6 direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Daniele Ceccherini utili consigli: Giulio Mozzi progetto grafico: Alessandro Simonato immagine di copertina: Caterina Policaro - catepol ISBN 978-88-96999-15-8 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2012 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano www.laurana.it – [email protected] Giuseppe Civati 10 cose buone per l’Italia che la Sinistra deve fare subito prefazione di Paolo Virzì Prefazione di Paolo Virzì Qualche tempo fa, navigando a vanvera sul web in cerca di commenti e sfoghi su uno dei tonfi elettorali della sinistra (difficile dir quale precisamente), mi è capitato d’imbattermi nel blog di quello che all’epoca era uno sconosciuto giovanotto di Monza dal nome e cognome simpatici e vagamente fumettistici: Pippo Civati. Non sto a dar qui le coordinate, son certo che chi ha in mano questo libretto già lo conosce, sa che non si tratta di uno di quei blog supersonici, aggressivi, zeppi di immagini, filmati e commenti sarcastici, ma di una cosina semplice, limpida e sobria, pulita e profumata come una camicia bianca stirata, piacevole da leggere, dove il titolare quotidianamente aggiorna il circolo dei suoi lettori – ai quali si rivolge firmandosi “il vostro affezionatissimo” – delle sue frequenti iniziative politiche da consigliere regionale lombardo del Partito Democratico e ne approfitta per appuntare con tono ironico, ma insieme combattivo e mai astioso, certe incisive considerazioni sulla politica italiana, sulla sinistra, sul senso del far politica. Da allora sono andato sempre più spesso a curiosare in quelle pagine aggiornate puntualmente, fino a 5 stabilire con il loro autore una specie di familiarità che mi permette di dire, nonostante mai finora abbia avuto l’occasione d’incontrarlo di persona, che io a Pippo Civati credo persino di voler bene. Per tante ragioni, alcune delle quali sono ormai evidenti a tanti, dal momento che Giuseppe detto Pippo, man mano, ha visto crescere meritatamente la propria popolarità, ed è diventato uno di quei nomi ai quali ci si riferisce quando si parla di rinnovamento della sinistra e più in generale della politica italiana. Capita così di rado, in quest’epoca disgraziata e sfiduciata, d’imbattersi in un trentenne di talento, con la stoffa insomma di uno che potrebbe esser capace di riscuotere un suo successo in una libera professione e meritatamente arricchirsi, di denaro e di soddisfazioni, che abbia la pazienza, la voglia e persino l’entusiasmo di dedicarsi a tempo pieno, pienissimo si direbbe, all’attività politica. Qualche malizioso – e in giro non ne mancano – potrebbe far notare che quella di consigliere regionale della Lombardia è un’occupazione ben remunerata, dal momento che grazie a casi bislacchi e spudorati tipo l’attraente Minetti o il deprimente Trota adesso siamo al corrente nel dettaglio dell’ammontare di certi emolumenti mensili che non sono proprio da buttar via. Ecco, nel caso di Civati mi pare proprio che quel suo salario se lo meriti tutto, con un attivismo che fa impressione. Basta dare un’occhiata al suo Civa-Calendar, il fitto calendario degli impegni 6 quotidianamente aggiornato sul suo blog, che a me che son pigrissimo e che riesco a fare al massimo una cosa per volta, solo a scorrerlo, viene un brivido di sgomento. Lavorassero e si dannassero nei consigli regionali e comunali e provinciali, e nelle Camere, non dico tutti, ma la maggior parte, quanto lavora e si danna Pippo, l’Italia sarebbe quel paese normale che vorremmo, dove ai cittadini non passerebbe neanche per la testa, come invece capita, di collocare la professione del politico tra le peggiori nefandezze. Poi Civati sarà anche democratico, laico, tollerante, dialogante, forse anche moderato, tutto quello che volete, ma a me pare soprattutto uno davvero di sinistra. Sinistra. Categoria scivolosa. Ma se uno prova a rivolgerle uno sguardo lungo almeno un paio di secoli, ne trae la conclusione che il nocciolo dell’esser di sinistra risiede proprio nella sensibilità di fronte alla durezza crudele del mondo, nel non esser disposti ad accettarla come ineluttabile e naturale, nello sforzarsi di porre un rimedio, di produrre un progresso, un miglioramento. Chi come me da studentello, quindi già un bel pezzo fa, voleva rivoluzionarlo il mondo, abolire prigioni e caserme, e adesso al massimo si sforza di far la raccolta differenziata e di pagare con puntualità l’Iva, fatalmente si porta ancora dentro, come fosse un misterioso ribollire, quello stesso curioso controverso sentimento che ci ha fatto sognare a occhi aperti, 7 e che a volte ci ha fatto anche sentire inadeguati, inguaribilmente difformi dalla natura trionfante delle cose. E che poi, col tempo, con l’esperienza ruvida delle faccende della vita, ha finito col sotterrarsi in un recesso segreto del proprio animo, e per trasformarsi in una specie di inguaribile malinconia, di languore, di sconsolato scetticismo. E di questi tempi come si fa a non aggiungere a questa naturale inclinazione al pessimismo anche un accento di allarme, per la percezione di una possibile catastrofe futura alla quale non potremmo che assistere impotenti? E invece adesso mi capita tra le mani, in bozze, questo piccolo vivace libro che porta già nel titolo il proposito clamoroso di cambiare le cose. Ecco, Civati, che pure non manca di stile e direi anche di sapienza antica nell’esporre il proprio pensiero, frutto di sostanziose, classicissime letture che sembrerebbero esser state divorate con godimento, ha il vantaggio di possedere uno sguardo moderno e di non rivolgersi al futuro come fosse per forza una catastrofe. Uno come lui sembra attenderlo il futuro con attenzione e con fiducia, magari cercando di capire se sia il caso di cogliere le occasioni che porta con sé. E questa sua fiducia ha qualcosa di contagioso e perfino di allegro, visto che leggere al volo queste pagine mi ha messo addirittura di buon umore. Devo anche confessare però il timore che possa essere soltanto una creatura immaginaria, questo 8 Pippo Civati che non ho mai incontrato ma ho intravisto in qualche foto sui giornali e un paio di volte in tivù. Sembra talmente perfetto che potrebbe trattarsi solo di un Truman Burbank disegnato, creato e messo in scena da un Ed Harris democratico. Può ricordare il Robert Redford in Come eravamo, ma anche lo studente