JULES VERNE
IL PILOTA DEL DANUBIO
Copertina Hetzel – Al mappamondo dorato
Tavole di Georges Roux
Titolo originale dell'opera
LE PILOTE DU DANUBE
(1908)
Traduzione integrale dal francese e note di
VINCENZO BRINZI
Proprietà letteraria e artistica riservata – Printed in ltaly
© Copyright 1990 Gruppo Ugo Mursia Editore
3700/AC – Gruppo Ugo Mursia Editore – Milano – Via Tadino, 29
INDICE
PRESENTAZIONE __________________________________ 5
IL PILOTA DEL DANUBIO __________________________ 10
Capitolo I _________________________________________ 10
Il concorso di sigmaringen_____________________________ 10
Capitolo II_________________________________________ 23
Alle sorgenti del danubio______________________________ 23
Capitolo III ________________________________________ 39
Il passeggero di ilia brusch ____________________________ 39
Capitolo IV ________________________________________ 54
Serge ladko ________________________________________ 54
Capitolo V_________________________________________ 67
Karl dragoch _______________________________________ 67
Capitolo VI ________________________________________ 77
Gli occhi azzurri ____________________________________ 77
Capitolo VII _______________________________________ 90
Caccia e cacciatori ___________________________________ 90
Capitolo VIII _____________________________________ 101
Un ritratto di donna _________________________________ 101
Capitolo IX _______________________________________ 121
I due scacchi di dragoch _____________________________ 121
Capitolo X________________________________________ 140
Prigioniero ________________________________________ 140
Capitolo XI _______________________________________ 153
Nelle mani di un nemico _____________________________ 153
Capitolo XII ______________________________________ 181
In nome della legge _________________________________ 181
Capitolo XIII _____________________________________ 191
Una commissione d'inchiesta__________________________ 191
Capitolo XIV _____________________________________ 210
Tra cielo e terra ____________________________________ 210
Capitolo XV ______________________________________ 228
Vicino alla meta ____________________________________ 228
Capitolo XVI _____________________________________ 240
La casa vuota ______________________________________ 240
Capitolo XVII_____________________________________ 254
A nuoto __________________________________________ 254
Capitolo XVIII ____________________________________ 263
Il pilota del danubio _________________________________ 263
Capitolo XIX _____________________________________ 276
Epilogo___________________________________________ 276
PRESENTAZIONE
Teatro delle avventure narrate da Verne in questo suo
romanzo è il bacino del Danubio, del grande fiume
europeo che si snoda per tremila chilometri attraverso
gran parte del nostro continente. L'abilissimo pilota che lo
percorre a bordo di una chiatta, dalle sorgenti al Mar
Nero, è Serge Ladko che, ricercato dalla polizia per il suo
amor di patria, si è allontanato dalla sua casa allo scopo
di procurare armi ai patrioti del suo paese che intendono
sollevarsi contro il dominio dei turchi. Il patriota e
galantuomo Ladko ha però un sosia di tutt'altra risma:
Ivan Striga, considerato, dai più, un traditore del proprio
paese. Striga, infatti, spende e spande a piene mani senza
che si sappia come faccia a procurarsi tanto denaro;
denaro che non riesce tuttavia a fargli ottenere l'amore
della bellissima Natcha Gregorevitch, la quale preferisce
sposare Ladko. Inimicizia e gelosia spingono allora Striga
a sparare contro il rivale un colpo di fucile, in seguito al
quale crede di averlo ucciso.
Ma Ladko è morto davvero?
Lo ritroviamo qui, ad apertura di pagina del romanzo,
sotto il falso nome di Ilia Brusch. Ha mutato nome per
sottrarsi alle ricerche della polizia e per tornare in patria
partecipa, vincendola, alla gara di pesca che la Lega
Danubiana di Sigmaringen bandisce periodicamente. E
non solo vince la gara, ma annuncia pubblicamente ai soci
della Lega — che lo applaudono con entusiasmo — che
intende percorrere il grande fiume dalle sorgenti alla foce,
vivendo con il ricavato della propria pesca. Un'impresa
davvero originale e avventurosa.
Partito pochi giorni dopo, Ilia Brusch inizia il suo
viaggio romanzesco. A Ulm, tanto per cominciare, deve
accogliere sulla sua chiatta un passeggero, Karl Dragoch,
capo della polizia danubiana, che viaggia anche lui sotto il
falso nome di Jaeger. Dragoch è alla ricerca di una banda
di malfattori che da più mesi svaligiano ville e abitazioni
poste in prossimità delle rive del Danubio, nel tratto che va
dalla foce oltre la città di Vienna. In qualche caso la banda
ha persino ucciso.
Ciò che capita durante la discesa del fiume al nostro
Ladko, alias Brusch, scambiato per Striga, costituisce il
nocciolo del racconto, che grazie all'impareggiabile
maestria dell'autore non mancherà di avvincere il lettore;
il quale tra l'altro sarà portato a rivivere gli eventi storici
svoltisi nella regione danubiano-balcanica, verso la fine
del secolo scorso. Nel 1876 — anno in cui si svolge
l'azione dei protagonisti — il Danubio attraversava infatti,
politicamente parlando, due regni (il Württemberg e la
Baviera), due imperi (Austria-Ungheria e Turchia) e tre
principati (l'Hohenzollern, la Serbia e la Romania). I
Balcani erano allora in subbuglio a causa dei moti
d'indipendenza dei vari gruppi etnici che intendevano
sottrarsi a ogni costo al giogo della Porta, e cioè
dell'Impero Ottomano, che non si fece scrupolo, per
soffocarli, di ricorrere ad alcuni massacri, dai quali non
furono esclusi donne e bambini, suscitando ondate di
indignazione e di orrore in tutto il mondo cristiano.
Lasciamo al lettore il piacere di giungere da sé alla
conclusione del racconto, che l'abilità dell'autore riesce
sempre a rimandare alle ultime pagine.
VINCENZO BRINZI
JULES VERNE nacque a Nantes l'8 febbraio 1828. A
undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di
imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu
scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si
trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in
contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca.
Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale
venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari.
Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo
commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo
costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia
presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava
Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con
l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo
Cinque settimane in pallone.
La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato
l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un
anno dopo l'altro — in base a un contratto stipulato con
l'editore Hetzel — venne via via pubblicando i romanzi che
compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari
— i mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il
filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al
centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe
sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80
giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri
più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina
fra romanzi e racconti lunghi, e numerose altre opere di
divulgazione storica o scientifica. Con il successo era
giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si
stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo
lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità
acquistata, una vita semplice e metodica. La sua
produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della
morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.
IL PILOTA DEL DANUBIO
CAPITOLO I
IL CONCORSO DI SIGMARINGEN
IL SABATO del 5 agosto 1876, una folla chiassosa
gremiva l'osteria del «Ritrovo dei Pescatori». Canzoni,
grida, tintinnar di bicchieri, applausi ed esclamazioni si
mescolavano in un baccano indicibile che, a intervalli
regolari, era dominato dagli hoch! con i quali di solito si
manifesta la gioia dei tedeschi quando raggiunge il
culmine.
Le finestre dell'osteria davano direttamente sul Danubio,
all'estremità dell'incantevole cittadina di Sigmaringen,
capitale del territorio prussiano di Hohenzollern situato
quasi alla sorgente di quel grande fiume dell'Europa
centrale.
Quasi obbedendo all'invito dell'insegna dipinta con belle
lettere gotiche al disopra della porta d'ingresso, si erano là
riuniti i membri della Lega Danubiana, società
internazionale di pescatori appartenenti alle varie
nazionalità rivierasche. Ma non vi è allegra riunione senza
abbondanti bevute. Perciò si beveva la buona birra di
Monaco e il buon vino d'Ungheria a grandi caraffe e a
bicchieri stracolmi. Si fumava anche: il salone era infatti
oscurato da una nuvola di fumo odoroso che s'innalzava
senza tregua dalle lunghe pipe. Ma se i soci non si
vedevano più, tuttavia si udivano, a meno d'essere sordi.
I pescatori alla lenza, calmi e silenziosi nell'esercizio
delle loro funzioni, sono in realtà le persone più rumorose
del mondo appena depongono i loro attrezzi. Per raccontare
le loro gesta, essi non sono da meno dei cacciatori, che è
tutto dire.
Si era al termine di una sostanziosissima colazione, che
aveva raccolto intorno alle tavole dell'osteria un centinaio
di convitati, tutti cavalieri della lenza, tifosi del gavitello,
fanatici dell'amo. Le fatiche del mattino, a giudicare dal
numero di bottiglie che si vedevano tra gli avanzi della
tavola, avevano senza dubbio stranamente disseccato le
loro gole. Adesso era la volta dei numerosi liquori inventati
dagli uomini come ammazza-caffé.
Sonavano le tre del pomeriggio quando i convitati, con il
viso sempre più acceso, si alzarono da tavola. Ad essere
sinceri, alcuni barcollavano e non avrebbero potuto fare del
tutto a meno dell'aiuto dei loro vicini; la maggior parte però
si reggeva solidamente in piedi, da bravi abituali
frequentatori di quelle riunioni da epuloni che si ripetevano
più volte all'anno, grazie alle gare organizzate dalla Lega
Danubiana.
Partecipare a quelle gare, molto seguite e festose, lungo
il corso del celebre fiume giallo, e non blu come lo esalta il
famoso valzer di Strauss, dava molto lustro. I concorrenti
giungevano dal ducato di Baden, dal Württemberg, dalla
Baviera, dall'Austria, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla
Serbia e persino dalle province turche della Bulgaria e
della Bessarabia.
La società aveva già cinque anni di vita. Molto bene
amministrata dal suo presidente, l'ungherese Miclesco, essa
prosperava. Le sue risorse, sempre crescenti, le
consentivano di offrire importanti premi nelle gare, e la sua
bandiera brillava delle gloriose medaglie conquistate, dopo
aspra lotta, contro le associazioni rivali. Perfettamente al
corrente della legislazione relativa alla pesca fluviale, il
suo Comitato direttivo appoggiava i suoi aderenti sia
contro lo stato sia contro i privati, e difendeva i loro diritti
e i loro privilegi con quella tenacia, o meglio con quella
testardaggine professionale, particolare al bipede che
l'istinto di pescatore con la lenza rende degno di essere
classificato in una particolare categoria del genere umano.
La gara che si era appena conclusa era la seconda
dell'anno 1876. Sin dalle cinque del mattino, i partecipanti
avevano lasciato la città per raggiungere la riva sinistra del
Danubio, un po' a valle di Sigmaringen. Tutti indossavano
l'uniforme della società: camiciotto corto che lasciava
libertà di movimento, pantaloni infilati negli stivali dalle
suole robuste, berretto bianco ad ampia visiera; e
possedevano, ovviamente, l'intera collezione dei vari
attrezzi elencati nel Manuale del Pescatore: gavitelli,
guadello, lenze impacchettate nella loro busta di pelle di
daino, galleggianti, sonde, pezzettini di piombo fuso di
ogni dimensione, mosche artificiali, cordoncino, crine di
Firenze. La pesca doveva essere libera, nel senso che si
poteva pescare qualsiasi tipo di pesce che abboccasse e che
ogni pescatore poteva occupare il posto che più gli piaceva.
Alle sei, novantasette concorrenti erano al loro posto con
la lenza in mano, pronti a lanciare l'amo. Uno squillo di
tromba diede il segnale e le novantasette lenze si tesero,
con identico movimento, sopra la corrente.
La gara era dotata di parecchi premi, dei quali i primi
due, del valore di cento fiorini ciascuno, sarebbero stati
attribuiti al pescatore che avrebbe avuto il maggior numero
di pesci e a quello che avrebbe catturato il pesce più
pesante.
Non ci fu alcun incidente fino al secondo squillo di
tromba che, alle undici meno cinque, chiuse il concorso.
Ogni lotto fu allora sottoposto alla giuria, composta dal
presidente Miclesco e da quattro membri della Lega. Che
questi importanti personaggi prendessero la loro decisione
imparzialmente e in modo da rendere impossibile alcun
reclamo – anche se nel mondo particolare dei pescatori ci
fossero molte teste calde – nessuno lo mise in dubbio
neppure per un istante. Fu però necessario armarsi di
pazienza per conoscere il risultato del loro esame
coscienzioso e l'attribuzione dei vari premi, sia per il peso
sia per il numero, perché esso doveva rimanere segreto fino
all'ora della distribuzione dei premi, preceduta a sua volta
da un pasto che avrebbe riunito tutti i partecipanti in agapi
fraterne.
Ma adesso l'ora era giunta. I pescatori, per non parlare
dei curiosi venuti da Sigmaringen, aspettavano
comodamente seduti dinanzi alla tribuna, sulla quale
stavano il presidente e gli altri membri della giuria.
E in verità, se seggi, panche e sgabelli non mancavano,
non mancavano neppure le tavole, e, sulle tavole, boccali di
birra, bottiglie di liquori d'ogni genere, bicchieri grandi e
piccoli.
Dopo che ciascuno ebbe preso posto, mentre le pipe
continuavano a fumare a più non posso, il presidente si
alzò.
— Silenzio! silenzio! — si gridò da ogni parte.
Il signor Miclesco vuotò, per cominciare, un grande
boccale di birra, la cui schiuma gli imperlò la punta dei
baffi.
— Miei cari colleghi — disse in tedesco, lingua
compresa da ogni membro della Lega, nonostante la loro
diversa nazionalità — non aspettatevi il solito classico
discorso con preambolo, sviluppo e conclusione. Non
siamo qui per inebriarci di arringhe ufficiali; vi parlerò
delle nostre piccole faccende da buon camerata, dirò anzi
da fratello, se questa qualifica vi sembrerà giustificata per
un'assemblea internazionale.
Le due frasi, un po' lunghe come tutte quelle che si
dicono di solito all'inizio di un discorso, anche quando
l'oratore afferma di non voler fare discorsi, furono accolte
con unanimi applausi, ai quali si unirono numerosi
benissimo! benissimo! mescolati a qualche hoch! e cioè a
qualche singulto. Poi, al bicchiere alzato dal presidente
fecero onore tutti gli altri con i bicchieri pieni.
Il signor Miclesco continuò il suo discorso ponendo il
pescatore con la lenza al primo posto dell'umanità. Egli ne
mise in evidenza qualità e virtù di cui lo aveva dotato la
natura generosa; disse che al pescatore occorrono pazienza,
ingegnosità, sangue freddo e un'intelligenza superiore per
riuscire in questa sua arte, perché, più che un mestiere, la
pesca è un'arte; un'arte che egli pose molto al disopra delle
prodezze cinegetiche di cui si vantano, a torto, i cacciatori.
— È possibile mai paragonare la caccia alla pesca? —
esclamò.
— No! no! — rispose l'assemblea.
— Che merito c'è nell'uccidere una pernice o una lepre,
quando sono a giusta portata, quando un cane — abbiamo
forse cani, noi? — li ha scoperti per vostro conto? Quella
selvaggina voi la vedete da lontano, prendete la mira con
comodo, la riempite di un gran numero di pallini di
piombo, la maggior parte dei quali va sprecata!… Il pesce,
invece, voi non potete seguirlo con lo sguardo. Esso è
nascosto sotto l'acqua… Quante manovre accorte
occorrono, quanti adescamenti sottili, quanto spreco di
intelligenza, quanti accorgimenti per indurlo a mordere
l'amo, per uncinarlo, per tirarlo fuori dall'acqua, ora
immobile all'estremità della lenza, ora guizzante come se,
per così dire, applaudisse esso stesso alla vittoria del
pescatore!
Quelle parole furono sommerse da tuonanti «bravo». Il
presidente Miclesco riscuoteva certamente le simpatie dei
membri della Lega. Sapendo che non avrebbe mai
esagerato abbastanza nel fare l'elogio dei suoi confratelli,
egli, senza alcun timore, non esitò a porre il loro nobile
esercizio al disopra di tutti gli altri, a innalzare fino alle
stelle i ferventi discepoli della scienza piscatoria, a evocare
persino la superba dea che nell'antica Roma presiedeva ai
giuochi piscatori.
Furono comprese quelle parole? Certamente, poiché
suscitarono un entusiasmo incontenibile.
Dopo aver ripreso fiato e vuotato un altro boccale di
birra, egli proseguì:
— Non ci rimane che felicitarci per la sempre crescente
prosperità della nostra società, la quale recluta ogni anno
nuovi membri e la cui reputazione è ben solida in tutta
l'Europa centrale. Non vi parlerò dei suoi successi: voi li
conoscete, sono in gran parte i vostri, ed è un grande onore
figurare nelle sue gare! La stampa tedesca, la stampa ceca e
quella romena non le hanno mai lesinato i loro elogi così
preziosi e, io aggiungo, così meritati; faccio un brindisi,
perciò, pregandovi di brindare con me, ai giornalisti che si
votano alla causa internazionale della Lega Danubiana!
Si brindò insieme con il presidente; le bottiglie si
vuotarono nei bicchieri e i bicchieri nelle gole, con la
stessa facilità con cui l'acqua del grande fiume e dei suoi
affluenti si riversa nel mare.
Ogni cosa sarebbe finita a questo punto, se il discorso
presidenziale fosse terminato con quel brindisi. Ma altri
brindisi erano necessari per motivi di evidente opportunità.
Tra il segretario e il tesoriere, anch'essi in piedi, il
presidente fece cenno, infatti, di voler riprendere la parola.
Tutti e tre tenevano con la mano destra una coppa di
champagne; la mano sinistra era posata sul cuore.
— Bevo alla Lega Danubiana! — disse il signor
Miclesco, abbracciando con lo sguardo l'assemblea.
Tutti si erano alzati, con la coppa all'altezza delle labbra;
alcuni erano saliti sulle panche, altri sulle tavole: tutti
risposero all'unisono alla proposta del signor Miclesco.
Vuotate le coppe, il presidente ricominciò con foga, dopo
aver attinto dalle inesauribili bottiglie poste dinanzi a lui e
ai suoi assessori:
— Alle varie nazionalità, a quelli del Baden, a quelli del
Württemberg, ai bavaresi, agli austriaci, agli ungheresi, ai
serbi, ai valacchi, ai moldavi, a quelli della Bessarabia, a
tutti coloro che la Lega Danubiana annovera nelle sue file!
E quelli della Bessarabia, del Baden, del Württemberg,
con bulgari, moldavi, valacchi, serbi, ungheresi, austriaci e
bavaresi gli risposero, unanimi, tracannando il contenuto
delle loro coppe.
Il presidente pose termine alla fine alla sua arringa per
annunciare che beveva alla salute di ogni membro della
società. Ma tenuto conto che i soci erano
quattrocentosettantatré, fu costretto suo malgrado a fare per
tutti un solo brindisi.
E tutti gli risposero con mille e mille hoch! che si
prolungarono fino alla consunzione delle corde vocali.
Ebbe così termine il secondo numero del programma, il
primo essendo finito con l'abbuffata. Il terzo sarebbe
consistito nella proclamazione dei laureati.
Tutti attendevano con ovvia ansietà, perché, come è
stato già detto, il segreto della giuria era stato mantenuto.
Ora era venuto il momento di svelarlo in pubblico.
Il presidente si fece il dovere di leggere l'elenco ufficiale
dei premiati per le due categorie.
In conformità agli statuti della società, i premi di minor
valore sarebbero stati consegnati per primi, la qualcosa
avrebbe dato alla lettura un crescente interesse.
Alla chiamata del loro nome, i premiati si presentarono
dinanzi alla tribuna. Il presidente diede a ognuno un
abbraccio, un diploma e una somma di denaro che variava
a seconda del posto ottenuto.
I pesci contenuti nella rete erano del tipo di quelli che
qualsiasi pescatore può catturare nelle acque del Danubio:
spinelli, lasche, ghiozzi, passere, persici, tinche, lucci,
cavedani e altri. Valacchi, ungheresi, cittadini del Baden e
del Württemberg apparivano nell'elenco dei premi minori.
Il secondo premio fu attribuito, per la cattura di
settantasette pesci, a un tedesco di nome Weber, il cui
successo fu accolto da calorosi applausi. Weber era molto
noto ai suoi confratelli: molte volte, in passato, si era già
classificato nei primi posti; quel giorno poi tutti ritenevano
che nessuno gli avrebbe tolto il primo premio per il numero
di pesci pescati.
Ma non fu così: la sua rete conteneva soltanto
settantasette pesci, contati e ricontati; un altro concorrente,
più abile o forse soltanto più fortunato, ne aveva presi
novantanove.
Venne quindi reso noto il nome di questo maestro
pescatore: era l'ungherese Ilia Brusch.
L'assemblea, sorpresissima, non applaudì affatto
nell'udire il nome di quello sconosciuto ungherese, entrato
da poco tempo a far parte della Lega Danubiana.
Poiché il vincitore non aveva ritenuto di doversi
presentare per incassare il premio di cento fiorini, il
presidente passò senz'altro indugio all'elenco dei vincitori
della categoria del peso. I premiati furono rumeni, slavi e
austriaci. Quando fu pronunciato il nome di colui al quale
era stato attribuito il secondo premio ci fu un applauso
come per il tedesco Weber. Il signor Ivetozar, assessore,
trionfava con un cavedano di tre libbre e mezzo, che
sarebbe certamente sfuggito a un pescatore meno abile e
con meno sangue freddo. Il signor Ivetozar era un socio
molto noto, attivissimo e devoto alla società: era lui che
aveva ottenuto fin allora il maggior numero di premi.
Perciò gli furono tributati unanimi applausi.
Ora non restava che assegnare il primo premio della
categoria: i cuori palpitarono nell'attesa di conoscere il
nome del vincente.
Quale non fu lo stupore, o meglio, quale non fu la
meraviglia generale quando il presidente pronunciò queste
parole, con voce di cui non riusciva a moderare il tremito:
— Primo per peso, per un luccio di diciassette libbre,
l'ungherese Ilia Brusch!
Seguì un grande silenzio. Le mani pronte ad applaudire
rimasero immobili, le bocche pronte ad acclamare il
vincitore rimasero chiuse. La curiosità aveva
immobilizzato tutti.
Ilia Brusch si sarebbe fatto vedere? Sarebbe venuto a
ritirare dalle mani del presidente i diplomi d'onore e i
duecento fiorini che li accompagnavano?
All'improvviso un mormorio corse di bocca in bocca.
Un partecipante, che fin allora si era tenuto un po' in
disparte, si diresse verso la tribuna.
Era l'ungherese Ilia Brusch.
A giudicare dal suo viso accuratamente rasato, coronato
da folti capelli neri come l'inchiostro, Ilia Brusch non
aveva ancora oltrepassato i trent'anni. Di statura al di sopra
della media, spalle ampie, ben piantato sulle gambe,
doveva essere insolitamente forte. Poteva sorprendere, a
dire il vero, che un giovane di quella tempra amasse le
placide distrazioni della pesca alla lenza al punto di avere
acquistato in un'arte così difficile una tale abilità, di cui era
conferma irrevocabile il risultato ottenuto nella gara.
Altra particolarità abbastanza bizzarra: Ilia Brusch
doveva soffrire di un qualche disturbo alla vista. Grandi
occhiali neri gli nascondevano gli occhi, dei quali sarebbe
stato impossibile vedere il colore. Ora, la vista è il senso
più prezioso per colui che si appassiona agli impercettibili
movimenti dei gavitelli, e buoni occhi sono necessari a chi
voglia sventare le molteplici astuzie del pesce.
Ma, stupiti o non stupiti, non c'era che da accettare il
verdetto: l'imparzialità della giuria era insospettabile. Ilia
Brusch era il vincitore delle due gare, e questo in
condizioni che nessuno, a memoria di socio, era mai
riuscito a mettere insieme. L'assemblea alla fine si disgelò
e applausi abbastanza sonori salutarono il trionfatore nel
momento in cui riceveva diplomi e premi dalle mani del
presidente.
Ciò fatto, invece di scendere dalla tribuna, Ilia Brusch
parlò brevemente con il presidente; poi si volse verso
l'assemblea, sempre di più incuriosita, e con un gesto
chiese il silenzio, che ottenne subito come per incanto.
— Signori e cari colleghi, — disse Ilia Brusch — vi
chiederò il permesso di rivolgervi poche parole, autorizzato
a farlo dalla cortesia del nostro presidente.
Nella sala, poco prima così rumorosa, si sarebbe sentito
volare una mosca. A che cosa mirava quella allocuzione
non prevista dal programma? Desidero innanzi tutto
ringraziarvi — proseguì Ilia — per la vostra simpatia e i
vostri applausi; ma vi prego di credere che non
inorgoglisco più di quanto convenga, per il doppio
successo ottenuto. Non ignoro che tale successo, se fosse
andato al più meritevole, sarebbe toccato a qualche vecchio
socio della lega, così ricca di abili pescatori; più che al
merito, io lo devo a un caso fortunato.
La modestia di queste parole fu vivamente apprezzata
dall'assemblea, dalla quale si levarono in sordina numerosi
benissimo!
— Questo caso fortunato dovrei qui giustificarlo, e a
questo scopo ho fatto un progetto che ritengo tale da
interessare questa riunione di illustri pescatori.
«Come sapete, cari colleghi, sono oggi di moda i
primati. Perché non dovremmo imitare i campioni degli
altri sport, certamente inferiori al nostro, e tentare di
stabilire il primato della pesca?»
Esclamazioni soffocate corsero tra il pubblico. Con degli
ah! ah!, dei toh! toh!, e dei perché no? i soci tradussero le
proprie impressioni, a seconda del temperamento
personale.
— Quando per la prima volta — proseguì l'oratore — mi
è venuta in mente tale idea l'ho fatta immediatamente mia e
subito ho capito come essa avrebbe dovuto essere
realizzata. Del resto, il fatto di essere socio della Lega
Danubiana, facilitava la cosa. Pescatore alla lenza del
Danubio, soltanto al Danubio dovevo chiedere la felice
soluzione della mia impresa. Ho formulato perciò il
progetto di discendere il nostro glorioso fiume, dalla
sorgente fino al Mar Nero, e di vivere, durante il suo
percorso di tremila chilometri, esclusivamente del prodotto
della mia pesca.
«La fortuna che oggi mi ha favorito accresce, ammesso
che ciò sia possibile, il mio desiderio di compiere questo
viaggio, di cui, sono certo, apprezzerete l'interesse; vi
annuncio perciò sin da questo momento la mia partenza,
fissata per il 10 agosto, e cioè per giovedì prossimo e, per
quel giorno, vi do appuntamento nel punto preciso in cui
comincia il Danubio».
È più facile immaginare che descrivere l'entusiasmo
suscitato da quella inattesa comunicazione. Per lunghi
cinque minuti vi fu una tempesta di hoch! e di applausi
frenetici.
Ma una faccenda del genere non poteva finire in quel
modo. Il signor Miclesco lo capì e, come sempre, agì da
presidente. Si alzò dunque, forse un po' pesantemente, tra i
suoi due assessori.
— Al nostro collega Ilia Brusch! — disse con voce
commossa, sollevando una coppa di champagne.
— Al nostro collega Ilia Brusch! — rispose l'assemblea
con un rumore di tuono, al quale seguì subito un profondo
silenzio, dovuto al fatto che gli uomini, per una spiacevole
imperfezione, non sono fatti in modo da poter gridare e
bere nello stesso tempo.
Il silenzio fu però di breve durata. Lo spumante donò
presto alle gole riarse nuovo vigore e ciò permise loro di
fare ancora molti altri brindisi, sino al momento in cui,
nella generale allegria, fu dichiarata chiusa la famosa gara
di pesca aperta quel sabato 5 agosto 1876 dalla Lega
Danubiana, nell'incantevole cittadina di Sigmaringen.
CAPITOLO II
ALLE SORGENTI DEL DANUBIO
NELL'ANNUNCIARE ai colleghi raccolti nel «Ritrovo dei
Pescatori» il suo progetto di discendere il Danubio con la
lenza in mano, Ilia Brusch aveva forse aspirato alla gloria?
Se tale era il suo scopo, poteva vantarsi di averlo raggiunto.
La stampa si era appropriata della notizia e tutti i
giornali della regione danubiana, senza eccezione alcuna,
avevano consacrato al concorso di Sigmaringen articoli più
o meno lunghi ma sempre atti a solleticare piacevolmente
l'amor proprio del vincitore, il cui nome stava per diventare
popolare.
Sin dal giorno dopo, nel numero del 6 agosto, la Neue
Freie Press di Vienna aveva pubblicato ciò che segue:
«L'ultimo concorso di pesca della Lega Danubiana si è
chiuso ieri a Sigmaringen con un vero colpo di scena, del
quale un ungherese di nome Ilia Brusch, ieri sconosciuto e
oggi quasi celebre, è stato l'eroe.
«Che cosa ha fatto dunque Ilia Brusch, vi chiederete, per
meritare una gloria così improvvisa?
«Questo abile uomo è riuscito ad aggiudicarsi i due
primi premi, quello del peso e quello del numero,
distanziando di molto i concorrenti; la qualcosa non era
mai accaduta, a quel che sembra, da quando esistono
concorsi del genere. Bene, ma c'è di meglio.
«Quando si è raccolto una tale messe di allori, quando si
è riportato una vittoria così splendida, sembrerebbe giusto
godersi un meritato riposo. Ma non è questo il parere del
nostro pescatore ungherese, il quale si Prepara a stupirci
ancora di più.
«Se siamo ben informati — ed è nota la fondatezza delle
nostre informazioni — Ilia Brusch avrebbe annunciato ai
suoi colleghi che si propone di discendere con la lenza in
mano tutto il Danubio, dalla sorgente, nel ducato di Baden,
sino alla foce, nel Mar Nero, un percorso cioè di circa
tremila chilometri.
«Terremo informati i nostri lettori degli sviluppi di
questa originale impresa.
«Ilia Brusch inizierà il suo viaggio giovedì prossimo, 10
agosto. Auguriamo a lui buon viaggio e a noi la speranza
che il formidabile pescatore non stermini tutti i pesci che
vivono nel grande fiume internazionale!».
Così si esprimeva la Neue Freie Press di Vienna. Il
Pester Lloyd di Budapest non si mostrava meno entusiasta,
non più del Serbské Noviné di Belgrado e del Românul di
Bucarest, nei quali la notizia veniva data con molti
particolari.
Quelle informazioni attiravano l'attenzione dei lettori su
Ilia Brusch; e se è vero che la stampa è il riflesso
dell'opinione pubblica, l'ungherese poteva ben aspettarsi di
suscitare un sempre crescente interesse con il graduale
procedere del suo viaggio.
Non avrebbe forse trovato nelle principali città del
percorso i membri della Lega Danubiana, i quali
consideravano un dovere apportare il loro contributo alla
gloria del loro collega? Senza alcun dubbio, in caso di
necessità egli avrebbe ricevuto da loro assistenza e
soccorso.
Gli articoli della stampa ottenevano evidente successo
tra i pescatori alla lenza. Agli occhi di tali professionisti,
l'impresa di Ilia Brusch acquistava enorme importanza;
numerosi pescatori, attratti a Sigmaringen dal concorso
allora terminato, vi si erano attardati infatti nell'intento di
assistere alla partenza del campione della Lega Danubiana.
Il proprietario del «Ritrovo dei Pescatori» era quello che
più ci guadagnava in tutta la faccenda. Nel pomeriggio
dell'8 agosto, antivigilia del giorno stabilito dal premiato
per l'inizio del suo insolito viaggio, più di trenta bevitori
continuavano la loro allegra vita nella grande sala
dell'osteria, la cui cassa, considerate le capacità di bere di
quella scelta clientela, conosceva introiti insperati.
Nonostante l'imminenza dell'avvenimento che aveva
trattenuto quei curiosi nella capitale dell'Hohenzollern, la
sera di quell'8 agosto, nel «Ritrovo dei Pescatori» non si
parlava però del nostro eroe: un avvenimento, ancora più
importante per i rivieraschi del grande fiume, serviva da
tema alla conversazione generale e metteva quel mondo a
rumore.
Quell'agitazione non aveva nulla di esagerato e fatti
piuttosto gravi la giustificavano ampiamente.
Da vari mesi, infatti, le rive del Danubio erano razziate
dal brigantaggio Non era più possibile enumerare le fattorie
svaligiate, i castelli saccheggiati, le ville depredate, e anche
i delitti, più persone avendo già pagato con la vita la
resistenza che avevano cercato di opporre agli inafferrabili
malfattori.
Era evidente che quelle imprese criminose non erano
state compiute da pochi individui isolati. Si doveva trattare
certamente di una banda ben organizzata e senza dubbio
numerosa, a giudicare dalle sue prodezze.
Circostanza curiosa: la banda operava esclusivamente
nelle immediate vicinanze del Danubio. Più in là di due
chilometri dalle rive del fiume, non era stato
legittimamente possibile attribuirle un solo delitto. Teatro
delle operazioni della banda erano però soltanto le rive del
fiume, dato che anche quelle austriache, ungheresi, serbe o
rumene erano egualmente messe a sacco da quei banditi
che nessuno, da nessuna parte, riusciva a cogliere sul fatto.
Compiuto un colpo, essi sparivano fino al prossimo,
commesso a volte a centinaia di chilometri dal precedente.
Nell'intervallo, non si trovava alcuna traccia di essi:
sembravano essersi volatilizzati, e sembravano essersi
volatilizzati anche gli oggetti materiali, a volte molto
ingombranti, che rappresentavano il loro bottino.
I governi interessati avevano finito con il reagire a questi
continui scacchi, imputabili verosimilmente a una
mancanza di coordinamento nelle operazioni di
repressione. Un accordo dapprima verbale, a quanto ne
riferiva la stampa la mattina dell'8 agosto, aveva portato
alla creazione di una polizia internazionale, suddivisa
lungo il corso del Danubio, comandata da un solo capo. La
designazione di quel capo era stata particolarmente
laboriosa; alla fine però tutti si erano trovati d'accordo sul
nome di Karl Dragoch, poliziotto ungherese molto noto
nella regione.
Karl Dragoch era infatti un investigatore di valore e la
difficile missione affidatagli non avrebbe potuto essere
posta in mani migliori. Aveva quarantacinque anni, era
piuttosto magro, di media statura, dotato di grande forza
morale più che di forza fisica. Possedeva abbastanza
energia, tuttavia, per sopportare le fatiche della sua
professione, e abbastanza coraggio per affrontarne i
pericoli. Abitava legalmente a Budapest, ma assai spesso
era altrove, occupato in qualche inchiesta delicata. La
perfetta conoscenza degli idiomi del sud-est europeo, del
tedesco e del rumeno, del serbo, del bulgaro e del turco, per
non parlare dell'ungherese sua lingua madre, gli permetteva
di non trovarsi mai in imbarazzo. Essendo oltre tutto
celibe, non aveva neppure preoccupazioni di carattere
familiare.
La sua nomina ebbe accoglienza favorevole. Il pubblico,
da parte sua, l'approvava all'unanimità. Nella grande sala
del «Ritrovo dei Pescatori», la notizia poi fu accolta in
modo particolarmente lusinghiero.
— Non potevano scegliere meglio, — diceva nel
momento in cui si accendevano le lampade dell'osteria il
signor Ivetozar, quello che aveva preso il secondo premio
del peso nel concorso allora terminato. — Lo conosco,
Dragoch. E un vero uomo.
— Abile — aggiunse il presidente Miclesco.
— Speriamo che riesca a ripulire le rive del fiume —
esclamò un croato chiamato Svrb (nome poco facile da
pronunciare) proprietario di una tintoria in un sobborgo di
Vienna. — La vita non vi è più tollerabile, a dire il vero!
— Karl Dragoch ha una brutta faccenda per le mani —
disse il tedesco Weber, scotendo il capo. — Bisognerà
vederlo all'opera.
— All'opera!… — disse il signor Ivetozar. — Vi è già,
non dubitate.
— Certamente! Karl Dragoch non è tipo da perdere
tempo — approvò il signor Miclesco. — Se la sua nomina
risale a quattro giorni fa, come dicono i giornali, almeno da
tre giorni è all'opera.
— Da dove comincerà? — chiese il signor Piscéa, un
rumeno dal nome predestinato per un pescatore alla lenza.
— Io sarei in imbarazzo, lo confesso, se fossi al suo posto.
— È proprio per ciò che non vi siete stato messo, mio
caro — disse scherzosamente un serbo. — Siate certo che
Dragoch non è affatto in imbarazzo, lui. In quanto a dirvi il
suo piano, è un'altra faccenda. Forse si è diretto a Belgrado,
forse è rimasto a Budapest. A meno che non abbia preferito
di venire proprio qui, a Sigmaringen, e che non sia in
questo momento tra di noi, al «Ritrovo dei Pescatori».
Questa supposizione suscitò grande ilarità.
— Tra di noi? — esclamò il signor Weber. — Voi ce la
volete dare a bere, Michael Michaelovitch. Che cosa
verrebbe a fare qui, dove, a memoria d'uomo, non c'è mai
stato alcun delitto?
— Non fosse altro — rispose Michael Michaelovitch —
che per assistere dopodomani alla partenza di Ilia Brusch.
Forse quest'uomo lo interessa… A meno che, naturalmente,
Ilia Brusch e Karl Dragoch non siano la stessa persona.
— Come? La stessa persona! — si gridò da ogni parte.
— Che volete dire?
— Diamine! Sarebbe magnifico! Sotto i panni del
premiato nessuno sospetterebbe il detective, che potrebbe
così ispezionare il Danubio in perfetta libertà.
Il fantasioso paradosso fece spalancare gli occhi agli
altri bevitori. Quel Michael Michaelovitch! Soltanto lui
avrebbe potuto avere un'idea del genere!
Ma Michael Michaelovitch non ci teneva molto a quel
paradosso.
— A meno… — cominciò, usando un'espressione che
gli era abituale.
— A meno?
— A meno che Karl Dragoch non abbia un altro motivo
per venire qui — proseguì passando direttamente a un'altra
ipotesi non meno fantasiosa.
— Quale motivo?
— Immaginate, ad esempio, che il progetto di
discendere il Danubio con la lenza in mano gli sembri
subdolo.
— Subdolo! Perché subdolo?
— Diamine, non sarebbe per niente stupido, per un
ladro, nascondersi nei panni di un pescatore, e soprattutto
di un pescatore così noto. La notorietà a volte protegge più
dell'incognito. Si potrebbe commettere di tutto, a
condizione di pescare tra un colpo e l'altro, nell'intento di
trarre in inganno gli altri.
— Sì, ma bisognerebbe saper pescare — obiettò con aria
saputa il presidente, — e questo è un privilegio riservato
alla gente onesta.
La riflessione morale, forse un po' azzardata, fu
freneticamente applaudita da tutti gli appassionati
pescatori. Michael Michaelovitch approfittò con tatto del
generale entusiasmo.
— Alla salute del presidente! — disse alzando il
bicchiere.
— Alla salute del presidente! — risposero i bevitori,
vuotando il proprio come un sol uomo.
— Alla salute del presidente! — disse uno che sedeva,
solo, a una tavola e che da alcuni istanti sembrava mostrare
vivo interesse alle battute scambiate intorno a lui.
Il signor Miclesco fu sensibile alla cortesia dello
sconosciuto e, per ringraziarlo, accennò verso di lui un
brindisi. Ritenendo che quel gesto cortese avesse rotto a
sufficienza il ghiaccio, il bevitore solitario si ritenne
autorizzato a comunicare le sue impressioni all'assemblea.
Ben detto — rispose. — La pesca è certamente un
piacere da gente onesta.
— Avremmo forse il piacere di parlare con un
confratello? — chiese il signor Miclesco, avvicinandosi
allo sconosciuto.
— Oh, con un dilettante, al più — rispose modestamente
quest'ultimo, — che s'interessa ai buoni colpi, ma che non
ha la presunzione di cercare di imitarli.
— Tanto peggio, signor…?
— Jaeger.
— Tanto peggio, signor Jaeger, perché debbo ritenere
che non avremo mai l'onore di annoverarvi tra i membri
dalla Lega Danubiana.
— Non si sa mai — rispose il signor Jaeger. — Forse un
giorno o l'altro mi deciderò… per la lenza, e quel giorno
sarò certamente dei vostri, se riuscirò a possedere i requisiti
richiesti per l'ammissione.
