “regola del -5” secondo cui si
regredisce mediamente di 5 anni rispetto al livello massimo di una competenza acquisita a
scuola, se la capacità non viene esercitata.
Come intervenire, fuori e dentro la scuola
La necessità di promuovere la capacità di leggere attraverso un’azione trasversale e sinergica è alla base anche del Rapporto sul letteratismo, che si rivolge a tutti i cittadini e in
particolare ad alcune categorie - dai politici ai genitori, dalle istituzioni culturali agli operatori sanitari, dagli editori ai volontari - cui indirizza specifiche raccomandazioni. Una
particolare attenzione è poi riservata al mondo della scuola, agli insegnanti e ai formatori.
In termini generali, il documento suggerisce ai soggetti coinvolti di adottare strategie di
promozione della lettura diversificate per fasce di età. Per la prima infanzia si tratta di
stimolare e sostenere la famiglia, per esempio mettendo in atto programmi di alfabetizzazione dei genitori, assicurare l’accesso gratuito all’educazione dei bimbi, garantire uno
screening precoce dei problemi di alfabetizzazione emergenti, adottare una prospettiva
incentrata sul bambino che coinvolga le istituzioni dedicate, i genitori, i servizi sanitari,
le biblioteche, e infine sostenere la creazione e la diffusione di programmi di scambio di
libri. Per promuovere l’alfabetismo presso i bambini della scuola primaria si raccomanda di
intervenire tempestivamente, per esempio sostenendo le scuole i cui studenti presentano
i livelli di competenza più bassi, e favorire un approccio alla dislessia che si concentri più
sul sostegno pedagogico che su quello medico. Agli insegnanti poi si suggerisce di sviluppare strategie didattiche in linea con gli specifici stili di apprendimento e fornire supporto
individuale agli studenti, coinvolgendoli attraverso letture di qualità e accessibili, di usare
la valutazione formativa per identificare i bisogni educativi sin dall’inizio del percorso
scolastico e di integrare la tecnologia nella didattica. Per intervenire sull’adolescenza si
sottolinea la necessità che tutti i docenti, non solo quelli di lettere o lingue, diventino
“insegnanti alfabetizzanti”, che ai ragazzi vengano proposte letture affini ai loro gusti e
varie, dai fumetti ai classici, e infine che venga stimolata la cooperazione tra scuola e
imprese, in modo da chiarire ai giovani il ruolo decisivo giocato dalle competenze alfabetiche nel loro futuro sviluppo personale e professionale. In quest’ottica è particolarmente
importante che gli insegnanti mettano gli studenti in condizione di affrontare testi di
qualsiasi tipo e materia, lavorino sulla motivazione oltre che sulle competenze, utilizzando
materiali attraenti e risorse digitali, lascino agli studenti tempo libero per leggere e scegliere da soli le proprie letture e infine usino la valutazione formativa per diagnosticare
punti di forza e debolezze individuali e ottimizzare le strategie didattiche.
•••
> Rapporto finale sul letteratismo 2012, Sintesi http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/highlevel-group/documents/executive-summary_it.pdf
> Final report on literacy 2012, Full http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/high-level-group/
documents/literacy-final-report_en.pdf
> Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia, di De Mauro - Morrone, http://mondodigitale.
org/files/Livelli_di_partecipazione_alla_vita_della_cultura_in_Italia.pdf
oltre la scuola
P
rofessor Rullani, lei si occupa di economia della conoscenza, una
materia che mette la conoscenza al centro dei processi produttivi
del nostro mondo. Ma come si può definire?
L’economia della conoscenza è in genere intesa come una sezione dell’economia:
quella che si occupa di cose che hanno a che fare con gli investimenti in conoscenza (ricerca, formazione del capitale umano, istruzione, università, trasferimento tecnologico,
consulenza, ecc.), concependola come una sorta di economia “nobile”, ad alto contenuto
intellettuale. Ma oggi tutti i lavori, tutti gli oggetti e tutti i servizi sono ad alto contenuto
di conoscenza, nel senso che utilizzano principalmente lavoro cognitivo e solo eccezionalmente lavoro energetico-muscolare. Il lavoro energetico, che una volta era la regola (nel
mondo pre-moderno) è diventato ormai una eccezione o una parte minore di tutti i lavori
prestati nel sistema di produzione moderna. Tenendo conto che macchine, tecnologia ed
energia artificiale sono a loro volta prodotti ottenuti con un forte impiego di conoscenze,
è facile arrivare a una conclusione: tutto il lavoro moderno, salvo poche eccezioni, è lavoro cognitivo, compreso il lavoro dell’operaio che sorveglia o istruisce la macchina
utensile e quello dell’autista che guida il
camion. Dunque, l’economia della conoscenza è un metodo, un modo di guardare
e di far funzionare l’economia complessiva, mettendo in movimento non solo le
idee, ma l’insieme delle risorse impiegate,
comprese quelle materiali. Possiamo dire
che essa consiste nello studio dei processi
economici che portano alla generazione di
valore economico attraverso l’uso di conoscenze, nelle varie forme che queste possono
assumere.
•Nella foto di apertura,
le sedie dell'architetto
e designer danese
Arne Jacobsen.
Qui sopra, le saliere
della Alessi. Due
esempi di conoscenza
generativa incorporata
in prodotti industriali.
Nella pagina successiva,
un artigiano del vetro a
Murano: in questo caso
la conoscenza è ancora
incorporata nel lavoro
manuale.
Foto: Anna Clopet/Corbis
C’è differenza tra la situazione attuale
e quella del passato?
Il clou dell’economia classica è allocare il lavoro (risorsa scarsa, insieme al capitale fisico e
alla terra-natura) agli usi in cui è in grado di creare il massimo valore. Il mercato e il calcolo economico servono appunto a spostare le risorse scarse dagli usi che hanno minore
utilità (valore) a quelli che ne hanno di più, fino a raggiungere l’ottimo. Questo schema,
però, salta se il valore non viene più prodotto dal lavoro (con conoscenza incorporata)
bensì dalla conoscenza, separabile dal lavoro. La conoscenza codificata, proprio perché
è dis-embodied (scorporata) dalle persone e dai contesti, è infatti una risorsa molto sui
generis: una risorsa che non si consuma con l’uso e che, se ben codificata, può essere
riprodotta a costo zero. Dunque, essa non è scarsa, ma moltiplicabile. Per creare valore attraverso la conoscenza, bisogna dunque organizzarne la moltiplicazione, allargando
quanto più possibile il bacino di riuso. Non serve cercare di allocarla “meglio”, togliendola
ad alcuni per passarla ad altri. Non bisogna scegliere tra gli usi possibili, ma bisogna invece cercare di servirli tutti, aumentando al massimo il bacino del possibile impiego. Già
questo porta a dire che le “leggi” della generazione del valore valide nell’economia della
conoscenza (scorporabile) non sono quelle contenute nei manuali di economia che si
oltre la scuola
studiano a scuola. Si aggiunga poi il fatto che la conoscenza è una risorsa che, al contrario dei fattori materiali classici, non è riducibile a ruolo di “puro mezzo”, ma influenza
fortemente i fini dei soggetti che le impiegano, perché dà luogo a esperienze condivise
(legami) e creative (senso). La conoscenza, insomma, non si limita a fornire un mezzo
efficiente per raggiungere fini dati, ma fa molto di più: essa “crea mondi”, dando luogo a
modi di vivere, di lavorare e di pensare diversi da quelli pre-esistenti.
L’economia del worldmaking (creazione di mondi) è oggi molto più importante dell’economia della fabbrica, dove viene stressata soprattutto l’efficienza dei mezzi. E questa
tendenza è oggi sempre più forte, appoggiandosi ai mass media e a Internet. Se si va a
comprare un paio di jeans di marca, in negozio si pagano 150 euro, diciamo. Quei jeans
escono dalla fabbrica finiti, con tutti gli strappetti al posto giusto, ad un costo di 15
euro. I 135 euro che si aggiungono nella filiera che li porta al consumo finale sono frutto
del processo di worldmaking che ha ideato il modello, ne ha organizzato la produzione
in filiera, lo ha messo in vista nelle catene dello shopping, lo ha reso riconoscibile (col
marchio), lo ha dotato di significato (con la comunicazione), lo ha trasformato in mezzo
Foto: Nasa
cittadinanza
identitario (con le communities e le “tribù” giovanili che organizzano il consumo). Questo vale per la moda, ma vale anche – in misura diversa – un po’ per tutti i prodotti del
consumo attuale, che tende ad andare oltre il consumo di massa di prodotti standard, e
chiede invece personalizzazione, significati, servizi, garanzie. La conoscenza generativa
crea valore mettendo a punto modelli replicabili (e dunque moltiplicabili) che forniscono
tali qualità. Ma in questo, cessa di essere puro mezzo, e diventa una forza orientata alla
creazione di valore tramite worldmaking.
Perché parla di conoscenza generativa? Quante forme di conoscenza
esistono?
