6
direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e interni:
Daniele Ceccherini
utili consigli:
Giulio Mozzi
progetto grafico: Alessandro Simonato
immagine di copertina: Caterina Policaro - catepol
ISBN 978-88-96999-15-8
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2012 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano
www.laurana.it – [email protected]
Giuseppe Civati
10 cose buone per l’Italia
che la Sinistra deve fare subito
prefazione di Paolo Virzì
Prefazione
di Paolo Virzì
Qualche tempo fa, navigando a vanvera sul web in
cerca di commenti e sfoghi su uno dei tonfi elettorali
della sinistra (difficile dir quale precisamente), mi è
capitato d’imbattermi nel blog di quello che all’epoca
era uno sconosciuto giovanotto di Monza dal nome
e cognome simpatici e vagamente fumettistici: Pippo
Civati. Non sto a dar qui le coordinate, son certo
che chi ha in mano questo libretto già lo conosce,
sa che non si tratta di uno di quei blog supersonici,
aggressivi, zeppi di immagini, filmati e commenti
sarcastici, ma di una cosina semplice, limpida e sobria,
pulita e profumata come una camicia bianca stirata,
piacevole da leggere, dove il titolare quotidianamente
aggiorna il circolo dei suoi lettori – ai quali si rivolge
firmandosi “il vostro affezionatissimo” – delle sue
frequenti iniziative politiche da consigliere regionale
lombardo del Partito Democratico e ne approfitta per
appuntare con tono ironico, ma insieme combattivo e
mai astioso, certe incisive considerazioni sulla politica
italiana, sulla sinistra, sul senso del far politica. Da
allora sono andato sempre più spesso a curiosare
in quelle pagine aggiornate puntualmente, fino a
5
stabilire con il loro autore una specie di familiarità
che mi permette di dire, nonostante mai finora abbia
avuto l’occasione d’incontrarlo di persona, che io a
Pippo Civati credo persino di voler bene. Per tante
ragioni, alcune delle quali sono ormai evidenti a tanti,
dal momento che Giuseppe detto Pippo, man mano,
ha visto crescere meritatamente la propria popolarità,
ed è diventato uno di quei nomi ai quali ci si riferisce
quando si parla di rinnovamento della sinistra e più in
generale della politica italiana.
Capita così di rado, in quest’epoca disgraziata e
sfiduciata, d’imbattersi in un trentenne di talento,
con la stoffa insomma di uno che potrebbe esser
capace di riscuotere un suo successo in una libera
professione e meritatamente arricchirsi, di denaro
e di soddisfazioni, che abbia la pazienza, la voglia
e persino l’entusiasmo di dedicarsi a tempo pieno,
pienissimo si direbbe, all’attività politica. Qualche
malizioso – e in giro non ne mancano – potrebbe
far notare che quella di consigliere regionale della
Lombardia è un’occupazione ben remunerata, dal
momento che grazie a casi bislacchi e spudorati
tipo l’attraente Minetti o il deprimente Trota adesso
siamo al corrente nel dettaglio dell’ammontare di
certi emolumenti mensili che non sono proprio da
buttar via. Ecco, nel caso di Civati mi pare proprio
che quel suo salario se lo meriti tutto, con un
attivismo che fa impressione. Basta dare un’occhiata
al suo Civa-Calendar, il fitto calendario degli impegni
6
quotidianamente aggiornato sul suo blog, che a me
che son pigrissimo e che riesco a fare al massimo una
cosa per volta, solo a scorrerlo, viene un brivido di
sgomento. Lavorassero e si dannassero nei consigli
regionali e comunali e provinciali, e nelle Camere,
non dico tutti, ma la maggior parte, quanto lavora e
si danna Pippo, l’Italia sarebbe quel paese normale
che vorremmo, dove ai cittadini non passerebbe
neanche per la testa, come invece capita, di collocare
la professione del politico tra le peggiori nefandezze.
Poi Civati sarà anche democratico, laico, tollerante,
dialogante, forse anche moderato, tutto quello che
volete, ma a me pare soprattutto uno davvero di
sinistra.
Sinistra. Categoria scivolosa.
Ma se uno prova a rivolgerle uno sguardo lungo
almeno un paio di secoli, ne trae la conclusione che
il nocciolo dell’esser di sinistra risiede proprio nella
sensibilità di fronte alla durezza crudele del mondo,
nel non esser disposti ad accettarla come ineluttabile
e naturale, nello sforzarsi di porre un rimedio, di
produrre un progresso, un miglioramento.
Chi come me da studentello, quindi già un bel
pezzo fa, voleva rivoluzionarlo il mondo, abolire
prigioni e caserme, e adesso al massimo si sforza di
far la raccolta differenziata e di pagare con puntualità
l’Iva, fatalmente si porta ancora dentro, come fosse un
misterioso ribollire, quello stesso curioso controverso
sentimento che ci ha fatto sognare a occhi aperti,
7
e che a volte ci ha fatto anche sentire inadeguati,
inguaribilmente difformi dalla natura trionfante delle
cose. E che poi, col tempo, con l’esperienza ruvida
delle faccende della vita, ha finito col sotterrarsi in un
recesso segreto del proprio animo, e per trasformarsi
in una specie di inguaribile malinconia, di languore,
di sconsolato scetticismo. E di questi tempi come si
fa a non aggiungere a questa naturale inclinazione
al pessimismo anche un accento di allarme, per la
percezione di una possibile catastrofe futura alla
quale non potremmo che assistere impotenti?
E invece adesso mi capita tra le mani, in bozze,
questo piccolo vivace libro che porta già nel titolo il
proposito clamoroso di cambiare le cose.
Ecco, Civati, che pure non manca di stile e direi
anche di sapienza antica nell’esporre il proprio
pensiero, frutto di sostanziose, classicissime
letture che sembrerebbero esser state divorate con
godimento, ha il vantaggio di possedere uno sguardo
moderno e di non rivolgersi al futuro come fosse
per forza una catastrofe. Uno come lui sembra
attenderlo il futuro con attenzione e con fiducia,
magari cercando di capire se sia il caso di cogliere le
occasioni che porta con sé. E questa sua fiducia ha
qualcosa di contagioso e perfino di allegro, visto che
leggere al volo queste pagine mi ha messo addirittura
di buon umore.
Devo anche confessare però il timore che possa
essere soltanto una creatura immaginaria, questo
8
Pippo Civati che non ho mai incontrato ma ho
intravisto in qualche foto sui giornali e un paio di
volte in tivù. Sembra talmente perfetto che potrebbe
trattarsi solo di un Truman Burbank disegnato, creato
e messo in scena da un Ed Harris democratico. Può
ricordare il Robert Redford in Come eravamo, ma anche
lo studente che primeggia a scuola e che però passa
volentieri i compiti ai compagni più somari, insomma
metà Bob Kennedy, metà Stefano Accorsi. Non vedo
l’ora di conoscerlo di persona e tranquillizzarmi,
scoprire che insomma esiste davvero. Siccome son
convinto che sia dotato di senso dell’umorismo
– certi suoi pezzi su Formigoni sul suo blog sono
esilaranti – sembrerebbe anche disposto a lasciarsi
prendere in giro per quella sua deliziosa aria da
eterno bravo ragazzo WASP, per le sue camicie
bianche stirate, i suoi pulloverini impeccabili e il suo
laborioso sorridente ottimismo da ex-secchione di
Lettere e Filosofia.