— Non dubitatene — disse subito il signor Miclesco,
lusingato dalla speranza di reclutare un nuovo aderente. —
Le condizioni, assai semplici, sono soltanto quattro. La
prima è quella di pagare la modesta quota annuale: è la più
importante.
— Benissimo — approvò ridendo il signor Jaeger.
— La seconda è quella di amare la pesca. La terza, di
essere un compagno simpatico: io credo che questa terza
condizione la possediate di già.
— Troppo buono! — lo ringraziò il signor Jaeger.
— La quarta consiste unicamente nella iscrizione del
nome e dell'indirizzo sull'elenco della Società. Ora,
conoscendo già il vostro nome, quando avrò l'indirizzo…
— Vienna, via Lipsia 45.
— Voi sarete regolare socio della Lega pagando venti
corone all'anno. I due interlocutori si misero a ridere di
tutto cuore.
— Nessun'altra formalità? — chiese il signor Jaeger.
— Nessun'altra.
— Nessun documento di identità da presentare?
— Signor Jaeger… — obiettò il signor Miclesco, — per
pescare alla lenza!…
— Giusto. Del resto, ciò non ha importanza. Tutti si
conoscono nella Lega Danubiana.
— Non è vero — rettificò il signor Miclesco. —
Pensate, alcuni nostri camerati abitano qui, a Sigmaringen;
altri sulle rive del Mar Nero, e ciò non facilita i rapporti di
buon vicinato.
— È vero!
— Il nostro stupefacente primo classificato dell'ultimo
concorso, ad esempio…
— Ilia Brusch?
— Sì, lui. Ebbene! nessuno lo conosce.
— Ma non è possibile!
— È possibile — affermò il signor Miclesco. — Fa parte
della Lega da non più di quindici giorni. Ilia Brusch è stato
una sorpresa per tutti noi; anzi, una vera rivelazione.
— Ciò che si dice un outsider, nel gergo delle corse.
— Proprio così.
— Da quale paese proviene questo outsider?
— È ungherese.
— Come voi, dunque. Perché voi siete ungherese, credo,
signor presidente?
— Puro sangue, signor Jaeger, ungherese di Budapest.
— Ilia Brusch invece?…
— È di Szalka.
— Da dove salta fuori Szalka?
— E una borgata, una piccola città, se vi fa piacere,
posta sulla riva destra dell'Ipoly, un fiume che si getta nel
Danubio, a poche leghe a nord di Budapest.
— Con quello, se non altro, signor Miclesco, potreste
avere rapporti di buon vicinato — rilevò il signor Jaeger
ridendo.
— Non prima di due o tre mesi, in ogni caso — rispose
sullo stesso tono il presidente. — Per il suo viaggio, gli
occorreranno certamente due o tre mesi…
— A meno che non faccia il viaggio! — insinuò il serbo
scherzosamente, unendosi senza tanti complimenti alla
conversazione.
Poiché si erano avvicinati altri pescatori, il signor Jaeger
e il signor Miclesco ora si trovarono al centro di un
gruppetto di persone.
— Che volete dire? — chiese il signor Miclesco. —
Avete
una
brillante
immaginazione,
Michael
Michaelovitch.
— Scherzavo, caro presidente — rispose il serbo. —
Tuttavia se Ilia Brusch non è, secondo voi, né un poliziotto
né un malfattore, allora avrà voluto prenderci in giro, allora
sarà semplicemente un burlone.
Il signor Miclesco si fece serio.
— Il vostro spirito è acido, Michael Michaelovitch —
rispose. — Ciò vi giocherà un brutto tiro, un giorno o
l'altro. Ilia Brusch mi ha dato l'impressione di un
brav'uomo e di una persona seria. Del resto, è membro
della Lega Danubiana: è tutto dire.
— Bravo! — si gridò da ogni parte.
Senza sembrare per nulla imbarazzato dalla lezione
ricevuta, il serbo colse con ammirevole presenza di spirito
l'occasione per un altro brindisi.
— In tal senso — disse, sollevando il boccale — bevo
alla salute di Ilia Brusch!
— Alla salute di Ilia Brusch! — risposero i presenti in
coro, incluso il signor Jaeger, il quale vuotò
coscienziosamente il suo bicchiere fino all'ultima goccia.
Il paradosso di Michael Michaelovitch non mancava
però di logica. Dopo aver clamorosamente annunciato la
sua intenzione, Ilia Brusch era sparito, non se ne era più
sentito parlare. Non era strano che si fosse dileguato nel
nulla? Non si poteva legittimamente supporre che egli
avesse voluto darla a bere a quei creduloni dei suoi
colleghi? L'attesa in ogni caso non sarebbe durata più a
lungo: ancora trentasei ore e la verità sarebbe venuta a
galla.
Coloro ai quali interessava quell'idea non dovevano far
altro che trasferirsi a monte di Sigmaringen. Vi avrebbero
incontrato certamente Ilia Brusch, se era quella persona
seria che il presidente Miclesco fiduciosamente sosteneva
che fosse.
Si poteva presentare però una difficoltà: la sorgente del
grande fiume era stata determinata con precisione? La
indicavano le carte con certezza? Non esisteva qualche
dubbio su questo punto? Quando si sarebbe cercato di
raggiungere Ilia Brusch in un certo posto, non sarebbe stato
egli in un altro?
Non c'è dubbio alcuno che il Danubio, l'Ister degli
antichi, nasce nel granducato di Baden: i geografi dicono
anche che è a sei gradi e dieci minuti di longitudine est e a
quarantasette gradi e quarantotto minuti di latitudine nord.
Ma questa determinazione, ammesso che sia giusta, è
spinta fino al minuto e non al secondo, la qualcosa può dar
luogo a una differenza di qualche importanza. Si trattava
quindi di gettare la lenza nel posto esatto in cui la prima
goccia d'acqua danubiana comincia a scorrere verso il Mar
Nero.
Secondo una leggenda che per lungo tempo ebbe il
valore di un dato geografico, il Danubio nascerebbe nel
giardino dei principi di Furstenberg e avrebbe per culla una
vasca di marmo, nella quale numerosi turisti vanno a
riempire il bicchiere. Bisognava dunque attendere Ilia
Brusch, il mattino del 10 agosto, sul bordo di questa vasca
inesauribile?
No; non è quella la vera e autentica sorgente del fiume.
Adesso sappiamo che essa è formata dalla confluenza di
due ruscelli, il Breg e il Brigach, che scendono da
un'altezza di ottocentosettantacinque metri, attraversano la
foresta dello Schwarzwald e si uniscono a
Donaueschingen, alcune leghe a monte di Sigmaringen,
dove prendono il nome di Donau, il francese Danubio.
Forse il Breg, che nasce nel Brisgau, essendo di
trentasette chilometri più lungo dell'altro, potrebbe essere
considerato la vera sorgente del Danubio.
Ad ogni buon conto la maggior parte dei soci della Lega,
con il loro presidente, e i curiosi più scaltri se ne andarono
a Donaueschingen, convinti che Ilia Brusch — se
effettivamente fosse partito – sarebbe partito di lì.
Sin dal mattino del 10 agosto essi si misero di sentinella
sulla riva del Breg, alla confluenza dei due ruscelli. Le ore
passavano ma dell'uomo del giorno nemmeno l'ombra.
— Non verrà — diceva l'uno.
— È un imbroglione — diceva l'altro.
— E noi tutti sembriamo degli stupidi ingenui! —
diceva Michael Michaelovitch, che non aveva il trionfo
modesto.
Soltanto il presidente Miclesco continuava a prendere la
difesa di Ilia Brusch.
— No — diceva. — Non crederò mai che un socio della
Lega possa ingannare i suoi colleghi! Ilia Brusch avrà dei
buoni motivi per essere in ritardo. Bisogna avere pazienza:
presto lo vedremo arrivare.
Il signor Miclesco aveva ragione di mostrarsi fiducioso:
un po' prima delle nove, un grido si alzò dal gruppo che
stava alla confluenza del Breg e del Brigach.
— Eccolo! eccolo!
A duecento passi, a un gomito del fiume, una chiatta
costeggiava fuori della corrente. Solo, a poppa, un uomo in
piedi la governava con un remo da bratto. Era proprio lui,
l'ungherese Ilia Brusch, colui che alcuni giorni prima, alla
gara della Lega Danubiana, aveva vinto i due primi premi.
Quando la chiatta ebbe raggiunto la confluenza
l'ungherese l'ancorò con un grappino alla riva. Ilia Brusch
scese a terra e tutti i curiosi gli si fecero intorno. Nel
vedere tutta quella gente che evidentemente non si
aspettava, egli parve un po' imbarazzato.
Il presidente Miclesco lo raggiunse e gli tese la mano,
che Ilia Brusch, dopo essersi tolto il berretto di lontra,
strinse rispettosamente.
— Ilia Brusch — disse il signor Miclesco con dignità
presidenziale — sono felice di rivedere il grande premiato
della nostra ultima gara.
Brusch ringraziò inchinandosi. Il presidente aggiunse:
— Dal fatto che siete qui alle sorgenti del nostro fiume
internazionale, noi deduciamo che state per mettere in
pratica il progetto di discenderlo, pescando alla lenza, sino
alla foce.
— Proprio così, signor presidente — rispose Ilia Brusch.
— Ed è da oggi stesso che comincerete a discenderlo?
— Da oggi, signor presidente.
— Come contate di effettuare il percorso?
— Abbandonandomi alla corrente.
— Con questa barca?
— Con questa barca.
— Senza alcuna sosta?
— Sì, alla notte.
— Sapete che si tratta di percorrere tremila chilometri?
— A dieci leghe al giorno, mi ci vorranno due mesi
circa.
— Vi auguro allora un buon viaggio, Ilia Brusch!
— Vi ringrazio, signor presidente!
Ilia Brusch salutò un'ultima volta e riprese posto nella
sua imbarcazione, mentre i curiosi facevano ressa per
vederlo partire.
Egli prese la lenza, vi mise l'esca e la depose sul sedile;
richiamò il grappino a bordo, spinse la barca con un
vigoroso colpo di gaffa e poi, sedendosi a poppa, lanciò in
acqua la lenza.
Un istante dopo la tirava su: un barbo si dimenava
attaccato all'amo. Sembrava un felice presagio! Mentre
virava tutti i presenti applaudirono con frenetici hoch! il
vincitore della gara della Lega Danubiana.
CAPITOLO III
IL PASSEGGERO DI ILIA BRUSCH
ERA DUNQUE cominciata la discesa del grande fiume che
avrebbe condotto Ilia Brusch attraverso il ducato di Baden,
i due regni del Württemberg e della Baviera, i due imperi
dell'Austria-Ungheria e della Turchia e i tre principati
dell'Hohenzollern, della Serbia e della Romania. 1
L'originale pescatore non avrebbe faticato molto durante
l'intero percorso di oltre settecento leghe: la corrente del
Danubio lo avrebbe trasportato sino alla foce alla velocità
di poco più di una lega all'ora, e cioè alla media di una
cinquantina di chilometri al giorno. Tra due mesi, egli
sarebbe stato così al termine del suo viaggio, a condizione
naturalmente che nessun incidente lo fermasse lungo il
percorso. Ma perché mai avrebbe dovuto subire ritardi?
La barca di Ilia Brusch misurava una dozzina di piedi;
era una specie di chiatta a fondo piatto, larga in mezzo
quattro piedi. A prora si arrotondava una tuga, sotto la
quale due uomini avrebbero potuto trovare riparo.
All'interno della tuga due casse laterali, a destra e a sinistra,
contenevano il ridottissimo guardaroba del proprietario.
Una volta chiuse, i loro coperchi potevano trasformarsi in
cuccette. A poppa, un'altra cassa faceva da panca e serviva
1
Questi due principati sono stati elevati a regni: la Romania nel 1881 e la
Serbia nel 1882. (N.d.A).
per custodire alcuni utensili di cucina.
È inutile aggiungere che la chiatta era provvista di tutto
quello che è indispensabile a un vero pescatore. Ilia Brusch
non avrebbe potuto farne a meno; secondo il programma di
cui aveva parlato con i soci il giorno del concorso, egli
durante il viaggio sarebbe vissuto esclusivamente della sua
pesca: avrebbe mangiato i pesci o li avrebbe venduti e con
il ricavato avrebbe fatto pasti più variati, senza dover
modificare il proprio programma.
Per Ilia Brusch, data l'ormai raggiunta notorietà, sarebbe
stato assai facile vendere il pesce catturato durante il
giorno.
Trascorse così la prima giornata. Se qualcuno però
avesse potuto seguire a vista Ilia Brusch, sarebbe rimasto
sorpreso, e con ragione, del poco entusiasmo che egli
sembrava mettere nella pesca, unica vera ragione di quella
stravagante impresa. Quando pensava che nessuno lo
osservasse, lasciava la lenza per vogare energicamente,
come se avesse voluto affrettare la marcia della barca. Se
vedeva qualche curioso sulla riva o se incrociava qualche
barcaiolo, afferrava la canna e, grazie alla sua destrezza,
non tardava a tirare fuori dall'acqua, tra gli applausi degli
spettatori, qualche bel pesce. Ma non appena i curiosi
erano spariti dietro un promontorio o il barcaiolo dietro un
gomito del fiume, egli riprendeva il remo e imprimeva alla
pesante chiatta una velocità che si aggiungeva a quella
della corrente.
Ilia Brusch aveva dunque qualche motivo per cercare di
abbreviare un viaggio che nessuno, tuttavia, l'aveva
costretto a intraprendere? Comunque sia, egli procedeva
abbastanza velocemente. Trascinato dalla corrente che alle
sorgenti del fiume era più rapida, remando ogni volta che
gli si presentava l'occasione favorevole, egli procedeva a
circa otto chilometri all'ora, o poco più.
Superate alcune località di nessuna importanza, egli
oltrepassò anche Tuttlingen, centro abbastanza noto, senza
fermarsi, benché alcuni suoi ammiratori gli facessero cenno
di accostare. Ilia Brusch declinò con un gesto l'invito,
rifiutandosi di interrompere la sua deriva.
Verso le quattro del pomeriggio giungeva all'altezza
della piccola città di Fridingen, a quarantotto chilometri dal
punto di partenza. Avrebbe volentieri bruciato anche
Fridingen, come le cittadine precedenti — se questa
espressione si adatta a una via d'acqua — se l'entusiasmo
popolare non glielo avesse impedito. Non appena apparve,
molte barche, dalle quali s'innalzavano numerosi evviva, si
staccarono dalla riva e circondarono il vincitore.
Ilia Brusch si arrese con garbo. Non doveva forse
vendere i barbi, le cantarelle, le lasche e gli spinelli che
saltellavano ancora nella sua rete, senza contare i numerosi
cefali, nome scientifico indicato con hottus? Non avrebbe
potuto certamente consumare da solo tutto quel pesce. Non
appena la chiatta si fermò, una cinquantina di persone gli si
strinsero intorno, chiamandolo per nome, rendendogli gli
onori che gli erano dovuti.
— Di qua, Brusch!
— Un boccale di buona birra, Brusch?
— Compriamo il vostro pesce, Brusch!
— Venti kreutzer, questo!
— Un fiorino, quello!
Il vincitore vendette il pesce a chi gli si faceva sotto,
ricavandone alcune belle monete sonanti. Se tanto
entusiasmo fosse durato per tutto il percorso, avrebbe
messo insieme, con il premio già incassato del concorso,
una bella sommetta.
Ma perché mai sarebbe dovuto cessare? Perché non
avrebbero dovuto più disputarsi i pesci di Ilia Brusch? Non
era forse un onore venire in possesso di un pesce pescato
da lui? Non avrebbe avuto neppur bisogno di andare a
vendere la sua merce a domicilio: il pubblico se la sarebbe
disputata sulla riva. La vendita era indubbiamente un'idea
geniale.
Oltre a vendere agevolmente il pesce, per quella sera
fioccarono anche gli inviti. Ilia Brusch, che non voleva
lasciare la sua imbarcazione, li rifiutò tutti, e rifiutò
energicamente anche vino e birra che tutti lo pregavano di
andare a bere con loro nelle osterie della riva. I suoi
ammiratori dovettero rinunciarvi e separarsi dal loro eroe,
dopo aver preso appuntamento per la partenza del giorno
dopo.
Ma il giorno dopo essi non trovarono più la chiatta. Ilia
Brusch era partito prima dell'alba e, approfittando della
solitudine dell'ora mattutina, remava energicamente
tenendosi in mezzo al fiume, a eguale distanza dalle rive
scoscese. Favorito dalla rapida corrente, egli passò verso le
cinque del mattino dinanzi a Sigmaringen, ad alcuni metri
dal «Ritrovo dei Pescatori». Un po' più tardi, qualche socio
della Lega si sarebbe affacciato per spiare inutilmente
l'arrivo del glorioso collega, che andando a quel ritmo
sarebbe stato ormai molto lontano.
Ad alcuni chilometri da Sigmaringen, Ilia Brusch si
lasciò alle spalle il Louchat, il primo affluente di sinistra
del Danubio.
La relativa lontananza dei centri abitati lungo quella
parte del fiume, indusse Ilia Brusch a remare
vigorosamente per l'intera giornata, dedicando alla pesca
appena il tempo necessario. Alla sera, dopo aver pescato
quel tanto che gli bastava per il suo nutrimento, si fermò in
piena campagna, un po' a monte della piccola città di
Mundelkingen, i cui abitanti non immaginavano
certamente che egli fosse così vicino.
Le due giornate seguenti furono uguali alla prima. Ilia
Brusch scarrocciò rapidamente dinanzi a Mundelkingen
prima del levar del sole e ancora di buon'ora superò la
grossa borgata di Ehingen. Alle quattro oltrepassava l'Iller,
grosso affluente di destra, e prima delle cinque ormeggiava
a un anello di ferro piantato nella banchina di Ulm, che
dopo la capitale, Stoccarda, era la più importante città del
Württemberg.
Il suo arrivo non era previsto per quel giorno, ma per la
sera tardi del giorno dopo. Non vi era quindi la solita folla
e contento di non essere riconosciuto, Ilia Brusch decise di
utilizzare il resto della giornata per una breve visita della
città.
Dire che la banchina fosse deserta non sarebbe del tutto
esatto. C'era un uomo che passeggiava e tutto lasciava
credere, anzi, che quell'uomo aspettasse proprio Ilia
Brusch. Dal momento in cui la chiatta era apparsa, egli
l'aveva seguita camminando lungo la riva. Con ogni
probabilità il vincitore della Lega Danubiana non sarebbe
riuscito a evitare le solite manifestazioni di simpatia.
Dopo che la chiatta fu ormeggiata alla banchina, l'uomo
non vi si accostò; rimaneva anzi a una certa distanza a
osservare, preoccupandosi di non essere visto. Era un uomo
di media corporatura, asciutto, con occhi vivaci, certamente
di oltre quarant'anni. Vestiva all'ungherese e aveva in mano
una valigia di cuoio.
Senza prestargli attenzione, Ilia Brusch ormeggiò
solidamente la barca, chiuse la porta della tuga, e si
assicurò che il coperchio delle casse avesse il lucchetto; poi
saltò a terra e s'incamminò per la prima via che conduceva
alla città.
L'uomo, dopo aver rapidamente deposto sulla chiatta la
valigia di cuoio che teneva in mano, lo seguì.
La sponda sinistra del Danubio, che attraversa Ulm, città
tipicamente tedesca, fa parte del Württemberg mentre
quella destra è bavarese.
Ilia Brusch camminava per le antiche strade
fiancheggiate da vecchie botteghe con uno sportello in
vetro, attraverso il quale i clienti concludono le trattative
restando fuori. Quando soffia il vento, le pesanti insegne a
forma di orso, di cervo, di corona o di croce sferragliano
rumorosamente ondeggiando dai loro sostegni.
Superate le vecchie mura, Ilia Brusch percorse il
quartiere dei macellai, trippai e conciatori; poi,
gironzolando a caso, giunse dinanzi alla cattedrale, una
delle più ardite della Germania. Il suo campanile
pretendeva di essere più alto di quello del duomo di
Strasburgo. Pretesa delusa, come tante altre umane: la
punta della sua guglia è alta appena trecentotrentasette
piedi.
Ilia Brusch non era uno scalatore e quindi nemmeno
pensò di salire sul campanile, da dove lo sguardo avrebbe
potuto abbracciare la città e la campagna circostante. Se lo
avesse fatto, sarebbe stato certamente seguito dallo
sconosciuto che, a sua insaputa, gli era sempre alle
calcagna. Lo seguì anche dentro la cattedrale, dove era
entrato per ammirare il tabernacolo, che il francese Duruy
aveva paragonato a un bastione con loggette e caditoie, e
gli stalli del coro, sui quali un artista del XV secolo ha
scolpito personaggi celebri dell'epoca.
L'uno dietro l'altro, essi passarono dinanzi al municipio,
antico edificio del XII secolo, e poi ridiscesero verso il
fiume.
Prima di giungere alla banchina, Ilia Brusch sostò un
istante a guardare un gruppo di giovani che camminavano
su alti trampoli, esercizio molto in voga a Ulm, anche se
non imposto, come lo è ancora nell'antica città universitaria
di Tubinga, le cui strade melmose e ineguali sono inadatte
ai semplici pedoni.
Per godersi meglio lo spettacolo — ragazzi e ragazze,
giovani e giovanette, tutti allegrissimi — Ilia Brusch si era
seduto a un caffè. Lo sconosciuto sedette a un tavolino
vicino al suo, ed entrambi si fecero servire un boccale della
famosa birra del paese.
Dieci minuti dopo si rimettevano in cammino, ma in
ordine inverso. Ora lo sconosciuto camminava in fretta per
primo; e quando Ilia Brusch, che lo seguiva senza saperlo,
raggiunse la chiatta, ve lo trovò seduto, come se lo
attendesse da molto tempo.
Era ancora giorno chiaro. Ilia Brusch l'aveva visto da
lontano, comodamente seduto sulla cassa di poppa, con una
valigia di cuoio giallo ai piedi. Sorpreso, affrettò il passo.
— Scusate, signore — disse saltando nella sua
imbarcazione — credo che siate in errore.
— Niente affatto — rispose lo sconosciuto. — È proprio
a voi che desidero parlare.
— A me?
— A voi, signor Brusch.
— Per quale motivo?
— Per proporvi un affare.
— Un affare! — ripeté il pescatore, sorpreso.
— Un eccellente affare — disse lo sconosciuto,
invitandolo con un gesto a sedersi.
L'invito era poco corretto, certamente, perché non usa
invitare a sedersi chi vi riceve in casa sua. Ma la fermezza
e la tranquilla sicurezza dello sconosciuto impressionarono
talmente Ilia Brusch che obbedì senza dir nulla.
— Conosco anch'io il vostro progetto — proseguì lo
sconosciuto — e so, quindi, che volete discendere il
Danubio vivendo esclusivamente del ricavo della vostra
pesca. Sono anch'io un appassionato dilettante di pesca e
desidererei vivamente interessarmi alla vostra impresa.
— In qual modo?
— Ve lo dico subito. Ma permettetemi prima di farvi
una domanda. Quale valore date al pesce che pescherete
nel corso del viaggio?
— Che cosa potrò ricavare dalla pesca, volete dire?
— Sì. Intendo dire, ciò che venderete, senza tener conto
di quello che consumerete personalmente.
— Un centinaio di fiorini, forse.
— Io ve ne offro cinquecento.
— Cinquecento! — ripeté Brusch sbalordito.
— In contanti e pagati in anticipo.
Ilia Brusch guardò colui che gli faceva quella strana
proposta; il suo sguardo doveva essere sin troppo
eloquente, perché quest'ultimo rispose al pensiero che il
pescatore non aveva espresso.
— State tranquillo, signor Brusch: non sono matto.
— Qual è allora il vostro scopo? — chiese il campione,
poco persuaso.
— Ve l'ho detto — rispose lo sconosciuto. — Desidero
interessarmi e partecipare alle vostre prodezze. C'è anche
l'amore per il rischio del giocatore: puntare su di voi
cinquecento fiorini, e vedere la somma rientrare un po' per
volta, ogni sera, con il ricavo delle vostre vendite.
— Ogni sera? — insistette Brusch. — Avreste dunque
l'intenzione di imbarcarvi con me?
— Certamente — disse lo sconosciuto. — Il mio
imbarco non sarebbe ovviamente compreso nei nostri patti
e vi sarebbero pagati altri cinquecento fiorini. Mille fiorini
in tutto, in contanti e in anticipo.
— Mille fiorini! — disse nuovamente Brusch, sempre
più sorpreso. La proposta era certamente tentatrice; ma il
nostro pescatore voleva evidentemente restare solo, perché
rispose brevemente:
— Mi dispiace, signore. Rifiuto.
La risposta, categorica, era stata espressa con tono
perentorio: non c'era che da accettarla. Ma l'appassionato
dilettante di pesca non era di quel parere e non parve
affatto sorpreso del rifiuto.
— Mi permettete, signor Brusch, di chiedervi il perché?
— chiese tranquillamente.
— Non ho alcun motivo di darvi delle spiegazioni.
Rifiuto, ecco tutto. Ne ho il diritto, credo — rispose Ilia
Brusch con un po' d'impazienza.
— Ne avete il diritto, certamente — confermò
l'interlocutore senza scomporsi. — Ma io non rinuncio al
mio, e vi prego di farmi conoscere i motivi della vostra
decisione. La mia proposta non aveva nulla di scortese, e
pretendo di essere trattato con cortesia.
Il tono non era intimidatorio, ma così fermo e autoritario
che Ilia Brusch ne fu impressionato. Teneva alla sua
solitudine, ma teneva ancor più a evitare una discussione
fuori luogo; e l'osservazione gli sembrava perfettamente
giustificata.
— Avete ragione — disse. — Ma non voglio esporvi al
rischio di un'operazione sbagliata.
— È una faccenda che riguarda me.
— Riguarda anche me, perché intendo pescare non più
di un'ora al giorno.
— E il resto del vostro tempo?
— Remare per andare più in fretta.
— Avete premura, dunque? Ilia Brusch si morse le
labbra.
— Premura o no — rispose seccamente — è così. Perciò
accettare i vostri cinquecento fiorini sarebbe un vero furto.
— Non più, ora che lo so — obiettò il compratore,
conservando una calma imperturbabile.
— Non lo sarebbe — rispose Brusch — se io mi
costringessi a pescare ogni giorno, sia pure per un'ora. Ma
non lo farò: voglio essere libero, voglio fare quello che
voglio.
— Lo farete — dichiarò lo sconosciuto. — Pescherete
soltanto quando ne avrete voglia. Ciò accrescerà il piacere
del rischio. So che siete abile; due o tre colpi fortunati e io
avrò il mio utile: perciò considero l'affare sempre
eccellente. Persisto nell'offrirvi cinquecento fiorini, e cioè
mille fiorini, imbarco compreso.
— E io persisto nel rifiutarli.
— E io vi ripeterò la domanda: perché?
Quella insistenza aveva certamente qualcosa d'insolito.
Ilia Brusch, calmo per temperamento, cominciava tuttavia
a perdere la pazienza.
— Perché? — rispose con vivacità. — Credo di avervelo
detto. Aggiungerò, giacché lo pretendete, che non voglio
persone a bordo. Non è proibito, immagino, amare la
solitudine.
— Certamente — rispose il suo interlocutore senza dar
segno di volersi alzare dalla panca sulla quale sembrava
incollato. — Con me sarete solo. Non mi muoverò dal mio
posto e non dirò una sola parola, se lo pretenderete.
— E la notte? — rispose Brusch, che cominciava ad
arrabbiarsi. — Credete che due persone starebbero comode
nella mia cabina?
— È abbastanza grande — rispose lo sconosciuto. —
Inoltre, mille fiorini possono ben compensare un po' di
fastidio.
— Forse lo possono — rispose Brusch sempre più
irritato — ma non lo voglio. No, cento, mille volte no. È
chiaro, credo.
— Chiarissimo — approvò lo sconosciuto.
— Allora? — chiese Ilia Brusch, indicando la banchina.
Ma il suo interlocutore non mostrò di comprendere il
gesto, nonostante fosse chiaro. Aveva tirato fuor di tasca
una pipa e la riempiva con cura. L'indifferenza esasperò
Ilia Brusch.
— Dovrò dunque trascinarvi a terra? — esclamò fuor di
sé. Lo sconosciuto aveva finito di riempire la pipa.
— Avreste torto — disse, senza che la sua voce tradisse
timore. — E ciò per tre motivi. Il primo è che una baruffa
provocherebbe l'intervento della polizia, che ci
obbligherebbe ad andare dal commissario, dare le
generalità e rispondere a un interminabile interrogatorio. Io
non mi ci divertirei, lo confesso; e a voi non farebbe
abbreviare il viaggio, come sembra che desideriate.
L'ostinato dilettante contava molto su quell'argomento, e
la sua speranza non andò delusa. Ilia Brusch si raddolcì
immediatamente e parve disposto ad ascoltare sino alla fine
l'arringa. Il facondo oratore, occupato ad accendere la pipa,
non si accorse dell'effetto delle sue parole. Mentre stava
per riprendere la sua tranquilla perorazione, un tizio che
Brusch, preso dalla discussione, non aveva visto
avvicinarsi, balzò nella chiatta. Il nuovo venuto indossava
l'uniforme dei gendarmi tedeschi.
— Il signor Ilia Brusch? — chiese il rappresentante della
forza pubblica.
— Son io — rispose l'interpellato.
— I vostri documenti, per favore?
La richiesta cadde come una pietra in uno stagno
tranquillo. Ilia Brusch parve chiaramente annichilito.
— I miei documenti? — balbettò. — Ma io non ho
documenti, tranne qualche lettera e la ricevuta dell'affitto
della casa dove abito a Szalka. Vi bastano?
— Questi non sono documenti — rispose il gendarme
con aria infastidita. — Il certificato di battesimo, il libretto
di circolazione, la carta di lavoro di un operaio, un
passaporto, questi sono documenti! Avete nulla del genere?
— Assolutamente nulla — disse Ilia Brusch, desolato.
— È un pasticcio per voi — mormorò il gendarme, il
quale sembrava sinceramente dispiaciuto di dover infierire.
— Per me! — protestò il pescatore. — Ma io sono una
persona onesta, vi prego di crederlo.
— Ne sono persuaso — asserì il gendarme.
— Non ho nulla da temere, da nessuno; e del resto sono
molto conosciuto. Sono il vincitore dell'ultima gara di
pesca della Lega Danubiana di Sigmaringen, di cui hanno
parlato tutti i giornali; e anche qui, qualcuno avallerà ciò
che dico.
— Lo cercheremo, state tranquillo — assicurò il
gendarme. — Nell'attesa, sono costretto a pregarvi di
seguirmi dal commissario, il quale accerterà la vostra
identità.
— Dal commissario! — esclamò Ilia Brusch. — Di che
cosa sono accusato?
— Di nulla — spiegò il gendarme. — Solo che io ho
l'ordine di sorvegliare il fiume e di condurre dal
commissario coloro che trovo sprovvisti di regolari
documenti. Siete sul fiume? Sì. Avete documenti regolari?
No. Quindi vi debbo condurre da lui. Il resto non mi
riguarda.
— Ma è un'indegnità — protestò Brusch, disperato.
— È così — dichiarò il gendarme, con flemma.
L'aspirante passeggero, la cui arringa era stata
bruscamente interrotta, e che aveva ascoltato così
attentamente, tanto da lasciare spegnere la pipa, ritenne che
fosse venuto il momento di intervenire.
— Se rispondessi io del signor Ilia Brusch? — chiese.
— Basterebbe?
— Dipende — disse il gendarme. — Voi chi siete?
— Ecco il mio passaporto — rispose il pescatore
dilettante porgendogli un foglietto spiegato.
Il gendarme gli diede un'occhiata e di colpo il suo
comportamento mutò completamente.
— La faccenda ora è diversa — disse.
Piegò con cura il passaporto e lo restituì al suo
proprietario. Poi, saltando sulla banchina:
— Arrivederci, signori — disse, rivolgendo un
rispettosissimo saluto al compagno di Brusch.
Sorpreso tanto dall'improvviso incidente quanto dal
modo inatteso in cui era stato risolto, Ilia Brusch seguiva
con lo sguardo il nemico che batteva in ritirata.
Nel frattempo il suo salvatore, riprendendo il filo del
discorso dal punto stesso in cui era stato interrotto,
proseguiva impietosamente:
— Il secondo motivo, signor Brusch, è che il fiume, per
ragioni a voi sconosciute, è strettamente sorvegliato, come
avete potuto vedere poco fa. La sorveglianza aumenterà
quando giungerete a valle, e più ancora, se possibile,
quando attraverserete la Serbia e le province bulgare
dell'Impero Ottomano, paesi in grande agitazione e che
sono persino ufficialmente in guerra dal 1° luglio. Durante
il vostro viaggio potrebbe nascere qualche incidente e, in
tal caso, non dovrebbe dispiacervi di poter contare
sull'aiuto di un onesto borghese, che per di più gode di una
certa autorità.
L'abile oratore conosceva l'importanza di questo
secondo argomento, confermata dall'incidente di poco
prima. Ma senza dubbio non sperava in un successo così
completo. Più che convinto, Ilia Brusch era deciso a
cedere; cercava solo una scusa plausibile per salvare la
faccia.
— Il terzo e ultimo motivo — continuava intanto il
candidato passeggero — è che mi rivolgo a voi da parte del
signor Miclesco, vostro presidente. Poiché avete posto la
vostra impresa sotto il patronato della Lega Danubiana,
questa vuole sorvegliarne lo svolgimento, così da poterne
garantire, in caso di necessità, la regolarità. Quando il
signor Miclesco ha saputo che avevo intenzione di unirmi a
voi, mi ha dato l'incarico quasi ufficiale. Mi rincresce di
non aver previsto la vostra incomprensibile resistenza e di
avere rifiutato le lettere di raccomandazione che egli
voleva darmi per voi. Ilia Brusch emise un sospiro di
sollievo. C'era forse miglior scusa per acconsentire a ciò
che aveva rifiutato con tanto accanimento?
— Bisognava dirlo! — esclamò. — In questo caso, la
cosa è molto differente; non sarebbe gentile da parte mia
respingere oltre le vostre proposte.
— Le accettate, dunque?
— Le accetto.
— Benissimo! — disse il pescatore dilettante, tirando
fuori di tasca alcuni biglietti di banca. — Ecco i mille
fiorini!
— Volete una ricevuta? — chiese Brusch.
— Se ciò non vi dispiace.
Il pescatore trasse fuori da una cassa inchiostro, penna e
taccuino, dal quale staccò un foglio; poi, alle ultime luci
del giorno, si mise a scrivere la ricevuta, leggendola nel
frattempo ad alta voce.
— Ricevo, in pagamento per quanto pescherò durante
tutto il mio viaggio e per pagamento d'imbarco da Ulm al
Mar Nero, la somma di mille fiorini dal signor…
— Dal signor…? — ripeté con la penna in aria.
Il passeggero di Ilia Brusch stava riaccendendo la pipa.
— Jaeger, via Lipsia 45, Vienna — rispose tra due
boccate di fumo.
CAPITOLO IV
SERGE LADKO
DEI MOLTI territori che dall'inizio della storia sono stati
particolarmente colpiti dalla guerra — ammettendo che
qualche paese possa vantarsi di aver beneficiato di un certo
favore — il sud e il sud-est dell'Europa meritano senza
dubbio il primo posto. Per la loro posizione geografica
queste regioni sono, in realtà, insieme con quel pezzetto
d'Asia compreso tra il Mar Nero e l'Indo, l'arena in cui
vengono fatalmente a scontrarsi le razze che popolano il
vecchio continente.
Fenici, greci, romani, persiani, unni, goti, slavi, magiari,
turchi e tanti altri si sono disputati, in tutto o in parte,
quelle disgraziate contrade, per non parlare delle orde
allora selvagge che le hanno attraversate per andare poi a
stabilirsi nell'Europa centrale e occidentale, dove, con lenta
elaborazione, hanno generato le moderne nazioni.
Secondo sapienti profeti il loro avvenire sarà tragico
quanto il loro passato. Con l'invasione gialla torneranno
necessariamente, un giorno o l'altro, le carneficine
dell'antichità e del medioevo. Quel giorno, la Russia
meridionale, la Romania, la Serbia, la Bulgaria, l'Ungheria,
la stessa Turchia, stupita di recitare una parte del genere —
se quel paese allora sarà ancora dei figli di Osman —
saranno per forza di cose l'avamposto avanzato dell'Europa
e a loro spese si decideranno i primi scontri.
Nell'attesa di tali cataclismi, per fortuna molto lontani, le
varie razze che nel corso dei secoli si sono susseguite tra il
Mediterraneo e i Carpazi hanno finito per sistemarsi, e la
pace — oh, la pace delle cosiddette nazioni civili! — non
ha cessato di estendere il suo impero verso l'Oriente. I
torbidi, i saccheggi, gli omicidi allo stato endemico
sembrano ormai limitati alla parte della penisola dei
Balcani ancora governata dagli osmanidi.
Penetrati per la prima volta in Europa nel 1356, padroni
di Costantinopoli nel 1453, i turchi si scontrarono con i
precedenti invasori, che, venuti dall'Asia centrale prima di
loro e da molto tempo convertiti al cristianesimo,
cominciavano sin d'allora a fondersi con le popolazioni
indigene e a organizzarsi in nazioni stabili e regolari.
Sempre ricominciando l'eterna battaglia per la vita, quelle
nascenti nazioni difesero con accanimento ciò che avevano
sottratto ad altri. Slavi, magiari, greci, croati, teutoni
opposero all'invasione turca una barriera vivente che, se
cedette da qualche parte, non poté essere completamente
abbattuta.
Contenuti al di qua dei Carpazi e del Danubio, gli
osmanidi non seppero mantenere quell'ultima posizione, e
la Questione d'Oriente non è che la testimonianza della
loro ritirata secolare.
Contrariamente agli invasori che li avevano preceduti e
che essi pretendevano di sloggiare, questi musulmani
asiatici non sono mai riusciti ad assimilarsi i popoli da loro
sottomessi. Dopo la conquista, essi continuavano a essere i
conquistatori, i padroni. Aggravato dalla differente
religione, tale metodo di governo non poteva avere altra
conseguenza che la rivolta permanente dei vinti.
La storia è piena infatti di rivolte di questo genere che
dopo secoli di lotte avevano dato origine, nel 1875,
all'indipendenza più o meno completa della Grecia, del
Montenegro, della Romania e della Serbia, mentre le altre
popolazioni cristiane continuavano a subire il dominio dei
seguaci di Maometto.
Nei primi mesi del 1875 quel dominio divenne ancora
più pesante e più vessatorio. In seguito a una reazione
musulmana che allora trionfava nel palazzo del sultano, i
cristiani dell'Impero Ottomano furono sovraccaricati
d'imposte, malmenati, uccisi, torturati in mille modi. La
risposta non si fece attendere. All'inizio dell'estate,
l'Erzegovina si ribellò ancora una volta.
Bande di patrioti batterono la campagna e, comandati da
capi valorosi come Peko-Paulowitch e Luibibratich,
inflissero molti scacchi alle truppe regolari mandate contro
di loro.
L'incendio si propagò in fretta, raggiunse il Montenegro,
la Bosnia e la Serbia. Una nuova sconfitta subita dai turchi
nelle gole della Duga, nel gennaio del 1876, finì con
l'infiammare il coraggio del popolo, mentre il furore
popolare cominciava a rumoreggiare in Bulgaria. Come
sempre, la rivolta ebbe inizio con cospirazioni segrete e
riunioni clandestine, alle quali partecipava di nascosto la
focosa gioventù del paese.
L'oratoria, l'intelligenza o l'ardente patriottismo fecero
emergere ben presto i veri capi: in poco tempo, ogni
gruppo e, al disopra del gruppo, ogni città, ebbe il suo.
A Russe, importante centro bulgaro posto sulla riva del
Danubio, quasi esattamente di fronte alla città romena di
Giurgievo, la scelta cadde, senza contestazioni, sul pilota
Serge Ladko. E non sarebbe stato possibile fare scelta
migliore.