che primeggia a scuola e che però passa volentieri i compiti ai compagni più somari, insomma metà Bob Kennedy, metà Stefano Accorsi. Non vedo l’ora di conoscerlo di persona e tranquillizzarmi, scoprire che insomma esiste davvero. Siccome son convinto che sia dotato di senso dell’umorismo – certi suoi pezzi su Formigoni sul suo blog sono esilaranti – sembrerebbe anche disposto a lasciarsi prendere in giro per quella sua deliziosa aria da eterno bravo ragazzo WASP, per le sue camicie bianche stirate, i suoi pulloverini impeccabili e il suo laborioso sorridente ottimismo da ex-secchione di Lettere e Filosofia. Adesso però la pianto di fare lo spiritoso. Il fatto è che è sempre sacrosanto l’esercizio dell’ironia critica, specie verso coloro che chiedono il tuo voto. E però, nel canzonarlo il nostro Civati, così come si fa al liceo con quelli che piacciono tanto alle professoresse di lettere, vorrei fare anche attenzione a non prenderlo troppo dall’alto. A me pare che uno così meriti di esser preso sul serio, innanzi tutto perché è portatore di una dote rara e pregiata, in questi tempi di stizzoso disincanto: un desiderio di comunanza, una 9 predisposizione a unire anziché a dividere. Abbiamo sentito dire spesso, a volte anche a sproposito, e dalle bocche sbagliate, che al crescente sentimento dell’antipolitica si può rispondere solo con la buona politica. In queste pagine, Civati sembra proprio impegnarsi a mettere nero su bianco gli appunti per una possibile idea di bellezza della politica. Togliendo l’accento dalla tecnica di spartizione del potere, o da chissà quali sofisticate strategie di coalizione, per dare invece risalto alle questioni primarie e vitali: i luoghi dove abitiamo, il lavoro, l’istruzione, le risorse energetiche, il cibo, la salute, la circolazione della cultura, il paesaggio, l’acqua del mare e dei fiumi, il divertimento. E poi, certo, il fisco, il sistema di condivisione delle risorse pubbliche, perché i grandi temi del migliorare il mondo non siano destinati a rimanere un elenco di belle intenzioni. Ne vien fuori un pensiero vivo, che infonde coraggio, in mezzo a tanti zombie di rabbiosi pensierucci che danno lo sconforto. Perché la passione per la politica dovrebbe essere innanzi tutto questo: passione per la vita, desiderio di goderne e di condividerne il piacere e la fatica con i propri simili. Non resta che augurarsi che a Civati, e a questo suo febbrile impeto civilissimo, non debba mai succedere un giorno quello che lui stesso riferisce in queste pagine, riprendendolo dal libro Dove eravate tutti del giovane scrittore Paolo di Paolo. Il quale racconta la storiella istruttiva di un anonimo 10 Assistente Universitario, molto simpatico, sempre di buon umore, disponibile con gli studenti. Che ad un certo punto viene candidato per il Partito Democratico alle elezioni europee. E al quale da allora capita un misterioso cambiamento: il suo sguardo diventa quello di uno che ha sempre fretta, “che è costretto a cogliere all’istante l’essenziale, cioè l’utile, e tutto ciò che non rientra in questa categoria rifiuta oppure ignora. Era uno sguardo distratto, disancorato, lievemente in allarme. Era già lo sguardo di un politico”. Ora, siccome il nostro affezionatissimo sembrerebbe destinato a finire nel novero di coloro che, se non già da adesso, almeno da domani pomeriggio, saranno destinati a guidare il futuro centrosinistra, (a proposito: per quanto mi riguarda, preferirei un folto, energico e fraterno squadrone a un solitario leader carismatico), concludo queste pagine di encomio sincero, con l’avvertimento, per Pippo, che se mai un giorno questo cambiamento di sguardo dovesse colpire anche a lui, uno dei primi a farglielo notare e a rompergli le palle voglio esser io. 11 Introduzione A occhi aperti “Chi mira più alto, si differenzia più altamente”1, scrisse Galileo.Elosguardodeveandaredalbassoversol’alto.Non il contrario, come è quasi sempre avvenuto in questi anni. La politica lo deve fare per prima. Deve trovare il modo – qui se ne suggeriscono dieci – e conviene farlo ora, perché le elezioni, come l’amore, prima o poi arrivano. Deve essere forte, come non lo è più stata da tempo, con i forti, fronteggiare i grandi processi e le straordinarie trasformazioni a cui stiamo assistendo, cercando di guidarle e non solo di subirle. Deve essere presente nelle grandi sfide, e allontanarsi (alla svelta) dai “posti” che ha “occupato” indebitamente. Così deve essere lo Stato, ovviamente in un quadro europeo. Forte, fortissimo in alcuni ambiti, dove deve saper creare le condizioni per una concorrenza leale, che è parente stretta dell’uguaglianza e sola la può garantire in una società moderna. Debolissimo dove 1. Galileo Galilei, cit., Vol. 2, p. 13. 13 non serve, dove si è sistemato solo per “convenienza’ e senza progetti, né sogni. “Indignati e liberali”, ha detto una volta Luigi De Magistris. Da tempo sostengo che il centrosinistra italiano deve provare a portare le ragioni degli indignati (e di tutti coloro che si sono mobilitati, in questi mesi) al governo del Paese: raccogliere quel vento con mulini adeguati, capaci di trasformare quella passione travolgente e quelle suggestioni di futuro in una politica di governo moderna e consapevole. Battersi per quei mulini a vento, potremmo dire, unendo le grandi visioni che sempre ci devono accompagnare, a una politica e a una pratica di governo rigorosa e consapevole. Cercando, con ciò, di rappresentare le forze sinceramente liberali che non sono state rappresentate da nessuno, in questi anni, e che cercano finalmente un’offerta politica all’altezza delle sfide che ci troviamo di fronte. Si deve ripartire da qui, e da una prospettiva che miri a rappresentare queste due linee, apparentemente lontane e per molti dirigenti politici letteralmente inconciliabili. Linee e tensioni che nella società italiana e nei prossimi anni, invece, potranno convergere, se il progetto del Paese vorrà essere sufficientemente moderno e maturo. Dobbiamo fare in modo che si possano portare al governo del Paese forze che non provengono esclusivamente dalla politica e dai partiti che 14 conosciamo già: come se una coalizione fosse solo la somma delle varie sigle che la compongono. Senza cercare di trovare una posizione all’interno della gamma già nota, ma provando proprio a cambiare la gamma dei colori da considerare. Continuiamo