Le parole di cui ci nutriamo. L’italiano fra tradizione e modernità ESPERIENZE Sono le persone, le loro idee e i loro progetti, che ogni giorno, nella scuola e nella società, danno significato e valore all’apprendimento. Conoscere come lavorano, quali sono le passioni e le ragioni che orientano il loro agire è la via per trovare nuovi stimoli e nuove direzioni. RIFLESSIONI Apprendimento è cambiamento. E perché il cambiamento possa assumere senso e significati positivi è necessario che coinvolga e contamini i saperi, che trovi equilibrio fra tradizione e innovazione, che metta al centro i temi della cittadinanza e dell’etica. RICERCHE Il lavoro dell’editore è azione quotidiana. Questo vuol dire anche sperimentare, indagare, collaborare con enti e istituzioni, in Italia e nel mondo. Condividere i risultati delle nostre ricerche è un modo per essere in sintonia e in dialogo con chi opera nel campo dell’apprendimento. MAGAZINE Imparare è qualcosa che va di pari passo con la mancanza di paura. Marco Paolini > SAPERI > FORMAZIONE > AGGIORNAMENTO > COMPETENZE > CITTADINANZA iS magazine è uno strumento di dialogo, servizio, condivisione. Due numeri l’anno, in edizione cartacea e in versione digitale, scaricabili su computer, tablet e smartphone. NEWSLETTER > INTERCULTURALITÀ > IDENTITÀ > COLLABORAZIONE iS espresso è un appuntamento mensile di informazione e di intervento: attualità, approfondimenti, resoconti delle ricerche e delle attività in corso. > DIALOGO > RICERCA > PROGETTAZIONE > VALUTAZIONE > INNOVAZIONE > TECNOLOGIE > LINGUAGGI SITO WEB is.pearson.it è l’indirizzo web dove trovare tutti i materiali del progetto iS, le espansioni multimediali e gli approfondimenti. editoriale N ell’intervista che apre questo numero, la presidente della Camera Laura Boldrini racconta il suo percorso formativo e professionale, insistendo sul ruolo che vi ha giocato il carattere multiculturale e multilinguistico della sua esperienza presso l’ONU. Più oltre, un fisico e un filosofo, Giorgio Parisi e Mauro Ceruti, ci spiegano che cosa sia la “complessità” e come essa abbia bisogno di un linguaggio che la possa descrivere e concettualizzare. Mentre è chiaro che l’educazione economica e finanziaria, nella quale è ormai impossibile non riconoscere una competenza-chiave di cittadinanza, si traduce innanzitutto nella padronanza di un lessico che è tecnico ma al tempo stesso, nell’èra dello spread, parte del linguaggio quotidiano. Dunque: il linguaggio e la parola come strumenti di comprensione del mondo e di comunicazione interpersonale. Proprio qui si apre un problema, che un linguista non certo facile ai sensazionalismi come Tullio de Mauro denuncia in preoccupante crescita in Italia (oltre che in Europa): sempre di più sono quelli che sanno decifrare un testo ma non capirlo. Sono, con termine tecnico, “analfabeti funzionali”. Periodicamente, quando si pubblicano i dati delle indagini nazionali e internazionali sulle competenze linguistiche dei giovani (INVALSI e PISA) si alzano querimonie e lamenti: sul banco degli accusati, naturalmente, la scuola, le nuove tecnologie, la televisione… Poi non è che succeda granché. Forse perché accrescere le competenze linguistiche non è percepito davvero, nella pubblica opinione, come un grande obiettivo nazionale. Ricette non ce ne sono; ma certo non si faranno passi avanti senza creare un contesto in cui la straordinaria importanza e ricchezza della parola - dentro la società moderna, non contro di essa – siano comprese e diffuse. La scuola e l’educazione vi possono e devono giocare un ruolo decisivo. Perciò abbiamo dedicato alla Lingua salvata il dossier che fa da perno a questo numero iS. L’editore Imparare è un verbo ricco di significati. Imparare vuol dire migliorarsi, crescere, vivere senza barriere. Non solo a scuola ma ovunque, e a qualunque età. Il nostro sogno? Un mondo dove la scuola sia di nuovo considerata maestra, perché i buoni insegnanti aiutano a crescere. Un mondo dove anche chi è adulto possa continuare a imparare per realizzare i propri desideri. Noi di Pearson ci crediamo. A questo lavoriamo. direzione Massimo Esposti Rivista aperiodica distribuita gratuitamente nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A. comitato editoriale Marika De Acetis Luciano Greco Elena Grossi Marina Loffi Randolin Paolo Magliocco Valentina Murelli Si autorizza la riproduzione dell’opera purché parziale e a uso non commerciale. grafica Antonella Regina iS è un marchio di proprietà di Pearson Italia S.p.A. Corso Trapani 16 -10139 Torino ricerca iconografica Cecilia Lazzeri RI651800103M Stampato per conto della Casa Editrice presso Arti Grafiche DIAL, Mondovì (CN), Italia correzione bozze Elisa Manera immagine di copertina © Manuela Boldi L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali non volute omissioni in merito a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite in questo numero. Tutti i diritti riservati © 2013 Pearson Italia S.p.A. www.pearson.it [email protected] sommario Portfolio Intervista Laura Boldrini, 12 L'inquietudine e la costanza Una vita alla continua ricerca del nuovo, senza perdere di vista i propri punti fermi di Farian Sabahi Esperienze: la scuola si confronta La scommessa economica Il punto sull'alfabetizzazione economico-finanziaria nelle scuole italiane. E l'esigenza di un progetto unitario di Paolo Prati Maghi dei numeri per un giorno. Torino 18 Toccare il cielo con un dito. Nus, Valle d'Aosta Osha, mikono! Nairobi, Kenya 6 Dialogo In viaggio nella complessità Giorgio Parisi, fisico e matematico, incontra Mauro Ceruti, filosofo della scienza di Paolo Magliocco 25 Esperienze: la scuola si racconta La matematica non convenzionale Studenti, docenti e ricercatori universitari insieme per trasformare una materia astratta in un'avventura di Eleonora Viganò 32 sommario 36 Dossier La lingua salvata Otto riflessioni sull'importanza di conoscere e padroneggiare la lingua italiana ITALIANO > pag. 39 Se 2000 parole posson bastare di Luca Serianni Tecnologia della comunicazione > pag. 42 La miniera digitale, intervista a Gino Roncaglia di Nicola Tramontana Sociolinguistica > pag. 48 Gioventù creativa, intervista a Michele Cortelazzo di Paolo Panella LETTERATURA MIGRANTE > pag. 53 Io, venditore di italiano di Pap Khouma ITALIANO > pag. 59 Una lingua sempre più amata di Giuseppe Patota Linguaggio scientifico > pag. 64 Nessuna è come la madre di Maria Luisa Villa Linguistica computazionale > pag. 69 Matematica, bit e parole di Mirko degli Esposti ENIGMISTICA > pag. 75 Parlare è un po' giocare di Ennio Peres Eppur si muove Benchmark La difficile arte di valutare l'istruzione La difficoltà di preparare prove standardizzate valide per tutti di Roberto Ricci Che cosa significa saper leggere Quel buco che riempie un vuoto Un modo nuovo di apprendere, dalle periferie urbane dell'India di Donato Ramani 80 L'allarme per l'analfabetismo funzionale di Silvia Paris sommario Cittadinanza Piccoli cittadini crescono Educare alla cittadinanza attiva, uno studio comparativo in Europa di Erica Cimò 101 Esperienze: oltre la scuola Il valore della conoscenza Perché la conoscenza è diventata il bene più prezioso e come si può metterla a frutto di Isabella di Nicola 96 iS continua: - online, sul sito is.pearson.it - con la newsletter iS espresso: scopri sul sito come iscriverti - nei social network: twitter.com/iS_Pearson www.facebook.com/iSPearson www.youtube.com/user/iSPearsonVideo sommario 107 Focus Tech Uniti si impara Idee per sfruttare al meglio le nuove tecnologie nella scuola di Filippo Bonaventura Dalla tavoletta al tablet Miti e realtà della tavoletta elettronica e del modo in cui può essere usata in classe di Marco Meschini Laboratorio Pearson E tablet sia! Viaggio in un liceo laboratorio che ha deciso di mettere i tablet alla prova di Davide Coero Borga L'aiuto che vale L'importanza delle tecnologie assistive per i DSA di Stefano Federici e Cristina Gaggioli 4C per disegnare il futuro Quali sono i concetti chiave per la formazione dei giovani? di Donato Ramani 116 PORTFOLIO MAGHI DEI NUMERI PER UN GIORNO Torino Foto: Pasquale Juzzolino/FGA Il mondo magico della matematica può aprire le porte all’improvviso ai bambini delle scuole elementari e rivelare, almeno per un giorno, i suoi tesori e i suoi misteri. Così è successo a Torino, grazie alla collaborazione tra la Fondazione Agnelli, l’associazione culturale CentroScienza, l’Ufficio scolastico regionale e le facoltà di matematica e fisica dell’Università, che hanno organizzato il primo workshop La matematica conta, dedicato a 400 allievi delle scuole primarie del Piemonte. Nelle grandi sale del Museo dell’auto i bambini hanno potuto giocare con la logica, i calcoli e la statistica aiutati dai ricercatori universitari e dal fatto di trovarsi in un ambiente così diverso da quello dell’aula di una scuola. L’obiettivo è trasmettere non tanto conoscenze quanto, proprio come nel libro di Hans Magnus Enzensberger, Il mago dei numeri, lo stupore e il fascino del contatto quotidiano con una materia così rigorosa da apparire fredda, ma in grado di aiutare grandi e piccoli a tentare di comprendere e dominare l’incertezza del mondo. P.M. PORTFOLIO Toccare il cielo con un dito Nus, Valle d’Aosta Foto: NUS Il telescopio punta dritto su Saturno, il gigante gassoso che, con i suoi anelli, è una delle meraviglie del Sistema solare. All’Osservatorio astronomico della Regione autonoma Valle d’Aosta di Lignan, nel comune di Nus, è una delle serate dedicate alle scuole superiori, ma sulla terrazza didattica si alternano bimbi e ragazzi di ogni età e anche adulti. In un incontro tipo si imparano a riconoscere le costellazioni, si ascoltano esperti raccontare di pianeti, evoluzione stellare o buchi neri e, grazie ai 7 telescopi disponibili, si possono guardare immagini spettacolari. Anelli di Saturno compresi. Un’occasione unica perché, a differenza di quanto accade con altre discipline scientifiche, l’astronomia è davvero difficile da “toccare con mano”. All’Osservatorio ci si riesce, anche perché qui non si fanno solo didattica e divulgazione, ma pure ricerca, quella vera, con progetti che spaziano dallo studio della corona solare a quello degli asteroidi, dalle indagini sulle emissioni luminose delle galassie attive a quelle sui pianeti extrasolari. E così si può scoprire dal vivo in che cosa consista davvero il lavoro spesso misterioso dell’astronomo. V.M. PORTFOLIO OSHA MIKONO! (lavati le mani) Nairobi, Kenya Foto: Xinhua/Eyevine/Contrasto Da qualche anno c’è anche la giornata mondiale del “lavarsi le mani”, messa a calendario il 15 di ottobre. Verrebbe da sorridere, senonché in questo caso la faccenda è di non poco rilievo, e i dati sono drammatici. Oltre due milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno di diarrea e polmonite, una cifra che potrebbe drasticamente abbassarsi se si diffondesse l’abitudine di lavarsi le mani con il sapone. Il CDC (Center for Diseases Control) di Atlanta ha valutato che questa forma di “vaccino fai da te” ridurrebbe fino al 50% la mortalità da infezioni gastroenteriche e dal 20 al 40% quella da gravi affezioni polmonari. Senza contare che queste malattie sono massimamente responsabili delle assenze a scuola. La promozione di una simile pratica con qualunque mezzo può diventare una pietra miliare nel miglioramento delle condizioni di salute di moltissime persone, non solo, anche se lì prioritariamente, nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta inoltre di una pratica poco costosa e di relativamente facile e capillare attuazione. Il Kenya è tra le nazioni più impegnate nella campagna, e intende coinvolgervi oltre un milione di abitanti. M.L.R. INTERVISTA L’inquietudine e la costanza di Farian Sabahi intervista La presidente della Camera Laura Boldrini racconta sé stessa, tra la smania di conoscere e viaggiare e un impegno che dura da sempre a favore delle persone svantaggiate, l’importanza dello studio e quella dell’esperienza sul campo, la necessità delle regole e la capacità di cambiare idea. Una vita alla continua ricerca del nuovo senza mai perdere di vista la necessità di trovare una sintesi. E una mediazione S ono cresciuta in provincia di Ancona e ho trascorso l’infanzia nella campagna di Jesi. Quell’ambiente provinciale ha stimolato la mia curiosità, il desiderio di conoscere e andare oltre. In un certo senso il percorso che ho intrapreso nasce da queste esperienze giovanili». Così racconta se stessa, sorridendo, Laura Boldrini, nella penombra del suo ufficio a palazzo Montecitorio in un caldo pomeriggio estivo. Cinquantadue anni, marchigiana, presidente della Camera dei deputati dal marzo 2013 dopo più di quattordici anni come portavoce dell’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati. «Tanti anni di impegno nelle agenzie delle Nazioni Unite mi stanno tornando utili in politica. L’esperienza di mediazione maturata all’ONU, diversa rispetto a quella di coloro che hanno una formazione di partito, è importante per “Dare delle regole talvolta può chi deve essere super partes». essere pesante, ma è un atto Presidente, nella sua storia emerge l’intreccio tra lo studio e i viagd’amore perché solo così i figli gi, i libri e l’esperienza sul campo. Che peso dà alla formazione? diventeranno adulti” Laura Boldrini La formazione fornisce gli strumenti essenziali per interpretare la realtà ed è alla base della consapevolezza: difficilmente si è consapevoli senza una formazione adeguata. Quando la scuola forma bene, fornisce gli strumenti per diventare buoni cittadini. Lo stesso vale per le istituzioni: quando sono buone, suscitano rispetto e facilitano il compito di diventare buoni cittadini. In questo senso, gli insegnanti svolgono un ruolo di fondamentale importanza perché sono il baluardo della legalità, anche nei contesti più difficili. Un ruolo non sempre riconosciuto. Per questo sarebbe opportuno dar loro un riconoscimento materiale e sociale, affinché si sentano essenziali nella formazione dei giovani. Vedere gli insegnanti lavorare con poche risorse deve far riflettere. In tempo di crisi la scuola non andrebbe penalizzata. Al contrario, •Laura Boldrini sul suo seggio di Presidente è nei periodi di maggior incertezza che la scuola e la cultura dovrebbero essere sostenute della Camera: è stata eletta il 16 marzo 2013. come fanno tanti Paesi emergenti investendo nella ricerca, nell’educazione e nell’innovazio Foto: Augusto Casasoli/A3/ ne, riuscendo così a far decollare l’economia. Contrasto Come è stato il rapporto con i suoi genitori, l’uno avvocato e l’altra insegnante d’arte e antiquaria? Quanto hanno contato nelle sue scelte? Come la scuola, anche la famiglia è fondamentale. Mio padre era severo, poco incline alla modernità, nel tempo libero amava studiare e non era granché disponibile a relazionarsi con noi figli. Se da mia madre ho imparato l’empatia con gli altri, a socializzare e a entrare in contatto con le persone, da mio padre ho acquisito il rigore, il senso delle regole, il rispetto dell’impegno preso, che per me diventa un imperativo. •Laura Boldrini parla con alcuni rifugiati palestinesi e iracheni durante una visita come portavoce dell’UNHCR a Riace (Reggio Calabria). Foto: Antonio Zambardino/ Contrasto Lei ha una figlia, studentessa in un ateneo inglese. Quanto conta dare delle regole, anche severe, ai figli? O forse imporre dei limiti è un modo superato di porsi? I genitori devono saper ascoltare i figli e avere un rapporto aperto con loro, ma devono anche essere normativi e quindi dare delle regole. Talvolta può essere pesante, ma è un atto d’amore perché solo così i figli diventeranno adulti, facendosi carico delle loro responsabilità. Porre dei limiti, per esempio nelle uscite, è assolutamente positivo e sotto sotto i ragazzi intervista lo apprezzano. Le regole si possono anche non rispettare, ma se questo accade bisogna sapere dare delle motivazioni ed essere all’altezza della sfida: una sfida che rafforza i giovani. C’è un momento in cui ricorda di aver deciso quale sarebbe stato il suo futuro? Oppure il suo impegno si è definito passo dopo passo? Durante il mio primo viaggio in America centrale ho capito che non avrei trattenuto la curiosità: come si fa a vivere tutta una vita senza sapere che cosa c’è oltre? È scattata la frenesia di conoscere altre dimensioni, culturali e religiose. Ho capito che quello che è assoluto in un luogo non lo è altrove, e ho relativizzato. È successo, per esempio, quando ho notato che una religione così sentita in un paese è invece demonizzata in un altro. Viaggiando si ha uno sguardo talmente diverso che si è obbligati a realizzare una sintesi. E nella sintesi c’è la maturità di chi riesce a prendere il meglio delle cose. Oggi questa conoscenza mi porta ad avere una maggiore capacità di mediazione rispetto a chi è cresciuto e ha vissuto con le stesse convinzioni di sempre, le stesse idee dei genitori e dei nonni. Come è cominciata la sua avventura nelle agenzie dell’ONU? Ho fatto il concorso per JPO, Junior Professional Officer, sono stata selezionata, da lì ho iniziato a lavorare prima alla FAO e al World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite per i programmi alimentari di emergenza, poi all’Alto commissariato per i rifugiati. Volevo dare un senso alla mia vita. Mi piaceva scrivere e raccontare, ma non “È necessario mi bastava. Allora ho pensato che lavorare al servizio di una causa umanitaria rivoluzionare potesse darmi più motivazione rispetto al solo scrivere. Per questo ho lavorato l’immagine femminile, ventiquattro anni in varie agenzie delle Nazioni Unite. perché incide sul Cosa vuol dire essere dipendenti di un organismo così complesso come le Narispetto nei confronti zioni Unite? E come si impara a collaborare in ambito internazionale? delle donne” Laura Boldrini È un esercizio di convivenza tra più culture: i miei superiori sono sempre stati stranieri e quindi ho lavorato in lingue diverse dall’italiano. Quasi sempre in inglese, francese, spagnolo. Certo, in Italia si usa anche l’italiano, ma la nostra non è una lingua ufficiale delle Nazioni Unite. In un ambiente del genere bisogna avere la flessibilità per confrontarsi con persone di formazione diversa, è un esercizio di convivenza. Un esercizio a doppio senso: si impara e si insegna. Ci sono cose che ha imparato sul campo e che dovrebbero invece far parte del percorso di ognuno? La formazione scolastica, teorica, pone le basi, ma è l’esperienza diretta a darti una marcia in più. Solo sul campo puoi mettere a frutto quello che hai imparato sui libri. Lei presta grande attenzione alla comunicazione attraverso i social media, come Facebook e Twitter, che aggiorna quotidianamente. Non crede siano mezzi troppo frettolosi e superficiali per affrontare certi argomenti? I social media sono uno strumento al servizio dei diritti, lo abbiamo visto in Iran, in Turchia e nei Paesi arabi. Di fatto la società è sui social media, che riescono a combattere la solitudine e a colmare il divario tra istituzioni e società civile. Per questo credo sia giusto e opportuno che le istituzioni comunichino anche attraverso questi mezzi, che le rendono più trasparenti e sono un modo per arrivare a persone che altrimenti non si interesserebbero alla politica. intervista Le istituzioni devono fare uno sforzo di comprensione e trasparenza, e in questo i social media sono utili. Ora vorrei che la Camera diventasse “la casa della buona politica” e per questo stiamo avviando una campagna di ascolto, sul web. Una delle sue battaglie è sul diritto di cittadinanza: perché è tanto importante concedere, con lo ius soli, la cittadinanza ai figli degli immigrati nati e cresciuti sul territorio italiano? Concedere la cittadinanza a questi giovani significa da una parte dar loro un senso di appartenenza e dall’altra ottenere maggiore coesione sociale, e quindi una società meno segmentata. Non dare il diritto di cittadinanza a questi ragazzi, che spesso non sono mai stati nel Paese di origine dei loro genitori e non ne parlano la lingua, significa perdere risorse. È la contemporaneità a chiederci di coinvolgerli. Va a vantaggio del nostro Paese, lo arricchisce senza togliere nulla agli altri. Perché dare diritti a una categoria non vuol dire toglierli ad altri. Un’altra sua battaglia è quella contro i femminicidi: che cosa resta da fare dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione della violenza sulle donne e contro la violenza domestica? Il Parlamento italiano ha compreso l’importanza di prevenire la violenza contro le donne, mettendola al centro del dibattito. Camera e Senato hanno sottoscritto la posizione secondo cui la violenza contro le donne è un fatto gravissimo e rientra nell’ambito dei diritti umani. Adesso occorre mettere in atto tutte le misure, anche preventive, previste Un lungo impegno nella cooperazione Nata a Macerata nel 1961, Laura Boldrini è laureata in Giurisprudenza ed è giornalista pubblicista. Si è sempre occupata di cooperazione e nel 1989 ha cominciato a lavorare per le Nazioni Unite. Dal 1998 al 2003 è stata portavoce dell’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati. Su questa sua esperienza ha scritto un libro, Tutti indietro (Rizzoli). È stata sposata e ha una figlia, Anastasia, nata nel 1993. Nel 2013 è stata eletta alla Camera dei deputati nelle liste di Sinistra, ecologia e libertà. Libro preferito. Negli ultimi tempi ho letto con piacere Chicago dell’egiziano Ala al-Aswani e Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid. Tornando indietro con gli anni, sono stati determinanti Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, Il diario di Anna Frank, Il barone rampante di Italo Calvino. Film. Viva la libertà di Roberto Andò. E soprattutto Lincoln di Steven Spielberg, una bella rappresentazione di come la politica debba talvolta essere un po’ cinica per ottenere grandi traguardi di civiltà (e per me solo in questi casi). Brani musicali. Tutti i cantautori e i Radiodervish, un gruppo italiano di world music. Un luogo in cui tornare. Vorrei tornare in tutti i Paesi in cui sono stata per vedere come sono cambiati, ma non credo che ci riuscirò! intervista •Laura Boldrini con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Foto: Antonio Scattolon/A3/ Contrasto dalla convenzione: la formazione delle forze dell’ordine, i finanziamenti alle case rifugio, l’offerta di alternative alle donne che vogliono sfuggire alla violenza. È una battaglia culturale, a 360 gradi. Sono tanti gli elementi da tenere in considerazione, in primis il basso tasso di occupazione delle italiane: nel nostro Paese solo il 47% delle donne lavora, ma senza un reddito non si è indipendenti e non si riesce a sfuggire alla violenza. In secondo luogo dobbiamo riflettere sulla comunicazione pubblicitaria e televisiva che veicola un’immagine di donna-corpo, muta, ridotta a presenza fisica e quindi oggetto. Ma di un oggetto l’uomo fa quello che vuole. Ed è breve il passo verso la violenza. È necessario rivoluzionare l’immagine femminile, perché incide sul rispetto nei confronti delle donne. ••• Esperienze: la scuola si confronta di Paolo Prati esperienze: la scuola si confronta A ltro che scienza triste. Portata nelle aule scolastiche, messa a contatto con gli studenti di ogni livello, vissuta come l’irruzione del mondo reale tra i muri di scuola, l’economia si libera d’incanto della sua sinistra fama di argomento noioso e per niente allegro, e diventa attraente e piena di risorse. Se si guarda quello che succede nelle scuole sul tema dell’educazione economica, sono due gli aspetti che emergono. Il primo è che il numero di scuole, di classi, di docenti e di ragazzi coinvolti continua a crescere, anno dopo anno, senza sosta. Quaranta scuole su cento dichiarano di aver partecipato durante gli ultimi tre anni a qualche progetto, ancora di più nelle regioni del Nord e nelle scuole secondarie di secondo grado. Certo, siamo ancora al di sotto di un livello che possa far pensare che presto tutti i ragazzi durante il loro percorso scolastico avranno l’occasione di una formazione, seppure solo sporadica, su tali argomenti. E, come tutti dicono, la crisi economica sempre più profonda (arrivata in Italia al quarto anno consecutivo) è stata di sicuro un forte incentivo a parlare di più, durante le ore di lezione, di quello che succede nel mondo della finanza, del lavoro, delle industrie, dei mercati. Il fatto che molti ragazzi sperimentino attraverso le proprie famiglie problemi come disoccupazione, cassa integrazione, difficoltà a mantenere il proprio tenore di vita ha reso inevitabile discuterne con loro. Però, e questa è la seconda evidenza, nelle scuole il confronto non “Sappiamo che l’educazione ha mai preso un’intonazione depressiva, non è mai stato vissuto economica è importante e che come la necessità di difendersi da un pericolo, incombente e inenella scuola funziona. sorabile. In qualche modo, parlare di economia ha significato apriPer compiere il passo decisivo re la mente alla possibilità di affrontare i problemi, anziché subirli. serve uno schema d’insieme” In principio, nessuno saprebbe dire quando, a portare un po’ di scienza economica tra le mura scolastiche furono probabilmente professori con l’occhio particolarmente lungo e attento e genitori con qualche competenza in materia, per esempio perché docenti universitari. Erano incontri dedicati a trasmettere qualche concetto di base o anche solo a spiegare fenomeni un po’ magici, come il valore che tutti attribuiamo a un pezzo di carta chiamato banconota. Poi sono state le banche a proporre alle scuole di cominciare a spiegare concetti come il risparmio, il tasso di interesse, l’accumulo di un capitale. Con un reciproco vantaggio: per i docenti di avere a disposizione qualcuno in grado di parlare di ciò che nei programmi scolastici e nei libri di testo non c’è, per le banche di avvicinare i ragazzi al proprio mondo. esperienze: la scuola si confronta Il percorso verso la cittadinanza economica COLLOCANDO ARGOmENTI SpECIfICI NELL’AmbITO DI “CITTADINANzA E COSTITuzIONE” COmE pERCORSO DI INSEGNAmENTO TRASvERSALE A DIvERSE mATERIE 49,9% di Arrows & Letters 38,2% 11,9% SCARSO INTERESSE DELLE fAmIGLIE SCARSO INTERESSE DEI DOCENTI SCARSO INTERESSE DEGLI STuDENTI DIffICOLTà LEGATA ALL’ESTEmpORANEITà DELLE INIzIATIvE REALIzzATE bASSO COINvOLGImENTO DEL CORpO DOCENTE DIffICOLTà DEGLI STuDENTI NELLA COmpRENSIONE DEI CONTENuTI pROpOSTI DIffICOLTà DI COINvOLGImENTO DEGLI STuDENTI 5. PER LE sCuOLE dOVREbbE EssERE INsEgNATA COsì 28,5% 21,2% 20,0% 9,9% 5,0% 3,8% 2,1% EDuCAzIONE ALL’uTILIzzO CONSApEvOLE DEL DENARO CONOSCENzA DEL SISTEmA bANCARIO CONOSCENzA DEL DENARO, DEI pREzzI E DELLA mONETA EDuCAzIONE ALL’ImpRENDITORIALITà GESTIONE DEL buDGET pRObLEm SOLvING EDuCAzIONE AL RISChIO CONSumO pRESENTE E CONSumO fuTuRO pREvENzIONE DELL’INDEbITAmENTO EDuCAzIONE pREvIDENzIALE 4. PRINCIPALI CRITICITà dELLE INIZIATIVE mEssE IN CAmPO 18,1% 14,6% 13,5% 10,6% 9,0% 8,1% 7,4% 6,8% 4,8% 3,6% 3. I TEmI TRATTATI NEI PROgRAmmI FORmATIVI SCuOLA SECONDARIA II GRADO 62,2% SCuOLA SECONDARIA I GRADO SCuOLA pRImARIA 30,9% 29,8% 2. sCuOLE CHE HANNO ORgANIZZATO PROgRAmmI GENITORE O GRuppO CONSIGLIO DI ISTITuTO CONSIGLIO DI CLASSE SINGOLO DOCENTE DIRIGENTE SCOLASTICO GRuppO DI DOCENTI 0,4% 1,1% 8,4% 26,3% 29,1% 34,7% 1. CHI PROPONE L’INIZIATIVA Fonte: Fondazione Rosselli | Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica. COmE mATERIA AuTONOmA esperienze: la scuola si confronta •La sede della Banca Centrale Europea a Francoforte. Nella pagina di apertura, la statua del toro di Bowling Green park, vicino alla Borsa di New York di Wall Street, opera di Arturo Di Modica e simbolo dell'andamento positivo della finanza. Foto: Eightfish/Getty La prima vera svolta, però, è stata nel 2004, quando il consorzio Patti Chiari, nato l’anno prima per aumentare la trasparenza del sistema bancario e la fiducia da parte dei cittadini, ha dato il via al proprio programma per gli studenti. È stato il primo progetto di livello nazionale e potenzialmente rivolto a tutte le scuole. Semplice, immediato, basato sull’incontro di studenti ed esperti per esplorare insieme alcuni argomenti, ha funzionato subito. Così nel giro di poco tempo la sperimentazione è stata estesa a tutti i livelli scolastici, dalla scuola primaria alla secondaria superiore. «La risposta dei docenti è stata subito ottima, abbiamo portato l’esperienza al Miur e agli Uffici scolastici regionali e da quel momento le porte sono state sempre più aperte», racconta Alessandro Malinverno, segretario generale di Patti Chiari. Alessandra Franceschi, professoressa di lettere al liceo classico D’Azeglio di Torino, è una dei docenti che hanno cominciato per caso a partecipare al programma, appassionandosi subito, e oggi è diventata un punto di riferimento per i suoi colleghi: «Non pensavo che i ragazzi avessero così tanta voglia di impegnarsi. E a me ha dato competenze esperienze: la scuola si confronta in più, stimoli nuovi». Dal 2004, il dibattito sulla necessità di un’educazione finanziaria nelle scuole ha cominciato a prendere piede a tutti i livelli, anche grazie all’intervento dell’Ocse, che nel 2005 ha emanato una direttiva con la quale ha invitato tutti gli Stati a promuoverla. Un passo importante. Grazie all’Ocse per la prima volta è stato ufficialmente detto che cosa si intenda con educazione finanziaria, che «può essere definita come il processo attraverso il quale consumatori e investitori possono migliorare la loro conoscenza dei prodotti finanziari e, attraverso l’informazione, la formazione e la consulenza indipendente, sviluppare le competenze e la consapevolezza dei rischi e delle opportunità in materia finanziaria, per formulare scelte consapevoli e intraprendere azioni efficaci per aumentare il proprio livello di benessere finanziario». È stata solo la prima mossa di un impegno sempre più deciso che ha portato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico a inserire nel test Pisa del 2012 una rilevazione sistematica, estesa alla gran parte dei Paesi che partecipano al test, delle competenze in materia economico finanziaria. Per la prima volta è stato verificato (ma i risultati non sono ancora disponibili) quale sia il livello di preparazione degli studenti di tutto il mondo su questo argomento. Ma anche, o soprattutto, per la prima volta l’educazione finanziaria è stata trattata come una componente fondamentale, al pari delle competenze in ambito umanistico o scientifico-matematico, della preparazione scolastica dei ragazzi. Nel frattempo, parecchie cose sono accadute nel mondo e anche in Italia. Un po’ ovunque i programmi scolastici, e non solo, si sono diffusi. Proprio mentre iniziava la sperimentazione di Patti Chiari anche la Banca d’Italia si stava muovendo per fornire alle scuole il proprio aiuto. La banca centrale ha deciso di partire direttamente rivolgendosi a tutti i livelli scolastici e lo ha fatto puntando alla formazione dei docenti anziché al contatto con gli studenti: nel suo progetto i formatori non entrano nelle classi, ma incontrano gli insegnanti, a loro trasmettono i concetti e presentano il materiale divulgativo, spiegando come usarlo, così danno loro gli strumenti per tornare dai propri studenti e affrontare argomenti mai toccati prima. Spetta poi a maestri e professori, però, decidere come sfruttare davvero ciò che hanno in mano, quanto tempo dedicare, come presentare gli argomenti. Naturalmente ci sono anche importanti analogie tra i progetti. Per esempio il fatto di prevedere sempre una valutazione prima e una dopo sulle conoscenze dei ragazzi coinvolti, in modo da poter avere una misura, seppure non precisa, dei risultati ottenuti. E poi l’idea di produrre materiale