Quasi trentenne, di alta statura, biondo come uno slavo
del nord, di forza erculea e di agilità poco comune, rotto a
ogni sforzo, Serge Ladko aveva le qualità fisiche del capo.
Ma ciò che più conta, ne possedeva le qualità morali:
prontezza di decisione, prudenza nell'esecuzione, amore
appassionato per il suo paese.
Serge Ladko, nato a Russe ove esercitava la professione
di pilota del Danubio, non aveva mai lasciato la sua città,
se non per pilotare o verso Vienna e ancora più su, o fino al
Mar Nero, barconi e chiatte che venivano affidati alla sua
perfetta conoscenza del grande fiume. Fra una navigazione
fluviale e una marittima egli dedicava il tempo libero alla
pesca, in cui era abilissimo, grazie anche alle sue doti
fisiche. Quanto guadagnava con la pesca insieme con gli
onorari di pilota, gli assicuravano una larga agiatezza.
Costretto dal doppio mestiere a trascorrere sul fiume i
quattro quinti della sua vita, l'acqua era diventata a poco a
poco il suo elemento. Attraversare il Danubio, largo a
Russe come un braccio di mare, era un gioco per lui; non si
potevano più contare i salvataggi compiuti da questo
meraviglioso nuotatore.
Un'esistenza così limpida e dignitosa, aveva reso Serge
Ladko popolare a Russe ancor prima dei torbidi anti-turchi.
Contava moltissimi amici, a volte a lui sconosciuti. Si
potrebbe dire che tutti gli abitanti della città gli erano
amici, se Ivan Striga non fosse esistito.
Ivan Striga era anch'egli figlio di quel paese, come Serge
Ladko, del quale era l'antitesi vivente.
Fisicamente i due non avevano nulla in comune e
tuttavia le caratteristiche sul passaporto sarebbero state
identiche.
Come Ladko, Striga era alto, con spalle ampie, robusto,
biondo di capelli e di barba. Aveva anch'egli occhi azzurri.
Ma la rassomiglianza si limitava soltanto a questi dati
somatici. Tanto i tratti nobili del viso dell'uno esprimevano
cortesia e franchezza, quanto i tratti tormentati dell'altro
rivelavano astuzia e fredda crudeltà.
Dal punto di vista morale la differenza era ancora più
accentuata. Mentre Ladko operava alla luce del sole,
nessuno avrebbe potuto dire in qual modo Striga si
procurasse il denaro che spendeva a piene mani. Non
sapendo nulla di preciso, la gente fantasticava senza freno.
Si diceva che Striga, traditore del paese e della sua gente,
facesse la spia al servizio del turco oppressore; si diceva
anche che, quando si presentava l'occasione, facesse pure il
contrabbandiere, e che merci di ogni genere passavano
spesso, per opera sua, dalla riva rumena alla riva bulgara e
viceversa, senza pagare dogana; si diceva ancora, e si
scuoteva il capo, che ciò era niente, che Striga traesse la
maggior parte delle sue ricchezze da volgari rapine e dal
brigantaggio; si diceva inoltre… Ma che cosa non si
diceva? Il fatto è che non si sapeva nulla di preciso sul
conto dell'inquietante personaggio; il quale, se le
supposizioni della gente rispondevano alla realtà, aveva
avuto, comunque, la grande abilità di non farsi mai
prendere con le mani nel sacco.
Quelle supposizioni, del resto, la gente se le confidava
con discrezione. Nessuno avrebbe osato pronunciare ad alta
voce una sola parola contro un uomo del quale si temeva il
cinismo e la violenza. Striga poteva fingere dunque di
ignorare l'opinione che si aveva di lui, scambiare per
ammirazione generale la simpatia che molti gli
dimostravano per viltà, usare la città come un paese di
conquista e turbarla, in compagnia di gente della peggiore
risma, con lo scandalo delle sue orge.
Tra tale individuo e Ladko, che conduceva un'esistenza
così diversa, sembrava che non potesse stabilirsi un
qualsiasi rapporto; per lungo tempo, infatti, essi non
seppero l'uno dell'altro che ciò che si diceva. La logica
faceva supporre che sarebbe stato sempre così, ma il
destino se ne infischia della logica, ed era scritto da
qualche parte che i due uomini si sarebbero trovati a faccia
a faccia, trasformati in avversari irreconciliabili.
Natcha Gregorevitch, celebre in città per la sua bellezza,
aveva vent'anni. Prima con sua madre, poi sola, ella abitava
vicino a Ladko, che conosceva sin dalla prima infanzia. Da
molto tempo la sua casa era priva dell'aiuto di un uomo.
Quindici anni prima dell'epoca in cui ha inizio questo
racconto, suo padre era caduto sotto i colpi dei turchi, e il
ricordo di quella morte faceva ancora fremere di
indignazione i patrioti oppressi, ma non asserviti. La
vedova, dovendo contare soltanto su se stessa, si era posta
coraggiosamente al lavoro. Esperta nell'arte del ricamo e
dei merletti, con i quali anche la più modesta contadina
slava si adorna volentieri, ella era riuscita così ad
assicurare il sostentamento suo e della figlia.
Ma è soprattutto ai poveri che i torbidi sono funesti; più
di una volta la ricamatrice avrebbe dovuto soffrire
dell'anarchia che regnava continuamente in Bulgaria, se
Ladko non le fosse venuto discretamente in aiuto. A poco a
poco, una grande intimità si era stabilita tra il giovane e le
due donne, le quali offrivano l'accogliente ospitalità della
loro tranquilla dimora alle ore d'ozio del giovane. Spesso
alla sera egli bussava alla loro porta e la veglia si
prolungava intorno al samovar bollente. Altre volte era lui
che
ricambiava
la
loro
affettuosa
ospitalità,
accompagnandole in una passeggiata o ad una partita di
pesca sul Danubio.
Quando la signora Gregorevitch sfinita dalle fatiche
andò a raggiungere il marito, Ladko continuò a proteggere
la fanciulla con tanto affetto che la giovane non ebbe mai a
soffrire per la scomparsa della madre che aveva dato due
volte la vita alla sua bambina.
Di giorno in giorno, senza che essi neppure se ne
rendessero conto, l'amore era sbocciato nel cuore dei due
giovani. Ne dovettero la rivelazione a Striga.
Invaghitosi di quella che tutti chiamavano la bellezza di
Russe, Striga, abituato a voler tutto e subito, era andato a
casa della giovinetta e le aveva chiesto di sposarlo. Ma per
la prima volta in vita sua, fu respinto con un netto rifiuto.
Senza tema di inimicarsi quell'uomo pericoloso, ella
dichiarò che non l'avrebbe mai sposato. Striga tentò ancora
di convincerla ma, al suo terzo tentativo, gli fu rifiutato il
permesso di entrare in casa.
Il suo selvaggio temperamento esplose allora con tale
collera che Natcha ne fu spaventata. Confidò i suoi timori a
Serge Ladko, che imprecò con rabbia contro colui che
aveva osato alzare gli occhi su di lei.
Ladko riuscì infine a calmarsi; e un'ora più tardi, dopo
aver confusamente parlato di tante cose con il cielo negli
occhi e la gioia nel cuore, scambiavano il loro primo bacio
di fidanzamento.
Quando Striga apprese la notizia mancò poco che non
morisse di rabbia. Si presentò audacemente in casa
Gregorevitch a offendere e minacciare. Cacciato
decisamente fuori, capì che in quella casa c'era un uomo
pronto a difenderla.
Era stato vinto! Lui, Striga, così orgoglioso della sua
forza atletica, aveva trovato qualcuno più forte di lui!
Poiché l'umiliazione gli riusciva insopportabile, decise di
vendicarsi. Con alcuni avventurieri del suo stampo, una
sera attese Ladko sulla riva del fiume. Non si trattava più di
una semplice rissa questa volta, ma di un assassinio in
piena regola. Gli assalitori avevano in pugno il coltello.
Ma fallì anche questo attacco. Ladko, usando un remo a
mo' di mazza, obbligò gli aggressori a ritirarsi; Striga,
stretto da vicino, si diede a una fuga vergognosa.
La lezione fu senza dubbio sufficiente a rintuzzare ogni
altro tentativo del losco individuo. Agli inizi dell'anno
1875 Serge Ladko e Natcha Gregorevitch si sposarono e
andarono a vivere nella comoda casa del pilota.
Dopo un anno di continua luna di miele, nei primi mesi
del 1876 accaddero gli avvenimenti di Bulgaria. L'amore
profondo che Serge Ladko nutriva per la moglie non
poteva fargli dimenticare il dovere verso il suo paese.
Senza esitare, egli si unì a tutti coloro che si trovarono per
discutere il modo di porre termine alle sventure della
patria.
Occorreva prima di tutto procurarsi delle armi. Molti
giovani a questo scopo attraversarono il fiume e si sparsero
in Romania e persino in Russia. Serge Ladko fu tra questi.
Con il cuore straziato, ma risoluto a compiere il proprio
dovere, parti, lasciando colei che adorava esposta ai
pericoli che minacciano, in tempi di rivoluzione, la moglie
di un capo partigiano.
In quel momento, il ricordo di Striga gli tornò alla
memoria, accrescendo le sue inquietudini. Non avrebbe
approfittato il bandito dell'assenza del felice rivale per
colpirlo in ciò che aveva di più caro? Era possibile,
ovviamente. Ma Serge Ladko superò questo legittimo
timore. Del resto, sembrava che da più mesi Striga avesse
lasciato definitivamente il paese.
A credere a ciò che si diceva, egli aveva trasferito più a
nord la zona principale delle sue operazioni, anche se le
notizie erano incoerenti e contraddittorie. Lo si accusava di
tutti i delitti senza che se ne specificasse uno solo.
La partenza di Striga sembrava, se non altro, certa: era
ciò che importava a Ladko.
La sua decisione coraggiosa fu premiata: durante la sua
assenza, nulla minacciò la sicurezza di Natcha.
Ritornò, ma dovette subito ripartire, e quella seconda
spedizione sarebbe stata più lunga della prima. I trasporti di
armi erano piuttosto scarsi poiché quelli che provenivano
dalla Russia erano effettuati via terra, attraverso l'Ungheria
e la Romania, e cioè attraverso zone allora scarsamente
provviste di linee ferroviarie. I patrioti bulgari pensarono di
mandare uno dei loro a Budapest per rispedire le armi
arrivate fin lì per ferrovia, su delle chiatte cha avrebbero
poi disceso rapidamente il Danubio.
Incaricato di tale missione di fiducia, Ladko si mise in
cammino sin dalla stessa sera. Insieme con un compatriota,
che avrebbe riportato il battello sulla riva bulgara,
attraversò il fiume, nell'intento di raggiungere al più presto,
attraverso la Romania, la capitale dell'Ungheria. Accadde
però un incidente che diede molto da pensare al delegato
dei cospiratori.
Era con il compagno a cinquanta metri dalla riva,
quando udì uno sparo. Il proiettile era indirizzato a loro,
senza alcun dubbio: lo avevano sentito fischiare molto
vicino. Il pilota ne fu quasi sicuro, avendo creduto di
riconoscere nell'incerta luce del crepuscolo colui che aveva
sparato: Striga. Era dunque tornato a Russe?
L'angoscia mortale che lo colse, non scosse però la sua
decisione: la sua vita apparteneva alla patria. Se necessario,
avrebbe sacrificato anche la sua felicità, mille volte più
preziosa della vita. Al rumore dello sparo, si era lasciato
cadere in fondo all'imbarcazione: era un'astuzia di guerra,
per scoraggiare un nuovo attacco; l'eco dello sparo non si
era ancora spento che la sua mano, afferrato strettamente il
remo, spingeva rapidamente il battello verso la città
romena di Giurgievo, le cui luci cominciavano a
picchiettare la crescente oscurità.
Giunto a destinazione, Ladko si occupò attivamente
della sua missione.
Si mise in rapporto con gli emissari del governo dello
zar, alcuni alla frontiera russa, altri stabilitisi in incognito a
Budapest e a Vienna. Varie chiatte, fatte caricare da lui
d'armi e di munizioni, discesero il Danubio.
Riceveva spesso lettere di Natcha, inviate al nome di
battaglia da lui scelto, e portate in territorio romeno con il
favore della notte. Inizialmente buone, quelle notizie non
tardarono a farsi inquietanti. Non che Natcha facesse il
nome di Striga; ella sembrava persino ignorare che il
bandito fosse tornato in Bulgaria. Ladko cominciò a
dubitare perciò che i suoi timori fossero fondati. Per
contro, egli era certo di essere stato denunciato alle autorità
turche; la polizia infatti aveva fatto irruzione a casa sua,
facendovi un'accurata perquisizione, del resto senza
risultato. Egli non doveva aver fretta, quindi, di tornare in
Bulgaria, perché il suo ritorno sarebbe stato un vero
suicidio. Si sapeva quale parte egli recitasse, era spiato
giorno e notte, e non avrebbe potuto farsi vedere in città
senza essere immediatamente arrestato. Farsi arrestare dai
turchi voleva dire essere giustiziato; bisognava dunque che
Ladko non si facesse più vedere fino al momento in cui la
rivolta fosse scoppiata, per non attirar mali peggiori su di
sé e sulla moglie, che finora non era stata per nulla
infastidita.
Quel momento non tardò a giungere. La rivolta scoppiò
nel mese di maggio, troppo presto a parere del pilota, che
da quella fretta non traeva buoni auspici.
Qualunque fosse la sua opinione al riguardo, egli doveva
correre in aiuto del suo paese. Il treno lo condusse a
Zombor, ultima città ungherese nelle vicinanze del
Danubio servita dalla ferrovia, ove si sarebbe imbarcato e
non avrebbe avuto da far altro che lasciarsi trasportare
dalla corrente.
Le notizie avute a Zombor lo costrinsero a interrompere
il viaggio; i suoi timori erano più che giustificati: la
rivoluzione bulgara era stata soffocata sul nascere. Già la
Turchia concentrava numerose truppe nel vasto triangolo le
cui punte erano costituite dalle città di Russe, Widdin e
Sofia: il pugno di ferro si appesantiva maggiormente su
quelle infelici contrade.
Ladko dovette tornare indietro e aspettare giorni migliori
nella cittadina in cui aveva stabilito la sua residenza.
Dalle lettere che Natcha gli aveva subito scritto, capì che
non poteva fare altrimenti. La sua casa era sorvegliata
continuamente, tanto che sua moglie doveva considerarsi
virtualmente prigioniera; era atteso più che mai al varco e
doveva, nel comune interesse, astenersi da qualsiasi passo
imprudente.
Ladko fu costretto controvoglia all'inazione, avendo
dovuto cessare qualsiasi invio di armi in seguito al
fallimento della rivolta e alla concentrazione di truppe
turche sulle rive del fiume. Ma l'attesa, già penosa, si fece
intollerabile quando, verso la fine del mese di giugno, non
ricevette più notizie dalla moglie.
Non sapeva che cosa pensare; le sue inquietudini con il
passare del tempo si trasformarono in angosciose torture.
Temeva il peggio. Il 1° luglio la Serbia aveva ufficialmente
dichiarato guerra al Sultano e, da allora, la regione
danubiana era attraversata da truppe, il cui incessante
passaggio dava luogo a terribili eccessi. Natcha era tra le
vittime di quei torbidi? Oppure era stata arrestata dalle
autorità turche quale ostaggio o quale complice presunta
del marito?
Dopo un mese, egli non riuscì più a sopportare quel
silenzio e decise di sfidare ogni cosa, pur di rientrare in
Bulgaria e conoscerne la vera causa.
Nell'interesse della moglie, era necessario però agire con
prudenza. Farsi prendere scioccamente dalle sentinelle
turche non sarebbe servito a nulla. Il suo ritorno sarebbe
stato utile soltanto se fosse riuscito a entrare nella città di
Russe per circolarvi liberamente, nonostante i sospetti di
cui era oggetto. Avrebbe agito meglio in seguito, a seconda
delle circostanze. Nel peggiore dei casi, se fosse stato
necessario ripassare precipitosamente la frontiera, egli
avrebbe avuto almeno la gioia di stringere la moglie al
cuore.
Per più giorni Serge Ladko cercò una soluzione a quel
difficile problema. Credette alla fine di averla trovata e,
senza dir nulla ad alcuno, mise subito in azione il piano
immaginato.
Gli sarebbe riuscito? L'avvenire glielo avrebbe detto.
Bisognava in ogni caso tentare la sorte. Per questo motivo,
la mattina del 28 luglio 1876 i vicini di casa del pilota, del
quale nessuno conosceva il vero nome, videro
ermeticamente chiusa la casetta nella quale, da più mesi,
egli aveva protetto la sua solitudine.
Qual fosse il piano di Ladko e quali i pericoli a cui si
sarebbe esposto nel tentativo di metterlo in esecuzione; in
qual modo gli avvenimenti di Bulgaria e di Russe in
particolare si collegassero con la gara di pesca di
Sigmaringen, è ciò che il lettore saprà leggendo il seguito
di questo racconto tutt'altro che immaginario: i suoi
principali personaggi vivono ancor oggi sulle rive del
Danubio.
CAPITOLO V
KARL DRAGOCH
NON APPENA ebbe messo in tasca la ricevuta il signor
Jaeger pensò a sistemarsi. Dopo aver chiesto quale delle
due cuccette gli era stata assegnata, sparì con la valigia
sotto la tuga. Ricomparve dopo dieci minuti, trasformato da
capo a piedi in perfetto pescatore: giubbotto, robusti stivali
e berretto di lontra — sembrava la copia di Ilia Brusch.
Il signor Jaeger fu un po' sorpreso nel constatare che nel
corso della sua breve assenza il suo ospite aveva lasciato la
chiatta. Rispettoso degli impegni assunti, non fece alcuna
domanda quando Brusch, mezz'ora dopo, fece ritorno.
Senza esserne sollecitato, Ilia Brusch gli disse che aveva
mandato una lettera ad alcuni giornali per annunciare il suo
arrivo a Ratisbona per il giorno seguente, e a Neustadt per
la sera del giorno successivo. Ora che c'erano di mezzo gli
interessi del signor Jaeger, bisognava far accorrere gente,
non come a Ulm. Ilia Brusch manifestò anche il suo
rincrescimento per non potersi fermare nelle città che
avrebbero attraversate prima di Neustadt, particolarmente a
Neuburg e a Ingolstadt, che sono importanti. Tali soste non
rientravano purtroppo tra quelle da lui pianificate ed era
perciò costretto a rinunciarvi.
Il signor Jaeger parve più che contento della propaganda
fatta nel suo interesse e non manifestò alcun rincrescimento
per le mancate soste a Neuburg e a Ingolstadt. Al contrario,
approvò e diede all'ospite nuove assicurazioni che non era
suo intendimento mettere alcun ostacolo alla sua libertà.
I due compagni cenarono poi seduti l'uno di fronte
all'altro a cavalcioni di un sedile. A titolo di benvenuto, il
signor Jaeger ringagliardì persino il pasto con un superbo
prosciutto, tratto fuori dall'inesauribile valigia: il prodotto
della città di Magonza fu molto apprezzato da Ilia Brusch,
che cominciò a credere che nel compagno ci fosse qualcosa
di buono.
La notte trascorse senza alcun incidente. Prima del levar
del sole Ilia Brusch sciolse l'ormeggio, evitando di
disturbare il sonno del cortese passeggero.
A Ulm, dove finisce di attraversare il piccolo regno di
Württemberg per penetrare in Baviera, il Danubio è ancora
un modesto corso d'acqua. Non ha ancora ricevuto i grandi
tributari che a valle accrescono la sua possanza, e nulla
lascia credere che esso diventerà uno dei più importanti
fiumi d'Europa.
La corrente, già molto placida, raggiungeva press'a poco
una lega all'ora. Barche di ogni dimensione, tra le quali
alcuni pesanti battelli carichi fino all'orlo, la discendevano
aiutandosi a volte con una grande vela che la brezza del
nord-ovest gonfiava. Il tempo si annunciava al bello e non
c'era minaccia alcuna di pioggia.
Non appena fu nel centro della corrente, Ilia Brusch
manovrò il remo e sollecitò la marcia dell'imbarcazione.
Alcune ore dopo, il signor Jaeger lo trovò ancora dedito a
quella occupazione, che proseguì fino a sera, tranne una
breve sosta al momento della colazione, durante la quale
non fu interrotta neppure la deriva. Il passeggero non
chiese spiegazioni su tanta fretta e si tenne la meraviglia
per sé.
Nel corso della giornata furono scambiate poche parole.
Ilia Brusch remava energicamente; il signor Jaeger, da
parte sua, scrutava con un'attenzione che avrebbe
certamente stupito l'ospite — se fosse stato meno assorto
nel suo compito — i battelli che solcavano il Danubio e le
due rive del fiume che si erano sensibilmente abbassate. Il
Danubio mostrava tendenza anche ad allargarsi a spese
della terraferma. La riva sinistra, a metà sommersa, non si
distingueva più con esattezza, mentre sulla riva destra,
sollevata artificialmente per costruirvi la strada ferrata,
passavano i treni trascinati da locomotive sbuffanti che
univano il loro fumo a quello dei battelli a vapore, le cui
ruote battevano l'acqua con fracasso.
A Offingen, davanti al quale passarono nel pomeriggio,
la ferrovia piegava verso sud, allontanandosi
definitivamente dal fiume; la riva destra si trasformava a
sua volta in una vasta palude, della quale nulla indicava la
fine. Alla sera si fermarono a Dillingen per trascorrervi la
notte.
Il giorno seguente, dopo un andare pressante quanto
quello del giorno prima, il grappino fu lanciato in un punto
deserto, ad alcuni chilometri a monte di Neuburg: l'alba del
15 agosto si alzò quando la chiatta era già in mezzo alla
corrente.
Ilia Brusch aveva annunciato il suo arrivo a Neustadt per
la sera di quel giorno. Si sarebbe vergognato di
presentarvisi a mani vuote. Le condizioni atmosferiche
erano favorevoli e la tappa sensibilmente più breve delle
precedenti: Ilia Brusch decise dunque di pescare.
Sin dalle prime ore del giorno, egli controllò
accuratamente i suoi attrezzi. Seduto a poppa, il suo
compagno osservava con interesse, come si conviene a un
vero dilettante.
Pur lavorando, Ilia Brusch non disdegnava
chiacchierare.
— Come vedete, signor Jaeger, oggi mi preparo a
pescare e i preparativi sono un po' lunghi. Il fatto è che il
pesce è diffidente per natura e non si prendono mai troppe
precauzioni per attirarlo. Alcuni pesci, tra cui la tinca, sono
molto intelligenti. Bisogna giocare d'astuzia con essa; la
sua bocca è talmente dura che si corre il rischio di rompere
la lenza.
— La tinca non è saporita, credo — fece notare il signor
Jaeger.
— No; preferisce le acque melmose che danno alla sua
carne un cattivo sapore.
— E il luccio?
— Il luccio è eccellente — disse Brusch — purché non
pesi meno di cinque o sei libbre. Più piccoli sono tutte
spine. Comunque, non si può dire che il luccio sia un pesce
intelligente e astuto.
— Davvero, signor Brusch? Perciò i pescecani d'acqua
dolce, come essi sono chiamati…
— Sono bestie stupide come quelli d'acqua salata. Sono
veri bruti, allo stesso livello del pesce persico e
dell'anguilla! Catturarli può dare guadagno, mai onore…
Sono, come ha scritto uno che se ne intendeva, pesci «che
si prendono» ma «che nessuno prende».
Il signor Jaeger non poteva che ammirare la persuasiva
convinzione di Ilia Brusch, non meno della cura minuziosa
con cui preparava i suoi attrezzi.
Per prima cosa aveva preso la canna flessibile e leggera,
l'aveva piegata fino al punto di rottura per poi lasciarla
raddrizzare come prima. La canna si componeva di due
parti: una forte, alla base, di quattro centimetri che si
riducevano a un centimetro nel punto in cui cominciava la
seconda, il cimino, sottile e resistente. In legno di nocciolo,
la canna era lunga quasi quattro metri, il che consentiva al
pescatore di adescare, stando sulla riva, i pesci di fondo,
quali la cantarella e la lasca rossa.
Nel mostrare al signor Jaeger gli ami che aveva finito di
fissare con la setola all'estremità del crine di Firenze, Ilia
Brusch disse:
— Vedete, signor Jaeger, sono ami numero undici, dal
corpo finissimo. Come esca, non c'è nulla di meglio per la
lasca; si tratta di grano cotto, bucato soltanto da una parte e
ben ammollito… Ho finito, non ho che da tentare la
fortuna.
Mentre il signor Jaeger si appoggiava contro la tuga, egli
sedette sul banco con il guadello a portata di mano e lanciò
la lenza con un ondeggiamento bilanciato ed elegante. Gli
ami affondarono nell'acqua giallastra, tenuti verticali dal
piombino. Sopra galleggiava il gavitello di piume di cigno
che sono ottime perché non assorbono l'acqua.
È superfluo dire che a partire da quel momento si fece
un profondo silenzio nell'imbarcazione. Le voci spaventano
troppo facilmente il pesce; del resto, un pescatore serio ha
ben altro da fare che abbandonarsi alle chiacchiere. Deve
badare a ogni movimento del gavitello per non lasciare
sfuggire l'istante preciso in cui uncinare la preda.
Fu una buona mattina, quella, per Ilia Brusch. Non
soltanto pescò una ventina di lasche, ma prese anche una
dozzina di cavedine e alcuni bardi. Se il signor Jaeger fosse
stato veramente quell'appassionato dilettante che si era
vantato di essere, avrebbe ammirato la rapida precisione
con la quale il suo ospite uncinava la preda, come occorre
fare con i pesci di quella specie. Con l'imperturbabile
sangue freddo che distingue ogni pescatore degno di questo
nome, appena sentiva che il pesce «mordeva» non lo tirava
subito fuori dell'acqua; lo lasciava stancare sul fondo
nell'inutile tentativo di staccarsi dall'amo.
La pesca ebbe termine verso le undici. Durante la bella
stagione il pesce, infatti, non morde nelle ore in cui il sole,
raggiunto il suo punto culminante, fa scintillare la
superficie dell'acqua. Il bottino del resto era abbondante.
Ilia Brusch temeva persino che fosse troppo per Neustadt,
una piccola città ove la chiatta si fermò verso le cinque.
S'ingannava. Venticinque o trenta persone lo
aspettavano e lo applaudirono, non appena si fu
ormeggiato. Non sapeva a chi dare ascolto: in pochi istanti
i pesci furono venduti per ventisette fiorini, che Ilia Brusch
versò seduta stante al signor Jaeger, quale primo dividendo.
Cosciente di non aver diritto alla pubblica ammirazione,
questo si era modestamente ritirato sotto la tuga, ove Ilia
Brusch lo raggiunse appena gli fu possibile. Era meglio
infatti, non avendo molto tempo a disposizione, mettersi
subito a dormire. Poiché voleva raggiungere di buon'ora
Ratisbona, Ilia Brusch aveva deciso di partire verso l'una di
notte per percorrere i circa settanta chilometri che lo
separavano da quella città: avrebbe avuto la possibilità di
pescare anche nel corso della giornata, nonostante la
lunghezza della tappa.
Prima di mezzogiorno Brusch aveva già pescato una
trentina di libbre di pesce. I curiosi che si affollavano sulla
banchina di Ratisbona non rimpiansero di essersi
scomodati. L'entusiasmo cresceva visibilmente: furono
addirittura create all'aria aperta vere e proprie aste e le
trenta libbre di pesce fruttarono quarantuno fiorini.
Il campione della Lega Danubiana non aveva mai
immaginato una tale abbondanza e pensava che il signor
Jaeger poteva aver fatto, in fin dei conti, un ottimo affare.
Nell'attesa di chiarire questo punto, Ilia Brusch voleva
versare i quarantuno fiorini al legittimo proprietario, ma gli
fu impossibile. Il signor Jaeger infatti era sceso a terra,
lasciando in evidenza un breve scritto con il quale pregava
di non attenderlo per la cena, perché sarebbe tornato tardi.
Ilia Brusch ritenne normale che il signor Jaeger avesse
voluto approfittare di quella occasione per visitare una città
che per cinquant'anni era stata sede della Dieta imperiale.
Sarebbe stato, forse, meno soddisfatto e più sorpreso se
avesse saputo a quale occupazione si era dedicato il suo
passeggero e se ne avesse conosciuto la vera identità.
«Signor Jaeger, via Lipsia 45, Vienna», aveva scritto
docilmente Ilia Brusch, sotto dettatura da parte del nuovo
venuto. Ma quest'ultimo sarebbe stato imbarazzatissimo se
il pescatore si fosse mostrato più curioso, e al pari
dell'indiscreto gendarme avesse avuto la spiacevole idea di
chiedergli di mostrargli i documenti.
Ilia Brusch avrebbe giustamente potuto farlo, ma non
l'aveva pensato e questa dimenticanza gli sarebbe costata
cara.
Quale nome il gendarme tedesco aveva letto sul
passaporto del signor Jaeger nessuno lo sa; ma se quel
nome era proprio quello vero, il gendarme vi aveva letto
quello di Karl Dragoch.
L'appassionato dilettante di pesca e il capo della polizia
danubiana non erano, infatti, che una sola persona. Deciso
a salire a tutti i costi sull'imbarcazione di Ilia Brusch, Karl
Dragoch, prevedendo la possibilità di un'invincibile
resistenza, aveva preparato i suoi piani: l'intervento del
gendarme era stato predisposto e la scena recitata come a
teatro.
L'avvenimento dimostrava che Karl Dragoch aveva
colpito giusto: Ilia Brusch, infatti, riteneva ora una grossa
fortuna avere, tra tanti pericoli, un protettore così potente.
Il successo era stato così completo che Dragoch ne era
rimasto turbato. Perché, dopo tutto, Ilia Brusch aveva
mostrato tanta preoccupazione dinanzi all'ingiunzione del
gendarme? Perché aveva preferito sacrificare il suo amore
— anche eccessivo — per la solitudine, pur che un fatto del
genere non si ripetesse? Un uomo onesto, diamine!, non
deve aver tanta paura di comparire dinanzi a un
commissario di polizia. Il peggio che possa capitare è di
perdere alcune ore o alcuni giorni al più, e quando non si
ha fretta… Ma Ilia Brusch aveva anche fretta e questo dava
da pensare.
Diffidente per temperamento, come ogni buon
poliziotto, Karl Dragoch rifletteva. Ma egli aveva anche
troppo buon senso per lasciarsi sviare dai piccoli
particolari, semplici forse da spiegarsi. Egli si limitò a
registrarli nella sua memoria, e diresse tutte le sue risorse
alla soluzione molto più seria del problema.
L'idea di diventare il passeggero di Ilia Brusch non era
tutta sua. Il vero autore ne era Michael Michaelovitch, che
però non lo sapeva. Quando il faceto serbo aveva
scherzosamente insinuato, al «Ritrovo dei Pescatori», che il
campione della Lega Danubiana poteva essere, a scelta, sia
il malfattore ricercato sia il poliziotto che lo cercava, Karl
Dragoch aveva prestato molta attenzione alle supposizioni
fatte con tanta leggerezza. Non le aveva certamente prese
per oro colato. Aveva buoni motivi per sapere che il
pescatore e il poliziotto non avevano nulla in comune; e
analogamente, il pescatore e il malfattore ricercato. Ma se
una cosa non è stata fatta non è detto che non si possa fare;
Karl Dragoch aveva subito pensato che l'allegro serbo
avesse ragione, e che un poliziotto che volesse
comodamente sorvegliare il Danubio sarebbe stato
veramente in gamba a nascondere la sua vera identità sotto
i panni di un noto pescatore.
L'idea era buona, ma bisognava rinunciarvi. Vincitore
del concorso di Sigmaringen, Ilia Brusch aveva annunciato
pubblicamente il suo progetto, e certamente non si sarebbe
prestato volentieri a una sostituzione di persona, difficile
oltretutto, poiché i suoi tratti somatici erano noti a tutti.
Ma se pur bisognava rinunciare all'idea di intraprendere
il viaggio sotto le mentite spoglie di Ilia Brusch, esisteva
forse un'altra possibilità per raggiungere lo scopo. Karl
Dragoch poteva accontentarsi di ottenere un passaggio
sulla sua imbarcazione. Chi avrebbe mai prestato
attenzione al compagno di quell'uomo ormai celebre e che
di conseguenza attirava su di sé l'attenzione di tutti? E se
anche qualcuno avesse per caso lasciato cadere lo sguardo
sull'ignoto compagno, come poteva stabilire un qualsiasi
rapporto tra lo sconosciuto e il poliziotto che svolgeva la
sua missione nell'ombra?
Esaminato il progetto a lungo, Karl Dragoch lo giudicò
in ultima analisi eccellente e risolse di attuarlo. Abbiamo
visto con quale maestria egli avesse organizzato la scena
iniziale, che, se necessario, poteva essere seguita da molte
altre. In caso di necessità, Ilia Brusch sarebbe stato
condotto dal commissario, imprigionato con false accuse,
spaventato in mille modi: sicuramente Karl Dragoch
avrebbe commesso senza rimorso qualsiasi abuso per
convincere il pescatore atterrito di essere il suo salvatore.
Il poliziotto, comunque, era contento di averla spuntata
senza adoperare alcuna violenza morale e senza altre farse.
Ora egli era certo che se avesse finto di voler
abbandonare la chiatta il suo ospite si sarebbe opposto alla
sua partenza con la stessa insistenza con la quale prima lo
aveva respinto. Occorreva sfruttare quella situazione.
Per fare ciò, Karl Dragoch non doveva che lasciarsi
trasportare dalla corrente: mentre il compagno pescava o
remava, egli avrebbe sorvegliato il fiume, senza lasciar
sfuggire nulla al suo occhio attento. Strada facendo,
avrebbe parlato con gli uomini da lui disseminati lungo le
rive. Alla prima notizia di un delitto oppure di un crimine,
avrebbe abbandonato Ilia Brusch per correre sulle tracce
dei malfattori; e avrebbe fatto la stessa cosa, all'occorrenza,
se un qualcosa di sospetto avesse attratto la sua attenzione.
Tutto ciò era stato predisposto con molta cura; più vi
pensava, più Karl Dragoch si compiaceva della sua idea; la
quale, assicurandogli l'incognito lungo tutto il Danubio,
moltiplicava le sue possibilità di successo.
Ma il poliziotto, troppo razionale, non teneva conto del
caso. Egli non immaginava che un susseguirsi di eventi
insoliti avrebbe, pochi giorni dopo, indirizzato le sue
ricerche in una direzione imprevista e dato alla sua
missione una inattesa estensione.
CAPITOLO VI
GLI OCCHI AZZURRI
LASCIATA la riva, Karl Dragoch raggiunse i quartieri del
centro. Conosceva Ratisbona e senza esitazione si cacciò
attraverso le vie, fiancheggiate qua e là di torrioni feudali,
di questa città un tempo rumorosa, alla quale ora la
popolazione ridotta a ventimila anime non dà più vita.
Karl Dragoch non intendeva visitare la città, come
credeva Ilia Brusch; egli non viaggiava da turista. A poca
distanza dal ponte si trovò dinanzi alla cattedrale dalle torri
non finite, ma egli diede soltanto un'occhiata distratta al
suo strano portale del XV secolo. Non sarebbe certamente
andato al palazzo dei principi di Tour e di Taxis ad
ammirare la cappella gotica e il chiostro ogivale, e neppure
la biblioteca delle pipe, bizzarra curiosità dell'antico
convento. Non avrebbe visitato neppure la Rathaus,
l'odierno municipio, un tempo sede della Dieta, la cui sala è
ornata di vecchi arazzi, e ove la camera di tortura con i suoi
vari strumenti è fatta visitare, non senza orgoglio, dal
portinaio. Egli non avrebbe speso un trinkgeld, la mancia
tedesca, per un cicerone: non ne aveva bisogno, e senza
aiuto alcuno si recò all'ufficio postale, dove lo aspettavano
varie lettere. Dopo averle lette senza batter ciglio, Karl
Dragoch stava per uscire quando un uomo vestito
dimessamente si avvicinò a lui.
I due si conoscevano; Dragoch fermò con un gesto le
parole che il nuovo venuto stava per dire, gesto che
evidentemente significava: «Non qui». Tutti e due si
diressero verso la vicina piazza.
— Perché non mi hai atteso sulla riva del fiume? —
chiese Karl Dragoch, quando si ritenne al sicuro da
orecchie indiscrete.
— Credevo di mancarvi — gli fu risposto. — E poiché
sapevo che sareste venuto alla posta…
— Eccoti, comunque, e questo è ciò che importa — lo
interruppe Karl Dragoch. — Nulla di nuovo?
— Nulla.
— Neppure un piccolo furto nella regione?
— Né nella regione né altrove; lungo il Danubio,
s'intende.
— A quando risalgono le ultime notizie?
— Due ore fa ho ricevuto un telegramma dall'ufficio
centrale di Budapest. Calma assoluta su tutta la linea.
Karl Dragoch rifletté per un attimo.
— Andrai in Procura da parte mia; darai il tuo nome,
Friedrich Ulhmann, e li pregherai che ti tengano al
corrente, se capitasse qualcosa. Poi partirai per Vienna.
— E i nostri uomini?
— Me ne occuperò io. Li vedrò nel passare.
Appuntamento a Vienna, tra otto giorni: questa è la parola
d'ordine.
— Lascerete dunque la parte alta del fiume senza
sorveglianza? — chiese Ulhmann.
— La polizia locale basterà — rispose Dragoch. —
Accorreremo al minimo allarme. Finora, del resto, non è
mai capitato nulla di nostra competenza al di qua di
Vienna. I nostri amici non sono così stupidi da operare
lontano dalla loro base.
— La loro base?… — ripeté Ulhmann. — Avete notizie
precise?
— Ho comunque la mia opinione.
— E cioè?…
— Troppo curioso! Ti dirò comunque che esordiremo
tra Vienna e Budapest.
— Perché là e non altrove?
— Perché è là che l'ultimo crimine è stato commesso.
Sai, quel fattore che hanno fatto «scaldare» e che è stato
ritrovato bruciato fino alle ginocchia.
— Ragione di più perché operino da un'altra parte, la
prossima volta.
— Perché?
— Perché penseranno che il distretto in cui il crimine è
stato perpetrato dev'essere particolarmente sorvegliato e
andranno a tentare la fortuna da un'altra parte. È ciò che
hanno fatto sinora. Mai due volte di seguito nello stesso
posto.
— Hanno ragionato da somari, e tu li imiti, Friedrich
Ulhmann — rispose Karl Dragoch. — E proprio sulla loro
stupidità che io faccio assegnamento. Tutti i giornali, come
avrai letto, mi hanno attribuito un ragionamento analogo.
Hanno pubblicato con perfetto sincronismo che lasciavo
l'alto Danubio dove, secondo me, i delinquenti non si
sarebbero arrischiati a fare ritorno, e che partivo per
l'Ungheria meridionale. È inutile che ti dica che non c'è una
sola parola di vero in tutto ciò, ma puoi star certo che
queste notizie tendenziose hanno colpito gli interessati.
— Che cosa ne deducete?
— Che non andranno dalla parte dell'Ungheria
meridionale per gettarsi nelle fauci del lupo.
— Il Danubio è lungo — disse Ulhmann. — C'è la
Serbia, la Romania, la Turchia…
— E la guerra? Da quella parte non c'è nulla da fare per
essi. Del resto, lo vedremo.
Karl Dragoch rimase un istante in silenzio.
— Le mie istruzioni sono state puntualmente seguite?
— Puntualmente.
— La sorveglianza del fiume è proseguita?
— Giorno e notte.
— Non è stato scoperto nulla di sospetto?
— Assolutamente nulla. Tutti i battelli e tutte le chiatte
hanno i documenti in regola. A questo proposito, debbo
dirvi che le operazioni di controllo sollevano molte
lamentele. I fluviali protestano; se volete la mia opinione, a
me pare che non abbiano torto. I battelli non hanno nulla a
che vedere con quello che noi cerchiamo. I crimini non
sono commessi sull'acqua.
Karl Dragoch aggrottò la fronte.