a rispondere (in modo diverso, tra l’altro) a domande che non hanno più molto senso. E prima di cambiare le risposte, insomma, dovremmo preoccuparci di cambiare le domande che ci poniamo. Una funzione mercuriale, è quella che auspichiamo: di collegamento e di rappresentanza, per estendere la base imponibile, ma anche quella proponibile, a cominciare dalle donne, dalle giovani generazioni e dagli stranieri. Da chi è rimasto escluso, da chi non si sente rappresentato. Da chi non è stato visto. Dal basso verso l’alto (e verso l’altro) Nel 2011, di questi tempi, scrivevo il Manifesto del partito dei giovani. Tutti pensavano che si parlasse dei giovani politici, delle loro carriere, del mandare a casa “quelli di prima”. E di un partito di giovanilismi e rottamazioni fini a se stesse. E invece si parlava dei giovani elettori, cervelli e cuori in fuga da una politica che non li rappresentava più. E da un Paese inospitale. Da allora sono cambiate molte cose, al centro di quel testo, e molte si sono affermate. Temi a me molto cari (la partecipazione politica, l’uso della rete, 15 l’ambiente, la parola pubblica, nitida e trasparente) e anche la consapevolezza di alcune riforme che in quella sede cercavo di sollecitare. Ora se ne parla molto, e tutti si rivolgono al Partito dei giovani. Su scala nazionale ed europea, perché ci si è resi conto che l’Europa è unita, soprattutto, dalla crisi occupazionale giovanile ancor più che dalla moneta. E poi è cambiato tutto: al posto di Berlusconi è arrivato Monti, con un duro passaggio alla nuova fase della responsabilità. Ma a livello nazionale, la politica – che non è stata più capace di sostenere la delega dei cittadini – ha delegato a sua volta alla società civile (anzi, civilissima) le battaglie più significative. E di senso. Dai beni comuni alle giuste domande di un’altra politica che le donne hanno portato in piazza, alle campagne per l’ambiente che hanno attraversato l’Italia. Tutto è stato mobilitato altrove, rispetto alle sedi tradizionali della politica. E la politica si ritraeva. È successo in tutto il mondo. Ma in Italia tutto è accaduto alla seconda potenza: siamo rimasti bloccati in un ascensore fermo, quello della mobilità sociale. E al suo interno i cittadini hanno iniziato a lamentarsi. Prima hanno citofonato, premendo sul tasto con la campanella dell’emergenza, nella speranza che qualcuno rispondesse. Poi si sono messi a urlare o hanno rinunciato a confidare nel cambiamento. E l’ascensore nel frattempo è scivolato. Verso il basso. 16 Il momento è venuto di prendere quelle lucciole per lanterne, di dare risposta e di veicolare tutta questa energia in una società che sia finalmente più giusta e responsabile. Verso se stessa. E verso chi verrà dopo, in tutti i sensi. Una rivoluzione (solo?) Fuggiamo dall’Italia come l’abbiamo conosciuta finora, soprattutto negli ultimi anni. Immaginiamo un Paese diverso, in cui fare strage dei luoghi comuni. Delle cose che “si fanno così”, perché “si sono sempre fatte così”, come mi spiegava qualcuno a Nardò, quando mi informavo, sul campo (espressione non metaforica, in questo caso), circa il trattamento schiavistico nei confronti dei lavoratori stranieri. Clandestini che si vedono benissimo. E che come tali vengono soltanto trattati, perché conviene così. E perché “si è sempre fatto così”. Uscire dal berlusconismo, per davvero. E per quello che è, ovvero una declinazione caricaturale del “pensiero unico”, dove c’era una parola di troppo: “pensiero”. Non per tornare indietro, a formule e a nostalgie, ma per provare a ripensarci. Senza strappi, ma conoscendo e riconoscendo le condizioni da cui partiamo. Offrendo un’altra possibilità, accompagnando parole mai sentite a cose nuove. 17 Nel momento del compromesso più alto, quello di un governo del Presidente, sono vietati i compromessi al ribasso, le gestioni clientelari e i pasticci da vecchia politica. Sono vietate le autoassoluzioni di una classe dirigente che cerca di rilanciarsi attraverso Monti, senza rendersi conto che – alla fine del “processo” – sarà ancora più anacronistica e insostenibile di prima (che già non si scherzava). Sono vietati i provincialismi di chi crede che tutto si risolva sotto il proprio campanile, in difesa di chissà quale identità, dimenticandosi del mondo intorno a noi e vivendo l’Europa come una comunità estranea ai suoi stessi appartenenti. Sono vietate le opacità e il non detto metodologico che accompagna troppo spesso (e da troppo tempo) la politica italiana. Per farlo, dobbiamo uscire dal politicismo, dai finti dibattiti, dalle contrapposizioni che tanto appassionano gli addetti ai lavori. E che tengono fuori dalla finestra tutti gli altri. Senza invitarli certo a entrare. Il politicamente corretto e il correttamente politico Ecco, la difesa della correttezza, della politica e del suo linguaggio, è una cosa che mi piace. Molto. A me piace l’ironia, quella di Sucate, per capirci, quel luogo metafisico nato su Twitter che in un 18 colpo solo ha sbaragliato vent’anni di sarcasmi e di aggressioni verbali sugli stranieri residenti in Italia, rovesciando il dibattito sulla moschea in occasione delle ultime elezioni del Comune di Milano. E ha segnato una primavera, nella speranza che l’ironia – e il gioco tra il dire cose serie e non prendersi troppo sul serio – possa dominare anche in futuro. Mi piace pensare che ascoltare i soggetti politici che manifestano in ogni località del Paese e discutere con loro non significa che “ci si scioglie nel movimento”, anzi. Che si assume con umiltà il rapporto, sempre più compromesso, tra cittadini e politici, e si cerca di dare una forma al dibattito e una prospettiva alla discussione. Perché è fondamentale la relazione, oltre alla proposta. La condivisione, oltre al messaggio. Perché più che il “politicamente corretto’ è il “correttamente politico” a essere in discussione, da anni, in Italia. Se il 2011 è stato un anno di grandi cambiamenti, il 2012 di grandi responsabilità, il 2013 sarà un anno di grandi sfide. E sappiamo che il nostro tempo è questo. E poi passerà, come passa per tutti, anche se quasi tutti non riescono a farsene una ragione. Il traguardo elettorale è qui, a un passo, ed è il caso di prepararsi a fare del nostro meglio. Per non dover dire, ancora una volta: “non eravamo pronti”. Che come slogan mette un po’ di tristezza, non trovate? 