Per produrre valore economico, occorre mettere insieme tipologie di sapere molto differenti, e spesso complementari: il sapere teorico, astratto e impersonale contenuto in una
teoria scientifica, in una macchina utensile, in una lattina di Coca Cola o in una procedura organizzativa collaudata (come spedire un pacco postale, ad esempio), col sapere
pratico – spesso più concreto e personalizzato – che mira a ottenere un certo risultato,
qui e ora, in un contesto ben preciso del mondo reale. Il primo è un sapere codificato, costruito in modo da poter essere utilizzato da chiunque e in contesti diversi, purchè si seguano le astratte “istruzioni per l’uso” che sono fornite dal codice. La sua caratteristica di
fondo (e ciò che lo rende prezioso per l’economia) è che si tratta di un sapere replicabile,
nel senso che può essere riprodotto e ri-usato a costo zero un numero infinito di volte,
purchè le prescrizioni del codice vengano rispettate. Pensiamo a una teoria scientifica,
a una formula chimica, a un trapano elettrico, a un CD, a una foto. Il secondo, invece,
è legato alle persone e ai contesti pratici in cui quel sapere (tacito, e spesso posseduto
inconsapevolmente) ha avuto origine: può essere riprodotto, trasferito altrove e riusato,
cittadinanza
da persone e in contesti diversi da quello di origine, solo con difficoltà, richiedendo adattamenti e sperimentazioni che costano, richiedono tempo e hanno esiti non scontati.
Tuttavia, questa forma di sapere non può essere esclusa dal processo di produzione del
valore economico perché essa ha capacità generative, ossia riesce a produrre nuove conoscenze, o ad adattare le conoscenze esistenti a problemi nuovi. Solo le persone (in
carne ed ossa), non le macchine o i modelli matematici, hanno capacità generative. Le
conoscenze replicative (codificate) ogni volta che vengono riusate producono un valore
addizionale a cui non corrispondono costi. Ma il problema è che esse perdono rapidamente valore, man mano che va avanti il processo di riuso. Dunque, per compensare la
perdita di valore vanno rigenerate (rinnovate, cambiate, adattate, portate in nuovi campi
di applicazione, riproposte a pubblici diversi e con significati differenti). Tutte cose che
solo la conoscenza di tipo generativo, legata a persone e contesti reali, può fare. Ecco la
ragione della complementarità.
In che rapporto stanno queste due forme di conoscenza, generativa e replicativa, con il fenomeno della globalizzazione?
“Le risorse generative
Oggi, in presenza di mercati globali che danno accesso a luoghi molto difche consentono di
ferenti, le conoscenze generative, che sono legate ai loro luoghi di origine,
utilizzare con vantaggio
organizzano il ri-uso dei modelli replicabili che da esse vengono ricavati in
la rete di interfiliere estese, che trasferiscono le attività di riuso delle conoscenze codificate
connessione globale
in un insieme di luoghi diversi e distanti tra loro, collocati nel mercato globale.
riguardano capacità
Questa è la ragione per cui, anche in Italia, tutta una serie di lavori (replicativi)
di innovare, inventare,
perde valore, mentre un’altra serie di lavori (generativi) lo aumenta, diventando
convincere, progettare,
nucleo attivo di filiere globali sempre più ampie. Ovviamente la crisi ha messo
assumere rischi e
in difficoltà tutte e due queste specie di lavori, ma certo, tra poco, ci accorgeresponsabilità nella
remo che molti dei lavori replicativi, presenti in precedenza nelle grandi imprecostruzione del futuro,
se fordiste e nei distretti industriali, sono stati trasferiti altrove, o non ci sono
individuale e collettivo”
più. E, se ci sono ancora, rendono sempre meno. È un grande cambiamento a
cui dobbiamo abituarci, puntando tutte le carte che ancora abbiamo sullo sviluppo di un nucleo forte di conoscenze generative sul nostro territorio e di connessioni forti
tra questo nucleo e le filiere globali che da esso possono irradiare.
Se pensiamo in termini di una economia della conoscenza, come cambia
l’approccio dei ragazzi allo studio?
L’apprendimento che si chiamava un tempo “istruttivo” (da cui il termine istruzione) insegnava ai ragazzi a risolvere problemi codificati seguendo delle “istruzioni per l’uso” con
un approccio esecutivo. Oggi questo metodo di apprendimento non paga più, né all’interno della scuola, né, tanto meno, sul mercato del lavoro in cui serve una dose crescente
di conoscenza generativa e di capacità di connessione con le filiere cognitive presenti
nel mondo. Le risorse connettive che servono al collegamento con queste filiere sono
Internet, l’inglese, i linguaggi formali che si imparano a scuola (ingegneria, informatica,
matematica, contabilità, management, diritto ecc.), le capacità dialogiche che creano
e mantengono i contatti (ibridazione tra culture, persone che si spostano da un luogo
all’altro, esperienze condivise tra attori di origine diversa ecc.), le piattaforme fisiche
che realizzano il collegamento (ADSL, TAV, aerei, metropolitane ecc.). Le risorse generative che consentono di utilizzare con vantaggio questa rete di interconnessione globale
cittadinanza
riguardano invece capacità di innovare, inventare, convincere, progettare, assumere rischi e responsabilità nella costruzione del futuro, individuale e collettivo (della famiglia,
dell’impresa, del territorio, delle comunità di senso a cui si è scelto di aderire). L’apprendimento, di conseguenza, dovrebbe diventare non più istruttivo, ma evolutivo (attraverso
la sperimentazione pratica delle idee in contesti di volta in volta differenti) e creativo
(attraverso l’esercizio del worldmaking, ossia della creazione di mondi intorno ad alcune
idee motrici che riguardano la qualità del vivere e del lavorare).
In senso ancora più ampio, dovrebbe cambiare anche il sistema dell’istruzione?
Il punto essenziale è che la scuola, per liberarsi del suo confinamento storico all’apprendimento istruttivo, dovrebbe ribaltare la logica burocratica e verticistica che quel
tipo di apprendimento presidia e impone, a sua immagine e somiglianza.
“Oggi tutti i lavori,
La scuola dell’apprendimento evolutivo e creativo dovrebbe tornare nelle mani
tutti gli oggetti e
degli utilizzatori del servizio educativo (le persone, le imprese, i territori) facendo
tutti i servizi sono
saltare la gabbia delle regole burocratiche, da sostituire con una serie di standard
ad alto contenuto
comuni (interfacce, linguaggi e misurazioni condivise) che consentano facili e sidi conoscenza, nel
curi collegamenti tra le diverse tessere del nuovo mosaico educativo. Per il resto
senso che utilizzano
si dovrebbe lasciare che ciascuno decida l’investimento da fare (in sapere istrutprincipalmente
tivo, evolutivo e creativo), i rischi da prendere (rispetto ai vari possibili settori di
lavoro
uso, assunti come riferimento), i significati da costruire nella comunità interna e
cognitivo e solo
da propagare all’esterno. Va da sé che questa ripartenza dal basso – interamente
eccezionalmente
post-fordista – metterebbe in linea il modo di ragionare delle imprese (ma anche
lavoro energeticodei territori e delle comunità di senso) con quello delle scuole, ambedue interesmuscolare”
sate ad accumulare conoscenza generativa da usare in modo replicativo nelle
filiere globali. è in questo modo che la sempre invocata collaborazione scuolalavoro potrebbe trovare una realizzazione pratica, in forza di interessi e logiche comuni.
È possibile pensare a come scegliere il proprio futuro in termini di economia della conoscenza?
Il mercato del lavoro (futuro) chiederà sempre di più conoscenze generative che hanno imparato a tradursi in moduli replicabili, da propagare in reti connettive globali che si sanno
padroneggiare senza incertezza. Se le scuole continuano ad avere un focus sull’apprendimento istruttivo saranno guai per i ragazzi, salvo le poche eccezioni di quelle persone che
faranno da sole quanto richiesto, in aggiunta all’istruzione ricevuta nei percorsi scolastici.
Ma se le scuole cambieranno nel senso detto, non ci saranno eccessive difficoltà a trovare
una nuova convergenza sui requisiti importanti del sapere futuro. Certo, bisogna trovare le
forme organizzative adatte all’apprendimento evolutivo e a quello creativo, e alla loro messa
in rete col mondo esterno. Esperienze a cavallo tra il lavoro e la scuola in questo quadro
non sarebbero più “fuori norma”, ma sarebbero invece la norma. Speriamo che si possa fare
presto, e che questo nuovo sentiero possa ospitare molte persone, invece che poche. •••
> Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, di Enzo Rullani, Carocci,2004
cittadinanza
Che cosa significa educare alla cittadinanza attiva in Europa? Uno studio comparativo
mette a confronto i sistemi scolastici dei Paesi del nostro continente. E scopre che
esistono molte differenze, dall’anno in cui si inizia a parlarne tra i banchi al numero
di ore dedicate e alla scelta di farne una materia autonoma oppure no
cittadinanza
I
•Le manifestazioni di
giovani polacchi per
festeggiare l'ingresso
del loro Paese
nell'Unione europea
nel 2004.