— Secondo me è molto importante ispezionare chiatte,
battelli e anche le più piccole imbarcazioni — rispose
seccamente. — Aggiungerò una volta per tutte che le
osservazioni non mi piacciono.
Ulhmann fece un lieve inchino.
— Benissimo — disse. Karl Dragoch riprese:
— Non so ancora ciò che farò. Forse mi fermerò a
Vienna; forse mi spingerò fino a Belgrado. Non ho deciso.
Poiché è necessario non perdere i contatti, tienimi al
corrente con le informazioni che darai a tutti i nostri
uomini scaglionati tra Ratisbona e Vienna.
— Bene, signore — rispose Ulhmann. — E io? dove
dovrò vedervi?
— A Vienna, tra otto giorni, te l'ho già detto — rispose
Dragoch. Rifletté per qualche istante e poi aggiunse:
— Puoi andartene. Non dimenticare di passare dal
commissariato e poi prendi subito il treno.
Ulhmann già si allontanava allorché Karl Dragoch lo
richiamò.
— Hai sentito parlare di un certo Ilia Brusch? — chiese.
— Il pescatore che intende discendere il fiume con la
lenza in mano?
— Precisamente. Ebbene, se mi vedi con lui, fingi di
non conoscermi. Si separarono: Friedrich Ulhmann andò
verso i quartieri alti, mentre
Karl Dragoch si diresse verso l'albergo della Croce
d'Oro, ove si era proposto di andare a mangiare.
Una decina di persone che parlavano del più e del meno
erano già a tavola, quando egli prese posto a sua volta.
Dragoch mangiò con appetito, ma non prese parte alla
conversazione: si limitò ad ascoltare, da uomo che ha
l'abitudine di prestare orecchio a ciò che si dice intorno a
lui. Non poté fare a meno di udire, quindi, ciò che un
convitato chiese al suo vicino:
— Della famosa banda non si ha dunque più notizia?
— Non più di quanto si sappia del famoso Brusch —
rispose l'altro. — A Ratisbona si aspettava il suo
passaggio; non è stato ancora segnalato.
— La cosa è strana.
— A meno che Brusch e il capo della banda non siano la
stessa persona.
— Dite per ridere?
— Eh, chissà!
Karl Dragoch aveva subito alzato il capo. Era la seconda
volta che quella ipotesi, decisamente assurda, veniva
sottoposta alla sua attenzione. Alzò impercettibilmente le
spalle e finì di cenare senza dire una sola parola. Roba da
ridere. Quel chiacchierone era così bene informato che non
sapeva neppure che Ilia Brusch era già arrivato a
Ratisbona.
Dopo aver cenato, Karl Dragoch ridiscese verso la
banchina. Quando raggiunse il fiume, invece di salire sulla
chiatta si attardò per qualche istante sul vecchio ponte di
pietra che unisce Ratisbona a Stadt-am-Hof, suo sobborgo,
e lasciò vagare lo sguardo sul fiume, ove alcuni battelli
scivolavano ancora velocemente, approfittando della luce
morente del giorno.
Era assorto a guardare quando una mano gli si posò sulla
spalla, mentre una voce familiare gli diceva:
— Debbo credere, signor Jaeger, che tutto questo vi
interessi. Karl Dragoch si volse e vide accanto a sé Ilia
Brusch che lo guardava
sorridendo.
— Sì — rispose. — Il traffico sul fiume è affascinante;
non mi stanco mai di osservarlo.
— E vi interesserà ancor di più — disse Ilia Brusch —
quando arriveremo sul basso fiume, dove i battelli sono
molto numerosi. Vedrete, quando saremo alle Porte di
Ferro! Le conoscete?
— No — rispose Dragoch.
— Bisogna vederle! — dichiarò Ilia Brusch. — Se al
mondo non c'è fiume più bello del Danubio, in tutto il
corso del Danubio non c'è posto più bello delle Porte di
Ferro!
Nel frattempo la notte era completamente calata. Il
grosso orologio di Ilia Brusch segnava le nove passate.
— Ero nella chiatta, quando vi ho visto sul ponte —
disse. — Sono venuto a disturbarvi soltanto per ricordarvi
che partiamo domani di buon'ora e che faremmo bene,
quindi, ad andare a dormire.
— Vi seguo — approvò Karl Dragoch.
Discesero entrambi verso la riva. Nel girare l'estremità
del ponte il passeggero disse:
— E la vendita del pesce, signor Brusch? Siete
soddisfatto?
— Più che soddisfatto! Debbo darvi quarantuno fiorini!
— Che con i ventisette già incassati, fanno sessantotto
fiorini. E siamo appena a Ratisbona! Signor Brusch, l'affare
non mi sembra affatto cattivo!
— Comincio a crederlo anch'io — disse il pescatore.
Un quarto d'ora dopo tutti e due dormivano, l'uno
accanto all'altro. Al levar del sole l'imbarcazione era già a
cinque chilometri da Ratisbona.
A valle di questa città le rive del Danubio presentano
aspetti molto differenti. Sulla destra si seguono a perdita
d'occhio fertili pianure, un'ubertosa campagna ove non
mancano fattorie e villaggi; sulla riva sinistra si estendono
foreste profonde e colline che vanno poi a saldarsi al
Bohmerwald.
Nel passare, il signor Jaeger e Ilia Brusch riuscirono a
scorgere, al disopra del borgo di Donaustauf, il Palazzo
d'estate dei Principi di Tour e di Taxis, e il vecchio castello
episcopale di Ratisbona; poi, più in là, sul Salvatorberg, il
Walhalla, o «Soggiorno degli eletti», voluto dal re Luigi,
specie di Partenone sperduto sotto il cielo bavarese, ma che
non ha nulla a che vedere con quello dell'Attica. L'interno,
molto meno bello dell'esterno con le sue opere
architettoniche, ospita un museo con i busti degli eroi
tedeschi. Se il Walhalla non vale il Partenone di Atene, è
più bello però della «vecchia affumicata» che gli scozzesi
hanno costruito su una delle colline che circondano
Edimburgo.
La distanza che separa Ratisbona da Vienna è lunga, se
si seguono le sinuosità del Danubio; su questa strada
liquida di quasi quattrocentosettantacinque chilometri, le
città di qualche importanza sono rare. Sono da segnalare
Straubing, silos della Baviera, ove la chiatta si fermò la
sera del 18 agosto; Passau, ove vi giunse il 20, e Linz,
oltrepassata nella giornata del 21. Oltre a queste città, di
cui solo le due ultime hanno qualche importanza strategica,
ma nessuna raggiunge i ventimila abitanti, non esistono che
insignificanti agglomerati.
Non ci sono costruzioni di alcun genere e il turista può
vincere la noia ammirando le rive sempre diverse del
grande fiume. Dopo Straubing, ove ha una larghezza di
quattrocento metri, il Danubio comincia a restringersi,
mentre le prime pendici delle Alpi Retiche s'innalzano a
poco a poco dalla riva destra.
A Passau, costruita alla confluenza del Danubio, dell'Inn
e dell'Ils, di cui i primi due fanno parte dei più grandi fiumi
d'Europa, si lascia la Germania; la riva destra, a valle della
città, diventa austriaca e soltanto alcuni chilometri oltre,
alla confluenza con la Dadelsbach, la riva sinistra entra a
far parte dell'impero degli Asburgo. Da quel punto fino a
Vienna, il letto del fiume diventa uno stretto nastro di circa
duecento metri, che ora si allarga in veri laghi disseminati
di isole e isolotti, ora si restringe ancor più e tra le sue
pareti l'acqua rumoreggia impetuosa.
Sembrava che Ilia Brusch non mostrasse alcun interesse
a quella mutevole successione di spettacoli stupendi;
pareva soltanto preoccupato di sollecitare con il vigore
delle sue braccia la marcia dell'imbarcazione. L'attenzione
che bisognava prestare alla guida della chiatta sarebbe
bastata, del resto, a scusare la sua indifferenza. Oltre ai
banchi di sabbia, frequenti sul Danubio, egli doveva
superare altre difficoltà più gravi. Già alcuni chilometri
prima di Passau aveva dovuto affrontare le rapide di
Wilshofen; poi, centocinquanta chilometri sotto Grein, una
delle città più povere dell'Alta Austria, incontrò quelle
molto più pericolose dello Strudel e del Wirbel.
In quel punto la valle diventa uno stretto passaggio tra
pareti selvagge, fra le quali precipitano le acque
gorgoglianti. Un tempo numerosi scogli rendevano il
passaggio molto pericoloso e non era raro che le
imbarcazioni subissero gravi danni. Ora sono stati fatti
saltare con le mine quelli più pericolosi che si estendevano
da una riva all'altra e minore è il pericolo. Le rapide non
sono più così impetuose, i vortici meno travolgenti e quindi
le catastrofi sono diventate meno frequenti. Tuttavia le
imbarcazioni, grandi o piccole che siano, debbono
ugualmente essere molto prudenti.
Tutto ciò non metteva in difficoltà Ilia Brusch. Egli
seguiva i passaggi, evitava i banchi di sabbia, superava i
gorghi e le rapide con stupefacente maestria. Karl Dragoch,
pur ammirando la sua abilità, era sorpreso che un semplice
pescatore conoscesse così bene il Danubio e le sue trappole
traditrici.
Se Ilia Brusch stupiva Karl Dragoch, questi stupiva a
sua volta il compagno. Il pescatore si meravigliava, senza
nulla capirci, delle numerose conoscenze del suo
passeggero. Per minuscolo che fosse il paese scelto per la
sosta serale, era raro che il signor Jaeger non vi trovasse
qualche conoscente. Non appena la chiatta era ormeggiata,
egli scendeva a terra e quasi subito era avvicinato da una o
due persone. Quelle conversazioni non erano mai lunghe;
dopo aver scambiato poche parole, gli interlocutori si
separavano e il signor Jaeger tornava sulla chiatta.
Alla fine Ilia Brusch non riuscì più a contenersi.
— Avete amici un po' dappertutto, signor Jaeger, a quel
che vedo — gli chiese un giorno.
— Proprio così, signor Brusch — rispose Karl Dragoch.
— Ho percorso spesso queste contrade.
— Da turista?
— No, signor Brusch — rispose Karl Dragoch. —
Viaggiavo allora per conto di una ditta commerciale di
Budapest. Quel mestiere non soltanto permette di vedere i
paesi, ma anche di stringere numerose relazioni, come
saprete.
Questi furono i soli incidenti — se così si possono
chiamare — che segnarono il viaggio dal 18 al 24 agosto.
Come al solito, all'alba di quel giorno, dopo una notte
trascorsa lungo la riva a valle della cittadina di Tulln,
lontano da qualsiasi villaggio, Ilia Brusch si rimise in
cammino. La giornata non sarebbe stata come le
precedenti: alla sera, infatti, avrebbero raggiunto Vienna.
Per la prima volta dopo otto giorni, Brusch avrebbe pescato
per non deludere gli ammiratori che certamente avrebbe
trovato nella capitale, dove aveva avuto cura di far
diffondere l'annuncio del suo arrivo attraverso la stampa.
Non occorreva pensare, del resto, anche agli interessi del
signor Jaeger, troppo trascurati durante quella settimana di
accanita navigazione? Benché non si lamentasse,
mantenendo fede agli impegni, Jaeger non doveva essere
soddisfatto. Ilia Brusch, naturalmente, lo capiva ed era per
dargli almeno un contentino che aveva programmato che,
l'ultimo giorno, avrebbe percorso non più di una trentina di
chilometri. Nonostante la velocità ridotta, gli sarebbe stato
possibile raggiungere Vienna abbastanza di buon'ora, così
da poter vendere il pesce.
Nel momento in cui Karl Dragoch uscì dalla cabina, il
bottino era già abbondante, ma il pescatore avrebbe fatto
ancora meglio. Verso le undici la lenza tirò su un luccio di
venti libbre, un pezzo regale che i viennesi avrebbero
certamente pagato ad alto prezzo.
Incoraggiato dal successo, Ilia Brusch volle tentare la
fortuna ancora una volta, ma si sbagliava, e i fatti lo
provarono.
Come accadde? Non avrebbe saputo dirlo. Il fatto è che
lui, sempre così abile, per un attimo di distrazione o per
altra causa, fece un lancio infelice e l'amo gli graffiò con
violenza il viso, tracciandovi un solco sanguinoso. Ilia
Brusch lanciò un grido di dolore.
Dopo avergli lacerato la carne, l'amo agganciò nella sua
traiettoria i grandi occhiali neri che il pescatore portava
notte e giorno, occhiali che — strappati come una piuma
— presero a vorticare turbinosamente sopra il pelo
dell'acqua.
Ilia Brusch soffocò un'esclamazione di dispetto e, data
un'inquieta occhiata al signor Jaeger, si affrettò a
raccogliere gli occhiali e a rimetterseli sul naso. Soltanto
allora parve soddisfatto.
L'incidente era durato pochi secondi, che però erano
bastati a Karl Dragoch per accorgersi che il suo ospite
aveva dei magnifici occhi azzurri, con uno sguardo vivo
che non aveva nulla di malaticcio.
Il poliziotto non poté fare a meno di notare quei
particolari; il suo temperamento lo induceva a elaborare
tutto ciò che sollecitava la sua attenzione. Le sue riflessioni
continuarono anche dopo che gli occhi azzurri sparirono
nuovamente dietro gli occhiali neri che li nascondevano.
È superfluo dire che Ilia Brusch smise di pescare.
Medicata sommariamente la ferita, più dolorosa che grave,
rimise a posto con cura gli attrezzi, mentre il battello
seguiva il filo della corrente. Poco dopo giunse l'ora di far
colazione.
Pochi istanti prima la chiatta era passata ai piedi del
Kalhemberg, alto trecentocinquanta metri, che domina
Vienna. A mano a mano che procedevano, l'animazione
delle rive preannunciava la vicinanza dell'importante città.
Le ville si addossavano ormai le une alle altre; le officine
annerivano il cielo con il fumo delle loro alte ciminiere e
ben presto Brusch e il suo compagno notarono le prime
carrozze che davano alla periferia una nota chiaramente
cittadina.
Nelle prime ore del pomeriggio la chiatta oltrepassò
Nussdorf, ove si fermano i battelli a vapore a grande
pescaggio. La modesta imbarcazione del pescatore non
necessitava di molto fondo e non trasportava passeggeri,
perciò non aveva bisogno di arrivare nel cuore della città
attraverso il canale.
Libero nei suoi spostamenti, Ilia Brusch seguì il grande
braccio del Danubio. Prima delle quattro si fermava vicino
alla riva e si ormeggiava a un albero del Prater, notissima
passeggiata di Vienna come lo è il Bois de Boulogne per
Parigi.
— Che male avete agli occhi, signor Brusch? — chiese
in quel momento Karl Dragoch, che dopo l'incidente degli
occhiali aveva detto pochissime parole.
Ilia Brusch interruppe il suo lavoro e si volse verso il
passeggero.
— Agli occhi? — chiese a sua volta.
— Agli occhi, sì — disse il signor Jaeger. — Immagino
che non sia per capriccio che portate gli occhiali neri.
— Ah, i miei occhiali! — disse Brusch. — Ho la vista
debole e la luce mi fa male, ecco tutto.
La vista debole? Con quegli occhi!
Data quella spiegazione, Ilia Brusch finì di ormeggiare
la chiatta. Karl Dragoch seguiva il suo lavoro con aria
pensierosa.
CAPITOLO VII
CACCIA E CACCIATORI
ALCUNE PERSONE animavano, in quel pomeriggio
d'agosto, la riva nord-est del Danubio, ultimo tratto della
passeggiata del Prater. Stavano forse aspettando Ilia
Brusch? La cosa era probabile, avendo il pescatore
anticipato sui giornali il luogo e quasi l'ora del suo arrivo.
Ma come avrebbero fatto i curiosi sparsi su un così vasto
spazio a trovare la barca che non aveva caratteristiche
particolari?
Ilia Brusch aveva previsto anche questo. Non appena
l'imbarcazione fu ormeggiata, egli si affrettò ad alzare su
una pertica una lunga banderuola sulla quale si poteva
leggere: Ilia Brusch, vincitore del concorso di
Sigmaringen: e poi espose sul tetto della tuga i pesci
catturati nel corso della mattina, dando al luccio il posto
d'onore.
La mostra all'americana ebbe un immediato successo.
Alcuni sfaccendati si fermarono dinanzi alla chiatta e la
osservarono con curiosità; a questi ne seguirono altri, e in
pochi minuti l'assembramento fu tale che i veri interessati
non poterono fare a meno di notarlo. Accorsero in fretta,
mentre altri, nel vedere tante persone andare nella stessa
direzione, si misero
a correre dietro di loro senza saperne il motivo. In meno
di un quarto d'ora cinquecento persone si erano raccolte
dinanzi alla chiatta. Ilia Brusch non aveva mai immaginato
un tale successo.
Il dialogo tra il pubblico e il pescatore non tardò ad
avere inizio.
— Il signor Brusch? — chiese uno spettatore.
— Eccomi — rispose l'interpellato.
— Permettetemi di presentarmi. Sono Claudius Roth,
vostro collega della Lega Danubiana.
— Felicissimo, signor Roth!
— Sono presenti qui molti altri nostri colleghi. Ecco i
signori Hanisch, Tietze e Hugo Zwiedinek, senza contare
quelli che non conosco.
— Io, per esempio, Mathias Kasselick, di Budapest —
disse uno spettatore.
— Ed io — aggiunse un altro — Wilhelm Bickel, di
Vienna.
— Felicissimo, signori, di essere tra di voi — esclamò
Ilia Brusch. Le domande e le risposte si incrociarono e la
conversazione si fece generale.
— Avete fatto buon viaggio, signor Brusch?
— Eccellente.
— Avete fatto presto, però: non vi aspettavamo così
presto.
— Sono quindici giorni che viaggio.
— Sì, ma la strada è lunga da Donaueschingen a
Vienna!
— Circa novecento chilometri, il che fa una media di
sessanta chilometri al giorno.
— La corrente li fa in ventiquattro ore, e non sempre.
— Dipende dai luoghi.
— È vero. E il vostro pesce? Lo vendete con facilità?
— A meraviglia!
— Siete contento, dunque?
— Contentissimo.
— Oggi, il pesce è bellissimo, il luccio magnifico.
— Non è male, infatti.
— Il suo prezzo?
— Lo pagherete quanto vorrete. Se siete d'accordo,
metterò il pesce all'asta: il luccio per ultimo.
— Per gli intenditori — puntualizzò uno
scherzosamente.
— Buona idea! — esclamò il signor Roth. — Chi
acquista il luccio, invece di mangiarlo, può farlo impagliare
in ricordo di Ilia Brusch!
Quelle battute ottennero grande successo e l'asta fu
animata. Un quarto d'ora dopo il pescatore aveva incassato
una bella sommetta, alla quale il luccio aveva contribuito
con trentacinque fiorini.
Finita l'asta, ci fu uno scambio d'idee tra il pescatore e
gli ammiratori che si affollavano sulla spiaggia per
conoscere le future intenzioni di Ilia Brusch, che
rispondeva con compiacenza e annunciava, senza farne
mistero, che dopo aver dedicato a Vienna la giornata
seguente, alla sera sarebbe andato a dormire a Presburg.
Con il passare del tempo, i curiosi uno alla volta se ne
andarono a mangiare. Costretto a pensare al suo pasto, Ilia
Brusch si cacciò nella tuga, lasciando il suo passeggero in
pasto alla pubblica ammirazione.
Due individui che passeggiavano, attratti dalla folla che
contava ancora un centinaio di spettatori, poterono notare
soltanto Karl Dragoch seduto sotto la banderuola che
annunciava urbi et orbi 2 il titolo e il nome di Ilia Brusch.
Uno dei due era un uomo robusto di circa trent'anni,
dalle spalle ampie, con capelli e barba di quel biondo che è
caratteristico della razza slava. L'altro, altrettanto robusto e
notevole per l'insolita ampiezza delle spalle, era meno
giovane; i capelli sale-pepe rivelavano che aveva superato
la quarantina.
Dopo aver lanciato uno sguardo sulla chiatta, il più
giovane trasalì e fece qualche passo indietro, trascinando
con sé il compagno.
— E lui — disse con voce soffocata non appena usciti
dalla folla.
— Credi?
— Ne sono sicuro. Non lo hai riconosciuto?
— Come riconoscerlo, se non l'ho mai visto? Seguì un
breve silenzio: i due riflettevano.
— È solo nella barca? — chiese l'anziano.
— Solissimo.
— Ed è proprio la barca di Ilia Brusch?
— Non è possibile sbagliarsi: il nome è scritto sulla
banderuola.
— Non ci si capisce nulla.
Dopo un'altra breve pausa, il più giovane disse:
— È lui dunque che compie il viaggio sotto il nome di
Ilia Brusch?
— A quale scopo?
Quello dalla barba bionda alzò le spalle.
— E chiaro: allo scopo di scendere il Danubio sotto
falso nome.
2
Alla città e al mondo. (N.d.T.)
— Diamine! — rispose il compagno.
— Ciò non mi stupisce — disse l'altro. — Dragoch è
furbo e il suo piano sarebbe certamente riuscito, se il caso
non ci avesse fatto passare di qua.
Il più anziano sembrava poco convinto.
— Sa di romanzo giallo — mormorò.
— Proprio così, Titcha, proprio così — approvò il
compagno. — Dragoch si diverte a usare queste farse da
romanzo. Comunque, chiariremo la faccenda. La gente
intorno a noi diceva che la barca rimarrà a Vienna per tutta
la giornata di domani; non dobbiamo far altro che tornare.
Se Dragoch ci sarà ancora, è evidente che si nasconde sotto
i panni di Ilia Brusch.
— Che faremo, in tal caso? — chiese Titcha. Il
compagno non rispose subito.
— Ci penseremo — disse poi.
Si allontanarono in direzione della città, lasciando la
chiatta circondata da sempre meno gente.
La notte trascorse tranquilla per Ilia Brusch e per il suo
compagno. Quando questo uscì dalla tuga, vide Ilia che
controllava gli attrezzi da pesca.
— Tempo bello, signor Brusch — disse Karl Dragoch a
mo' di buon giorno.
— Magnifico, signor Jaeger — approvò Ilia Brusch.
— Intendete approfittarne per visitare la città?
— No, signor Jaeger, non m'interessa, e qui ho da fare
per tutto il giorno. Dopo due settimane di navigazione, è
indispensabile mettere un po' d'ordine.
— Come volete, signor Brusch. Io non la penso come
voi, e resterò a terra fino a stasera.
— Fate bene — approvò Ilia Brusch — poiché avete
casa qui, la vostra famiglia, se ne avete una, avrà piacere di
vedervi.
— Vi sbagliate; sono scapolo, signor Brusch.
— Male; in due il fardello della vita si porta meglio.
Karl Jaeger si mise a ridere.
— Diamine! Non siete allegro stamane, signor Brusch.
— Tutti abbiamo il nostro giorno sbagliato — rispose il
pescatore. — Ma voi cercate di divertirvi come meglio
potete.
— Cercherò di farlo — rispose Karl Jaeger,
allontanandosi. Attraversò il Prater per raggiungere la
Haupt-Allée, punto d'incontro
della Vienna elegante durante la stagione. Ma a quell'ora
e in quel periodo dell'anno la Haupt-Allée era quasi deserta
ed egli poté camminare in fretta senza essere intralciato
dalla folla.
C'era abbastanza gente però, perché non notasse due
individui che, tra gli altri, lo incrociarono all'altezza del
Costantins Hugel, colle artificiale con il quale si è pensato
bene di mutare la prospettiva del Prater. Senza vedere i
due, Karl Dragoch proseguì tranquillamente per la sua
strada e, dieci minuti dopo, entrava in un caffeuccio della
piazza rotonda del Prater, la Prater Stern. Vi era atteso; un
consumatore infatti, nel vederlo si alzò e gli andò incontro.
— Buon giorno, Ulhmann — disse Dragoch.
— Buon giorno, signore — rispose Ulhmann.
— Nulla di nuovo?
— Nulla di nuovo.
— Benissimo. Questa volta abbiamo tutta la giornata per
ragionare su ciò che dobbiamo fare.
Se Karl Dragoch non aveva notato i due della Haupt-
Allée, essi invece, che erano poi gli stessi che il caso aveva
guidato il giorno prima vicino alla chiatta di Ilia Brusch,
avevano
perfettamente
visto
lui.
Avevano
contemporaneamente fatto dietro-front e seguito il capo
della polizia del Danubio, a debita distanza, per evitare
sorprese. Quando Dragoch era sparito nel caffeuccio, essi
erano entrati in un locale sull'altra curva della piazza, decisi
a rimanervi tutto il giorno, se necessario, per spiarlo.
La loro pazienza fu messa a dura prova. Dopo aver
dedicato alcune ore a stabilire i particolari delle loro azioni,
Dragoch e Ulhmann pranzarono senza alcuna fretta. Poi,
per sfuggire alla calura soffocante della sala, si fecero
servire all'aperto il caffè, insostituibile chiusura di ogni
pasto. Quando stava per portare la tazzina alle labbra,
Dragoch fece improvvisamente un gesto di meraviglia e,
come se non volesse essere riconosciuto, rientrò in fretta
nel ristorante, e dalle tendine, spiò un uomo che
attraversava la piazza.
— È lui, Dio mi perdoni! — mormorò Dragoch,
seguendo con gli occhi Ilia Brusch.
Era proprio Brusch, infatti, perfettamente riconoscibile
nel viso rasato, occhiali e capelli neri come quelli di un
italiano del Sud.
Quando Brusch ebbe imboccato la Kaiser-Josephstrasse,
Dragoch ritornò da Ulhmann, gli ordinò di aspettarlo e si
mise sulle tracce del pescatore.
Ilia Brusch procedeva senza pensare a girarsi, come chi
ha la coscienza tranquilla. Andò fino in fondo alla KaiserJosephstrasse, poi attraversò in linea retta il parco di
Augarten e giunse alla Brigittenau. Qui esitò per un attimo,
poi entrò in una miserabile botteguccia, la cui vetrina dava
su una delle vie più povere del quartiere operaio.
Ne uscì mezz'ora dopo, sempre seguito senza saperlo da
Karl Dragoch che, nel passare, aveva letto l'insegna della
bottega nella quale il suo compagno di viaggio era entrato,
e imboccò la Rembrandtgasse; poi risalì la riva sinistra del
canale e raggiunse la Praterstrasse, che seguì fino alla
piazza rotonda, ove girò deliberatamente a sinistra e si
allontanò lungo la Haupt-Allée, sotto gli alberi del Prater.
Tornava evidentemente a bordo della chiatta e Dragoch
ritenne inutile continuare a pedinarlo.
Il poliziotto fece allora ritorno al caffeuccio nel quale lo
aspettava Friedrich Ulhmann.
— Conosci un ebreo di nome Simon Klein? — gli
chiese.
— Certamente — rispose Ulhmann.
— Chi è?
— Nulla di buono: rigattiere, usuraio e, quando capita,
ricettatore. Credo che queste tre parole lo dipingano
perfettamente.
— È ciò che pensavo — mormorò Dragoch, che
sembrava immerso in profonde riflessioni.
Dopo un attimo, disse:
— Quanti uomini abbiamo qui?
— Una quarantina — rispose Ulhmann.
— Bastano. Sta' a sentire. Bisogna fare tavola rasa di
tutto ciò che abbiamo detto stamane. Cambio piano, perché
ho il presentimento che la faccenda si concluderà proprio là
dove sarò anch'io.
— Dove sarete voi? Non capisco.
— È inutile che tu capisca. Scaglionerai i tuoi uomini a
due a due, sulla riva sinistra del Danubio, ogni cinque
chilometri, cominciando da venti chilometri dopo Presburg.
Non dovranno far altro che badare a me. Non appena gli
ultimi due mi hanno scorto, dovranno correre cinque
chilometri oltre i primi due e così di seguito. Capito? Che
non mi perdano d'occhio, soprattutto!
— E io? — chiese Ulhmann.
— Farai in modo di non perdermi di vista. Poiché sarò
su una barca in mezzo al fiume, non ti sarà difficile…
Raccomanda ai tuoi uomini di prendere tutte le
informazioni possibili, prima di montare la guardia. In caso
di necessità, la postazione a conoscenza di un fatto grave
ne informerà le altre, e ne diventerà il punto di raccolta.
— Ho capito.
— Ci si metta in marcia fin da questa sera; domani
intendo trovare gli uomini al loro posto.
— Vi saranno — disse Ulhmann.
Karl Dragoch espose il suo piano varie volte, finché fu
certo di essere stato perfettamente capito dal suo
subordinato, poi, data l'ora tarda, si decise a raggiungere la
chiatta.
Nel caffè dall'altra parte della piazza, i due individui del
Prater continuavano a spiare. Avevano visto Dragoch
uscire senza immaginarne il motivo, poiché non avevano
notato passare Ilia Brusch. Avrebbero voluto mettersi alle
sue calcagna, ma la presenza di Ulhmann li aveva dissuasi.
Tranquillizzati poi dall'attesa di costui, avevano atteso
anch'essi, persuasi che non avrebbero tardato a veder
tornare Dragoch.
Il ritorno del poliziotto dimostrò la validità del loro
ragionamento; quando Dragoch e Ulhmann rientrarono nel
caffè, essi rimasero in agguato, fino a quando il capo della
polizia e il suo subordinato si separarono.
Nel lasciare che quest'ultimo risalisse verso il centro, i
due tornarono a seguire Dragoch per la Haupt-Allée, già
percorsa la mattina in senso opposto. Dopo tre quarti d'ora
di cammino si fermarono: la fila d'alberi della riva del
Danubio non lasciava dubbi: Dragoch tornava alla sua
imbarcazione.
— È inutile andare oltre — disse il più giovane. —
Ormai sappiamo che Ilia Brusch e Karl Dragoch sono la
stessa persona; continuando a seguirlo, corriamo il rischio
di essere notati.
— Che cosa faremo? — chiese il compagno dalle spalle
di lottatore.
— Ne parleremo — rispose l'altro. — Ho già un'idea.
Mentre i due sconosciuti si allontanavano verso il Prater
Stern elaborando piani la cui esecuzione non poteva essere
rimandata a lungo, Karl Dragoch risaliva sulla chiatta
senza neppure immaginare di essere stato pedinato così a
lungo nel corso della giornata. Trovò Ilia Brusch che
preparava da mangiare: un'ora dopo i due compagni
dividevano come al solito la cena, a cavalcioni del sedile.
— Siete soddisfatto della vostra passeggiata? — chiese
Ilia Brusch quando le pipe cominciarono a diffondere
nuvole di fumo.
— Contentissimo — rispose Dragoch. — E voi, signor
Brusch, non avete cambiato idea? Non vi siete deciso a
gironzolare un po' per Vienna? O a fare qualche visita?
— No, signor Jaeger — disse Brusch. — Non conosco
nessuno qui. Da quando siete andato via, non ho messo
piede a terra.
— Davvero?
— Proprio così. Non ho mai lasciato la chiatta, ove del
resto avevo tanto lavoro da tenermi occupato fino a sera.
Karl Dragoch non disse nulla. I pensieri che la sfacciata
bugia dell'ospite poteva suggerirgli egli li tenne per sé; i
due parlarono perciò del più e del meno, fino al momento
di andare a dormire.
CAPITOLO VIII
UN RITRATTO DI DONNA
ILIA BRUSCH aveva mentito premeditatamente o aveva
cambiato idea per capriccio? Comunque sia, le
informazioni fornite da lui sul suo itinerario erano della più
evidente inesattezza.
Partito due ore prima dell'alba, la mattina del 26 agosto,
non si era fermato a Presburg, come invece aveva
preannunciato. Venti ore di accanito remare lo avevano
condotto, in un sol fiato, a più di quindici chilometri oltre
quella città; dopo un breve riposo egli aveva ricominciato
la fatica sovrumana.
Perché tanti sforzi per abbreviare il viaggio? Ilia Brusch
non ritenne di dirlo al signor Jaeger, i cui interessi peraltro
ne risultavano gravemente compromessi. Ciò nonostante, il
poliziotto, rispettoso degli accordi presi, non manifestò in
alcun modo il suo disappunto.
Le preoccupazioni di Karl Dragoch annullavano quelle
del signor Jaeger. Il danno che il secondo rischiava di
subire era cosa da nulla se paragonato alle preoccupazioni
del primo.
La mattina del 26 agosto Karl Dragoch aveva infatti
notato un particolare piuttosto strano, che aggiunto a quelli
dei giorni precedenti, lo aveva turbato profondamente. Era
capitato verso le dieci del mattino. Immerso nel suoi
pensieri, Dragoch guardava soprappensiero Ilia Brusch che
remava in piedi, a poppa della chiatta, con la testardaggine
di un bue al giogo. Essendo costretto a dirigersi verso nordovest a causa di un'ansa del fiume, il pescatore aveva il sole
alle spalle. Per il gran sudore, buttato ai suoi piedi il
berretto di lontra che gli copriva abitualmente il capo, era
rimasto a testa nuda; la luce faceva risplendere la sua
abbondante chioma nera.
Karl Dragoch fu colpito a un tratto da una stranissima
particolarità. Ilia Brusch era incontestabilmente bruno, ma
solo in parte. Neri alla punta, i suoi capelli tradivano alla
base, per una lunghezza di alcuni millimetri, un innegabile
colore biondo.
La diversità di colore era naturale? Forse, ma
verosimilmente si trattava di volgare tintura, che non era
stata rinnovata.
E i sospetti nutriti da Karl Dragoch furono ben presto
confermati. La mattina seguente, infatti, i capelli di Ilia
Brusch non avevano più la doppia colorazione; il pescatore
aveva evidentemente posto rimedio alla propria negligenza
nel corso della notte.
Gli occhi che il loro proprietario nascondeva dietro gli
impenetrabili occhiali, la bugia relativa alla sosta fatta a
Vienna, l'incomprensibile fretta che contrastava con lo
scopo apparente del viaggio, i capelli biondi fatti diventare
neri, tutto ciò costituiva un insieme di presunzioni dalle
quali si doveva necessariamente concludere… Che cosa si
doveva concludere? Dopo tutto, Karl Dragoch non sapeva
nulla. Che la condotta di Ilia Brusch desse adito ai sospetti
era troppo evidente, ma quale conclusione bisognava
trarne?
Un'ipotesi tuttavia, cento volte respinta, finì per imporsi
nell'animo di Dragoch, che non cessava di riflettere sul
problema posto alla sua sagacia. L'ipotesi era quella che il
caso gli aveva suggerito già due volte. L'allegro Michael
Michaelovitch prima, gli ospiti dell'albergo di Ratisbona
poi, non avevano avanzato l'ipotesi tra il serio e il faceto,
che sotto l'abito preso in prestito dal campione si
nascondesse il capo dei malfattori che terrorizzavano la
regione? Bisognava decidersi dunque a esaminare
seriamente una supposizione alla quale anche coloro che
l'avevano formulata non accordavano sicuramente la
minima credibilità?
Perché, dopo tutto? I particolari osservati fin allora non
offrivano alcuna certezza, ma autorizzavano tuttavia molti
sospetti. E a dire il vero, se in seguito altre osservazioni
avessero confermato il sospetto più fondato, sarebbe stata
una divertente avventura che lo stesso battello trasportasse,
per tanti chilometri, il capo dei banditi e il poliziotto
incaricato di arrestarlo.
Da questo punto di vista il dramma tendeva a diventare
un'opera buffa e Karl Dragoch non voleva ammettere la
possibilità di una così assurda coincidenza. Ma la tecnica
della farsa non è proprio quella di concentrare in uno stesso
luogo e in un breve spazio di tempo i lati comici e gli
imprevisti che non si notano, o che nemmeno fanno
sorridere nella vita reale, proprio perché diluiti nel
succedersi degli eventi? Però non è logico respingere de
plano un fatto soltanto perché sembra anormale o
inverosimile. Bisogna essere più umili e ammettere che le
combinazioni del caso sono infinite. Sotto l'assillo di tali
preoccupazioni, la mattina del 28, dopo una notte passata
in piena campagna, ormeggiati ad alcuni chilometri a valle
di Komorn, Karl Dragoch portò la conversazione su un
argomento che fin allora non era stato mai sfiorato.
— Buon giorno, signor Brusch — disse quella mattina
nell'uscire dalla cabina, ove aveva preparato il piano
d'attacco.
— Buon giorno, signor Jaeger — rispose il pescatore,
continuando a remare con energia.
— Avete dormito bene?
— Magnificamente. E voi?
— Ma… così così.
— Davvero! — si stupì Ilia Brusch. — Se vi siete
sentito male, perché non mi avete chiamato?
— Sto perfettamente bene, signor Brusch — rispose il
signor Jaeger. — Ma ciò non ha impedito che la notte mi
sembrasse lunga. Vi confesso che non mi dispiace di
averne visto la fine.
— Perché?
— Perché non ero tranquillo, ora posso dirlo.
— Non eravate tranquillo? — ripeté Ilia Brusch con
tono di sincero stupore.
— Non è la prima volta che non sono tranquillo —
spiegò il signor Jaeger. — Non sono mai stato tranquillo da
quando avete avuto la magnifica idea di trascorrere la notte
lontano da città e villaggi.
— Dovevate dirmelo; mi sarei comportato diversamente
— disse Brusch, che sembrava cadere dalle nuvole.
— Dimenticate che mi sono impegnato di lasciarvi
libero di agire a modo vostro? Ogni promessa è debito,
signor Brusch! Ciò non impedisce che io non mi sia sentito
mai tranquillo. Che volete? Sono cittadino e mi turbano il
silenzio e la solitudine della campagna.
— Questione di abitudine, signor Jaeger — rispose
allegramente Ilia Brusch. — Vi abituereste, se il nostro
viaggio dovesse essere più lungo. In realtà, c'è meno
pericolo in aperta campagna che non nel cuore di una
grande città, in cui pullulano gli assassini e i vagabondi.
— Probabilmente avete ragione — approvò il signor
Jaeger, — ma i timori non si comandano. Del resto, i miei
non sono del tutto infondati, visto che attraversiamo una
regione particolarmente malfamata.
— Malfamata! — esclamò Ilia Brusch. — Chi vi ha
detto queste cose? Io abito qui e non ho mai sentito dire
che il paese fosse malfamato!
Questa volta toccò al signor Jaeger mostrare viva
sorpresa.
— Dite sul serio? — esclamò. — Sareste dunque il solo
a non sapere ciò che tutti sanno, dalla Baviera alla
Romania?
— Che cosa? — chiese Ilia Brusch.
— Diamine! che una banda di inafferrabili malfattori
ruba e ammazza lungo le due rive del Danubio, da
Presburg alla foce.
— È la prima volta che ne sento parlare — disse Ilia
Brusch, con accento sincero.
— Possibile! — si stupì il signor Jaeger. — Non si parla
d'altro da un capo all'altro del fiume.
— Ogni giorno se ne impara una nuova — osservò
tranquillamente Ilia Brusch. — Ed è da molto che i furti
sarebbero cominciati?
— Da circa diciotto mesi — rispose Jaeger. — Se
almeno si trattasse soltanto di furti. Ma i malfattori non si
contentano di rubare; all'occorrenza ammazzano. In questi
diciotto mesi, sono stati attribuiti loro almeno dieci delitti, i
cui autori sono rimasti sconosciuti. L'ultimo assassinio è
stato compiuto esattamente a meno di cinquanta chilometri
da qui.
— Ora capisco la vostra inquietudine — disse Ilia
Brusch. — Forse l'avrei anche condivisa, se fossi stato
meglio informato. Da oggi in poi alla sera ci fermeremo, se
possibile, nelle vicinanze di un villaggio o di una città.
Cominceremo dalla sosta odierna, che faremo a Gran.
— Gran è una città importante: vi staremo tranquilli —
approvò il signor Jaeger.
— Ne sono felice — proseguì Ilia Brusch — soprattutto
perché la prossima notte conto di lasciarvi solo.
— Volete assentarvi?
— Soltanto per alcune ore. Da Gran, ove spero di
giungere di buon'ora, vorrei fare una scappata a Szalka, che
non è molto lontana, dove abito, come sapete. Del resto,
sarò di ritorno prima dell'alba. La nostra partenza
domattina, comunque, non subirà ritardo.