19 Il cielo in una stanza Tutto nasce da un pezzo del 2009 del grande Edmondo Berselli, che su “l’Espresso” scrisse che anche noi giovani (si fa per dire) del centrosinistra eravamo troppo politici e politicisti. E aveva ragione. Dobbiamo ritornare a Copernico, che di rivoluzioni se ne intendeva. E rovesciare il punto di vista, cambiare, come voleva Robert Kennedy, il nostro stesso sguardo, seguendo alla lettera quella frase che non era nemmeno sua, e che dice, più o meno: “la gente vede le cose per quelle che sono e si chiede perché. Io vedo le cose come potrebbero essere e mi chiedo: perché no?”. Cambiare il punto di vista nei confronti dei cittadini, perché sono loro a essere al centro, e non i politici. Guardare in faccia la realtà, che deve stare al centro di tutto quello che accade dentro il “palazzo”, che invece se ne è progressivamente allontanato. E di quel “palazzo”, dobbiamo spalancare porte e finestre: portare, insomma, il cielo in una stanza. Per farlo, ed è la cosa più importante, dobbiamo proprio guardare con occhi diversi. Non ci siamo solo noi, al centro per di più. C’è tutto un mondo, intorno. E non ci sono nemmeno le cinque stelle o i soli alpini, c’è tutto un firmamento, sempre più complesso, in cui iniziare a scorgere nuove costellazioni. 20 Sbaragliando luoghi comuni, disegnando nuovi scenari. Cambiando, ove possibile, i nostri strumenti di misura. Con occhi diversi Pensiamo alle donne, che non possiamo “ridurre” alla questione delle benedette quote rosa, ma considerare il loro punto di vista, la loro politica, la “politica prima” di chi la politica la fa, non solo la rappresenta. La “cura del mondo”, come la chiama Marina Terragni, in quel libro dal titolo bellissimo: Un gioco da ragazze. Che sarebbe bello se la politica diventasse così e che assumesse quello che Terragni chiama “doppio sguardo”: “Doppio sguardo è molto più del 50/50. È la politica ricondotta al due, al due vero, numero minimo dell’umano, una politica che lascia correre l’energia che si produce nella differenza. È rimettere in ordine, riportare al primo posto ciò che è primario, e far scivolare indietro ciò che non lo è. È la risignificazione di ciò che è politico a partire dalle relazioni reali, dalla vita, dall’esperienza. È dare il giusto nome di politica a ciò che chiamiamo relazioni, cultura e cura, la parte maggiore e migliore della vita della polis. È districare la politica dal potere”.2 2. Marina Terragni, Un gioco da ragazze. Come le donne rifaranno l’Italia, Milano, Rizzoli, 2012, p. 89. 21 Che cosa mettono in gioco le donne? Perché non c’è solo il movimento, c’è la pratica. Una grande presenza di massa nel volontariato nelle nostre città, nelle nostre comunità. Che è presidio e garanzia di accoglienza, fattore di incivilimento. E si pensi poi alla scuola materna ed elementare. Che si fa carico dell’alfabetizzazione dei bambini, e dei temi interculturali, in un campo politico che la politica istituzionale vive con imbarazzo, da una parte, o con cattiveria, dall’altra. Un lavoro immenso e disconosciuto, volto all’inclusione, che agisce sulle vite dei bambini e su quelle dei genitori, spesso gravate da pregiudizi e da obiettive difficoltà quotidiane. È un ruolo di mediazione di comunità d’inestimabile valore, che civilizza e previene le tensioni. Che deve essere riconosciuto e valorizzato molto più di quanto oggi non accada. Ecco, per prima cosa, va detto, una volta per tutte: i partiti, le istituzioni, non sono solo parziali, sono politica “seconda”. E lo sono rispetto a un’altra politica, quella più vera, radicata nel quotidiano e nelle relazioni di civiltà. Ecco, si tratta di imparare a gestire in maniera nuova il tempo e le relazioni, i conflitti, il potere, l’autorità. Come farebbero le donne. 22 Sembrerà strano Cambiare sguardo. Pensiamo alla terra, che ci pareva un posto da occupare, e che dobbiamo invece guardare alla rovescia, perché i “vuoti”, gli spazi aperti e quelli agricoli, sono “pieni” di futuro. E l’agricoltura è un tema dell’avvenire. Chi l’avrebbe mai detto? Chi l’avrebbe mai “visto” il cibo, come tema politico strategico del futuro? O pensiamo alle città, che ci voleva l’Area C a Milano (la zona a traffico limitatissimo e a pagamento) per capire che le città non sono solo parcheggi, ma luoghi in cui muoversi in modo economico e responsabile. Vivendoci. Addirittura. Pensate, a Milano qualcuno ha scoperto di avere una stazione dell’autobus sotto casa. Prima non la “vedeva”. E pensate alla sorpresa che avranno i cittadini milanesi quando si troveranno di fronte un cestino per l’umido e i sacchetti biodegradabili. E il dato economico, unito certo alla crisi, ha fatto aumentare del 30% gli abbonamenti ai mezzi pubblici (non il prezzo, il numero!), riducendo significativamente il traffico privato. O pensiamo ancora a come si possono vedere le cose: i rifiuti, ad esempio, è bene preoccuparsi soprattutto di produrne di meno, con una sfida nazionale straordinaria, e non limitarsi soltanto a pensare al loro smaltimento. Questione di punti di vista, ancora una volta. E di prospettive da rovesciare. 23 O pensiamo, per rimanere in tema, alla provocazione di Andrea Debernardi, che rovescia un insidioso luogo comune: anche chi non ha la patente (di guida), può votare. E forse le sue priorità non sono le macchine. E le altre strade da costruire. Anche quando non servono. Come capita fin troppo spesso. Perché a tornare sia l’Italia O pensiamo a chi è andato via, è scappato, come Gianluca Briguglia che ci invita a guardare con gli occhi di chi è andato all’estero, per scelta o per necessità. E che non torna, perché è l’Italia che deve tornare (“un primo sguardo da fuori dell’Italia” e “lo sguardo particolare di chi dall’Italia non è particolarmente fuori”). Lo sguardo “anfibio sull’Italia e dell’Italia” di chi è andato via e che non spera solo e soltanto di tornare ma che a tornare sia l’Italia3. E anche Gianluca, guarda caso, riprende l’argomento del “doppio sguardo”: “In fondo un elemento portante dell’identità italiana è sempre stato proprio questo doppio sguardo: quello aperto su uno spazio geografico ampio, che va al di là della Penisola e che però si nutre della varietà interna, e il ripensamento costante del passato, un passato 3. Gianluca Briguglia, 150 più 1. L’Italia alla prova di se stessa, Narcissus, 2012 (edizione ebook acquistabile on line), pp. 35, 36-37. 