che finisca in mano esperienze: la scuola si confronta agli studenti e magari li accompagni anche a casa. Nel caso di Patti Chiari, dalle dispense di carta si è passati anche a cd e dvd. «Per noi questa è stata una bella sfida, ha voluto dire confrontarci con un modo di raccontare le cose davvero diverso, che fosse adatto a tutti» racconta Maurizio Trifilidis, a capo del gruppo di lavoro della Banca d’Italia, che si è concentrata su quaderni didattici dedicati alla moneta e, per i più grandi, alle diverse forme di pagamento. I ragazzi, e anche i loro genitori, hanno apprezzato molto, come racconta Maria Gentile, maestra di una scuola primaria di Roma, che ha sperimentato quest’anno per la prima volta il progetto messo a punto in via Nazionale. «Per ora ci siamo occupati della parte storica sulla moneta, senza arrivare a toccare concetti più difficili come per esempio l’uso di un assegno, ma certamente porterò avanti il lavoro anche l’anno prossimo». Per l’Osservatorio Giovani-Editori puntare in modo diretto sui temi economici è stato un passo naturale e inevitabile: chi vuole aiutare i ragazzi a impadronirsi dei giornali deve aiutarli a padroneggiare anche concetti e parole che ormai sono usciti dalle pagine dedicate all’economia per colonizzare quelle dedicate alle cronache politiche, agli esteri e persino a quella locale. Così all’interno del lavoro dell’Osservatorio è nato il progetto Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere, che nell’ultimo anno si è articolato su dieci temi e ha prodotto anche un quaderno di lavoro. Nel frattempo, molti altri soggetti, dalle assicurazioni alle associazioni dei consumatori a quelle dei promotori finanziari, hanno continuato a proporre alle scuole il proprio aiuto, con iniziative grandi e piccole. Che cosa potrà succedere da qui in poi non è facile capirlo. Se si dovesse far decidere ai docenti, la stragrande maggioranza farebbe entrare l’educazione economica subito nei programmi scolastici, ma come percorso di insegnamento trasversale a diverse materie, piuttosto che come disciplina autonoma. E riprendendo in mano le redini del discorso con la propria classe. La professoressa Paola Spinelli, alla secondaria di primo grado dell’Istituto Settembrini di Roma, ha scelto di parlare di economia partendo dalla geografia, sia perché era la materia che insegnava a più classi, sia perché la considera davvero quella che può essere più trasversale nel gruppo lettere. Ha aderito a un bando del Comune, ha usato i seminari di Patti Chiari, poi ha invitato genitori, giornalisti, commercialisti o esperti di legalità e in questo modo ha dato vita a un progetto più articolato sulla cittadinanza attiva, che ha entusiasmato lei per prima, ma pure i ragazzi, arrivati a confezionare autonomamente un libretto. Anche lei pensa che l’educazione finanziaria debba entrare subito nel curriculum, ma non come nuova materia. Le strade da esplorare sono tante. Il consorzio Patti Chiari ha creato un portale in cui sta progressivamente allargando i contenuti e le forme in cui vengono presentati. Adesso economi[a]scuola.it accoglie anche video realizzati in formati che tentano di essere accattivanti per i giovani ed è stata aperta una sezione dedicata ai genitori (il tema del ruolo delle famiglie è certamente uno di quelli ancora poco esplorati e destinati a prossimi sviluppi). Inoltre, è stato creato uno spazio per un’idea che molti docenti di lettere hanno accarezzato: trovare l’economia nei romanzi, usando la letteratura anche per capire come funziona il mondo della produzione o della finanza (dai Malavoglia ai Buddenbrook, da Balzac a Tolstoj, gli spunti non mancano). Da qui a cercare l’economia anche nei film, il passo è stato breve. Poi ci sono i giochi di ruolo, che restano giochi fino a un certo punto: con il progetto di Patti Chiari i ragazzi sono spinti a realizzare un vero e proprio business esperienze: la scuola si confronta plan per far funzionare dal punto di vista imprenditoriale una propria idea originale. Quest’anno ben settanta piani sono approdati alla finale nazionale, mentre qualcuno di quelli presentati negli anni scorsi rischia di diventare un vero progetto industriale grazie alla collaborazione con grandi aziende. Con il gioco si può fare di tutto: il Museo del risparmio di Torino (l’unico del genere in Italia) ha realizzato una app che propone di diventare primo ministro di un’isola e impegnarsi per ridurre il debito pubblico del proprio Stato. I giocatori simulano le decisioni finanziarie e il software restituisce i risultati che si saranno ottenuti anche a distanza di dieci o venti anni con le proprie scelte. «La vera sfida è proprio sul livello della comunicazione, per trovare quella più adeguata per ogni gruppo e per ogni tipo di messaggio» dice Malinverno. Potranno tutte queste sperimentazioni dare vita a un vero e proprio programma scolastico, perché l’educazione economico-finanziaria entri nel curriculum dei ragazzi italiani? E come trasformare un bagaglio di conoscenze, certamente indispensabili per orientarsi nel mondo, in vere competenze? «Sappiamo che l’educazione economica è importante e che nelle scuole funziona. Per compiere il passo decisivo serve uno schema d’insieme» sostiene Francesca Traclò, direttrice della Fondazione Rosselli, che da alcuni anni sta monitorando quello che succede in Italia e che sta portando avanti proprio l’idea di un vero programma da proporre a tutte le scuole e in tutte le classi, dalla prima elementare al diploma delle superiori. Lo sta facendo rileggendo insieme agli autori le sperimentazioni in corso, grazie a un comitato permanente attivato con l’Ufficio scolastico regionale del Piemonte, coinvolgendo economisti, psicologi, matematici e altri esperti ancora. Convinta che l’ingresso nel curriculum sia un passo indispensabile e anche abbastanza urgente. I problemi da affrontare sono ancora molti. Da quello più tecnico della messa a punto di un sistema di valutazione fino a quello di realizzare una reale cittadinanza economica, che dalle scuole si propaghi rapidamente a tutta la società. Senza dimenticare il nemico da sempre in agguato quando le innovazioni diventano obblighi istituzionali: che l’entusiasmo dei docenti, ma soprattutto quello che mostrano i ragazzi quando hanno a che fare con qualcosa che non faccia parte del solito programma, tenda a spegnersi riportando l’economia ad aderire al suo stereotipo di scienza triste. ••• > Il portale economi[a]scuola del consorzio Patti Chiari, con i programmi scolastici, video, canali tematici per docenti e genitori. www.economiascuola.it > Conoscere per decidere Il progetto della Banca d’Italia, con i quaderni da scaricare in formato PDF. www.bancaditalia.it/serv_pubblico/cultura-finanziaria/conoscere/edufin-scuola > Il progetto dell’Osservatorio Giovani-Editori www.osservatorionline.it/page/702/cultura-finanziaria -a-scuola#content > Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica L’indagine della Fondazione Rosselli sulla realtà italiana e internazionale. www.fondazionerosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/attivita_ ricerche1&rice_id=522 Guarda i video dei laboratori dell’ISIS Romero > Il Museo del risparmio di Torino www.museodelrisparmio.it/ http://link.pearson. it/5E64C86A > L’economia buona, di Emanuele Campiglio, Bruno Mondadori, 2012 > Sai cos’è lo spread? Lessico economico non convenzionale, di Andrea Fumagalli, Bruno Mondadori, 2012 dialogo di Paolo Magliocco Foto di Paolo Magliocco e Steve Mezzadri Giorgio Parisi incontra Mauro Ceruti dialogo ››Giorgio Parisi e Mauro Ceruti, un fisico matematico e un filosofo da anni impegnati a studiare la complessità, hanno discusso per noi che cosa significhi abbandonare l’idea di un mondo che può essere compreso fino in fondo per entrare nell’era di sistemi che cambiano e si evolvono attraverso meccanismi probabilistici. Un nuovo paradigma che parte dalla scienza per arrivare a coinvolgere anche il sistema educativo, la società, il nostro intero universo culturale ‹‹ •Giorgio Parisi insegna Meccanica statistica e fenomeni critici presso il dipartimento di fisica dell'Università la Sapienza di Roma. è stato allievo di Nicola Cabibbo. G iorgio Parisi e Mauro Ceruti sono due tra le persone che più in Italia hanno lavorato e lavorano sul tema della complessità. Un argomento di cui si è cominciato a parlare quasi quarant’anni fa, un tema chiave per guardare al mondo di oggi, capire l’evoluzione del sapere, individuare le necessità, soprattutto quelle dei giovani, affrontare i problemi. Fisico il primo, filosofo il secondo, Parisi e Ceruti in tanti anni di lavoro parallelo sulla complessità non avevano mai avuto l’occasione di parlarne faccia a faccia: hanno accettato di farlo per iS, in collegamento via Skype tra Roma e Bergamo. dialogo PARISI. La definizione di complessità è sempre stata problematica. Mi ricordo che 20 o 25 anni fa, quando se ne cominciava a parlare nell’ambito della fisica, uno dei relatori a un incontro aveva detto di aver trovato in letteratura 65 definizioni di complessità, molto diverse tra loro. Quasi tutte facevano una forte distinzione tra complicato e complesso. Mi spiego: un jet è complicato, ma non è considerato complesso, perché ogni parte ha un suo scopo e sappiamo che cosa succede se, per esempio, tagliamo un filo. Un sistema complesso, invece, non è stato costruito a tavolino, ha certamente una sua funzione, ma spesso è il frutto di un’evoluzione e non abbiamo idea di come modificarlo per farlo funzionare in una maniera diversa. •Mauro Ceruti insegna Filosofia della Scienza all'Università di Bergamo, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Direttore della Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. è stato allievo di Ludovico Geymonat. CERUTI. Hai formulato in modo semplice il problema della complessità... Perché la complessità è un problema, che ho appreso a formulare anche dai tuoi colleghi fisici e matematici. Anch’essi hanno scoperto, col tempo, che molti dei loro oggetti erano davvero complessi e, invece, molti problemi che credevano complessi erano semplicemente complicati. E dunque hanno dovuto per forza approfondire la questione. Ma il punto essenziale, per loro come per me, è che il modello di conoscenza e razionalità elaborato in particolare dalla fisica del diciottesimo e diciannovesimo secolo a un certo punto non funzionava più. Non funzionava più il criterio per definire la verità o anche l’affidabilità di una teoria Chi è Mauro Ceruti Mauro Ceruti, filosofo, professore di filosofia della scienza all'Università di Bergamo, è il maggior teorico dell'epistemologia della complessità nel nostro Paese, con un lungo elenco di libri pubblicati in molte lingue attorno a questo tema. Ha cominciato a occuparsi di complessità trent'anni fa e l'ha fatto anche insieme a colui che è stato tra i primi a sviluppare il concetto stesso di pensiero complesso, il filosofo francese Edgar Morin. Il volume da lui pubblicato nel 1985 con Gianluca Bocchi (La sfida della complessità, Bruno Mondadori) è riconosciuto come un classico nel dibattito internazionale sulla complessità. dialogo scientifica. E questo criterio era la sostanziale sinonimia fra determinismo, previsione e prevedibilità. L’imprevedibilità, o il fatto che una teoria non permettesse di prevedere lo stato futuro di un sistema, faceva pensare che ci fosse un difetto intrinseco alla teoria, che quindi avrebbe dovuto essere cambiata in senso maggiormente predittivo. Oppure che ci fosse un difetto della nostra capacità di osservazione. Di questa opinione, ad esempio, era lo stesso Albert Einstein rispetto alla teoria dei quanti. In ogni caso questa epistemologia si fondava sull’idea che in linea di principio, se non di fatto, esiste comunque un punto di vista da cui il comportamento di ogni sistema è perfettamente prevedibile. Nel momento in cui la teoria del caos ha rotto la sinonimia tra il determinismo e la previsione si è posto un problema che dal punto di vista filosofico si è rivelato estremamente interessante: viene meno l’idea che uno solo sia il comportamento degli oggetti studiati dalla scienza, e quindi uno solo il metodo. Si impone il problema del pluralismo epistemologico, metodologico. PARISI. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il cambiamento della predicibilità è un punto fondamentale. Se vogliamo applicare la vecchia idea della predicibilità allo studio del movimento dei singoli atomi, questo paradigma non funziona più. Se siamo interessati a sapere la distribuzione delle velocità delle particelle in un gas, non possiamo pensare di misurare tutte le velocità e le posizioni, sarebbe complicatissimo e allo stesso tempo inutile. Si passa insomma dal fare previsioni certe a fare previsioni estremamente probabili. La probabilità che un bicchiere d’acqua in una stanza a temperatura ambiente ghiacci è praticamente nulla, estremamente piccola, possiamo tranquillamente dire che l’acqua resta acqua. Però dobbiamo renderci conto che non è una predizione certa, ma con una probabilità estremamente, estremamente alta. A livello microscopico, nei decadimenti radioattivi ci sono sostanze in cui per esempio dieci atomi possono decadere: prima uno, poi l’altro e poi l’altro. Il problema è che dal punto di vista concettuale, ma anche Chi è Giorgio Parisi Giorgio Parisi, fisico e matematico, docente all'università La Sapienza, è considerato uno degli scienziati più importanti in Italia oggi, si è occupato di un gran numero di argomenti diversi, dalla fisica delle particelle alla fisica statistica e alla matematica e ha collezionato un lungo elenco dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali, dalla Medaglia Boltzmann al Premio Dirac, dal Premio Galileo alla Medaglia Max Planck. Ottenuti ogni volta per meriti diversi, i riconoscimenti hanno sempre premiato questa sua capacità di spaziare su fronti differenti. Inevitabile, allora, che ottenesse nel 2009 anche il Premio Lagrange: premio che viene assegnato proprio agli scienziati che abbiano più contribuito allo sviluppo della scienza della complessità. dialogo da quello sperimentale, non possiamo assolutamente sapere quale atomo decadrà prima: gli atomi sono tutti uguali e hanno tutti la stessa probabilità intrinseca di decadere. Non ci sono variabili nascoste, come pensava Einstein, non c’è un angelo che passa e quando passa batte le ali e le ali colpiscono un atomo che allora si disintegra. CERUTI. La complessità non è una nozione nel senso in cui lo sono tradizionalmente i concetti della fisica o della biologia. Può assumere una vasta gamma di significati. Però l’etimologia del termine è significativa. Complessità deriva dal verbo latino plectere, che vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso è qualcosa di intrecciato più volte. Complessità evoca una pluralità di componenti, ma anche un’idea di unità: è quasi un ossimoro. Anche il contrario di complesso, cioè semplice, viene da plectere, unito però alla particella sim, e vuol dire intrecciato una volta sola. Questo ci porta all’idea che nella semplicità manchino le dimensioni temporali, storiche, evolutive, che invece sono inscindibili dalla complessità. PARISI. Non avevo mai pensato all’etimologia della parola e mi piace molto. Mi piace perché una delle caratteristiche da sottolineare dei sistemi complessi è che puoi descrivere lo stesso sistema a livelli diversi. Prendiamo un essere umano. Lo puoi cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi e dei singoli elettroni, ma lì non c’è molto di interessante. Puoi descriverlo a livello di ciò che fanno le singole proteine e il DNA, poi a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle informazioni che le cellule si scambiano tra loro, prima quelle più vicine e poi quelle più lontane, per arrivare a ciò che quest’uomo sta pensando, se è sveglio o dorme, se è allegro o triste e così via. Ci sono tutti questi livelli di descrizione che si intrecciano tra di loro. In teoria è possibile capire il comportamento delle proteine a partire da quello dei singoli atomi, quello delle cellule a partire da quello delle proteine e così via. È possibile, non è detto che sia fattibile. Ma quando passi al livello successivo di spiegazione devi introdurre nuovi concetti, nuove parole, e quindi i vari livelli di descrizione si intrecciano e si influenzano. Un sistema semplice lo puoi invece descrivere a un solo livello. Un modo per tentare di catturare la complessità è pensare di doverne fare una descrizione. Un testo della Divina Commedia lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli canti, poi discutere dei vari significati. Su un testo complesso possiamo dire moltissime cose e quindi in qualche modo la complessità ha bisogno di un linguaggio complesso. Bisogna passare dalla complessità dell’oggetto in sé alla complessità del linguaggio che devi utilizzare per descriverlo. Per un sistema semplice è sufficiente un linguaggio semplice, per un sistema complesso è necessario un linguaggio complesso, più ricco, con molti più concetti che interagiscono tra loro. CERUTI. Hai sollevato alcuni problemi filosofici che appartengono alla grande tradizione e che oggi restano assolutamente ineludibili. Innanzitutto il problema dell’implicazione dell’osservatore nelle sue osservazioni: la complessità sta nella realtà o nell’osservatore, sta nell’oggetto o nel linguaggio attraverso il quale cerchiamo di studiare l’oggetto? dialogo PARISI. Per me è difficile dirlo, perché in qualche modo io posso “toccare” le cose solo con il linguaggio. Con il tipo di linguaggio e di cervello che ho, per me certi sistemi sono complessi. Però potrei anche immaginare che un extraterrestre con un cervello diverso dal mio troverebbe semplice quello che a me appare complesso e viceversa. Quindi non mi azzardo a dire qualcosa della realtà, preferisco limitarmi a dire che io descrivo la realtà conoscendo il linguaggio che uso. CERUTI. E poi c’è la questione della separabilità dei componenti di un sistema e della loro conoscibilità in modo distinto. Galileo Galilei, quando introdusse la sua idea della nuova scienza, si pose il problema di quali fossero i limiti di ciò che possiamo conoscere. Per lui, la conoscenza della natura era come la costruzione progressiva di un grande mosaico. Tra la “Complessità significa conoscenza umana e quella di dio secondo Galileo non c’è alcuna differenza qualitativa, ma solo quantitativa: passare da un mondo i tasselli del mosaico che la scienza umana conosce li di previsioni certe conosce bene quanto la mente divina. Ma ne conosce a uno di previsioni basate pochissimi, rispetto all’onniscienza divina, che li conosulla probabilità” sce tutti. Compito della scienza umana è aggiungere Giorgio Parisi nuovi tasselli nella ricostruzione del mosaico. Qui nasce peraltro l’idea di progresso, lineare e cumulativo. Ma questo significa anche che l’aggiunta di conoscenze nuove non retroagisce a modificare la natura della conoscenza dei tasselli già conosciuti. Si tratta di un’ipotesi non solo epistemologica, ma anche ontologica. I sistemi possono essere scomposti in tasselli che possono essere conosciuti separatamente e la conoscenza di tasselli nuovi non cambia la conoscenza di quelli già acquisiti. Certo, Laplace, introducendo il calcolo delle probabilità per studiare nuovi ambiti di realtà, riconobbe che neanche dal punto di vista qualitativo la conoscenza umana può diventare perfetta come quella divina, perché rispetto a questi ambiti dobbiamo “accontentarci” di una conoscenza probabilistica. Ma aggiunse: se ipotizziamo un demone onnisciente, che in un dato istante conosca tutte le leggi di natura e, insieme, lo stato di ogni particella dell’universo, questo demone saprebbe prevedere non solo il futuro dell’universo, ma anche quello di ogni singola particella. E saprebbe anche ricostruire tutto il passato. Dunque, l’ipotesi è che esista un punto di osservazione assoluto dal quale l’universo si rivelerebbe come un meccanismo, come dicevi tu, complicato, ma non complesso. La dimensione temporale non ne sarebbe costitutiva e il tempo, come credeva anche Albert Einstein, sarebbe solo un’illusione. In una visione del mondo complicata, e non complessa, di volta in volta cerchiamo di spiegare perché le cose siano andate così e perché fosse inevitabile che andassero così. In una scienza dei sistemi complessi, al contrario, rispondiamo ad un’altra domanda: perché le cose sono andate così, anche se non era inevitabile che andassero così e sarebbero potute andare diversamente? PARISI. Questo mi ricorda un bel libro di Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa, in cui si poneva proprio questa domanda. Lui guardava a tutte le specie che erano presenti 530 milioni di anni fa, tra cui c’erano solo uno o due vertebrati, su cui nessuno avrebbe scommesso. Se per qualche motivo si fossero estinti, non avremmo mai avuto i vertebrati. Quello su cui insiste molto Gould è il tema della contingenza: non è necessario che le cose dialogo accadano in un certo modo e sarebbero potute andare in maniera assai diversa. Questo non vale solo per la Storia con la esse maiuscola. Per esempio è stato calcolato che il numero di specie presenti su un’isola è proporzionale alla radice quarta della superficie dell’isola stessa. Ma, detto questo, calcolato il numero di specie che possiamo aspettarci, non si può sapere di quali tipi di specie si tratterà, se millepiedi o pettirossi o altro. Quello che è avvenuto su ciascuna isola resta completamente ignoto. Anche la fisica ha potuto fare passi avanti accettando di fare un passo indietro, come capita spesso: ha dovuto rinunciare a capire ciò che succede in ogni singola situazione e cercare di capire la statistica dei comportamenti in situazioni assai diverse. Sapere che il sistema potrebbe comportarsi anche in modo diverso da quello in cui si comporta è fondamentale. CERUTI. In effetti un sistema complesso è un sistema in cui le proprietà del tutto non corrispondono alla somma delle proprietà delle singole parti. Sono qualcosa di più, ma anche di meno: tutto dipende dalle loro reciproche interazioni. E Stephen Jay Gould, proprio ne La vita meravigliosa, per parlare della complessità della storia della vita ricorre alla metafora molto efficace del film della vita: se potessimo riavvolgere il film della storia della vita sulla Terra, dalle origini fino a noi, e lo proiettassimo da capo, ogni volta avremmo un finale diverso. Non solo per la sensibilità del sistema alle condizioni inziali, ma anche per quella che Gould definisce contingenza. La contingenza non è una semplice attenuazione della necessità ad opera del caso: è la caratteristica ineludibile dei sistemi complessi. La conoscenza dei sistemi complessi non può trascurare l’effetto del tempo sulla loro evoluzione. Ciò non significa criticare in toto la scienza “classica”. Significa piuttosto introdurre un pluralismo metodologico ed epistemologico dipendente dalla pluralità degli oggetti della ricerca scientifica. E la sfida della complessità pone oggi anche una questione educativa: quanto i modi di organizzazione dei saperi nelle nostre scuole e università, non solo nell’ambito di ciascuna disciplina ma anche nelle relazioni tra le varie discipline, possano mutare per favorire il sorgere di quella che chiamerei una sensibilità a un modo di conoscere volto ad evitare la riduzione di un qualunque oggetto di conoscenza a un solo livello di descrizione, di osservazione. Il grande successo della scienza attraverso la proliferazione degli specialismi oggi può avere effetti recessivi e ostacolare la produzione di nuova creatività scientifica. PARISI. Hai toccato molti argomenti interessanti. Questo legame della complessità con l’emergenza di proprietà collettive è estremamente importante. Le proprietà collettive ci sono anche in sistemi non complessi: il nostro bicchier d’acqua quando cambia la temperatura della stanza gela o bolle, e questo è un comportamento collettivo, perché dall’esame dei singoli atomi non è affatto chiaro come un decimo di grado faccia diventare completamente solido ciò che era liquido. La differenza fondamentale è che le proprietà collettive dell’acqua sono semplici: o è un solido o è un liquido, oppure un gas. Nei sistemi complessi invece il numero di possibilità è estremamente più alto. Prendiamo il DNA e la miriade di piante e animali a cui può dare vita, il modo in cui possono ripiegarsi le proteine... L’altro tema, quello di mettere insieme la specializzazione e la capacità di cogliere cose che vengano da un settore diverso, nelle nostre università o nella scienza in generale, è un problema molto serio e delicato. Una mia paura, che forse era più forte in passato, è che nelle università si tenda a selezionare persone iperspecializzate. La prima cosa che dialogo fa una commissione è verificare quali delle pubblicazioni di una persona sono rilevanti per il settore in cui fa domanda. È una cosa un po’ insensata: se un fisico ha dato contributi importanti in epistemologia, questi lavori sono una ricchezza, anche se concorre per fisica matematica. Per esempio, c’è un’interdisciplinarietà molto forte tra la fisica e la biologia, ci sono fisici che studiano i sistemi viventi utilizzando strumenti concettuali che vengono dal mondo della fisica. Posso capire che nell’Ottocento il mestiere del fisico, del biologo o del matematico fossero molto lontani tra loro, ma oggi si stanno sempre più sovrapponendo. CERUTI. Penso che le crisi che stiamo attraversando siano soprattutto crisi cognitive. Albert Einstein sosteneva che il pensiero che crea un mondo non sarà in grado di governare il mondo che ha fatto emergere. Il mondo attuale, interdipendente e globalizzato, è anche figlio del taylorismo economico e dello specialismo tecnico-scientifico. Oggi tocchiamo con mano che ogni problema rilevante è complesso, cioè costituito da una molteplicità irriducibile di dimensioni interconnesse. E inoltre ogni problema o oggetto di conoscenza è interconnesso irriducibilmente ad altri altrettanto complessi. Eppure le intelligenze che sono chiamate a risolverli sono per lo più intelligenze specialistiche. Così le soluzioni cercate e proposte sono il più delle volte esse stesse parte del problema. Il caso più eclatante è quello della scienza economica, che manifesta oggi tutta la sua inadeguatezza, non solo a risolvere i problemi, ma soprattutto a formularli in maniera adeguata. Le maggiori difficoltà nell’affrontare la crisi stanno soprattutto nel nostro “non sapere di non sapere”, e nel modo in cui è organizzata la nostra conoscenza, fin dai primi anni della scolarizzazione: un modo che produce una sempre maggiore frammentazione delle conoscenze, laddove i problemi, sempre più complessi, esigono l’intreccio di differenti dimensioni e punti di vista. Abbiamo bisogno di attrezzarci a pensare la complessità, di attrezzarci a pensare nella complessità non solo in senso tecnico, ma anche cercando di elaborare una cultura all’altezza degli specialismi scientifici e tecnologici di cui disponiamo oggi, e quindi all’altezza della complessità dei problemi che sfidano l’attuale condizione umana.In particolare, la valorizzazione della diversità come condizione essenziale nell’evoluzione della vita, delle culture, delle lingue, va sostenuta all’interno del continuo percorso formativo di ciascuno di noi, fin da quando siamo bambini. Non si tratta solo di lasciar convivere la diversità fra gli uni e gli altri, ma si tratta anche di valorizzare le diversità entro noi stessi: altrimenti queste diversità non si sapranno rapportare tra loro. E ciò penalizzerà la creatività di ciascuno. Bisogna che io abbia la capacità di porre domande al professor Parisi, anche senza avere le sue competenze, per formulare i miei problemi epistemologici. E per saperlo ringraziare per avermi insegnato, come oggi, a riformulare alcuni dei miei problemi. ••• Guarda il video dell’incontro tra Giorgio Parisi e Mauro Ceruti http://link.pearson.it/ FB818DFD > > > La sfida della complessità, Bruno Mondadori, a cura di Mauro Ceruti con Gianluca Bocchi, 2007 Il vincolo e la possibilità, di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina, 2009 La chiave, la luce e l’ubriaco, di Giorgio Parisi, Di Rienzo Editore, 2006 Esperienze: la scuola si racconta La matematica non convenzionale Studenti, docenti e ricercatori universitari insieme alle prese con problemi che riscattano la materia più astratta che ci sia e la trasformano in una grande avventura, in cui la soluzione non è più il frutto di quello che sta scritto sui libri ma della fantasia e dell’ingegno di ciascuno esperienze: la scuola si racconta C ome si fa a suscitare interesse nei confronti della matematica? Lei vuole una risposta che non sono mai riuscito a dare negli ultimi venti anni». Paolo Mora, docente del liceo scientifico Lussana di Bergamo, è abbastanza spietato nei confronti della materia. La matematica si presta poco, meno di altre discipline scientifiche, alla divulgazione. In fisica è possibile trovare agganci alla vita reale, in matematica si può al più leggere qualche saggio divertente, ma l’approccio rigoroso resta tutto formule e gesso alla lavagna. Eppure anche Mora, come tanti altri suoi colleghi, ha deciso di partecipare, con un gruppetto di studenti, a MATh.en.JEANS, un progetto nato in Francia nel 1989 per insegnare la matematica in modo non convenzionale, e importato nel nostro Paese quattro anni fa grazie al centro interuniversitario Matematita per l’apprendimento informale della matematica e a Kangourou Italia, associazione per la divulgazione della matematica, in accordo con la realtà francese. MATh.en.JEANS è l’acronimo di Méthode d’Apprentissage des Théories mathématiques en Jumelant des Établissements pour une Approche Nouvelle du Savoir che in italiano si può tradurre come Metodo di apprendimento delle Teorie matematiche attraverso il gemellaggio degli istituti scolastici per un approccio nuovo al sapere. «Ogni anno è una scoperta» ammette Paola Testi Saltini, responsabile dell’organizzazione. «Anche se le modalità di partecipazione hanno una struttura fissa: un ricercatore, che può essere un dottorando •In queste pagine, alcuni dei lavori presentati dai ragazzi durante l'edizione 2012-2013 di MATh.en.JEANS Foto: MATh.en.JEANS o uno studente di matematica, propone a studenti di medie e superiori un problema matematico da risolvere, lasciandoli liberi di esprimere le proprie idee, senza conoscenze pregresse e senza aspettare che l’insegnante faccia il primo passo». Le novità di quest’anno sono state il coinvolgimento della sede di Trento - insieme a Milano - per l’organizzazione del convegno finale, quello in cui i ragazzi presentano in una sorta di grande festa i propri risultati a tutte le altre scuole coinvolte; la scelta di ricercatori giovani, tirocinanti del terzo anno, e infine la presenza di un ospite “straniero”: il liceo francese Stendhal di Milano. «Non so se vi saranno novità per le prossime edizioni, ma penso che siamo in una fase in cui il primo obiettivo sia quello di diffondere il progetto nelle altre regioni esperienze: la scuola si racconta italiane, al di là della Lombardia, che ha una presenza ben radicata», afferma Paola Testi. La partecipazione viene gestita dalle scuole nel modo che ritengono migliore: alcune scelgono di far partecipare intere classi, di utilizzare le ore di lezione e di sfruttare la comunicazione tra scuole che condividono lo stesso problema e lo stesso ricercatore, altre invece preferiscono il lavoro autonomo e il reclutamento volontario, sulla base dell’interesse per la matematica e le sfide che suscita. «L’adesione volontaria è indispensabile perché il problema da risolvere richiede troppo