Adesso però la pianto di fare lo spiritoso. Il fatto è
che è sempre sacrosanto l’esercizio dell’ironia critica,
specie verso coloro che chiedono il tuo voto. E però,
nel canzonarlo il nostro Civati, così come si fa al liceo
con quelli che piacciono tanto alle professoresse di
lettere, vorrei fare anche attenzione a non prenderlo
troppo dall’alto. A me pare che uno così meriti di
esser preso sul serio, innanzi tutto perché è portatore
di una dote rara e pregiata, in questi tempi di
stizzoso disincanto: un desiderio di comunanza, una
9
predisposizione a unire anziché a dividere. Abbiamo
sentito dire spesso, a volte anche a sproposito, e
dalle bocche sbagliate, che al crescente sentimento
dell’antipolitica si può rispondere solo con la buona
politica. In queste pagine, Civati sembra proprio
impegnarsi a mettere nero su bianco gli appunti per
una possibile idea di bellezza della politica. Togliendo
l’accento dalla tecnica di spartizione del potere, o
da chissà quali sofisticate strategie di coalizione, per
dare invece risalto alle questioni primarie e vitali: i
luoghi dove abitiamo, il lavoro, l’istruzione, le risorse
energetiche, il cibo, la salute, la circolazione della
cultura, il paesaggio, l’acqua del mare e dei fiumi,
il divertimento. E poi, certo, il fisco, il sistema di
condivisione delle risorse pubbliche, perché i grandi
temi del migliorare il mondo non siano destinati a
rimanere un elenco di belle intenzioni. Ne vien fuori
un pensiero vivo, che infonde coraggio, in mezzo a
tanti zombie di rabbiosi pensierucci che danno lo
sconforto. Perché la passione per la politica dovrebbe
essere innanzi tutto questo: passione per la vita,
desiderio di goderne e di condividerne il piacere e la
fatica con i propri simili.
Non resta che augurarsi che a Civati, e a questo
suo febbrile impeto civilissimo, non debba mai
succedere un giorno quello che lui stesso riferisce
in queste pagine, riprendendolo dal libro Dove
eravate tutti del giovane scrittore Paolo di Paolo. Il
quale racconta la storiella istruttiva di un anonimo
10
Assistente Universitario, molto simpatico, sempre
di buon umore, disponibile con gli studenti. Che
ad un certo punto viene candidato per il Partito
Democratico alle elezioni europee. E al quale da
allora capita un misterioso cambiamento: il suo
sguardo diventa quello di uno che ha sempre fretta,
“che è costretto a cogliere all’istante l’essenziale, cioè
l’utile, e tutto ciò che non rientra in questa categoria
rifiuta oppure ignora. Era uno sguardo distratto,
disancorato, lievemente in allarme. Era già lo sguardo
di un politico”.
Ora, siccome il nostro affezionatissimo sembrerebbe
destinato a finire nel novero di coloro che, se non
già da adesso, almeno da domani pomeriggio,
saranno destinati a guidare il futuro centrosinistra, (a
proposito: per quanto mi riguarda, preferirei un folto,
energico e fraterno squadrone a un solitario leader
carismatico), concludo queste pagine di encomio
sincero, con l’avvertimento, per Pippo, che se mai
un giorno questo cambiamento di sguardo dovesse
colpire anche a lui, uno dei primi a farglielo notare e
a rompergli le palle voglio esser io.
11
Introduzione
A occhi aperti
“Chi mira più alto, si differenzia più altamente”1, scrisse
Galileo.Elosguardodeveandaredalbassoversol’alto.Non
il contrario, come è quasi sempre avvenuto in questi anni.
La politica lo deve fare per prima. Deve trovare il modo
– qui se ne suggeriscono dieci – e conviene farlo ora,
perché le elezioni, come l’amore, prima o poi arrivano.
Deve essere forte, come non lo è più stata da tempo,
con i forti, fronteggiare i grandi processi e le straordinarie
trasformazioni a cui stiamo assistendo, cercando di
guidarle e non solo di subirle.
Deve essere presente nelle grandi sfide, e
allontanarsi (alla svelta) dai “posti” che ha “occupato”
indebitamente.
Così deve essere lo Stato, ovviamente in un quadro
europeo. Forte, fortissimo in alcuni ambiti, dove deve
saper creare le condizioni per una concorrenza leale,
che è parente stretta dell’uguaglianza e sola la può
garantire in una società moderna. Debolissimo dove
1. Galileo Galilei, cit., Vol. 2, p. 13.
13
non serve, dove si è sistemato solo per “convenienza’
e senza progetti, né sogni.
“Indignati e liberali”, ha detto una volta
Luigi De Magistris. Da tempo sostengo che il
centrosinistra italiano deve provare a portare
le ragioni degli indignati (e di tutti coloro che si
sono mobilitati, in questi mesi) al governo del
Paese: raccogliere quel vento con mulini adeguati,
capaci di trasformare quella passione travolgente
e quelle suggestioni di futuro in una politica di
governo moderna e consapevole. Battersi per quei
mulini a vento, potremmo dire, unendo le grandi
visioni che sempre ci devono accompagnare, a
una politica e a una pratica di governo rigorosa e
consapevole. Cercando, con ciò, di rappresentare
le forze sinceramente liberali che non sono state
rappresentate da nessuno, in questi anni, e che
cercano finalmente un’offerta politica all’altezza
delle sfide che ci troviamo di fronte.
Si deve ripartire da qui, e da una prospettiva che
miri a rappresentare queste due linee, apparentemente
lontane e per molti dirigenti politici letteralmente
inconciliabili. Linee e tensioni che nella società italiana
e nei prossimi anni, invece, potranno convergere, se
il progetto del Paese vorrà essere sufficientemente
moderno e maturo.
Dobbiamo fare in modo che si possano portare
al governo del Paese forze che non provengono
esclusivamente dalla politica e dai partiti che
14
conosciamo già: come se una coalizione fosse solo la
somma delle varie sigle che la compongono.
Senza cercare di trovare una posizione all’interno
della gamma già nota, ma provando proprio a cambiare
la gamma dei colori da considerare. Continuiamo a
rispondere (in modo diverso, tra l’altro) a domande
che non hanno più molto senso. E prima di cambiare
le risposte, insomma, dovremmo preoccuparci di
cambiare le domande che ci poniamo.