24 sentito al tempo stesso come universale, ma anche come intimo, come proprio, come indissolubilmente legato a ogni futuro possibile. Città e mondo non sono quasi mai sentiti come in opposizione, ma come in una relazione costante, il passato sempre come un giacimento di stratificazioni vive, di possibilità. Non nel senso del culto un po’ retorico e vuoto del passato, ma come possibilità di riattivazione di strumenti di comprensione del presente”.4 O pensiamo al risparmio e all’innovazione, le due cose a cui prima di altre il nostro Paese deve guardare, per anni dimenticate da una cultura politica irresponsabile e conservatrice (e conservatrice perché, quasi sempre, parecchio interessata). O allo scontrino non emesso, o alla ricevuta non data, che fa risparmiare il “venti” a chi non lo riceve, e molto di più a chi non lo emette, e fa perdere a tutti contemporaneamente altrettanto, perché nello stesso momento, in tutta Italia, sta accadendo la stessa cosa. E la furbizia di ciascuno si chiama debito pubblico per tutti. E quindi anche per quel ciascuno. O alla difesa del proprio particolare e della corporazione a cui si appartiene, come se non ci fossero mai altre corporazioni a cui rivolgersi, con costi ben maggiori per tutti. Che non vediamo, appunto. Perché siamo tutti concentrati sulla nostra, di corporazione. E non riusciamo a vedere al di là del nostro naso. 4. Gianluca Briguglia, cit., p. 23. 25 La politica non ha visto, e in molti casi non ha voluto vedere. In altri ci ha visto benissimo, soprattutto quando c’era da individuare, con precisione, le modalità per favorire questo o quello. Strano difetto visivo, una sorta di astigmatismo, con una forte miopia: una classe politica presbite (nel senso etimologico del termine) che però vede benissimo solo da vicino. Una sindrome tutta italiana. Come il famoso caso dell’“a sua insaputa” che sembra avere coinvolto un’intera generazione: che non si accorgeva del malaffare che aveva accanto e dei grandi processi che trasformavano il mondo poco più in là. Che non aveva né la coscienza civile (morale è una parola che in questi casi va usata con grande cautela) dentro di sé, né il cielo stellato sopra. Sarà stato per via delle nuvole basse. Dove eravate tutti (e che cosa stavate guardando) E poi c’è lo sguardo dei politici, che conta: Allo sguardo ho iniziato a pensare leggendo una pagina di Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, un titolo “definitivo” e un libro a cui sono molto affezionato.5 “Assistente era uno con cui si poteva parlare. Era facile intercettarlo davanti ai distributori automatici di caffè e merende, in corridoio, che conversava sempre di 5 Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 97. 26 buon umore, gesticolando parecchio, di fatti appena accaduti, del saggio da aggiungere al programma per ottenere due crediti in più”. Strano tipo, questo Assistente: “Sembrava, intanto, dotato di una vita privata; e sembrava perfino leggero: con il suo corpo tonico, le sue camicie a quadri o le polo, i jeans chiari e un po’ stretti. Piaceva. A femmine e maschi, quasi indistintamente. Piaceva che si rendesse disponibile e che rispondesse alle mail. Piaceva che non fosse inutilmente ostile”. E, però, una novità cambiò tutto: la sua candidatura nelle liste del Partito Democratico in vista delle elezioni europee. Si sarebbe rivelata un fallimento, ma il suo sguardo stava già cambiando. Difficile dire in che cosa fosse diverso ma, sì, era diverso. Era lo sguardo di uno che ha sempre fretta, che è costretto a cogliere all’istante l’essenziale, cioè l’utile, e tutto ciò che non rientra in questa categoria rifiuta oppure ignora. Era uno sguardo distratto, disancorato, lievemente in allarme. Era già lo sguardo di un politico”. Ecco, lo sguardo da (non) cambiare. Da ritrovare. Guardare avanti Nel Paese degli specchietti revisori (funzionali soprattutto alle allodole, per altro), la decrescita in Italia già c’è, e non è felice, né giusta: il punto è come 27 far crescere quello che c’è di buono, cambiando perciò i modelli seguiti per troppo tempo, che si sono rivelati fallimentari. Riconoscendo, dell’Italia, la sua vocazione, di luogo ospitale per le attività umane senza eccezione. Di terra dell’incontro.6 Di luogo ideale per la cultura, per la vita di ciascuno di noi. Ma anche per la manifattura, e per i commerci, e per gli scambi. L’Italia deve diventare il Paese dell’innovazione, non ha altra scelta. Non ha risorse, ha un debito pubblico da recuperare che ci vorrà un’era geologica, ha studiato troppo poco negli ultimi anni e meno di quasi tutti gli altri. Su questo si deve puntare, con forza e perseveranza. Le autostrade non sono solo le autostrade di una volta, anzi non lo sono proprio: sono la banda larga, le reti sempre più intelligenti, i servizi avanzati. Perché la banda larga è la risposta alle cricche ristrette di questi anni. Serve alla pubblica amministrazione, alla mobilità, al telelavoro (questo sconosciuto), alla razionalizzazione del consumo di energia. Al nostro tempo da conciliare con una vita complicata. Ci vogliono gli occhiali della Terza rivoluzione industriale di Rifkin, un telescopio che ci proietti più in là, per accorgersi che le infrastrutture più importanti, oggi, sono quelle che non si vedono.7 6. Cfr. pagine conclusive di Walter Barberis, Bisogno di patria, Torino, Einaudi 2004. 7. Jeremy Rifkin, La terza rivoluzione industriale, Milano, Mondadori, 2010. 