impegno, sono necessari una forte motivazione e un minimo di capacità», sostiene uno studente della quinta superiore del liceo scientifico Lussana di Bergamo. Tutti hanno a disposizione una piattaforma online per comunicare sempre sia tra studenti dello stesso gruppo di lavoro, sia con altri gruppi e, ovviamente, con il ricercatore, che si presenta fisicamente in classe per tre incontri, lasciando poi i ragazzi liberi di cimentarsi nel ragionamento. Ma proprio l’organizzazione, intesa come gestione dei tempi, e la capacità di usufruire della piattaforma online per comunicare tra scuole e classi diverse, rappresentano i pro“Il bambino, a blemi principali. Il forum di condivisione in alcuni contesti scuola, diventa è stato utilizzato con timidezza, senza commentare le idee primo protagonista di altri, e con un pizzico di pudore nell’esporre le proprie. dell’apprendimento, Alexandro Redaelli, futuro insegnante di matematica, è ormai costruttore e fautore un veterano di questa attività didattica: dopo quattro anni è della propria riuscito a coglierne gli aspetti più complessi e a rendersi conto conoscenza” di quanto sia utile non solo ai ragazzi, ma anche agli stessi ricercatori. «La scelta del problema da sottoporre è di sicuro l’aspetto più complesso» commenta Alexandro. «È fondamentale che sia un quesito che accenda l’interesse degli studenti, che non sia né troppo facile, né troppo difficile, e infine che insegni qualcosa anche a noi che lo progettiamo con l’aiuto dei professori universitari che ci supportano». La soluzione è rigorosamente in mano ai ragazzi: i ricercatori non devono svelarla, i docenti delle scuole neppure saperla. «Alcuni prof vogliono partecipare esperienze: la scuola si racconta in modo prepotente alla risoluzione, vogliono metterci il becco. Un po’ per passione, un po’ per curiosità», svela una “ricercatrice in jeans”. Dopo aver proposto il problema – dalla teoria dei giochi, alla geometria – il ricercatore lascia che emergano idee, fantasia, soluzioni probabili e, perché no, anche voli della mente poco praticabili. Ogni cosa è utile affinché si inneschi una prima discussione e i ragazzi inizino a familiarizzare con il quesito. Quando sono soli, gli studenti si confrontano e lavorano in gruppi per arrivare a risolverlo. «La parte più difficile è convincere i compagni che la tua idea è quella giusta, mentre le loro non funzionano. Siamo tutti convinti di avere la soluzione migliore» commenta Eleonora, dell’Istituto di Istruzione Superiore Italo Calvino di Rozzano, Milano, che con la sua classe si è impegnata nella teoria dei giochi. «È molto stimolante cimentarsi su un problema che sembra non avere nulla a che fare con la matematica, che la renda più appealing e interessante». Il ricercatore svolge un po’ il ruolo di un Socrate della materia: deve indirizzare senza svelare, deve fare domande e non dare risposte, in modo che i ragazzi siano spinti a ragionare facendo attenzione agli elementi giusti, ritornando sul percorso quando fanno qualche deviazione di troppo e giungere insieme alla meta finale. I ragazzi delle medie, grazie a questa esperienza, iniziano ad approcciarsi alle parole matematiche, ai ragionamenti, alle intuizioni e ai suoi metodi. Gli studenti delle superiori, un po’ più formati, affrontano invece la fase finale della formalizzazione, e imparano a gestire un problema matematico in modo corretto. «La discussione era accesa e i ragazzi molto curiosi» racconta Giulia Bernardi, studentessa laureanda all’Università di Milano Bicocca, che ha proposto la teoria dei giochi. «Mi ha stimolato l’idea di presentare qualcosa che si discostasse dalla matematica classica a studenti che spesso non la amano». Elena Panzeri è invece tornata indietro, alle sue personali esperienze: «Vedi gli studenti ricostruire la soluzione del problema senza avere alcuna base, ed è sorprendente. Quando studiavo all’Università ricevevo queste conoscenze in modo rigoroso e spesso passivo». Più il ricercatore è giovane e più viene visto come un compagno con il quale confrontarsi, senza paura di sbagliare, ma con la sensazione di imparare qualcosa di nuovo e stimolante. I professori sono soddisfatti dell’investimento di risorse e tempo: «È un approccio concreto che risponde alla domanda che tutti i ragazzi delle medie si pongono: a che cosa serve la matematica?», commenta Cinzia del Chiaro, dell’Istituto Comprensivo Statale di Valmadrera. Alla scuola secondaria inferiore Santa Maria della Pace di Brescia, che si è occupata delle figure solide, il progetto ha permesso di affrontare un argomento utile per il programma, che i ragazzi assimilano per l’anno successivo, e in più tra gli studenti si è respirato un forte entusiasmo, perché hanno potuto assaporare la bellezza dell’autonomia di un lavoro interamente frutto della loro mente e delle loro idee. ••• Guarda il video del racconto di che cos’è MATh.en.JEANS http://link.pearson. it/6B3E906C > Il sito di MATh.en.JEANS con il racconto delle edizioni passate e le informazioni per iscriversi il prossimo anno www.mathenjeans.it/ Così Elias Canetti titolava la prima parte della sua autobiografia, dedicata all’infanzia e all’adolescenza, dove l’amore per la lingua e per la «coscienza delle parole» intesse a ogni passo la narrazione. Veicolo di scambio e di identità diverse, strumento per rappresentare il mondo e per capirlo, gioco, nutrimento, svago, mezzo di espressione ed emancipazione personale. Sono queste – e altre ancora - le potenzialità della lingua, e la loro salvaguardia ci tocca da vicino, nell’Italia di oggi come nella Bulgaria di inizi Novecento. Le lingue sono alfabeti non solo perché composte di lettere, ma perché introducono alla realtà e consentono di metterla in comune. Non conoscerle e padroneggiarle (i contributi che seguono ne esplorano alcuni contorni) significherebbe accettare una mutilazione. M.L.R. ITALIANO Se 2000 parole posson di Luca Serianni Foto: Falconia/Shutterstock Linguista e filologo, è docente di Storia della lingua italiana all'università La Sapienza di Roma e autore di molti saggi ITALIANO I vocaboli del lessico fondamentale della nostra lingua, quello composto dalle parole più usate, sono poco più di 2000. In realtà l'80% dei discorsi è fatto di 500 termini. Ecco come ci esprimiamo e quanto è cambiato l'italiano dai tempi di Dante L Foto: Falconia/Shutterstock e parole non sono tutte uguali. Non solo perché divergono nei significati e nelle funzioni, ma per la differente frequenza con cui le usiamo. In un’ideale piramide che rappresenti il patrimonio del lessico virtualmente disponibile in una certa fase linguistica (quello accolto in un vocabolario dell’uso di taglio medio) nella parte apicale potremmo collocare le poche parole davvero “fondamentali”, perché ricorrenti più e più volte in qualsiasi testo che ci capiti di produrre oralmente o per iscritto. Il grosso delle parole, quelle che occuperebbero la parte più ampia della nostra piramide, sono parole rare che anche un "Ciao era una parola parlante colto non conosce o non usa: sono sconosciuta a parole marcatamente letterarie (l’aggettivo impronto «che mostra improntitudine, Dante, ma la sfacciato») e soprattutto proprie di un lessigran parte dei co specialistico, noto solo a una minoranza: vocaboli del lessico iperdulia (religione), entelechia (filosofia), anticresi (diritto), disgeusia (medicina), fondamentale è esterificazione (chimica), autovalore (mategià contenuta nella matica). Le parole fondamentali si ritrovano Commedia dantesca" in tutte le lingue, con poche differenze interne: è intuitivo che le parole usate per indicare la neve saranno più frequenti nelle lingue dei paesi artici rispetto a quelle parlate nei paesi caldi. Per l’italiano, Tullio De Mauro, che al tema ha dedicato studi decisivi, ha fissato il numero dei vocaboli fondamentali (o di base) in 2049. A una cifra così precisa si arriva attraverso un campionamento bilanciato di corpora di vari testi, parlati e scritti, prodotti in un ventaglio di situazioni comunicative sufficientemente ampio. Queste duemila parole rappresentano circa il 90% delle occorrenze lessicali rinvenibili in un testo italiano contemporaneo. Il dato ha un’evidente importanza applicativa: sia per i docenti che insegnano l’italiano come lingua seconda (e da tempo la glottodidattica è sensibile a questo aspetto) o si rivolgono a bambini madrelingua (fin dai primi anni della scuola primaria tutti gli alunni dovrebbero padroneggiare questo patrimonio); sia per i funzionari che redigono un avviso destinato alla ITALIANO massa dei cittadini (pagamento delle imposte, riscatto di una casa popolare, ecc.): è un dovere civico ridurre il tasso di tecnicismi giuridici e burocratici e attingere il più largamente possibile alle parole di uso davvero condiviso. Ma quali sono le parole del lessico fondamentale? Vi troviamo prima di tutto parole “vuote” o grammaticali come articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni. Poi, parole semanticamente generiche e quindi usate, specie nel parlato, quando il contesto è più che sufficiente per capire il contenuto del messaggio («Sempre le stesse cose!»: cose può indicare parole, comportamenti, preparazioni culinarie...): cosa, roba, dare, dire, fare ecc. Ma un nucleo consistente è rappresentato da parole astratte come problema o senso e da parole concrete, che indicano realtà che incidono nel nostro vissuto, come cane o gatto. Naturalmente il fatto che un lemma rientri nel lessico fondamentale non implica che siano altrettanto centrali tutte le sue accezioni: tutti sappiamo che cos’è un gatto, moltissimi conoscono il gatto delle nevi, che però non rappresenta certo una nozione centrale nella nostra esperienza, come avviene, a maggior ragione, per la lingua di gatto “tipo di biscotto”, il gatto a nove code “tipo di frusta” o il gatto inteso come “macchina d’assalto usata nel Medioevo”. Le differenze di frequenza tra scritto e parlato sono minori di quel che si potrebbe credere. Confrontando due diversi sottouniversi, De Mauro ha calcolato che le prime 500 parole coprono l’80,4% di un corpus di italiano parlato e il 78,1% di un corpus di italiano scritto. Il 2,3% di differenza ITALIANO documenta comunque la maggiore varietà e specificità dello scritto; ma è significativo che, raggiunte le 2.500 parole più frequenti, le due cifre quasi si sovrappongano: 92,54% per il corpus di parlato e 92,45% per quello di italiano scritto. Può cambiare però il rango all’interno dei due gruppi. Nel parlato sono molto più frequenti verbi come scusare, succedere, significare, legati a tipici moduli pragmatici («Scusami», «Che è successo?», «Che significa?»), o avverbi come praticamente, sicuramente, chiaramente, usati per attenuare un’affermazione («Praticamente la partita si è chiusa al primo tempo») o per enfatizzare una dichiarazione di assenso («Non potevo che agire in questo modo» - «Chiaramente»). Gli avverbi in -mente sono pesanti come carico sillabico: una caratteristica che non hanno le parole che occupano i primi posti quanto a frequenza. Si tratta di parole immancabilmente brevi, come si ricava pensando alla più comune formula di saluto confidenziale, ciao, ma anche ai suoi corrispettivi in altre lingue, quali l’angloamericano hi o lo spagnolo hola. Se ciao era una parola sconosciuta a Dante (si diffonde solo nel XIX secolo, dal veneziano), la gran parte dei duemila vocaboli che costituiscono il lessico fondamentale è già contenuta nella Commedia dantesca, a dimostrazione della proverbiale stabilità della nostra lingua. Una prova a portata di mano: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era smarrita». In questi tre versi abbiamo stampato in corsivo le parole che rientrano nelle 2049 censite da De Mauro per l’italiano di oggi: cioè quasi tutte. ••• > Lessico di frequenza dell’italiano parlato, di Tullio De Mauro e altri, ETAS Libri, 1993 > Le parole dell’italiano. Lessico e dizionari, di C. Marello, Zanichelli, 1996 > Grande dizionario italiano dell’uso, di Tullio De Mauro, UTET, 1999 > Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua, di Tullio De Mauro, Isabella Chiari, Aracne, 2005 Foto: Bevis Fusha/Anzenberger/Contrasto tecnologia della comunicazione di Nicola Tramontana La lingua ai tempi di Internet sta scoprendo un numero sempre maggiore di modalità espressive, sostiene Gino Roncaglia, docente di informatica applicata alle discipline umanistiche all’Università della Tuscia. Il rischio che si corre, sostiene, non è l’impoverimento del lessico, bensì l’abbandono di forme complesse di ragionamento e di scrittura tecnologia della comunicazione C redo che la domanda su ciò che sappiamo del modo in cui si è modificata la nostra lingua nell’incontro con i media digitali vada formulata dividendola in base alle diverse situazioni di uso della lingua e ai diversi strumenti utilizzati, dall’email alla chat, ai social network, ecc.» sostiene Gino Roncaglia, che come docente di informatica applicata alle discipline umanistiche all’Università della Tuscia da tempo lavora sull’incrocio tra i nuovi strumenti di comunicazione e i cambiamenti linguistici. «Io non condivido l’impostazione, seguita per esempio dal Cnr in un lavoro di qualche anno fa, che tende a considerare Internet come uno strumento unico e alla comunicazione digitale come se fosse tutta dello stesso tipo. Porta a trarre delle conseguenze non necessariamente corrette. A ciascuno strumento di comunicazione corrispondono invece registri linguistici e comunicativi diversi». Naturalmente ci sono casi in cui strumenti nuovi utilizzano registri già collaudati, almeno in parte: «Per esempio la posta elettronica riprende in parte i codici della forma epistolare. Però ci sono anche molti cambiamenti, dovuti a uno scambio più rapido che porta a una sor"L’abitudine alla brevità rapidità, con la spinta ta di neo-oralità». La all’abbreviazione che porta con sé, è certafinisce per imporre mente un tratto comune, che però, di nuovo, una costruzione più si declina in modo differente a seconda del debole dei testi. contesto e del registro. «I messaggi di stato dei social network (oggi di sicuro una delle cose Quello che tende a interessanti da studiare) hanno un carattere ridursi è la scrittura estremamente sintetico e frammentario, però complessa, ragionata" spesso un livello di ricercatezza linguistica maggiore rispetto a chat, email e sms, che sono tutte forme di comunicazione di tipo privato, mentre i messaggi di stato hanno un carattere pubblico. Per i giovani, però, questo è meno vero, perché anche sui social network hanno la percezione di parlare all’interno della propria comunità». E la stessa neo-oralità, l’uso di un linguaggio sempre più simile a quello parlato anche in comunicazioni scritte, che è sembrata uno dei fenomeni più importanti, oggi secondo Roncaglia va in parte ridimensionata. Perché nel giro di pochi anni sono cambiati gli strumenti utilizzati e dalla prevalenza di sms e chat, più vicini alla lingua parlata, si è passati ai social network, dove convivono tante forme diverse. Creare un vero e proprio catalogo degli strumenti e delle forme di comunicazione, una sorta di matrice che dica le caratteristiche di ciascuno, sarebbe dunque possibile, ma non così facile, perché ci sono molti intrecci e molte forme di contaminazione. «I tweet come lunghezza sono paragonabili agli sms, però hanno un carattere pubblico, mentre gli sms sono una comunicazione privata. I sistemi di instant messaging possono essere in qualche modo tutti assimilati alle chat. E così via» continua Roncaglia. «Ci sono le forme di comunicazione scritta, ma anche quelle di comunicazione orale. Il modello di Skype è certamente quello della comunicazione via telefono e probabilmente nell’uso del linguaggio non ci sono particolari varianti. Mentre invece se si guarda alla tecnologia della comunicazione comunicazione tra ragazzi che giocano insieme online, che sia scritta o orale è comunque strettamente gergale. Poi ci sono contaminazioni: il linguaggio dei blog ha sicuramente influenzato il linguaggio giornalistico, favorendo la diffusione di articoli che sono più l’espressione di opinioni personali, mentre all’inizio era vero il contrario, era il linguaggio giornalistico che aveva influenzato quello dei blog, nati soprattutto come tentativo di costruire un proprio giornale personale. Il post di un blog spesso è breve, ma talvolta si avvicina alla lunghezza dell’editoriale tradizionale. Il blog è scritto in prima persona e questo uso forte della prima persona è una caratteristica comune a molte forme di comunicazione attraverso la rete». tecnologia della comunicazione Ma è vero che c’è una certa omologazione del linguaggio, con l’uso diffuso di formule standard e quindi in definitiva un impoverimento della lingua? Secondo Roncaglia, in parte sì, però c’è anche un grande aumento del numero di canali disponibili. «Piuttosto che dal punto di vista del lessico, vedo un problema nella costruzione sintattica e ancor più in quella argomentativa. L’abitudine alla brevità, comune a tutti questi canali seppure in ciascuno in forme diverse, finisce per imporre una costruzione più debole dei testi. Quello che tende a ridursi è la scrittura complessa, ragionata. L’idea che ci siano dei temi che richiedano un certo tempo, un certo spazio, per essere affrontati, tende un po’ a perdersi rispetto alle 2 o 3000 battute del post di un blog. Questo ha a che fare non tanto con la difficoltà di lettura di testi lunghi sugli schermi elettronici, in particolare sul computer (benchè la qualità degli schermi ormai sia molto alta e i tablet restituiscono la possibilità di leggere muovendosi, o in poltrona e a letto) quanto con le caratteristiche degli strumenti digitali e dei canali di comunicazione». In sintesi, l’idea di Roncaglia è che «se c’è un cambiamento determinato dall’uso degli strumenti digitali, questo è soprattutto la moltiplicazione dei contesti comunicativi e delle forme di comunicazione, che continuano ad aumentare nel tempo». Un arricchimento, insomma. «Ci sono casi in cui lo spazio web diventa tecnologia della comunicazione addirittura una nuova palestra di uso della lingua. Per esempio c’è il fenomeno interessante e vivace della fan fiction, fatta di comunità dedicate alla scrittura di prosecuzioni o versioni alternative di libri noti o di storie ambientate in uno specifico universo narrativo, da Twilight a Harry Potter o Sherlock Holmes. La fan fiction è piuttosto diffusa tra i giovani e soprattutto tra le ragazze (quelle tra i 13 e i 18 anni rappresentano il 70% del totale) e ha un effetto positivo di allargamento delle competenze linguistiche. Forse dovrebbe essere seguita di più, per esempio dal mondo della scuola». E ci sono anche altre opportunità. Wikipedia anziché essere considerata solo un’enciclopedia già scritta, usata dai ragazzi soprattutto per fare “copia e incolla”, potrebbe diventare uno strumento "Se sai creare bene per realizzare delle esercitazioni: sul modo di etichette poi sai anche scrivere una voce dell’enciclopedia stessa, sul cercare bene informazioni, controllo delle informazioni, sulla verifica di perché sai metterti quali siano le voci mancanti. «Noi lo facciamo a livello universitario, ma si potrebbe estendere nella testa di chi quelle tranquillamente a livello di scuola superiore». informazioni le classifica" Un altro fenomeno importante è il miscuglio delle forme di comunicazione, l’incrocio di foto, testi, video in una multimedialità che prima di Internet non era possibile. Sarebbe molto interessante andare a guardare il tipo di uso comunicativo che si fa di immagini e video, dice Roncaglia, ma, aggiunge subito, c’è un altro fatto importante e poco considerato che l’uso delle immagini porta con sé: «Stiamo probabilmente affinando le nostre capacità nell’uso classificatorio e descrittivo del linguaggio. Mi spiego: quando usiamo un tipo di informazione non verbale, come una fotografia, poi abbiamo bisogno di associare alla foto delle etichette, che consentano di individuarla e ricercarla, e questo è un uso particolare della lingua, fino a ieri riservato ad archivisti, bibliotecari o curatori di musei. È un tipo di uso della lingua che richiederebbe probabilmente una formazione, che oggi manca». Anche perché saper usare in questo modo il linguaggio potrebbe avere risvolti importanti, dal momento che «vuol dire costruire un tipo particolare di competenza linguistica che progressivamente diventa sempre più importante. Se sai creare bene etichette poi sai anche cercare bene informazioni, perché sai metterti nella testa di chi quelle informazioni le classifica. E la ricerca delle informazioni è un’altra situazione di uso della lingua relativamente nuova: sapere come creare una ricerca funzionale a ciò che si vuole trovare su Google è una forma di uso della lingua non banale». ••• > Il parlar spedito. L’italiano di chat, email, sms, di Elena Pistolesi. Esedra Editore, 2004 > La lingua italiana nell’era digitale Lo studio pubblicato dal Cnr sul rapporto tra la nostra lingua e le tecnologie digitali, www.meta-net.eu/whitepapers/e-book/italian.pdf SOCIOLINGUISTICA di Paolo Panella SOCIOLINGUISTICA Il lessico utilizzato dai giovani è la dimostrazione di una capacità di giocare con la lingua che ogni generazione utilizza soprattutto per identificarsi e distinguersi. Ecco perché il vero linguaggio giovanile è quasi inafferrabile e sfuma appena lascia i confini del gruppo a cui appartiene. Come racconta Michele Cortelazzo, docente di linguistica italiana all’Università di Padova P rofessor Cortelazzo, si può davvero parlare di linguaggio giovanile, o magari di linguaggi, al plurale? C’è stato dibattito su questo, ma io credo che una cosa sia certa: si può parlare di un lessico giovanile. Ci sono alcune parole che sono tipiche della comunicazione tra giovani e che non fanno parte del patrimonio comune della lingua italiana. Di solito si cerca di spiegarsi con degli esempi, ma la verità è che una delle caratteristiche di questo linguaggio giovanile (chiamiamolo così, per semplicità, anziché lessico) è proprio di essere alternativo a quello comune. Quindi nel momento in cui una parola comincia a diffondersi fuori dalla cerchia dei giovani, a quel punto non è più una parola caratteristica dei giovani stessi. È una sorta di paradosso: se noi le conosciamo, vuol dire che le parole del lessico giovanile sono già fuoriuscite da quella che è la loro funzione principale, vale a dire di essere prima di tutto segnale di appartenenza al mondo giovanile e in genere a uno specifico mondo giovanile. Perciò, in realtà, è più giusto parlare di linguaggi, al plurale, dal momento che solitamente ogni gruppo giovanile ha un suo lessico o per lo meno alcuni elementi che lo caratterizzano. Quando sono nati questi linguaggi giovanili? L’esigenza dei giovani di avere un loro linguaggio nasce probabilmente con la nascita dei giovani stessi, intesi come categoria. Perché ci sia un linguaggio giovanile bisogna che ci sia un gruppo giovanile che si caratterizza in quanto tale. E l’idea che ci siano i giovani come categoria viene soprattutto dall’ultimo dopoguerra, quando si è allargata moltissimo quella fascia di persone che non sono più bambini e non ancora adulti, nel senso di persone che si guadagnano da vivere o, come sarebbe SOCIOLINGUISTICA meglio dire oggi, si danno da fare per guadagnarsi da vivere. Le prime tracce cospicue di linguaggio giovanile le abbiamo avute a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta e a Milano, proprio per il suo carattere di metropoli più avanzata nel suo ruolo di ristrutturazione dei ruoli sociali, anche perché quello che prima era sostanzialmente il linguaggio degli studenti, e particolarmente degli studenti delle superiori, si stava dilatando e si estendeva agli universitari e a quella fascia “di attesa” che si ha dopo l’università. Prima i linguaggi studenteschi avevano più le caratteristiche di gergo in senso stretto, tipici di quelle realtà chiuse, come i collegi, mentre non ci sono forti attestazioni di lessico giovanile come lo intendiamo noi, qualcosa che sia anche libero e creativo e che si alimenta di continuo. Al di là delle forme in cui si realizza, è un fenomeno comune a tutti i Paesi della cultura occidentale. Ce ne sono tracce ne Il giovane Holden, come prima attestazione letteraria. Poi, per esempio, negli anni settanta accade un fenomeno molto interessante: il linguaggio giovanile scompare perché coincide con il linguaggio politico. Da Dove nasce, da dove trae origine il lessico dei giovani? Nasce, io dico, come nascono le barzellette: prima che una barzelletta si imponga ne sono nate probabilmente altre cinque, magari prodotte dalla stessa persona, che non hanno attecchito e delle quali non sapremo mai nulla. Quindi il lessico dei giovani nasce dall’inventiva culturale di un leader del gruppo che ottiene successo. E uno dei bisogni del linguaggio giovanile è quello di rinnovarsi. Se è un modo per distinguersi, i primi dai quali ci si vuole distinguere sono gli altri gruppi giovani SOCIOLINGUISTICA e in particolare quelli immediatamente precedenti. Quindi c’è il costante tentativo, che a volte riesce e a volte no, di creare denominazioni sempre nuove con un processo che è di creazione inventiva, che viene condivisa. Ci sono parole straniere che vengono adattate all’italiano, magari con altro significato; parole che già esistono e alle quali viene dato un altro significato; parole che vengono deformate. Insomma, ci sono alcuni modelli di composizione. Ogni generazione, o meglio ogni coorte di giovani, utilizza un lessico che in piccola parte è quello creativo suo proprio e per la maggior parte viene dalla tradizione del linguaggio dei gruppi giovanili che l’hanno preceduta. La specificità di un gruppo è legata a quante “variazioni sul tema” riesce a fare, quanto riesce ad aggiungere o a sostituire rispetto al lessico tradizionale. E questo è legato anche alle altre forme comunicative, come la gestualità o le “protesi” comunicative come sono state in alcuni periodi il motorino, lo zainetto, il lettore di mp3. Il giovane si caratterizza dal punto di vista dei simboli e dei segnali, del modo in cui si veste, degli oggetti da cui si fa accompagnare, dalle passioni musicali e dalla lingua: in genere un insieme in cui tutto si tiene. Oltre a questa funzione di identificazione del gruppo, quali altre funzioni assolve il linguaggio giovanile? La prima è quella di identificazione del gruppo e di esclusione degli altri gruppi. Quella che invece viene spesso vista come funzione “criptica”, di non farsi capire, è una funzione secondaria. È indubbio che ci sia, ma è piuttosto una conseguenza. Poi c’è una funzione di narcisimo della creatività, una funzione ludica e di divertimento che è molto forte, perché gran parte del lessico giovanile è fatto di trasformazioni e di giochi con le parole. E poi c’è anche una funzione espressiva, perché il lessico giovanile non si occupa dell’universo mondo, non parla di tutto, ma sostanzialmente di scuola, di amore e sesso (spesso dimostrando un po’ dell’insicurezza dei giovani, con l’uso ancora frequente di eufemismi per indicare gli organi sessuali, che non si citano con il loro nome), il mondo dello sballo, che forse attualmente SOCIOLINGUISTICA è quello che più trova spazio nel linguaggio giovanile. E poi c’è tutta un’area degli apprezzamenti e deprezzamenti. questo linguaggio Lascia traccia, o nasce e poi scompare? Lascia traccia perché alcuni elementi diventano patrimonio condiviso della lingua informale, basta pensare a parole come figo. Ma anche il successo di ciao è molto legato all’uso che ne è stato fatto dai giovani. Molto, però, si perde. Basterebbe guardare il linguaggio giovanile messo insieme da Ambrogio Casalegno alcuni anni fa per la Utet e controllare quante di quelle parole ciascuno conosce: pochissime. Quel che stupisce è che c’è un’altra cosa che si perde. Il linguaggio giovanile è una ricchezza perché mostra creatività, magari un po’ anarchica, e capacità di manipolare la lingua. Poi solo una piccola parte della popolazione dirotta questo potenziale su usi più istituzionalizzati, come saper scrivere bene un articolo o un post su un blog. È quasi come se questa forza creativa fosse patrimonio più del gruppo che del singolo, e il singolo da solo non la sapesse più esprimere. In un’epoca di globalizzazione, tende a globalizzarsi anche il linguaggio giovanile? Sono stati individuati dei fenomeni di mistilinguismo accentuato e fittizio: giovani che proprio perché vivono in gruppi di diverse provenienze producono testi che sono fatti di apporti di varie lingue. Specialmente l’Erasmus, in Europa, ha favorito il contatto di giovani di lingue diverse e il linguaggio giovanile nasce e si sviluppa soprattutto per contatto. è chiaro che dipende dalla globalizzazione, ma anche dal fatto che le culture simili alla nostra hanno tutte un linguaggio giovanile e quindi i giovani sono predisposti ad avere un loro linguaggio. Il linguaggio ci dice qualcosa sui giovani che lo usano? Io credo che sia possibile capire qualcosa, ma è ancora un’ipotesi di lavoro, soprattutto osservando di che cosa parla il linguaggio giovanile. Tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta la presenza di parole che riguardavano il mondo della droga era più forte di adesso, mentre l’abbondanza di termini che hanno a che fare con lo sballo più ingenuo, da ubriacatura, è tipica del periodo a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. Però questa, ripeto, è un’impressione e non viene da studi empirici fondati. C’è un grado di dispersione degli ambiti semantici che rende difficile questa analisi. Perché esiste poi sempre il problema di attingere a questi linguaggi per chi non fa parte del gruppo: ci dobbiamo basare sull’autocompiacimento di chi appartiene ai gruppi, che magari lo porta a diffondere certi termini oltre il confine del gruppo stesso. ••• > Scrostati Gaggio. Dizionario storico dei linguaggi giovanili, di Renzo Ambrogio e Giovanni Casalegno, Utet - Università, 2004 > I linguaggi giovanili, Gli atti del ciclo di incontri tenuti da linguisti sul tema dell’italiano e i giovani, Accademia della Crusca, 2011 LETTERATURA MIGRANTE di Pap Khouma L’avventura linguistica di uno straniero arrivato in Italia come ambulante e oggi scrittore nella nostra lingua, imparata tra Lupo Alberto, Drive In, i cartelli stradali e le caserme della polizia LETTERATURA MIGRANTE E •In apertura, Pap Abdoulaye Khouma, giornalista e scrittore, è nato a Dakar, in Senegal ed è arrivato in Italia nel 1984. Nel 1990 ha scritto con Oreste Pivetta il suo primo libro, Io, venditore di elefanti, sulla sua esperienza di venditore ambulante e immigrato Foto:Alex Lorenzini ravamo cinque ragazzi, quattro arrivati dal Senegal e uno dal Gambia, non parlavamo l’italiano, eravamo tutti clandestini in Italia e non avevamo un lavoro regolare. Erano gli anni ottanta. Naturalmente i miei amici e io parlavamo due o tre lingue (tra il francese, l’inglese, il wolof, che è la lingua più diffusa in Senegal, o altre). Eravamo coscienti che imparare in fretta l’italiano ci avrebbe permesso meglio di tirare avanti aspettando un’ipotetica regolarizzazione della nostra situazione giuridica e, dopo, trovare magari un lavoro, uno stipendio, una casa. Tanti immigrati arrivati da adulti, come noi, hanno imparato l’italiano oralmente, parlando con la gente, ascoltando la radio, guardando la televisione. Insieme avevamo comprato in Francia una Peugeot 504 di colore rosso. Giravamo per le strade di Emilia-Romagna, Marche e Umbria dentro la nostra macchina con la targa di Parigi. Nella macchina tenevamo i nostri vestiti e i prodotti artigianali africani che cercavamo di vendere per