Foto: Jens Koehler/staff/Getty
l 2013 è l’anno europeo dei cittadini e anche il ventesimo anniversario dall’istituzione della cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht: due ottime ragioni
per riflettere sul tema della cittadinanza attiva. Lo studio comparativo L’educazione
alla cittadinanza in Europa, realizzato dalla rete Eurydice, offre decisamente tanti
spunti di riflessione. Lo studio spazia dal modo in cui i sistemi educativi europei inseriscono la trasmissione dei saperi di educazione alla cittadinanza nei curricula scolastici
alla partecipazione di studenti e genitori alla governance scolastica, dalla “cultura della
scuola” all’aspetto complesso della valutazione, per concludere con uno sguardo all’offerta di formazione per insegnanti e capi di istituto.
Negli ultimi anni, le politiche europee in ambito educativo hanno posto un’attenzione
sempre maggiore alla necessità di acquisire competenze civiche e sociali e hanno sottolineato il ruolo primario dell’istruzione nella promozione della cittadinanza attiva. Il
documento che ha dato origine a questa spinta è la Raccomandazione del Parlamento
europeo e del Consiglio dell’Unione europea relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, che nel 2006 ha individuato e definito per la prima volta a livello
europeo le competenze chiave che i cittadini devono possedere per la propria realizzazione personale, per l’inclusione sociale, la cittadinanza attiva e l’occupabilità nella
cittadinanza
società della conoscenza. Le competenze sociali e civiche rientrano tra le otto competenze chiave, che «includono competenze personali, interpersonali e interculturali e
riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare
in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa […]. La competenza civica
dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture socio-politici e all’impegno a una partecipazione
attiva e democratica».
Altri documenti di cooperazione europea interessanti da citare, perché si inscrivono
nelle ragioni dello studio di Eurydice sono la Carta del Consiglio d’Europa sull’educazione per la cittadinanza democratica e l’educazione ai diritti umani del 2010, che intende
sensibilizzare tutti i cittadini a temi come i diritti umani, la democrazia, lo stato di diritto, e che, in particolare, raccomanda fortemente la promozione di tali valori attraverso
tutti gli attori del processo educativo, e la terza indagine sull’educazione civica e alla
cittadinanza promossa dalla International Association for the Evaluation of Educational Achievement - IEA, nata nel 1958 con lo scopo di condurre ricerche comparative
internazionali nel campo della valutazione. L’attenzione dedicata dalla IEA alla civic
education risale ai primi anni settanta, e dimostra, a distanza di decenni, l’importanza
crescente che i sistemi educativi internazionali attribuiscono all’educazione dei giovani
alla cittadinanza in società che presentano rapidi cambiamenti nel loro tessuto culturale, economico, politico e sociale.Lo studio comparativo L’educazione alla cittadinanza in
Europa nasce da un concetto di cittadinanza evoluto che travalica il semplice rapporto
tra Stato e individuo. Questo concetto più ampio di cittadinanza coniuga l’insegnamento e l’apprendimento in classe, quale veicolo delle conoscenze teoriche da acquisire,
all’esperienza pratica in ambito scolastico ed extrascolastico, quale palestra per sperimentare sul campo tali conoscenze: una perfetta sintesi del learning by doing. Prenderò
Per quante ore viene insegnata
30
25
25
20
20
15
15
10
10
5
5
0
istruzione primaria superiore
istruzione secondaria inferiore
istruzione secondaria superiore
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
30
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
35
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
35
0
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
le raccomandazioni relative alle ore di insegnamento sono previste nei Paesi in cui l’educazione alla cittadinanza viene insegnata come materia
separata e variano da un paese all’altro. Quella indicata nel grafico è la media del numero minimo di ore di insegnamento destinate all’educazione
alla cittadinanza come materia a sé stante in un anno teorico, in base alle raccomandazioni per l’istruzione primaria e secondaria generale
(inferiore e superiore).
cittadinanza
le parole della cittadinanza
in esame due aspetti trattati dallo studio: gli approcci e l’organizzazione curricolare
dell’educazione alla cittadinanza e la formazione dei docenti. Tre sono gli approcci curricolari diffusi nei sistemi educativi europei, come è stato evidenziato dallo studio, che
vengono utilizzati spesso combinati tra loro: il primo è l’insegnamento di educazione
alla cittadinanza come materia separata, il secondo è l’insegnamento come argomento
integrato in altre discipline o aree disciplinari, il terzo come tematica trasversale a tutte
le discipline del curriculum. Le informazioni si basano sui curricula nazionali dei Paesi:
regolamenti, raccomandazioni, linee guida e ogni documento ufficiale.
Numerosi Paesi dedicano all’educazione alla cittadinanza una materia obbligatoria a
sé stante, a volte a partire dal livello primario di istruzione, più di frequente dal livello
cittadinanza
malta
liechtenstein
belgio fiammingo
Che l’educazione alla
cittadinanza sia una materia
autonoma o no, tutti i Paesi
le assegnano una dimensione
interdisciplinare, specialmente
dopo lo slancio dato dall’uscita
della raccomandazione sulle
competenze chiave del 2006.
lussemburgo
dove la CittadiNaNza è uNa materia a sé staNte
legenda
materia a sé stante
a livello secondario
materia a sé stante a livello
primario e secondario
materia non a sé stante a livello
primario o secondario
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
legenda
in temi trasversali/competenze chiave/
aree di contenuti educativi
soltanto come obiettivi generali del
sistema educativo
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
malta
liechtenstein
belgio fiammingo
Nella maggior parte dei Paesi,
che venga insegnata o meno
anche come materia a sé stante
obbligatoria, l’educazione alla
cittadinanza è integrata in
altre materie o aree tematiche:
scienze, storia, geografia,
lingue, scienze sociali, religione/
etica, sono le materie più
frequentemente abbinate ma
troviamo anche psicologia, legge
o, nel caso di Cipro, greco.
lussemburgo
l’aPProCCio trasversale all’eduCazioNe alla CittadiNaNza
cittadinanza
secondario inferiore e/o superiore. La durata che ogni Paese dedica all’educazione
alla cittadinanza nell’arco del percorso di istruzione varia dai dodici anni del sistema
educativo francese (gli alunni francesi alla scuola primaria iniziano con lo studio di
civique et morale, proseguono a livello secondario inferiore con éducation civique,
e a livello secondario superiore studiano éducation civique, juridique et sociale) al
singolo anno della Turchia. Le conoscenze trasmesse in classe ai futuri “cittadini del
mondo” sviluppano temi come il sistema socio-politico del Paese, i diritti umani, i
valori democratici, l’identità nazionale e il senso di appartenenza al Paese, la diversità culturale, lo sviluppo sostenibile e l’identità europea, tanto per citare solo alcune
delle tematiche trattate più comunemente.
In Austria e Spagna, ad esempio, tra i temi raccomandati dai curricula è presente la
parità dei sessi, mentre in Portogallo e Lituania si tratta anche il tema della sicurezza
stradale. Gli insegnanti hanno un ruolo chiave nella trasmissione delle conoscenze
civiche e sociali e nelle competenze che ne derivano, tuttavia dallo studio della rete
Eurydice emerge chiaramente che insegnanti specialisti in educazione alla cittadinanza sono rari, solo in Inghilterra è possibile una formazione specifica in educazione
alla cittadinanza. Numerosi istituti di istruzione superiore inglesi offrono corsi postdiploma della durata di un anno, che combinano la conoscenza teorica della materia
con l’esperienza pratica di insegnamento.
In generale, però, nei sistemi educativi europei si è osservata la necessità di rafforzare le qualifiche degli insegnanti, e questa considerazione è avvalorata dal fatto che
all’introduzione di riforme nei curricula di educazione alla cittadinanza di numerosi
Paesi non corrispondono spesso riforme nel settore della formazione iniziale e in servizio per docenti e capi di istituto.
Una rete per far crescere una scuola europea
> Eurydice è la rete di informazione sull’istruzione in Europa che fornisce
informazioni e analisi sui sistemi educativi europei e sulle relative politiche.
Istituita dalla Commissione europea nel 1980, è composta da 40 unità nazionali
con sede nei 36 paesi che aderiscono al programma dell’Unione europea nel campo
dell’apprendimento permanente (Lifelong Learning Programme; i Paesi sono i 27 Stati
membri dell’Unione europea più Norvegia, Liechtenstein, Islanda, Svizzera, Croazia,
Turchia, Serbia e, dal 2013, Montenegro ed ex repubblica Jugoslava di Macedonia)
ed è coordinata dall’Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura
(EACEA) con sede a Bruxelles. L’unità centrale opera in assoluta sinergia con le
unità nazionali, coordina le attività della rete e redige e diffonde la maggior parte
delle pubblicazioni, mentre le unità nazionali raccolgono i dati, contribuiscono alla
loro analisi e promuovono a livello nazionale le descrizioni di 40 sistemi educativi
europei, gli studi comparativi tematici, indicatori e statistiche, rapporti.