28 Come spiega Stefano Zanero, giovane ricercatore milanese, è proprio l’Italia più di tutti gli altri Paesi che deve investire sul web, la sua struttura produttiva, la qualità dei suoi prodotti invitano a commerci elettronici. Non è un paradosso, è una soluzione politica. Il vento che cambia Ma l’innovazione non è solo tecnologica, nel Paese che in tutto il mondo rappresenta, del mondo, la storia: anche un percorso ciclabile lungo il Po, ad esempio, come quello progettato dal Politecnico di Milano, può diventare una straordinaria modalità innovativa nel campo delle infrastrutture. Dando lavoro, producendo ricchezza, mettendo in rete bellezza e bontà che la pianura padana sa offrire. Si chiama VenTo, e per una volta non è solo una metafora della bella politica che abbiamo visto nella primavera del 2011. Ecco, penso a un’innovazione che non sia affatto in contraddizione con la tradizione, perché vedo un connubio perfetto tra tradizione e innovazione: in questi anni siamo andati a cercare i celti per giustificare la secessione, ci siamo appassionati delle radici, inventandocene un bel po’, e avremmo invece dovuto fare l’operazione contraria, perché innovazione e tradizione non sono nemiche. Innovazione non è il 29 contrario di tradizione, è il contrario di conservazione. La tradizione è un concetto in evoluzione: e l’innovazione proprio lì si deve collocare. E più sono tradizionali, i settori della nostra produzione, più devono vivere di innovazione. Pensate all’edilizia. E a quell’episodio di Berlusconi, che all’Aquila disse esattamente quello che aveva detto, più di trent’anni prima, a Milano 2. Disse che “le moderne tecnologie di costruzione permettono di realizzare edifici in tempi rapidi, edifici moderni e dotati di tutti gli ultimi ritrovati”, o qualcosa del genere. Il problema è come e dove si costruisce, invece. E la difesa del paesaggio non è un tema di nicchia, è il paesaggio che lo sta diventando. Una nicchia. Ed è la politica a nicchiare, da troppo tempo, in un settore, quello urbanistico, dove si ripetono troppo spesso fenomeni di corruzione molto gravi. Vedere le cose in modo diverso, significa vederne altre, nuove terre e “non più vedute parti di cielo”.8 Dove vogliamo mettere i nostri soldi, su che cosa vogliamo investire, sapendo che quello che è finora accaduto non ci ha portati da nessuna parte? 8. Lo scrissero gli Accademici dei Lincei presentando Il Saggiatore di Galileo Galilei, in Galileo Galilei, Opere, Vol. 1, Torino, Utet 2005, p. 606. 30 A proposito di tradizione Lo sguardo deve essere sempre quello degli elettori, non quello dei politici. Il loro punto di vista va curato con l’attenzione di chi sa e vuole darsi una missione politica compiuta. E rispettosa delle sensibilità di tutti. Alessandro Siro Campi, in un suo recente appassionante intervento a Milano,9 da cattolico e da democratico, ha spiegato che in Italia soprattutto “il rapporto tra i cattolici e le forze progressiste è piuttosto complicato. Spesso nel dibattito vengono citati i valori non negoziabili (come se esistessero valori negoziabili). Per tutti esistono valori non negoziabili, ci sono cose su cui tutti coloro che si dicono progressisti non accetterebbero compromessi: la difesa dei più deboli, lo stato sociale, il valore della persona, i beni comuni. Un cattolico non può chiedere leggi confessionali, chi chiede allo Stato di limitare il libero arbitrio o che chiede di proteggere con la legge la sua fede non dimostra molta fiducia in ciò che crede”. “Un cattolico”, dice Alessandro, “non approva gli sgomberi dei nomadi, che tra i tanti effetti nefasti provocano l’abbandono della scuola dei bimbi Rom, non tollera chi dichiara di voler mitragliare 9. In occasione di Qualcosa di nuovo, a cura di Prossima Italia, 24 marzo 2012. 31 i barconi dei disperati, non permette s’imponga il digiuno ai figli di chi non paga la retta della mensa, non tollera dichiarazioni violente contro romeni, musulmani, extracomunitari e non accetta sia negato il diritto di curarsi al pronto soccorso (peraltro mettendo a rischio la salute di tutti, perché le malattie contagiose non chiedono i documenti). La Bibbia ha parole durissime contro chi non dà la giusta paga all’operaio”. “I problemi nascono, prosegue Alessandro, quando si toccano temi come la 194, il divorzio, le coppie di fatto, le unioni omosessuali e il fine vita. La 194 ha fermato gli aborti clandestini e ha permesso di offrire aiuto a quelle donne che abortivano per ragioni economiche. Si riducono gli aborti con l’educazione sessuale nelle scuole, non con anacronismi inefficaci. Le coppie di fatto esistono, non riconoscerle non serve a difendere le famiglie tradizionali, serve a fingere di vivere in un mondo che non esiste. Lo Stato non deve e non può sindacare sulle scelte personali, non può decidere quale amore è vero e quale no. Ognuno ha il diritto (anzi, il dovere) di cercare la felicità rispondendo alla propria coscienza. Lo Stato deve proteggere i cittadini senza sostituirsi alla coscienza individuale”. Ecco, ci vuole una politica che guardi così alla vita delle persone. Che è loro. Prima di essere un argomento politico da “usare” nei talk show televisivi. E la storia di Eluana Englaro ce lo ricorderà per sempre. 32 Si deve partire dalla cosa più ovvia e banale, che però in Italia è finora sembrata impossibile: una legge sulle unioni civili che dia all’Italia quel minimo di dignità che ora le manca, muovendo da un dato clamoroso che solo il conservatorismo di questo Paese ci impedisce di valutare, anzi di vedere: cinque milioni di omossessuali, “cittadini dimezzati”, li definisce, non a caso, Ivan Scalfarotto.10 Nuovo mondo E poi un ultimo sguardo da cambiare, che fa segno ai diritti da ritrovare riguarda gli stranieri e quella che potremmo definire sindrome di Lampedusa. Sono cinque milioni e più, sono integrati, e anche quando sono “clandestini” nell’80% dei casi lavorano come lavoratori in nero. E lavorano nelle nostre case. E a costruirle, le nostre case. Sotto traccia, sotto caporale, sotto pagati. Ma per noi è come se stessero sempre per arrivare. Come se si trattasse di un’“orda” da fronteggiare. E non di cittadini e di lavoratori che vivono e lavorano con noi. Alla cultura delle leggi contro i kebab e contro i phone center, al proliferare delle ordinanze cattive 10. Ivan Scalfarotto, In nessun paese. Perché sui diritti dell’amore l’Italia è fuori dal mondo, con Sandro Mangiaterra, Milano, Piemme, 2010, p. 13. 33 e discriminatorie (al modello Adro, per capirci),11 dovremmo sostituire una stagione di crescita comune, di impegno a costruire una società basata sulla differenza e sull’uguaglianza insieme. E sul rispetto. Sotto il profilo tecnico, più dell’invasione, è dell’evasione che ci dovremmo occupare. Perché è nel lavoro nero, come sempre, in Italia, che si annidano i problemi. Dove crolla la lealtà della concorrenza, dove nasce lo sfruttamento, dove le persone si mettono le une contro le altre. Dove la “clandestinità”, quella vera, danneggia tutti. Dobbiamo renderci conto che questo Paese deve trasformare tutte le proprie paure e incertezze, in possibilità. E tutti i suoi limiti e le sue chiusure, in diritti e doveri. In cittadinanza, insomma. L’indiano che ci fa paura non deve essere quello che munge le vacche nel mantovano, ma quello che studia nel suo Paese. E studia più di noi. E cresce, rapidamente, come l’economia intorno a lui. E, già che ci siamo, guardare ai Paesi emergenti e alle nuove grandi economie per aprirsi ai mercati esteri, ritrovare un turismo di qualità, investire sulla bellezza e sulla qualità del nostro Paese e dei nostri prodotti, senza tradire la nostra straordinaria vocazione manifatturiera. 