comprare benzina, mangiare e trovare i soldi per poter dormire ogni tanto in qualche pensione economica. Lo spazio era ridotto. Ero il più alto del gruppo di cinque sventurati e avevo le gambe più lunghe perciò gli altri mi concedevano di sedermi a fianco del guidatore di turno. Non avevo la “In televisione sentivo patente, come loro, però «parlavo meglio l’italiano» e il posto davanti, che era più spazioso per la parola ‘minchia’. allungare le gambe, era anche più strategico per Suonava bene e leggere i cartelli stradali e chiedere informazioni cominciai a usarla in italiano. Ma soprattutto toccava a me negoziare e giustificare la nostra presenza illegale in ogni circostanza” sul suolo italico le volte in cui venivamo controllati, fermati, arrestati, portati in caserma dalle pattuglie di polizia, carabinieri, finanzieri o vigili urbani. In realtà parlavo una lingua che sembrava una macedonia di parole in francese, spagnolo, italiano, inglese, ma non aveva nulla a che vedere con l’esperanto. I miei amici erano convinti che se venivamo rilasciati senza troppe magagne era grazie alla mia “macedonia sciolta” che spacciavo per italiano. Poiché la conoscenza della lingua era una via d’uscita indispensabile, mi impegnai a migliorarla con i mezzi che avevo a disposizione. Ascoltavo con più attenzione la radio della Peugeot rossa, leggevo i giornali che qualche sconosciuto abbandonava in giro già nel pomeriggio, compravo fumetti usati: Lupo Alberto di Silver e Sturmtruppen del fumettista antimilitarista Franco Bonvicini alias Bonvi. Quindi scoprivo una nuova lingua e delle parole italiane nuove in maniera divertente e le traducevo in francese o in wolof ai miei compagni. Samba, il siciliano Ho imparato tante parole italiane divertenti anche davanti alla televisione, soprattutto guardando insieme ai miei quattro amici Drive in, che andava in onda al sabato sera su un canale televisivo del Cavaliere Silvio Berlusconi. Era una serie di sketch di comici e di tante ragazze bellissime, con scollature vertiginose e gonne millimetriche, che erano chiamate conigliette, come le ragazze della rivista Playboy. All’epoca avevamo l’alibi di essere tutti maschi e giovani. Quando LETTERATURA MIGRANTE guardavamo Drive in sentivamo la parola minchia che veniva ripetuta dai comici. Suonava bene alle orecchie e mentre i miei amici usavano le parole cioè, però, caspita, io credevo che minchia fosse un intercalare ancora più raffinato. Così iniziai a frapporla tra una frase e l’altra e in ogni circostanza, per dimostrare con orgoglio al mio interlocutore che avevo finalmente imparato bene l’italiano. Qualche tempo dopo mio fratello Samba mi raggiunse in Italia e mi impegnai a insegnargli l’italiano. Un giorno Samba, che è molto scaltro, mi chiese in wolof: «Fratello, sai cosa significa la parola minchia?». Minchia… non mi ero mai posto la domanda e non so cosa significa, dissi tra me e me. Samba proseguì: «Fratello mio, tu non sai il significato di questa parola!». Replicai con una menzogna: «Certo che lo so. Parlo l’italiano meglio di te». «Minchia è siciliano e ci sono circostanze in cui è meglio evitare… fratello», disse Samba. Oltre a ignorare il significato, io non sapevo neppure che fosse siciliano, ma non lo dissi a Samba. Inoltre pensavo ingenuamente che se veniva detta in televisione era una parola come un’altra. Samba aggiunse: «Ho un amico siciliano e lui mi detto il significato…». In quel momento passarono nella mia mente tutte le occasioni meno opportune in cui ero stato orgoglioso di ostentarla: con poliziotti o carabinieri, nei momenti delicati, dicevo minchia per dimostrare che dicevo loro la verità; all’impiegato dell’ufficio postale, così per scambiare una battuta; per dire di cuore “grazie mille” ai preti che ci davano una mano o al tranviere che mi aveva aspettato quei secondi in più per farmi salire sul mezzo; era un modo per fare colpo su una ragazza appena incontrata, dimostrandole che parlavo bene l’italiano; era un mio modo cordiale per dire buongiorno o arrivederci di qua e di là. Una sera avevo incontrato una signora di cui avevo sentito parlare con deferenza da nuovi amici. Era la prima volta che incontravo un personaggio così importante da quando ero in Italia. Era Rossana Rossanda. La mia autostima era balzata alle stelle. Cercavo di sedermi vicino a lei prima e dopo cena e più di una volta avevo costellato le frasi della LETTERATURA MIGRANTE signora con minchia. Il fratello Samba era presente alla cena e non gli avevo lasciato lo spazio per dire una parola. Forse fu quella sera, quando uscimmo, che mi fece la domanda: «Fratello, sai cosa significa la parola minchia… e tante altre parole che usi a caso?». Il monito di Samba era stato fondamentale, mi aveva spinto a usare il dizionario, i manuali di grammatica italiana, le tavole dei verbi, ad ascoltare e a chiedere il senso delle parole che sentivo per la prima volta e soprattutto a scoprire e a leggere pian piano gli scrittori italiani, per citarne alcuni Pavese, Ungaretti, Calvino, Moravia, De Luca, Mafai, Baricco, Benni, Bobbio, Levi, Ginzburg. Negli anni ottanta e in parte all’inizio degli anni novanta era difficile trovare un corso serale dove si insegnava la lingua italiana per stranieri. In ogni caso era difficile conciliare i tempi per mettere i documenti in regola, ricercare un lavoro o, quando andava meglio, affrontare i turni di lavoro e frequentare un corso serale di lingua italiana. Bisognava arrangiarsi per imparare e parlare l’italiano. L’attore e scrittore di origine senegalese residente da anni in Italia Mohamed Ba racconta di avere imparato l’italiano ascoltando tutti i giorni Radio Maria, una radio religiosa. I giornalisti di Radio Maria scandivano ogni parola come se fosse una breve preghiera e lui ripeteva parola dopo parola. LETTERATURA MIGRANTE Lingue di qui e di altrove L’immigrato dall’Africa subsahariana in genere è abituato a parlare più di una lingua, tra cui una o due sono di origine europea. In Africa si contano attualmente più di 2000 tra dialetti e lingue. Alcune sono scritte da secoli (l’amarico, il tigrinio, il tamazig, l’arabo… anche il wolof, il fulbe, lo haussa, lo yoruba, il somalo, il gikuyu, ecc.) altre sono orali. La maggior parte dei paesi dell’Africa Occidentale ha conquistato l’indipendenza dalle potenze europee, Francia e Inghilterra, tra il 1957 (Ghana) e il 1965 (Gambia). Senegal, Costa D’Avorio, Nigeria, sono diventati Paesi sovrani nel 1960 e tutti hanno conservato come lingua ufficiale quella del colonizzatore: inglese, francese, spagnolo, portoghese. In Senegal, la gente parla almeno due lingue tra wolof, peul, serere, francese, ecc. Sono appena tornato dalla Guinea Conakry e tutte le persone che ho incontrato nella capitale parlano almeno queste quattro lingue: peul, malinké, soussou e francese. Qui parliamo l’italiano imparato oralmente da adulti, inserendo il nostro background linguistico culturale. Sono di madrelingua wolof, sono cresciuto in un ambiente in cui si parlano altre lingue africane, sono stato educato nella lingua francese, ma scrivo in italiano. Quando scrivo racconti o poesie in italiano "Parlavo una lingua attingo, in maniera cosciente o casuale, alle figure retoriche che appartengono alle che sembrava una tradizioni orali dell’Africa Occidentale. Nei macedonia di parole miei libri in italiano ho colorato le descrizioni in francese, spagnolo, con francesismi e wolofismi. Ho stravolto le strutture logiche delle frasi, scompigliato la italiano, inglese, ma non sintassi a volte senza farlo appositamente, aveva nulla a che vedere costruito dei neologismi italo-francesi, con l’esperanto. I miei italo-inglesi, inserito tante parole in wolof, peul: n’depp, rap, yaay, waaw, maam, baay amici erano convinti che (n’depp è un rito accompagnato da canti, se venivamo rilasciati balli e tamburi per invocare gli spiriti, rap era grazie alla mia sono gli spiriti, yaay vuol dire mamma, macedonia sciolta che waaw sì, maam nonno o nonna, baay padre). Conosco il wolof, perché è la mia lingua spacciavo per italiano" materna, perché la parlo, ma la leggo con fatica e tanto meno la so scrivere perché sono stato educato nella scuola francese. A questo proposito cito qualche esempio di “figure letterarie” o folcloristiche nella tradizione dei wolof e di altre etnie africane che sono spesso accompagnate da coristi, tamburi, musica. Il bakk, si svolge durante le cerimonie di lotta sportiva. È un canto autocelebrativo per intimidire l’avversario. Il bakk è come quando Mohamed Ali intimidiva i suoi avversari prima e dopo i combattimenti dicendo più o meno: «I’m the greatest» «Sei finito», ecc. Oppure, più esattamente, è simile all’haka dei maori che abbiamo visto eseguire dalla squadra degli All Blacks durante le partite di rugby allo stadio. L’haka dei maori può essere definito un bakk senegalese perfetto. Il tagh è un panegirico con delle rime sincopate indirizzate ai valorosi, agli eroi e anche ai potenti di turno. Si possono anche dire e cantare temi provocatori, violenti, erotici, LETTERATURA MIGRANTE offensivi, blasfemi. Il tassu è più legato al folclore e viene esibito in occasione delle danze di festa del matrimonio, del battesimo. Sono dei versi rimati che possono essere leggeri o spinti, che fanno allusione all’amore e in maniera esplicita al sesso. Il khakhar è una forma di tassu ma più provocatoria. I suoi versi, accompagnati o no dal tamburo, cancellano i tabù nella lingua, infrangono le regole del galateo, possono essere blasfemi e accompagnati da una mimica pornografica. Nell’occasione del khakhar è permesso prendere di mira una persona presente o un parente e denigrarla, insultarla di fronte a un pubblico di tutte le età. Di regola la persona presa di mira deve solo abbozzare. Tutto dovrebbe finire senza rancore. L’italiano, una lingua “macedonia” Questi e altri termini che sono radicati e legati a un contesto geografico e culturale molto ben definito, risultano difficilmente traducibili per lo scrittore di origine africana che scrive nella lingua di Dante. Non è neppure facile tradurli in francese. Quando scrivo in italiano o in francese lascio questi termini nella loro versione originale (bakk, tassu, tagh, ndepp, rap…) e dopo spiego il significato al lettore. Ancorché il francese, lingua coloniale, ha il vantaggio o la sfortuna di avere convissuto con il mosaico linguistico dell’Africa. Di fatto nei secoli, espressioni, sintassi, lemmi africani e di altrove si sono in qualche modo inseriti nella lingua di Molière e sono comunemente usati nelle letteratura e nelle poesie. Si possono vedere e leggere i poeti della négritude che sono Leopold Sedar Senghor (Senegal), Gontra Damas (Guyana), Aimé Césaire (Martinica). Oppure Amadou Kourouma (Costa d’Avorio), Ampathé Ba (Mali), Sembene Ousmane (Senegal), Ferdinand Oyono (Camerun), ecc. Fino ad arrivare alla generazione attuale di scrittori e saggisti francofoni dell’Africa subsahariana. Il professore Boubacar Boris Diop (Senegal), che ha pubblicato tanti romanzi in francese, in seguito ha scritto un romanzo in wolof, che è stato poi tradotto in francese. «Quello che il francese ha vissuto per secoli (come l’inglese, lo spagnolo, il portoghese), l’italiano lo ha vissuto parallelamente all’interno con i suoi dialetti», scrive la professoressa Itala Vivan, studiosa di cultura e di letteratura postcoloniali e massima esperta italiana di letteratura africana. In realtà, l’italiano è una delle lingue più contaminate d’Europa. L’italiano è una lingua “macedonia” con una fragranza di latino. Oltre ai neologismi francesi, balcanici, tedeschi, turchi, russi e a quelli più recenti ma più irruenti in inglese, la lingua italiana è stata nei secoli contaminata da lingue extraeuropee. Qualche esempio di parole arabe, berbere, persiane divenute italianissime? Azzurra, carciofo, pigiama, caffé, valigia, cotone, magazzini, camicia, ragazza, divano, dogana, zucchero, arance, facchini, sciroppo, alcol, caraffa, garbo, meschino, cifra, assassino, tara, tariffa, darsena, limoni, albicocche, algebra, algoritmo, zero, ammiraglio, aguzzino, tazza, baldacchino, zecca… ••• > El Ghibli, la rivista online di letteratura della migrazione diretta da Pap Khouma http://www.el-ghibli. provincia.bologna.it/ >Noi italiani neri, di Pap Khouma, Baldini & Castoldi Dalai, 2010 ITALIANO di Giuseppe Patota Linguista, è docente di storia italiana ed è autore di testi scientifici e divulgativi sulla lingua italiana ITALIANO L'italiano all'estero conosce una diffusione sempre maggiore e l'interesse per la nostra lingua è legato soprattutto alla straordinaria cultura di cui è il veicolo. Un'occasione per riscoprire l'importanza dell'italiano all'interno dei confini e ripensare al suo rapporto con le altre lingue del continente A ll’inizio del 2010 il Ministero degli Affari Esteri ha affidato a Claudio Giovanardi e a Pietro Trifone il compito di valutare, attraverso un’inchiesta su scala mondiale, l’interesse che l’italiano suscita fuori dei confini nazionali. L’obiettivo, già dichiarato nel titolo della ricerca (Italiano 2010. Lingua e cultura italiana all’estero), era ed è quello di aggiornare i risultati della precedente indagine Italiano 2000, a suo tempo affidata dallo stesso Ministero a un gruppo di lavoro diretto da Tullio De Mauro e formato da Massimo Vedovelli, Monica Barni e Francesco Miraglia. I risultati della nuova ricerca sono ancora in corso di elaborazione, ma Giovanardi e Trifone ne hanno anticipato i più significativi in quattro diversi interventi. Da Italiano 2010 risulta che nel 2009-2010 gli Istituti Italiani di Cultura hanno somministrato 6.429 corsi di lingua italiana: quasi il doppio rispetto ai 3.548 registrati dalla precedente rilevazione. Dall’indagine è risultato anche che la motivazione che ha spinto gli utenti dei corsi a studiare la nostra lingua è, ancor più che nel 2000, quella culturale: l’italiano si studia in quanto lingua che veicola una grande, straordinaria cultura. Il che fa dire ai due studiosi: «Oggi più di ieri, la crescita dell’interesse per la lingua italiana nel mondo è in stretta relazione con la crescita dell’interesse per la cultura italiana […] si tratta ITALIANO di un messaggio importante, soprattutto di questi tempi, e sarebbe auspicabile che i nostri politici ne tenessero conto». Ho poco da aggiungere a queste considerazioni, se non tre domande: quanta ricchezza produce la somministrazione di corsi di lingua e cultura italiana in Italia e all’estero? Quanto potrebbe crescere il numero dei turisti che vengono a visitare il nostro paese, e quanto il successo del made in Italy, se si investisse di più nelle istituzioni che garantiscono il prestigio e la diffusione della nostra lingua? Quanti studenti provenienti da altri Paesi, interessati allo studio delle lettere e delle arti, potremmo attirare nelle nostre università arricchendo e potenziando il sistema di insegnamento dell’italiano agli stranieri, anche attraverso vecchi e nuovi media? Naturalmente quella che sto indicando non è una battaglia di retroguardia contro l’inglese, ma una battaglia d’avanguardia per l’italiano. In una campagna elettorale di qualche anno fa fu agitato uno slogan che proponeva una scuola scandita da tre i: inglese, Internet, impresa. Quando ne sentii parlare, fui felicissimo: finalmente, pensai, si comincia a pensare a una scuola moderna, aperta al plurilinguismo, ai nuovi media e alle esigenze del territorio. Poi ci ripensai. Purtroppo, chi aveva coniato quello slogan non aveva pensato a far precedere queste tre i, che personalmente considero importantissime, da un’altra i, senza la quale non c’è inglese, non c’è Internet, non c’è impresa che tenga: la i di italiano. Senza una buona conoscenza della lingua nazionale i nostri giovani non potranno andare molto lontano. Personalmente creInsegnare l’italiano do che le quasi quotidiane grida d’allarme sull’analfabetismo di agli stranieri residenti massa che colpisce i nostri studenti siano da ridimensionare, ma non da sottovalutare. Senza una buona conoscenza, senza una in Italia, o comunque buona competenza nella lingua italiana i giovani che frequengravitanti intorno alla tano le nostre scuole e le nostre università non potranno mai nostra cultura, non è solo raggiungere un livello apprezzabile di preparazione in nessuno degli ambiti di studio in cui sono impegnati, né quel buon livello un dovere civile ma anche di conoscenza e competenza nella lingua inglese che il presenla premessa per una te e il futuro richiedono: al contrario, finiranno coll’adoperare convivenza più serena" un italiano scorretto e un inglese approssimativo, o un composto un po’ indigesto dell’una e dell’altra lingua. Invece, bisogna lavorare per una scuola in cui si insegnino e si imparino un ottimo italiano, un ottimo inglese e anche una terza lingua diversa dall’italiano e dall’inglese. Non mi sento un visionario; e se mai lo fossi, sarei in buona compagnia. Nel sito dell’Unione europea, infatti, si legge che la politica linguistica dell’Unione mira a tutelare la diversità linguistica e a promuovere la conoscenza delle lingue. L’obiettivo è che ogni cittadino europeo conosca almeno altre due lingue oltre a quella materna. ITALIANO Il problema è che fra i tanti poteri che l’Unione europea non ha c’è anche quello relativo all’insegnamento delle lingue seconde o terze nei vari Paesi: il contenuto dei programmi di formazione, infatti, rimane compito esclusivo dei singoli Stati membri. Stando così le cose, la prima rivoluzione da fare è di ordine culturale, e dobbiamo farla noi insegnanti, mostrando ai nostri studenti che le tante lingue d’Europa sono sì diverse, ma meno lontane fra loro di quel che saremmo portati a pensare se non riflettessimo sulla loro struttura e sulla loro storia. Qualche esempio, tratto da un libro di Alberto Nocentini programmaticamente dedicato all’Europa linguistica, mi aiuterà a dimostrarlo. Prendiamo in considerazione una parola italiana come classe. Il suo corrispondente spagnolo è clase, il corrispondente francese è classe, quello inglese è class, quello tedesco è Klasse. Ripetiamo l’esperimento con cultura, immagine, persona, storia: avremo cultura, imagen, persona, historia in spagnolo, culture, image, personne, histoire in francese, culture, image, person, history in inglese, Kultur, Bild, Person, Geschichte in tedesco. Ciò che emerge a prima vista è che i lessici delle tre lingue neolatine sono sovrapponibili, che l’inglese concorda con questi e che il tedesco se ne discosta sì, ma non sempre. Quel che unisce molte lingue d’Europa, insomma, è più di quello che le divide. •Il padiglione dell'Italia alla Borsa Internazionale del Turismo. Nella pagina precedente, il manifesto del Festival del cinema di Buenos Aires Foto: Adriano Castelli/ Shutterstock/web (manifesto Buenos Aires) C’è poi un altro motivo che impegna tutti noi in direzione di un insegnamento più esteso e approfondito della nostra lingua: è quello dell’integrazione. La ben nota “questione della lingua”, per secoli al centro del dibattito intellettuale italiano, non può considerarsi esaurita, ma solo mutata nei termini, nei contenuti e negli obiettivi: da questione letteraria che fu fino all’Ottocento, essa è andata via via spostandosi su un piano più generale, investendo anche la società e la politica. A partire dalla seconda metà del XIX secolo essa si è concretizzata nell’obiettivo del “fare linguisticamente gli italiani”, del tutto (o quasi del tutto) realizzato soltanto alla fine del secolo scorso. La sua versione di oggi, “nuovissima questione della lingua”, ITALIANO s’identifica a mio avviso nel problema che segue: come favorire la conoscenza e la diffusione della lingua italiana, premessa di qualunque possibile integrazione, tra i lavoratori stranieri che contribuiscono alla crescita economica (e anche demografica) del nostro Paese? Il problema, come si può capire, è di ordine culturale, sociale e politico. Non a caso se ne sono occupati a più riprese sia il Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi sia il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «La prospettiva di chi viene in Italia per studiare e per lavorare» dichiarò il primo nove anni fa «deve poter essere il conseguimento della cittadinanza italiana. Dovrebbe essere possibile ottenerla in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto oggi, ma condizionato ad alcuni fondamentali requisiti. Il primo di essi non può che essere la conoscenza, sufficiente e certificata, della lingua italiana». Qualche tempo dopo il secondo ha scritto della necessità di aiutare «cittadini di altri Stati a inserirsi nella nostra cultura, attraverso gli atti comunicativi più semplici, quelli che passano attraverso il buongiorno e la buonasera, parole che aprono e chiudono una giornata di fatica quotidiana, accompagnata, forse, anche da qualche grazie ricevuto e dato». Alla fine del secolo scorso, in un intervento dedicato a Identità linguistica e unità degli italiani, Luca Serianni segnalava che quella «di espandersi di là dal gruppo di parlanti originari, diventando il secondo idioma per alcune popolazioni del bacino mediterraneo […] e per gli immigrati nel nostro Paese» era, per la nostra lingua, «un’occasione da non perdere: insegnare l’italiano agli stranieri residenti in Italia, o comunque gravitanti intorno alla nostra cultura, non è solo un dovere civile ma anche la premessa per una convivenza più serena». Il saggio di Serianni è del 1997. A distanza di sedici anni, le sue parole assumono un valore profetico, e invitano a sostenere tutte le iniziative che possano favorire la conoscenza e lo studio dell’italiano, nel mondo e in Italia. ••• > Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino, Laterza, 2012 > La questione della lingua per gli immigrati stranieri. Insegnare, valutare e certificare l’italiano, a cura di Monica Barni e Andrea Villarini, Franco Angeli, 2001 > Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della cerimonia di consegna dei Diplomi di certificazione della Società Dante Alighieri a studenti stranieri, Roma, Palazzo del Quirinale, 24 settembre 2004 www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/Ciampi/dinamico/ discorso.asp?id=25365 > Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso fra stranieri, di Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli, Monica Barni, Lorenzo Miraglia, 2002 > A che punto è lo studio dell’italiano fuori d’Italia?, di Claudio Giovanardi, Pietro Trifone, in Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Storia della lingua e storia dell’Italia Unita. L’italiano e lo Stato nazionale, Atti del IX Convegno ASLI, a cura di Annalisa Nesi, Silvia Morgana, Nicoletta Maraschio, Cesati, 2011, pp. 353-371 > La nuova questione della lingua, Saggi raccolti da Oronzo Parlangèli, Paideia, 1971. Nicoletta Maraschio, 2011, pp. 353-371 > L’Europa linguistica: profilo storico e tipologico, di Alberto Nocentini, Le Monnier, 2002 > La diversità linguistica: riflessione teorica e sfida civile. Introduzione, in Lingue e diritti umani, a cura di Stefania Giannini e Stefania Scaglione, Carocci, 2011, pp. 23-39 Illustrazione: Lele Corvi linguaggio scientifico di Maria Luisa Villa Insegna Patologia generale alla facoltà di Medicina dell’Università di Milano linguaggio scientifico La possibilità di trasmettere rapidamente i concetti della scienza si può ottenere più facilmente con l’uso di un idioma comune come l’inglese. Ma questa è solo una delle funzioni del linguaggio: la ricchezza di sfumature della propria lingua madre è indispensabile per orientarsi all’interno delle proprie mappe mentali. Ecco perché anche la scienza va studiata in italiano, con cui abbiamo imparato a parlare, spiega una docente universitaria che da anni ha avviato una riflessione su questo tema con i propri studenti C ontrariamente all’opinione comune, che le vede come oggetto di studio privilegiato per letterati e filosofi, il confronto più serrato con le lingue naturali è stato impegnato per secoli dagli uomini di scienza. La lingua degli scienziati è altrettanto varia e fantasiosa di quella ordinaria (basta pensare a un termine come quark), ma ne differisce perché in essa le parole diventano termini, dotati di un valore tendenzialmente preciso. La creazione di una terminologia è il cuore del linguaggio scientifico ed è alla base delle grandi classificazioni tassonomiche degli esseri viventi (a partire da Linneo), nonché della riforma della nomenclatura chimica, realizzata sul finire del XVIII secolo da Lavoisier. I termini favoriscono una comunicazione efficace, capace di superare agevolmente le barriere nazionali e tendono a generare l’illusione che il linguaggio della scienza sia indifferente alle singolarità delle lingue storiche. In realtà sia la scienza che la tecnologia continuano ad avere bisogno delle lingue naturali per essere comprese dagli uomini. «Nessun matematico pensa per formule» affermò con incisiva brevità Albert Einstein, e Werner Heisenberg in Fisica e Filosofia, commentava: «Questa intrinseca incertezza del significato […] ha portato alla necessità delle definizioni[…] Ma le definizioni possono venir date solo con l’aiuto di altri concetti e così in definitiva è necessario appoggiarsi ad alcuni concetti che sono presi come sono, non analizzati e non definiti». In breve, la scienza ha un rapporto complesso con il linguaggio: essa esige di trasformare le parole in termini e simboli di significato univoco, ma per creare i termini, per definirne e aggiornarne il significato, dipende dalla ricchezza imprecisa delle parole comuni. Il linguaggio scientifico, codificato e ripetitivo, è utilissimo nel lavoro quotidiano e nelle descrizioni che non coinvolgono concetti nuovi e cognitivamente impegnativi. La comunicazione non esaurisce però la funzione delle lingue, che servono anche per elaborare le proprie idee, con un impegno tanto maggiore quanto più alta è la ricchezza speculativa e il potenziale innovativo delle stesse. linguaggio scientifico •Qui sopra, una lezione in inglese all'università: l'inglese è utilizzato in tutte le imprese scientifiche internazionali, dall'esplorazione dello spazio (nella pagina seguente l'astronauta italiano Luca Parmitano) alla fisica delle particelle (nella pagina successiva, il Premio Nobel Carlo Rubbia). Foto: Babak Tafreshi, Twan/SPL/Tips Andrea Merola/Splash News/Corbis In ogni disciplina, i momenti creativi sono contrassegnati dalla ricerca talvolta tormentosa delle parole capaci di descrivere cose mai immaginate prima e di riplasmare la nostra visione del mondo. Se ha successo, questa ricerca arricchisce il linguaggio e genera le metafore fondanti della chimica, dell’evoluzione, della genetica, che implicano una percezione intuitiva della somiglianza nella diversità e permettono di esplorare un campo di conoscenza nuovo, usando un campo noto come mappa. La consapevolezza acuta e quasi dolorosa della difficoltà di trovare le parole giuste per descrivere “in modo definito” realtà non direttamente sperimentabili, risuona nelle famose parole di Niels Bohr: «Siamo sospesi nel linguaggio. Non sappiamo ciò che è giù e ciò che è su. Nelle nostre lingue europee ci sono oggetti ben definiti, rappresentati dai nomi, che interagiscono tramite forze e campi, rappresentati dai verbi. Questo linguaggio però rispecchia il mondo newtoniano: non è adatto a comprendere il mondo della fisica quantistica». Nel terreno incerto dove nascono i nuovi concetti, la scienza riscopre così le singolarità delle lingue storiche e le loro connessioni con il patrimonio culturale che le alimenta. Qui le lingue non si equivalgono e, per ciascuno di noi, quella materna ha una superiore capacità di dar corpo ai pensieri e trasformarli in parole chiare. Alla maniera di una bussola, la lingua nativa orienta le idee all’interno delle mappe mentali, costruite per comprendere, assimilare e trasformare la realtà. Come il nome di una piazza richiama al residente, con una precisione irraggiungibile per il nuovo arrivato, l’immagine del reticolo di vie che se ne diramano, così nella lingua nativa una parola ne veicola altre ad essa associate, con una ricchezza linguaggio scientifico di collegamenti che una lingua secondariamente appresa difficilmente ricrea. È suggestivo ricordare come Einstein, secondo molte testimonianze, commutasse spesso la lingua delle sue esposizioni, e tornasse dall’inglese al tedesco, quando la discussione scientifica toccava un punto interessante e difficile, come la spiegazione di alcuni aspetti cruciali della relatività. Le neuroscienze confermano le peculiarità della lingua madre e sottolineano che la sua acquisizione, diversamente dall’apprendimento successivo di nuove lingue, avviene insieme all’assimilazione di conoscenze concettuali, sensoriali e normative, che lasciano una traccia cerebrale documentabile. In una pregnante riflessione sui problemi di comprensione interlinguistica, il premio Nobel per la chimica Harold Kroto ricorda che il cane (dog) che lo impauriva da bambino era irrimediabilmente diverso dal chien incontrato sui libri nei quali faticosamente e con dubbio successo aveva tentato di imparare il francese. Ad ogni livello, come studente o come studioso, le operazioni intellettuali che richiedono l’assimilazione di nuovi concetti e nuovo sapere si giovano del ruolo strutturante della lingua madre, che consente una padronanza cognitiva virtualmente impossibile in una seconda lingua. Questa realtà sembra essere ignorata da chi propone di adottare l’inglese come lingua franca esclusiva dell’istruzione superiore. Milita a favore dell’anglificazione la realtà della scienza attuale, dove le nuove parole e i nuovi stili retorici sono inglesi e dove le espressioni in altre lingue si possono usare, entro i confini nazionali, purché abbiano un facile equivalente in inglese. I ricercatori finiscono per sentirsi a casa nella lingua inglese perché la lettura quotidiana è in inglese, i metodi e i reagenti hanno nomi inglesi, e spesso il lavoro di ricerca è condiviso con lontani laboratori, dove tutti parlano in qualche modo l’inglese. I limiti del vissuto di familiarità appaiono però evidenti quando i ricercatori non anglofoni devono trovare le giuste parole e le frasi del mestiere per trasferire con chiarezza il proprio pensiero da una lingua all’altra. È nella verbalizzazione che si svelano la povertà e l’approssimazione cognitiva nella comprensione dei testi ed è qui che si palesa la distanza tra la generica convinzione di avere capito e il reale livello di appropriazione del testo. Pur avendo studiato su libri scritti in inglese, e pur essendo capaci di capire e parlare questa lingua, quando arrivano alla stesura del loro primo lavoro in inglese, molti giovani linguaggio scientifico ricercatori sperimentano la difficoltà di padroneggiarne i modelli mentali e di comprendere i riferimenti e le citazioni implicite che compaiono nelle parti meno tecniche e più discorsive della letteratura scientifica. «Le nostre menti sono piene di idee grezze, di pensieri subliminali e di spiegazioni parziali […] è nel processo di verbalizzazione richiesto per una riunione di lavoro o nella scrittura di un testo che le nostre idee diventano reali» afferma in un articolo di qualche anno fa il premio Nobel per la chimica Roald Hoffmann. L’uso esclusivo di una lingua appresa secondariamente rischia di essere una zavorra che mortifica la possibilità di accesso alle risorse più vive della mente, perché non fornisce l’ambiente cognitivo che esse reclamano. Fa ombra alla riflessione sull’argomento la diffusa convinzione che il possesso della lingua madre sia un bene gratuito e che essa si possa accantonare e ritrovare ogni qualvolta occorra. In realtà una lingua non