— Come volete, signor Brusch — concluse il signor
Jaeger. — Capisco perfettamente che abbiate voglia di fare
una corsa a casa vostra. A Gran, comunque, non c'è nulla
da temere.
Per una mezz'ora nessuno aprì bocca; poi Karl Dragoch
riprese:
— È strano — disse — che non abbiate mai sentito
parlare dei malfattori del Danubio. Ed è ancora più strano
perché ci si è occupati di questa faccenda proprio pochi
giorni dopo la gara di pesca di Sigmaringen.
— A che proposito? — chiese Ilia Brusch.
— A proposito della formazione di una brigata di polizia
speciale, agli ordini di un capo ritenuto molto capace, un
poliziotto di Budapest di nome Karl Dragoch.
— Avrà un bel da fare — disse Ilia Brusch, al quale quel
nome non parve fare alcuna impressione. — Il Danubio è
lungo e non è facile sorvegliare gente sul conto della quale
non si sa nulla.
— Forse vi sbagliate — rispose il signor Jaeger. — La
polizia ha già qualche informazione. Dalle testimonianze
raccolte pare ci sia una descrizione somatica molto
attendibile del capo della banda.
— Come è fatto? — chiese Ilia Brusch.
— Il suo aspetto è quello di un uomo del vostro
stampo…
— Grazie! — lo interruppe Ilia Brusch, ridendo.
— Sarebbe press'a poco della vostra statura — proseguì
il signor Jaeger — e della vostra corporatura, ma per il
resto non c'è altra coincidenza con voi.
— Per fortuna! — sospirò Ilia Brusch, con un'aria
comicamente soddisfatta.
— Sembra che abbia occhi azzurri molto belli e non
porti occhiali come siete costretto a portare voi. Inoltre,
mentre voi siete bruno e accuratamente sbarbato, egli ha la
barba, e bionda. Su quest'ultimo punto le testimonianze
raccolte sono certe, a ciò che si dice.
— È un'indicazione, senza dubbio — convenne Ilia
Brusch, — ma molto vaga. I biondi sono molto numerosi e
se bisogna passarli tutti al setaccio…
— Si sa ancora un'altra cosa. Si dice che sarebbe di
nazionalità bulgara… come voi, signor Brusch!
— Che volete dire? — chiese Ilia Brusch con voce
turbata.
— Dal vostro accento — si scusò Karl Dragoch con aria
innocente — vi ho creduto di origine bulgara. Mi sono
sbagliato, forse?
— Non vi siete sbagliato — rispose Ilia Brusch dopo
una breve esitazione.
— Il capo sarebbe dunque un vostro compatriota. Il suo
nome è sulla bocca di tutti.
— Davvero! Allora, se si sa il suo nome…
— Ma ciò non ha nulla di ufficiale, beninteso.
— Ufficiale o ufficioso, quale sarebbe il nome del
nostro uomo?
— A torto o a ragione, i rivieraschi incolpano di tutti i
misfatti sofferti un certo Ladko.
— Ladko! — ripeté Ilia Brusch, che, in preda a una
violenta emozione, smise bruscamente di remare.
— Ladko — confermò Karl Dragoch, sorvegliando con
la coda dell'occhio l'interlocutore.
Ma Brusch si era già ripreso.
— È strano — disse soltanto, mentre con il remo
riprendeva il suo interminabile lavoro.
— Che cosa vi sembra strano? — chiese Karl Dragoch.
— Conoscete per caso Ladko?
— Io? — protestò il pescatore. — No. Ma Ladko non è
un nome bulgaro. Questo mi sembra strano.
Karl Dragoch non continuò l'interrogatorio: spinto oltre,
poteva essere controproducente. Era peraltro abbastanza
soddisfatto. La sorpresa del pescatore nell'udire la
descrizione del malfattore, il suo turbamento
nell'apprenderne
la
probabile
nazionalità,
lo
sconvolgimento manifestato nel conoscerne il nome, tutto
ciò dava nuova e innegabile forza alle supposizioni
precedenti, senza tuttavia apportare alcuna prova decisiva.
Come Ilia Brusch aveva previsto, non erano ancora le
due del pomeriggio quando la chiatta giunse a Gran. A
cinquecento metri dalle prime case, il pescatore sbarcò
sulla riva sinistra per evitare, disse, ritardi a causa della
curiosità popolare, e pregò il signor Jaeger di essere così
gentile di condurre la chiatta sulla riva destra e di
ormeggiarla nel cuore della città. Il passeggero acconsenti
volentieri.
Dopo aver traghettato, Dragoch tornò ad essere
poliziotto. Ormeggiata la chiatta, saltò sulla banchina per
andare a cercare qualcuno dei suoi uomini.
Dopo appena venti passi s'imbatté in Friedrich Ulhmann.
Tra i due uomini ebbe inizio un rapido colloquio.
— Tutto bene?
— Tutto.
— Occorre restringere il cerchio, Ulhmann. Le
postazioni di due uomini a un chilometro l'una dall'altra,
ormai.
— Comincia a far caldo?
— Precisamente.
— Tanto meglio.
— Domani cerca di non perdermi di vista. Credo che
stia facendo caldo.
— Ho capito.
— E che non ci si addormenti! Nervi saldi! E che ci si
muova!
— Contate su di me!
— Se saprai qualcosa, fai un cenno dalla riva.
— D'accordo.
I due interlocutori si separarono e Karl Dragoch fece
ritorno alla chiatta.
Se il suo riposo non fu turbato dall'inquietudine che
diceva di provare solitamente, lo fu nel corso della notte
dal fracasso degli elementi scatenati. A mezzanotte una
tempesta iniziò a oriente e crebbe di intensità da un'ora
all'altra, mentre la pioggia imperversava.
Verso le cinque del mattino, quando Ilia Brusch
raggiunse la chiatta, la pioggia cadeva sempre a torrenti e il
vento soffiava furiosamente in direzione opposta alla
corrente. Il pescatore tuttavia non esitò a partire. Mollato
l'ormeggio, si spinse subito in mezzo al fiume e riprese a
remare. Bisognava aver coraggio per mettersi al lavoro in
quelle condizioni, dopo una notte indubbiamente faticosa.
Nel corso delle prime ore del mattino, la tempesta non
accennò a diminuire d'intensità. Nonostante l'aiuto della
corrente, la chiatta avanzava faticosamente contro quel
terribile vento; dopo quattro ore di sforzi, aveva percorso a
malapena una decina di chilometri. Il confluente dell'Ipoly,
sulla riva destra del quale è posta Szalka, ove Brusch
diceva di essere andato la notte precedente, non poteva
essere molto lontano.
In quel momento, la tempesta raddoppiò di intensità, al
punto da rendere la situazione effettivamente critica. Il
Danubio non è il mare, ma è abbastanza ampio perché,
sotto la violenza del vento, vi si formino vere e proprie
onde. Quel giorno fu proprio così; nonostante la fretta, Ilia
Brusch fu costretto a cercare rifugio presso la riva sinistra.
Ma non doveva raggiungerla.
Più di cinquanta metri lo separavano ancora da essa,
quando si verificò un pauroso fenomeno. Più a monte, gli
alberi che costeggiavano la riva, come tagliati da una falce
gigantesca, furono divelti di netto alla base e scagliati nel
fiume. L'acqua, sollevata da una forza incommensurabile,
precipitò sulla riva, si sollevò poi in un'enorme ondata che
rotolò all'inseguimento della chiatta.
La tromba d'aria, che si era evidentemente formata negli
strati dell'atmosfera, faceva scorrere sulla superficie del
fiume la sua irresistibile ventosa.
Ilia Brusch comprese il pericolo. Con un energico colpo
di remo fece girare la barca e cercò di accostarsi alla riva
destra. Non ci riuscì, ma la manovra bastò a salvare
pescatore e passeggero.
Raggiunta dalla meteora che continuava la sua corsa
sfrenata, la chiatta riuscì a evitare la montagna d'acqua che
essa sollevava al suo passare. Senza la manovra di Ilia
Brusch sarebbe stata ineluttabilmente travolta. Presa nelle
spire più esterne del turbine, essa fu soltanto scagliata con
violenza in una curva ad ampio raggio.
Sfiorata appena dall'aerea piovra, il cui tentacolo aveva
questa volta mancato il bersaglio, l'imbarcazione fu quasi
subito libera dalla presa. In pochi secondi la tromba era
passata e l'onda si precipitava a valle ruggendo, mentre la
resistenza dell'acqua neutralizzava a poco a poco la
velocità acquisita dalla chiatta.
Disgraziatamente non erano ancora sfuggiti a questo
pericolo, che all'improvviso se ne presentò un altro. Al
dritto di prora, che tagliava l'acqua con la velocità di un
rapido, il pescatore improvvisamente scorse uno degli
alberi strappati dalla riva, che con le radici in aria seguiva
lentamente la corrente. Scagliata nel groviglio di quelle
radici, l'imbarcazione si sarebbe senz'altro capovolta o
gravemente danneggiata. Ilia Brusch lanciò un grido di
spavento nel vedere quell'ostacolo imprevisto.
Anche Karl Dragoch si era accorto dell'imminenza del
pericolo. Senza esitazione si precipitò a prua, con le mani
afferrò le radici che uscivano dall'acqua e, arcuandosi sulle
reni per meglio opporsi alla spinta della barca, con tutta la
sua forza cercò di allontanarla dalla direzione pericolosa.
Vi riuscì; la chiatta, deviata dalla sua rotta, sfrecciò in
avanti sfiorando le radici, e poi la testa dell'albero coperta
di foglie. Ancora un istante, ed essa si sarebbe lasciata
dietro il verde relitto mollemente trascinato via dalla
corrente, allorché Karl Dragoch fu colpito in pieno petto da
uno degli ultimi rami. Cercò inutilmente di resistere
all'urto. Perduto l'equilibrio, cadde al di fuori della chiatta e
scomparve sott'acqua.
Alla prima caduta ne seguì immediatamente un'altra,
voluta. Nel vedere il passeggero cadere in acqua, Ilia
Brusch si era buttato in suo aiuto senza un attimo di
esitazione.
Ma non era facile scorgere qualcosa nelle acque
limacciose e agitate dalla furiosa tempesta. Per circa un
minuto, Ilia Brusch si sfiancò inutilmente; già cominciava
a disperare di riuscire a scorgere il signor Jaeger, quando
alla fine riuscì ad afferrare il disgraziato, che galleggiava
svenuto. Da una parte, meglio così. L'uomo che sta
annegando di solito si dibatte e accresce così,
involontariamente, la difficoltà del suo salvataggio. L'uomo
svenuto è, invece, un corpo inerte la cui salvezza dipende
soltanto dall'abilità del suo salvatore.
Ilia Brusch per prima cosa sollevò fuori dell'acqua il
capo del signor Jaeger; poi, con colpi vigorosi, nuotò verso
la chiatta che nel frattempo si era allontanata di una
trentina di metri. La raggiunse in poche bracciate, che
parvero un gioco per il robusto nuotatore, ne afferrò l'orlo
con una mano, mentre con l'altra sosteneva il passeggero
ancora svenuto.
Ora bisognava issare il signor Jaeger fin sulla chiatta e
ciò non era facile. Tuttavia, dopo molti sforzi, Ilia Brusch
vi riuscì.
Appena deposto il passeggero su una cuccetta della tuga,
egli lo spogliò e dopo aver preso da una cassa qualche
indumento
di
lana,
cominciò
a
massaggiarlo
energicamente.
Il signor Jaeger non tardò ad aprire gli occhi e a
riprendere i sensi. L'immersione non era stata lunga e c'era
da sperare che non avesse spiacevoli conseguenze.
— Signor Jaeger! — disse Ilia Brusch, non appena vide
che il passeggero riprendeva conoscenza, — ve ne
intendete, voi, di tuffi!
Il signor Jaeger sorrise senza dir nulla.
— Non accadrà nulla — proseguì Ilia Brusch
continuando a massaggiarlo energicamente. — Non c'è
niente di meglio per la salute di un bagno nel mese di
agosto!
— Grazie, signor Brusch — balbettò Karl Dragoch.
— Non c'è proprio da ringraziare — rispose
allegramente il pescatore. — Son io che debbo ringraziarvi,
signor Jaeger, perché mi avete dato l'occasione di fare un
eccellente bagno.
A Karl Dragoch le forze facevano ritorno a vista
d'occhio. Un buon sorso d'acquavite e tutto sarebbe stato a
posto. Più emozionato di quanto non volesse apparire, Ilia
Brusch mise inutilmente sottosopra le sue casse: la
provvista di alcool era purtroppo esaurita; non ne era
rimasta neppure una goccia.
— Ecco una cosa spiacevole! — esclamò Ilia Brusch. —
Nella nostra cambusa non c'è più una sola goccia di
acquavite!
— Non importa, signor Brusch — disse Karl Dragoch,
con voce debole. — Ne posso fare a meno, vi assicuro.
Karl Jaeger, a dispetto delle sue assicurazioni, batteva i
denti per il freddo; un cordiale gli avrebbe certamente fatto
bene.
— Vi sbagliate — rispose Ilia Brusch, il quale non si
faceva illusioni sulle condizioni del passeggero — non ne
farete a meno, signor Jaeger. Lasciatemi fare; non sarà una
faccenda lunga.
In un attimo, il pescatore si tolse gli abiti bagnati e ne
indossò altri asciutti; alcuni colpi di remo portarono poi la
chiatta sulla riva sinistra, dove fu solidamente ormeggiata.
— Abbiate un po' di pazienza, signor Jaeger — disse Ilia
Brusch, saltando a terra. — Conosco il paese: siamo alla
confluenza con l'Ipoly. A meno di mille e cinquecento
metri c'è un villaggio, dove troverò ciò che occorre. Tra
mezz'ora sarò di ritorno.
Ciò detto, Ilia Brusch si allontanò senza attendere
risposta.
Quando fu solo, Karl Dragoch si lasciò ricadere sulla
cuccetta. Stava più male di quanto non volesse confessare
e, per un istante, chiuse gli occhi: era stanco.
Ma la vita riprendeva rapidamente il sopravvento, il
sangue gli pulsava nelle arterie. Presto riapri gli occhi e
volse in giro lo sguardo, di minuto in minuto più fermo.
La prima cosa che attrasse il suo sguardo ancora incerto
fu la cassa che Ilia Brusch, per premura, non aveva
richiuso. Tutto per aria per la ricerca infruttuosa del
pescatore, l'interno della cassa offriva alla vista un
ammasso di oggetti disparati. Abiti grossolani, biancheria
da poco prezzo e scarpe robuste vi erano ammucchiati
disordinatamente.
Perché gli occhi di Karl Dragoch improvvisamente
cominciarono a brillare? Quello spettacolo così poco
interessante lo attirava dunque tanto da spingerlo a
sollevarsi sul gomito, per guardare più comodamente
dentro la cassa spalancata?
Non erano certamente né gli abiti né la biancheria che
potevano suscitare la curiosità dell'indiscreto passeggero:
tra i capi di abbigliamento l'occhio esperto del poliziotto
aveva scoperto un oggetto meritevole di attrarre la sua
attenzione.
Si trattava di un portafoglio gonfio, dal quale uscivano
alcune carte. Un portafoglio! Documenti! E cioè
un'indubbia risposta alle domande che Karl Dragoch
poneva a se stesso da alcuni giorni.
Il poliziotto non riuscì a controllarsi. Dopo una breve
esitazione, conscio di venir meno alle leggi dell'ospitalità,
allungò la mano e tirò fuori dalla cassa il portafoglio
tentatore con il suo contenuto, e cominciò subito
l'inventario.
Karl Dragoch non perse tempo a leggere le lettere, che
erano indirizzate al signor Ilia Brusch, a Szalka; esaminò le
ricevute, tra le quali c'era quella dell'affitto, a lui intestata.
Nulla d'interessante, dunque, in quei documenti.
Karl Dragoch avrebbe forse rinunciato a proseguire le
sue ricerche se un ultimo foglio non lo avesse fatto
trasalire. Apparentemente era innocentissimo; soltanto un
poliziotto poteva non provare alla vista di quel foglio
un'emozione che non fosse di simpatica ammirazione.
Era il ritratto di una giovane donna, la cui perfetta
bellezza avrebbe entusiasmato un pittore. Ma il poliziotto
non è un artista; il cuore di Karl Dragoch non batté perciò
di ammirazione per quel bellissimo viso, al quale aveva
dato appena un'occhiata. A dire il vero, aveva visto soltanto
un rigo in lingua bulgara, tracciato sotto la fotografia: «Al
mio caro marito, Natcha Ladko». Questo, Karl Dragoch
lesse.
I suoi sospetti, dunque, erano giustificati e logiche erano
le sue deduzioni basate sulle stranezze notate! Era proprio
con Ladko che egli discendeva il Danubio, da tanti giorni.
Era proprio quel pericoloso malfattore, inutilmente
ricercato fin allora, che si nascondeva sotto l'innocua
personalità del campione della Lega Danubiana!
Quale sarebbe stata la condotta di Karl Dragoch dopo
tale constatazione? Non aveva ancora preso una decisione
quando un rumore di passi sulla riva gli fece buttare il
portafoglio in fondo alla cassa, della quale richiuse il
coperchio. Il nuovo venuto non poteva essere Ilia Brusch, il
quale era partito da non più di dieci minuti.
— Signor Dragoch! — chiamò una voce dalla riva.
— Ulhmann! — mormorò Dragoch. Riuscì con fatica a
mettersi in piedi e uscì barcollando dalla cabina.
— Scusatemi se vi ho chiamato — disse Ulhmann, non
appena ebbe visto il capo. — Ho visto il vostro compagno
che poco fa si allontanava e sapevo che eravate solo.
— Che cosa c'è? — chiese Karl Dragoch.
— Novità. Questa notte è stato commesso un delitto.
— Questa notte! — esclamò Karl Dragoch, pensando
subito che Ilia Brusch aveva trascorso la notte precedente
lontano dalla chiatta.
— È stata saccheggiata una villa nelle vicinanze e il
guardiano è stato colpito.
— È morto?
— No; è gravemente ferito.
— Bene — disse Karl Dragoch, imponendo con un
cenno il silenzio al suo subordinato.
Rifletteva. Che cosa bisognava fare? Agire, certamente,
e per farlo la forza non gli sarebbe venuta meno: la notizia
allora appresa era la medicina migliore. Non rimaneva in
lui alcuna traccia dell'accidente di cui era stato vittima; ora
non aveva più bisogno di sorreggersi al tramezzo della
cabina. Sotto la frustata dei nervi, il sangue gli tornava a
fiotti sul viso.
Bisognava agire, ma come? Doveva attendere il ritorno
di Ilia Brusch, o meglio di Ladko, poiché questo era il suo
vero nome, e in nome della legge mettergli di colpo la
mano sulla spalla? Forse era la cosa più saggia da fare,
poiché ormai non poteva esistere alcun dubbio sulla
colpevolezza del sedicente pescatore. La cura con la quale
dissimulava la sua vera personalità, il mistero del quale si
circondava, quel suo nome che era anche quello di colui
che la voce pubblica indicava quale capo dei banditi, la sua
assenza dell'ultima notte che coincideva con la scoperta del
nuovo delitto, tutto diceva a Karl Dragoch che Brusch era
proprio il bandito ricercato.
Quel bandito però gli aveva salvato la vita e ciò
complicava stranamente la situazione!
Possibile che un ladro, anzi un assassino, si fosse gettato
nel fiume per salvarlo? E anche se questa cosa incredibile
fosse stata vera, era possibile, a colui che era stato
strappato alla morte, ricompensare in quel modo il
sacrificio di colui che lo aveva salvato? Quale rischio si
correva, del resto, a non arrestarlo? Ora che il falso Ilia
Brusch era stato smascherato e che la sua identità era nota,
gli sarebbe stato impossibile sfuggire alla polizia
disseminata lungo il fiume; e nel caso in cui l'inchiesta
fosse arrivata al sedicente pescatore, egli avrebbe avuto a
sua disposizione un maggior numero di persone che ne
avrebbero facilitato e assicurato l'arresto.
Nel corso di cinque minuti, Karl Dragoch esaminò sotto
ogni aspetto il suo caso di coscienza. Andarsene senza
rivedere Ilia Brusch? Oppure rimanere, nascondere
Ulhmann nella cabina e all'apparire del pescatore saltargli
addosso, rimandando a dopo ogni spiegazione? No,
assolutamente no. Rispondere con il tradimento a un atto di
abnegazione? No, il cuore gli si ribellava. A rischio di
lasciare al colpevole una possibilità di salvezza, sarebbe
stato meglio cominciare l'inchiesta, dimenticando
temporaneamente ciò che credeva di sapere. Se l'inchiesta
lo avesse condotto a Ilia Brusch, se il suo dovere lo avesse
costretto a trattare da nemico colui che gli aveva salvato la
vita, avrebbe allora combattuto a viso aperto, dopo avergli
dato il tempo di mettersi sulla difensiva.
Accettando con un gesto le conseguenze della sua
decisione, Karl Dragoch rientrò nella cabina: sapeva che
cosa fare. Con poche parole poste in evidenza, avvertì Ilia
Brusch che aveva necessità di allontanarsi, e lo pregò di
aspettarlo almeno ventiquattr'ore. Poi si preparò a partire.
— Quanti uomini abbiamo? — chiese uscendo dalla
cabina.
— Ne abbiamo due sul posto, ma stiamo per chiamare
tutti a raccolta. Ne avremo una decina prima di sera.
— Bene — approvò Karl Dragoch. — Mi hai detto che
il luogo del delitto non è lontano?
— Circa due chilometri — rispose Ulhmann.
— Guidami — disse Karl Dragoch, saltando sulla riva.
CAPITOLO IX
I DUE SCACCHI DI DRAGOCH
I CARPAZI descrivono nella parte settentrionale
dell'Ungheria un immenso arco la cui estremità occidentale
si divide in due rami secondari, uno dei quali va a morire al
Danubio, all'altezza di Presburg, mentre l'altro raggiunge il
fiume nei dintorni di Gran, per proseguire sulla riva destra
con i settecentosessantasei metri del monte Pilis.
Ai piedi di questa bassa montagna era stato commesso
un crimine e lì Karl Dragoch si sarebbe trovato per la
prima volta alle prese con i pericolosi malfattori che aveva
il compito di perseguire.
Alcune ore prima quando, lasciata la compagnia del suo
ospite, nonostante la debolezza, faceva violenza a se stesso
per seguire Ulhmann, una carretta sovraccarica si era
fermata dinanzi a una misera locanda costruita ai piedi di
una di quelle colline che sono la ramificazione del monte
Pilis nella valle del Danubio.
La posizione della locanda era economicamente ottima.
Si trovava all'incrocio di tre strade che conducevano al
Danubio; quella a nord, alla curva che il fiume descrive
dinanzi al monte Pilis; quella a sud-est, al borgo di
Sant'Andrea; e quella a nord-ovest, alla città di Gran.
L'alberghetto, così situato tra i rami di un ampio compasso
liquido, traeva profitto dal traffico stradale che si
aggiungeva a quello fluviale.
Il Danubio, che uscendo da Gran scorre sensibilmente da
ovest a est, piega verso sud a qualche distanza dalla
confluenza con l'Ipoly, poi, dopo aver disegnato una breve
semi-circonferenza, risale in direzione del settentrione. Ma
quasi subito ritorna su se stesso e prende la direzione nordsud, verso valle e non l'abbandonerà più, per moltissimi
chilometri.
Nel momento in cui il veicolo si fermava, il sole
cominciava ad alzarsi. Nella casa, dalle grosse imposte
ermeticamente chiuse, tutti dormivano ancora.
— A voi dell'albergo!… — chiamò, battendo alla porta
con il manico della frusta, uno dei due uomini che
conducevano la carretta.
— Vengo! — rispose dall'interno il locandiere, svegliato
di soprassalto. Un istante dopo, una testa arruffata appariva
da una finestra del primo
piano.
— Che volete? — chiese l'albergatore con voce astiosa.
— Prima mangiare, poi dormire — disse il carrettiere.
— Vengo — ripeté il locandiere, sparendo nell'interno.
Quando dal portone spalancato la carretta penetrò nel
cortile, i suoi conducenti si affrettarono a staccare i due
cavalli e a condurli nella scuderia, dove fu distribuito loro
da mangiare abbondantemente. L'albergatore intanto
continuava a girare intorno a quei due clienti mattinieri con
l'evidente voglia di chiacchierare, ma i carrettieri non ne
avevano alcuna intenzione.
— Giungete di buon mattino, amici — disse
l'albergatore. — Avete viaggiato tutta la notte?
— Sembra — disse uno dei due.
— Andate lontano?
— Lontano o vicino, è una faccenda che riguarda solo
noi — gli fu risposto.
L'albergatore tacque.
— Perché maltratti questo brav'uomo, Vogel? —
intervenne l'altro carrettiere, il quale non aveva ancora
aperto bocca. — Non abbiamo motivo di nascondere che
andiamo a Sant'Andrea.
— Non abbiamo nessun motivo di nasconderlo —
rispose Vogel con tono burbero — ma ciò non riguarda
nessuno.
— Sicuramente — approvò l'albergatore, adulatore
come ogni buon commerciante. — Lo chiedevo così, per
dire qualcosa. I signori vogliono mangiare?
— Sì — rispose il più gentile dei due carrettieri. —
Pane, lardo, prosciutto, salsicce, ciò che avrai.
La carretta doveva aver percorso un lungo cammino,
perché i due conducenti fecero molto onore al pasto. Erano
anche stanchi e quindi non si attardarono a tavola. Dopo
l'ultimo boccone, si affrettarono ad andare a dormire, l'uno
sulla paglia della scuderia accanto ai cavalli, l'altro sotto il
telone della carretta.
Sonava mezzogiorno quando riapparvero per reclamare
subito un altro pasto che fu loro servito, come il
precedente, nella grande sala della locanda. Riposati,
mangiavano senza fretta. Alla frutta, i bicchieri di
acquavite si susseguirono numerosi, come se fossero
d'acqua.
Nel corso del pomeriggio numerose vetture si fermarono
alla locanda e molti avventori entrarono per bere un
bicchiere. Erano quasi tutti contadini che, con la bisaccia
sulle spalle e il bastone in mano, si recavano a Gran o ne
tornavano. Erano clienti dell'albergatore che, ben
soddisfatto di avere la testa sulle spalle, come richiedeva la
sua professione, trincava a turno con tutti i clienti. Così gli
affari prosperano: bevendo, si chiacchiera, chiacchierare
secca la gola, e si beve di nuovo.
Quel giorno la conversazione non mancava di
argomenti. Il delitto commesso durante la notte metteva i
cervelli in subbuglio. La notizia era stata portata dai primi
passanti, ciascuno dei quali raccontava un particolare
inedito o riferiva un parere personale.
L'albergatore apprese così, un po' alla volta, che la
magnifica villa del conte Hagueneau, a cinquecento metri
dalla riva del Danubio, era stata completamente svaligiata e
che il guardiano Christian era gravemente ferito; che quel
crimine era senza dubbio opera dell'inafferrabile banda di
malfattori alla quale erano attribuiti tanti altri delitti
impuniti; che la polizia perlustrava la campagna e che i
criminali erano ricercati dalla squadra recentemente creata
per la sorveglianza del fiume.
I due carrettieri non si univano alle chiacchiere che
erano accompagnate da esclamazioni e da grida. Essi si
tenevano silenziosi in disparte, ma senza dubbio non
perdevano parola di ciò che si diceva intorno a loro, non
potendo non interessarsi a ciò che appassionava tutti.
Il chiasso a poco a poco si calmò; verso le sei e mezzo
della sera, essi rimasero nuovamente soli nella grande sala,
dalla quale l'ultimo avventore si era allora allontanato. Uno
dei due chiamò il locandiere che stava risciacquando i
bicchieri e che si affrettò ad accorrere.
— Che cosa desiderano i signori? — chiese l'oste.
— Cenare — rispose un carrettiere.
— E anche dormire, dopo, non è vero? — interrogò
l'albergatore.
— No — rispose il più socievole dei due carrettieri. —
Contiamo di ripartire questa notte.
— Di notte? — si stupì l'albergatore.
— Allo scopo — proseguì il cliente — di essere all'alba
sulla piazza del mercato.
— Di Sant'Andrea?
— O di Gran. Dipenderà dalle circostanze. Aspettiamo
qui un amico che è andato a prendere informazioni e che ci
dirà dove avremo maggiore possibilità di vendere bene la
nostra merce.
L'albergatore lasciò la sala per occuparsi dei preparativi
del pasto.
— Hai sentito, Kaiserlick? — disse a bassa voce il
carrettiere più giovane, piegandosi verso il compagno.
— Sì.
— Il colpo è stato scoperto.
— Speravi forse che non lo sarebbe stato?
— La polizia batte la campagna.
— La batta pure.
— Sotto la guida di Dragoch, si dice.
— Questa è un'altra faccenda, Vogel. Secondo me,
coloro che debbono temere soltanto Dragoch possono
dormire tra due guanciali.
— Che cosa vuoi dire?
— Ciò che ho detto, Vogel.
— Dragoch sarebbe dunque?…
— Che cosa?
— Soppresso?
— Lo saprai domani. Fin allora, acqua in bocca —
concluse il carrettiere vedendo tornare l'albergatore.
La persona attesa dai due carrettieri giunse a notte fatta.
Un rapido colloquio ebbe allora inizio fra i tre compagni.
— Si dice che la polizia sia sulla pista — disse a bassa
voce Kaiserlick.
— Cerca, ma non trova.
— E Dragoch?
— Reso inoffensivo.
— Chi si è incaricato dell'operazione?
— Titcha.
— Allora, c'è del buono… E noi, che cosa dobbiamo
fare?
— Attaccare i cavalli senza perdere tempo.
— Per…
— Per Sant'Andrea, ma a cinquecento metri da qui
tornerete indietro. La locanda allora sarà chiusa e,
ripassando da qui, nessuno vi vedrà. Prenderete la strada
del nord. Mentre vi crederanno da una parte, voi sarete
dall'altra.
— Dov'è la chiatta, dunque?
— Nell'ansa di Pilis.
— È lì l'appuntamento?
— No, un po' più vicino, nella radura, a sinistra della
strada. La conosci?
— Sì.
— Vi si trovano già una quindicina dei nostri. Andrai a
raggiungerli.
— E tu?
— Io torno indietro per raccogliere il resto dei nostri
uomini, lasciati di sorveglianza. Li porterò con me.
— Su, muoviamoci — dissero i due carrettieri.
Cinque minuti dopo la carretta si metteva in movimento.
L'oste salutò cortesemente i clienti, mentre teneva aperto
un battente del portone.
— Allora, è a Gran che volete andare? — chiese.
— No — risposero i carrettieri — andiamo a
Sant'Andrea, amico.
— Buon viaggio, ragazzi! — disse l'oste.
— Grazie, amico!
La carretta girò a destra e prese la strada di Sant'Andrea.
Quando sparì nel buio della notte, l'uomo che Kaiserlick e
Vogel avevano atteso tutto il giorno, si allontanò a sua
volta in direzione di Gran.
L'albergatore non se ne accorse. Senza più occuparsi di
quei clienti, che probabilmente non avrebbe più rivisti, si
affrettò a chiudere il portone e ad andare a dormire.
Dopo cinquecento metri la carretta, che nel frattempo si
era allontanata al passo tranquillo dei suoi cavalli, si rigirò
e seguì in senso inverso la strada già percorsa.
Quando fu nuovamente all'altezza dell'albergo, ora
chiuso, avrebbe proseguito senza incidenti se un cane che
dormiva in mezzo alla carreggiata non fosse scappato di
corsa, abbaiando così forte che il cavallo di testa,
spaventato, scartò da una parte della strada. I carrettieri
fecero presto a rimettere l'animale nella giusta direzione e,
per la seconda volta, la carretta scomparve nel buio della
notte.
Erano le dieci e mezzo circa quando, abbandonando la
strada, essa penetrò in un boschetto, la cui massa scura
s'innalzava sulla sinistra. Fu fermata immediatamente.
— Chi va là? — chiese una voce.
— Kaiserlick e Vogel — risposero i carrettieri.
— Passate — disse la voce.
Dopo i primi alberi la carretta sboccò in una radura, ove
una quindicina di uomini dormivano distesi sul musco.
— C'è il capo? — chiese Kaiserlick.
— Non ancora.
— Ci ha detto di aspettarlo qui.
L'attesa non fu lunga. Dopo una mezz'ora, il capo, e cioè
la persona che era venuta all'albergo sul tardi, giunse a sua
volta accompagnato da una decina di compagni. Ora la
compagnia contava più di venticinque uomini.
— Ci siamo tutti? — chiese.
— Sì — rispose Kaiserlick, che sembrava avere una
qualche autorità.
— E Titcha?
— Eccomi — disse una voce sonora.
— Ebbene? — chiese con ansia il capo.
— Vittoria su tutta la linea. L'uccello è in gabbia sulla
chiatta.
— In tal caso, andiamo e cerchiamo di far presto —
ordinò il capo. — Sei uomini vadano avanti ed esplorino la
strada; il resto starà di retroguardia. La carretta in mezzo. Il
Danubio è a cinquecento metri da qui e lo scarico sarà fatto
in pochissimo tempo. Vogel condurrà allora la carretta e
quelli del paese torneranno tranquillamente a casa. Gli altri
prenderanno posto sulla chiatta.
I suoi ordini stavano per essere eseguiti, quando un
uomo che aveva il compito di sorvegliare la strada accorse
in fretta.
— Allarme! — disse soffocando la voce.
— Che cosa c'è? — chiese il capo.
— Ascolta.
Tutti tesero l'orecchio e udirono il passo di truppe che
marciavano sulla strada. A quel passo si unirono presto
alcune voci lontane. La distanza dalla quale provenivano
suoni e rumori era di un centinaio di tese.
— Restiamo qui — ordinò il capo. — Quella gente
passerà senza vederci.
Protetti dalla profonda oscurità, certamente non
sarebbero stati visti, ma c'era una possibilità preoccupante:
che poteva essere una squadra di poliziotti diretta verso il
fiume. Poteva anche non scoprire il battello; e se anche lo
avesse visto, avrebbe potuto perquisirlo da cima a fondo
senza trovarvi nulla di sospetto. Tuttavia, anche
ammettendo che quella squadra non arrivasse a sospettare
l'esistenza della chiatta, però poteva ugualmente rimanere
appostata nelle vicinanze: in tal caso, non sarebbe stato
prudente fare uscire la carretta.
Si sarebbe agito, ad ogni buon conto, secondo le
circostanze. Dopo aver atteso, se necessario, tutto il giorno
successivo, alcuni uomini sarebbero discesi durante la notte
fino al Danubio per assicurarsi che la polizia non c'era.
Era necessario per il momento non essere visti e che
nulla mettesse in allarme gli uomini che si avvicinavano e
che non tardarono a raggiungere il punto in cui la strada
costeggiava la radura. Nonostante l'oscurità, fu possibile
vedere che la squadra era costituita da una decina di
uomini, chiaramente armati, lo denunciava un rumore
d'acciaio.
Avevano già oltrepassato la radura, allorché un incidente
fece cambiare totalmente le cose.
Spaventato dal passaggio di quegli uomini, un cavallo
sbuffò e lanciò un lungo nitrito, ripetuto subito dall'altro.
La truppa si fermò di colpo.
Era una squadra di poliziotti che scendeva verso il fiume
al comando di Karl Dragoch, completamente rimesso
dall'incidente del mattino.
Se le persone nella radura lo avessero saputo, forse la
loro inquietudine sarebbe aumentata. Ma come abbiamo
visto, il loro capo riteneva che il temuto poliziotto fosse
fuori combattimento. Perché era caduto in quell'errore e
perché contava di non dover più affrontare un avversario
che gli era invece vicinissimo, è ciò che il seguito del
racconto non tarderà a far capire al lettore.
La mattina di quello stesso giorno, Karl Dragoch era
saltato sulla riva, dove lo attendeva Ulhmann, quest'ultimo
lo aveva condotto con sé. Dopo due o trecento metri, i due
poliziotti avevano raggiunto un canotto nascosto tra l'erba
alta della riva, e vi erano saliti. Ulhmann, remando
vigorosamente, aveva portato in breve la leggera
imbarcazione sull'altra riva del fiume.
— È su questa riva, dunque, che il crimine è stato
commesso? — chiese allora Karl Dragoch.
— Sì — rispose Friedrich Ulhmann.
— Da che parte?
— Nei dintorni di Gran.
— Nei dintorni di Gran! — esclamò Dragoch. — Non
mi dicevi poco fa che c'era poca strada da fare?
— Non è lontano — disse Ulhmann. — Ci saranno tre
chilometri, da qui.
Ce n'erano quattro, a dire il vero, e quella lunga tappa
non poté essere percorsa senza difficoltà da un uomo che
era appena sfuggito alla morte. Più volte Karl Dragoch fu
costretto a riposarsi per riprendere fiato. Erano quasi le tre
del pomeriggio quando raggiunse, alla fine, la villa del
conte Hagueneau, dove lo chiamavano le sue funzioni.
Non appena si fu ripreso, anche per merito di un cordiale
che si affrettò a chiedere, prima cura di Dragoch fu quella
di farsi condurre al capezzale del guardiano Christian Hoël.
Medicato alcune ore prima da un chirurgo dei dintorni, il
ferito, pallido e con gli occhi chiusi, ansava penosamente.
Benché la sua ferita fosse molto grave, esistevano tuttavia
buone speranze di salvarlo, a condizione però che gli fosse
risparmiata qualsiasi fatica.
Karl Dragoch riuscì a ottenere alcune informazioni, che
il guardiano gli diede a monosillabi, con voce soffocata.
Con molta pazienza, egli apprese così che una banda di
malfattori, composta da cinque o sei uomini, a dir poco, nel
corso della notte precedente aveva fatto irruzione nella
villa, dopo aver sfondato la porta. Svegliato dal rumore, il
guardiano aveva avuto appena il tempo di alzarsi, perché
subito colpito da una pugnalata tra le spalle. Ignorava
quindi che cosa fosse accaduto in seguito, e non era nella
possibilità di dare indicazioni sui suoi aggressori. Sapeva
tuttavia che il loro capo era un certo Ladko, poiché i suoi
compagni ne avevano pronunciato più volte sfacciatamente
il nome. Aveva il viso mascherato, ma era un giovane alto,
dagli occhi azzurri e con un'abbondante barba bionda.
Quest'ultimo particolare, che invalidava i sospetti che
aveva avuto sul conto di Ilia Brusch, non mancò di turbare
Karl Dragoch. Che Ilia Brusch fosse biondo, egli non ne
dubitava affatto; ma il biondo era stato tinto in nero e
nessuno può eliminare la tintura alla sera per rimetterla il
giorno dopo, come se fosse una parrucca. Su quella grave
difficoltà, Karl Dragoch si riservò di indagare a tempo
debito.
Il guardiano non poté fornirgli, del resto, altri
particolari; riguardo agli altri aggressori, non aveva notato
nulla di speciale; come il loro capo, avevano avuto la
precauzione di mascherarsi.
Ottenute quelle informazioni, il poliziotto fece altre
domande intorno alla villa del conte; seppe così che
l'abitazione era ammobiliata con magnificenza principesca.
Gioielli, argenteria e oggetti preziosi abbondavano nei
cassetti; gli oggetti d'arte sulle mensole dei camini e sui
mobili; arazzi e quadri di grandi maestri alle pareti. Titoli
erano stati lasciati nella cassaforte del primo piano. Nessun
dubbio, quindi, che gli invasori avessero fatto un
preziosissimo bottino.
La qualcosa Karl Dragoch poté agevolmente constatare
percorrendo le varie stanze della villa. Era stato un
saccheggio in perfetta regola, compiuto con metodo. Da
buoni intenditori, i ladri avevano scartato ciò che non
aveva valore: erano scomparsi soprattutto gli oggetti
preziosi. Al posto degli arazzi apparivano le pareti nude;
private delle tele più belle tagliate con arte, pendevano le
cornici vuote. I saccheggiatori avevano portato via le tende
più sfarzose, e persino i tappeti più belli. La cassaforte era
stata forzata e il suo contenuto scomparso.