Una funzione mercuriale, è quella che auspichiamo:
di collegamento e di rappresentanza, per estendere
la base imponibile, ma anche quella proponibile, a
cominciare dalle donne, dalle giovani generazioni e
dagli stranieri. Da chi è rimasto escluso, da chi non si
sente rappresentato. Da chi non è stato visto.
Dal basso verso l’alto (e verso l’altro)
Nel 2011, di questi tempi, scrivevo il Manifesto del
partito dei giovani. Tutti pensavano che si parlasse dei
giovani politici, delle loro carriere, del mandare a casa
“quelli di prima”. E di un partito di giovanilismi e
rottamazioni fini a se stesse. E invece si parlava dei
giovani elettori, cervelli e cuori in fuga da una politica
che non li rappresentava più. E da un Paese inospitale.
Da allora sono cambiate molte cose, al centro
di quel testo, e molte si sono affermate. Temi a me
molto cari (la partecipazione politica, l’uso della rete,
15
l’ambiente, la parola pubblica, nitida e trasparente)
e anche la consapevolezza di alcune riforme che in
quella sede cercavo di sollecitare. Ora se ne parla
molto, e tutti si rivolgono al Partito dei giovani.
Su scala nazionale ed europea, perché ci si è resi
conto che l’Europa è unita, soprattutto, dalla crisi
occupazionale giovanile ancor più che dalla moneta.
E poi è cambiato tutto: al posto di Berlusconi è
arrivato Monti, con un duro passaggio alla nuova fase
della responsabilità.
Ma a livello nazionale, la politica – che non è stata
più capace di sostenere la delega dei cittadini – ha
delegato a sua volta alla società civile (anzi, civilissima)
le battaglie più significative. E di senso.
Dai beni comuni alle giuste domande di un’altra
politica che le donne hanno portato in piazza, alle
campagne per l’ambiente che hanno attraversato
l’Italia. Tutto è stato mobilitato altrove, rispetto alle
sedi tradizionali della politica.
E la politica si ritraeva. È successo in tutto il mondo.
Ma in Italia tutto è accaduto alla seconda potenza:
siamo rimasti bloccati in un ascensore fermo, quello
della mobilità sociale. E al suo interno i cittadini
hanno iniziato a lamentarsi. Prima hanno citofonato,
premendo sul tasto con la campanella dell’emergenza,
nella speranza che qualcuno rispondesse. Poi si sono
messi a urlare o hanno rinunciato a confidare nel
cambiamento. E l’ascensore nel frattempo è scivolato.
Verso il basso.
16
Il momento è venuto di prendere quelle lucciole
per lanterne, di dare risposta e di veicolare tutta questa
energia in una società che sia finalmente più giusta e
responsabile. Verso se stessa. E verso chi verrà dopo,
in tutti i sensi.
Una rivoluzione (solo?)
Fuggiamo dall’Italia come l’abbiamo conosciuta
finora, soprattutto negli ultimi anni. Immaginiamo
un Paese diverso, in cui fare strage dei luoghi comuni.
Delle cose che “si fanno così”, perché “si sono
sempre fatte così”, come mi spiegava qualcuno a
Nardò, quando mi informavo, sul campo (espressione
non metaforica, in questo caso), circa il trattamento
schiavistico nei confronti dei lavoratori stranieri.
Clandestini che si vedono benissimo. E che come tali
vengono soltanto trattati, perché conviene così. E
perché “si è sempre fatto così”.
Uscire dal berlusconismo, per davvero. E per
quello che è, ovvero una declinazione caricaturale
del “pensiero unico”, dove c’era una parola di
troppo: “pensiero”. Non per tornare indietro, a
formule e a nostalgie, ma per provare a ripensarci.
Senza strappi, ma conoscendo e riconoscendo
le condizioni da cui partiamo. Offrendo un’altra
possibilità, accompagnando parole mai sentite a
cose nuove.
17
Nel momento del compromesso più alto, quello di
un governo del Presidente, sono vietati i compromessi
al ribasso, le gestioni clientelari e i pasticci da vecchia
politica.
Sono vietate le autoassoluzioni di una classe
dirigente che cerca di rilanciarsi attraverso Monti,
senza rendersi conto che – alla fine del “processo” –
sarà ancora più anacronistica e insostenibile di prima
(che già non si scherzava).
Sono vietati i provincialismi di chi crede che tutto
si risolva sotto il proprio campanile, in difesa di chissà
quale identità, dimenticandosi del mondo intorno a
noi e vivendo l’Europa come una comunità estranea
ai suoi stessi appartenenti.
Sono vietate le opacità e il non detto metodologico
che accompagna troppo spesso (e da troppo tempo)
la politica italiana.
Per farlo, dobbiamo uscire dal politicismo, dai finti
dibattiti, dalle contrapposizioni che tanto appassionano
gli addetti ai lavori. E che tengono fuori dalla finestra
tutti gli altri. Senza invitarli certo a entrare.
Il politicamente corretto e il correttamente politico
Ecco, la difesa della correttezza, della politica e del
suo linguaggio, è una cosa che mi piace. Molto.
A me piace l’ironia, quella di Sucate, per capirci,
quel luogo metafisico nato su Twitter che in un
18
colpo solo ha sbaragliato vent’anni di sarcasmi e di
aggressioni verbali sugli stranieri residenti in Italia,
rovesciando il dibattito sulla moschea in occasione
delle ultime elezioni del Comune di Milano. E ha
segnato una primavera, nella speranza che l’ironia – e
il gioco tra il dire cose serie e non prendersi troppo
sul serio – possa dominare anche in futuro.
Mi piace pensare che ascoltare i soggetti politici
che manifestano in ogni località del Paese e
discutere con loro non significa che “ci si scioglie
nel movimento”, anzi. Che si assume con umiltà il
rapporto, sempre più compromesso, tra cittadini e
politici, e si cerca di dare una forma al dibattito e una
prospettiva alla discussione. Perché è fondamentale
la relazione, oltre alla proposta. La condivisione,
oltre al messaggio.
Perché più che il “politicamente corretto’ è il
“correttamente politico” a essere in discussione, da
anni, in Italia.
Se il 2011 è stato un anno di grandi cambiamenti,
il 2012 di grandi responsabilità, il 2013 sarà un anno
di grandi sfide. E sappiamo che il nostro tempo è
questo. E poi passerà, come passa per tutti, anche
se quasi tutti non riescono a farsene una ragione.
Il traguardo elettorale è qui, a un passo, ed è il
caso di prepararsi a fare del nostro meglio. Per non
dover dire, ancora una volta: “non eravamo pronti”.
Che come slogan mette un po’ di tristezza, non
trovate?
19
Il cielo in una stanza
Tutto nasce da un pezzo del 2009 del grande
Edmondo Berselli, che su “l’Espresso” scrisse che
anche noi giovani (si fa per dire) del centrosinistra
eravamo troppo politici e politicisti. E aveva ragione.