più usata è condannata alla rapida atrofia. Gli scienziati non ne sono solo utenti, ma contribuiscono, ciascuno nel proprio dominio, a plasmarla e a rinnovarla ogni giorno, nel momento stesso in cui la usano. Nel volgere di pochi anni l’italiano, espulso dall’istruzione e dalla ricerca, perderebbe la capacità di esprimersi nel dominio scientifico. Nessuno potrebbe allora più ricorrervi per superare i passaggi cognitivamente difficili. Anche la narrazione della scienza, necessaria per divulgare in modo diffuso le nuove conoscenze, diventa inefficace se il linguaggio non intercetta l’universo culturale dei destinatari. Questo è un punto cruciale perché lo scambio di informazioni, che fino a pochi decenni addietro avveniva quasi esclusivamente tra i membri della comunità scientifica, coinvolge ora a vario titolo l’intera società ed esige l’uso di una lingua comune, adatta a comunicare in modo pervasivo le conoscenze necessarie al funzionamento della società. Molti temi come l’atomo, l’ambiente, il genoma, con i loro correlati etici, pongono problemi che dominano il dibattito collettivo, trasformandosi spesso in quesiti referendari. Gli scienziati non possono ignorare questi problemi e sono chiamati a dedicare una rinnovata attenzione ai problemi del linguaggio e della lingua usata per comunicarli. ••• > L’inglese non basta. Una lingua per la società, di Maria Luisa Villa, Bruno Mondadori, 2013 linguistica computazionale Che cosa hanno a che fare lo stile di un autore e l’analisi di un testo con i programmi che comprimono i file? Si può davvero capire chi ha scritto un libro solo grazie a un modello statistico? Storia e promesse della linguistica computazionale linguistica computazionale I linguaggi sono sistemi estremamente complessi, tutt’altro che statici o immobili nel tempo. I linguaggi nascono, si evolvono, si mescolano tra di loro, si trasformano e a volte muoiono, scomparendo. I linguaggi sono fatti da parole e anche le parole hanno una loro vita che segue e si adegua agli eventi sociali, storici e di opinione. Linguisti, semiotici, filologi, neuroscienziati e linguisti computazionali, solo per citarne alcuni, si sono dedicati allo studio del linguaggio, di come si apprende, di come si evolve e di come si trasforma. Ma da qualche tempo, e sempre più spesso, anche i matematici si sono avvicinati a tali questioni, per cercare di comprenderle, per crearne dei modelli e per misurarne quantitativamente i fenomeni e i processi coinvolti. Un testo, per esempio un libro o un romanzo, è (almeno per un matematico, ma non solo) una stringa/sequenza unidimensionale di caratteri, presi da un alfabeto fatto di lettere, numeri e caratteri particolari (lo spazio incluso). Ovviamente la sequenza è ben lungi dall’essere aleatoria, le lettere si mettono insieme per motivi fonetici, le sillabe si uniscono per vincoli sintattici e grammaticali, le parole sono legate (correlate, in termini più rigorosi) grazie alla semantica, all’argomento, alla storia che si sta raccontando. Il tutto condizionato dalla scelta dell’autore che seleziona le parole e il loro ordine anche in funzione dello stile e del suo animo. Interpretare e comprendere automaticamente il linguaggio scritto, estrarne i contenuti e catalogarne l’informazione contenuta è l’obiettivo principale della linguistica computazionale e degli esperti di Natural Language Processing (NLP). Questo lavoro è fortemente dettato e condizionato da naturali esigenze pratiche dettate dal recente “boom digitale”. Ma vi sono altre questioni, forse più fondamentali, che ricercatori provenienti da diverse aree si stanno ponendo e investigando. Per esempio se sia possibile misurare lo stile di un autore. Se sia possibile che, al di là dell’argomento e della storia che sta raccontando, ciascun autore lasci una traccia, una sua impronta digitale che sia possibile misurare e che ci permetta di riconoscerlo. Insomma, possiamo capire chi sia l’autore di un testo semplicemente misurando delle quantità contenute nel testo? E possiamo studiare, anche matematicamente, lo stesso processo creativo che porta a un testo scritto? Possiamo capire come si è evoluto un testo classico, un testo sottoposto a diverse versioni dal suo autore, tramandato nei secoli attraverso operazioni di copiatura (si pensi agli amanuensi), spesso non prive di interventi e di modifiche, linguistica computazionale a volte casuali, a volte volute? Non è del tutto assurdo che certi argomenti vengano affrontati con occhi puramente (o quasi) matematici. Creatività significa generazione di nuove strutture, originali e coerenti, ottenute combinando elementi essenziali (le parole ad esempio) attraverso regole. Ma la generazione di strutture è esattamente quello che un matematico studia e fa quotidianamente (più o meno, diciamo) e alcuni di noi ritengono che certi aspetti legati alla creatività, allo “stile” (qualunque cosa significhi) e a concetti simili possano essere tradotti in modelli, quantificati e misurati. Ovviamente dire che ogni autore possiede uno stile unico e riconoscibile, misurabile precisamente in ogni sua opera, non è solo una dichiarazione scientificamente scarsa, ma probabilmente anche del tutto errata. Però non si può negare che in ogni processo creativo nulla viene veramente generato dal nulla e ogni processo di creazione di un qualche contenuto (come un testo) è il risultato di una complessa interazione tra l’esperienza e le capacità dell’autore sviluppate nel tempo, tra ciò che l’autore ha creato fino a quel momento e l’argomento di cui sta parlando, il suo desiderio di essere originale e certamente anche molti altri elementi. “Creatività Proprio per questo non è del tutto folle immaginare che significa esistono certi pattern che caratterizzano lo stile dell’augenerazione di tore, celati all’interno di ogni sua opera. Quasi certanuove strutture, mente questo non sarà sufficiente per individuare e dioriginali e scriminare l’autore rispetto al resto dell’universo, ma coerenti, ottenute probabilmente (ed è quello che accade in realtà) quecombinando sti pattern sono sufficienti per identificare e distingueelementi re l’autore all’interno di un numero finito e coerente di elementari possibili autori. Più precisamente, noi pensiamo che cerattraverso regole” te quantità astratte, un poco più generali delle usuali strutture semantiche o sintattiche (ad esempio, le parole), contengano in effetti quella informazione necessaria per discriminare un autore da altri. Questo è essenzialmente l’obiettivo della cosiddetta Authorship Attribution, un’area di ricerca piuttosto antica, oggi all’intersezione tra filologia, informatica e, per noi, matematica e fisica. Uno dei passi cruciali nella storia, ormai piuttosto lunga, di questa disciplina risale al lavoro del fisico americano Thomas Corwin Mendenhall (1841-1924), che nel suo articolo The characteristic curves of composition del 1887 fu attratto dalla similarità tra le distribuzioni statistiche delle lunghezze delle parole (quante parole ci sono lunghe 1, 2, 3 caratteri, e così via) e gli spettri generati da quella che era una tecnica innovativa e molto discussa nel XIX secolo, l’analisi spettroscopica. linguistica computazionale •Platone, Antonio Gramsci e William Shakespeare sono tre casi di autori ai quali è stata applicata la linguistica computazionale per definire l’attribuzione delle opere o, nel caso del filosofo greco, definire la loro cronologia. Foto: Platone e Shakespeare/ Photos.com; Gramsci/ Contrasto Ora si è capito che se si vogliono affrontare problemi quale il riconoscimento dell’autore o l’analisi dei suoi sentimenti o del suo stato d’animo è utile abbandonare la parola quale elemento fondamentale del testo e rivolgere l’attenzione alle sequenze arbitrarie di caratteri. Assumere che un testo è “solamente” una sequenza di simboli significa non tenere in considerazione il contenuto del testo o i suoi aspetti grammaticali: lettere dell’alfabeto, segni di interpunzione, spazi tra le parole sono soltanto simboli astratti, senza una gerarchia. Questo approccio trova le sue radici nella Teoria dell’Informazione e ha aperto significative promettenti prospettive. La Teoria dell’Informazione, nata nel 1948, è quella teoria che risolve il problema di definire matematicamente il contenuto di informazione di un messaggio, per esempio un testo o più generalmente una sequenza arbitraria di simboli. Nel 1948 Claude E. Shannon determinò esattamente il contenuto di informazione di un messaggio come il numero minimo di bit necessari per trasmetterlo completamente Quanti bit fanno una lettera? L’unita di misura dell’informazione è il bit; la misura dell’informazione quando si sceglie tra due elementi alternativi: on/off, aperto/chiuso, giusto/sbagliato, vero/falso, 0/1 (che sono i due simboli matematici del sistema binario). Con un bit possiamo esprimere due diverse affermazioni; con due bit, possiamo “esprimere” quattro lettere (nel sistema binario: 00, 01, 10, 11); con tre bit possiamo descrivere otto lettere, e cosi via. Il contenuto informativo rappresentato da otto bit e detto byte; con un byte è possibile rappresentate 28 =256 lettere differenti e con 256 possibilità tutto l’intero alfabeto di un linguaggio occidentale può essere codificato; infatti le lettere (incluse le maiuscole, le lettere accentate, i numeri e i simboli) sono sempre meno di 256. è possibile immaginare le codifiche più strane, ad esempio per la sequenza TTT TTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTT TTTTTTTTTTTTTTTTTT (50 volte T) , il contenuto di informazione è di 400 bits se codifichiamo il messaggio usando l’alfabeto latino (50 lettere per 8 bit per ogni lettera), mentre è solo di pochi bit se la codifichiamo con un linguaggio di programmazione che dice “scrivi T 50 volte”. La domanda è quindi: qual è il vero contenuto informativo della sequenza? linguistica computazionale e introdusse il concetto di entropia di un messaggio come il numero minimo di bit per caratteri necessari per trasmettere tale informazione. Può sembrare un po’ esotico, ma in effetti tutti noi usiamo quotidianamente dei programmi, degli algoritmi, che automaticamente cercano di determinare il numero di bit minimo necessario: sono i cosiddetti compressori o zippatori (ad esempio Winzip, Gzip o Bzip2). L’evoluzione di queste idee ha portato allo sviluppo di algoritmi per l’attribuzione di un testo a un autore basati proprio sull’idea di comprimere l’informazione di un testo usando (in poche parole) le informazioni dei possibili autori che si conoscono. Più precisamente, sviluppando le idee di Shannon è possibile ottenere degli strumenti efficienti per affrontare il problema dell’Autorship Attibution. Per esempio il concetto di entropia relativa. Ma a questo punto, almeno dal punto di vista matematico, la vicenda diventa un po’ complicata ed è forse più utile soffermarsi su qualche esempio concreto. I casi famosi di attribuzione d’autore che coinvolgono testi e autori classici sono numerosi, ma tra tutti emblematico è forse il caso di Platone che ha rappresentato, per secoli, stimolo allo sviluppo di diversi approcci all’attribuzione. Fu proprio lo studio dell’ordine cronologico dei Dialoghi di Platone che nel 1897 portò il filologo Wincenty Lutoslawski a introdurre il termine e il concetto di stilometria, misurando e studiando numerose costruzioni linguistiche riscontrabili all’interno dei testi del filosofo. Le biblioteche digitali Siamo sommersi da un diluvio digitale: ogni giorno milioni di persone scrivono email, chattano, taggano, bloggano, producendo un’enorme quantità di dati digitali, spesso sotto forma di informazione testuale. Informazione che narra storie, esprime opinioni, riporta dati, scatena accesi dibattiti, ecc. D’altra parte, esiste un enorme patrimonio digitale di testi classici e letterari, disponibili ed accessibili a tutti. Per esempio Progetto Gutenberg (http://www.gutenberg.org): un progetto iniziato nel lontano 1971 con l’obiettivo di creare un'enorme biblioteca digitale, liberamente accessibile. Attualmente raccoglie migliaia e migliaia di testi scritti, non solo in inglese, e rappresenta uno dei patrimoni digitali sulla letteratura (contemporanea e non) più importanti. Liber Liber (http://www.liberliber.it) è un progetto di biblioteca digitale interamente italiano, avviato nel 1994. Attualmente contiene diverse migliaia di testi, prevalentemente classici della letteratura italiana ma anche - con l'autorizzazione dei detentori dei diritti - alcune opere contemporanee. Thesaurus Linguae Graecae (TLG, http://www.tlg.uci.edu) è il più importante corpus digitale di testi greci antichi. Progetto iniziato nel 1972 dalla Università californiana di Irvine. Infine, Perseus Digital Library (http://www.perseus.tufts.edu) è una libreria digitale: iniziata nel 1985, contiene un importante patrimonio di testi in greco ed in latino ed è dotata di numerosi strumenti per la navigazione e l'esplorazione dei documenti. linguistica computazionale Fu ancora il problema della cronologia degli scritti di Platone che portò David Roxbee Cox e Leonard Brandwood nel 1959 a caratterizzare lo stile essenzialmente attraverso la statistica delle cinque ultime sillabe di ciascuna frase, evidenziando differenze quantitative ad esempio tra La Repubblica e le Leggi. Ma forse il salto più significativo avvenne nel 1989 quando Gerard Ledger, ignorando completamente la sintattica e la semantica delle parole, pubblicò Re-counting Plato: A computer Analysis of Plato’s Style, dove introdusse metodi e criteri specifici per l’analisi del testo attraverso strumenti informatici. È proprio a cavallo dell’inizio del nuovo secolo che l’analisi quantitativa si consolidò, anche con la convinzione che i testi contengano all’interno delle strutture matematiche che possono essere (matematicamente) descritte. Un esempio più recente è quello del riconoscimento di articoli anonimi, probabilmente scritti da Antonio Gramsci. Su iniziativa della Fondazione Istituto Gramsci qualche anno fa si formò un gruppo di ricercatori per affrontare, con tecniche matematiche e quantitative, il problema di riconoscere scritti di Gramsci all’interno di un corpus di articoli anonimi pubblicati tra il 1913 e il 1926 su quotidiani con i quali Gramsci collaborava (Il Grido del Popolo, Avanti!, La Città Futura e altri) per offrire agli studiosi altro materiale (presumibilmente) gramsciano. Partendo da un corpus di testi certamente scritti da Gramsci è stato così sviluppato un metodo legato alle frequenze di sequenze di caratteri e alla teoria degli algoritmi di compressione che ha permesso di definire una serie di strumenti di calcolo in grado di misurare e quantificare la similarità di stile esistente tra i testi. Questo metodo, insieme a una serie di test controllati, ha portato alla creazione di un algoritmo per la misurazione della “gramscianità” di un testo di notevole efficacia, che è stato poi applicato all’analisi di centinaia di articoli anonimi e che ha permesso di svelare un numero cospicuo di articoli riconosciuti come gramsciani e offerti all’analisi degli studiosi. È ancora ben lontano dall’essere un metodo universale, però ha permesso anche di affrontare una lunga disputa su scritti contesi tra due padri fondatori della cristianità del IV secolo, Gregorio di Nissa e suo fratello San Basilio Magno. ••• L’algoritmo che racconta i cambiamenti Giorno dopo giorno si diffondono sofisticati strumenti per l’analisi dei testi digitalizzati e per lo studio dell’evoluzione dei linguaggi. Primo fra tutti il recente Google Ngram Viewer (http://books.google.com/ngrams): un simpatico strumento grafico che permette di seguire l’evoluzione nel tempo dell’uso di parole, combinazioni di parole o intere frasi (ngrams). In continua crescita, con un database iniziale di 5,2 milioni di libri digitali (prevalentemente in lingua inglese), originariamente pubblicati tra il 1500 e oggi, Google Ngram Viewer permette di riportare su dei grafici la frequenza di uso di una o più parole date, e di svelare così sia fenomeni di evoluzione del linguaggio sia fenomeni legati al diverso uso delle parole, anche in relazione a eventi sociali o storici. Immagino possa essere un interessante strumento per curiosi esperimenti anche in una classe. ENIGMISTICA di Ennio Peres Matematico, divulgatore scientifico ed enigmista, preferisce definirsi "giocologo". È autore di molti libri sui giochi linguistici e matematici PARLARe è un po' ENIGMISTICA I modi per divertirsi con la lingua sono moltissimi, anche se tutti i giochi possono essere raggruppati in poche, semplici categorie. Ciascun tipo di gioco, poi, può essere declinato in infiniti livelli di difficoltà. Compreso il classico cruciverba, che può diventare un percorso a enigmi L e parole costituiscono un insuperabile strumento ludico, non solo per il vastissimo assortimento con cui è possibile reperirle, ma anche per le loro caratteristiche peculiari. Una parola, analogamente a ogni altro simbolo di comunicazione, è contraddistinta dall’unione di due principali elementi: il significante (la forma ortografica che assume la parola); il significato (il contenuto semantico trasmesso dalla parola). L’associazione tra significato e significante non è legata ad alcuna legge naturale, come dimostra la grande varietà di idiomi parlati sulla Terra. Di conseguenza, soprattutto nelle lingue basate su un alfabeto, è possibile che più significanti corrispondano a uno stesso significato. Per esempio, ragionare – meditare – ponderare – riflettere – considerare hanno tutti il medesimo significato di pensare; abitazione – alloggio – dimora – domicilio – residenza hanno il medesimo significato di casa. È anche possibile, però, che a uno stesso significante corrisponda potenzialmente più di un significato, come nel caso di aria, che significa espressione apparente – miscuglio gassoso, inodore e insapore – motivo musicale oppure capitale, che significa molto importante – somma di denaro – città principale di uno Stato. In linea di massima, i giochi linguistici possono essere suddivisi in due principali categorie: giochi di parole, che richiedono di agire sul significato o sul significante delle parole (indovinelli, crittografie, rebus, anagrammi, metagrammi, Scrabble, Paroliamo, Ruzzle, e così via); giochi con le parole, che vengono effettuati, manipolando degli insiemi di parole, senza modificarne il significato o il significante (acrostici, lipogrammi, tautogrammi, crucipuzzle, cruciverba, Abaco– zuzzerellone, Blablabla, Taboo, e così via). La categoria dei giochi di parole può essere suddivisa, a sua volta, in tre gruppi: giochi sui significati, che sfruttano essenzialmente i potenziali significati attribuibili alle parole, indipendentemente da come devono essere scritte; giochi sui significanti, che richiedono di agire sulla struttura ortografica delle parole, senza entrare nel merito dei loro possibili significati; giochi misti, che ricorrono, in misura variabile, a entrambi i meccanismi precedenti. ••• ENIGMISTICA ENIGMISTICA ENIGMISTICA Le potenzialità del Cruciverba Il gioco con le parole più praticato e conosciuto nel mondo occidentale, in base a sondaggi attendibili, risulta essere il cruciverba. Gli enigmisti più intransigenti, però, non lo amano molto in quanto, a loro parere, il procedimento risolutivo non richiede alcun tipo di ragionamento, ma solo uno sforzo mnemonico. A parte il fatto che la memoria è una componente fondamentale dell’intelligenza, in genere è necessario elaborare delle considerazioni logiche per riuscire a completare lo schema di un cruciverba non banale. In assoluto, comunque, è sempre possibile trasformare una qualsiasi potenziale definizione in un piccolo enigma da risolvere. Se un’impostazione del genere viene esasperata, la soluzione del gioco diventa piuttosto ardua, come nel seguente esempio, dove ogni definizione è costruita su un doppio senso, più o meno criptico. > L’ultimo libro di Ennio Peres, È l’Enigmistica, bellezza! Lettere e cifre per allenare la mente, Ponte alle Grazie, 2012. > Il cruciverba più difficile del mondo e altri giochi enigmistici online di Ennio Peres, www.parole.tv/ xw/cruciperes.asp. eppur si muove di Donato Ramani Un semplice computer messo a disposizione di bambini e ragazzi là dove ogni forma di istruzione manca può diventare il punto di partenza di un modo nuovo di apprendere e trasmettere conoscenza. È l’avventura di Hole in the Wall, che dalle periferie urbane dell’India ha raggiunto altre aree del mondo in cui l’istruzione fatica ad aprirsi un varco. E adesso vuole proporsi come vero progetto educativo I •In queste pagine alcune immagini dell'esperienza di Hole in the wall in India. Nella pagina seguente, Sugata Mitra in mezzo ai bambini davanti a una postazione. Foto: Sugata Mitra, NIIT Limited, India and Newcastle University, UK l primo esperimento si svolse nello slum di Kalkaji, Delhi. Correva l’anno 1999 e Sugata Mitra, da Calcutta, fisico di formazione e uomo assai curioso, allora impiegato presso la NIIT Ldt, compagnia pubblica dedicata alle tecnologie dell’informazione, assieme ad alcuni colleghi volle mettere alla prova lì, in un contesto dei più disagiati, un’idea coraggiosa. Verificare cioè le potenzialità di un approccio pedagogico innovativo, oggi battezzato Educazione minimamente invasiva, basato su dinamiche del tutto diverse da quelle universalmente adottate. I concetti fondanti che caratterizzavano quella prima impresa erano pochi ma sconvolgenti: bambini protagonisti e indipendenti, niente adulti in giro, nessuna valutazione, nessuna costrizione ma, anzi, libertà assoluta di azione. Oltre a uno strumento del tutto fuori contesto: un computer inserito in una cabina posizionata in uno spazio pubblico e costruita per permetterne l’uso solo ai più piccoli: «I bambini dello slum di Kalkaji non avevano mai visto un computer, non conoscevano Internet, non parlavano l’inglese, a malapena andavano a scuola. Ciò che scoprimmo allora e in tutti gli esperimenti che si sono succeduti negli anni è che, semplicemente, i bambini imparano ciò che vogliono imparare, ovvero ciò che gli interessa» ha spiegato Sugata Mitra. Le immagini di un breve video tratto da quel primo test valgono più di mille spiegazioni: mostrano un bambino di otto anni che, nelle parole di Mitra «insegna alla sua studentessa di sei come si fa a navigare in rete». Senza tutor, senza istruzioni, ma con la semplice curiosità e la collaborazione reciproca i bambini di Kalkaji erano diventati in poco tempo dei navigatori provetti. Con buona sintesi l’iniziativa fu denominata Hole-in-the-Wall che significa, letteralmente, buco nel muro. Un buco che da quel primo test, Mitra e l’organizzazione HiWEL (Hole-in-the-Wall-Education-Limited), nata nel 2001, hanno saputo riempire negli anni di ricerche e risultati raccolti negli angoli più remoti dell’India, dagli slum delle grandi metropoli alle zone rurali del Sud Africa o della Cambogia. Verificando ogni volta che i ragazzi, in gruppo, indipendentemente da chi fossero e dove si trovassero, imparavano a utilizzare il computer da soli, in pochissimo tempo, capendone le potenzialità, ricavando le informazioni per loro interessanti e utilizzando le funzionalità. Un esempio? Dopo sole quattro ore un gruppo di ragazzi di un villaggio del Rajasthan era stato in grado di registrare la propria musica e di riascoltarla tutti insieme. Fu su questa base che partì un progetto decisamente più ambizioso, che affonda le radici in un’osservazione dello stesso Sugata Mitra: «In ogni Paese ci sono luoghi in cui eppur si muove non esistono buone scuole e in cui i buoni insegnanti non vogliono andare. Eppure è proprio lì che una buona educazione è davvero necessaria». È ancor più vero nei Paesi in via di sviluppo. Il contesto indiano, dove l’iniziativa è nata, rappresenta in questo senso un ottimo esempio. In una popolazione che supera abbondantemente il miliardo, gli sforzi che il governo ha messo in campo per assicurare un’educazione elementare a tutti i bambini dai 6 ai 14 anni sono stati imponenti ma purtroppo ancora inefficaci. «Un sogno ancora lontano» lo definiscono Ritu Dangwal e Suman Gope dell’organizzazione HiWEL in un loro articolo apparso sulla rivista IJEDICT (International Journal of Education and Development using Information and Communication Technology). Povertà e pregiudizi ancora presenti, 600.000 villaggi in cui strutture e personale docente sono totalmente inadeguati favoriscono il precoce abbandono della scuola da parte dei ragazzi. Secondo le ricerche, nel 2005 erano 40 milioni i bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni che non andavano a •Laboratori di writing e graffiti di Sfreno, programma di attività per gli adolescenti e giovani adulti. Foto: archivio Mammut eppur si muove scuola, un quinto del totale. Si tratta soprattutto di bambine, di ragazzi lavoratori, disabili o cresciuti in contesti disagiati, di giovanissimi appartenenti alle classi più basse della popolazione, spesso ancora emarginate per ragioni culturali. Un network di bambini che imparano Le nuove tecnologie o, per meglio dire, i sistemi educativi basati sull’ICT vengono visti da tempo come un’alternativa possibile, funzionale, efficace ed economicamente sostenibile contro l’analfabetismo. L’approccio di HiWEL e di Sugata Mitra, nel frattempo diventato professore di Tecnologie dell’Educazione all’Università di Newcastle, si è mossa proprio su questa strada, percorrendola però con mezzi e approcci che rivedono radicalmente l’intero processo didattico. «Una nuova pedagogia», così è stato descritto il nuovo modello. Negli anni, le strade, i luoghi pubblici, i cortili delle scuole dell’Asia e dell’Africa hanno visto il fiorire di centinaia di Hole-in-the-Wall-Education-Limited Learning Station, postazioni con una serie di computer equipaggiati con materiale didattico di ogni tipo a coprire un vasto spettro di discipline: dalla matematica all’inglese alle scienze sociali all’alfabetizzazione informatica. Ad utilizzarli, dicono le ricerche, sono soprattutto i ragazzi delle classi più indigenti che, scrivono Dangwal e Gope, «non solo imparano a chattare, mandare e-mail, giocare. Ma acquisiscono anche un’istruzione di carattere formale». Il tutto in un contesto collaborativo, da pari a pari. Perché ognuno impara dall’altro, ogni bambino costruisce «un network di persone creato apposta per ottenere informazioni e acquisire nuove competenze di carattere educativo, sociale, informativo ed emotivo». Attorno alle Hole-in-the-Wall-Education-Limited Learning Station si sviluppa, in sostanza, un ambiente in cui ogni bambino è un attivo “produttore di significati”, fluido e informale, in cui l’adulto è estromesso dalla stessa architettura della stazione perché un coperchio costruito all’altezza giusta impedisce a chi è troppo cresciuto di approcciarsi ai PC. L’«Educazione minimamente invasiva» teorizzata da Mitra, insomma, costruisce un’isola a misura di bambino, donandogli uno spazio proprio che non solo aumenta la sua istruzione colmando le lacune lì dove il sistema non riesce adeguatamente ad arrivare. Ma agisce sull’elemento più prezioso e raro, quello che il contesto scolastico, culturale, sociale non è in grado di trasmettere, causando ulteriore emarginazione: la motivazione a imparare. Un processo che permette di sviluppare anche un altro fattore: la cosiddetta eppur si muove self-regulation, intesa come la capacità di pianificare, monitorare e modificare il sapere, di gestire e controllare i propri sforzi per raggiungere l’obiettivo e infine di imparare, ricordare e capire. Un’abitudine all’autogestione che avrà influenze positive non solo sulle performance didattiche ma anche sul comportamento come individui inseriti in un tessuto sociale nel presente e nel futuro. Che poi i ragazzi lasciati a loro stessi con le Learning Station siano stati capaci di raggiungere obiettivi insperati, imparando concetti anche di grande complessità, ci sono una quantità di esperimenti a dimostrarlo. “I ragazzi delle classi Grazie ai risultati raggiunti, l’esperienza di HiWEL ha più indigenti non solo superato altri confini - nel 2011 è sbarcata in Bhutan imparano a chattare, e ha raggiunto anche la Repubblica Centrafricana e lo mandare e-mail, giocare. Zimbabwe - e si è arricchita di nuove collaborazioni. Ma acquisiscono anche Come quella con Stichting Child Tuition, organizzaun’istruzione di carattere zione olandese per la lotta all’analfabetismo con cui formale” sono state condotte con successo delle sperimentazioni per l’insegnamento dell’inglese attraverso software appositamente costruiti nello slum di Delhi così come nel villaggio tribale di Hemalkasa. Mentre altri progetti stanno portando l’esperienza acquisita con Hole-in-the-Wall all’interno delle pareti della scuola, come supporto alla didattica ma anche come un modo davvero nuovo di interpretarla. È questa la strada che lo stesso Sugara Mitra sta perseguendo oggi, testandolo nelle scuole di tutto il mondo. Organizzazione in gruppi, ognuno con un computer a disposizione, e alcune grandi domande a cui trovare risposta: questo l’approccio. Una variazione del modello Hole-inthe-Wall che, negli esperimenti dello studioso, hanno dato frutti importanti nell’apprendimento a breve e a lungo termine. Protagonisti della propria educazione Curiosità, motivazione, collaborazione, approccio peer-to-peer, assieme alle potenzialità di Internet, nella visione di Mitra sono gli ingredienti di un mondo nuovo, di un’istruzione nuova, in cui l’educazione è un sistema che si auto-organizza, in cui l’adulto ha la funzione di guida supportiva e incoraggiante, e non più minacciosa, nell’aiutare il ragazzo a indagare delle domande intriganti e a trovare, da solo, le risposte. E un sistema in cui l’apprendimento è un fenomeno emergente, come una semplice e naturale conseguenza. È il Self-Organized Learning Environment (SOLE), un’evoluzione del modello educativo sperimentato per le strade della periferia del mondo, sviluppato dal vulcanico Mitra e pronto a scuotere dalle fondamenta l’istituto scolastico. Del resto, parole sue, «è molto di moda dire che il sistema educativo come lo conosciamo è a pezzi. Non è a pezzi, anzi: è costruito meravigliosamente. È solo che non ne abbiamo più bisogno. È superato». È tutto? Nemmeno per sogno. Un’altra idea ancora più azzardata, con cui Mitra ha conquistato il TED Prize 2013 e l’ammontare di un milione di dollari, è già bell’e pronta: «Ciò che voglio fare ora è contribuire a disegnare il futuro dell’apprendimento supportando i ragazzi di tutto il mondo a immergersi nel loro innato senso di meraviglia e lavorare insieme». E per far questo vuole cominciare da un primo passo: la costruzione di una School in the Cloud, «un laboratorio dell’imparare, dove, in India, i ragazzi possano imbarcarsi in imprese intellettuali facendosi coinvolgere e connettendosi con le informazioni e gli educatori online». Una scuola virtuale, insomma, dove i bambini, ovunque si trovino, ricchi o poveri, possano farsi protagonisti eppur si muove della loro educazione, lavorando in gruppo e indipendentemente, trovando nella rete e con un mentore in remoto la soluzione alle proprie domande. Sarà questa la strada per un’educazione più egualitaria e più moderna, a portata di tutti? È presto per dirlo. Quel che è certo è che quest’avventura, iniziata 14 anni fa, lì dove la società sembrava essersi arresa, forse ha trovato un nuovo inizio, dalle potenzialità davvero rivoluzionarie. ••• La nuova sfida: provarci tutti, ovunque >Si chiama SOLE, Self-Organized Learning Environment, ed è la nuova idea di Sugata Mitra. Per capire cos’è, forse, è più semplice dire come funziona: «Un SOLE nasce ogni qualvolta