«Tutta questa roba non può essere stata portata via a
spalla», disse Dragoch tra sé. «Ce n'era tanta da caricare
una vettura. Non ci resta che scovarla».
L'interrogatorio e le prime ricerche avevano richiesto
molto tempo; la notte si avvicinava. Prima che fosse buio,
occorreva trovare la traccia, se possibile, del veicolo del
quale i ladri, a parere del poliziotto, avevano dovuto fare
necessariamente uso. Dragoch si affrettò quindi a uscire.
Non ebbe bisogno di andare lontano per avere la prova
che cercava. Sul terreno del vasto cortile della villa, larghe
ruote avevano lasciato impronte profonde proprio dinanzi
alla porta fracassata; a poca distanza, la terra era calpestata,
come se alcuni cavalli avessero atteso a lungo.
Fatte tali constatazioni con un colpo d'occhio, Karl
Dragoch si accostò al luogo in cui sembrava che i cavalli
avessero sostato. Esaminò il suolo con attenzione, poi
attraversò il cortile e si avvicinò al cancello che dava sulla
strada, dove fece un altro minuzioso esame, alla fine del
quale seguì la strada per un centinaio di metri.
Rientrato nel cortile, chiamò Ulhmann.
— Signore? — rispose l'agente, avvicinandosi.
— Quanti uomini abbiamo?
— Undici.
— Sono pochi.
— Ma il guardiano dice che gli aggressori erano cinque
o sei — disse Ulhmann.
— Il guardiano ha la sua opinione, io ho la mia —
rispose Dragoch.
— Comunque, bisogna accontentarsi di quelli che
abbiamo. Lascerai un uomo qui e prenderai gli altri dieci.
Con noi due, saremo dodici. È già qualcosa.
— Avete qualche indizio? — chiese Ulhmann.
— So dove sono i ladri… o meglio, da che parte sono.
— Potrei chiedervi… — cominciò Ulhmann.
— Da dove provenga la mia certezza? — terminò la
frase Dragoch.
— Nulla di più semplice. È roba da ragazzi. Per prima
cosa ho detto a me stesso che avevano portato via troppe
cose per non aver bisogno di qualche mezzo di trasporto.
Ho cercato il veicolo e l'ho trovato. È una carretta a quattro
ruote tirata da due cavalli, e a quello di testa manca un
chiodo dallo zoccolo anteriore destro.
— Come fate a saperlo? — chiese Ulhmann, stupito.
— Perché la notte scorsa è piovuto e la terra umida ha
conservato perfettamente le impronte. Ho anche saputo
nello stesso modo che la carretta, nel lasciare la villa, è
girata a sinistra, e cioè in direzione opposta a quella di
Gran. Noi andremo dalla stessa parte e seguiremo
all'occorrenza la pista del cavallo al quale manca il chiodo.
Non sembra che questi malfattori abbiano viaggiato
durante il giorno. Si saranno cacciati senza dubbio da
qualche parte, in attesa della sera. La regione è poco abitata
e le case non sono numerose. Se necessario, frugheremo
quelle che incontreremo lungo la strada. Raccogli gli
uomini: la notte si avvicina e la selvaggina deve
cominciare a prendere aria.
Karl Dragoch e la sua squadra dovettero camminare a
lungo prima di scoprire un altro indizio. Erano quasi le
dieci e mezzo quando, dopo aver frugato inutilmente due o
tre fattorie, giunsero, all'incrocio delle tre strade, alla
locanda in cui i due carrettieri avevano trascorso la
giornata, e dalla quale erano partiti tre quarti d'ora prima.
Karl Dragoch batté con forza alla porta.
— In nome della legge! — disse Dragoch quando vide
l'albergatore apparire dalla finestra. Era scritto che quel
giorno il suo sonno sarebbe stato disturbato.
— In nome della legge! — ripeté l'albergatore,
spaventato nel vedere la sua locanda circondata dai
poliziotti. — Che cosa ho fatto?
— Vieni giù e te lo diremo. Fai presto, soprattutto —
rispose Dragoch con impazienza.
Quando l'albergatore mezzo vestito ebbe aperto la porta,
il poliziotto procedette a un rapido interrogatorio. Quella
mattina era venuta una carretta? Quante persone erano alla
sua guida? Si era fermata? Era ripartita? Da che parte si era
diretta?
Le risposte non si fecero attendere. Una carretta
condotta da due uomini era venuta all'albergo di buon
mattino. Vi era rimasta fino a sera e ne era ripartita dopo
l'arrivo di una terza persona, attesa dai due carrettieri. Si
era allontanata dopo le nove e mezzo, in direzione di
Sant'Andrea.
— Di Sant'Andrea? Ne sei sicuro? — insistette Karl
Dragoch.
— Ne sono sicuro — disse l'albergatore.
— Ti è stato detto, oppure lo hai visto?
— L'ho visto.
— Uhm!… — mormorò Dragoch. — Torna a coricarti,
ora, e non parlare di noi ad altri.
L'albergatore non se lo fece dire due volte. La porta si
chiuse e i poliziotti rimasero nuovamente soli sulla strada.
— Un momento! — ordinò Dragoch ai suoi uomini,
mentre alla luce di una pila esaminava minuziosamente il
suolo.
In principio non rilevò nulla di sospetto, ma quando,
attraversata la strada, raggiunse la carreggiata laterale, che
meno battuta e meno asciutta, aveva conservato maggiore
plasticità, alla prima occhiata Dragoch scoprì l'impronta
dello zoccolo senza un chiodo e constatò che quel cavallo
non andava verso Sant'Andrea e neppure verso Gran, ma
direttamente verso il fiume, per la strada del nord. Su tale
strada procedettero, a loro volta, Dragoch e i suoi uomini.
Dopo circa tre chilometri, percorsi senza incidenti
attraverso una contrada completamente deserta, a sinistra
della strada risonò il nitrito di un cavallo. Fermati i suoi
uomini con un gesto, Dragoch andò sino al margine di un
boschetto che appena si indovinava nel buio.
— Chi è là? — gridò.
Poiché non ebbe risposta, ordinò a un agente di
accendere una torcia di resina. La fiamma fuligginosa
brillò nella notte illune, ma il suo chiarore cessò dopo
pochi passi e non riuscì a fendere l'oscurità, resa più cupa
dal fogliame degli alberi.
— Avanti! — ordinò Dragoch penetrando nel folto alla
testa dei suoi uomini.
Ma il boschetto era difeso: ne avevano appena superato
il limite, quando una voce imperiosa intimò:
— Ancora un passo e sparo!
La minaccia non fermò Dragoch, anche perché alla vaga
luce della torcia gli era parso di vedere confusamente una
carretta, intorno alla quale c'era un numero imprecisato di
uomini.
— Avanti! — ordinò nuovamente.
A quest'ordine, i poliziotti ripresero ad avanzare con
molta incertezza nel folto del boschetto sconosciuto, ma le
difficoltà non tardarono ad aggravarsi. La torcia fu
strappata di colpo dalle mani del poliziotto che la reggeva e
l'oscurità tornò ad essere completa.
— Maldestro! — lo rimproverò Dragoch. — Fa' luce,
Franz! Luce!
La sua rabbia era accresciuta dal fatto che all'ultimo
chiarore della torcia aveva intravisto la carretta che si
allontanava sotto gli alberi. Non c'era alcuna possibilità di
inseguirla, purtroppo. E una muraglia vivente si parava
davanti ai poliziotti: ciascuno di loro doveva lottare contro
due o tre avversari. Dragoch inoltre si rese conto che non
aveva abbastanza uomini per assicurarsi la vittoria. Fino a
quel momento non era stato sparato alcun colpo di arma da
fuoco, né da una parte né dall'altra.
— Titcha! — chiamò in quell'istante una voce nel buio
della notte.
— Presente! — rispose un'altra voce.
— La vettura?
— Partita!
— Allora è meglio finirla!
Dragoch registrò quelle voci nella sua memoria. Non le
avrebbe più dimenticate.
Subito dopo quel breve dialogo, le rivoltelle fecero
risonare la campagna delle loro secche detonazioni. Alcuni
agenti furono raggiunti dai proiettili e allora Dragoch,
rendendosi conto che sarebbe stata follia insistere, decise di
ordinare la ritirata.
I poliziotti tornarono sulla strada, senza che i vincitori
osassero inseguirli, e la notte tornò calma.
Per prima cosa, fu necessario occuparsi dei tre feriti; per
fortuna, le loro condizioni non erano gravi. Dopo una
sommaria medicazione, furono mandati indietro,
accompagnati da quattro loro camerati. Dragoch, con
Ulhmann e altri tre agenti, si diresse attraverso i campi
verso il Danubio, piegando un po' in direzione di Gran.
Ritrovò facilmente il luogo in cui era sceso a terra
alcune ore prima e l'imbarcazione con la quale Ulhmann e
lui avevano attraversato il fiume. I cinque uomini vi
presero posto e, riattraversato il Danubio, ne discesero il
corso lungo la riva sinistra.
Karl Dragoch aveva subito uno scacco, ma intendeva
prendersi la rivincita. Che Ilia Brusch e il famoso Ladko
fossero lo stesso uomo, non c'era ombra di dubbio, secondo
lui, ed era al suo compagno di viaggio, ne era persuaso, che
il crimine della notte precedente doveva essere addebitato.
Con ogni probabilità Ladko, dopo aver messo al sicuro la
refurtiva, si sarebbe affrettato a riprendere la sua falsa
personalità, che ignorava fosse stata già scoperta, e che gli
aveva consentito fin allora di sviare le ricerche della
polizia. Prima dell'alba avrebbe certamente raggiunto la
chiatta per attendervi il ritorno del suo passeggero, così
come avrebbe fatto l'inoffensivo e onesto pescatore che
pretendeva di far credere d'essere.
Avrebbe allora trovato cinque uomini ad attenderlo.
Quei cinque uomini, sopraffatti da Ladko e dalla sua
banda, avrebbero avuto facilmente ragione di quello stesso
Ladko costretto a recitare da solo la parte di Ilia Brusch.
Il piano, ben concepito, purtroppo non poté essere
realizzato. Dragoch e i suoi uomini esplorarono
minuziosamente la riva senza riuscire a trovare la chiatta
del pescatore. Dragoch e Ulhmann non fecero fatica a
riconoscere il posto preciso nel quale il primo era sbarcato:
della chiatta però nessuna traccia: era scomparsa e, con
essa, era scomparso Ilia Brusch.
Dragoch era stato preso in giro, senza alcun dubbio. Con
incontenibile rabbia, il poliziotto disse al subordinato:
— Friedrich, non ne posso più. Mi sarebbe impossibile
fare ancora un solo passo. Dormiremo sull'erba per
riprendere le forze. Uno dei nostri prenderà il canotto e
andrà subito a Gran. Non appena l'ufficio sarà aperto,
metterà al lavoro il telegrafo. Accendi la pila e scrivi ciò
che ti detto.
Friedrich Ulhmann obbedì in silenzio.
«Crimine commesso questa notte dintorni di Gran.
Bottino caricato su chiatta. Effettuare con rigore visite
prescritte.»
— Questo è il primo — disse Dragoch. — Ora all'altro.
E riprese a dettare:
«Rilasciare mandato contro nominato Ladko, sedicente
Ilia Brusch dichiarantesi vincitore della Lega Danubiana
all'ultimo concorso di Sigmaringen. Detto Ladko, alias Ilia
Brusch, accusato dei crimini di furto e assassinio».
— Che ciò sia telegrafato subito a tutti i comuni
rivieraschi, senza alcuna eccezione — ordinò Karl
Dragoch, allungandosi a terra, sfinito.
CAPITOLO X
PRIGIONIERO
I SOSPETTI concepiti da Dragoch, e confermati dalla
scoperta del ritratto, non erano del tutto infondati. È tempo
che il lettore lo sappia, per una migliore comprensione del
racconto. Almeno su questo punto, Dragoch aveva
ragionato bene. Ilia Brusch e Serge Ladko erano la stessa
persona.
Dragoch si sbagliava, però, nell'attribuire al suo
compagno di viaggio i furti e i delitti che da tanti mesi
affliggevano la regione del Danubio e, in particolare, il
saccheggio della villa del conte Hagueneau e il ferimento
del guardiano Christian. Ladko, da parte sua, non
immaginava che il suo passeggero nutrisse simili sospetti.
Sapeva soltanto che il suo nome era anche quello di un
famoso criminale, senza riuscire però a capire come si era
verificata una confusione del genere.
Allarmato in un primo momento da questo omonimo,
che per colmo di sventura era anche suo compatriota, si era
ripreso dopo un attimo di istintivo spavento. Che importava
alla fin fine che un malfattore avesse in comune con lui il
nome? Un innocente non ha nulla da temere. E innocente
di quei delitti egli lo era con certezza.
Senza inquietudine, Serge Ladko — gli daremo ormai il
suo vero nome — si era assentato la notte precedente per
recarsi a Szalka, come aveva detto. In quella cittadina,
infatti, sotto il falso nome di Ilia Brusch, egli aveva fissato
la sua residenza, dopo la partenza da Russe, ed era là che
per lunghe settimane aveva atteso notizie della sua cara
Natcha.
L'attesa, come sappiamo, gli era diventata insopportabile
ed egli si torturava l'animo nel cercare un mezzo per
penetrare di nascosto in Bulgaria, quando il caso gli aveva
fatto cadere sotto gli occhi un numero del Pester Lloyd, nel
quale era annunciata con molta evidenza la gara di pesca di
Sigmaringen. Nel leggere l'articolo dedicato al concorso,
l'esiliato, abile pescatore, e pilota molto stimato, aveva
avuto l'idea di un piano d'azione la cui bizzarria gli avrebbe
forse assicurato il successo.
Sotto il nome di Ilia Brusch, il solo che avesse portato a
Szalka, si sarebbe iscritto alla Lega Danubiana per
partecipare alla gara di pesca, sicuro che la sua abilità di
pescatore gli avrebbe fatto vincere il primo premio. Dopo
aver dato in tal modo al falso nome una certa notorietà,
avrebbe annunciato ai quattro venti, accettando anche
eventuali scommesse, la sua intenzione di discendere il
Danubio, con la lenza in mano, dalla sorgente sino alla
foce. Era sicuro che quel progetto avrebbe suscitato la
rivoluzione nel mondo dei pescatori, apportando all'autore
qualche notorietà anche nel rimanente pubblico.
Provvisto da quel momento di uno stato civile al disopra
di ogni sospetto, perché solitamente si concede cieca
fiducia alle persone famose, Serge Ladko avrebbe disceso
il Danubio. Ovviamente, avrebbe fatto il possibile per
forzare l'andatura del battello, dedicando alla pesca il
tempo strettamente necessario per salvare le apparenze. In
ogni caso, avrebbe fatto parlare molto di sé lungo il
percorso, perché nessuno si dimenticasse di lui e per essere
nella possibilità di sbarcare apertamente a Russe, sotto
l'egida di una notorietà consolidata.
Affinché lo scopo della sua impresa fosse felicemente
raggiunto, occorreva che nessuno sospettasse del suo vero
nome e che nessuno potesse riconoscere il pilota Serge
Ladko nei tratti del pescatore Ilia Brusch.
La prima condizione era facile da realizzare.
Trasformato nel vincitore della Lega Danubiana, sarebbe
bastato recitare la sua parte senza commettere errori. Serge
Ladko giurò a se stesso di essere Ilia Brusch nei confronti
di tutti e contro tutti, qualunque cosa potesse accadere. Era
da supporre, del resto, che il viaggio si sarebbe compiuto
lentamente, ma con sicurezza, e che nessun incidente gli
avrebbe reso difficile tener fede al giuramento.
Realizzare la seconda sarebbe stato più facile ancora. Un
colpo di rasoio per la barba, una tintura per cambiare il
colore dei capelli e grandi occhiali neri per nascondere gli
occhi: nulla di più. Serge Ladko procedette a quel
sommario cambiamento la notte prima della partenza; poi
si mise in cammino prima dell'alba, sicuro di non essere
riconosciuto da coloro che non sapevano del suo
cambiamento.
A Sigmaringen le cose erano andate com'egli aveva
previsto. Vincitore della gara, l'annuncio del suo progetto
era stato favorevolmente commentato dalla stampa dei
paesi rivieraschi. Diventato un personaggio troppo noto
perché la sua identità potesse venire ragionevolmente
sospettata, sicuro inoltre di trovare aiuto in caso di bisogno
presso i colleghi della Lega Danubiana sparsi lungo il
corso del fiume, Serge Ladko si era affidato alla corrente.
A Ulm aveva ricevuto la prima delusione, constatando
che la sua celebrità non lo proteggeva dai fulmini
dell'amministrazione. Era stato perciò felice di imbarcare
un passeggero dai documenti in perfetta regola e del quale
la polizia sembrava apprezzare l'onorabilità. Quando a
Russe avrebbe smesso di essere quello che non era, la
presenza di quell'estraneo avrebbe potuto certamente
creargli qualche fastidio. Ma ci avrebbe pensato allora; per
il momento quella presenza avrebbe accresciuto le
probabilità di successo del viaggio che Serge Ladko
desiderava ardentemente portare a buon fine.
L'aver saputo che il suo nome era anche quello di un
feroce bandito, per di più bulgaro come lui, aveva fatto
provare a Serge Ladko la seconda, spiacevole delusione.
Per quanto fosse innocente e con la coscienza a posto, si
rendeva però conto che quella omonimia poteva far nascere
spiacevolissimi errori e anche gravissime complicazioni.
Se il nome che egli celava sotto quello di Ilia Brusch
fosse venuto a conoscenza, non soltanto avrebbe
compromesso il suo sbarco a Russe, ma l'avrebbe
notevolmente ritardato.
Contro tali pericoli Serge Ladko non poteva far nulla.
Del resto, anche se gravi, non bisognava neppure
esagerarli. Era poco probabile, infatti, che la polizia
sprecasse, senza un preciso motivo, la propria attenzione
per un inoffensivo pescatore: soprattutto per un pescatore
protetto dagli allori raccolti nella gara di Sigmaringen.
Venuto a Szalka dopo il tramonto e ripartito molto prima
dell'alba senza essere visto da alcuno, Serge Ladko era
rimasto a casa sua appena il tempo di constatare che
nessuna notizia di Natcha vi era pervenuta. Il persistente
silenzio della moglie era in realtà preoccupante. Da due
mesi la giovane non scriveva più. Che cosa le era capitato?
I torbidi popolari sono spesso causa di sciagure personali;
il pilota si chiedeva con angoscia se, ammettendo che fosse
riuscito a sbarcare felicemente a Russe, quello sbarco non
sarebbe avvenuto troppo tardi.
Quel pensiero gli spezzava il cuore e centuplicava la
forza dei suoi muscoli. Era stato quel pensiero a dargli, alla
partenza da Gran, la forza di resistere alla tempesta e di
lottare vittoriosamente contro il vento; era quel pensiero
che lo aveva spinto ad affrettare il passo, mentre faceva
ritorno alla chiatta, con il cordiale per il signor Jaeger.
Fu molto sorpreso di non trovarvi il passeggero
lasciatovi in non buone condizioni; le poche parole del
biglietto non diminuirono la sorpresa. Quale motivo
impellente poteva avere il signor Jaeger per allontanarsi,
nonostante la sua estrema debolezza? Com'era possibile
che un borghese di Vienna avesse affari urgentissimi in
aperta campagna, lontano da ogni centro abitato? Era un
problema che i ragionamenti del pilota non riuscirono a
risolvere.
A parte la causa, l'assenza del signor Jaeger presentava
comunque l'inconveniente assai grave di prolungare un
viaggio già molto lungo. Senza quell'inatteso incidente, la
chiatta avrebbe raggiunto subito il centro del fiume e prima
di sera molti chilometri sarebbero stati aggiunti a quelli fin
allora lasciatisi alle spalle.
La tentazione di non tener conto della preghiera del
signor Jaeger e di spingersi al largo per proseguire subito
un viaggio il cui scopo attirava Serge Ladko come la
calamita attira il ferro, era troppo forte.
Il pilota decise tuttavia di aspettare. Aveva qualche
obbligo verso il passeggero e, a conti fatti, riteneva meglio
perdere una giornata piuttosto che fornire pretesti ad altre
contestazioni.
Per trascorrere l'altra metà della giornata, il lavoro per
fortuna non gli sarebbe mancato. Non gli sarebbe neppure
bastato per riordinare la chiatta e per riparare alcuni danni
di poco conto causati dalla tempesta.
Serge Ladko cominciò per prima cosa a mettere ordine
nelle casse di cui aveva messo sottosopra il contenuto, nel
corso delle sue infruttuose ricerche del mattino. Ciò non
avrebbe richiesto molto tempo se, nel riordinare l'ultima, lo
sguardo non gli fosse caduto su quel portafoglio che già
aveva attirato l'attenzione di Karl Dragoch. Il pilota aprì il
portafoglio, proprio come aveva fatto il poliziotto, e come
questi, ma spinto da ben altro sentimento, ne trasse il
ritratto che Natcha gli aveva dato al momento di separarsi,
con la tenerissima dedica.
Serge Ladko contemplò a lungo il viso adorabile della
moglie. Era lei! Erano i suoi occhi limpidi, le sue labbra
socchiuse come se stesse per parlare, i suoi tratti tanto
amati!
Ripose la cara immagine nel portafoglio e il portafoglio
nella cassa, richiudendola e mettendone in tasca la chiave.
Uscì poi dalla tuga per accudire ad altri lavori.
Ma ora non aveva più voglia di lavorare. Le sue mani
rimasero inoperose; seduto sul banco, con le spalle rivolte
alla riva, lasciò vagare lo sguardo sul fiume. Il suo pensiero
volò verso Russe: vide sua moglie, la ridente casetta piena
di canti… Non aveva rimorsi, certamente: aveva sacrificato
la propria felicità alla patria… lo avrebbe rifatto, se
necessario… Quale amarezza, però, al pensiero che un sì
crudele sacrificio fosse stato inutile! La rivolta era
scoppiata in anticipo ed era stata schiacciata
inesorabilmente; ancora per quanti anni la Bulgaria
avrebbe dovuto gemere sotto il giogo degli oppressori? Gli
sarebbe riuscito di attraversare la frontiera? e, in tal caso,
avrebbe ritrovato la donna che amava? I turchi non si
sarebbero già impadroniti, quale ostaggio, della moglie di
un loro accanito avversario? E, in questo caso, che avevano
fatto di Natcha?
Ohimè! l'umile dramma intimo spariva nello
sconvolgimento che scoteva la regione balcanica. Contava
assai poco il dolore di due creature umane nel pericolo e
nel dolore di tutti. La penisola era percorsa in quel
momento da orde feroci. Ovunque il galoppo selvaggio dei
cavalli faceva tremare la terra; nei villaggi più poveri erano
passate la devastazione e la guerra.
Due pigmei lottavano contro il colosso turco: la Serbia e
il Montenegro. Questi due David sarebbero riusciti a
vincere Golia? Ladko capiva che la battaglia era impari;
riponeva ogni speranza nel padre di tutti gli slavi, il grande
zar di Russia che un giorno, forse, si sarebbe degnato di
stendere la mano possente sul capo dei figli oppressi.
Assorto in tali pensieri, Serge Ladko non si rendeva
neppure conto di dove si trovava. Un intero reggimento
avrebbe potuto sfilare sulla riva, alle sue spalle; non se ne
sarebbe accorto. A maggior ragione non si accorse
dell'arrivo di tre uomini che si avvicinavano cautamente,
alle sue spalle.
Ma se Ladko non vide i tre uomini, essi lo videro
benissimo, non appena la chiatta apparve loro alla svolta
del fiume. Il trio si fermò immediatamente e tenne
conciliabolo a bassa voce.
Dei tre nuovi venuti, uno è stato già presentato al lettore
con il nome di Titcha, quando la chiatta aveva fatto scalo a
Vienna. Era quello che, con un altro, aveva seguito i passi
di Karl Dragoch, quando il poliziotto aveva pedinato da
parte sua Ilia Brusch, recatosi dall'intermediario che curava
la spedizione di armi in Bulgaria. Come il lettore ricorderà,
quel pedinamento aveva condotto le due spie nelle
vicinanze della chiatta; sicuri di riconoscere l'abitazione
galleggiante del poliziotto, i due uomini si erano poi
allontanati, ripromettendosi di trar partito dalla loro
scoperta. Si trattava ora di mettere in esecuzione il progetto
allora formulato.
I tre uomini si erano distesi sull'erba della riva e di là
spiavano Serge Ladko, il quale, sempre soprappensiero,
ignorava la loro presenza e non aveva sospetto del pericolo
che incombeva su di lui. Il pericolo era grande; i tre
facevano parte della banda di malfattori che allora
infestava la regione danubiana e che non sarebbe stato
piacevole incontrare in luoghi solitari.
Titcha era importante nella banda; poteva essere
considerato il braccio destro del capo, le cui gesta avevano
dato al pilota una triste celebrità. Gli altri due, Sakmann e
Zerlang, erano semplici comparse: braccia, non teste.
— È lui! — mormorò Titcha, fermando con la mano i
compagni, non appena avvistata la chiatta.
— Dragoch? — chiese Sakmann.
— Sì.
— Ne sei sicuro?
— Sicurissimo.
— Ma non puoi vedere il suo viso, poiché ci volta le
spalle — disse Zerlang.
— Se ne vedessi il viso, non mi aiuterebbe affatto —
rispose Titcha. — Non lo conosco. È già tanto se l'ho visto
a Vienna.
— In questo caso!…
— Ma riconosco perfettamente il battello — lo
interruppe Titcha. — Ho potuto esaminarlo comodamente
quando io e Ladko eravamo confusi tra la folla. Sono certo
di non sbagliarmi.
— Andiamo, allora! — disse uno dei tre uomini.
— Andiamo — approvò Titcha, svolgendo un pacchetto
che teneva sotto il braccio.
Il pilota continuava a non accorgersi della sorveglianza
di cui era fatto oggetto. Non aveva percepito l'arrivo dei tre
uomini, e non udì neppur ora il loro avvicinarsi cauto e
silenzioso sull'erba spessa della riva. Smarrito nel suo
sogno, lasciava che il pensiero vagasse, con la corrente,
verso Natcha e verso il suo paese.
A un tratto numerosi lacci inestricabili gli avvinghiarono
il corpo, immobilizzandolo, accecandolo, soffocandolo.
Scattò in piedi, si dibatté istintivamente e inutilmente,
ma un colpo violento sul capo lo fece crollare, stordito, sul
fondo della chiatta. Ebbe il tempo, però, di vedere che un
giacchio, una grande rete che era servita anche a lui più
volte per pescare, lo teneva prigioniero.
Quando si riprese, Ladko non era più avvolto nella rete
che l'aveva ridotto all'impotenza. Tuttavia, era strettamente
legato con molti giri di solida corda, non poteva fare il
minimo movimento; se avesse voluto gridare un bavaglio
avrebbe soffocato le sue grida, e una spessa benda gli
impediva di vedere.
Appena tornato in sé, Ladko si sentì tutto stordito. Che
cosa gli era capitato? Che significava quell'incomprensibile
attacco? Che cosa volevano fare di lui? Anche se, tutto
considerato, poteva stare tranquillo: se avessero avuto
l'intenzione di ucciderlo, lo avrebbero già fatto. Poiché era
ancora vivo, voleva dire che i suoi aggressori non
intendevano privarlo della vita e che non avevano altra
intenzione se non quella di impadronirsi della sua persona.
Ma perché e a che scopo?
A tale domanda sarebbe stato difficile rispondere. Erano
ladri? Tanta fatica per legarlo in quella maniera, quando
con un colpo di coltello avrebbero fatto più presto e con
più tranquillità. Del resto, il povero contenuto della chiatta
quanti ladri avrebbe potuto tentare?!
Una vendetta? Impossibile. Ilia Brusch non aveva
nemici. I soli nemici di Ladko erano i turchi, i quali non
avrebbero potuto immaginare che il patriota bulgaro si
celasse sotto il nome del pescatore; e se ne fossero stati
informati, Brusch non era personaggio così in vista da far
loro commettere un atto di violenza lontano dalla frontiera,
nel cuore dell'impero austriaco. I turchi peraltro lo
avrebbero ucciso con assoluta certezza, come i ladri.
Persuasosi che almeno per il momento il mistero sarebbe
rimasto insoluto, Serge Ladko, da persona pratica, smise di
pensarvi e consacrò la sua intelligenza per ciò che sarebbe
accaduto in seguito e per cercare i mezzi, se possibile, che
gli consentissero di riacquistare la libertà.
La sua condizione non gli consentiva molte
osservazioni. La stretta a spirale della corda avvolta attorno
al corpo non gli permetteva alcun movimento; la benda
sugli occhi era talmente stretta che non avrebbe saputo dire
se era giorno oppure notte. Soltanto da alcuni rumori, si
rese conto di giacere sul fondo di una barca, la sua senza
dubbio, che avanzava rapidamente sotto lo sforzo di
braccia robuste. Percepiva chiaramente infatti il cigolio dei
remi contro il legno degli scalmi e lo sciacquio dell'acqua
che scivolava sui fianchi dell'imbarcazione.
In quale direzione si muovevano? Anche a questo
secondo problema trovò con facilità la soluzione, notando
una sensibile differenza di temperatura tra il lato destro e il
lato sinistro del suo corpo. Le scosse che la chiatta gli
comunicava a ogni colpo di remo gli rivelavano che era
disteso nel senso della marcia; e poiché il sole non era
molto lontano dal meridiano al momento dell'aggressione,
ne dedusse senza difficoltà che una metà del suo corpo
giaceva all'ombra della parete dell'imbarcazione e che
questa dall'ovest si dirigeva all'est, continuando quindi a
seguire la corrente.
Nessuna parola era stata scambiata tra coloro che lo
tenevano in loro potere. Nessun suono umano giungeva
alle sue orecchie, tranne gli ahn dei vogatori quando
facevano forza sul remo. Quella navigazione silenziosa
durava da circa un'ora e mezzo quando il calore del sole
raggiunse il suo viso, facendogli capire che si procedeva
verso il sud. Il pilota non ne fu sorpreso. Conosceva così
bene il fiume, che capì che si cominciava a seguire la curva
che esso descrive di fronte al monte Pilis. Presto,
indubbiamente, si sarebbe ripresa la direzione dell'est e poi
quella del nord, sino al punto estremo in cui il Danubio
comincia a scendere direttamente verso la penisola
balcanica.
Quelle previsioni si realizzarono soltanto in parte. Nel
momento in cui Serge Ladko credeva che fosse stata
raggiunta la parte centrale dell'ansa di Pilis, il rumore dei
remi cessò di colpo. Mentre la chiatta avanzava sul proprio
abbrivo, udì una voce aspra.
— Prendi la gaffa — ordinò uno degli invisibili
assalitori.
Quasi subito ci fu un urto, seguito dallo sfregamento del
fasciame contro un corpo duro; poi Serge Ladko fu
sollevato e passato da una mano all'altra.
Era evidente che la chiatta aveva accostato un battello di
dimensioni più notevoli, a bordo del quale il prigioniero era
stato trasportato come un sacco. Ladko tendeva inutilmente
l'orecchio per afferrare qualche parola. Nessuno aprì bocca.
I carcerieri si tradivano soltanto con il contatto delle loro
mani brutali e con il soffio dei petti ansanti.
Sballottato e stiracchiato in tutti i sensi, Ladko era
incapace persino di riflettere. Dopo averlo tirato su, lo
fecero scivolare lungo una scala che gli straziò crudelmente
le reni. Dagli urti che lo martirizzavano comprese che lo
stavano facendo passare attraverso una stretta apertura; alla
fine, dopo avergli strappato benda e bavaglio, lo mollarono
come un pacco, mentre lo sbattere sordo di una botola
risonava sul suo capo.
Stordito dal colpo, Ladko ebbe bisogno di un po' di
tempo per riprendersi. Quando vi riuscì, gli parve che la
sua situazione non fosse migliorata, anche se aveva
ritrovato l'uso della parola e della vista. Se gli era stato
tolto il bavaglio, era evidente che nessuno avrebbe potuto
udire le sue grida; né la mancanza della benda gli sarebbe
stata di maggior aiuto. Inutilmente spalancò gli occhi.
Tutto era buio intorno a lui. E che buio! Il prigioniero, che
dai colpi ricevuti aveva la sensazione di essere stato gettato
nella stiva di un battello, faceva inutili sforzi per trovare
uno spiraglio di luce attraverso le giunture di un pannello.
Non vedeva nulla. Non era l'oscurità di una cantina, nella
quale l'occhio riesce a percepire qualche vaga luce: era il
buio assoluto, paragonabile soltanto a quello della tomba.
Quante ore trascorsero in quella situazione? Ladko
ritenne che doveva essere notte fonda quando giunse fino a
lui un baccano, attutito dalla distanza. Qualcuno correva,
scalpicciava. Poi il baccano si fece più vicino. Pesanti
pacchi venivano trascinati sul suo capo; avrebbe giurato
che soltanto lo spessore di un'asse lo separava dagli
sconosciuti lavoratori.
Il fracasso si fece ancora più vicino. Ora parlavano
accanto a lui, senza dubbio dietro una di quelle pareti che
delimitavano la sua prigione, ma non riusciva a capire ciò
che dicevano.
Il fracasso ben presto cessò e il silenzio si fece
nuovamente intorno al disgraziato pilota che il buio
impenetrabile circondava.
Serge Ladko si addormentò.
CAPITOLO XI
NELLE MANI DI UN NEMICO
DOPO AVER costretto Dragoch e i suoi uomini a battere
in ritirata, i vincitori erano rimasti in un primo momento
sul luogo del combattimento, pronti a opporsi a un
eventuale ritorno offensivo. La carretta, nel frattempo, si
allontanava in direzione del Danubio. Soltanto quando il
tempo trascorso rese certo l'allontanamento definitivo delle
forze di polizia, il capo ordinò alla banda dei malfattori di
mettersi in marcia.
Gli uomini raggiunsero presto il fiume, che scorreva a
meno di cinquecento metri dal boschetto. La carretta li
aspettava dinanzi a una chiatta, che si scorgeva
confusamente a pochi metri dalla riva.
I malviventi coprirono la modesta distanza in pochi
minuti, trasportando su due barche in varie riprese il
contenuto della carretta a bordo della chiatta. Dopodiché la
carretta si allontanò, e la maggior parte dei combattenti
della radura si dispersero attraverso la campagna, dopo
aver ricevuto la propria parte di bottino. Del crimine
commesso non esisteva altra traccia che un mucchio di
colli ammonticchiati sul ponte della nave da trasporto, a
bordo della quale si erano imbarcati soltanto otto uomini.
La famosa banda del Danubio era composta, in realtà,
soltanto da quegli otto uomini. Il resto era gente che veniva
racimolata qua e là a seconda della necessità e a seconda
della regione in cui la banda operava. Questi uomini erano
tenuti sempre all'oscuro dell'esecuzione del colpo vero e
proprio, e la loro partecipazione, limitata alla funzione di
facchinaggio, vigilanza o di guardia del corpo, aveva inizio
soltanto nel momento in cui si trattava di trasportare il
bottino carpito verso il fiume.
L'organizzazione era quasi perfetta. In questo modo la
banda disponeva su tutto il percorso del Danubio di
innumerevoli affiliati, pochissimi dei quali si rendevano
conto del genere di operazioni alle quali portavano il
proprio contributo. Reclutati tra i più ignoranti, quasi tutti
dei veri bruti, essi credevano di partecipare ad operazioni
di normale contrabbando e non cercavano di saper altro.
Non avevano mai pensato di collegare colui che
comandava la spedizione alla quale prendevano parte al
famoso Ladko che, pur celando il suo nome, sembrava
stranamente compiacersi di lasciare qualche traccia del suo
stato civile sui luoghi dei suoi crimini.
La loro indifferenza sembrerà meno sorprendente se si
considera che quei crimini, commessi lungo tutto il corso
del Danubio, avvenivano su un'estensione immensa. Tra un
crimine e l'altro l'emozione pubblica aveva dunque il
tempo di placarsi. Era soprattutto negli uffici della polizia,
dove si accentravano le proteste delle regioni rivierasche,
che il nome di Ladko aveva acquistato la sua trista
celebrità. Nelle città la borghesia, anche a causa dei titoli
vistosi sui giornali, s'interessava ancora molto a quel
personaggio. Ma per la massa del popolo, e ancor più per i
contadini, si trattava di un delinquente come un altro, con il
quale si ha a che fare una volta e che poi non si rivede più.
Al contrario, gli otto uomini rimasti a bordo della chiatta
si conoscevano bene e costituivano una vera banda. Con il
loro battello, risalivano e discendevano continuamente il
Danubio. Non appena si presentava l'occasione di un buon
colpo, si fermavano, reclutavano nei dintorni gli uomini
necessari, e poi, messo il bottino al sicuro nel loro
nascondiglio galleggiante, ripartivano alla ricerca di nuove
imprese.
Quando la chiatta era piena raggiungevano il Mar Nero,
dove un vapore di loro fiducia veniva a incrociare nel
giorno stabilito. Trasportate a bordo del vapore le ricchezze
rubate, a volte a prezzo di un delitto, diventavano merce
pulita e perfettamente legale, tanto da poter essere
scambiata contro pagamento in oro in lontane contrade,
alla luce del sole e con gente onesta.
Era stata una cosa insolita che la notte precedente la
banda avesse fatto parlare di sé a così breve distanza del
precedente saccheggio. Di solito non faceva mai errori del
genere, che, ripetuti, avrebbero potuto far nascere il
sospetto nell'animo degli ignari complici assoldati nel
paese. Questa volta il capo della banda aveva avuto un
particolare motivo per non allontanarsi; e se il motivo non
era quello attribuitogli da Karl Dragoch, quando a Ulm ne
aveva parlato con Friedrich Ulhmann, il poliziotto non vi
era tuttavia estraneo.
Riconosciuto a Vienna dal capo della banda, allora
accompagnato da Titcha, suo vice, Dragoch da quell'istante
era stato seguito a vista, senza rendersene conto, da un
gruppo di complici locali, ai quali era stato detto soltanto
l'essenziale, mentre la chiatta del pescatore veniva
preceduta soltanto di pochi chilometri dall'imbarcazione
della banda. Lo spionaggio, non dei più facili in una
contrada spesso scoperta e dove numerosi erano in quel
momento i poliziotti, era stato necessariamente
intermittente; il caso poi aveva fatto sì che mai Karl
Dragoch e il suo ospite fossero visti nello stesso momento.
Nulla aveva dunque permesso di supporre che la chiatta
avesse due passeggeri e, di conseguenza, di ammettere la
possibilità di un errore.
Nel disporre quella sorveglianza, il capo dei banditi
sognava un colpo da maestro. Uccidere il poliziotto? Non
ci pensava affatto. Per il momento, pensava solo a
impadronirsene. Karl Dragoch in mano sua, egli avrebbe
avuto il coltello dalla parte del manico per trattare alla pari
se un vero pericolo lo avesse minacciato.
Per vari giorni, l'occasione per il rapimento non si era
mai presentata.
O la chiatta si fermava alla sera a troppo breve distanza
da un centro abitato, oppure capitava di riconoscere nelle
immediate vicinanze alcuni degli agenti sparpagliati sulla
riva, la cui identità non poteva sfuggire al professionista
del crimine.
La mattina del 29 agosto le circostanze erano apparse
favorevoli. La tempesta che la notte precedente aveva
protetto la banda durante l'attacco alla villa del conte
Hagueneau, doveva aver disperso in buona parte i poliziotti
che precedevano o seguivano lungo il fiume il loro capo,
che forse era momentaneamente solo e senza difesa.
Bisognava approfittarne.
Partita la carretta, Titcha era stato mandato con due
uomini risoluti a sbrigare la faccenda. Abbiamo già visto
come i tre avventurieri avevano svolto la loro missione e
come il pilota era stato fatto prigioniero al posto di
Dragoch.
Titcha aveva potuto comunicare al suo capo il felice
esito della missione solo con qualche parola scambiata
nella radura, nel momento in cui il gruppo di poliziotti era
sopraggiunto. Avrebbero ripreso il discorso, ma in
quell'istante non era possibile parlarne. Per prima cosa
bisognava far sparire e mettere al sicuro i numerosi colli
ammucchiati sul ponte; a ciò posero mano, senza perdere
tempo, gli otto uomini che formavano l'equipaggio della
nave.