Dobbiamo ritornare a Copernico, che di
rivoluzioni se ne intendeva. E rovesciare il punto
di vista, cambiare, come voleva Robert Kennedy, il
nostro stesso sguardo, seguendo alla lettera quella
frase che non era nemmeno sua, e che dice, più o
meno: “la gente vede le cose per quelle che sono e
si chiede perché. Io vedo le cose come potrebbero
essere e mi chiedo: perché no?”.
Cambiare il punto di vista nei confronti dei
cittadini, perché sono loro a essere al centro, e non i
politici.
Guardare in faccia la realtà, che deve stare al
centro di tutto quello che accade dentro il “palazzo”,
che invece se ne è progressivamente allontanato. E di
quel “palazzo”, dobbiamo spalancare porte e finestre:
portare, insomma, il cielo in una stanza.
Per farlo, ed è la cosa più importante, dobbiamo
proprio guardare con occhi diversi. Non ci siamo
solo noi, al centro per di più. C’è tutto un mondo,
intorno.
E non ci sono nemmeno le cinque stelle o i soli
alpini, c’è tutto un firmamento, sempre più complesso,
in cui iniziare a scorgere nuove costellazioni.
20
Sbaragliando luoghi comuni, disegnando nuovi scenari.
Cambiando, ove possibile, i nostri strumenti di misura.
Con occhi diversi
Pensiamo alle donne, che non possiamo “ridurre”
alla questione delle benedette quote rosa, ma
considerare il loro punto di vista, la loro politica, la
“politica prima” di chi la politica la fa, non solo la
rappresenta. La “cura del mondo”, come la chiama
Marina Terragni, in quel libro dal titolo bellissimo:
Un gioco da ragazze.
Che sarebbe bello se la politica diventasse
così e che assumesse quello che Terragni chiama
“doppio sguardo”: “Doppio sguardo è molto più del
50/50. È la politica ricondotta al due, al due vero,
numero minimo dell’umano, una politica che lascia
correre l’energia che si produce nella differenza. È
rimettere in ordine, riportare al primo posto ciò che
è primario, e far scivolare indietro ciò che non lo è. È
la risignificazione di ciò che è politico a partire dalle
relazioni reali, dalla vita, dall’esperienza. È dare il
giusto nome di politica a ciò che chiamiamo relazioni,
cultura e cura, la parte maggiore e migliore della vita
della polis. È districare la politica dal potere”.2
2. Marina Terragni, Un gioco da ragazze. Come le donne rifaranno l’Italia,
Milano, Rizzoli, 2012, p. 89.
21
Che cosa mettono in gioco le donne? Perché non
c’è solo il movimento, c’è la pratica. Una grande
presenza di massa nel volontariato nelle nostre città,
nelle nostre comunità. Che è presidio e garanzia
di accoglienza, fattore di incivilimento. E si pensi
poi alla scuola materna ed elementare. Che si fa
carico dell’alfabetizzazione dei bambini, e dei temi
interculturali, in un campo politico che la politica
istituzionale vive con imbarazzo, da una parte, o con
cattiveria, dall’altra.
Un lavoro immenso e disconosciuto, volto
all’inclusione, che agisce sulle vite dei bambini e
su quelle dei genitori, spesso gravate da pregiudizi
e da obiettive difficoltà quotidiane. È un ruolo di
mediazione di comunità d’inestimabile valore, che
civilizza e previene le tensioni. Che deve essere
riconosciuto e valorizzato molto più di quanto oggi
non accada.
Ecco, per prima cosa, va detto, una volta per
tutte: i partiti, le istituzioni, non sono solo parziali,
sono politica “seconda”. E lo sono rispetto a un’altra
politica, quella più vera, radicata nel quotidiano e
nelle relazioni di civiltà. Ecco, si tratta di imparare
a gestire in maniera nuova il tempo e le relazioni,
i conflitti, il potere, l’autorità. Come farebbero le
donne.
22
Sembrerà strano
Cambiare sguardo. Pensiamo alla terra, che ci pareva
un posto da occupare, e che dobbiamo invece
guardare alla rovescia, perché i “vuoti”, gli spazi
aperti e quelli agricoli, sono “pieni” di futuro. E
l’agricoltura è un tema dell’avvenire. Chi l’avrebbe
mai detto? Chi l’avrebbe mai “visto” il cibo, come
tema politico strategico del futuro?
O pensiamo alle città, che ci voleva l’Area C a
Milano (la zona a traffico limitatissimo e a pagamento)
per capire che le città non sono solo parcheggi,
ma luoghi in cui muoversi in modo economico e
responsabile. Vivendoci. Addirittura.
Pensate, a Milano qualcuno ha scoperto di avere
una stazione dell’autobus sotto casa. Prima non
la “vedeva”. E pensate alla sorpresa che avranno i
cittadini milanesi quando si troveranno di fronte
un cestino per l’umido e i sacchetti biodegradabili.
E il dato economico, unito certo alla crisi, ha fatto
aumentare del 30% gli abbonamenti ai mezzi
pubblici (non il prezzo, il numero!), riducendo
significativamente il traffico privato.
O pensiamo ancora a come si possono vedere
le cose: i rifiuti, ad esempio, è bene preoccuparsi
soprattutto di produrne di meno, con una sfida
nazionale straordinaria, e non limitarsi soltanto a
pensare al loro smaltimento. Questione di punti di
vista, ancora una volta. E di prospettive da rovesciare.
23
O pensiamo, per rimanere in tema, alla provocazione
di Andrea Debernardi, che rovescia un insidioso luogo
comune: anche chi non ha la patente (di guida), può
votare. E forse le sue priorità non sono le macchine. E
le altre strade da costruire. Anche quando non servono.
Come capita fin troppo spesso.
Perché a tornare sia l’Italia
O pensiamo a chi è andato via, è scappato, come
Gianluca Briguglia che ci invita a guardare con gli occhi
di chi è andato all’estero, per scelta o per necessità.
E che non torna, perché è l’Italia che deve tornare
(“un primo sguardo da fuori dell’Italia” e “lo sguardo
particolare di chi dall’Italia non è particolarmente
fuori”). Lo sguardo “anfibio sull’Italia e dell’Italia”
di chi è andato via e che non spera solo e soltanto di
tornare ma che a tornare sia l’Italia3.
E anche Gianluca, guarda caso, riprende
l’argomento del “doppio sguardo”: “In fondo un
elemento portante dell’identità italiana è sempre
stato proprio questo doppio sguardo: quello aperto
su uno spazio geografico ampio, che va al di là della
Penisola e che però si nutre della varietà interna, e
il ripensamento costante del passato, un passato
3. Gianluca Briguglia, 150 più 1. L’Italia alla prova di se stessa, Narcissus,
2012 (edizione ebook acquistabile on line), pp. 35, 36-37.