L’obiettivo primario della rete è quello di facilitare la cooperazione nel campo
dell’istruzione e della formazione affinando la conoscenza dei sistemi e delle politiche
educative e supportando in tal modo i responsabili politici nelle loro decisioni.
cittadinanza
Il caso dell’Austria risulta interessante: nell’anno scolastico 2008/2009 è stata introdotta nelle scuole la nuova disciplina storia, studi sociali e educazione alla cittadinanza
all’ottavo anno di istruzione (livello secondario superiore); la risposta a questa novità
da parte della politica austriaca del settore educativo è stata l’inclusione di educazione
alla cittadinanza come materia obbligatoria di studio
nelle Pädagogische Hochschulen frequentate dai futuri
“La cittadinanza formale
insegnanti. L’offerta di formazione in servizio per inseè importante e tuttavia
gnanti incentrata sull’educazione alla cittadinanza varia
è la cittadinanza
a seconda del Paese, e prevede la partecipazione di assostanziale che misura
sociazioni, centri accreditati di formazione, ONG, oltre
la forza della propria
a quella delle autorità educative. In Francia, le autorità
voce nella società: diritti
educative regionali organizzano sessioni di formazione
politici, certo, ma anche
della durata di tre giorni su temi di educazione civica
diritti sociali e civili"
e alla cittadinanza, rivolte a insegnanti di storia e geografia della scuola primaria e secondaria inferiore e a
insegnanti di altre discipline che “ospitano” l’insegnamento della cittadinanza nelle materie di loro competenza. In Spagna, la Fundación
Cives promuove da oltre dieci anni l’educazione civica e alla cittadinanza con l’intento
di contribuire alla realizzazione di uno stato sociale democratico dove ogni cittadino ha pieni diritti. Tra le sue attività primarie, la fondazione prevede corsi di formazione per insegnanti, workshop,
conferenze e seminari su temi di educazione etica
e civica, oltre ad offrire materiali e risorse sull’educazione alla cittadinanza. Il rafforzamento delle
competenze degli insegnanti nell’area dell’educazione alla cittadinanza rimane, tuttavia, un tema
caldo, che necessita di ulteriori sviluppi e ricerche.
Comprendere l’importanza della cultura della scuola, intesa come un sistema di comportamenti, valori, norme, convinzioni, pratiche quotidiane, principi,
regole, metodi di insegnamento e modalità organizzative, costituisce un punto di partenza per diventare a tutti gli effetti cittadini attivi e responsabili.
E questa è soltanto una delle numerose riflessioni
che emergono dallo studio della rete Eurydice. •••
> L’educazione alla cittadinanza in Europa, I Quaderni di Eurydice n. 28, Indire – Unità italiana di Eurydice,
2011 www.indire.it/lucabas/lkmw_file/eurydice/Quaderno_28_cittadinanza.pdf
> Citizenship education in Europe, EACEA/Eurydice, 2012, Il Mulino, 2003 www.indire.it/lucabas/lkmw_
file/eurydice/Citizenship_2012_EN.pdf
> Eurypedia Enciclopedia online sui sistemi educativi europei https://webgate.ec.europa.eu/fpfis/mwikis/
eurydice/index.php
> Sito dell’Unità italiana di Eurydice www.indire.it/eurydice/index.php
focus tech
La domanda che tutti si pongono, non solo all’interno
del sistema scolastico, è come vadano sfruttate davvero le possibilità
offerte dalle nuove tecnologie. Una ricerca basata sullo studio di
alcuni casi pratici suggerisce che inseguire non serve: meglio partire
da principi adeguati alla realtà dei giovani e del mondo digitale.
A partire dalla collaborazione
S
tudiare il mondo dell’apprendimento da dentro, sbirciando le buone e cattive pratiche direttamente negli ambienti (scolastici e non) frequentati dai ragazzi: questa è
l’idea di base che sta dietro al lavoro di ricerca del gruppo americano Digital Media
and Learning Hub, che è culminato, all’inizio di quest’anno, con una pubblicazione
che si è imposta all’attenzione del mondo accademico e non solo.
Esplorare sul campo
Colorato, amichevole, giovanile, il sito web del Digital Media and Learning Hub (http://
dmlhub.net) non sembrerebbe, a una prima occhiata, quello di un prestigioso gruppo di
ricercatori che ha sede all’Humanities Research Institute della University of California. La
parola d’ordine è senza dubbio informalità, in puro stile americano.
Il gruppo, come suggerisce il nome stesso, svolge attività di ricerca sullo sfaccettato rapporto tra due ecosistemi complessi: quello dei media digitali e quello dell’apprendimento.
L’interrogativo alla base del loro lavoro è: come si può impostare un nuovo e più moderno
approccio all’apprendimento, e all’educazione, che tenga conto dell’enorme diffusione dei
social media e dei nuovi comportamenti da essi indotti?
«Abbiamo deciso di esplorare queste domande immergendoci nelle scuole superiori per un
anno» spiega S. Craig Watkins, uno dei membri che hanno preso parte alla ricerca, pubblicata
focus tech
a gennaio. Il team californiano ha analizzato nove casi di studio significativi, dai quali emerge un modello vincente di apprendimento che è stato battezzato collective learning.
Produrre in libertà
Forse è più semplice intuire che cosa significhi collective learning proprio osservandolo “in
azione” attraverso i casi di studio proposti dai ricercatori del Digital Media and Learning
Hub. Quest to Learn (http://q2l.org) è una scuola attiva a New York dal 2009, che mira
all’eccellenza educativa attraverso il gioco e le pratiche collaborative. Il report ci racconta come la scuola in questione, alla fine di ogni trimestre, organizzi una sorta di concorso, chiamato Boss Level, in cui gli studenti, suddivisi in squadre, competono in attività a
carattere fortemente partecipativo (costruzione di macchine, realizzazione di
opere teatrali, ecc.). YOUmedia (http://www.youmedia.org) è un esempio di
esperienze di apprendimento non strettamente scolastico: un insieme di spazi
organizzati (biblioteche, musei e quant’altro, corredati da un corrispettivo social
network online) in cui gli adolescenti possono aggregarsi e produrre insieme,
liberamente, materiale multimediale o non, usando i media digitali messi a disposizione dal
network. Secondo la filosofia di YOUmedia, queste pratiche costituiscono una forma di apprendimento propria dell’epoca contemporanea e che non può più essere ignorata.
•In questa pagina
e nella pagina
precedente, alcune
delle attività indagate
dal Digital Media and
Learning Hub.
Nell'immagine qui
sotto, il gruppo
di ricerca mentre
presenta i risultati
del proprio lavoro.
Foto: Digital Media and
Learning/flickr
Guidati dalla passione
Che cosa hanno in comune queste situazioni apparentemente così diverse? Secondo il gruppo
di ricerca d’oltreoceano non c’è dubbio: un efficace connubio tra capacità acquisite a scuola
e capacità apprese nella vita quotidiana. «Esiste una forma di expertise orizzontale» sostiene Kris Gutierres, del Digital Media and Learning Hub «che si sviluppa quando le persone
coltivano quotidianamente i propri interessi. L’apprendimento è efficace quando l’expertise
quotidiana e quella accademica si compenetrano e crescono come un tutt’uno».
Questa è l’anima del connective learning: acquisire competenze di tipo scolastico esercitandosi nelle proprie passioni, collettivamente, distribuendo responsabilità e ruoli all’insegna di
uno scopo comune. È un approccio chiaramente pensato per le tecnologie digitali, che sono
caratterizzate da possibilità di collaborazione orizzontale e scambio inimmaginabili anche
solo una generazione fa. L’analisi dei ricercatori americani ha messo in luce il fatto che il
collective learning, così definito, è efficace in quanto caratterizzato da tre proprietà cardine
dell’apprendimento moderno.
focus tech
• Qui sopra, a sinistra,
la professoressa
Mizuko Ito, leader del
gruppo di ricerca.
1. Il supporto dei peers, ovvero dei pari, dei simili: in questo caso gli altri ragazzi. Già dal
nome, il collective learning rappresenta un’idea di apprendimento di gruppo e non individuale, in cui non è necessario che ognuno sappia tutto o sappia fare tutto, ma è importante che
il singolo sappia interagire con gli altri in modo che il gruppo sappia (fare) tutto.
2. L’interesse come motore. L’apprendimento è più efficace quando è motivato dalle passioni: imparare a scrivere correttamente, per esempio, riesce meglio se lo si fa in un contesto
di fan fiction piuttosto che come compito imposto e che non si sente come proprio.
3. La finalizzazione accademica. L’apprendimento va formalizzato. Le conoscenze, le abilità
e le competenze acquisite durante il gioco e la collaborazione devono essere riconosciute in
ambito scolastico, altrimenti viene a mancare l’aspetto educativo dell’apprendimento.
Per come la questione è posta dai ricercatori americani, il collective learning è utile per risolvere i tre maggiori problemi del sistema educativo occidentale: lo scarto tra l’apprendimento
scolastico e quello extrascolastico; l’inefficacia della competizione e valutazione individuale
in una cultura sociale “di rete” e più che mai interconnessa; il crescente divario causato dal
learning divide.
«Ciò che rende il collective learning unico nel panorama delle possibilità» spiega Mizuko Ito,
leader del gruppo di ricerca «è che non riguarda una particolare piattaforma, tecnica o tecnologia, ma è un approccio che permette di comprendere come opera l’apprendimento». Questo approccio all’apprendimento non è quindi definito dalla tecnologia ma da un sistema di
valori adeguato a quello della cultura digitale in cui sono immersi gli studenti di oggi. •••
focus tech
di Marco Meschini
Storico medievista,
insegna Storia presso
l’Everest Academy di Lugano,
dove è responsabile per
l’innovazione
tecnico-didattica
Che cos’è, come si può usare in classe e con quali programmi la tavoletta
elettronica, uno strumento dalle grandi possibilità, uno spazio dove
convivono scrittura, immagini statiche e dinamiche, suoni.