Sia a mano, sia facendoli scivolare su dei piani inclinati,
i colli furono prima portati all'interno del battello; in pochi
minuti poi si procedette allo stivamento definitivo. Per fare
ciò fu sollevato l'impiantito della stiva che nascondeva una
buca, proprio là dove ci si sarebbe legittimamente aspettato
di trovare l'acqua del Danubio. Una lanterna calatavi
dentro, illuminò un mucchio di oggetti disparati che la
riempivano già in parte, ma che lasciavano ancora
abbastanza spazio perché le cose rubate al conte
Hagueneau trovassero a loro volta sistemazione
nell'insospettabile nascondiglio.
Ingegnosamente truccata, l'imbarcazione serviva infatti
come mezzo di trasporto, come abitazione e come
magazzino inviolabile. Al disotto del battello che si vedeva
era stata costruita un'imbarcazione più piccola: il fondo del
primo costituiva il ponte dell'altra. Questa seconda
imbarcazione, di circa due metri di profondità, aveva un
dislocamento tale da renderla capace di sostenere la prima
e di sollevarla di un paio di piedi al disopra della superficie
dell'acqua. Per porre rimedio a quest'inconveniente, che
avrebbe tradito l'inganno, l'imbarcazione sottostante veniva
zavorrata in quantità sufficiente a mantenerla interamente
sott'acqua, di modo che la chiatta superiore conservasse la
linea di galleggiamento che avrebbe dovuto avere vuota.
Vuota la sua stiva lo era sempre; le merci rubate
andavano ad ammucchiarsi nel doppio fondo e vi
costituivano la zavorra, così che l'aspetto esteriore non
appariva modificato.
Ma mentre la barca senza carico avrebbe dovuto pescare
appena un piede, così affondava nell'acqua per quasi sette
piedi. Ciò creava serie difficoltà nella navigazione sul
Danubio e rendeva necessario l'ausilio di un esperto pilota.
Il pilota della banda era un certo Yacoub Ogul, un israelita
nato a Russe. Praticissimo del fiume, Ogul avrebbe potuto
competere con Ladko per la perfetta conoscenza dei passi,
dei canali e dei banchi di sabbia; con mano sicura, egli
governava il battello attraverso le rapide cosparse di rocce
che a volte s'incontrano lungo il corso del fiume.
La polizia avrebbe potuto controllare il battello da cima
a fondo, misurarne l'altezza interna ed esterna senza
trovarvi la minima differenza; avrebbe potuto saggiare
dappertutto senza scoprire il nascondiglio sotto la linea
d'acqua: ogni indagine l'avrebbe condotta alla
constatazione che la chiatta era vuota e che, di
conseguenza, pescava quel tanto d'acqua strettamente
sufficiente per stare a galla.
Per ciò che riguarda i documenti, le misure prese non
lasciavano a desiderare: in ogni caso, sia che
l'imbarcazione discendesse o risalisse il fiume, sia che
andasse a caricare le merci, sia che, sbarcate le merci,
facesse ritorno al porto d'attracco. A seconda delle
circostanze, essa apparteneva ora al signor Constantinesco
e ora al signor Wenzel Meyer, commercianti, il primo di
Galata e l'altro di Vienna. I documenti, muniti dei timbri
ufficiali prescritti, erano a tal punto in regola che nessuno
si era mai sognato di andare a fare un controllo. E se anche
qualcuno lo avesse fatto, avrebbe accertato l'esistenza di un
Constantinesco o di un Wenzel Meyer, nell'una o nell'altra
delle città indicate.
In realtà, il vero proprietario si chiamava Ivan Striga.
Il lettore si ricorderà, probabilmente, che quel nome
apparteneva a un individuo di Russe assai poco
raccomandabile, il quale, dopo aver inutilmente cercato di
impedire il matrimonio di Serge Ladko e di Natcha
Gregorevitch, era poi scomparso dalla città. Voci imprecise
l'avevano poi accusato di ogni delitto.
Una volta tanto, quelle voci non si sbagliavano. Con altri
sette delinquenti della sua risma, Ivan Striga aveva
costituito, infatti, una banda di pirati che, d'allora,
infestavano letteralmente le due rive del Danubio.
Aver trovato la strada per arricchirsi facilmente era già
qualcosa; ma assicurarsi l'impunità era ancor meglio. A
questo scopo, invece di nascondere nome e viso, come
avrebbe fatto un volgare malfattore, aveva fatto in modo
che le sue vittime gli dessero un nome, che non era
ovviamente il suo, ma astutamente quello di Serge Ladko.
Attribuire i propri misfatti a un'altra persona è un'astuzia
abbastanza comune, ma Striga aveva scelto con
intelligenza il nome giusto.
Il nome di Ladko era — né più né meno di un altro —
capace di creare confusione e quindi, a parte il caso di
flagrante colpevolezza, di stornare i sospetti dal vero
colpevole: inoltre aveva alcuni vantaggi suoi propri.
Per prima cosa Serge Ladko non era un mito. Esisteva,
se il colpo di fucile che lo aveva salutato quando era partito
da Russe non lo aveva definitivamente ucciso. Anche se
Striga si vantava volentieri di avere ucciso il suo nemico, il
fatto è che non ne sapeva nulla. Ciò importava poco, del
resto, al fine dell'inchiesta che poteva essere fatta a Russe.
Se Ladko era morto, la polizia non avrebbe capito nulla
delle accuse che gli sarebbero state imputate. Se era vivo,
essa avrebbe trovato un uomo in carne e ossa, di
onorabilità così indiscussa che l'inchiesta si sarebbe
arenata. Si sarebbero ricercati, allora, coloro che avessero
avuto la sfortuna di essere suoi omonimi. Ma prima di
passare al setaccio tutti i Ladko del mondo, quanta acqua
sarebbe passata sotto i ponti del Danubio!
Se per caso, a furia di essere rivolti nella stessa
direzione, i sospetti fossero riusciti a scalfire la corazza di
onorabilità di Serge Ladko, il risultato sarebbe stato
doppiamente felice. Oltre al fatto che un bandito è sempre
contento di sapere che un altro è sospettato al posto suo, è
ancora più contento se nutre per la sua vittima un odio
mortale.
Anche se queste deduzioni fossero state sbagliate, la
sparizione di Serge Ladko, del quale nessuno conosceva la
patriottica missione, le avrebbe rese logiche. Perché il
pilota era partito senza dir nulla? La locale sezione di
polizia del fiume cominciava a farsi questa domanda
esattamente nel momento in cui Karl Dragoch scopriva ciò
che egli credeva essere la verità; e, come tutti sanno,
quando la polizia comincia a farsi delle domande, c'è poca
speranza che essa vi risponda con benevolenza.
La situazione, nella sua drammatica complicazione, era
perciò chiarissima. Una lunga serie di delitti volutamente
attribuiti a un certo Ladko, di Russe; il pilota dallo stesso
nome finora sospettato vagamente, molto vagamente, a
causa della sua sparizione, di essere il colpevole; mentre a
centinaia di chilometri un certo Ladko, accusato da più
gravi indizi, depistava le indagini sotto il travestimento del
pescatore Ilia Brusch; e Striga, nel frattempo, che dopo
ogni spedizione banditesca riprendeva il suo vero nome,
per circolare liberamente sul Danubio.
Perché la sua sicurezza non fosse minacciata però
bisognava far sparire qualsiasi traccia compromettente e
nel più breve tempo possibile. Ecco perché quella sera il
recente bottino fu, come al solito, accatastato in fretta
nell'insospettabile nascondiglio. Era il rumore dello
stivamento quello che il vero Serge Ladko udiva dalla sua
prigione ricavata nella stiva sott'acqua, in fondo alla quale
nessuna forza umana sarebbe stata in grado di aiutarlo.
Rimesso a posto il pavimento, gli uomini risalirono sul
ponte, le cui serrette furono richiuse. La polizia poteva
venire, ormai: non avrebbe trovato nulla!
Erano quasi le tre del mattino. Stanco per le fatiche di
quelle due notti, l'equipaggio avrebbe avuto bisogno di
riposo: ma ciò non era possibile. Striga voleva allontanarsi
al più presto dal luogo del suo ultimo crimine; diede perciò
l'ordine di mettersi in cammino, approfittando delle prime
luci del giorno. L'ordine fu eseguito di buona voglia perché
tutti si rendevano conto delle ragioni che lo avevano
dettato.
Mentre si salpava l'ancora e si cercava di spingere il
battello in mezzo al fiume, Striga chiese i particolari della
spedizione del mattino.
— Ogni cosa è andata benissimo — gli rispose Titcha.
— Dragoch è stato catturato al primo lancio della rete,
come un luccio.
— Vi ha visto?
— Non credo; aveva ben altro da pensare.
— Ha lottato?
— Ha cercato; l'ho dovuto quasi accoppare per farlo star
fermo.
— Non lo avrai ammazzato, spero — disse Striga.
— No! Stordito, al più. Ne ho approfittato per legarlo
come un salame. Non avevo ancora finito di impacchettarlo
che già tornava a respirare.
— E ora?
— È nella stiva. Nel doppio fondo, naturalmente.
— Sa dove è stato trasportato?
— Dovrebbe essere troppo furbo — disse Titcha,
ridendo. — Puoi ben immaginare che non ho dimenticato
né il bavaglio né la benda. Glieli abbiamo tolti quando è
stato messo in gabbia, dove, se vuole, potrà cantare
romanze e ammirare il panorama.
Striga sorrise, senza dir nulla. Titcha proseguì:
— Ho fatto ciò che mi hai ordinato, ma dove ci condurrà
questa faccenda?
— Se non altro, a disorganizzare la brigata, rimasta
priva del suo capo — rispose Striga.
Titcha alzò le spalle.
— Ne nomineranno un altro — disse.
— È possibile, ma forse non varrà quello che abbiamo
nelle nostre mani. In ogni caso, potremo contrattare. Se
sarà necessario, potremo restituirlo in cambio dei
passaporti che ci serviranno. Occorre perciò mantenerlo
vivo.
— Lo è — disse Titcha.
— Hai pensato a dargli da mangiare?
— Diamine! — disse Titcha, grattandosi il capo. — Ce
ne siamo dimenticati. Ma dodici ore di digiuno non hanno
mai fatto male a nessuno: gli porterò da mangiare non
appena saremo in cammino. A meno che non voglia
portarglielo tu stesso, per renderti conto di persona…
— No — disse Striga con vivacità. — È meglio che non
mi veda. Io lo conosco ed egli non mi conosce. È un
vantaggio che non voglio perdere.
— Potresti mettere una maschera.
— Con Dragoch la maschera non conta. Non è
necessario fargli vedere il viso. L'altezza, la corporatura, un
piccolo particolare gli bastano per riconoscere la gente.
— Allora sto fresco, io che debbo portargli da mangiare!
— Bisogna che qualcuno lo faccia… Del resto, Dragoch
ora non è pericoloso; se tornerà ad esserlo, vorrà dire che
noi saremo al sicuro.
— Amen! — disse Titcha.
— Per il momento — proseguì Striga — lo lasceremo
nella sua cassa. Non per molto tempo, perché potrebbe
morire asfissiato. Lo porteremo in una cabina del ponte,
non appena avremo oltrepassato Budapest. Domani
mattina, dopo la mia partenza.
— Vuoi allontanarti? — chiese Titcha.
— Sì — rispose Striga. — Ogni tanto lascerò la nostra
chiatta per assumere informazioni sulla riva. Sentirò ciò
che si dice della nostra ultima faccenda e della scomparsa
di Dragoch.
— E se ti pizzicano?
— Non c'è pericolo. Nessuno mi conosce; la polizia del
fiume dev'essere in pieno marasma. Per gli altri avrò, se
necessario, una nuova identità.
— Quale?
— Quella del celebre Ilia Brusch, insigne pescatore,
vincitore della Lega Danubiana.
— Che idea!
— Eccellente. Ho la chiatta di Ilia Brusch; non devo far
altro che prendere a prestito i suoi panni, come ha fatto
Karl Dragoch.
— E se ti chiedono il pesce?
— Ne comprerò, se occorre, per rivenderlo.
— Hai una risposta per ogni domanda.
— Diamine!
Quelle parole misero fine alla conversazione. Il battello
aveva cominciato a seguire il filo della corrente. Soffiava
una lieve brezza dal nord che sarebbe stata molto
favorevole quando, un po' prima di Visegrad, il Danubio,
ripiegando su se stesso, avrebbe seguito la direzione del
sud. Ma, per il momento, ritardava la marcia del battello;
volendo allontanarsi sollecitamente dalla zona delle sue
gesta, Striga diede l'ordine di sistemare due lunghi remi per
aiutare la marcia contro vento.
Ci vollero tre ore per percorrere dieci chilometri e
raggiungere il primo gomito del fiume, altre due ore per
seguire la curva che il Danubio disegna prima di prendere
decisamente la direzione del sud. Un po' prima di Waitzen
fu possibile lasciare i remi e, sotto la spinta della vela, la
marcia del battello fu notevolmente accelerata.
Verso le undici si passò dinanzi a Sant'Andrea, dove i
conducenti della carretta Kaiserlick e Vogel la notte
precedente avevano detto di volersi recare. Poiché non
c'era motivo di fermarsi, la chiatta continuò a scivolare
verso Budapest, ancora lontana una trentina di chilometri.
A mano a mano che si procedeva, l'aspetto delle rive si
faceva più duro. Le isole piene d'ombra e di verde si
moltiplicavano, lasciando a volte, tra l'una e l'altra, stretti
canali interdetti ai battelli ma utilizzabili dalla navigazione
di diporto.
In quella parte del Danubio i battelli da trasporto
svolgono una notevole attività. Si verificano frequenti
ingombri, anche perché il corso del fiume è chiuso tra le
prime ramificazioni delle Alpi Noriche e le ultime
ondulazioni dei Carpazi. A volte capita qualche
arenamento o, per un attimo di distrazione dei piloti, un
abbordaggio di poco conto, che fa solo perdere un po' di
tempo: ma quante grida e quanti litigi al momento della
collisione!
La chiatta comandata da Striga era tra quelle meglio
governate. Stazzava oltre duecento tonnellate, sul ponte
aveva uno spardeck, una soprastruttura che a poppa
formava il tetto della tuga abitata dal personale. A prua, un
piccolo albero serviva per issarvi la bandiera nazionale; a
poppa, un timone a pala larga permetteva al pilota di
mantenere il battello nella giusta direzione.
A mano a mano che si seguiva la corrente, il traffico sul
fiume andava aumentando, come succede in prossimità
delle grandi città. Leggere imbarcazioni a vela o a vapore,
cariche di turisti o di passeggeri, scivolavano tra le isole.
Presto il fumo dei camini delle officine oscurò il lontano
orizzonte, annunciando la periferia di Budapest.
In quel momento accadde un fatto strano: Striga fece un
cenno a Titcha che entrò nella tuga di poppa con un altro
membro dell'equipaggio. I due uomini ne uscirono quasi
subito, scortando una donna slanciata, il cui viso era
seminascosto da un bavaglio. Con le mani legate dietro la
schiena, la donna camminava tra i due senza cercare di
opporre una resistenza che sapeva inutile. Discese
docilmente nella stiva e poi in una sezione del doppio
fondo, la cui botola fu chiusa sul suo capo.
Titcha e il suo compagno ripresero subito le loro
occupazioni.
Verso le tre del pomeriggio, la chiatta s'inoltrò tra le
alzaie della capitale dell'Ungheria. A destra era Buda, la
vecchia città turca; a sinistra, Pest, città moderna. A
quell'epoca Buda era, più di quanto non lo sia oggi, una di
quelle vecchie città pittoresche che il progresso livellatore
tende a far sparire. Per contro, Pest, pur essendo già
importante, non aveva ancora raggiunto il prodigioso
sviluppo che ha fatto di essa la più bella e più importante
metropoli dell'Europa orientale.
Sulle sue rive, e particolarmente su quella sinistra, si
susseguivano le case ad arcate e terrazze, dominate dai
campanili delle chiese dorati dai raggi del sole, e i due
lungofiume non mancavano né di nobiltà né di grandiosità.
L'equipaggio della chiatta non prestava alcuna
attenzione all'incantevole spettacolo; poiché la traversata di
Budapest avrebbe potuto procurare spiacevoli sorprese a
gente così poco raccomandabile, tutti non avevano occhi
che per le numerose imbarcazioni che incrociavano lungo il
fiume. Precauzione che permise a Striga di notare
tempestivamente, tra gli altri, un battello con quattro
uomini che puntava direttamente su di loro. Avendo
riconosciuto il battello della polizia fluviale, con
un'occhiata avvertì Titcha, che senza far domande, si calò
nella stiva.
Striga non si era sbagliato; pochi minuti dopo il canotto
aveva raggiunto la chiatta. Due uomini salirono a bordo.
— Il capo? — chiese un poliziotto.
— Sono io — rispose Striga, facendo un passo avanti.
— Il vostro nome?
— Ivan Striga.
— Nazionalità?
— Bulgara.
— Da dove viene la chiatta?
— Da Vienna.
— Dove va?
— A Galata.
— Chi ne è proprietario?
— Il signor Constantinesco di Galata.
— Carico?
— Nulla. Facciamo ritorno vuoti.
— I documenti?
— Eccoli — disse Striga, esibendoli.
— Benissimo — approvò il poliziotto, dopo averli
esaminati attentamente. — Andiamo a dare un'occhiata alla
stiva.
— Come volete — disse Striga. — Mi permetto di farvi
notare che questa è la quarta perquisizione che la chiatta
subisce da quando siamo partiti da Vienna. Non è
piacevole.
Il poliziotto, esecutore di ordini, declinò con un gesto la
propria responsabilità, e senza dir nulla discese attraverso il
boccaporto. Quando fu nella stiva, fece qualche passo, si
guardò intorno e poi rìsalì: nulla gli aveva fatto sospettare
che sotto i suoi piedi giacevano due creature umane: un
uomo da una parte, una donna dall'altra, entrambe ridotte
all'impotenza e nell'impossibilità di chiedere aiuto. La
visita non poteva essere né più lunga né più coscienziosa:
la chiatta era vuota e non c'era motivo, quindi, di indagare
sulla provenienza del carico: il che semplificava le cose.
Il poliziotto tornò all'aperto e senza ulteriori domande
raggiunse il canotto, che si allontanò per fare altre
perquisizioni, mentre la chiatta proseguiva il suo cammino.
Quando l'imbarcazione si ebbe lasciate dietro le ultime
case di Budapest, parve venuto il momento di occuparsi
della prigioniera. Titcha e un suo compagno scesero
nell'interno del battello per uscirne poco dopo con la donna
che vi era stata rinchiusa poche ore prima e che ora fu
riportata nella tuga. Gli altri uomini dell'equipaggio non
parvero prestare attenzione all'operazione.
Alla sera la chiatta fece sosta tra il villaggio di Ercsin e
quello di Adony, trenta chilometri al disotto di Budapest,
per ripartire all'alba del giorno dopo. Nel corso del 31
agosto, la discesa del fiume fu interrotta da alcune fermate,
durante le quali Striga lasciò il battello per usare la chiatta
di Ilia Brusch. Invece di nascondersi, egli si avvicinava ai
villaggi, si presentava ai loro abitanti come il famoso
vincitore della Lega Danubiana, la cui fama non poteva
non essere giunta fino a loro, e chiacchierava con essi
cercando astutamente di portare la conversazione sugli
argomenti che gli stavano a cuore.
Le informazioni raccolte furono poche. Il nome di Ilia
Brusch non sembrava molto noto nella regione. Senza
dubbio, a Mohacs, Apatin, Neusatz, Semlin o Belgrado,
che sono città importanti, non sarebbe stato così. Ma Striga
non aveva l'intenzione di arrischiarvisi e contava di
assumere informazioni soltanto nei villaggi, dove la polizia
esercitava necessariamente una sorveglianza meno
efficace. Gli abitanti, purtroppo, non erano al corrente della
gara di Sigmaringen e rifiutarono qualunque intervista. Del
resto, non sapevano nulla; nulla di Karl Dragoch, e ancora
meno di Ilia Brusch; e Striga usò inutilmente le arti della
sua diplomazia.
Com'era stato stabilito il giorno precedente, durante
un'assenza di Striga, Serge Ladko fu trasportato sul ponte e
rinchiuso in una piccola cabina, la cui porta venne chiusa a
chiave. Precauzione esagerata, forse, se si pensa che il
prigioniero, strettamente legato, non poteva fare alcun
movimento.
Dal 1° al 6 settembre le giornate trascorsero
tranquillamente. Sospinta dalla corrente e dal vento
favorevole, l'imbarcazione proseguiva la discesa del fiume
percorrendo una sessantina di chilometri ogni
ventiquattr'ore. Ne avrebbe percorsi di più se le assenze di
Striga non l'avessero costretta a sostare ripetutamente.
Se le sue assenze risultavano sempre sterili di
informazioni, almeno una volta egli riuscì a renderle utili
sotto un altro aspetto.
Ciò accadde il 5 settembre, quando la chiatta andò a
ormeggiarsi durante la sera dinanzi al piccolo villaggio di
Szuszek. Striga scese a terra, come di consueto; i contadini,
che hanno l'abitudine di andare a letto quando c'è ancora il
sole, erano quasi tutti a casa. Nel passeggiare in compagnia
dei suoi pensieri, notò a un tratto una casa dall'aspetto
abbastanza signorile, il cui proprietario, fiducioso nella
probità del prossimo, aveva lasciato la porta aperta per
recarsi nelle vicinanze.
Senza esitare, Striga entrò in quella casa. Si trattava di
una bottega di vendita al minuto: ne faceva fede l'esistenza
del banco. Prendere dal cassetto del banco l'incasso della
giornata richiese appena un istante. Non soddisfatto di quel
modesto furto, scoprì poi nella parte inferiore di uno stipo,
la cui effrazione fu per lui un giuoco, una sacca rotondetta
che emise, nel maneggiarla, un suono metallico di buon
augurio.
Tranquillizzato sul suo contenuto, Striga si affrettò a
raggiungere la chiatta, la quale, all'alba, era già lontana.
Fu questa l'unica avventura del viaggio.
A bordo Striga aveva altre occupazioni. Ogni tanto
spariva nella tuga ed entrava nella cabina di fronte a quella
in cui era stato rinchiuso Serge Ladko. A volte la sua visita
durava pochi minuti, a volte di più. In quest'ultimo caso,
non era raro che giungesse fin sul ponte l'eco di una
violenta discussione, nella quale si distingueva la voce di
una donna che rispondeva con calma a un uomo
arrabbiatissimo. Il risultato era allora sempre identico:
indifferenza generale da parte dell'equipaggio e uscita
furibonda di Striga, il quale si affrettava a lasciare la nave
per calmare altrove i nervi irritati.
Era soprattutto sulla riva destra che egli svolgeva le sue
ricerche; rari sono infatti i villaggi e le borgate della riva
sinistra, al di là della quale si estende a perdita d'occhio
l'immensa puszta.
La puszta è la pianura ungherese per eccellenza, limitata
a quasi cento leghe di distanza dalle montagne della
Transilvania. La strada ferrata che la serve attraversa
un'infinita distesa di terre deserte, di vasti pascoli e di
paludi immense in cui pullula la selvaggina acquatica. La
puszta è la tavola sempre abbondantemente rifornita per
innumerevoli convitati a quattro zampe: migliaia e migliaia
di ruminanti che costituiscono una delle principali
ricchezze del regno d'Ungheria. E già tanto se vi
s'incontrano alcuni campi di grano e di granturco.
Qui il fiume si allarga considerevolmente e numerose
isole e isolotti ne suddividono il corso. Alcune isole sono
abbastanza estese e lasciano ai lati due braccia dove la
corrente acquista una certa velocità.
Queste isole non sono fertili; sulla loro superficie
crescono soltanto betulle, tremole, salici, in mezzo al limo
deposto dalle frequenti inondazioni. Vi si raccoglie tuttavia
fieno in abbondanza che le barche, cariche fino all'orlo,
trasportano nelle fattorie o nelle borgate della riva.
Il 6 settembre la chiatta si ormeggiò al cader della sera.
Striga era assente in quel momento. Se non aveva voluto
correre rischi mettendo piede a terra a Neusatz o a
Peterwardein, che la fronteggia, cittadine abbastanza
importanti e quindi pericolose, si era però fermato, per le
sue indagini, nel borgo di Karlovitz, posto a una ventina di
chilometri più a valle. Per suo ordine, la chiatta si era
ormeggiata due o tre leghe più a valle per attenderlo e lui
l'avrebbe raggiunta con l'aiuto della corrente.
Verso le nove di sera egli non ne era molto lontano. Non
aveva fretta; abbandonandosi a piacevoli pensieri, lasciava
che l'imbarcazione seguisse la corrente. Il suo stratagemma
era pienamente riuscito. Nessuno aveva sospettato di lui ed
egli aveva potuto assumere liberamente informazioni,
poche, a dire il vero. Ma la generale ignoranza, che
confinava con l'indifferenza, era dopo tutto un sintomo
favorevole. In quella regione si era sentito parlare molto
vagamente della banda del Danubio; si ignorava persino
l'esistenza di Karl Dragoch, la cui scomparsa, quindi, non
poteva suscitare emozione.
D'altra parte, o a causa della scomparsa del suo capo o a
motivo della povertà della regione attraversata, la vigilanza
della polizia sembrava notevolmente diminuita. Da più
giorni Striga non aveva scorto nessun sospetto agente, e
nessuno parlava della sorveglianza fluviale, così attiva due
o trecento chilometri più a monte.
Sperava dunque che la chiatta giungesse felicemente al
termine del suo viaggio, e cioè al Mar Nero, dove il suo
carico sarebbe stato trasferito a bordo del solito vapore. Il
giorno dopo l'imbarcazione avrebbe superato Semlin e
Belgrado; in seguito sarebbe bastato costeggiare
preferibilmente la riva serba per mettersi al riparo di
qualsiasi spiacevole sorpresa. La Serbia doveva essere più
o meno disorganizzata a causa della guerra sostenuta
contro la Turchia, e non sembrava affatto che le autorità
rivierasche perdessero il loro tempo ad occuparsi di una
chiatta che scendeva vuota il corso del fiume.
Chi potrebbe dirlo? Quello sarebbe stato, forse, l'ultimo
viaggio di Striga. Dopo aver fatto fortuna, forse si sarebbe
ritirato lontano, ricco, stimato… e felice, sognava,
pensando alla prigioniera della chiatta.
Era a questo punto delle sue fantasticherie, quando i suoi
occhi caddero sulle due casse simmetriche, i cui coperchi
erano serviti per tanto tempo da cuccetta a Karl Dragoch e
al suo ospite; a un tratto si rese conto che da otto giorni, da
quando cioè era padrone della chiatta, non l'aveva ancora
esaminata a fondo. Era tempo di mettere riparo all'assurda
dimenticanza.
Cominciò con la cassa di destra, che scoperchiò con
destrezza. Vi trovò ammucchiati in bell'ordine, capi di
biancheria e abiti. Striga, che non sapeva che fare di quella
roba, richiuse la cassa e passò all'altra, il cui contenuto non
differiva molto dall'altra; deluso, stava per richiuderla
quando vide in un angolo un oggetto che attirò la sua
attenzione. Vestiti e biancheria non lo interessavano, ma
quel grosso portafoglio, che sembrava contenere carte e
documenti, forse sì. Gli incartamenti non hanno l'uso della
parola, ma in certi casi non c'è nulla che eguagli la loro
eloquenza.
Striga aprì il portafoglio; ne vennero fuori, come
sperava, numerosi fogli, che si mise a esaminare
pazientemente. Lettere e ricevute, tutte a nome di Ilia
Brusch, passarono per le sue mani; poi i suoi occhi,
spalancati per la sorpresa, si soffermarono sul ritratto che
aveva già attirato i sospetti di Karl Dragoch.
In un primo momento, Striga non riuscì a capire. Che
nella chiatta ci fossero carte intestate a Ilia Brusch e
nessuna al poliziotto era cosa già abbastanza stupefacente.
Ma questa stranezza poteva essere spiegata facilmente.
Karl Dragoch, invece di diventare il doppione del vincitore
della Lega Danubiana, come Striga aveva fin allora
creduto, forse d'accordo con il vero Ilia Brusch, aveva
assunto la personalità del pescatore e ne aveva conservati i
documenti per giustificare, in caso di bisogno, la propria
identità. Ma perché il nome Ladko? Perché quel nome con
il quale, con abilità diabolica, Striga firmava i suoi crimini?
E che cosa ci stava a fare il ritratto di quella donna alla
quale egli non aveva mai rinunciato, nonostante i suoi
tentativi fossero stati respinti sempre? Chi era dunque il
legittimo proprietario di quella chiatta per essere in
possesso di un documento così personale e così strano? A
chi apparteneva l'imbarcazione? a Karl Dragoch, a Ilia
Brusch o a Serge Ladko? quale di questi tre uomini, due
dei quali lo interessavano moltissimo, era tenuto
prigioniero sul suo battello? Era convinto di aver ucciso
Ladko, la sera in cui, con un colpo di fucile, aveva colpito
uno dei due uomini che su una barca si allontanavano
furtivamente da Russe. Non è che avesse mirato bene,
quella sera; avrebbe preferito, invece del poliziotto, tenere
tra le mani il pilota: e in questo caso, la seconda volta, non
avrebbe più sbagliato mira. E nemmeno ci sarebbe stato
motivo di tenerlo come ostaggio: una pietra al collo e la
faccenda era chiusa; si sarebbe sbarazzato in una sola volta
di un nemico mortale e di un ostacolo che gli impediva di
realizzare i suoi progetti.
Impaziente di conoscere la verità, mettendo via il ritratto
appena trovato, Striga prese il remo e affrettò la marcia
dell'imbarcazione.
La sagoma del battello apparve presto nella notte.
Accostò in fretta, saltò sul ponte e si diresse verso la cabina
che fronteggiava quella da lui visitata solitamente.
Introdusse la chiave nella serratura.
Serge Ladko, che ne sapeva molto meno del suo
carceriere, non aveva neppure la possibilità di scegliere tra
le varie spiegazioni della sua disavventura. Il mistero gli
sembrava assolutamente impenetrabile e aveva rinunciato a
fare congetture sui motivi che potevano aver portato al suo
sequestro.
Quando si era svegliato in fondo alla sua cella, la prima
sensazione provata era stata quella della fame. Erano
trascorse più di ventiquattr'ore dal suo ultimo pasto e la
natura non perde mai i suoi diritti, qualunque sia la
violenza delle emozioni.
Dapprima cercò di pazientare; poi la fame si fece più
imperiosa ed egli perdette la calma che lo aveva fin allora
sostenuto. Volevano forse farlo morire di fame? Chiamò;
nessuno rispose. Chiamò a voce più alta; si sgolò in urla
furiose, ma tutto fu inutile.
Esasperato, cercò di spezzare i suoi legami: erano solidi
ed egli si rotolò inutilmente sul pavimento cercando di
spezzarli.
Durante quei movimenti convulsi, il suo viso urtò contro
un qualcosa che era accanto a lui. L'olfatto reso acuto dalla
fame riconobbe un pezzo di pane e del lardo che
indubbiamente erano stati deposti accanto a lui mentre
dormiva, ma non era cosa facile afferrarli, legato com'era.
Ma la necessità aguzza l'ingegno: dopo ripetuti tentativi,
riuscì a fare a meno dell'aiuto delle mani.
Soddisfatta la fame, le ore trascorsero lente e monotone.
Nel silenzio, giungeva alle sue orecchie un mormorio,
qualcosa che sembrava il fremito delle foglie agitate dal
vento. Il battello sul quale si trovava era, evidentemente, in
cammino e fendeva come un cuneo l'acqua del fiume.
Quante ore erano trascorse, quando la botola fu sollevata
sul suo capo? Sospesa all'estremità di una cordicella, una
razione di pane e di lardo oscillò nell'apertura, che
un'incerta luce rischiarava, e si posò accanto a lui.
Trascorsero altre ore e poi la botola tornò ad aprirsi. Un
uomo discese; si avvicinò al suo corpo inerte e gli chiuse la
bocca con un ampio bavaglio. Avevano paura dunque che
egli gridasse e che potesse essere sentito? Senza dubbio; il
prigioniero udì infatti, non appena l'uomo tornò sul ponte,
che si camminava sul soffitto della sua prigione. Volle
gridare aiuto, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Il
rumore dei passi cessò.
Chi poteva eventualmente aiutarlo doveva essere già
lontano, quando, poco dopo, l'uomo fece ritorno e, senza
alcuna spiegazione, gli tolse il bavaglio. Se lo mettevano
nella possibilità di gridare aiuto, significava che non era
possibile essere udito. E allora, a che sarebbe servito?
Dopo il terzo pasto, identico ai due precedenti, l'attesa fu
più lunga. Era notte, senza alcun dubbio. Serge Ladko
riteneva che la sua prigionia durasse da circa quarantott'ore
quando dalla botola venne calata una scala e quattro
uomini discesero nella sua cella.
Serge Ladko non ebbe il tempo di distinguerne i tratti
del viso. In fretta gli furono bendati gli occhi e messo un
bavaglio sulla bocca; ridiventato un pacco cieco e muto, fu
passato nuovamente di mano in mano.
Dai colpi che prendeva riconobbe la stretta apertura —
una botola, lo capiva perfettamente — che ora
riattraversava in senso inverso. La scala che aveva
martirizzato le sue reni durante la discesa, le massacrò
nuovamente mentre la risaliva. Fu portato per un po' in
senso orizzontale e poi, dopo essere stato gettato
brutalmente sul pavimento, sentì che gli ritoglievano benda
e bavaglio. Mentre apriva gli occhi, sentì che una porta si
chiudeva con fracasso.
Serge Ladko si guardò intorno. Gli avevano soltanto
cambiato cella, ma questa era di gran lunga migliore della
precedente. Da una piccola finestra penetrava la luce;
accanto a lui c'era il solito cibo che, prima, era costretto a
cercare a tentoni. La luce del sole gli infondeva coraggio;
la situazione gli appariva ora meno disperata. Dietro quella
finestra c'era la libertà: bisognava soltanto conquistarla.
Disperò a lungo di riuscirne a trovare il mezzo, allorché
volgendo lo sguardo per la millesima volta intorno alla
piccolissima cabina che gli serviva da prigione, vide sulla
parete un ferro piatto che dall'impiantito s'innalzava
verticalmente sino al soffitto, e che serviva probabilmente
a tenere insieme i tavoloni del fasciame. Quel ferro
sporgente, benché non presentasse alcuno spigolo tagliente,
gli sarebbe forse servito per logorare i suoi lacci, se non per
tagliarli. Per quanto difficile, l'impresa meritava se non
altro di essere tentata.
Dopo essere faticosamente riuscito a trascinarsi fino a
quel pezzo di ferro, Serge Ladko cominciò a limarvi la
corda che gli legava le mani. L'impossibilità quasi assoluta
di muoversi dovuta alle pastoie rendeva il lavoro
penosissimo: riusciva a muovere le braccia soltanto
contorcendo tutto il corpo e quindi per brevissimo tempo.
L'estenuante operazione progrediva lentamente, perché
ogni cinque minuti il pilota doveva riposarsi.
All'ora dei pasti, era costretto a smettere. Il cibo gli
veniva portato sempre dallo stesso carceriere; Serge Ladko
lo riconosceva dai capelli grigi e dalla notevole larghezza
delle spalle, anche se il suo viso era celato da una maschera
di tela. Pur non riuscendo a distinguerne il viso, aveva
l'impressione di aver già visto quell'uomo. Non ne era
sicuro, ma le spalle imponenti, il passo pesante e i capelli
grigi sopra la maschera gli erano noti.
Il cibo gli era servito a ora fissa e nessuno, se non in
quella occasione, entrava mai nella sua prigione. E niente
ne avrebbe rotto il silenzio, se ogni tanto non avesse sentito
aprirsi la porta della cabina di fronte alla sua. Quasi sempre
una voce d'uomo e quella di una donna giungevano allora
fino a lui. Serge Ladko interrompeva il suo paziente lavoro
e tendeva l'orecchio, cercando di distinguere meglio quelle
voci che svegliavano in lui vaghe e profonde sensazioni.
A parte questi episodi, il prigioniero, non appena uscito
il carceriere, mangiava e poi si rimetteva ostinatamente al
lavoro.
Erano ormai trascorsi cinque giorni da quando lo aveva
iniziato, e ancora si chiedeva se faceva o meno qualche
progresso, quando, al cader della sera del 6 settembre, la
corda che gli legava i polsi si spezzò di colpo.
Il pilota dovette trattenere il grido di gioia che stava per
sfuggirgli: stavano aprendo la porta. L'uomo che ogni
giorno gli portava il cibo entrò e gli posò accanto il solito
pane e il solito lardo.
Non appena solo, Serge Ladko provò a muovere le
membra liberate, ma non vi riuscì immediatamente:
immobilizzate da una lunga settimana, mani e braccia
sembravano paralizzate. A poco a poco riprese
faticosamente a muoverle e sempre di più. Dopo un'ora di
sforzi, con gesti insicuri riuscì a liberare anche le gambe.
Era libero o, quanto meno, aveva fatto il primo passo
verso la libertà. Il secondo passo sarebbe stato quello di
uscire dalla finestra, che ora poteva raggiungere e dalla
quale scorgeva l'acqua del Danubio, ma non la riva, resa
invisibile dall'oscurità. Le circostanze erano favorevoli.
Fuori il buio era fitto. Sarebbe stato bravo colui che fosse
riuscito a riprenderlo in quella notte senza luna in cui, a
dieci passi, non si vedeva più nulla.
Subito una grossa difficoltà, o meglio ancora una
impossibilità materiale, lo fermò al primo tentativo.
Abbastanza ampia per un adolescente agile e snello, la
finestra era troppo stretta per un uomo della sua
corporatura. Dopo inutili sforzi, Ladko dovette rassegnarsi
davanti all'ostacolo insuperabile e si lasciò cadere ansante
sul pavimento della cella.
Era dunque condannato a non uscirne più? Guardò a
lungo l'oscuro pezzetto di cielo inquadrato dalla finestra e
poi, deciso a fare un altro tentativo, si svesti e si cacciò
nell'apertura con furore, deciso a uscirne a qualunque
costo.
Le ossa scricchiolarono, si macchiò di sangue, ma prima
una spalla e poi un braccio passarono; lo stipite della
finestra s'imbatté allora contro l'anca sinistra. Purtroppo
anche la spalla destra non riusciva a superare l'ostacolo:
ogni ulteriore sforzo sarebbe stato perciò inutile.
Con una parte del corpo sospesa a mezz'aria sul fiume
sottostante, l'altra incastrata, con le costole schiacciate
dalla pressione, Serge Ladko non tardò a capire che in
quella posizione non avrebbe resistito a lungo. Poiché la
fuga da quella parte sembrava impossibile, bisognava
cercarne un'altra; forse avrebbe potuto scardinare un
montante della finestra per ingrandirne l'apertura.
Ma per fare ciò doveva rientrare nella cella e Ladko capì
che non gli era possibile: non poteva andare né avanti né
indietro; o chiamava aiuto, o era costretto a rimanere in
quella scomoda posizione.
Si dibatté invano: tutto fu inutile. S'era cacciato in quella
trappola tutto da solo!
Ladko stava riprendendo fiato quando un rumore
insolito lo fece trasalire. Si stava annunciando la minaccia
di un nuovo pericolo. Cosa mai successa a quell'ora, da
quando occupava quella prigione, qualcuno si era fermato
dinanzi alla sua porta e una chiave cercava al buio il buco
della serratura…
Con la forza della disperazione, il pilota tese i muscoli in
uno sforzo sovrumano…
Fuori, la chiave girava nella serratura, il catenaccio
cedeva… faceva fare un primo scatto…
CAPITOLO XII
IN NOME DELLA LEGGE
APERTA la porta, Striga si fermò esitante sulla soglia. La
cella era immersa nel buio. Non vedeva nulla, tranne un
quadrato d'ombra più chiara, vagamente disegnato
dall'apertura della finestra. Da qualche parte, in un angolo,
doveva trovarsi il prigioniero, ma non era possibile
scorgerlo.