24
sentito al tempo stesso come universale, ma anche
come intimo, come proprio, come indissolubilmente
legato a ogni futuro possibile. Città e mondo non
sono quasi mai sentiti come in opposizione, ma come
in una relazione costante, il passato sempre come un
giacimento di stratificazioni vive, di possibilità. Non
nel senso del culto un po’ retorico e vuoto del passato,
ma come possibilità di riattivazione di strumenti di
comprensione del presente”.4
O pensiamo al risparmio e all’innovazione, le
due cose a cui prima di altre il nostro Paese deve
guardare, per anni dimenticate da una cultura politica
irresponsabile e conservatrice (e conservatrice
perché, quasi sempre, parecchio interessata).
O allo scontrino non emesso, o alla ricevuta non
data, che fa risparmiare il “venti” a chi non lo riceve,
e molto di più a chi non lo emette, e fa perdere a tutti
contemporaneamente altrettanto, perché nello stesso
momento, in tutta Italia, sta accadendo la stessa cosa.
E la furbizia di ciascuno si chiama debito pubblico per
tutti. E quindi anche per quel ciascuno.
O alla difesa del proprio particolare e della
corporazione a cui si appartiene, come se non ci fossero
mai altre corporazioni a cui rivolgersi, con costi ben
maggiori per tutti. Che non vediamo, appunto. Perché
siamo tutti concentrati sulla nostra, di corporazione. E
non riusciamo a vedere al di là del nostro naso.
4. Gianluca Briguglia, cit., p. 23.
25
La politica non ha visto, e in molti casi non ha
voluto vedere. In altri ci ha visto benissimo, soprattutto
quando c’era da individuare, con precisione, le modalità
per favorire questo o quello.
Strano difetto visivo, una sorta di astigmatismo, con
una forte miopia: una classe politica presbite (nel senso
etimologico del termine) che però vede benissimo solo
da vicino. Una sindrome tutta italiana.
Come il famoso caso dell’“a sua insaputa” che
sembra avere coinvolto un’intera generazione: che
non si accorgeva del malaffare che aveva accanto e dei
grandi processi che trasformavano il mondo poco più
in là. Che non aveva né la coscienza civile (morale è una
parola che in questi casi va usata con grande cautela)
dentro di sé, né il cielo stellato sopra.
Sarà stato per via delle nuvole basse.
Dove eravate tutti (e che cosa stavate guardando)
E poi c’è lo sguardo dei politici, che conta:
Allo sguardo ho iniziato a pensare leggendo una
pagina di Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, un titolo
“definitivo” e un libro a cui sono molto affezionato.5
“Assistente era uno con cui si poteva parlare. Era facile
intercettarlo davanti ai distributori automatici di caffè
e merende, in corridoio, che conversava sempre di
5 Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 97.
26
buon umore, gesticolando parecchio, di fatti appena
accaduti, del saggio da aggiungere al programma per
ottenere due crediti in più”.
Strano tipo, questo Assistente: “Sembrava,
intanto, dotato di una vita privata; e sembrava perfino
leggero: con il suo corpo tonico, le sue camicie a
quadri o le polo, i jeans chiari e un po’ stretti. Piaceva.
A femmine e maschi, quasi indistintamente. Piaceva
che si rendesse disponibile e che rispondesse alle
mail. Piaceva che non fosse inutilmente ostile”.
E, però, una novità cambiò tutto: la sua
candidatura nelle liste del Partito Democratico in
vista delle elezioni europee. Si sarebbe rivelata un
fallimento, ma il suo sguardo stava già cambiando.
Difficile dire in che cosa fosse diverso ma, sì, era
diverso. Era lo sguardo di uno che ha sempre fretta,
che è costretto a cogliere all’istante l’essenziale, cioè
l’utile, e tutto ciò che non rientra in questa categoria
rifiuta oppure ignora. Era uno sguardo distratto,
disancorato, lievemente in allarme. Era già lo sguardo
di un politico”.
Ecco, lo sguardo da (non) cambiare. Da ritrovare.
Guardare avanti
Nel Paese degli specchietti revisori (funzionali
soprattutto alle allodole, per altro), la decrescita in
Italia già c’è, e non è felice, né giusta: il punto è come
27
far crescere quello che c’è di buono, cambiando
perciò i modelli seguiti per troppo tempo, che si sono
rivelati fallimentari. Riconoscendo, dell’Italia, la sua
vocazione, di luogo ospitale per le attività umane senza
eccezione. Di terra dell’incontro.6 Di luogo ideale per
la cultura, per la vita di ciascuno di noi. Ma anche per la
manifattura, e per i commerci, e per gli scambi.
L’Italia deve diventare il Paese dell’innovazione,
non ha altra scelta. Non ha risorse, ha un debito
pubblico da recuperare che ci vorrà un’era geologica,
ha studiato troppo poco negli ultimi anni e meno di
quasi tutti gli altri. Su questo si deve puntare, con
forza e perseveranza.
Le autostrade non sono solo le autostrade di
una volta, anzi non lo sono proprio: sono la banda
larga, le reti sempre più intelligenti, i servizi avanzati.
Perché la banda larga è la risposta alle cricche ristrette
di questi anni. Serve alla pubblica amministrazione,
alla mobilità, al telelavoro (questo sconosciuto), alla
razionalizzazione del consumo di energia. Al nostro
tempo da conciliare con una vita complicata.
Ci vogliono gli occhiali della Terza rivoluzione
industriale di Rifkin, un telescopio che ci proietti
più in là, per accorgersi che le infrastrutture più
importanti, oggi, sono quelle che non si vedono.7
6. Cfr. pagine conclusive di Walter Barberis, Bisogno di patria, Torino,
Einaudi 2004.
7. Jeremy Rifkin, La terza rivoluzione industriale, Milano, Mondadori, 2010.
28
Come spiega Stefano Zanero, giovane ricercatore
milanese, è proprio l’Italia più di tutti gli altri Paesi
che deve investire sul web, la sua struttura produttiva,
la qualità dei suoi prodotti invitano a commerci
elettronici. Non è un paradosso, è una soluzione
politica.
Il vento che cambia
Ma l’innovazione non è solo tecnologica, nel Paese
che in tutto il mondo rappresenta, del mondo, la
storia: anche un percorso ciclabile lungo il Po, ad
esempio, come quello progettato dal Politecnico di
Milano, può diventare una straordinaria modalità
innovativa nel campo delle infrastrutture. Dando
lavoro, producendo ricchezza, mettendo in rete
bellezza e bontà che la pianura padana sa offrire.
Si chiama VenTo, e per una volta non è solo una
metafora della bella politica che abbiamo visto nella
primavera del 2011.
Ecco, penso a un’innovazione che non sia affatto
in contraddizione con la tradizione, perché vedo un
connubio perfetto tra tradizione e innovazione: in
questi anni siamo andati a cercare i celti per giustificare
la secessione, ci siamo appassionati delle radici,
inventandocene un bel po’, e avremmo invece dovuto
fare l’operazione contraria, perché innovazione e
tradizione non sono nemiche. Innovazione non è il
29
contrario di tradizione, è il contrario di conservazione.