E che richiede anche qualche conoscenza e un po’ di buona volontà
prima di poter entrare nella vita quotidiana delle scuole
P
rendiamo una celebre ceramica conservata a Berlino: vi
è raffigurato un uomo seduto, di profilo, con un trittico
sorretto dalla mano sinistra (gomito e parte dell’avambraccio sembrano poggiare o almeno aderire al fianco),
intento a scrivere sulla tavoletta centrale; nella destra regge uno
stilo, sospeso a mezz’aria: sta osservando quanto ha tracciato sulla
cera? O sta pensando a cosa aggiungere ai segni già incisi? Oppure è
semplicemente colto in un momento di “stacco” tra un segno e l’altro?
O sta correggendo i compiti dell’allievo che gli si para davanti, e che non vede ciò che accade
al di là dello “schermo” di legno e cera? Il sorriso che li accomuna suggerisce comunque una
buona relazione.
Tra il 500 a.C. circa (epoca del manufatto firmato dal greco Douris) e il 2010 d.C. - anno di
lancio dell’iPad, che oggi è un po’ il tablet di riferimento - molte cose sono cambiate e alcune paiono tornare: non è forse una tavoletta (tablet, in inglese) il nuovo medium che spinge
per entrare nelle nostre aule? Ma prima di tutto: cos’è un tablet? È un computer mobile
minimalista. Le componenti hardware sono “fuse insieme”: il processore, la memoria e la
principale periferica di output (il video) stanno tutte in una mano, e la principale periferica
di input è l’altra mano dell’uomo: per interagire con un tablet si usano infatti principalmente
le dita della mano in una serie di gesture – gesti a un dito o più dita insieme – che attivano
diverse funzioni: aprire un programma, chiuderlo, cambiare schermata o pagina, spostare oggetti digitali… Per scrivere, oltre ai
segni tracciabili con il dito, si usa anche e soprattutto una
variante digitale della tastiera fisica, che compare sul
lo schermo del tablet solo quando è
necessario, anche se, volendo,
se ne può aggiungere una
esterna – operazione che
tende però a snaturare
il tablet, aumentando
focus tech
•Il monumento ai
Tetrarchi di piazza
San Marco, a Venezia,
un esempio di come
il tablet permetta di
esplorare i particolari
meglio della carta.
la complessità dell’insieme, mentre la sua
forza è appunto l’estrema semplicità. Taluni
modelli sostituiscono all’interazione con le
dita o, più spesso, integrano uno stilo particolare, ma si tratta a mio parere di elementi fuorvianti, perché il vantaggio dei tablet
rispetto ai computer tradizionali è proprio
il fatto di abbattere ulteriormente la distanza fra la macchina e l’uomo e, ancor
di più, tra l’uomo e lo spazio cibernetico,
ovvero il mondo digitale, di cui la regina è
Internet. Se il codice antico e medievale era
una tecnologia che immetteva nello spazio
astratto e pulito della dimedialità (scrittura
e immagine statica), il tablet è il ponte di
ingresso per il mondo digitale, ovvero uno
spazio dove convivono scrittura, immagini statiche e immagini dinamiche, suoni, il
tutto nelle dimensioni della rappresentazione (sino a qui era arrivato anche il codice),
ri-creazione (dall’avvento della fotografia
in poi) e creazione della realtà (cinema,
grafica computerizzata e mondi virtuali).
Insomma il tablet non si limita ad “estendere” ancora di più lo spazio dimediale del
codice (e del libro a stampa), ma ci introduce nello spazio digitale, rendendolo parte
di noi – e noi parte di quello. Tanto più che,
ben oltre la scrittura e l’immagine, vi convivono un’infinità di possibilità informative,
comunicazionali, economiche, ludiche, ecc.
Per queste ragioni – al di là delle pur significative differenze tecniche – il tablet è cosa
affatto diversa dall’e-reader (letteralmente
“lettore elettronico”): quest’ultimo è un apparato dedicato alla fruizione (non la scrittura!) di ebook (i cosiddetti “libri digitali”,
anche se l’espressione è per me totalmente
fuorviante (come ho spiegato sul mio blog).
L’e-reader introduce a un “mondo” di testi
digitali, tendenzialmente dimediali (e per lo
più in scala di grigi) e con funzioni sostanzialmente “chiuse”, mentre il tablet apre
alla multimedialità più spinta dove il “codice” della scrittura vive nella concorrenza dei codici fotografico, cinematografico,
focus tech
ipertestuale, ecc., e di molte altre cose ancora. Dunque la prima cosa da sapere è questa:
se volete arricchimento e competizione multimediale, insieme all’immissione nel ciberspazio, il tablet è relativamente perfetto; se invece preferite la grande tradizione dimediale,
è al contrario controproducente.
App(licazioni) utilizzabili
Partendo dal presupposto dell’arricchimento multimediale, vediamo allora quali sono alcune delle app(licazioni) utilizzabili con il tablet, con uno sguardo preferenziale al mondo
Apple, per il semplice fatto che la scuola dove lavoro ha adottato gli iPad e dunque li
conosco meglio di altre soluzioni.
LeggerE
Distinguiamo due tipologie fondamentali di file: gli ebook e i pdf, questi ultimi generabili
praticamente da tutti senza particolari problemi (è sufficiente esportare o “stampare”
focus tech
in pdf un qualunque file). Per i pdf l’app migliore è oggi il Reader di Adobe (inventrice del formato), che consente di archiviare i pdf in cartelle, sottolineare, evidenziare,
scrivere a mano libera, riempire i campi vuoti (funzione importante per chi crea esercizi e test proprio su pdf) ecc. Altra buona app è GoodReader, con altre funzioni.
Per gli ebook bisogna ribaltare la prospettiva: qui dipende da quali
testi (non quali funzioni) vi servono. Ovvero, se avete bisogno di un
testo della tal casa editrice (o distributore, nel caso di Apple e di
“Uno dei vantaggi del tablet
Amazon e della sua famiglia Kindle: e-reader, tablet, store e app),
è poter avere più immagini
dovrete necessariamente adottare il metodo di lettura/fruizione
dello stesso soggetto. Mettere
imposto dalla stessa, con i relativi vantaggi e svantaggi. Se invece
a confronto tra loro più scatti
pensate di usare degli ebook in formato pubblico .epub (ma l’offerconsente allo studente di 'avere
ta di testi scolastici in questo campo è al momento molto limitata,
tra le mani', quasi di 'toccare' il
almeno in italiano), allora potete scegliere tra varie possibilità, da
reperto, con un dettaglio e una
Stanza a iBooks (quest’ultimo solo per Apple). Esistono infine molti
dinamicità impossibili su carta"
ebook concepiti come app a sé stanti. Purtroppo spesso le funzioni
interattive rivolte allo studio (sottolineatura, note a margine ecc.)
sono assenti oppure ridotte e poco funzionali. Una conseguenza che si sarà già intuita: il
tablet promette di “avere tutto a portata di mano”, anzi di dita, però il dato di fatto è che
bisogna sapere in quale app si utilizza il tal testo, perché i file sono appunto conservati
“dentro” le app, in un approccio che è radicalmente differente da quello classico del pc.
Naturalmente, esiste anche una funzione di ricerca sul contenuto del tablet.
Scrivere (prendere appunti, redigere un testo, ecc.)
Word non c’è. Microsoft, il gigante creato da Bill Gates e proprietario del più famoso e
diffuso word processor del mondo, non ne ha ancora creata una versione per tablet. Esistono però moltissime app che fanno “grosso modo” lo stesso, tenuto conto del fatto che
servono solo alcune funzioni di base: inserire testo, immagini e poco altro. Per impaginare
dignitosamente il tutto è preferibile trasferire il file su pc, dove lo spazio video è maggiore.
Dunque si può andare da un semplice blocco note (ne esistono infinità) al (molto diffuso)
Documents To Go, che solitamente gestisce bene anche i file di Office.
Apple propone la versione ridotta di Pages (il suo concorrente di Word), che è buona
anche per gli appunti. Alcuni studenti preferiscono Keynote (alias PowerPoint o similare),
app concepita per realizzare presentazioni ma impiegabile anche per altri usi, come prendere appunti e generare schemi di studio.
Dimenticatevi infine di “scrivere a mano” sul tablet: molti conoscenti ci hanno provato,
tutti hanno rinunciato – almeno per ora. E dunque un piccolo consiglio: prevedete un
micro-corso di digitazione a 10 dita: se dovete interagire per tutto l’anno con una tastiera
(fisica o virtuale che sia), è meglio saperlo fare al meglio…
Metodi sperimentabili
Condividere. Per condividere i file – sia da parte del docente, che degli e tra gli studenti
– sono necessari servizi digitali (e gratuiti, almeno a livello base) come DropBox, oppure
Google Apps (tra cui Calendar, Drive per i file, e Sites), ovvero i servizi di creazione e condivisione di file e risorse che Google mette a disposizione – gratuitamente – per i singoli e
le istituzioni educative. Naturalmente può essere che la vostra scuola abbia già sviluppato
un proprio sito in questa direzione: sarà allora da valutare attentamente l’integrazione
focus tech
con i tablet che si intendono adottare, per evitare di ritrovarsi a spedire centinaia di email con
allegati: un sistema praticabile ma scomodo, soprattutto quanti più studenti e materiali avete.