11. Cfr. Giuseppe Civati, Regione straniera. Viaggio nell’ordinario razzismo padano, Milano, Melampo, 2009. 34 Una riscoperta del mondo che parte dalla riscoperta dell’Europa, che si volti, perché ha guardato troppo a est, e che sappia guardare a sud, per riscoprire l’area mediterranea, attraversata da grandi cambiamenti, in cui l’Italia deve tornare a essere protagonista. Estendere lo sguardo Un senso di ingiustizia e la mancanza di comprensione dei fenomeni globali, sono i sentimenti che animano più profondamente la nostra società. Avevo 25 anni o poco più. All’inizio del 2001 a Porto Alegre si incontrò il mondo della rivoluzione gentile, per dire alcune cose che sarebbero diventate di moda molto dopo. Troppo dopo. Che la globalizzazione ha elementi critici dentro di sé, che l’ambiente è un’emergenza globale, che le transazioni finanziarie vanno tassate e che si deve porre un freno alla corruzione. Parlavano della cancellazione del debito, e il bello che il debito, allora, non era il nostro. Dieci anni dopo e qualcosa in più, nelle piazze di tutto il mondo gli indignati piantano le tende e che cosa chiedono: le stesse cose, solo ne chiedono altre ancora. Dopo dieci anni non si può aspettare più. Bisogna muoversi con precisione e determinazione. Bisogna farlo senza compromessi, senza pregiudizi, senza presunzione. 35 Il cambiamento ora è più facile di come spesso ce lo rappresentiamo. Perché lo conosciamo. Perché nel 2011 anche il governatore della Bce può dire, nei confronti degli indignati che manifestano il 15 ottobre: “hanno ragione”. E però non basta. No, non è solo da apprezzare quella protesta, nelle sue ragioni più profonde. Bisogna fare qualcosa per rappresentarla, per dare gli strumenti di governo a quegli argomenti. E a quelle parole. La politica in questi anni si è colpevolmente tenuta lontana da tutto questo. Ed è sembrata sempre di più chiusa in se stessa, lontana dagli obiettivi reali e dalla vita quotidiana dei cittadini, è sembrato che chinasse il capo, e non avesse se non parole di circostanza. E, per molti, quasi per tutti (se è vero che solo il 2% dichiara di avere fiducia nei confronti dei partiti), è diventata un mostro. Bisogna smetterla con le parole vuote, determinate dall’impotenza. La politica è diventata, sempre di più, un genere a sé, costruito intorno a se stessa, ai propri meccanismi interni, al funzionamento delle proprie componenti. Ha difeso se stessa, e non chi doveva rappresentare. Archiviando tutto come se fosse il frutto di un estremismo ideologico velleitario e senza prospettiva. 36 Il progetto Erasmus Non sono le dimensioni delle banane a doverci preoccupare, come dice qualcuno: l’Europa non può essere più vista come il “mostro mite” di cui parla Enzensberger nel suo ultimo libro,12 che alimenta il fortunatissimo populismo antieuropeo. Populismo che le forze che hanno governato a lungo il Paese hanno cavalcato. Dobbiamo uscire, di corsa, dal provincialismo, lasciando la porta spalancata, perché le idee circolino e cambi l’aria sempre più asfittica che si respira. Qui. Dentro. Perché la cerchia alpina, splendente, è stata per noi più che una siepe leopardiana, una siepe di bosso, folta e impenetrabile, che ci ha precluso lo sguardo sulle dinamiche europee, senza farci riflettere granché nemmeno su di noi, né su quanto stava accadendo agli altri. Perché alcune forze politiche ci hanno consigliato di chiudere le frontiere. E anche gli occhi. E strizzarli, per la paura. Giustificare l’Europa, perché torni a essere quell’orizzonte di senso compiuto. Darle senso come istituzione politica. Senza retorica, ma con fatti concreti. Affrontando, per esempio, i rapporti tra la Ue e la Svizzera, partendo dai lingotti che si riversano 12. Hans Magnus Enzensberger, Le deuxmonstre de Bruxelle sou L’Europe sous tutelle, Paris, Gallimard, 2011. 37 nelle sue banche. Anche per chiarire cosa ci fanno i paradisi fiscali nel cuore dell’area del libero scambio e quelli ai suoi confini. Una volta per tutte. Altrimenti ci stiamo prendendo in giro. Ci sono cose come la lettera rubata di Poe, che era sotto gli occhi di tutti, e nessuno la vedeva. Qualcuno potrebbe dire che in Italia si sono rubati anche quella, ma il punto è che non vogliamo vedere anche le cose più ovvie. Che almeno si faccia un po’ più fatica, per nascondere fondi neri, che andare a San Marino. Con il paradiso fiscale fuori porta. Lo stesso vale per quanto riguarda il disarmo o comunque la riduzione delle spese militari, che non sono più sostenibili, e la campagna sui caccia milionari lo dimostra. E anche in questo caso dobbiamo ragionare in termini europei. E trovare standard diversi. E una misura più contemporanea. Ci vuole politica, anche in questo caso, a cominciare dagli strumenti recentemente richiamati da Stefano Rodotà, previsti dal Trattato di Lisbona. Leggi di iniziativa popolare a livello europeo. Campagne che attraversino i Paesi. Un’opinione pubblica che si formi superando i suoi confini: “L’articolo 11 del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia rappresentativa uno strumento di democrazia diretta: il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che, in numero di almeno un milione, possono chiedere alla Commissione europea di prendere iniziative in determinate materie”. 38 Perché all’Europa manca una politica fiscale comune e una politica del lavoro unitaria, ed è giusto ricordarlo, ma manca anche un dibattito pubblico comprensibile, aperto e inclusivo. E senza spingerci a dove arriva Montebourg, leader della sinistra francese, e alla sua “demondializzazione”, che sa troppo di protezionismo, dobbiamo però saper rilanciare la produzione all’interno dei nostri Paesi e dare loro più giustizia sociale e la possibilità di tornare a crescere, rispettando gli indicatori ecologici di un mondo a rischio. Ci vorrebbe un grande appuntamento europeo, della nuova generazione, la prima a essere nata in un’Europa Unita e cosciente delle sfide che si trova di fronte. E tutto ciò che si propone, questa generazione, è immediatamente nazionale ed europeo, senza mediazioni: dall’internazionale socialista a una globale del progresso e del futuro da riconquistare. Ecco. Abbiamo un problema, anzi due C’è un problema globale, e uno italiano che non si risolve in esso. Sono le condizioni di contesto di un sistema che non tiene più. E che la crisi ha solo reso più evidenti. Ci sono i mercati finanziari da regolamentare, trovare soluzioni che funzionino a livello globale, ma in Italia la svolta che si attende è una svolta liberale. 