La tradizione è un concetto in evoluzione: e
l’innovazione proprio lì si deve collocare.
E più sono tradizionali, i settori della nostra
produzione, più devono vivere di innovazione.
Pensate all’edilizia. E a quell’episodio di Berlusconi,
che all’Aquila disse esattamente quello che aveva
detto, più di trent’anni prima, a Milano 2. Disse che
“le moderne tecnologie di costruzione permettono
di realizzare edifici in tempi rapidi, edifici moderni
e dotati di tutti gli ultimi ritrovati”, o qualcosa del
genere.
Il problema è come e dove si costruisce, invece.
E la difesa del paesaggio non è un tema di nicchia,
è il paesaggio che lo sta diventando. Una nicchia.
Ed è la politica a nicchiare, da troppo tempo, in un
settore, quello urbanistico, dove si ripetono troppo
spesso fenomeni di corruzione molto gravi.
Vedere le cose in modo diverso, significa vederne
altre, nuove terre e “non più vedute parti di cielo”.8
Dove vogliamo mettere i nostri soldi, su che cosa
vogliamo investire, sapendo che quello che è finora
accaduto non ci ha portati da nessuna parte?
8. Lo scrissero gli Accademici dei Lincei presentando Il Saggiatore di
Galileo Galilei, in Galileo Galilei, Opere, Vol. 1, Torino, Utet 2005, p.
606.
30
A proposito di tradizione
Lo sguardo deve essere sempre quello degli elettori,
non quello dei politici. Il loro punto di vista va curato
con l’attenzione di chi sa e vuole darsi una missione
politica compiuta. E rispettosa delle sensibilità di
tutti.
Alessandro Siro Campi, in un suo recente
appassionante intervento a Milano,9 da cattolico e
da democratico, ha spiegato che in Italia soprattutto
“il rapporto tra i cattolici e le forze progressiste è
piuttosto complicato. Spesso nel dibattito vengono
citati i valori non negoziabili (come se esistessero
valori negoziabili). Per tutti esistono valori non
negoziabili, ci sono cose su cui tutti coloro che si
dicono progressisti non accetterebbero compromessi:
la difesa dei più deboli, lo stato sociale, il valore
della persona, i beni comuni. Un cattolico non può
chiedere leggi confessionali, chi chiede allo Stato di
limitare il libero arbitrio o che chiede di proteggere
con la legge la sua fede non dimostra molta fiducia in
ciò che crede”.
“Un cattolico”, dice Alessandro, “non approva
gli sgomberi dei nomadi, che tra i tanti effetti nefasti
provocano l’abbandono della scuola dei bimbi
Rom, non tollera chi dichiara di voler mitragliare
9. In occasione di Qualcosa di nuovo, a cura di Prossima Italia, 24 marzo
2012.
31
i barconi dei disperati, non permette s’imponga
il digiuno ai figli di chi non paga la retta della
mensa, non tollera dichiarazioni violente contro
romeni, musulmani, extracomunitari e non accetta
sia negato il diritto di curarsi al pronto soccorso
(peraltro mettendo a rischio la salute di tutti, perché
le malattie contagiose non chiedono i documenti).
La Bibbia ha parole durissime contro chi non dà la
giusta paga all’operaio”.
“I problemi nascono, prosegue Alessandro,
quando si toccano temi come la 194, il divorzio, le
coppie di fatto, le unioni omosessuali e il fine vita. La
194 ha fermato gli aborti clandestini e ha permesso di
offrire aiuto a quelle donne che abortivano per ragioni
economiche. Si riducono gli aborti con l’educazione
sessuale nelle scuole, non con anacronismi inefficaci.
Le coppie di fatto esistono, non riconoscerle non
serve a difendere le famiglie tradizionali, serve a
fingere di vivere in un mondo che non esiste. Lo
Stato non deve e non può sindacare sulle scelte
personali, non può decidere quale amore è vero
e quale no. Ognuno ha il diritto (anzi, il dovere) di
cercare la felicità rispondendo alla propria coscienza.
Lo Stato deve proteggere i cittadini senza sostituirsi
alla coscienza individuale”.
Ecco, ci vuole una politica che guardi così alla vita
delle persone. Che è loro. Prima di essere un argomento
politico da “usare” nei talk show televisivi. E la storia di
Eluana Englaro ce lo ricorderà per sempre.
32
Si deve partire dalla cosa più ovvia e banale, che
però in Italia è finora sembrata impossibile: una
legge sulle unioni civili che dia all’Italia quel minimo
di dignità che ora le manca, muovendo da un dato
clamoroso che solo il conservatorismo di questo
Paese ci impedisce di valutare, anzi di vedere: cinque
milioni di omossessuali, “cittadini dimezzati”, li
definisce, non a caso, Ivan Scalfarotto.10
Nuovo mondo
E poi un ultimo sguardo da cambiare, che fa segno
ai diritti da ritrovare riguarda gli stranieri e quella che
potremmo definire sindrome di Lampedusa. Sono
cinque milioni e più, sono integrati, e anche quando
sono “clandestini” nell’80% dei casi lavorano come
lavoratori in nero. E lavorano nelle nostre case. E a
costruirle, le nostre case. Sotto traccia, sotto caporale,
sotto pagati. Ma per noi è come se stessero sempre
per arrivare. Come se si trattasse di un’“orda” da
fronteggiare. E non di cittadini e di lavoratori che
vivono e lavorano con noi.
Alla cultura delle leggi contro i kebab e contro
i phone center, al proliferare delle ordinanze cattive
10. Ivan Scalfarotto, In nessun paese. Perché sui diritti dell’amore l’Italia è fuori
dal mondo, con Sandro Mangiaterra, Milano, Piemme, 2010, p. 13.
33
e discriminatorie (al modello Adro, per capirci),11
dovremmo sostituire una stagione di crescita
comune, di impegno a costruire una società basata
sulla differenza e sull’uguaglianza insieme. E sul
rispetto.
Sotto il profilo tecnico, più dell’invasione, è
dell’evasione che ci dovremmo occupare. Perché
è nel lavoro nero, come sempre, in Italia, che si
annidano i problemi. Dove crolla la lealtà della
concorrenza, dove nasce lo sfruttamento, dove le
persone si mettono le une contro le altre. Dove la
“clandestinità”, quella vera, danneggia tutti.
Dobbiamo renderci conto che questo Paese deve
trasformare tutte le proprie paure e incertezze, in
possibilità. E tutti i suoi limiti e le sue chiusure, in
diritti e doveri. In cittadinanza, insomma.
L’indiano che ci fa paura non deve essere quello
che munge le vacche nel mantovano, ma quello che
studia nel suo Paese. E studia più di noi. E cresce,
rapidamente, come l’economia intorno a lui.