Immagini e video. Uno dei vantaggi del tablet è poter avere più immagini dello stesso
soggetto. Mettere a confronto tra loro più scatti, per esempio, della scultura dei tetrarchi
di Venezia (di fronte, lato sinistro e destro, dettagli vari) consente allo studente di “avere
tra le mani”, quasi di “toccare” il reperto, con un dettaglio e una dinamicità impossibili
su carta – a meno, ovviamente, di disporre d’una monografia sul tema. La scultura, in
questo caso, si presta bene, essendo naturaliter tridimensionale, ma la stessa dinamica
si attiva anche con immagini bidimensionali. Una rapida ricerca online aprirà molte piste
per trovare i materiali di partenza, ma non si può non citare la Web Gallery of Art (http://
www.wga.hu), una miniera vastissima, oppure progetti specifici, come la visita virtuale
delle grotte di Lascaux (http://www.lascaux.culture.fr/#/fr/00.xml) o della Sistina (http://
www.vatican.va/various/cappelle/index_sistina_it.htm). E poi, ovviamente, ci sono i video. Personalmente trovo efficaci video brevi (da 3 a 10 minuti al massimo), per evitare
l’effetto soporifero che la tele-visione porta con sé e, soprattutto, perché vi sia subito
dopo l’attivazione didattica in vista del processo di astrazione e concettualizzazione. Un
buon esempio è il documentario sulla Seconda guerra mondiale Apocalypse (in francese,
ma esistono localizzazioni in molte lingue, tra cui l’italiano), disponibile anche su YouTube.
Il docente potrà proporre un percorso attraverso alcuni dei contributi video della serie, per
far emergere i momenti chiave che più riterrà idonei per inquadrare la grande tragedia del
1939-1945. Si ricordi che lo studente può mettere in pausa il video e tornare indietro, in
“riletture” del flusso audiovideo che sono fondamentali per l’apprendimento.
Linguaggio e concetti. Come far assimilare agli studenti il linguaggio proprio di ciascuna
materia? Un suggerimento è quello di “far giocare” lo studente con le parole per stabilire,
nella ripetizione rapida e costante, il rapporto concetto-definizione attraverso una serie di
risorse digitali, tra cui spicca Quizlet (http://quizlet.com). Si tratta di un portale online di
quiz e giochi con le parole (e le immagini, grazie all’estensione a pagamento), in cui ogni
docente può creare le proprie “classi virtuali” e far accedere gli studenti per lo studio personale. A questo link trovate un mio “set” dedicato a Le parole della Storia (http://quizlet.
com/_eace9), con cui sperimentare il sistema prima di “tuffarsi” a creare i propri set.
Per non concludere
L’accesso alle “meraviglie” digitali spalanca possibilità e suggerisce di ripensare modalità
e tempi dell’insegnamento e dell’apprendimento. Solo se il docente saprà portarsi avanti
lungo il cammino potrà suggerire le vie per non perdersi e, al contrario, arricchirsi. Senza
dimenticare che nessun ritrovato potrà mai sostituire il docente che, seduto o in piedi che
sia, sorride al suo allievo. •••
> Il blog del professor Meschini www.marcomeschini.me
> Aula 1.0 una serie di articoli dell’autore su iS dedicati alla sua esperienza in aula con le nuove
tecnologie,http://is.pearson.it/espresso/aula-1-0-una-voce-dalla-prima-linea-prima-parte-gli-strumenti/
Laboratorio Pearson
Testo e foto di Davide Coero Borga
Viaggio in un liceo-laboratorio che, a Milano,
ha deciso di mettere i tablet alla prova.
A sorpresa, il vero problema è la mancanza di banda larga
laboratorio Pearson
T
ablet vuol dire un’applicazione che ti consente di leggere in pdf un libro di testo,
un registro personale e di classe, non più di carta, ma anche gestione di parti
del programma didattico all’interno di un’applicazione divisa in testi, video,
immagini, audio, schemi. Tablet è condivisione di file attraverso piattaforme
dedicate… È un ambiente completamente nuovo. Io tento di spingerlo al massimo delle
sue potenzialità, compatibilmente con la collaborazione degli alunni», racconta Andrea
Maricelli, docente di italiano e latino all’Istituto De Amicis di Milano.
Gli istituti De Amicis sono un’isola felice, dove l’85% delle classi può fare affidamento su una bella LIM, la lavagna interattiva multimediale che a macchia di leopardo
ha sostituito le vecchie lastre di ardesia appese alle pareti delle classi d’Italia. Qui il
60% dei cinquecento studenti è armata di tablet, come gli ottanta insegnanti del corpo
docente. L’inserimento di questi nuovi strumenti a scuola è frutto di un progetto voluto
dalla direzione dell’istituto che, nella sede distaccata di Gorgonzola ha già rifornito di
tavolette elettroniche quasi tutti i duecento ragazzi e i trenta docenti. Una scelta fatta
per avvicinarsi al modo di comunicare degli studenti, ma anche per concretizzare un
desiderio d’innovazione nel percorso scolastico e declinare i contenuti dei programmi
in modo alternativo, nuovo, garantendo a chi è seduto dietro un banco che la scuola è
comunque ancorata a un mondo che cambia.
L’obiettivo finale è avere studenti che imparano meglio. «È falso pensare che i ragazzi
studino meno attraverso un supporto come il tablet e le nuove tecnologie in generale»
sostiene Angelo Dalessandri, coordinatore del progetto. «Chi vuole raccogliere la sfida
dello studio continua a farlo con lo stesso impegno di sempre». Il punto è che probabilmente sta cambiando il modo in cui si studia, con un moltiplicarsi delle fonti di informazione e la possibilità di affrontare i temi complessi in maniera trasversale. Lo studente
impara a gestire la complessità, una expertise sempre più richiesta, anche nel mondo
del lavoro. Il progetto, battezzato Lemmings, come un celebre videogioco, nasce due
anni fa e coinvolge inizialmente un gruppo di venti docenti, suddivisi in maniera equa
tra gli istituti di Milano e Gorgonzola e di tutte le discipline: linguistiche, umanistiche
laboratorio Pearson
•In queste pagine,
alcune immagini dei
ragazzi e i professori
dell'Istituto
De Amicis di Milano.
Foto: Coero Borga
e scientifiche. La sperimentazione si è posta come obiettivo quello di capire quali sono
le potenzialità nell’utilizzo del tablet all’interno di una didattica realmente innovativa,
tentando di motivare gli insegnanti (ed è un punto che probabilmente distingue questa
esperienza da molte altre) a inventare e sperimentare le potenzialità dello strumento
tablet a livello disciplinare, utilizzando le classi come laboratorio e tenendo fermi una
serie di obiettivi minimi che i partecipanti al progetto
devono raggiungere.
“Da quando anche i
ragazzi hanno il tablet in
L’idea è che nessuno al di fuori degli insegnanclasse, il cambiamento è
ti può davvero capire quali prospettive apra l’inseristato consistente perché
mento di uno strumento così sofisticato all’interno di
si possono utilizzare delle
un sistema scolastico che certo è in evoluzione, ma
risorse internet, si possono
conserva meccanismi consolidati e riconosciuti. La
assegnare compiti prima
prima fase del progetto è stata interamente dedicata
impensabili, le ricerche
a individuare una serie di app, di programmi applicapossono diventare
tivi, fondamentali, grazie alle quali aprire un canale
piccoli cortometraggi”
di interazione con gli studenti, in classe durante le
lezioni e a casa durante le esercitazioni e le sessioni
di studio. La ricerca ha privilegiato l’immediatezza, la
facilità di uso e la gratuità, per non gravare ulteriormente sulle tasche di studenti e
insegnanti. La scelta è caduta su app specifiche, dedicate a singoli aspetti e materie,
come le scienze o la storia, e altre decisamente trasversali come gli elaboratori di testo, o i programmi per creare mappe concettuali. Ma è con l’utilizzo creativo del tablet
che i docenti hanno raggiunto i risultati più significativi. Le app a disposizione, utili in
ambito formativo, solleticano la fantasia dell’insegnante. Immaginate una simulazione
virtuale dove, come in un gioco di ruolo, la classe può partecipare a un evento storico, come la crisi dei missili di Cuba, nei panni dell’entourage del presidente Kennedy e
“vivere” le difficoltà, i rischi, gli azzardi di una decisione epocale. Esiste la possibilità
concreta di cambiare i registri narrativi di una materia scolastica. È necessario però un grosso investimento da parte del professore, che deve
cercare gli strumenti in rete, imparare a conoscerli, testarli in autonomia
per poi poterli riproporre in classe in maniera efficace. Un vantaggio
c’è, e sta nella replicabilità di questi moduli. La app si può utilizzare più
volte e in diversi contesti, senza parlare della possibilità intrigante
di creare prodotti didattici ex novo, proprio partendo da uno schema di gioco che si è visto funzionare bene. Dalessandri definisce
Lemmings come un progetto di successo, «perché oltre a regalare
nuovi e potenti strumenti a quegli insegnanti già inclini a sfruttare
la tecnologia, l’utilizzo del tablet a scuola ha saputo coinvolgere ed
entusiasmare anche quella popolazione insegnante meno esperta.