docenti e genitori incoraggiano i ragazzi a lavorare in gruppo per rispondere alle loro impellenti domande usando Internet». In questo modo, secondo i suoi creatori, la caccia alla risposta si trasformerà in un vero viaggio intellettuale, molto più utile e formativo del semplice apprendimento mnemonico. SOLE, in realtà, è molto più di questo. Un laboratorio globale, così viene descritto, e anche un test su vastissima scala, con cui tutti, ovunque, possono mettersi alla prova per poi spedire il proprio feedback a Sugata Mitra e agli altri studiosi. L’invito, in effetti, è più che esplicito: «la parte più importante di questo esperimento è il feedback che riceveremo da chi metterà in pratica questo approccio». Per questo, online (www.ted.com/pages/sole_toolkit) è a disposizione un kit apposito da scaricare, con tutte le istruzioni per testare questo nuovo modello didattico, vedere come funziona, raccogliere esperienze, risultati e riflessioni. Da condividere poi collegandosi all’indirizzo www.ted.com/ solefeedback e compilando le apposite sezioni. Tra tutti coloro che parteciperanno inviando le loro opinioni saranno selezionati fino a tre vincitori che si guadagneranno ciascuno un viaggio per due persone (un educatore o un genitore più un bambino) per assistere al TEDYouth 2013 che si terrà il 16 novembre 2013 a New York. > Il sito di Hole-in-the-Wall www.hole-in-the-wall.com > La pagina Facebook di Hole-in-the-Wall http://on.fb.me/RlfXi5 > Pagina dedicata alla SOLE challenge http://www.ted.com/pages/sole_challenge#download > Pagina da cui scaricare il SOLE toolkit http://www.ted.com/pages/sole_toolkit > Descrizione del progetto School in the Cloud http://www.ted.com/pages/prizewinner_sugata_mitra > Servizio della CNN su Hole-in-the-Wall http://edition.cnn.com/video/#/video/world/2009/02/22/sidner. india.slumdog.inspiration.cnn?iref=videosearch > Lista delle pubblicazioni su Hole-in-the-Wall http://www.hole-in-the-wall.com/Publications.html BENCHMARK benchmark N egli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni si sono susseguiti profondi cambiamenti sociali ed economici, molti dei quali sono ancora in corso e hanno esiti molto difficili da prevedere e da interpretare. La crisi finanziaria degli ultimi anni ha considerevolmente modificato le prospettive di crescita e di sviluppo delle società avanzate, ponendo al centro dell’attenzione la qualità del capitale sociale di ciascun Paese. È ormai evidente ai più che l’aggravamento della crisi economico-sociale degli ultimi anni richieda paradigmi nuovi per trovare possibili soluzioni, salvaguardando i traguardi fondamentali che le moderne economie avanzate hanno raggiunto nel secolo appena concluso. Valutare la qualità dell’istruzione è un tema molto complesso e richiede la considerazione di aspetti diversi e di natura differente. Tuttavia, è opinione diffusa, specie a livello internazionale, che qualsiasi valutazione non possa prescindere da una solida misurazione degli esiti di apprendimento degli studenti, siano essi giovani studenti o adulti in formazione, di qualsiasi tipo essa sia. Tale istanza è divenuta ancora più rilevante nel momento in cui l’Italia, come molti altri Paesi, ha adottato provvedimenti normativi volti alla riorganizzazione del sistema scolastico nazionale basandolo sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche. In questo contesto, già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si sono affermate ricerche comparative internazionali.Le più importanti e le più conosciute sono quelle promosse dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) e dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), finalizzate alla misurazione dei livelli di competenza degli studenti della scuola primaria e secondaria in alcuni ambiti di disciplinari, ossia le cosiddette competenze di base fondamentali per l’esercizio dei diritti di cittadinanza attiva, principalmente riconducibili alla comprensione della lettura della lingua scritta, alla matematica e, talvolta, alle scienze naturali. La partecipazione dell’Italia a queste ricerche è sempre stata assidua, anche se le effettive ricadute sul sistema sono state modeste, se non addirittura irrilevanti. Negli ultimi anni si è assistito a un’inversione di tendenza con la pubblicazione di rapporti periodici e l’organizzazione di attività di formazione sui contenuti specifici delle ricerche stesse. Nelle rilevazioni internazionali spesso l’Italia si colloca sotto le medie internazionali e tali divari paiono aumentare quando si passa dalla scuola primaria a quella secondaria. Gli esiti delle rilevazioni della IEA e dell’OCSE mettono in luce un quadro con molte “Già a partire dal ombre e poche luci, specie negli ambiti scientifici, ma non solo. 2014, sarà possibile Emerge con tutta evidenza che in un contesto valutare gli esiti degli comparativo internazionale il sistema scolastico apprendimenti italiano fatica a produrre buoni livelli di competendegli studenti non za, dimostrando quindi la necessità di disporre di misurazioni comparativamente solide per comsoltanto ogni anno prendere gli esiti effettivamente prodotti dalla separatamente, ma scuola italiana. A partire dagli ultimi anni del deanche potendo cennio appena trascorso l’Italia si è dotata di un servizio nazionale per la rilevazione degli apprencogliere linee evolutive dimenti di base mediante prove standardizzate. e di sviluppo" Esso mette a disposizione di ogni scuola, oltre che dell’intero sistema scolastico nazionale, anche nelle sue articolazioni regionali, dati comparativamente solidi e dettagliati. Inoltre, a partire dall’anno scolastico 2012-13 l’INVALSI restituisce a ciascuna scuola gli esiti delle prove nazionali anche in una prospettiva di valore aggiunto, ossia al netto dell’effetto del contesto socio-economico-culturale in cui opera ogni istituzione scolastica. In questo modo le scuole possono valutare in modo più appropriato l’esito del proprio operato, focalizzando la propria attenzione prevalentemente su fattori sui quali esse possono agire e che non costituiscono, invece, variabili esogene e pertanto praticamente immodificabili. La realizzazione di un sistema nazionale per la rilevazione degli apprendimenti ha rappresentato nel panorama italiano un elemento di forte innovazione, certamente ancora incompleto e con alcuni aspetti che hanno bisogno di ulteriori aggiustamenti, in grado di fornire al Paese un’infrastruttura immateriale per promuovere l’innalzamento dei livelli di competenza degli studenti italiani. La costruzione del sistema nazionale di valutazione ha rappresentato e rappresenta una sfida sotto diversi punti di vista, non da ultimo quello metodologico-statistico. Per la prima volta su scala nazionale sono state costruite prove secondo standard tecnico-scientifici adottati in ambito internazionale, basati su rigorose metodologie psicometriche e statistiche. Esse sono costruite all’interno della cornice definita da quadri di riferimenti pubblici e oggetto di continue riflessioni e revisioni. Tali documenti sono fondamentali per la comprensione del portato informativo delle prove proposte dall’INVALSI, valutandone potenzialità e limiti, anche in confronto con quanto previsto dalle Indicazioni nazionali. Nonostante le rilevazioni realizzate dall’INVALSI siano oggetto di un acceso dibattito all’interno del sistema scolastico, raramente esso arriva a toccare realmente il contenuto delle prove e i criteri secondo i quali esse sono costruite. La costruzione di prove oggettive standardizzate è il frutto di un lungo e delicato processo, sovente non com- benchmark pletamente conosciuto anche da molti degli utilizzatori delle prove stesse e dai diversi soggetti che operano nel mondo della scuola e della formazione in generale. Pochi realmente sanno che la formulazione di una prova standardizzata rivolta potenzialmente a centinaia di migliaia di studenti è l’esito di un lavoro profondamente e realmente interdisciplinare che coinvolge esperti con formazione ed esperienze specifiche e molto differenti tra di loro. Non sempre è noto che la costruzione di una prova standardizzata richiede grandi sforzi e tempi piuttosto lunghi, mai inferiori ai 15-18 mesi, e il rispetto di una procedura molto articolata. Per favorire l’allargamento del dibattito a tutti gli aspetti connessi alle prove e al loro utilizzo l’INVALSI ha iniziato a promuovere eventi, trasmessi anche via web, per ampliare l’accesso alla discussione, anche critica, su temi così importanti e cruciali per lo sviluppo del sistema scolastico nazionale. I sistemi nazionali di valutazione sono, per definizione, strutture molto complesse e di non facile gestione. Essi richiedono continui aggiustamenti e potenziamenti per fornire al sistema scolastico, in tutte le sue articolazioni, informazioni solide e utili e, soprattutto, in grado di rispondere a istanze che cambiano rapidamente lungo diverse direttrici. Come qualsiasi sistema di misurazione, anche il sistema nazionale di valutazione deve essere costantemente monitorato per verificare che esso non produca delle distorsioni ed eventualmente correggerle. L’approvazione del regolamento istitutivo del Sistema Nazionale di Valutazione, finalizzato alla valutazione complessiva delle scuole e non solo degli apprendimenti, rappresenta un notevole impulso per l’intero processo di valutazione delle scuole, al quale l’INVALSI dovrà fornire adeguate e convincenti risposte. Per limitare l’attenzione alla rilevazione degli apprendimenti, l’INVALSI sta realizzando, anche con la collaborazione del mondo accademico, l’ancoraggio diacronico delle prove nazionali e l’ancoraggio tra le prove nazionali e quelle internazionali. Ciò renderà possibile nel giro di un paio d’anni, e già a partire dal 2014, di valutare gli esiti degli apprendimenti degli studenti non soltanto in una prospettiva sezionale, ogni anno separatamente, ma anche longitudinale, potendo quindi cogliere linee evolutive e di sviluppo. In questo modo sarà pienamente a disposizione del Paese una vera infrastruttura sulla quale basare, anche se ovviamente non in via esclusiva, linee d’intervento, fondate su un solido riscontro empirico, volte all’innalzamento dei livelli di competenza dei giovani italiani, favorendo quindi la crescita economica e sociale collettiva. Già da tempo l’istituto sta inoltre sperimentando la costruzione di nuove prove per la misurazione entro breve degli apprendimenti nell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado e di altri ambiti disciplinari (ad esempio l’inglese e le scienze naturali) rispetto a quelli rilevati finora, ossia la comprensione della lingua scritta e della matematica. ••• > Leggi online il testo integrale di Roberto Ricci http://link.pearson.it/70C6FBCFù > Un primo esperimento sullo studio diacronico dei risultati della prova nazionale INVALSI al termine del primo ciclo di istruzione in Italia, di Patrizia Falzetti e Roberto Ricci, Induzioni, 21-34, 43, 2011 > La misurazione del valore aggiunto nella scuola, di Roberto Ricci, Collana Workingpaper della Fondazione G. Agnelli, 2008 > Il senso delle prove, di Roberto Ricci, Paolo Sestito, La voce.info, http://www.lavoce.info/articoli/pagina 1003164.html > Le prove standardizzate, di Roberto Ricci, L’Indice della scuola, 12, III, 21-23, 2011 > The global achievement gap, di Tony Wagner, Basic Books, 2008 BENCHMARK Una crisi nascosta e allarmante investe l’Europa e l’Italia: l’analfabetismo funzionale, quello di chi decifra un testo ma non sa comprenderlo davvero. In Italia tre persone su quattro rischiano di finire in questa situazione. Ma ci sono molti modi per intervenire, a cominciare dalla scuola benchmark L’ esperienza insegna quanto la capacità di leggere - che presuppone, ma non coincide, con quella di decifrare un testo - sia decisiva per orientarsi nel mondo e partecipare in modo attivo alla vita sociale. Eppure il traguardo di una adeguata e diffusa competenza alfabetica funzionale, definita dall’Ocse come la «capacità di capire e usare l’informazione presente in testi stampati nelle attività quotidiane, a casa, sul lavoro e nella vita sociale, per raggiungere i propri obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità», è ancora da raggiungere, anche nei paesi avanzati. A fare il punto sui livelli di literacy in Europa e proporre misure d’intervento è il recente Rapporto finale sul letteratismo, elaborato da un gruppo di esperti di alto livello nominato della Commissione Europea. Nel Rapporto il neologismo “letteratismo”, che traduce il termine inglese literacy utilizzato nei test Pisa, designa la competenza alfabetica funzionale così come descritta dall’Ocse. Il documento prende le mosse da un’evidenza allarmante e inattesa: un europeo su cinque non sa leggere e scrivere adeguatamente, risulta cioè incapace di interpretare e gestire in modo competente e critico le informazioni. Foto: racorn/shutterstock L’analfabetismo funzionale in Europa qu a reg no u nit o danimarca svezia hio? risc a o son i z az ag r i nt i finla ndia 09 irland a 300 yd el P litu ani a finlandia 8,1% estonia 13,3% lettonia 17,6% lituania 24,3% svezia 17,4% danimarca 15,2% regno unito irlanda 18,4% paesi bassi 17,2% polonia 14,3% germania 15% 18,5% belgio Percentuali di quindicenni rep. ceca 17,7% con punteggio inferiore al 23,1% rep. slovacca lussemburgo livello 2 nei test di literacy 22,3% 26% austria del Pisa 2009 ungheria romania francia 27,5% 17,6% 40,4% 19,8% slovenia 21,2% bulgaria italia 41% spagna portogallo 21% 19,6% 17,6% grecia 21,3% ia polon ia gar ul cia gre nia slove gio b malta 36,3% rom ani a a nci fra rep. ceca rep. slovacc a u nghe ria paesi bassi 400 st d i li ter ac onia lett portogallo di n ei t e ia on est na spag 500 20 a ell d za an t r po Risul tati me i 600 sa l’i m di arrows & Letters a omic n o c ee zion i d con studenti svantaggi ati studenti benest a nt be l italia germ ania austria lus se m b urg o Livelli linguistici e culturali in Italia Il recupero del nostro Paese Forme di analfabetismo nel nostro Paese 15 Competenze alfanumeriche nella popolazione di 16-65 anni italia paesi avanzati 10 OcSE; IALS-SIALS, 2000 e 2005 5 La partecipazione alle forme di cultura A New Data Set of Educational Attainment in the World, 1950-2010, Robert Barro e Jong-Wha Lee 2010 2000 1990 1980 1970 o 1960 paesi in via di sviluppo 1950 media anni scolastici a testa andamento dell’indice di scolarità tra il 1950 e il 2010 in italia rispetto agli altri Paesi. Persone tra 15 e 65 anni che partecipano a differenti attività culturali IStAt, tavole multiscopo 2006 5% analfabeti integrali 33% analfabeti funzionali 33% a rischio di analfabetismo funzionale 10% alfabeti con deficit di problem solving 19% alfabeti capaci di problem solving 1,9% partecipazione bassa 14,2% partecipazione medio bassa 30,8% partecipazione media 37,9% partecipazione medio alta 15,2% partecipazione alta benchmark L’importanza della comunicazione scrittA nell’era digitale I dati commentati nel Rapporto - che muovono dai risultati dei test Pisa 2009 - raccontano di una crisi sociale nascosta, prima ancora che di un’emergenza educativa. Perché la padronanza alfabetica, lungi dal costituire una semplice tecnica o abilità acquisita una volta per tutte a scuola, è una risorsa che accompagna le persone durante l’intero arco della vita, definendo l’identità e la ricchezza dei suoi scambi cognitivi, psichici, sociali, politici e relazionali con il mondo esterno. A questo proposito, il documento ribadisce più volte che la «capacità di leggere il mondo» costituisce un presupposto irrinunciabile del benessere individuale e collettivo, e l’alfabetizzazione per tutti un obiettivo minimo da raggiungere per un paese avanzato. Questo traguardo è ancor più urgente nell’attuale società dell’informazione, poiché da un lato la digitalizzazione comporta un utilizzo sempre più capillare della parola scritta nell’interazione sociale, civica ed economica, dall’altro l’aumento della mobilità e i fenomeni migratori producono un’evoluzione verso una società multilinguistica che richiede capacità sempre più solide di combinare un’ampia gamma di background culturali e linguistici. Ne consegue un paradosso non più a lungo sostenibile tra il livello sempre più alto di competenze alfabetiche e digitali richieste e quello inadeguato di competenze realmente possedute, minacciate per di più dal trend demografico di invecchiamento della popolazione - che favorisce l’obsolescenza dei saperi - e dall’aumento della povertà in tempi di crisi, che alimenta ed è a sua volta alimentata dall’analfabetismo. Da qui l’invito ad agire subito per contrastare questo allarmante fenomeno, la cui fisionomia, dal punto di vista sociale, appare contrassegnata da diversi tipi di gap. Divario socio-economico. I bambini poveri infatti sono generalmente caratterizzati da livelli inferiori di alfabetizzazione rispetto agli altri. Divario dell’immigrazione. Molti immigrati presentano livelli di alfabetizzazione inferiori nella lingua del paese di arrivo. Divario di genere. I livelli di alfabetizzazione dei maschi adolescenti sono inferiori e in diminuzione rispetto a quelli delle coetanee, a causa di una minore motivazione e impegno. Divario digitale. I meno abbienti utilizzano meno Internet e, quando lo fanno, più per fini di intrattenimento che di apprendimento. Inoltre molti studenti vivono uno scarto tra la pratica a scuola, caratterizzata per lo più dall’uso di materiali stampati, e l’esperienza di lettura e scrittura digitale vissuta in casa. •Uno scrivano pubblico al servizio degli analfabeti a Napoli, attorno al 1870. Nella pagina successiva, uno scrivano pubblico a Reggio Calabria nel 1957. Foto: Archivio Contrasto Analfabetismi e perdita culturale in Italia Per agire opportunamente bisogna anzitutto conoscere la specifica situazione del contesto in cui si opera. Il linguista Tullio De Mauro, in occasione della conferenza Livelli e dislivelli linguistici e culturali oggi in Italia, che si è svolta presso l’Accademia dei Lincei, ha tracciato un quadro chiaro del contesto italiano, a partire dai dati del 2000 e del 2005 dalle rilevazioni Ocse Ials-Sials, la ricerca internazionale che fa il punto sulle competenze della popolazione d’età compresa tra i 16 e i 64 anni di età. L’indagine identifica cinque livelli benchmark di competenza: analfabetismo integrale; analfabetismo funzionale; situazione a rischio di analfabetismo funzionale; alfabetismo con deficit di problem solving; alfabetismo con piena capacità di problem solving. E mostra che il 71% della popolazione totale è o rischia di diventare analfabeta totale o funzionale. Ciò significa che tre italiani su cinque non possiedono competenze di lettura sufficienti. Aggiungendo poi a questa percentuale il 10% di pieni alfabeti con difficoltà nel problem solving si arriva alla conclusione che quattro italiani su cinque risultano «incapaci di orientarsi nella vita di una società contemporanea». Il dato, prendendo a riferimento le competenze alfanumeriche della popolazione adulta, non può essere direttamente comparato con quello europeo citato nel Rapporto sul letteratismo. Tuttavia segnala uno specifico problema italiano, e cioè l’ampia incidenza dell’analfabetismo di ritorno: la perdita delle competenze di lettura e scrittura da parte degli adulti scolarizzati. Nella ricostruzione di De Mauro, questa situazione si lega a un fenomeno di indebolimento culturale più generale, che investe non solo le competenze alte, ma anche i «saperi strumentali e operativi propri della cultura della sopravvivenza e delle tecniche elementari». Lo mostra l’indagine multiscopo dell’Istat del 2006 sul tempo libero, che - a partire da una nozione larga di cultura intesa come la capacità latina di còlere, ossia di coltivare mente ed animo e migliorare le produzioni e arti materiali - ha censito il livello di competenze degli italiani su 42 attività, raggruppabili in sei tipologie di abilità e abitudini, ossia: fruizione di corsi di istruzione o formazione formali o non formali; abilità linguistiche comprendenti la propensione a parlare italiano o dialetto con estranei e il livello di conoscenza di almeno una lingua straniera; attività di lettura nel tempo libero o per motivi professionali; fruizione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; abilità pratiche, come il cucinare, fare lavori di manutenzione in casa, restaurare mobili o oggetti della casa, curare i propri mezzi di trasporto, l'orto o le piante, praticare uno sport; propensione a svolgere attività artistiche o amatoriali come fare foto, video, scrivere, dipingere, suonare o ballare. Dall’indagine emerge che meno del 2% della popolazione ha un alto livello di partecipazione culturale: svolge cioè tra le 25 e le 42 attività indicate. Per intervenire su una perdita di così vasta portata e trasversale è necessario identificare e lavorare sulle cause. E qui il discorso di De Mauro si rivolge contro chi punta il dito sulla «tanto vituperata» scuola italiana. Guardando all'andamento dell'indice di scolarità a livello mondiale, emerge che negli anni cinquanta, nei Paesi in via di sviluppo, il percorso di studi durava 2-3 anni, mentre in quelli sviluppati circa 6. Nel 2010, i Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto 6 anni di studio a testa, quelli sviluppati 11-12 anni. L'Italia, che negli anni cinquanta mostrava un indice di scolarità di poco superiore a quello dei Paesi in via di sviluppo, ha oggi quasi raggiunto il livello degli altri Paesi avanzati. Ciò significa che, grazie al sistema d'istruzione, negli ultimi sessant'anni il nostro Paese, dal punto di vista educativo, ha compiuto un notevole progresso verso il pieno sviluppo. Il problema, conclude De Mauro, è che la scuola italiana è rimasta sostanzialmente isolata - affiancata, solo in parte, dalla televisione - nel promuovere la crescita culturale della popolazione. La mancanza di una rete di spazi, modi e interventi accessibili e diffusi di fruizione e partecipazione culturale e formativa e la trasformazione sociale e demografica che ha portato alla benchmark scomparsa della “bottega familiare” hanno favorito la perdita di saperi. Questo vale anche per le competenze acquisite a scuola che, per essere preservate, devono invece essere continuamente allenate nel corso della vita, tenuto conto della “regola del -5” secondo cui si regredisce mediamente di 5 anni rispetto al livello massimo di una competenza acquisita a scuola, se la capacità non viene esercitata. Come intervenire, fuori e dentro la scuola La necessità di promuovere la capacità di leggere attraverso un’azione trasversale e sinergica è alla base anche del Rapporto sul letteratismo, che si rivolge a tutti i cittadini e in particolare ad alcune categorie - dai politici ai genitori, dalle istituzioni culturali agli operatori sanitari, dagli editori ai volontari - cui indirizza specifiche raccomandazioni. Una particolare attenzione è poi riservata al mondo della scuola, agli insegnanti e ai formatori. In termini generali, il documento suggerisce ai soggetti coinvolti di adottare strategie di promozione della lettura diversificate per fasce di età. Per la prima infanzia si tratta di stimolare e sostenere la famiglia, per esempio mettendo in atto programmi di alfabetizzazione dei genitori, assicurare l’accesso gratuito all’educazione dei bimbi, garantire uno screening precoce dei problemi di alfabetizzazione emergenti, adottare una prospettiva incentrata sul bambino che coinvolga le istituzioni dedicate, i genitori, i servizi sanitari, le biblioteche, e infine sostenere la creazione e la diffusione di programmi di scambio di libri. Per promuovere l’alfabetismo presso i bambini della scuola primaria si raccomanda di intervenire tempestivamente, per esempio sostenendo le scuole i cui studenti presentano i livelli di competenza più bassi, e favorire un approccio alla dislessia che si concentri più sul sostegno pedagogico che su quello medico. Agli insegnanti poi si suggerisce di sviluppare strategie didattiche in linea con gli specifici stili di apprendimento e fornire supporto individuale agli studenti, coinvolgendoli attraverso letture di qualità e accessibili, di usare la valutazione formativa per identificare i bisogni educativi sin dall’inizio del percorso scolastico e di integrare la tecnologia nella didattica. Per intervenire sull’adolescenza si sottolinea la necessità che tutti i docenti, non solo quelli di lettere o lingue, diventino “insegnanti alfabetizzanti”, che ai ragazzi vengano proposte letture affini ai loro gusti e varie, dai fumetti ai classici, e infine che venga stimolata la cooperazione tra scuola e imprese, in modo da chiarire ai giovani il ruolo decisivo giocato dalle competenze alfabetiche nel loro futuro sviluppo personale e professionale. In quest’ottica è particolarmente importante che gli insegnanti mettano gli studenti in condizione di affrontare testi di qualsiasi tipo e materia, lavorino sulla motivazione oltre che sulle competenze, utilizzando materiali attraenti e risorse digitali, lascino agli studenti tempo libero per leggere e scegliere da soli le proprie letture e infine usino la valutazione formativa per diagnosticare punti di forza e debolezze individuali e ottimizzare le strategie didattiche. ••• > Rapporto finale sul letteratismo 2012, Sintesi http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/highlevel-group/documents/executive-summary_it.pdf > Final report on literacy 2012, Full http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/high-level-group/ documents/literacy-final-report_en.pdf > Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia, di De Mauro - Morrone, http://mondodigitale. org/files/Livelli_di_partecipazione_alla_vita_della_cultura_in_Italia.pdf oltre la scuola P rofessor Rullani, lei si occupa di economia della conoscenza, una materia che mette la conoscenza al centro dei processi produttivi del nostro mondo. Ma come si può definire? L’economia della conoscenza è in genere intesa come una sezione dell’economia: quella che si occupa di cose che hanno a che fare con gli investimenti in conoscenza (ricerca, formazione del capitale umano, istruzione, università, trasferimento tecnologico, consulenza, ecc.), concependola come una sorta di economia “nobile”, ad alto contenuto intellettuale. Ma oggi tutti i lavori, tutti gli oggetti e tutti i servizi sono ad alto contenuto di conoscenza, nel senso che utilizzano principalmente lavoro cognitivo e solo eccezionalmente lavoro energetico-muscolare. Il lavoro energetico, che una volta era la regola (nel mondo pre-moderno) è diventato ormai una eccezione o una parte minore di tutti i lavori prestati nel sistema di produzione moderna. Tenendo conto che macchine, tecnologia ed energia artificiale sono a loro volta prodotti ottenuti con un forte impiego di conoscenze, è facile arrivare a una conclusione: tutto il lavoro moderno, salvo poche eccezioni, è lavoro cognitivo, compreso il lavoro dell’operaio che sorveglia o istruisce la macchina utensile e quello dell’autista che guida il camion. Dunque, l’economia della conoscenza è un metodo, un modo di guardare e di far funzionare l’economia complessiva, mettendo in movimento non solo le idee, ma l’insieme delle risorse impiegate, comprese quelle materiali. Possiamo dire che essa consiste nello studio dei processi economici che portano alla generazione di valore economico attraverso l’uso di conoscenze, nelle varie forme che queste possono assumere. •Nella foto di apertura, le sedie dell'architetto e designer danese Arne Jacobsen. Qui sopra, le saliere della Alessi. Due esempi di conoscenza generativa incorporata in prodotti industriali. Nella pagina successiva, un artigiano del vetro a Murano: in questo caso la conoscenza è ancora incorporata nel lavoro manuale. Foto: Anna Clopet/Corbis C’è differenza tra la situazione attuale e quella del passato? Il clou dell’economia classica è allocare il lavoro (risorsa scarsa, insieme al capitale fisico e alla terra-natura) agli usi in cui è in grado di creare il massimo valore. Il mercato e il calcolo economico servono appunto a spostare le risorse scarse dagli usi che hanno minore utilità (valore) a quelli che ne hanno di più, fino a raggiungere l’ottimo. Questo schema, però, salta se il valore non viene più prodotto dal lavoro (con conoscenza incorporata) bensì dalla conoscenza, separabile dal lavoro. La conoscenza codificata, proprio perché è dis-embodied (scorporata) dalle persone e dai contesti, è infatti una risorsa molto sui generis: una risorsa che non si consuma con l’uso e che, se ben codificata, può essere riprodotta a costo zero. Dunque, essa non è scarsa, ma moltiplicabile. Per creare valore attraverso la conoscenza, bisogna dunque organizzarne la moltiplicazione, allargando quanto più possibile il bacino di riuso. Non serve cercare di allocarla “meglio”, togliendola ad alcuni per passarla ad altri. Non bisogna scegliere tra gli usi possibili, ma bisogna invece cercare di servirli tutti, aumentando al massimo il bacino del possibile impiego. Già questo porta a dire che le “leggi” della generazione del valore valide nell’economia della conoscenza (scorporabile) non sono quelle contenute nei manuali di economia che si oltre la scuola studiano a scuola. Si aggiunga poi il fatto che la conoscenza è una risorsa che, al contrario dei fattori materiali classici, non è riducibile a ruolo di “puro mezzo”, ma influenza fortemente i fini dei soggetti che le impiegano, perché dà luogo a esperienze condivise (legami) e creative (senso). La conoscenza, insomma, non si limita a fornire un mezzo efficiente per raggiungere fini dati, ma fa molto di più: essa “crea mondi”, dando luogo a modi di vivere, di lavorare e di pensare diversi da quelli pre-esistenti. L’economia del worldmaking (creazione di mondi) è oggi molto più importante dell’economia della fabbrica, dove viene stressata soprattutto l’efficienza dei mezzi. E questa tendenza è oggi sempre più forte, appoggiandosi ai mass media e a Internet. Se si va a comprare un paio di jeans di marca, in negozio si pagano 150 euro, diciamo. Quei jeans escono dalla fabbrica finiti, con tutti gli strappetti al posto giusto, ad un costo di 15 euro. I 135 euro che si aggiungono nella filiera che li porta al consumo finale sono frutto del processo di worldmaking che ha ideato il modello, ne ha organizzato la produzione in filiera, lo ha messo in vista nelle catene dello shopping, lo ha reso riconoscibile (col marchio), lo ha dotato di significato (con la comunicazione), lo ha trasformato in mezzo Foto: Nasa cittadinanza identitario (con le communities e le “tribù” giovanili che organizzano il consumo). Questo vale per la moda, ma vale anche – in misura diversa – un po’ per tutti i prodotti del consumo attuale, che tende ad andare oltre il consumo di massa di prodotti standard, e chiede invece personalizzazione, significati, servizi, garanzie. La conoscenza generativa crea valore mettendo a punto modelli replicabili (e dunque moltiplicabili) che forniscono tali qualità. Ma in questo, cessa di essere puro mezzo, e diventa una forza orientata alla creazione di valore tramite worldmaking. Perché parla di conoscenza generativa? Quante forme di conoscenza esistono? Per produrre valore economico, occorre mettere insieme tipologie di sapere molto differenti, e spesso complementari: il sapere teorico, astratto e impersonale contenuto in una teoria scientifica, in una macchina utensile, in una lattina di Coca Cola o in una procedura organizzativa collaudata (come spedire un pacco postale, ad esempio), col sapere pratico – spesso più concreto e personalizzato – che mira a ottenere un certo risultato, qui e ora, in un contesto ben preciso del