E, già che ci siamo, guardare ai Paesi emergenti
e alle nuove grandi economie per aprirsi ai mercati
esteri, ritrovare un turismo di qualità, investire
sulla bellezza e sulla qualità del nostro Paese e dei
nostri prodotti, senza tradire la nostra straordinaria
vocazione manifatturiera.
11. Cfr. Giuseppe Civati, Regione straniera. Viaggio nell’ordinario razzismo
padano, Milano, Melampo, 2009.
34
Una riscoperta del mondo che parte dalla riscoperta
dell’Europa, che si volti, perché ha guardato troppo a
est, e che sappia guardare a sud, per riscoprire l’area
mediterranea, attraversata da grandi cambiamenti, in
cui l’Italia deve tornare a essere protagonista.
Estendere lo sguardo
Un senso di ingiustizia e la mancanza di comprensione
dei fenomeni globali, sono i sentimenti che animano
più profondamente la nostra società.
Avevo 25 anni o poco più. All’inizio del 2001 a
Porto Alegre si incontrò il mondo della rivoluzione
gentile, per dire alcune cose che sarebbero diventate
di moda molto dopo. Troppo dopo. Che la
globalizzazione ha elementi critici dentro di sé, che
l’ambiente è un’emergenza globale, che le transazioni
finanziarie vanno tassate e che si deve porre un freno
alla corruzione. Parlavano della cancellazione del
debito, e il bello che il debito, allora, non era il nostro.
Dieci anni dopo e qualcosa in più, nelle piazze di
tutto il mondo gli indignati piantano le tende e che
cosa chiedono: le stesse cose, solo ne chiedono altre
ancora.
Dopo dieci anni non si può aspettare più. Bisogna
muoversi con precisione e determinazione. Bisogna
farlo senza compromessi, senza pregiudizi, senza
presunzione.
35
Il cambiamento ora è più facile di come spesso
ce lo rappresentiamo. Perché lo conosciamo. Perché
nel 2011 anche il governatore della Bce può dire,
nei confronti degli indignati che manifestano il 15
ottobre: “hanno ragione”. E però non basta. No,
non è solo da apprezzare quella protesta, nelle sue
ragioni più profonde. Bisogna fare qualcosa per
rappresentarla, per dare gli strumenti di governo a
quegli argomenti. E a quelle parole.
La politica in questi anni si è colpevolmente
tenuta lontana da tutto questo. Ed è sembrata
sempre di più chiusa in se stessa, lontana dagli
obiettivi reali e dalla vita quotidiana dei cittadini, è
sembrato che chinasse il capo, e non avesse se non
parole di circostanza. E, per molti, quasi per tutti
(se è vero che solo il 2% dichiara di avere fiducia nei
confronti dei partiti), è diventata un mostro.
Bisogna smetterla con le parole vuote, determinate
dall’impotenza. La politica è diventata, sempre di
più, un genere a sé, costruito intorno a se stessa, ai
propri meccanismi interni, al funzionamento delle
proprie componenti.
Ha difeso se stessa, e non chi doveva
rappresentare. Archiviando tutto come se fosse
il frutto di un estremismo ideologico velleitario e
senza prospettiva.
36
Il progetto Erasmus
Non sono le dimensioni delle banane a doverci
preoccupare, come dice qualcuno: l’Europa non può
essere più vista come il “mostro mite” di cui parla
Enzensberger nel suo ultimo libro,12 che alimenta il
fortunatissimo populismo antieuropeo. Populismo
che le forze che hanno governato a lungo il Paese
hanno cavalcato.
Dobbiamo uscire, di corsa, dal provincialismo,
lasciando la porta spalancata, perché le idee circolino
e cambi l’aria sempre più asfittica che si respira. Qui.
Dentro.
Perché la cerchia alpina, splendente, è stata per
noi più che una siepe leopardiana, una siepe di bosso,
folta e impenetrabile, che ci ha precluso lo sguardo
sulle dinamiche europee, senza farci riflettere granché
nemmeno su di noi, né su quanto stava accadendo
agli altri. Perché alcune forze politiche ci hanno
consigliato di chiudere le frontiere. E anche gli occhi.
E strizzarli, per la paura.
Giustificare l’Europa, perché torni a essere
quell’orizzonte di senso compiuto. Darle senso
come istituzione politica. Senza retorica, ma con fatti
concreti. Affrontando, per esempio, i rapporti tra la
Ue e la Svizzera, partendo dai lingotti che si riversano
12. Hans Magnus Enzensberger, Le deuxmonstre de Bruxelle sou L’Europe
sous tutelle, Paris, Gallimard, 2011.
37
nelle sue banche. Anche per chiarire cosa ci fanno i
paradisi fiscali nel cuore dell’area del libero scambio
e quelli ai suoi confini. Una volta per tutte. Altrimenti
ci stiamo prendendo in giro.
Ci sono cose come la lettera rubata di Poe, che era
sotto gli occhi di tutti, e nessuno la vedeva. Qualcuno
potrebbe dire che in Italia si sono rubati anche quella,
ma il punto è che non vogliamo vedere anche le cose
più ovvie. Che almeno si faccia un po’ più fatica, per
nascondere fondi neri, che andare a San Marino. Con
il paradiso fiscale fuori porta.
Lo stesso vale per quanto riguarda il disarmo o
comunque la riduzione delle spese militari, che non
sono più sostenibili, e la campagna sui caccia milionari
lo dimostra. E anche in questo caso dobbiamo
ragionare in termini europei. E trovare standard
diversi. E una misura più contemporanea.
Ci vuole politica, anche in questo caso, a cominciare
dagli strumenti recentemente richiamati da Stefano
Rodotà, previsti dal Trattato di Lisbona. Leggi di
iniziativa popolare a livello europeo. Campagne
che attraversino i Paesi. Un’opinione pubblica che
si formi superando i suoi confini: “L’articolo 11
del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia
rappresentativa uno strumento di democrazia diretta:
il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che,
in numero di almeno un milione, possono chiedere
alla Commissione europea di prendere iniziative in
determinate materie”.
38
Perché all’Europa manca una politica fiscale
comune e una politica del lavoro unitaria, ed è giusto
ricordarlo, ma manca anche un dibattito pubblico
comprensibile, aperto e inclusivo.
E senza spingerci a dove arriva Montebourg, leader
della sinistra francese, e alla sua “demondializzazione”,
che sa troppo di protezionismo, dobbiamo però
saper rilanciare la produzione all’interno dei nostri
Paesi e dare loro più giustizia sociale e la possibilità di
tornare a crescere, rispettando gli indicatori ecologici
di un mondo a rischio.