Questi docenti, pur partendo da zero hanno raggiunto un buon
livello, tanto che alcuni oggi utilizzano il tablet in classe quotidianamente». Ciò dimostra che non è tanto importante quanto le
nuove tecnologie siano conosciute dagli insegnanti, ma la motivazione che li spinge a utilizzarle, il desiderio di mettersi in gioco
e la possibilità di rivoluzionare la vita della classe.
laboratorio Pearson
Il tablet offre vantaggi piuttosto evidenti. Anzitutto il peso dell’oggetto, che elimina l’annosa questione della pila di libri che i ragazzi devono trascinarsi dentro zaini
da sherpa: un’unica tavoletta elettronica contiene
in un centimetro
di spessore le migliaia di pagine
dei volumi che
accompagnano gli
studenti nell’arco
della loro carriera scolastica. Una
libreria imponente, sempre a disposizione, consultabile in ogni
momento. C’è la
possibilità di utilizzare liberamente immagini e video senza bisogno di un’aula multimediale. E dopo un iniziale senso di smarrimento, privati del supporto fisico dei libri, i
ragazzi hanno saputo adattarsi velocemente alla scuola 2.0. «Io direi che l’utilizzo di una
tecnologia che appartiene più ai ragazzi che agli insegnanti non ci mette in svantaggio, ma
in discussione» riflette Fabrizio Di Pietro, docente di storia e filosofia al De Amicis. «E questo, se vogliamo, è l’aspetto più bello del lavoro che facciamo. È una fonte di stimolo e rinnovamento, essenziale per chi deve rivoluzionare quotidianamente la relazione con la propria
materia e i ragazzi che gli stanno seduti davanti». Le possibilità offerte dall’impiego delle
nuove tecnologie, già nella scuola di oggi, sono notevoli. Certo, in realtà pubbliche debilitate dalla cronica mancanza di risorse, il prezzo per l’acquisto di un tablet a ogni studente
rappresenta un ostacolo serio. C’è bisogno di tecnologia a basso costo. Ci hanno pensato
in India, dove un tablet da 30 dollari è nato precisamente come strumento didattico.
Guarda il video
dell'esperienza
dell'Istituto De Amicis
http://link.pearson.it/
C2E2F9B6
L’UTILIZZO del tablet a scuola sembra la naturale evoluzione di una didattica che, per
molti, già da qualche anno andava in quella direzione, con pc e proiettore spesso portati
in aula. Certo, da quando anche i ragazzi hanno il tablet in classe, il cambiamento è stato
consistente perché si è capito che la didattica multimediale non è semplicemente passare
dalla carta al pdf o aggiungere qualche video, bensì qualcosa di sostanziale: si possono
utilizzare delle risorse Internet che aumentano le competenze degli studenti nelle singole
discipline, si possono assegnare compiti prima impensabili, le ricerche possono diventare
piccoli cortometraggi girati nel luogo dove i ragazzi vengono spediti virtualmente (uno
scavo archeologico, la galleria di un pittore). C’è chi, fra gli insegnanti, sa trasformare le
sue competenze e con questi nuovi strumenti ottiene una maggiore potenza di fuoco fra le
trincee dei banchi di formica. Altri non ne vogliono sapere, ancorati a una narrazione della
materia più tradizionale. Come vuole la più classica delle definizioni, la tecnologia spacca
insomma i docenti tra apocalittici e integrati. Anche se, molto spesso, la vera sfida diventa poi l’accesso garantito a una banda larga di qualità per studenti e professori, in classe
come a casa. Altrimenti si rischia di passare la lezione nell’attesa che il video si carichi. •••
Laboratorio Pearson
L'aiuto che VALE
di Stefano Federici e Cristina Gaggioli
laboratorio Pearson
Le tecnologie assistive e gli strumenti compensativi per gli studenti
con DSA non sono un pretesto per non imparare, ma un modo
per dar loro la possibilità di concentrarsi sul ragionamento
e l’attività logica: meglio conoscerli e cominciare a usarli
C
hi di noi non conosce il
proverbio tutto italiano "chi non legge la sua
scrittura è un asino di
natura?" E se ciò che è capitato a molti di noi una volta non
fosse un intoppo imprevisto? Se
ogni volta che si provasse a leggere un proprio manoscritto lo si
trovasse incomprensibile? Avrete
notato che il proverbio non lascia
intendere che l'asino sia un analfabeta o uno che non sa scrivere,
ma una persona che ci si aspetterebbe che non sbagliasse a leggere la propria scrittura, essendo
stato alfabetizzato. Il proverbio
esprime con chiarezza un pregiudizio diffuso tra coloro che con
facilità e naturalezza hanno appreso i meccanismi di decodifica
grafema-fonema, nel caso della
lettura, dell’esecuzione del tratto grafico, nel caso della scrittura, degli automatismi di base del
calcolo: è stato così facile farli
propri e automatizzarli che solo
un asino, un testardo, uno stupido potrebbe non riuscirci.
Ma non è così per un bambino
con un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). E non perché
svogliato, disattento e non motivato, ma in quanto i meccanismi
neurobiologici che sottostanno ai
processi di apprendimento della
laboratorio Pearson
letto-scrittura e del calcolo gli si sono inceppati o funzionano diversamente. Se un
bambino dislessico "asino lo è", lo è proprio nel senso più positivo del termine: è un
testardo nell’apprendere nonostante le sue difficoltà, un testardo nel continuare a leggere un manoscritto che, se lui fosse anche disgrafico, non scriverà con un tratto grafico
corretto, che non smetterà di servirsi delle dita per far di calcolo, nonostante abbia capito, forse molto meglio di
altri, le regole e la logica
matematica. Non è uno
stupido e per questo sof“L'uso di uno strumento
fre dei propri insuccessi
scolastici. Ce l’ha messa
compensativo non significa
tutta e per questo è mortificato del disprezzo dei
che lo studente rinuncia a
compagni. Se dopo aver
ripetuto un certo numefare qualcosa bensì che non
ro di volte la tabellina del
sei, nove bambini su dieci
esaurisce lì le sue risorse"
sono in grado di ricordarsela, uno, invece, è completamente impermeabile
a queste informazioni e,
se non potesse far uso di uno strumento compensativo, fosse anche una tavola pitagorica,
nonostante anni di tentativi per apprendere la stessa tabellina, sarà costretto a ricorrere
a dispendiose strategie alternative, come contare sulle dita.
Tuttavia, questa difficoltà nel conteggio e nell’automatizzazione del calcolo non comporta di per sé una carenza logico-matematica. Il suo senso logico, la sua intelligenza
logico-matematica non sono compromessi dal suo DSA e potrà ottenere degli ottimi risultati scolastici qualora si faccia leva sulle sue capacità logico-matematiche e si compensino le sue carenze attraverso semplici strategie alternative e ausili per il calcolo,
laboratorio Pearson
come la calcolatrice parlante, che aiuterebbe a superare la difficoltà nel distinguere il 5
dal 2 o il 9 dal 6. Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici che
sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Molti credono
ancora che permettere a uno studente di usare uno strumento compensativo significhi
rinunciare per sempre alla possibilità di recuperare le abilità carenti e fornire allo studente un pretesto valido per non fare qualcosa: far leggere un asino. In realtà, l’introduzione dello strumento compensativo solleva l’alunno con DSA da una prestazione resa
difficoltosa o impossibile dal disturbo, facendo in modo che le sue risorse attentive
non si esauriscano nell’esecuzione dei meccanismi di base della letto-scrittura o del
calcolo, ma si rivolgano ai contenuti del testo scritto, ai problemi logico-matematici,
al ragionamento e alla produzione di idee.
Quando parliamo di strumenti compensativi intendiamo strumenti hardware e software sia di uso comune sia creati per un uso speciale, che in questo secondo caso vengono
chiamati tecnologie assistive. Una soluzione compensativa è spesso il risultato della
combinazione di un comune computer portatile o da tavolo con cui sono stati installati
alcuni applicativi che in parte si avvalgono di funzioni software già esistenti nel computer, come i programmi di videoscrittura (Word o Open Office), e dall’altra aggiungono
opzioni specifiche per studenti con DSA come FacilitOffice (www.facilitoffice.org).