mondo reale. Il primo è un sapere codificato, costruito in modo da poter essere utilizzato da chiunque e in contesti diversi, purchè si seguano le astratte “istruzioni per l’uso” che sono fornite dal codice. La sua caratteristica di fondo (e ciò che lo rende prezioso per l’economia) è che si tratta di un sapere replicabile, nel senso che può essere riprodotto e ri-usato a costo zero un numero infinito di volte, purchè le prescrizioni del codice vengano rispettate. Pensiamo a una teoria scientifica, a una formula chimica, a un trapano elettrico, a un CD, a una foto. Il secondo, invece, è legato alle persone e ai contesti pratici in cui quel sapere (tacito, e spesso posseduto inconsapevolmente) ha avuto origine: può essere riprodotto, trasferito altrove e riusato, cittadinanza da persone e in contesti diversi da quello di origine, solo con difficoltà, richiedendo adattamenti e sperimentazioni che costano, richiedono tempo e hanno esiti non scontati. Tuttavia, questa forma di sapere non può essere esclusa dal processo di produzione del valore economico perché essa ha capacità generative, ossia riesce a produrre nuove conoscenze, o ad adattare le conoscenze esistenti a problemi nuovi. Solo le persone (in carne ed ossa), non le macchine o i modelli matematici, hanno capacità generative. Le conoscenze replicative (codificate) ogni volta che vengono riusate producono un valore addizionale a cui non corrispondono costi. Ma il problema è che esse perdono rapidamente valore, man mano che va avanti il processo di riuso. Dunque, per compensare la perdita di valore vanno rigenerate (rinnovate, cambiate, adattate, portate in nuovi campi di applicazione, riproposte a pubblici diversi e con significati differenti). Tutte cose che solo la conoscenza di tipo generativo, legata a persone e contesti reali, può fare. Ecco la ragione della complementarità. In che rapporto stanno queste due forme di conoscenza, generativa e replicativa, con il fenomeno della globalizzazione? “Le risorse generative Oggi, in presenza di mercati globali che danno accesso a luoghi molto difche consentono di ferenti, le conoscenze generative, che sono legate ai loro luoghi di origine, utilizzare con vantaggio organizzano il ri-uso dei modelli replicabili che da esse vengono ricavati in la rete di interfiliere estese, che trasferiscono le attività di riuso delle conoscenze codificate connessione globale in un insieme di luoghi diversi e distanti tra loro, collocati nel mercato globale. riguardano capacità Questa è la ragione per cui, anche in Italia, tutta una serie di lavori (replicativi) di innovare, inventare, perde valore, mentre un’altra serie di lavori (generativi) lo aumenta, diventando convincere, progettare, nucleo attivo di filiere globali sempre più ampie. Ovviamente la crisi ha messo assumere rischi e in difficoltà tutte e due queste specie di lavori, ma certo, tra poco, ci accorgeresponsabilità nella remo che molti dei lavori replicativi, presenti in precedenza nelle grandi imprecostruzione del futuro, se fordiste e nei distretti industriali, sono stati trasferiti altrove, o non ci sono individuale e collettivo” più. E, se ci sono ancora, rendono sempre meno. È un grande cambiamento a cui dobbiamo abituarci, puntando tutte le carte che ancora abbiamo sullo sviluppo di un nucleo forte di conoscenze generative sul nostro territorio e di connessioni forti tra questo nucleo e le filiere globali che da esso possono irradiare. Se pensiamo in termini di una economia della conoscenza, come cambia l’approccio dei ragazzi allo studio? L’apprendimento che si chiamava un tempo “istruttivo” (da cui il termine istruzione) insegnava ai ragazzi a risolvere problemi codificati seguendo delle “istruzioni per l’uso” con un approccio esecutivo. Oggi questo metodo di apprendimento non paga più, né all’interno della scuola, né, tanto meno, sul mercato del lavoro in cui serve una dose crescente di conoscenza generativa e di capacità di connessione con le filiere cognitive presenti nel mondo. Le risorse connettive che servono al collegamento con queste filiere sono Internet, l’inglese, i linguaggi formali che si imparano a scuola (ingegneria, informatica, matematica, contabilità, management, diritto ecc.), le capacità dialogiche che creano e mantengono i contatti (ibridazione tra culture, persone che si spostano da un luogo all’altro, esperienze condivise tra attori di origine diversa ecc.), le piattaforme fisiche che realizzano il collegamento (ADSL, TAV, aerei, metropolitane ecc.). Le risorse generative che consentono di utilizzare con vantaggio questa rete di interconnessione globale cittadinanza riguardano invece capacità di innovare, inventare, convincere, progettare, assumere rischi e responsabilità nella costruzione del futuro, individuale e collettivo (della famiglia, dell’impresa, del territorio, delle comunità di senso a cui si è scelto di aderire). L’apprendimento, di conseguenza, dovrebbe diventare non più istruttivo, ma evolutivo (attraverso la sperimentazione pratica delle idee in contesti di volta in volta differenti) e creativo (attraverso l’esercizio del worldmaking, ossia della creazione di mondi intorno ad alcune idee motrici che riguardano la qualità del vivere e del lavorare). In senso ancora più ampio, dovrebbe cambiare anche il sistema dell’istruzione? Il punto essenziale è che la scuola, per liberarsi del suo confinamento storico all’apprendimento istruttivo, dovrebbe ribaltare la logica burocratica e verticistica che quel tipo di apprendimento presidia e impone, a sua immagine e somiglianza. “Oggi tutti i lavori, La scuola dell’apprendimento evolutivo e creativo dovrebbe tornare nelle mani tutti gli oggetti e degli utilizzatori del servizio educativo (le persone, le imprese, i territori) facendo tutti i servizi sono saltare la gabbia delle regole burocratiche, da sostituire con una serie di standard ad alto contenuto comuni (interfacce, linguaggi e misurazioni condivise) che consentano facili e sidi conoscenza, nel curi collegamenti tra le diverse tessere del nuovo mosaico educativo. Per il resto senso che utilizzano si dovrebbe lasciare che ciascuno decida l’investimento da fare (in sapere istrutprincipalmente tivo, evolutivo e creativo), i rischi da prendere (rispetto ai vari possibili settori di lavoro uso, assunti come riferimento), i significati da costruire nella comunità interna e cognitivo e solo da propagare all’esterno. Va da sé che questa ripartenza dal basso – interamente eccezionalmente post-fordista – metterebbe in linea il modo di ragionare delle imprese (ma anche lavoro energeticodei territori e delle comunità di senso) con quello delle scuole, ambedue interesmuscolare” sate ad accumulare conoscenza generativa da usare in modo replicativo nelle filiere globali. è in questo modo che la sempre invocata collaborazione scuolalavoro potrebbe trovare una realizzazione pratica, in forza di interessi e logiche comuni. È possibile pensare a come scegliere il proprio futuro in termini di economia della conoscenza? Il mercato del lavoro (futuro) chiederà sempre di più conoscenze generative che hanno imparato a tradursi in moduli replicabili, da propagare in reti connettive globali che si sanno padroneggiare senza incertezza. Se le scuole continuano ad avere un focus sull’apprendimento istruttivo saranno guai per i ragazzi, salvo le poche eccezioni di quelle persone che faranno da sole quanto richiesto, in aggiunta all’istruzione ricevuta nei percorsi scolastici. Ma se le scuole cambieranno nel senso detto, non ci saranno eccessive difficoltà a trovare una nuova convergenza sui requisiti importanti del sapere futuro. Certo, bisogna trovare le forme organizzative adatte all’apprendimento evolutivo e a quello creativo, e alla loro messa in rete col mondo esterno. Esperienze a cavallo tra il lavoro e la scuola in questo quadro non sarebbero più “fuori norma”, ma sarebbero invece la norma. Speriamo che si possa fare presto, e che questo nuovo sentiero possa ospitare molte persone, invece che poche. ••• > Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, di Enzo Rullani, Carocci,2004 cittadinanza Che cosa significa educare alla cittadinanza attiva in Europa? Uno studio comparativo mette a confronto i sistemi scolastici dei Paesi del nostro continente. E scopre che esistono molte differenze, dall’anno in cui si inizia a parlarne tra i banchi al numero di ore dedicate e alla scelta di farne una materia autonoma oppure no cittadinanza I •Le manifestazioni di giovani polacchi per festeggiare l'ingresso del loro Paese nell'Unione europea nel 2004. Foto: Jens Koehler/staff/Getty l 2013 è l’anno europeo dei cittadini e anche il ventesimo anniversario dall’istituzione della cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht: due ottime ragioni per riflettere sul tema della cittadinanza attiva. Lo studio comparativo L’educazione alla cittadinanza in Europa, realizzato dalla rete Eurydice, offre decisamente tanti spunti di riflessione. Lo studio spazia dal modo in cui i sistemi educativi europei inseriscono la trasmissione dei saperi di educazione alla cittadinanza nei curricula scolastici alla partecipazione di studenti e genitori alla governance scolastica, dalla “cultura della scuola” all’aspetto complesso della valutazione, per concludere con uno sguardo all’offerta di formazione per insegnanti e capi di istituto. Negli ultimi anni, le politiche europee in ambito educativo hanno posto un’attenzione sempre maggiore alla necessità di acquisire competenze civiche e sociali e hanno sottolineato il ruolo primario dell’istruzione nella promozione della cittadinanza attiva. Il documento che ha dato origine a questa spinta è la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, che nel 2006 ha individuato e definito per la prima volta a livello europeo le competenze chiave che i cittadini devono possedere per la propria realizzazione personale, per l’inclusione sociale, la cittadinanza attiva e l’occupabilità nella cittadinanza società della conoscenza. Le competenze sociali e civiche rientrano tra le otto competenze chiave, che «includono competenze personali, interpersonali e interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa […]. La competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture socio-politici e all’impegno a una partecipazione attiva e democratica». Altri documenti di cooperazione europea interessanti da citare, perché si inscrivono nelle ragioni dello studio di Eurydice sono la Carta del Consiglio d’Europa sull’educazione per la cittadinanza democratica e l’educazione ai diritti umani del 2010, che intende sensibilizzare tutti i cittadini a temi come i diritti umani, la democrazia, lo stato di diritto, e che, in particolare, raccomanda fortemente la promozione di tali valori attraverso tutti gli attori del processo educativo, e la terza indagine sull’educazione civica e alla cittadinanza promossa dalla International Association for the Evaluation of Educational Achievement - IEA, nata nel 1958 con lo scopo di condurre ricerche comparative internazionali nel campo della valutazione. L’attenzione dedicata dalla IEA alla civic education risale ai primi anni settanta, e dimostra, a distanza di decenni, l’importanza crescente che i sistemi educativi internazionali attribuiscono all’educazione dei giovani alla cittadinanza in società che presentano rapidi cambiamenti nel loro tessuto culturale, economico, politico e sociale.Lo studio comparativo L’educazione alla cittadinanza in Europa nasce da un concetto di cittadinanza evoluto che travalica il semplice rapporto tra Stato e individuo. Questo concetto più ampio di cittadinanza coniuga l’insegnamento e l’apprendimento in classe, quale veicolo delle conoscenze teoriche da acquisire, all’esperienza pratica in ambito scolastico ed extrascolastico, quale palestra per sperimentare sul campo tali conoscenze: una perfetta sintesi del learning by doing. Prenderò Per quante ore viene insegnata 30 25 25 20 20 15 15 10 10 5 5 0 istruzione primaria superiore istruzione secondaria inferiore istruzione secondaria superiore bulgaria estonia irlanda grecia spagna francia cipro lituania lussemburgo austria polonia portogallo romania slovenia slovacchia norvegia croazia turchia 30 bulgaria estonia irlanda grecia spagna francia cipro lituania lussemburgo austria polonia portogallo romania slovenia slovacchia norvegia croazia turchia 35 bulgaria estonia irlanda grecia spagna francia cipro lituania lussemburgo austria polonia portogallo romania slovenia slovacchia norvegia croazia turchia 35 0 Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011 le raccomandazioni relative alle ore di insegnamento sono previste nei Paesi in cui l’educazione alla cittadinanza viene insegnata come materia separata e variano da un paese all’altro. Quella indicata nel grafico è la media del numero minimo di ore di insegnamento destinate all’educazione alla cittadinanza come materia a sé stante in un anno teorico, in base alle raccomandazioni per l’istruzione primaria e secondaria generale (inferiore e superiore). cittadinanza le parole della cittadinanza in esame due aspetti trattati dallo studio: gli approcci e l’organizzazione curricolare dell’educazione alla cittadinanza e la formazione dei docenti. Tre sono gli approcci curricolari diffusi nei sistemi educativi europei, come è stato evidenziato dallo studio, che vengono utilizzati spesso combinati tra loro: il primo è l’insegnamento di educazione alla cittadinanza come materia separata, il secondo è l’insegnamento come argomento integrato in altre discipline o aree disciplinari, il terzo come tematica trasversale a tutte le discipline del curriculum. Le informazioni si basano sui curricula nazionali dei Paesi: regolamenti, raccomandazioni, linee guida e ogni documento ufficiale. Numerosi Paesi dedicano all’educazione alla cittadinanza una materia obbligatoria a sé stante, a volte a partire dal livello primario di istruzione, più di frequente dal livello cittadinanza malta liechtenstein belgio fiammingo Che l’educazione alla cittadinanza sia una materia autonoma o no, tutti i Paesi le assegnano una dimensione interdisciplinare, specialmente dopo lo slancio dato dall’uscita della raccomandazione sulle competenze chiave del 2006. lussemburgo dove la CittadiNaNza è uNa materia a sé staNte legenda materia a sé stante a livello secondario materia a sé stante a livello primario e secondario materia non a sé stante a livello primario o secondario Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011 legenda in temi trasversali/competenze chiave/ aree di contenuti educativi soltanto come obiettivi generali del sistema educativo Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011 malta liechtenstein belgio fiammingo Nella maggior parte dei Paesi, che venga insegnata o meno anche come materia a sé stante obbligatoria, l’educazione alla cittadinanza è integrata in altre materie o aree tematiche: scienze, storia, geografia, lingue, scienze sociali, religione/ etica, sono le materie più frequentemente abbinate ma troviamo anche psicologia, legge o, nel caso di Cipro, greco. lussemburgo l’aPProCCio trasversale all’eduCazioNe alla CittadiNaNza cittadinanza secondario inferiore e/o superiore. La durata che ogni Paese dedica all’educazione alla cittadinanza nell’arco del percorso di istruzione varia dai dodici anni del sistema educativo francese (gli alunni francesi alla scuola primaria iniziano con lo studio di civique et morale, proseguono a livello secondario inferiore con éducation civique, e a livello secondario superiore studiano éducation civique, juridique et sociale) al singolo anno della Turchia. Le conoscenze trasmesse in classe ai futuri “cittadini del mondo” sviluppano temi come il sistema socio-politico del Paese, i diritti umani, i valori democratici, l’identità nazionale e il senso di appartenenza al Paese, la diversità culturale, lo sviluppo sostenibile e l’identità europea, tanto per citare solo alcune delle tematiche trattate più comunemente. In Austria e Spagna, ad esempio, tra i temi raccomandati dai curricula è presente la parità dei sessi, mentre in Portogallo e Lituania si tratta anche il tema della sicurezza stradale. Gli insegnanti hanno un ruolo chiave nella trasmissione delle conoscenze civiche e sociali e nelle competenze che ne derivano, tuttavia dallo studio della rete Eurydice emerge chiaramente che insegnanti specialisti in educazione alla cittadinanza sono rari, solo in Inghilterra è possibile una formazione specifica in educazione alla cittadinanza. Numerosi istituti di istruzione superiore inglesi offrono corsi postdiploma della durata di un anno, che combinano la conoscenza teorica della materia con l’esperienza pratica di insegnamento. In generale, però, nei sistemi educativi europei si è osservata la necessità di rafforzare le qualifiche degli insegnanti, e questa considerazione è avvalorata dal fatto che all’introduzione di riforme nei curricula di educazione alla cittadinanza di numerosi Paesi non corrispondono spesso riforme nel settore della formazione iniziale e in servizio per docenti e capi di istituto. Una rete per far crescere una scuola europea > Eurydice è la rete di informazione sull’istruzione in Europa che fornisce informazioni e analisi sui sistemi educativi europei e sulle relative politiche. Istituita dalla Commissione europea nel 1980, è composta da 40 unità nazionali con sede nei 36 paesi che aderiscono al programma dell’Unione europea nel campo dell’apprendimento permanente (Lifelong Learning Programme; i Paesi sono i 27 Stati membri dell’Unione europea più Norvegia, Liechtenstein, Islanda, Svizzera, Croazia, Turchia, Serbia e, dal 2013, Montenegro ed ex repubblica Jugoslava di Macedonia) ed è coordinata dall’Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura (EACEA) con sede a Bruxelles. L’unità centrale opera in assoluta sinergia con le unità nazionali, coordina le attività della rete e redige e diffonde la maggior parte delle pubblicazioni, mentre le unità nazionali raccolgono i dati, contribuiscono alla loro analisi e promuovono a livello nazionale le descrizioni di 40 sistemi educativi europei, gli studi comparativi tematici, indicatori e statistiche, rapporti. L’obiettivo primario della rete è quello di facilitare la cooperazione nel campo dell’istruzione e della formazione affinando la conoscenza dei sistemi e delle politiche educative e supportando in tal modo i responsabili politici nelle loro decisioni. cittadinanza Il caso dell’Austria risulta interessante: nell’anno scolastico 2008/2009 è stata introdotta nelle scuole la nuova disciplina storia, studi sociali e educazione alla cittadinanza all’ottavo anno di istruzione (livello secondario superiore); la risposta a questa novità da parte della politica austriaca del settore educativo è stata l’inclusione di educazione alla cittadinanza come materia obbligatoria di studio nelle Pädagogische Hochschulen frequentate dai futuri “La cittadinanza formale insegnanti. L’offerta di formazione in servizio per inseè importante e tuttavia gnanti incentrata sull’educazione alla cittadinanza varia è la cittadinanza a seconda del Paese, e prevede la partecipazione di assostanziale che misura sociazioni, centri accreditati di formazione, ONG, oltre la forza della propria a quella delle autorità educative. In Francia, le autorità voce nella società: diritti educative regionali organizzano sessioni di formazione politici, certo, ma anche della durata di tre giorni su temi di educazione civica diritti sociali e civili" e alla cittadinanza, rivolte a insegnanti di storia e geografia della scuola primaria e secondaria inferiore e a insegnanti di altre discipline che “ospitano” l’insegnamento della cittadinanza nelle materie di loro competenza. In Spagna, la Fundación Cives promuove da oltre dieci anni l’educazione civica e alla cittadinanza con l’intento di contribuire alla realizzazione di uno stato sociale democratico dove ogni cittadino ha pieni diritti. Tra le sue attività primarie, la fondazione prevede corsi di formazione per insegnanti, workshop, conferenze e seminari su temi di educazione etica e civica, oltre ad offrire materiali e risorse sull’educazione alla cittadinanza. Il rafforzamento delle competenze degli insegnanti nell’area dell’educazione alla cittadinanza rimane, tuttavia, un tema caldo, che necessita di ulteriori sviluppi e ricerche. Comprendere l’importanza della cultura della scuola, intesa come un sistema di comportamenti, valori, norme, convinzioni, pratiche quotidiane, principi, regole, metodi di insegnamento e modalità organizzative, costituisce un punto di partenza per diventare a tutti gli effetti cittadini attivi e responsabili. E questa è soltanto una delle numerose riflessioni che emergono dallo studio della rete Eurydice. ••• > L’educazione alla cittadinanza in Europa, I Quaderni di Eurydice n. 28, Indire – Unità italiana di Eurydice, 2011 www.indire.it/lucabas/lkmw_file/eurydice/Quaderno_28_cittadinanza.pdf > Citizenship education in Europe, EACEA/Eurydice, 2012, Il Mulino, 2003 www.indire.it/lucabas/lkmw_ file/eurydice/Citizenship_2012_EN.pdf > Eurypedia Enciclopedia online sui sistemi educativi europei https://webgate.ec.europa.eu/fpfis/mwikis/ eurydice/index.php > Sito dell’Unità italiana di Eurydice www.indire.it/eurydice/index.php focus tech La domanda che tutti si pongono, non solo all’interno del sistema scolastico, è come vadano sfruttate davvero le possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Una ricerca basata sullo studio di alcuni casi pratici suggerisce che inseguire non serve: meglio partire da principi adeguati alla realtà dei giovani e del mondo digitale. A partire dalla collaborazione S tudiare il mondo dell’apprendimento da dentro, sbirciando le buone e cattive pratiche direttamente negli ambienti (scolastici e non) frequentati dai ragazzi: questa è l’idea di base che sta dietro al lavoro di ricerca del gruppo americano Digital Media and Learning Hub, che è culminato, all’inizio di quest’anno, con una pubblicazione che si è imposta all’attenzione del mondo accademico e non solo. Esplorare sul campo Colorato, amichevole, giovanile, il sito web del Digital Media and Learning Hub (http:// dmlhub.net) non sembrerebbe, a una prima occhiata, quello di un prestigioso gruppo di ricercatori che ha sede all’Humanities Research Institute della University of California. La parola d’ordine è senza dubbio informalità, in puro stile americano. Il gruppo, come suggerisce il nome stesso, svolge attività di ricerca sullo sfaccettato rapporto tra due ecosistemi complessi: quello dei media digitali e quello dell’apprendimento. L’interrogativo alla base del loro lavoro è: come si può impostare un nuovo e più moderno approccio all’apprendimento, e all’educazione, che tenga conto dell’enorme diffusione dei social media e dei nuovi comportamenti da essi indotti? «Abbiamo deciso di esplorare queste domande immergendoci nelle scuole superiori per un anno» spiega S. Craig Watkins, uno dei membri che hanno preso parte alla ricerca, pubblicata focus tech a gennaio. Il team californiano ha analizzato nove casi di studio significativi, dai quali emerge un modello vincente di apprendimento che è stato battezzato collective learning. Produrre in libertà Forse è più semplice intuire che cosa significhi collective learning proprio osservandolo “in azione” attraverso i casi di studio proposti dai ricercatori del Digital Media and Learning Hub. Quest to Learn (http://q2l.org) è una scuola attiva a New York dal 2009, che mira all’eccellenza educativa attraverso il gioco e le pratiche collaborative. Il report ci racconta come la scuola in questione, alla fine di ogni trimestre, organizzi una sorta di concorso, chiamato Boss Level, in cui gli studenti, suddivisi in squadre, competono in attività a carattere fortemente partecipativo (costruzione di macchine, realizzazione di opere teatrali, ecc.). YOUmedia (http://www.youmedia.org) è un esempio di esperienze di apprendimento non strettamente scolastico: un insieme di spazi organizzati (biblioteche, musei e quant’altro, corredati da un corrispettivo social network online) in cui gli adolescenti possono aggregarsi e produrre insieme, liberamente, materiale multimediale o non, usando i media digitali messi a disposizione dal network. Secondo la filosofia di YOUmedia, queste pratiche costituiscono una forma di apprendimento propria dell’epoca contemporanea e che non può più essere ignorata. •In questa pagina e nella pagina precedente, alcune delle attività indagate dal Digital Media and Learning Hub. Nell'immagine qui sotto, il gruppo di ricerca mentre presenta i risultati del proprio lavoro. Foto: Digital Media and Learning/flickr Guidati dalla passione Che cosa hanno in comune queste situazioni apparentemente così diverse? Secondo il gruppo di ricerca d’oltreoceano non c’è dubbio: un efficace connubio tra capacità acquisite a scuola e capacità apprese nella vita quotidiana. «Esiste una forma di expertise orizzontale» sostiene Kris Gutierres, del Digital Media and Learning Hub «che si sviluppa quando le persone coltivano quotidianamente i propri interessi. L’apprendimento è efficace quando l’expertise quotidiana e quella accademica si compenetrano e crescono come un tutt’uno». Questa è l’anima del connective learning: acquisire competenze di tipo scolastico esercitandosi nelle proprie passioni, collettivamente, distribuendo responsabilità e ruoli all’insegna di uno scopo comune. È un approccio chiaramente pensato per le tecnologie digitali, che sono caratterizzate da possibilità di collaborazione orizzontale e scambio inimmaginabili anche solo una generazione fa. L’analisi dei ricercatori americani ha messo in luce il fatto che il collective learning, così definito, è efficace in quanto caratterizzato da tre proprietà cardine dell’apprendimento moderno. focus tech • Qui sopra, a sinistra, la professoressa Mizuko Ito, leader del gruppo di ricerca. 1. Il supporto dei peers, ovvero dei pari, dei simili: in questo caso gli altri ragazzi. Già dal nome, il collective learning rappresenta un’idea di apprendimento di gruppo e non individuale, in cui non è necessario che ognuno sappia tutto o sappia fare tutto, ma è importante che il singolo sappia interagire con gli altri in modo che il gruppo sappia (fare) tutto. 2. L’interesse come motore. L’apprendimento è più efficace quando è motivato dalle passioni: imparare a scrivere correttamente, per esempio, riesce meglio se lo si fa in un contesto di fan fiction piuttosto che come compito imposto e che non si sente come proprio. 3. La finalizzazione accademica. L’apprendimento va formalizzato. Le conoscenze, le abilità e le competenze acquisite durante il gioco e la collaborazione devono essere riconosciute in ambito scolastico, altrimenti viene a mancare l’aspetto educativo dell’apprendimento. Per come la questione è posta dai ricercatori americani, il collective learning è utile per risolvere i tre maggiori problemi del sistema educativo occidentale: lo scarto tra l’apprendimento scolastico e quello extrascolastico; l’inefficacia della competizione e valutazione individuale in una cultura sociale “di rete” e più che mai interconnessa; il crescente divario causato dal learning divide. «Ciò che rende il collective learning unico nel panorama delle possibilità» spiega Mizuko Ito, leader del gruppo di ricerca «è che non riguarda una particolare piattaforma, tecnica o tecnologia, ma è un approccio che permette di comprendere come opera l’apprendimento». Questo approccio all’apprendimento non è quindi definito dalla tecnologia ma da un sistema di valori adeguato a quello della cultura digitale in cui sono immersi gli studenti di oggi. ••• focus tech di Marco Meschini Storico medievista, insegna Storia presso l’Everest Academy di Lugano, dove è responsabile per l’innovazione tecnico-didattica Che cos’è, come si può usare in classe e con quali programmi la tavoletta elettronica, uno strumento dalle grandi possibilità, uno spazio dove convivono scrittura, immagini statiche e dinamiche, suoni. E che richiede anche qualche conoscenza e un po’ di buona volontà prima di poter entrare nella vita quotidiana delle scuole P rendiamo una celebre ceramica conservata a Berlino: vi è raffigurato un uomo seduto, di profilo, con un trittico sorretto dalla mano sinistra (gomito e parte dell’avambraccio sembrano poggiare o almeno aderire al fianco), intento a scrivere sulla tavoletta centrale; nella destra regge uno stilo, sospeso a mezz’aria: sta osservando quanto ha tracciato sulla cera? O sta pensando a cosa aggiungere ai segni già incisi? Oppure è semplicemente colto in un momento di “stacco” tra un segno e l’altro? O sta correggendo i compiti dell’allievo che gli si para davanti, e che non vede ciò che accade al di là dello “schermo” di legno e cera? Il sorriso che li accomuna suggerisce comunque una buona relazione. Tra il 500 a.C. circa (epoca del manufatto firmato dal greco Douris) e il 2010 d.C. - anno di lancio dell’iPad, che oggi è un po’ il tablet di riferimento - molte cose sono cambiate e alcune paiono tornare: non è forse una tavoletta (tablet, in inglese) il nuovo medium che spinge per entrare nelle nostre aule? Ma prima di tutto: cos’è un tablet? È un computer mobile minimalista. Le componenti hardware sono “fuse insieme”: il processore, la memoria e la principale periferica di output (il video) stanno tutte in una mano, e la principale periferica di input è l’altra mano dell’uomo: per interagire con un tablet si usano infatti principalmente le dita della mano in una serie di gesture – gesti a un dito o più dita insieme – che attivano diverse funzioni: aprire un programma, chiuderlo, cambiare schermata o pagina, spostare oggetti digitali… Per scrivere, oltre ai segni tracciabili con il dito, si usa anche e soprattutto una variante digitale della tastiera fisica, che compare sul lo schermo del tablet solo quando è necessario, anche se, volendo, se ne può aggiungere una esterna – operazione che tende però a snaturare il tablet, aumentando focus tech •Il monumento ai Tetrarchi di piazza San Marco, a Venezia, un esempio di come il tablet permetta di esplorare i particolari meglio della carta. la complessità dell’insieme, mentre la sua forza è appunto l’estrema semplicità. Taluni modelli sostituiscono all’interazione con le dita o, più spesso, integrano uno stilo particolare, ma si tratta a mio parere di elementi fuorvianti, perché il vantaggio dei tablet rispetto ai computer tradizionali è proprio il fatto di abbattere ulteriormente la distanza fra la macchina e l’uomo e, ancor di più, tra l’uomo e lo spazio cibernetico, ovvero il mondo digitale, di cui la regina è Internet. Se il codice antico e medievale era una tecnologia che immetteva nello spazio astratto e pulito della dimedialità (scrittura e immagine statica), il tablet è il ponte di ingresso per il mondo digitale, ovvero uno spazio dove convivono scrittura, immagini statiche e immagini dinamiche, suoni, il tutto nelle dimensioni della rappresentazione (sino a qui era arrivato anche il codice), ri-creazione (dall’avvento della fotografia in poi) e creazione della realtà (cinema, grafica computerizzata e mondi virtuali). Insomma il tablet non si limita ad “estendere” ancora di più lo spazio dimediale del codice (e del libro a stampa), ma ci introduce nello spazio digitale, rendendolo parte di noi – e noi parte di quello. Tanto più che, ben oltre la scrittura e l’immagine, vi convivono un’infinità di possibilità informative, comunicazionali, economiche, ludiche, ecc. Per queste ragioni – al di là delle pur significative differenze tecniche – il tablet è cosa affatto diversa dall’e-reader (letteralmente “lettore elettronico”): quest’ultimo