39 So che può sembrare paradossale, ma per me è così. Perché il debito pubblico, in Italia, non l’hanno fatto i derivati, ma è “derivato” dalla pessima politica degli ultimi anni. E anche questo, se permettete, è un fatto generazionale. Il debito pubblico è iniziato a correre quando nascevo. Poi dice che uno se la prende. Due problemi che sembrano contrastanti, in realtà sono solo simmetrici: teniamoli insieme e affrontiamoli con gli strumenti corretti. Una mossa doppia, è quella che ci compete. E allora, da una parte sosteniamo la svolta liberale, come cura al liberalismo fiction che abbiamo visto in questi anni. Accettiamo il contenimento della spesa, la riduzione degli sprechi, la liberalizzazione di tutto quello che è cristallizzato e il contratto unico per i lavoratori, e l’universalizzazione dei sussidi quando si perde il lavoro. E un sistema di mercato meno condizionato dal pubblico e più concorrenziale. E impegniamoci, nello stesso tempo, in Europa, per regolamentare invece quel troppo di liberismo che c’è stato, quel modello di sviluppo totalmente sbandato, in cui i cittadini non contano più nulla. Andiamo a scovare i nascondigli dei soldi neri e sporchi. Riduciamo il disastro ambientale. Creiamo le condizioni perché ci sia una nuova generazione al governo che abbia in mente una cosa e una soltanto: il benessere di quella successiva. Ponendo come punto di raccordo tra le due azioni le opportunità reali che ci devono essere per tutti. E 40 le disuguaglianze da ridurre, attraverso un’economia più sana e rigorosa. E le innovazioni da trovare e le capacità di ciascuno da mettere a frutto. L’errore del bruco e la negazione del futuro La fine del mondo c’è già stata. I Maya hanno solo sbagliato anno. E noi, che questo nuovo mondo già lo abitiamo, dobbiamo solo riconoscerlo, aprire gli occhi e guardarlo con occhi diversi. E, per farlo, dobbiamo alzare lo sguardo, svincolarci dalle convinzioni dalle pose e dalle posizioni, come vuole la canzone. E immaginare quello che sarà domani, e poi dopo. Il giorno dopo. E quello dopo ancora. Giorno dopo giorno. Ciò vale soprattutto in Italia, perché la politica italiana ha fatto reset, ha azzerato un intero schema e una lunga stagione, ma non si è ancora dimostrata pronta a costruire il futuro. E a immaginarlo. Dal momento che parliamo di fine del mondo, leggiamo insieme la fine di due libri che sono usciti recentemente. Che non invitano alla profezia, ma all’analisi e alla proposta. Il primo dice così: “L’umanità potrebbe incorrere nell’errore del bruco. Questa umanità-bruco si trova nello stadio dell’uscita dalla crisalide, ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare. Potrebbe però accadere, 41 viceversa, che noi confidiamo troppo nella tanto spesso citata speranza di cui parla Hölderlin, secondo il quale con i pericoli cresce anche ciò che salva. In questo caso verrebbe a mancare l’impulso necessario allo sforzo per diventare farfalla. Non oso tentare una risposta alla questione se la sociologia (ma vale un po’ per tutte le discipline) non si trovi a sua volta nello stadio dell’uscita dalla crisalide, non sia cioè un bruco che si sta trasformando in farfalla”13. Il secondo lo riecheggia: “Ormai è un cliché dire che gli ideogrammi cinesi per indicare la crisi riflettono i concetti di “pericolo” e “opportunità”. Il pericolo l’abbiamo visto. Resta da chiedersi se coglieremo l’occasione di ripristinare il nostro senso di equilibrio fra Stato e mercato, fra individualismo e comunità, fra uomo e natura, fra mezzi e fini. Ora abbiamo l’opportunità di creare un nuovo sistema finanziario che faccia quello che le persone si aspettano da un sistema finanziario; di realizzare un nuovo sistema economico che crei posti di lavoro significativi e decenti per chi ne ha bisogno, un sistema in cui il divario tra ricchi e poveri si assottigli, anziché ampliarsi; e, cosa più importante, abbiamo l’occasione di creare una nuova società in cui ogni individuo possa realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini 13. Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza, 2011, p. 57 42 condividano ideali e valori; una comunità che tratti il pianeta con il rispetto che, nel lungo periodo, esigerà sicuramente. Queste sono le opportunità. Il vero pericolo, adesso, è di non saperle cogliere”.14 Ecco, come ha scritto una volta Rebecca Solnit, sono “cose ben più strane della fine del mondo” quelle che ci attendono. Noi, che questo nuovo mondo già lo abitiamo, dobbiamo solo riconoscerlo, aprire gli occhi e guardarlo in modo diverso. Alzando lo sguardo, puntando a una trasformazione nelle sue strutture profonde e cercando di aprire una nuova stagione in cui la politica sia – finalmente – nazionale e globale insieme. Una grande occasione per il bruco più fermo di tutti, che noi rappresentiamo alla perfezione. Se la politica sta cercando qualcosa da fare, soprattutto in Italia, è qui che la troverà. Ecco le 10 cose da fare per cambiare le cose Ecco le 10 cose, che in realtà sono molte di più, e assomigliano, nel piccolissimo, a quelle famose tesi, che nella nostra modestissima traduzione sarebbero da affiggere alle porte e ai portoni della politica. 14. Joseph E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, Einaudi, 2010, pp. 425-426. 43 Scritte dalla provincia, lontani da Roma e dai palazzi della politica. Un po’ infastiditi dalle gerarchie. Per un rapporto diretto con gli elettori. Che contano, e come diceva quella canzone, si stanno contando già. Dieci cose, cinque punti di Pil da “spostare” subito e un appello finale. Un po’ protestante, se si vuole, nelle tante accezioni del termine. Con meno santi in paradiso, con una responsabilità individuale più marcata, con un rispetto per la parola pubblica. E con l’impegno di ciascuno. 44