Ci vorrebbe un grande appuntamento europeo,
della nuova generazione, la prima a essere nata in
un’Europa Unita e cosciente delle sfide che si trova di
fronte. E tutto ciò che si propone, questa generazione,
è immediatamente nazionale ed europeo, senza
mediazioni: dall’internazionale socialista a una globale
del progresso e del futuro da riconquistare. Ecco.
Abbiamo un problema, anzi due
C’è un problema globale, e uno italiano che non si
risolve in esso. Sono le condizioni di contesto di un
sistema che non tiene più. E che la crisi ha solo reso
più evidenti.
Ci sono i mercati finanziari da regolamentare,
trovare soluzioni che funzionino a livello globale, ma
in Italia la svolta che si attende è una svolta liberale.
39
So che può sembrare paradossale, ma per me è così.
Perché il debito pubblico, in Italia, non l’hanno
fatto i derivati, ma è “derivato” dalla pessima politica
degli ultimi anni. E anche questo, se permettete, è un
fatto generazionale. Il debito pubblico è iniziato a
correre quando nascevo. Poi dice che uno se la prende.
Due problemi che sembrano contrastanti, in
realtà sono solo simmetrici: teniamoli insieme e
affrontiamoli con gli strumenti corretti. Una mossa
doppia, è quella che ci compete.
E allora, da una parte sosteniamo la svolta
liberale, come cura al liberalismo fiction che abbiamo
visto in questi anni. Accettiamo il contenimento della
spesa, la riduzione degli sprechi, la liberalizzazione di
tutto quello che è cristallizzato e il contratto unico per
i lavoratori, e l’universalizzazione dei sussidi quando
si perde il lavoro. E un sistema di mercato meno
condizionato dal pubblico e più concorrenziale.
E impegniamoci, nello stesso tempo, in Europa,
per regolamentare invece quel troppo di liberismo
che c’è stato, quel modello di sviluppo totalmente
sbandato, in cui i cittadini non contano più nulla.
Andiamo a scovare i nascondigli dei soldi neri e
sporchi. Riduciamo il disastro ambientale. Creiamo
le condizioni perché ci sia una nuova generazione al
governo che abbia in mente una cosa e una soltanto:
il benessere di quella successiva.
Ponendo come punto di raccordo tra le due azioni
le opportunità reali che ci devono essere per tutti. E
40
le disuguaglianze da ridurre, attraverso un’economia
più sana e rigorosa. E le innovazioni da trovare e le
capacità di ciascuno da mettere a frutto.
L’errore del bruco e la negazione del futuro
La fine del mondo c’è già stata. I Maya hanno solo
sbagliato anno. E noi, che questo nuovo mondo già
lo abitiamo, dobbiamo solo riconoscerlo, aprire gli
occhi e guardarlo con occhi diversi.
E, per farlo, dobbiamo alzare lo sguardo, svincolarci
dalle convinzioni dalle pose e dalle posizioni, come
vuole la canzone. E immaginare quello che sarà
domani, e poi dopo. Il giorno dopo. E quello dopo
ancora. Giorno dopo giorno.
Ciò vale soprattutto in Italia, perché la politica
italiana ha fatto reset, ha azzerato un intero schema
e una lunga stagione, ma non si è ancora dimostrata
pronta a costruire il futuro. E a immaginarlo.
Dal momento che parliamo di fine del mondo,
leggiamo insieme la fine di due libri che sono usciti
recentemente. Che non invitano alla profezia, ma
all’analisi e alla proposta.
Il primo dice così: “L’umanità potrebbe incorrere
nell’errore del bruco. Questa umanità-bruco si trova
nello stadio dell’uscita dalla crisalide, ma lamenta la
propria scomparsa perché non presagisce la farfalla
che sta per diventare. Potrebbe però accadere,
41
viceversa, che noi confidiamo troppo nella tanto
spesso citata speranza di cui parla Hölderlin,
secondo il quale con i pericoli cresce anche ciò che
salva. In questo caso verrebbe a mancare l’impulso
necessario allo sforzo per diventare farfalla. Non oso
tentare una risposta alla questione se la sociologia
(ma vale un po’ per tutte le discipline) non si trovi
a sua volta nello stadio dell’uscita dalla crisalide,
non sia cioè un bruco che si sta trasformando in
farfalla”13.
Il secondo lo riecheggia: “Ormai è un cliché
dire che gli ideogrammi cinesi per indicare la crisi
riflettono i concetti di “pericolo” e “opportunità”.
Il pericolo l’abbiamo visto. Resta da chiedersi se
coglieremo l’occasione di ripristinare il nostro
senso di equilibrio fra Stato e mercato, fra
individualismo e comunità, fra uomo e natura, fra
mezzi e fini. Ora abbiamo l’opportunità di creare
un nuovo sistema finanziario che faccia quello che
le persone si aspettano da un sistema finanziario;
di realizzare un nuovo sistema economico che crei
posti di lavoro significativi e decenti per chi ne
ha bisogno, un sistema in cui il divario tra ricchi
e poveri si assottigli, anziché ampliarsi; e, cosa più
importante, abbiamo l’occasione di creare una
nuova società in cui ogni individuo possa realizzare
le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini
13. Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza, 2011, p. 57
42
condividano ideali e valori; una comunità che tratti
il pianeta con il rispetto che, nel lungo periodo,
esigerà sicuramente. Queste sono le opportunità. Il
vero pericolo, adesso, è di non saperle cogliere”.14
Ecco, come ha scritto una volta Rebecca Solnit,
sono “cose ben più strane della fine del mondo”
quelle che ci attendono. Noi, che questo nuovo
mondo già lo abitiamo, dobbiamo solo riconoscerlo,
aprire gli occhi e guardarlo in modo diverso. Alzando
lo sguardo, puntando a una trasformazione nelle sue
strutture profonde e cercando di aprire una nuova
stagione in cui la politica sia – finalmente – nazionale
e globale insieme. Una grande occasione per il
bruco più fermo di tutti, che noi rappresentiamo
alla perfezione.
Se la politica sta cercando qualcosa da fare,
soprattutto in Italia, è qui che la troverà.
Ecco le 10 cose da fare per cambiare le cose
Ecco le 10 cose, che in realtà sono molte di più, e
assomigliano, nel piccolissimo, a quelle famose tesi,
che nella nostra modestissima traduzione sarebbero
da affiggere alle porte e ai portoni della politica.
14. Joseph E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, Einaudi, 2010, pp. 425-426.
43
Scritte dalla provincia, lontani da Roma e dai
palazzi della politica. Un po’ infastiditi dalle gerarchie.
Per un rapporto diretto con gli elettori. Che contano,
e come diceva quella canzone, si stanno contando già.
Dieci cose, cinque punti di Pil da “spostare”
subito e un appello finale. Un po’ protestante, se si
vuole, nelle tante accezioni del termine. Con meno
santi in paradiso, con una responsabilità individuale
più marcata, con un rispetto per la parola pubblica. E
con l’impegno di ciascuno.
44
Scarica

leggi un estratto