è un apparato dedicato alla fruizione (non la scrittura!) di ebook (i cosiddetti “libri digitali”, anche se l’espressione è per me totalmente fuorviante (come ho spiegato sul mio blog). L’e-reader introduce a un “mondo” di testi digitali, tendenzialmente dimediali (e per lo più in scala di grigi) e con funzioni sostanzialmente “chiuse”, mentre il tablet apre alla multimedialità più spinta dove il “codice” della scrittura vive nella concorrenza dei codici fotografico, cinematografico, focus tech ipertestuale, ecc., e di molte altre cose ancora. Dunque la prima cosa da sapere è questa: se volete arricchimento e competizione multimediale, insieme all’immissione nel ciberspazio, il tablet è relativamente perfetto; se invece preferite la grande tradizione dimediale, è al contrario controproducente. App(licazioni) utilizzabili Partendo dal presupposto dell’arricchimento multimediale, vediamo allora quali sono alcune delle app(licazioni) utilizzabili con il tablet, con uno sguardo preferenziale al mondo Apple, per il semplice fatto che la scuola dove lavoro ha adottato gli iPad e dunque li conosco meglio di altre soluzioni. LeggerE Distinguiamo due tipologie fondamentali di file: gli ebook e i pdf, questi ultimi generabili praticamente da tutti senza particolari problemi (è sufficiente esportare o “stampare” focus tech in pdf un qualunque file). Per i pdf l’app migliore è oggi il Reader di Adobe (inventrice del formato), che consente di archiviare i pdf in cartelle, sottolineare, evidenziare, scrivere a mano libera, riempire i campi vuoti (funzione importante per chi crea esercizi e test proprio su pdf) ecc. Altra buona app è GoodReader, con altre funzioni. Per gli ebook bisogna ribaltare la prospettiva: qui dipende da quali testi (non quali funzioni) vi servono. Ovvero, se avete bisogno di un testo della tal casa editrice (o distributore, nel caso di Apple e di “Uno dei vantaggi del tablet Amazon e della sua famiglia Kindle: e-reader, tablet, store e app), è poter avere più immagini dovrete necessariamente adottare il metodo di lettura/fruizione dello stesso soggetto. Mettere imposto dalla stessa, con i relativi vantaggi e svantaggi. Se invece a confronto tra loro più scatti pensate di usare degli ebook in formato pubblico .epub (ma l’offerconsente allo studente di 'avere ta di testi scolastici in questo campo è al momento molto limitata, tra le mani', quasi di 'toccare' il almeno in italiano), allora potete scegliere tra varie possibilità, da reperto, con un dettaglio e una Stanza a iBooks (quest’ultimo solo per Apple). Esistono infine molti dinamicità impossibili su carta" ebook concepiti come app a sé stanti. Purtroppo spesso le funzioni interattive rivolte allo studio (sottolineatura, note a margine ecc.) sono assenti oppure ridotte e poco funzionali. Una conseguenza che si sarà già intuita: il tablet promette di “avere tutto a portata di mano”, anzi di dita, però il dato di fatto è che bisogna sapere in quale app si utilizza il tal testo, perché i file sono appunto conservati “dentro” le app, in un approccio che è radicalmente differente da quello classico del pc. Naturalmente, esiste anche una funzione di ricerca sul contenuto del tablet. Scrivere (prendere appunti, redigere un testo, ecc.) Word non c’è. Microsoft, il gigante creato da Bill Gates e proprietario del più famoso e diffuso word processor del mondo, non ne ha ancora creata una versione per tablet. Esistono però moltissime app che fanno “grosso modo” lo stesso, tenuto conto del fatto che servono solo alcune funzioni di base: inserire testo, immagini e poco altro. Per impaginare dignitosamente il tutto è preferibile trasferire il file su pc, dove lo spazio video è maggiore. Dunque si può andare da un semplice blocco note (ne esistono infinità) al (molto diffuso) Documents To Go, che solitamente gestisce bene anche i file di Office. Apple propone la versione ridotta di Pages (il suo concorrente di Word), che è buona anche per gli appunti. Alcuni studenti preferiscono Keynote (alias PowerPoint o similare), app concepita per realizzare presentazioni ma impiegabile anche per altri usi, come prendere appunti e generare schemi di studio. Dimenticatevi infine di “scrivere a mano” sul tablet: molti conoscenti ci hanno provato, tutti hanno rinunciato – almeno per ora. E dunque un piccolo consiglio: prevedete un micro-corso di digitazione a 10 dita: se dovete interagire per tutto l’anno con una tastiera (fisica o virtuale che sia), è meglio saperlo fare al meglio… Metodi sperimentabili Condividere. Per condividere i file – sia da parte del docente, che degli e tra gli studenti – sono necessari servizi digitali (e gratuiti, almeno a livello base) come DropBox, oppure Google Apps (tra cui Calendar, Drive per i file, e Sites), ovvero i servizi di creazione e condivisione di file e risorse che Google mette a disposizione – gratuitamente – per i singoli e le istituzioni educative. Naturalmente può essere che la vostra scuola abbia già sviluppato un proprio sito in questa direzione: sarà allora da valutare attentamente l’integrazione focus tech con i tablet che si intendono adottare, per evitare di ritrovarsi a spedire centinaia di email con allegati: un sistema praticabile ma scomodo, soprattutto quanti più studenti e materiali avete. Immagini e video. Uno dei vantaggi del tablet è poter avere più immagini dello stesso soggetto. Mettere a confronto tra loro più scatti, per esempio, della scultura dei tetrarchi di Venezia (di fronte, lato sinistro e destro, dettagli vari) consente allo studente di “avere tra le mani”, quasi di “toccare” il reperto, con un dettaglio e una dinamicità impossibili su carta – a meno, ovviamente, di disporre d’una monografia sul tema. La scultura, in questo caso, si presta bene, essendo naturaliter tridimensionale, ma la stessa dinamica si attiva anche con immagini bidimensionali. Una rapida ricerca online aprirà molte piste per trovare i materiali di partenza, ma non si può non citare la Web Gallery of Art (http:// www.wga.hu), una miniera vastissima, oppure progetti specifici, come la visita virtuale delle grotte di Lascaux (http://www.lascaux.culture.fr/#/fr/00.xml) o della Sistina (http:// www.vatican.va/various/cappelle/index_sistina_it.htm). E poi, ovviamente, ci sono i video. Personalmente trovo efficaci video brevi (da 3 a 10 minuti al massimo), per evitare l’effetto soporifero che la tele-visione porta con sé e, soprattutto, perché vi sia subito dopo l’attivazione didattica in vista del processo di astrazione e concettualizzazione. Un buon esempio è il documentario sulla Seconda guerra mondiale Apocalypse (in francese, ma esistono localizzazioni in molte lingue, tra cui l’italiano), disponibile anche su YouTube. Il docente potrà proporre un percorso attraverso alcuni dei contributi video della serie, per far emergere i momenti chiave che più riterrà idonei per inquadrare la grande tragedia del 1939-1945. Si ricordi che lo studente può mettere in pausa il video e tornare indietro, in “riletture” del flusso audiovideo che sono fondamentali per l’apprendimento. Linguaggio e concetti. Come far assimilare agli studenti il linguaggio proprio di ciascuna materia? Un suggerimento è quello di “far giocare” lo studente con le parole per stabilire, nella ripetizione rapida e costante, il rapporto concetto-definizione attraverso una serie di risorse digitali, tra cui spicca Quizlet (http://quizlet.com). Si tratta di un portale online di quiz e giochi con le parole (e le immagini, grazie all’estensione a pagamento), in cui ogni docente può creare le proprie “classi virtuali” e far accedere gli studenti per lo studio personale. A questo link trovate un mio “set” dedicato a Le parole della Storia (http://quizlet. com/_eace9), con cui sperimentare il sistema prima di “tuffarsi” a creare i propri set. Per non concludere L’accesso alle “meraviglie” digitali spalanca possibilità e suggerisce di ripensare modalità e tempi dell’insegnamento e dell’apprendimento. Solo se il docente saprà portarsi avanti lungo il cammino potrà suggerire le vie per non perdersi e, al contrario, arricchirsi. Senza dimenticare che nessun ritrovato potrà mai sostituire il docente che, seduto o in piedi che sia, sorride al suo allievo. ••• > Il blog del professor Meschini www.marcomeschini.me > Aula 1.0 una serie di articoli dell’autore su iS dedicati alla sua esperienza in aula con le nuove tecnologie,http://is.pearson.it/espresso/aula-1-0-una-voce-dalla-prima-linea-prima-parte-gli-strumenti/ Laboratorio Pearson Testo e foto di Davide Coero Borga Viaggio in un liceo-laboratorio che, a Milano, ha deciso di mettere i tablet alla prova. A sorpresa, il vero problema è la mancanza di banda larga laboratorio Pearson T ablet vuol dire un’applicazione che ti consente di leggere in pdf un libro di testo, un registro personale e di classe, non più di carta, ma anche gestione di parti del programma didattico all’interno di un’applicazione divisa in testi, video, immagini, audio, schemi. Tablet è condivisione di file attraverso piattaforme dedicate… È un ambiente completamente nuovo. Io tento di spingerlo al massimo delle sue potenzialità, compatibilmente con la collaborazione degli alunni», racconta Andrea Maricelli, docente di italiano e latino all’Istituto De Amicis di Milano. Gli istituti De Amicis sono un’isola felice, dove l’85% delle classi può fare affidamento su una bella LIM, la lavagna interattiva multimediale che a macchia di leopardo ha sostituito le vecchie lastre di ardesia appese alle pareti delle classi d’Italia. Qui il 60% dei cinquecento studenti è armata di tablet, come gli ottanta insegnanti del corpo docente. L’inserimento di questi nuovi strumenti a scuola è frutto di un progetto voluto dalla direzione dell’istituto che, nella sede distaccata di Gorgonzola ha già rifornito di tavolette elettroniche quasi tutti i duecento ragazzi e i trenta docenti. Una scelta fatta per avvicinarsi al modo di comunicare degli studenti, ma anche per concretizzare un desiderio d’innovazione nel percorso scolastico e declinare i contenuti dei programmi in modo alternativo, nuovo, garantendo a chi è seduto dietro un banco che la scuola è comunque ancorata a un mondo che cambia. L’obiettivo finale è avere studenti che imparano meglio. «È falso pensare che i ragazzi studino meno attraverso un supporto come il tablet e le nuove tecnologie in generale» sostiene Angelo Dalessandri, coordinatore del progetto. «Chi vuole raccogliere la sfida dello studio continua a farlo con lo stesso impegno di sempre». Il punto è che probabilmente sta cambiando il modo in cui si studia, con un moltiplicarsi delle fonti di informazione e la possibilità di affrontare i temi complessi in maniera trasversale. Lo studente impara a gestire la complessità, una expertise sempre più richiesta, anche nel mondo del lavoro. Il progetto, battezzato Lemmings, come un celebre videogioco, nasce due anni fa e coinvolge inizialmente un gruppo di venti docenti, suddivisi in maniera equa tra gli istituti di Milano e Gorgonzola e di tutte le discipline: linguistiche, umanistiche laboratorio Pearson •In queste pagine, alcune immagini dei ragazzi e i professori dell'Istituto De Amicis di Milano. Foto: Coero Borga e scientifiche. La sperimentazione si è posta come obiettivo quello di capire quali sono le potenzialità nell’utilizzo del tablet all’interno di una didattica realmente innovativa, tentando di motivare gli insegnanti (ed è un punto che probabilmente distingue questa esperienza da molte altre) a inventare e sperimentare le potenzialità dello strumento tablet a livello disciplinare, utilizzando le classi come laboratorio e tenendo fermi una serie di obiettivi minimi che i partecipanti al progetto devono raggiungere. “Da quando anche i ragazzi hanno il tablet in L’idea è che nessuno al di fuori degli insegnanclasse, il cambiamento è ti può davvero capire quali prospettive apra l’inseristato consistente perché mento di uno strumento così sofisticato all’interno di si possono utilizzare delle un sistema scolastico che certo è in evoluzione, ma risorse internet, si possono conserva meccanismi consolidati e riconosciuti. La assegnare compiti prima prima fase del progetto è stata interamente dedicata impensabili, le ricerche a individuare una serie di app, di programmi applicapossono diventare tivi, fondamentali, grazie alle quali aprire un canale piccoli cortometraggi” di interazione con gli studenti, in classe durante le lezioni e a casa durante le esercitazioni e le sessioni di studio. La ricerca ha privilegiato l’immediatezza, la facilità di uso e la gratuità, per non gravare ulteriormente sulle tasche di studenti e insegnanti. La scelta è caduta su app specifiche, dedicate a singoli aspetti e materie, come le scienze o la storia, e altre decisamente trasversali come gli elaboratori di testo, o i programmi per creare mappe concettuali. Ma è con l’utilizzo creativo del tablet che i docenti hanno raggiunto i risultati più significativi. Le app a disposizione, utili in ambito formativo, solleticano la fantasia dell’insegnante. Immaginate una simulazione virtuale dove, come in un gioco di ruolo, la classe può partecipare a un evento storico, come la crisi dei missili di Cuba, nei panni dell’entourage del presidente Kennedy e “vivere” le difficoltà, i rischi, gli azzardi di una decisione epocale. Esiste la possibilità concreta di cambiare i registri narrativi di una materia scolastica. È necessario però un grosso investimento da parte del professore, che deve cercare gli strumenti in rete, imparare a conoscerli, testarli in autonomia per poi poterli riproporre in classe in maniera efficace. Un vantaggio c’è, e sta nella replicabilità di questi moduli. La app si può utilizzare più volte e in diversi contesti, senza parlare della possibilità intrigante di creare prodotti didattici ex novo, proprio partendo da uno schema di gioco che si è visto funzionare bene. Dalessandri definisce Lemmings come un progetto di successo, «perché oltre a regalare nuovi e potenti strumenti a quegli insegnanti già inclini a sfruttare la tecnologia, l’utilizzo del tablet a scuola ha saputo coinvolgere ed entusiasmare anche quella popolazione insegnante meno esperta. Questi docenti, pur partendo da zero hanno raggiunto un buon livello, tanto che alcuni oggi utilizzano il tablet in classe quotidianamente». Ciò dimostra che non è tanto importante quanto le nuove tecnologie siano conosciute dagli insegnanti, ma la motivazione che li spinge a utilizzarle, il desiderio di mettersi in gioco e la possibilità di rivoluzionare la vita della classe. laboratorio Pearson Il tablet offre vantaggi piuttosto evidenti. Anzitutto il peso dell’oggetto, che elimina l’annosa questione della pila di libri che i ragazzi devono trascinarsi dentro zaini da sherpa: un’unica tavoletta elettronica contiene in un centimetro di spessore le migliaia di pagine dei volumi che accompagnano gli studenti nell’arco della loro carriera scolastica. Una libreria imponente, sempre a disposizione, consultabile in ogni momento. C’è la possibilità di utilizzare liberamente immagini e video senza bisogno di un’aula multimediale. E dopo un iniziale senso di smarrimento, privati del supporto fisico dei libri, i ragazzi hanno saputo adattarsi velocemente alla scuola 2.0. «Io direi che l’utilizzo di una tecnologia che appartiene più ai ragazzi che agli insegnanti non ci mette in svantaggio, ma in discussione» riflette Fabrizio Di Pietro, docente di storia e filosofia al De Amicis. «E questo, se vogliamo, è l’aspetto più bello del lavoro che facciamo. È una fonte di stimolo e rinnovamento, essenziale per chi deve rivoluzionare quotidianamente la relazione con la propria materia e i ragazzi che gli stanno seduti davanti». Le possibilità offerte dall’impiego delle nuove tecnologie, già nella scuola di oggi, sono notevoli. Certo, in realtà pubbliche debilitate dalla cronica mancanza di risorse, il prezzo per l’acquisto di un tablet a ogni studente rappresenta un ostacolo serio. C’è bisogno di tecnologia a basso costo. Ci hanno pensato in India, dove un tablet da 30 dollari è nato precisamente come strumento didattico. Guarda il video dell'esperienza dell'Istituto De Amicis http://link.pearson.it/ C2E2F9B6 L’UTILIZZO del tablet a scuola sembra la naturale evoluzione di una didattica che, per molti, già da qualche anno andava in quella direzione, con pc e proiettore spesso portati in aula. Certo, da quando anche i ragazzi hanno il tablet in classe, il cambiamento è stato consistente perché si è capito che la didattica multimediale non è semplicemente passare dalla carta al pdf o aggiungere qualche video, bensì qualcosa di sostanziale: si possono utilizzare delle risorse Internet che aumentano le competenze degli studenti nelle singole discipline, si possono assegnare compiti prima impensabili, le ricerche possono diventare piccoli cortometraggi girati nel luogo dove i ragazzi vengono spediti virtualmente (uno scavo archeologico, la galleria di un pittore). C’è chi, fra gli insegnanti, sa trasformare le sue competenze e con questi nuovi strumenti ottiene una maggiore potenza di fuoco fra le trincee dei banchi di formica. Altri non ne vogliono sapere, ancorati a una narrazione della materia più tradizionale. Come vuole la più classica delle definizioni, la tecnologia spacca insomma i docenti tra apocalittici e integrati. Anche se, molto spesso, la vera sfida diventa poi l’accesso garantito a una banda larga di qualità per studenti e professori, in classe come a casa. Altrimenti si rischia di passare la lezione nell’attesa che il video si carichi. ••• Laboratorio Pearson L'aiuto che VALE di Stefano Federici e Cristina Gaggioli laboratorio Pearson Le tecnologie assistive e gli strumenti compensativi per gli studenti con DSA non sono un pretesto per non imparare, ma un modo per dar loro la possibilità di concentrarsi sul ragionamento e l’attività logica: meglio conoscerli e cominciare a usarli C hi di noi non conosce il proverbio tutto italiano "chi non legge la sua scrittura è un asino di natura?" E se ciò che è capitato a molti di noi una volta non fosse un intoppo imprevisto? Se ogni volta che si provasse a leggere un proprio manoscritto lo si trovasse incomprensibile? Avrete notato che il proverbio non lascia intendere che l'asino sia un analfabeta o uno che non sa scrivere, ma una persona che ci si aspetterebbe che non sbagliasse a leggere la propria scrittura, essendo stato alfabetizzato. Il proverbio esprime con chiarezza un pregiudizio diffuso tra coloro che con facilità e naturalezza hanno appreso i meccanismi di decodifica grafema-fonema, nel caso della lettura, dell’esecuzione del tratto grafico, nel caso della scrittura, degli automatismi di base del calcolo: è stato così facile farli propri e automatizzarli che solo un asino, un testardo, uno stupido potrebbe non riuscirci. Ma non è così per un bambino con un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). E non perché svogliato, disattento e non motivato, ma in quanto i meccanismi neurobiologici che sottostanno ai processi di apprendimento della laboratorio Pearson letto-scrittura e del calcolo gli si sono inceppati o funzionano diversamente. Se un bambino dislessico "asino lo è", lo è proprio nel senso più positivo del termine: è un testardo nell’apprendere nonostante le sue difficoltà, un testardo nel continuare a leggere un manoscritto che, se lui fosse anche disgrafico, non scriverà con un tratto grafico corretto, che non smetterà di servirsi delle dita per far di calcolo, nonostante abbia capito, forse molto meglio di altri, le regole e la logica matematica. Non è uno stupido e per questo sof“L'uso di uno strumento fre dei propri insuccessi scolastici. Ce l’ha messa compensativo non significa tutta e per questo è mortificato del disprezzo dei che lo studente rinuncia a compagni. Se dopo aver ripetuto un certo numefare qualcosa bensì che non ro di volte la tabellina del sei, nove bambini su dieci esaurisce lì le sue risorse" sono in grado di ricordarsela, uno, invece, è completamente impermeabile a queste informazioni e, se non potesse far uso di uno strumento compensativo, fosse anche una tavola pitagorica, nonostante anni di tentativi per apprendere la stessa tabellina, sarà costretto a ricorrere a dispendiose strategie alternative, come contare sulle dita. Tuttavia, questa difficoltà nel conteggio e nell’automatizzazione del calcolo non comporta di per sé una carenza logico-matematica. Il suo senso logico, la sua intelligenza logico-matematica non sono compromessi dal suo DSA e potrà ottenere degli ottimi risultati scolastici qualora si faccia leva sulle sue capacità logico-matematiche e si compensino le sue carenze attraverso semplici strategie alternative e ausili per il calcolo, laboratorio Pearson come la calcolatrice parlante, che aiuterebbe a superare la difficoltà nel distinguere il 5 dal 2 o il 9 dal 6. Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Molti credono ancora che permettere a uno studente di usare uno strumento compensativo significhi rinunciare per sempre alla possibilità di recuperare le abilità carenti e fornire allo studente un pretesto valido per non fare qualcosa: far leggere un asino. In realtà, l’introduzione dello strumento compensativo solleva l’alunno con DSA da una prestazione resa difficoltosa o impossibile dal disturbo, facendo in modo che le sue risorse attentive non si esauriscano nell’esecuzione dei meccanismi di base della letto-scrittura o del calcolo, ma si rivolgano ai contenuti del testo scritto, ai problemi logico-matematici, al ragionamento e alla produzione di idee. Quando parliamo di strumenti compensativi intendiamo strumenti hardware e software sia di uso comune sia creati per un uso speciale, che in questo secondo caso vengono chiamati tecnologie assistive. Una soluzione compensativa è spesso il risultato della combinazione di un comune computer portatile o da tavolo con cui sono stati installati alcuni applicativi che in parte si avvalgono di funzioni software già esistenti nel computer, come i programmi di videoscrittura (Word o Open Office), e dall’altra aggiungono opzioni specifiche per studenti con DSA come FacilitOffice (www.facilitoffice.org). Per esempio, uno strumento come la sintesi vocale, che trasforma un file di testo in voce, Un aggiornamento continuo sul web per sapere come intervenire > Il tema dei DSA è ormai entrato pienamente nel mondo della scuola, ma c’è un continuo bisogno di aggiornamento delle conoscenze, da molti punti di vista. Da un lato, infatti, proseguono in tutto il mondo gli studi scientifici su dislessia, discalculia e gli altri disturbi dell'apprendimento per mettere in luce le cause di questi problemi e così aiutare a individuare sempre meglio gli strumenti adatti a fronteggiarli. Contemporaneamente diventa sempre più ricco il dibattito sugli interventi didattici e sul confronto delle diverse esperienze, anche internazionali. E poi ci sono le esperienze personali, di genitori e di docenti, che meritano di essere condivise come piccole o grandi testimonianze delle difficoltà incontrate e dei risultati ottenuti. Infine, è necessario approfondire le novità dal punto di vista normativo. All’interno del sito di iS è stato perciò creato uno spazio specificamente dedicato ai DSA (http://is.pearson.it/dsa/) dove ogni mese vengono pubblicati interventi di esperti e materiali che è anche possibile scaricare (http://www.pearson.it/dsa-materiali) e attraverso il quale si possono conoscere tutte le iniziative per la formazione messe in campo da Pearson (http:// www.pearson.it/formazione-eventi). > Gli esperti che collaborano a questa sezione del sito sono Paola Eleonora Fantoni, docente di inglese e formatrice sui DSA, Ugo Avalle, pedagogista e formatore, esperto in DSA e BES, Leonardo Romei, docente di semiotica, Antonella Zauli Sajani, pedagogista, consulente grafologa e rieducatrice della scrittura, docente. laboratorio Pearson solleva lo studente con dislessia dal faticoso compito della lettura, permettendogli di concentrarsi sul contenuto del testo. Qualora un libro non fosse disponibile in formato digitale si può ricorrere o a un ausilio come lo scanner a penna che legge - che oltre a catturare il testo lo pronuncia e lo definisce parola per parola - oppure al progetto LibroAID (www.libroaid.it), promosso dall’Associazione Italiana Dislessia, che fornisce a studenti dislessici o ai loro genitori una copia digitale dei libri scolastici adottati nelle classi di ogni ordine e grado. Ma senza la collaborazione di specialisti che seguono l’alunno con DSA su un piano clinico, non è sempre facile per un insegnante capire quando è il caso di allentare con la lettura autonoma e introdurre strumenti compensativi o quando smettere di correggere gli errori ortografici e focalizzarsi solo sulla sintassi e il contenuto. ••• > Asino chi non legge? Riconoscere e gestire i disturbi specifici di apprendimento, di Stefano Federici, Valerio Corsi e Marina Locatelli, Pearson, 2014 > Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, di Stefano Federici e Marcia J. Scherer, Pearson, 30,00 euro, 2013 Laboratorio Pearson È nato e sta crescendo un movimento trasversale fatto di docenti, educatori e genitori che mettono al centro quattro concetti chiave per la formazione dei giovani del futuro: pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività. Le loro esperienze, raccontate in una serie di video, possono diventare un esempio e uno stimolo per molti laboratorio Pearson I n un mondo che sta ridisegnando i propri connotati con una velocità senza precedenti, la scuola è chiamata a tenere il passo e a prepararsi a quello che, da molti punti di vista, rappresenta un cambiamento epocale. Del resto, tra i banchi e la cattedra, c’è grande urgenza di sostituire modelli improvvisamente invecchiati con approcci nuovi e diversi. Ma quali possono essere questi approcci? Nessuno ancora lo sa con certezza. Una proposta mette al centro “Critical thinking, communication, collaboration, and creativity”. Pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività: quattro “C” per quattro concetti tanto semplici quanto importanti che indicano la direzione verso cui dirigersi nella formazione nel ventunesimo secolo. In Critical thinking, molti istituti statunitensi, dalla costa Ovest della Califorcommunication, nia a quella Est della Virginia, questa teoria è già divencollaboration, and tata pratica. A dimostrarlo, tre video prodotti da Pearson creativity. Pensiero Foundation assieme a EdLeader21, un «network di dirigenti critico, comunicazione, di scuole e distretti scolastici impegnati nell’integrare le 4C collaborazione nell’educazione», che raccontano un mondo dell’istruzione e creatività: quattro “C” che, da quelle parti, si è già rimboccato le maniche e che per quattro concetti può certamente rappresentare un modello a cui ispirarsi. tanto semplici quanto Ma che sono anche la testimonianza di un fermento e di importanti un fenomeno inedito, la cui spinta arriva dal basso, da chi, a livello locale, sta cambiando radicalmente la didattica in un processo spontaneo sempre più esteso e comunitario che affianca e influenza i programmi governativi. Attenzione, però: chi pensa che i concetti trasmessi e le opinioni espresse riguardino esclusivamente la realtà statunitense si sbaglia. Ciò che questi tre video dimostrano, infatti, ha un sapore universale e, come tale, da prendere in considerazione anche da chi è immerso in un contesto culturale ed educativo di stampo diverso. Del resto anche il PISA, il Programma per la valutazione internazionale della formazione scolastica, nel suo prossimo test (previsto per il 2015) terrà conto di queste nuove competenze per le sue valutazioni degli allievi di tutto il mondo, inserendo ad esempio il collaborative problem solving, la risoluzione collaborativa dei problemi. «Nel decennio passato si è molto parlato dell’approccio didattico più opportuno per la formazione degli studenti del nuovo secolo. Ma ci si è concentrati poco su che cosa le scuole o i distretti scolastici devono fare per trasformare tutto questo in realtà. Ora però esistono esempi concreti di scuole, dirigenti ed educatori che si sono impegnati su questo fronte raccogliendo brillanti risultati» ha dichiarato Ken Kay, amministratore delegato di EdLeader21. Torri Bryant, Elizabeth Blevins, Julie Sherill, Andrew Wild, sono soltanto alcuni nomi dei docenti, dirigenti scolastici ma anche genitori e studenti che il cambiamento lo stanno sperimentando nella loro quotidianità. Sono loro, con le loro testimonianze raccolte nei video, a farci entrare in un diverso mondo possibile di cui sono fautori e promotori, raccontando «i modi in cui le nuove strategie educative possono essere integrate e implementate nella scuola e nelle comunità locali» come ha affermato Mark Nieker, amministratore delegato e presidente della Pearson Foundation. Passo dopo passo, i tre filmati analizzano ogni singolo aspetto di un processo complesso laboratorio Pearson •Alcuni studenti della Catalina Foothills School District di Tucson, in Arizona, che hanno raccontato la propria esperienza nei video della Fondazione Pearson. ma dalle molte potenzialità. The Role of Leaders in 21st Century Education, il primo dei tre video, si concentra sul difficile compito di chi, come dirigente scolastico, deve pianificare un nuovo modello di formazione forgiato per fornire ai ragazzi gli strumenti, e non solo le nozioni, utili per renderli protagonisti attivi nella società che verrà. Nel secondo filmato, The Four C’s: Making 21st Century Education Happen, le testimonianze raccolte forniscono una panoramica degli approcci adottati in ogni angolo degli Stati Uniti e delle esperienze già compiute, affermando il valore della collaborazione e dello scambio tra docenti, del lavoro in team, del coinvolgimento attivo degli studenti nel processo educativo. Soffermandosi anche sulle difficoltà che questi cambiamenti pongono in essere: per esempio quelle legate al monitoraggio della nuova didattica e alla valutazione delle inedite prove con cui docenti e ragazzi sono chiamati a misurarsi. Tema, questo, approfondito nel terzo filmato intitolato Assessing the Four C's: The Power of Rubrics in cui vengono mostrati gli sforzi fatti dai diversi distretti scolastici per mettere a punto protocolli trasparenti ed efficaci per inserire le 4C nel processo formativo e valutare i progressi degli studenti. Quella che ne emerge è una scuola sempre più sensibile alla realtà e alle sue esigenze presenti e future, capace di mettersi in discussione sostenendo la circolazione delle idee e favorendo una visione olistica e non più frammentaria dell’educazione. Una scuola che, grazie ai suoi protagonisti, sa farsi promotrice di un movimento che parte dalla base, denso di idee e di novità e per questo in grado di dare una vera svolta alla didattica. Come fare per alimentare questo processo? Elisabeth Celania-Fagen, sovrintendente scolastico della Douglas County Schools, Colorado, in uno dei video suggerisce di «pensare in grande partendo dal piccolo». Un invito, il suo, a mettersi in moto con coraggio e indipendenza, individuando quell’eccellenza che, anche a livello locale, sa fiammeggiare di energia. Incentivare le proposte del singolo individuo o della singola realtà che hanno il sapore della novità: per Celania-Fagen il giusto approccio è questo. E infatti descrive così la sua ricetta verso il cambiamento: «Diamo a questi innovatori sostegno e risorse: le nostre aspettative non saranno disattese. Le buone idee, poi, si propagheranno da sole e divamperanno rapide. Come se fossero fuoco». ••• > I video della Fondazione Pearson http://www.youtube.com/playlist?list=PLD731F512D3D9FEDD