Per esempio, uno strumento come la sintesi vocale, che trasforma un file di testo in voce,
Un aggiornamento continuo sul web
per sapere come intervenire
> Il tema dei DSA è ormai entrato pienamente nel mondo della scuola, ma c’è un continuo
bisogno di aggiornamento delle conoscenze, da molti punti di vista. Da un lato, infatti,
proseguono in tutto il mondo gli studi scientifici su dislessia, discalculia e gli altri
disturbi dell'apprendimento per mettere in luce le cause di questi problemi e così aiutare
a individuare sempre meglio gli strumenti adatti a fronteggiarli. Contemporaneamente
diventa sempre più ricco il dibattito sugli interventi didattici e sul confronto delle diverse
esperienze, anche internazionali. E poi ci sono le esperienze personali, di genitori e di
docenti, che meritano di essere condivise come piccole o grandi testimonianze delle
difficoltà incontrate e dei risultati ottenuti. Infine, è necessario approfondire le novità dal
punto di vista normativo.
All’interno del sito di iS è stato perciò creato uno spazio specificamente dedicato ai DSA
(http://is.pearson.it/dsa/) dove ogni mese vengono pubblicati interventi di esperti e materiali
che è anche possibile scaricare (http://www.pearson.it/dsa-materiali) e attraverso il quale si
possono conoscere tutte le iniziative per la formazione messe in campo da Pearson (http://
www.pearson.it/formazione-eventi).
> Gli esperti che collaborano a questa sezione del sito sono Paola Eleonora Fantoni,
docente di inglese e formatrice sui DSA, Ugo Avalle, pedagogista e formatore, esperto in
DSA e BES, Leonardo Romei, docente di semiotica, Antonella Zauli Sajani, pedagogista,
consulente grafologa e rieducatrice della scrittura, docente.
laboratorio Pearson
solleva lo studente con dislessia dal faticoso compito della lettura, permettendogli di
concentrarsi sul contenuto del testo. Qualora un libro non fosse disponibile in formato
digitale si può ricorrere o a un ausilio come lo scanner a penna che legge - che oltre
a catturare il testo lo pronuncia e lo definisce parola per parola - oppure al progetto
LibroAID (www.libroaid.it), promosso dall’Associazione Italiana Dislessia, che fornisce a
studenti dislessici o ai loro genitori una copia digitale dei libri scolastici adottati nelle
classi di ogni ordine e grado.
Ma senza la collaborazione di specialisti che seguono l’alunno con DSA su un piano
clinico, non è sempre facile per un insegnante capire quando è il caso di allentare con la
lettura autonoma e introdurre strumenti compensativi o quando smettere di correggere
gli errori ortografici e focalizzarsi solo sulla sintassi e il contenuto. •••
> Asino chi non legge? Riconoscere e gestire i disturbi specifici di apprendimento, di Stefano Federici,
Valerio Corsi e Marina Locatelli, Pearson, 2014
> Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, di Stefano Federici e Marcia J. Scherer, Pearson, 30,00
euro, 2013
Laboratorio Pearson
È nato e sta crescendo un movimento trasversale fatto di docenti, educatori e genitori
che mettono al centro quattro concetti chiave per la formazione dei giovani del futuro:
pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività. Le loro esperienze, raccontate
in una serie di video, possono diventare un esempio e uno stimolo per molti
laboratorio Pearson
I
n un mondo che sta ridisegnando i propri connotati con una velocità senza precedenti,
la scuola è chiamata a tenere il passo e a prepararsi a quello che, da molti punti di vista,
rappresenta un cambiamento epocale. Del resto, tra i banchi e la cattedra, c’è grande
urgenza di sostituire modelli improvvisamente invecchiati con approcci nuovi e diversi.
Ma quali possono essere questi approcci? Nessuno ancora lo sa con certezza. Una proposta
mette al centro “Critical thinking, communication, collaboration, and creativity”. Pensiero
critico, comunicazione, collaborazione e creatività: quattro “C” per quattro concetti tanto
semplici quanto importanti che indicano la direzione verso
cui dirigersi nella formazione nel ventunesimo secolo. In
Critical thinking,
molti istituti statunitensi, dalla costa Ovest della Califorcommunication,
nia a quella Est della Virginia, questa teoria è già divencollaboration, and
tata pratica. A dimostrarlo, tre video prodotti da Pearson
creativity. Pensiero
Foundation assieme a EdLeader21, un «network di dirigenti
critico, comunicazione,
di scuole e distretti scolastici impegnati nell’integrare le 4C
collaborazione
nell’educazione», che raccontano un mondo dell’istruzione
e creatività: quattro “C”
che, da quelle parti, si è già rimboccato le maniche e che
per quattro concetti
può certamente rappresentare un modello a cui ispirarsi.
tanto semplici quanto
Ma che sono anche la testimonianza di un fermento e di
importanti
un fenomeno inedito, la cui spinta arriva dal basso, da chi, a
livello locale, sta cambiando radicalmente la didattica in un
processo spontaneo sempre più esteso e comunitario che
affianca e influenza i programmi governativi. Attenzione, però: chi pensa che i concetti trasmessi e le opinioni espresse riguardino esclusivamente la realtà statunitense si sbaglia. Ciò
che questi tre video dimostrano, infatti, ha un sapore universale e, come tale, da prendere
in considerazione anche da chi è immerso in un contesto culturale ed educativo di stampo
diverso. Del resto anche il PISA, il Programma per la valutazione internazionale della formazione scolastica, nel suo prossimo test (previsto per il 2015) terrà conto di queste nuove
competenze per le sue valutazioni degli allievi di tutto il mondo, inserendo ad esempio il
collaborative problem solving, la risoluzione collaborativa dei problemi. «Nel decennio passato si è molto parlato dell’approccio didattico più opportuno per la formazione degli studenti
del nuovo secolo. Ma ci si è concentrati poco su che cosa le scuole o i distretti scolastici devono fare per trasformare tutto questo in realtà. Ora però esistono esempi concreti di scuole,
dirigenti ed educatori che si sono impegnati su questo fronte raccogliendo brillanti risultati»
ha dichiarato Ken Kay, amministratore delegato di EdLeader21. Torri Bryant, Elizabeth Blevins, Julie Sherill, Andrew Wild, sono soltanto alcuni nomi dei docenti, dirigenti scolastici
ma anche genitori e studenti che il cambiamento
lo stanno sperimentando nella loro quotidianità.
Sono loro, con le loro testimonianze raccolte nei
video, a farci entrare in un diverso mondo possibile di cui sono fautori e promotori, raccontando
«i modi in cui le nuove strategie educative possono
essere integrate e implementate nella scuola e nelle
comunità locali» come ha affermato Mark Nieker,
amministratore delegato e presidente della Pearson
Foundation. Passo dopo passo, i tre filmati analizzano ogni singolo aspetto di un processo complesso
laboratorio Pearson
•Alcuni studenti
della Catalina
Foothills School
District di Tucson, in
Arizona, che hanno
raccontato la propria
esperienza nei video
della Fondazione
Pearson.
ma dalle molte potenzialità. The Role of Leaders in 21st Century Education, il primo dei tre
video, si concentra sul difficile compito di chi, come dirigente scolastico, deve pianificare
un nuovo modello di formazione forgiato per fornire ai ragazzi gli strumenti, e non solo le
nozioni, utili per renderli protagonisti attivi nella società che verrà. Nel secondo filmato,
The Four C’s: Making 21st Century Education Happen, le testimonianze raccolte forniscono
una panoramica degli approcci adottati in ogni angolo degli Stati Uniti e delle esperienze
già compiute, affermando il valore della collaborazione e dello scambio tra docenti, del lavoro in team, del coinvolgimento attivo degli studenti nel processo educativo. Soffermandosi
anche sulle difficoltà che questi cambiamenti pongono in essere: per esempio quelle legate
al monitoraggio della nuova didattica e alla valutazione delle inedite prove con cui docenti
e ragazzi sono chiamati a misurarsi. Tema, questo, approfondito nel terzo filmato intitolato
Assessing the Four C's: The Power of Rubrics in cui vengono mostrati gli sforzi fatti dai diversi
distretti scolastici per mettere a punto protocolli trasparenti ed efficaci per inserire le 4C nel
processo formativo e valutare i progressi degli studenti. Quella che ne emerge è una scuola
sempre più sensibile alla realtà e alle sue esigenze presenti e future, capace di mettersi in
discussione sostenendo la circolazione delle idee e favorendo una visione olistica e non più
frammentaria dell’educazione. Una scuola che, grazie ai suoi protagonisti, sa farsi promotrice di un movimento che parte dalla base, denso di idee e di novità e per questo in grado
di dare una vera svolta alla didattica. Come fare per alimentare questo processo? Elisabeth
Celania-Fagen, sovrintendente scolastico della Douglas County Schools, Colorado, in uno dei
video suggerisce di «pensare in grande partendo dal piccolo». Un invito, il suo, a mettersi in
moto con coraggio e indipendenza, individuando quell’eccellenza che, anche a livello locale,
sa fiammeggiare di energia. Incentivare le proposte del singolo individuo o della singola realtà
che hanno il sapore della novità: per Celania-Fagen il giusto approccio è questo. E infatti descrive così la sua ricetta verso il cambiamento: «Diamo a questi innovatori sostegno e risorse:
le nostre aspettative non saranno disattese. Le buone idee, poi, si propagheranno da sole e
divamperanno rapide. Come se fossero fuoco». •••
> I video della Fondazione Pearson http://www.youtube.com/playlist?list=PLD731F512D3D9FEDD
Scarica

Scarica il PDF di iS magazine n°4