— Titcha! — chiamò Striga con impazienza. — Luce!
Titcha si affrettò a portare una lanterna, la cui luce
tremolante rischiarò a malapena la cella. I due uomini,
dopo una rapida occhiata, si scambiarono uno sguardo
allarmato. La cabina era vuota. Sul pavimento si vedevano
le corde spezzate e i vestiti sparsi qua e là. Del prigioniero
non c'era traccia.
— Vuoi spiegarmi? — chiese Striga.
Prima di rispondere Titcha andò alla finestra e passò un
dito sul montante.
— Fuggito — disse, mostrando il dito rosso di sangue.
— Fuggito! — ripeté Striga con una bestemmia.
— Da non molto, però — proseguì Titcha. — Il sangue
è ancora fresco. Non sono nemmeno due ore che gli ho
portato da mangiare.
— Non hai visto nulla di anormale in quel momento?
— Assolutamente nulla. Era legato come un salame.
— Imbecille! — lo rimproverò Striga.
Titcha aprì le braccia, esprimendo chiaramente con quel
gesto la sua sorpresa e la sua innocenza. Striga non accettò
la comoda scusa.
— Imbecille! — ripeté aspramente, strappando dalle
mani del compagno la lanterna e facendo il giro della cella.
— Bisognava perquisire e sorvegliare il prigioniero e non
fidarsi delle apparenze. Toh! guarda questo pezzo di ferro
lucido. È qui che ha sfregato la corda. E vi ha impiegato
più giorni. E non ti sei accorto di nulla! Non si può essere
stupidi fino a questo punto!
— Beh! finiscila… — esplose Titcha, sopraffatto a sua
volta dalla collera. — Credi che io sia il tuo cane? Se ci
tenevi tanto al tuo Dragoch, potevi sorvegliartelo da te!
— Avrei fatto meglio — approvò Striga. — Sei sicuro
che il prigioniero fosse proprio Dragoch?
— Chi vuoi che fosse?
— Che ne so io? Debbo aspettarmi di tutto, visto il
modo in cui fai le cose. Lo hai riconosciuto, quando lo hai
catturato?
— Non posso giurarlo — confessò Titcha — dato che
mi voltava le spalle.
— Toh!
— Ma ho riconosciuto perfettamente il battello. E quello
che tu mi hai indicato a Vienna. Ne sono sicuro.
— Il battello! il battello! Com'era dunque il prigioniero?
Era alto? Serge Ladko e Ivan Striga avevano in realtà la
stessa altezza. Ma un
uomo disteso sembra molto più alto di un uomo in piedi,
e Titcha aveva sempre visto il pilota disteso sul pavimento.
In perfetta buona fede, rispose:
— Era più alto di te di tutta la testa.
— Allora non è Dragoch — mormorò Striga, che sapeva
di essere più alto del poliziotto.
Rifletté per qualche istante e poi chiese:
— Il prigioniero rassomigliava forse a qualcuno che
conosci?
— Qualcuno che conosco? — protestò Titcha. —
Proprio no!
— A Ladko, forse?
— Che idea! — esclamò Titcha. — Perché vuoi che
Dragoch somigli a Ladko?
— E se il nostro prigioniero non era Dragoch?
— Non per questo sarebbe Ladko, che io conosco
abbastanza per non sbagliarmi.
— Rispondi alla mia domanda — insistette Striga. —
Gli rassomigliava?
— Tu sogni — protestò Titcha. — Per cominciare, il
prigioniero non aveva barba, mentre Ladko ce l'ha.
— La barba si taglia — fece notare Striga.
— Non dico di no… E poi il prigioniero portava gli
occhiali. Striga alzò le spalle.
— Era bruno o biondo? — chiese.
— Bruno — rispose Titcha, con convinzione.
— Ne sei sicuro?
— Non è Ladko! — mormorò di nuovo Striga. —
Potrebbe essere Ilia Brusch…
— Quale Ilia Brusch?
— Il pescatore.
— Bah! — disse Titcha senza capirci nulla. — Ma se il
prigioniero non è Ladko e non è Dragoch, che ci importa
che sia fuggito?
Striga non rispose; si accostò alla finestra e, dopo aver
esaminato le tracce di sangue, si sporse sforzandosi
inutilmente di scrutare nelle tenebre.
— Da quanto tempo è fuggito? — chiese sottovoce.
— Da non più di due ore — disse Titcha.
— Se è scappato da due ore, dev'essere lontano — gridò
Striga, padroneggiando con difficoltà la collera.
Dopo un attimo di riflessione aggiunse:
— Non c'è nulla da fare per il momento: la notte è
troppo buia. Poiché l'uccello è volato via, buon viaggio. Ci
metteremo in cammino prima dell'alba, in modo da
oltrepassare Belgrado al più presto.
Rimase un istante a riflettere, poi, senza dir altro, lasciò
la cabina per entrare in quella di fronte. Titcha tese
l'orecchio. Non udì nulla, all'inizio; presto però, attraverso
la porta chiusa, giunsero fino a lui scoppi di voci che a
poco a poco crescevano di volume. Alzò le spalle
sdegnosamente e poi si allontanò per andare a coricarsi.
Aveva fatto male Striga a non fare ricerche immediate
del fuggitivo; forse non sarebbero state inutili, perché il
prigioniero non era lontano.
Nell'udire il rumore della chiave che girava nella
serratura, Ladko con uno sforzo disperato aveva superato
l'ostacolo. A forza di muscoli, prima la spalla e poi l'anca
avevano attraversato la finestra ed egli era volato come una
freccia a testa in giù nell'acqua del Danubio, che si era
aperta e richiusa sul suo corpo, senza rumore. Tornato a
galla dopo una breve immersione, vide che la corrente lo
aveva trascinato a qualche distanza dal punto in cui era
caduto. Un attimo dopo si portava oltre la poppa della
chiatta, evitando la prua. Dinanzi a lui la strada era libera.
Non c'era da esitare. Bastava lasciarsi trasportare dalla
corrente ancora per un po'. Non appena sicuro di non poter
essere ripreso, avrebbe nuotato vigorosamente verso la
riva. Vi sarebbe giunto quasi nudo, il che gli poteva
causare notevoli difficoltà: ma non aveva altra scelta.
Importava soprattutto allontanarsi dalla prigione
galleggiante nella quale aveva trascorso giorni penosi. Non
appena messo piede a terra, avrebbe pensato a ciò che
doveva fare.
A un tratto si parò dinanzi a lui, nel buio della notte, la
sagoma scura di un'altra imbarcazione. Che emozione nel
riconoscere la sua chiatta, ammarrata da una barbetta, tesa
dalla spinta della corrente al battello. Si aggrappò al timone
e, per un istante, rimase immobile.
Nel silenzio della notte, giunse fino a lui un suono di
voci. Stavano indubbiamente discutendo sulla sua fuga.
Attese con il capo solo fuori dell'acqua nera, che lo copriva
di un velo impenetrabile.
Le voci crebbero di tono, poi tacquero: il silenzio tornò a
regnare sul fiume. Aggrappandosi al capodibanda, Ladko si
issò lentamente sull'imbarcazione e sparì sotto la tuga. Tese
l'orecchio, ascoltò di nuovo, ma non udì più nulla. Intorno
a lui, tutto era silenzio.
Sotto la tuga l'oscurità della notte era ancora più spessa.
Serge Ladko cercò a tentoni di riconoscere gli oggetti che
gli erano familiari. Pareva che non fosse stato toccato
nulla: gli attrezzi di pesca erano al loro solito posto, il
berretto di lontra pendeva ancora dal chiodo al quale lo
aveva attaccato. A destra c'era la sua cuccetta, a sinistra
quella sulla quale aveva dormito il signor Jaeger… Ma
perché erano aperte le casse i cui coperchi facevano da
cuccetta? Erano state forzate, dunque? Le mani esitanti
fecero nel buio della notte l'inventario delle sue modeste
ricchezze. Non era stato portato via nulla. Abiti e
biancheria sembravano in ordine, come li aveva lasciati.
Ritrovò persino il coltello nel suo stesso posto. Aprì il
coltello, poi, strisciando il ventre sul fondo della chiatta, si
trascinò verso prua.
Che viaggio! L'orecchio teso e gli occhi inutilmente
spalancati nelle tenebre, fermandosi con il fiato mozzo al
minimo sciabordio dell'acqua, gli ci vollero dieci minuti
per raggiungere la prua. Finalmente la sua mano afferrò la
barbetta e la tagliò con un sol colpo. Recisa, la corda sferzò
l'acqua rumorosamente. Con il cuore in tumulto, Ladko si
lasciò ricadere sulla chiatta. Non era possibile che
qualcuno, in quel silenzio così profondo, non avesse
sentito.
Ma non accadde nulla. Il pilota si rialzò cautamente e si
rese conto di essere già lontano dai suoi nemici. Appena
libera, infatti, la chiatta aveva cominciato a seguire la
corrente ed era bastato qualche istante perché tra le due
imbarcazioni si elevasse il muro inespugnabile della notte.
Quando si ritenne abbastanza lontano da non aver più
nulla da temere, Serge Ladko prese un remo e con pochi
colpi rapidi aumentò la distanza che lo separava dal
battello. Soltanto allora si rese conto che batteva i denti dal
freddo e cercò qualcosa per coprirsi. Effettivamente niente
era stato toccato nelle casse, dove trovò facilmente la
biancheria e gli abiti che gli occorrevano. Poi riprese il
remo e cominciò a remare rabbiosamente.
Dov'era? Non ne aveva idea. Non c'era nulla che potesse
indicargli il percorso effettuato dalla chiatta nella quale era
stato incarcerato. La sua prigione galleggiante aveva
disceso o risalito il fiume? Lo ignorava.
In ogni caso, era nel senso della corrente che ora doveva
andare per raggiungere Russe e Natcha. Se lo avevano
portato indietro, avrebbe dovuto riguadagnare il tempo
perduto a forza di braccia, ecco tutto. Per il momento,
avrebbe cominciato a navigare tutta la notte, in modo da
allontanarsi il più possibile dai suoi nemici sconosciuti.
Aveva ancora circa sette ore di oscurità a suo favore, e in
sette ore, se ne fa di strada! Appena giorno, si sarebbe
fermato nella prima città che incontrava per riposarsi.
Remava vigorosamente da una ventina di minuti,
quando udì nella notte un grido affievolito dalla distanza.
Troppo lontano quel grido, per capire se era di gioia,
collera o terrore. Eppure, per quanto vaga, quella voce che
gli giungeva dai confini dell'orizzonte, gli riempi il cuore di
un oscuro turbamento. Dove l'aveva già udita? Avrebbe
quasi giurato che fosse la voce di Natcha. Aveva cessato di
remare, l'orecchio teso ai sordi rumori della notte.
Il grido non si ripeté. Intorno alla barca che la corrente
trasportava in silenzio, lo spazio era tornato muto. Natcha!
Non aveva che quel nome nella testa… Con un gesto delle
spalle, Ladko allontanò da sé l'idea fissa che lo
ossessionava e riprese a remare.
Il tempo passò. Intorno alla mezzanotte, sulla riva destra
del fiume apparvero confusamente alcune case: era il
villaggio di Szlankament, che Ladko si lasciò alle spalle
senza averlo riconosciuto.
Alcune ore dopo, quasi all'alba, apparve un altro borgo,
Nove Banoveze. Non riconobbe nemmeno questo e lo
sorpassò egualmente.
Poi le rive si rifecero deserte: era l'alba.
Non appena fu giorno chiaro, Ladko si affrettò a
rimediare ai danni che la lunga prigionia aveva causato al
suo trucco. In pochi minuti i suoi capelli tornarono neri
dalla radice alla punta, il rasoio eliminò la barba nascente e
gli occhiali rotti furono sostituiti con altri nuovi. Ciò fatto,
ricominciò a remare con instancabile coraggio.
Ogni tanto dava uno sguardo all'indietro, ma non vedeva
nulla di sospetto. I nemici erano indubbiamente lontani.
Liberato lo spirito da ogni immediata preoccupazione, il
riconquistato senso di sicurezza lo indusse a pensare
nuovamente alla stranezza della sua situazione. Chi erano i
nemici che lo costringevano a fuggire? Che cosa volevano
da lui? Perché lo avevano tenuto per tanti giorni in loro
potere? Domande alle quali gli era impossibile dare una
risposta. Non conosceva i suoi nemici, ma doveva
comunque diffidarne: questa preoccupazione avrebbe
spiacevolmente complicato il suo viaggio, a meno che non
decidesse di chiedere, nella prima città che attraversava, la
protezione della polizia contro i suoi sconosciuti rapitori,
nonostante i rischi che un passo del genere comportava.
Quale sarebbe stata questa città? Questo proprio non lo
sapeva e non c'era nessuno su quelle rive deserte, dove
ogni tanto si scorgeva qualche povero casolare, che potesse
dirglielo.
Soltanto verso le otto del mattino, sempre sulla riva
destra, alcuni alti campanili punteggiarono il cielo, mentre
dinanzi alla chiatta, lontano, un'altra città appariva
all'orizzonte. Ladko sussultò di gioia. Quelle città egli le
conosceva e bene. La più vicina era Semlin, ultima città
danubiana dell'impero austro-ungarico; l'altra, proprio
dinanzi a lui, era Belgrado, capitale della Serbia, posta
anch'essa sulla riva destra, dopo un brusco gomito del
fiume, alla confluenza con la Sava. Durante la sua
prigionia, dunque, egli aveva continuato a discendere il
fiume; la prigione galleggiante lo aveva avvicinato alla
meta: senza neppure rendersene conto, gli aveva fatto
percorrere più di cinquecento chilometri.
Semlin rappresentava la salvezza, per il momento. In
caso di necessità, vi avrebbe trovato aiuto e protezione. Ma
avrebbe mai deciso di chiedere aiuto? Se avesse raccontato
le sue inspiegabili avventure, non avrebbero aperto
un'inchiesta, della quale egli sarebbe stato la prima vittima?
Avrebbero voluto sapere, probabilmente, chi era, da dove
veniva, dove andava, e forse sarebbero riusciti a scoprire il
nome che egli aveva giurato a se stesso di non rivelare mai,
a qualsiasi costo.
Rimandando qualsiasi decisione, Serge Ladko sollecitò
la marcia della sua imbarcazione. Gli orologi della città
sonavano le otto e mezzo nel momento in cui si
ormeggiava a un anello della banchina. Poi procedette
rapidamente a mettere un po' d'ordine e ricominciò a
esaminare il problema: parlare o tacere? Si decise alla fine
per il silenzio: tutto sommato, sarebbe stato meglio tacere,
e andare a cercare, sotto la tuga, il meritato riposo, per poi
allontanarsi da Semlin senza essere notato, così come vi era
giunto. In quel momento, quattro uomini apparvero sulla
banchina e si fermarono dinanzi alla barca; poi saltarono a
bordo e uno di essi, avvicinandosi a Serge Ladko che lo
guardava stupito, gli chiese:
— Siete il nominato Ilia Brusch?
— Sì — rispose il pilota, con uno sguardo inquieto.
L'uomo schiuse la giacca allo scopo di fargli vedere la
sciarpa dai colori della bandiera ungherese che gli serrava i
fianchi.
— In nome della legge, siete in arresto — disse
toccandogli la spalla.
CAPITOLO XIII
UNA COMMISSIONE D'INCHIESTA
KARL DRAGOCH non aveva memoria di essersi mai
occupato, durante la sua carriera, di una faccenda così ricca
di incidenti imprevisti e dall'apparenza misteriosa come
quella della banda del Danubio. L'incredibile dinamicità
dell'inafferrabile banda, la sua ubiquità, la fulmineità dei
suoi colpi avevano già qualcosa d'insolito. Ed ecco che il
suo capo, non appena rintracciato, diventava introvabile e
sembrava farsi beffe degli ordini di comparizione emessi
contro di lui da tutte le parti!
Sembrava svanito nel nulla. Non c'era più traccia di lui,
né a monte né a valle. Nonostante l'incessante sorveglianza
la polizia di Budapest, in particolare, non aveva segnalato
nessuno che gli rassomigliasse. Doveva essere ben passato
da Budapest, tuttavia, se fin dal 31 agosto era stato visto a
Duna Fòldvar, e cioè a quasi novanta chilometri di là dalla
capitale dell'Ungheria. Non sapendo che la parte del
pescatore fosse recitata in quel momento da Ivan Striga, al
quale la chiatta garantiva rifugio, Karl Dragoch non ci
capiva nulla.
Nei giorni successivi la sua presenza era stata segnalata
a Szekszard, poi a Vukovar e infine a Cserevics. Ilia
Brusch non si nascondeva; tutt'altro, diceva il proprio nome
a chi voleva conoscerlo e a volte vendeva persino alcune
libbre di pesce. Alcuni, però, sostenevano di averlo
sorpreso nel momento in cui ne comprava, la qualcosa non
un'infernale abilità. Non appena informata della sua
comparsa, la polizia aveva un bel darsi da fare: giungeva
sempre troppo tardi. Solcava inutilmente il fiume in ogni
senso, senza riuscire a trovare la minima traccia della
chiatta, che sembrava letteralmente volatilizzata.
Karl Dragoch apprendeva con amarezza gli scacchi
subiti continuamente dai suoi subordinati; la selvaggina gli
sarebbe decisamente sfuggita di mano?
Due cose erano certe, comunque: che il preteso
pescatore continuava a discendere il fiume e che sembrava
tenersi lontano dalle città per timore, evidentemente, della
polizia.
Karl Dragoch fece raddoppiare la sorveglianza in tutte le
città di qualche importanza poste a valle di Budapest, quali
Mohacs, Apatin e Neusatz, e stabilì il suo quartier generale
a Semlin. Quelle città costituivano in tal modo una specie
di sbarramento sulla strada del fuggitivo.
Sembrava però, purtroppo, che costui si facesse beffe
degli ostacoli predisposti dinanzi a lui. Non appena si
veniva a sapere che era passato a valle di Budapest, la sua
presenza era segnalata, ma sempre troppo tardi, a valle di
Mohacs, di Apatin e di Neusatz. Spinto dalla rabbia e
comprendendo che giocava la sua ultima carta, Dragoch
riunì allora una vera flottiglia. Più di trenta imbarcazioni
incrociarono per ordine suo, giorno e notte, a valle di
Semlin. Ben abile sarebbe stato l'avversario che fosse
riuscito a superare quello sbarramento!
Per quanto notevoli, quelle disposizioni non avrebbero
avuto tuttavia alcun successo se Serge Ladko fosse rimasto
prigioniero nel battello di Striga. Ma per la tranquillità di
Dragoch le cose avrebbero avuto, per fortuna, un seguito
diverso.
Il 6 settembre era trascorso senza che fosse capitato
nulla di nuovo. Sin dalle prime ore del giorno 7 Dragoch si
era preparato a raggiungere la sua flottiglia quando vide un
poliziotto venirgli incontro. Il ricercato, finalmente
arrestato, era stato rinchiuso nella prigione di Semlin.
Si affrettò a raggiungere la questura. L'agente aveva
detto il vero: il celeberrimo Ladko era proprio in prigione.
La notizia si diffuse con la rapidità del lampo e mise la
città in agitazione. Non si parlava d'altro; sulla banchina,
numerosi gruppi di curiosi rimasero tutto il giorno dinanzi
alla chiatta del famoso malfattore.
Questi assembramenti non mancarono di attirare
l'attenzione di un battello che, verso le tre del pomeriggio,
passò al largo di Semlin. Il battello, che discendeva il
fiume con l'aria più innocente di questo mondo, era quello
di Striga.
— Che cosa è successo a Semlin? — chiese il malfattore
al fedele Titcha, nel notare l'affollamento delle banchine.
— Una sommossa, forse?
Preso un binocolo, lo allontanò quasi subito dagli occhi.
— Il diavolo mi porti, Titcha — esclamò, — se non è
proprio la chiatta del nostro amico!
— Credi? — fece Titcha, strappandogli il binocolo.
— Bisogna che lo sappia con certezza — proruppe
Striga agitato. — Vado a terra.
— Per farti arrestare? Bravo furbo, se l'imbarcazione è
quella di Dragoch, vuol dire che Dragoch è a Semlin. È
come gettarsi in bocca al lupo.
— Hai ragione — approvò Striga, cacciandosi nella
tuga. — Ma noi prenderemo le nostre brave precauzioni.
Un quarto d'ora dopo, veniva fuori «camuffato» da una
mano maestra, se ci si consente l'espressione, presa in
prestito dai modi di dire comuni ai malfattori e agli agenti
di polizia. Si era tagliato la barba e si era messo dei
posticci, una parrucca in testa, e una larga benda che gli
ricopriva un occhio; per di più, si appoggiava penosamente
a un bastone come se fosse allora uscito da una grave
malattia.
— Che te ne pare? — chiese compiaciuto.
— Meraviglioso! — disse Titcha.
— Ascolta — proseguì Striga. — Mentre sarò a Semlin,
voi proseguirete; vi ormeggerete a un paio di leghe oltre
Belgrado e aspetterete il mio ritorno.
— Come farai a raggiungerci?
— Non preoccuparti. Di' a Ogul di portarmi a terra con
il battellino. Nel frattempo il battello si era lasciato alle
spalle Semlin. Messo piede
a terra lontano dalla città, Striga tornò in fretta verso le
abitazioni. Non appena le ebbe raggiunte moderò il passo
e, unendosi ai gruppi fermi sulla riva del fiume, ascoltò
avidamente ciò che si diceva intorno a lui.
Non si aspettava ciò che apprese. Nessuno parlava di
Dragoch, e tanto meno di Ilia Brusch. Non si parlava che di
Ladko. Di quale Ladko? Non del pilota di Russe, il cui
nome era stato utilizzato da Striga nel modo che sappiamo,
ma di quel Ladko immaginario da lui creato, del Ladko
malfattore, del Ladko pirata, e cioè di se stesso. Argomento
della conversazione generale era il suo arresto. Egli non
riusciva a capire. Non c'era nulla di sorprendente nel fatto
che la polizia commettesse un errore e arrestasse un
innocente invece del colpevole; ma quale rapporto aveva
quell'errore, del quale meglio di chiunque altro egli poteva
garantire la realtà, con la presenza della chiatta che ancora
il giorno precedente era attaccata al suo battello?
Penserete senza dubbio che fosse una debolezza
mostrare interesse per quell'aspetto della faccenda; ciò che
importava era il fatto che un altro fosse perseguito al posto
suo. Finché un altro era sospettato, nessuno si sarebbe
occupato di lui. Questa era la cosa essenziale; il resto non
contava.
Verissimo, ma egli aveva i suoi bravi motivi per cercare
di capirci qualcosa. A giudicare dalle apparenze, tutto
lasciava credere che l'arrestato e il proprietario della chiatta
fossero la stessa persona. Chi era quello sconosciuto che,
dopo essere stato per otto giorni prigioniero a bordo del
battello, ne sostituiva compiacentemente il proprietario
nelle mani della polizia? Striga non avrebbe certamente
lasciato Semlin prima di aver chiarito la faccenda.
Doveva armarsi di pazienza. Il signor Izar Rona, giudice
incaricato, non sembrava disposto a sbrigare alla svelta
l'istruzione della pratica. Trascorsero tre giorni senza che
egli desse segno di vita. L'attesa preliminare faceva parte
del suo metodo. Secondo lui, era un'ottima cosa lasciare
inizialmente l'accusato alle prese con se stesso.
L'isolamento distrugge il sistema nervoso; alcuni giorni di
solitudine deprimono magnificamente l'accusato con il
quale il giudice avrà a che fare.
Quarantotto ore dopo l'arresto, il signor Izar Rona
esponeva quelle idee a Karl Dragoch, venuto a chiedergli
informazioni. Il poliziotto, ovviamente, non poteva che
approvare le teorie del suo superiore.
— Allora, signor giudice, quando contate — si arrischiò
a chiedere — di procedere al primo interrogatorio?
— Domani.
— Verrò domani, quindi, per conoscerne il risultato.
Credo che sia inutile ripetervi su che cosa si fondano le mie
supposizioni.
— È inutile — disse il signor Rona. — Ricordo
perfettamente le nostre precedenti conversazioni. Del resto,
le mie annotazioni sono più che complete.
— Volete permettermi tuttavia, signor giudice, di
ricordarvi il desiderio che mi son preso la libertà di
manifestarvi?
— Quale desiderio?
— Quello di tenermi estraneo alla faccenda, almeno fino
a nuovo ordine. Come vi ho già esposto, l'accusato mi
conosce sotto il nome di Jaeger. Ciò potrebbe esserci utile,
eventualmente. Quando saremo dinanzi alla Corte dovrò
certamente dire il mio vero nome, ma ancora non siamo a
questo punto; per il momento mi sembra preferibile, per la
ricerca dei complici, di non bruciarmi ancora…
— D'accordo — promise il giudice.
Nella cella in cui era stato chiuso, Serge Ladko aspettava
che qualcuno si occupasse di lui. Le due recenti sventure,
una appresso all'altra e una non meno inspiegabile
dell'altra, non avevano fatto venir meno il suo coraggio.
Senza opporre resistenza al momento dell'arresto, si era
lasciato condurre in prigione, dopo aver inutilmente
formulato una domanda rimasta senza risposta. Che cosa
rischiava, del resto? Il suo arresto era certamente dovuto ad
un errore che sarebbe stato chiarito non appena l'avessero
interrogato.
Ma l'interrogatorio, purtroppo, si faceva stranamente
attendere. Tenuto rigorosamente isolato, Serge Ladko
rimaneva solo giorno e notte nella sua cella, dove ogni
tanto una guardia veniva a dare un'occhiata furtiva
attraverso lo spioncino della porta. Il guardiano, che
obbediva agli ordini del signor Rona, sperava forse di
constatare i primi cedimenti dovuti all'isolamento? In tal
caso, non c'era motivo di essere soddisfatti. Le ore e i
giorni
passavano
senza
che
nulla
mutasse
nell'atteggiamento del prigioniero. Seduto sulla sedia, con
le mani appoggiate sulle ginocchia, gli occhi bassi e il viso
impenetrabile,
sembrava
riflettere
profondamente,
mantenendo un'immobilità quasi assoluta, senza dar segni
d'impazienza. Sin dal primo momento Serge Ladko aveva
deciso di mantenersi calmo, a qualunque costo; ma con il
passare del tempo cominciava quasi a rimpiangere la
prigione galleggiante che, se non altro, lo avvicinava a
Russe.
Il terzo giorno — era il 10 settembre – finalmente la
porta si aprì ed egli fu invitato a lasciare la cella. In mezzo
a quattro soldati con la baionetta in canna, percorse un
lungo corridoio, discese un'interminabile scala, attraversò
una via e arrivò al Palazzo di Giustizia, costruito proprio di
fronte alla prigione.
La via brulicava di gente che premeva trattenuta da un
cordone di poliziotti. Quando il prigioniero apparve si
alzarono delle grida feroci che esprimevano tutto l'odio per
il malfattore da tanto tempo impunito. Le ingiurie
immeritate lasciarono impassibile il volto di Serge Ladko.
Entrò con passo fermo nel palazzo e, dopo un'altra attesa,
alla fine si trovò dinanzi al giudice.
Il signor Izar Rona era un ometto mingherlino, biondo,
dalla barba rada e dal colorito giallognolo. Era un
magistrato dalle maniere forti. Procedeva per affermazioni
categoriche e negazioni violente, attaccava con accuse
spietate, desideroso di ispirare all'accusato terrore più che
di ottenerne fiducia. A un cenno del giudice, le guardie si
erano ritirate. In piedi, in mezzo alla stanza, Serge Ladko
aspettava che il magistrato lo interrogasse. In un angolo, il
cancelliere era pronto a scrivere.
— Sedetevi — disse il signor Rona con tono brusco.
Serge Ladko obbedì. Il magistrato riprese:
— Come vi chiamate?
— Ilia Brusch.
— Dove abitate?
— A Szalka.
— Che mestiere fate?
— Il pescatore.
— Mentite — disse il giudice, fissandolo.
Un lieve rossore colorì il viso di Serge Ladko, i suoi
occhi ebbero un rapido lampo. Si contenne e rimase in
silenzio.
— Mentite — ripeté il signor Rona. — Vi chiamate
Ladko e abitate a Russe.
Il pilota sussultò: conoscevano dunque la sua vera
identità. Com'era potuto accadere? Il giudice, al quale non
era sfuggito il sussulto dell'imputato, proseguiva intanto
con voce tagliente:
— Siete accusato di tre furti semplici, di diciannove furti
perpetrati con l'aggravante dello scasso e della scalata, di
tre omicidi e di sei tentativi di omicidio: crimini e delitti
compiuti con premeditazione, nel corso di quasi tre anni.
Che avete da dire?
Il pilota aveva ascoltato, stupito, quell'incredibile
enumerazione di reati. Possibile? La confusione da lui
temuta nell'apprendere dalla bocca del signor Jaeger
dell'esistenza di un criminale suo omonimo, era dunque
realmente avvenuta? Che importava confessare allora che
si chiamava Serge Ladko? Un attimo prima aveva avuto il
pensiero di confessarlo, implorando la discrezione del
giudice. Ora capiva che quella confessione gli sarebbe stata
più nociva che utile. Era proprio lui, Serge Ladko, di
Russe, e non altri, l'accusato di tutti quegli orribili crimini.
Senza dubbio, dimostrata la sua vera identità, sarebbe
riuscito certamente a dimostrare anche la sua innocenza.
Ma quanto tempo ci sarebbe voluto per riuscirvi? Meglio
allora sostenere sino in fondo la parte del pescatore Ilia
Brusch che, se non altro, era innocente.
— Debbo dirvi che vi sbagliate — rispose con voce
ferma. — Mi chiamo Ilia Brusch e abito a Szalka. È facile
del resto per voi accertarvene.
— Sarà fatto — disse il giudice, prendendo nota. —
Intanto, vi farò conoscere alcune accuse che gravano sulle
vostre spalle.
Ladko si fece più attento: si era a un punto interessante.
— Per il momento — cominciò il giudice — metteremo
da parte la maggior parte dei crimini che vi sono addebitati,
per occuparci soltanto degli ultimi, di quelli cioè che sono
stati commessi durante il viaggio nel corso del quale siete
stato arrestato.
Ripreso fiato, il signor Rona proseguì:
— La vostra presenza è stata segnalata per la prima volta
a Ulm. Diremo perciò che il vostro viaggio ha origine da
Ulm.
— Signor giudice — lo interruppe vivacemente Serge
Ladko — il mio viaggio è cominciato molto prima di Ulm,
avendo vinto due premi nella gara di pesca di Sigmaringen,
e avendo risalito il fiume sino a Donaueschingen.
— È vero, infatti — rispose il giudice — che un certo
Ilia Brusch è stato proclamato vincitore del concorso di
pesca istituito dalla Lega Danubiana a Sigmaringen, e che
il detto Ilia Brusch è stato visto a Donaueschingen. Ma o
voi a Sigmaringen avete preso a prestito un altro nome,
oppure vi siete sostituito al detto Ilia Brusch mentre si
recava da Donaueschingen a Ulm. Chiariremo questo punto
a tempo debito, state tranquillo.
Serge Ladko spalancò gli occhi per la sorpresa:
ascoltava come in sogno quelle fantastiche congetture.
Ancora un po' e avrebbero compreso nel numero delle sue
vittime l'immaginario Ilia Brusch! Senza preoccuparsi di
rispondere, alzò sdegnosamente le spalle. Il giudice lo
guardò fissamente e gli chiese a bruciapelo:
— Che cosa siete andato a fare a Vienna, il 26 agosto,
dall'israelita Simon Klein?
Senza volerlo, Ladko sussultò una seconda volta. Toh,
sapevano anche di quella visita! Essa non aveva certamente
nulla di riprovevole, ma ammetterla sarebbe stato come
ammettere la sua vera identità; poiché aveva deciso di
negarla, occorreva persistere nel diniego.
— Simon Klein?… — ripeté con l'aria di chi non
capisce.
— Negate? Lo immaginavo — disse il signor Rona. —
Ve lo dirò dunque io, che andando dall'israelita Klein — e
nel dire ciò il giudice, per dare alle sue parole uno
schiacciante peso, si sollevò sulla seggiola — andavate a
mettervi d'accordo con il ricettatore della vostra banda.
— Della mia banda!… — ripeté il pilota, sbalordito.
— È vero! — rettificò con ironia il giudice. — Voi non
capite che cosa voglio dire, voi non fate parte di alcuna
banda, voi non siete Ladko ma l'inoffensivo pescatore Ilia
Brusch. Ma, se vi chiamate veramente Ilia Brusch, perché
allora vi nascondete?
— Io, nascondermi! — protestò Serge Ladko.
— Diamine! Ne avete tutta l'aria — rispose il signor Izar
Rona, — a meno che non sia nascondersi il celare sotto gli
occhiali neri occhi che sembrano i migliori del mondo (a
proposito, vogliate avere la cortesia di togliervi gli
occhiali) e tingersi di nero i capelli che sono biondi per
natura.
Serge Ladko era sopraffatto.
La polizia era bene informata e la rete gli si chiudeva
intorno. Senza mostrare di rilevare il suo turbamento, il
giudice approfittò del vantaggio.
— Eccovi meno vispo, giovanotto mio! Non credevate
che sapessimo tante cose sul vostro conto! Continuo: a
Ulm avete preso un passeggero con voi.
— È vero — rispose Ladko.
— Come si chiamava?
— Jaeger.
— Precisamente. Volete dirmi che ne è stato di lui?
— Non lo so; mi ha lasciato in piena campagna, quasi
alla confluenza con l'Ipoly. Tornato a bordo, sono stato
sorpreso di non trovarvelo più.
— Tornato a bordo, avete detto. Vi eravate dunque
allontanato? Dove eravate andato?
— In un villaggio dei dintorni per procurarmi un
cordiale per il passeggero.
— Stava forse male?
— Moltissimo. C'era mancato poco che non annegasse.
— Siete stato voi a salvarlo, immagino?
— Chi avrebbe potuto salvarlo, se non c'ero che io?
— Uhm!… — fece il giudice, un po' imbarazzato. Si
riprese subito:
— Credete di commuovermi con la storia del
salvataggio?
— Io? — protestò Ladko. — Voi m'interrogate e io
rispondo.
— Benissimo — concluse il signor Rona. — Ditemi:
prima di quell'incidente, avevate mai lasciato la chiatta?
— Una sola volta, per andare a casa mia, a Szalka.
— Potreste precisarmi la data in cui vi siete andato?
— Perché no? Bisogna che ci rifletta.
— Vi aiuterò io. Non sarebbe stato forse durante la notte
dal 28 al 29 agosto?
— Potrebbe darsi benissimo.
— Non lo negate?
— No.
— Lo confessate?
— Se lo volete…
— Siamo d'accordo, allora. Se non erro, Szalka si trova
sulla riva sinistra del Danubio — disse il signor Rona, con
aria bonaria.
— Infatti.
— Era buia, credo, la notte dal 28 al 29 agosto.
— Molto buia. Il tempo era pessimo.
— Ciò spiega perché vi siete sbagliato. È per un errore
quasi del tutto naturale che, credendo di scendere sulla riva
sinistra, siete invece sbarcato sulla riva destra.
— Sulla riva destra?
Il signor Rona si alzò e, guardandolo negli occhi,
sentenziò:
— Sì, sulla riva destra, esattamente dinanzi alla villa del
conte Hagueneau.
Serge Ladko cercò in perfetta buona fede nei suoi
ricordi. Hagueneau? Non conosceva quel nome.
— Siete forte — dichiarò il giudice, deluso di non essere
riuscito a intimidirlo. — Allora è la prima volta che sentite
il nome del conte Hagueneau; e che nel corso della notte
dal 28 al 29 agosto la sua villa è stata saccheggiata e il suo
custode, Christian Hoël, gravemente ferito; voi non ne
sapete niente. Ma dove diavolo ho la testa? Come potreste
saperlo, se questi crimini sono stati commessi da un certo
Ladko? E Ladko, diamine, non è il vostro nome.
— Il mio nome è Ilia Brusch — confermò il pilota con
voce meno sicura della volta precedente.
— Perfettamente!… d'accordo… Ma, allora, se non vi
chiamate Ladko, perché siete scomparso proprio dopo quel
crimine, e avete ripreso la vostra identità — e ancora con
molta riservatezza — soltanto a rispettabile distanza dalla
zona in cui esso è stato commesso? Perché nessuno vi ha
più visto — voi che prima vi mettevate così generosamente
in mostra — né a Budapest, né a Neusatz, né in alcun'altra
città di qualche importanza? Perché avete rinunciato alla
messinscena del finto pescatore, al punto persino di
acquistare a volte il pesce nei villaggi in cui decidevate di
fermarvi?
Era come se parlasse arabo, per l'infelice pilota. Se era
sparito, era stato contro la sua volontà. Nella notte dal 28 al
29 agosto non era stato sempre prigioniero? che cosa c'era
di sorprendente nel fatto che non fosse stato visto? Il
sorprendente, invece, era che qualcuno pretendesse di
averlo visto.
Quell'errore, se non altro, si sarebbe potuto chiarire
facilmente. Sarebbe bastato raccontare con sincerità
l'incomprensibile avventura di cui era stato vittima. Forse
la giustizia ci avrebbe visto più chiaramente e sarebbe
riuscita a dipanare quell'intricata matassa. Deciso a
raccontare ogni cosa, Serge Ladko aspettava con
impazienza che il signor Rona gli permettesse di aprir
bocca. Ma il giudice era ormai lanciato a tutto vapore e ora
passeggiava in lungo e in largo nel suo ufficio, lanciando in
faccia al prigioniero un'infinità di argomenti da lui ritenuti
inconfutabili.
— Se non siete Ladko — diceva con crescente
veemenza — come mai dopo il saccheggio alla villa del
conte Hagueneau, saccheggio avvenuto per un caso
disgraziato proprio nel momento in cui avevate lasciato la
chiatta, un furto, oh! un semplice furto questo, è stato
commesso a Szuszek nella notte dal 5 al 6 settembre, notte
in cui voi avete dovuto per forza passare dinanzi a quel
villaggio? Se voi non siete Ladko, che cosa faceva nella
vostra chiatta il ritratto indirizzato al marito da Natcha
Ladko, vostra moglie?
Il signor Rona aveva colpito giusto, questa volta:
l'ultimo argomento era infatti determinante. Annientato, il
pilota aveva chinato il capo, grosse gocce di sudore gli
bagnavano il viso.
Ma il giudice proseguiva a voce sempre più alta:
— Se non siete Ladko, perché quel ritratto è scomparso
dal giorno in cui vi siete sentito minacciato? Era nella
vostra cassa, questo ritratto; preciso: nella cassa di destra.
Non c'è più. La sua presenza vi accusava; la sua scomparsa
vi condanna. Che cosa avete da dire?
— Nulla — mormorò Ladko con voce sorda. — Non
capisco più nulla di quel che mi capita.
— Comprendereste perfettamente, se voleste prendervi
la pena di farlo. Per il momento, interromperemo questo
interessante colloquio. Vi riporteranno in cella, dove avrete
il tempo di riflettere a lungo. Nell'attesa, ricapitoliamo
l'interrogatorio di oggi. Voi dite: 1°. Di chiamarvi Ilia
Brusch; 2°. Di avere vinto il premio della gara di pesca di
Sigmaringen; 3°. Di abitare a Szalka; 4°. Di essere andato a
casa vostra la notte dal 28 al 29 agosto. Tutto ciò sarà
controllato. Da parte mia affermo: 1°. Che il vostro nome è
Ladko; 2°. Che abitate a Russe; 3°. Che nella notte dal 28
al 29 agosto, con l'aiuto di numerosi complici, avete
saccheggiato la villa del conte Hagueneau, rendendovi
colpevole del tentativo di assassinio nella persona del
custode Christian Hoël; 4°. Che il furto del quale è stato
vittima il nominato Kellermann, di Szuszek, nella notte dal
5 al 6 settembre, dev'essere messo sul vostro conto; 5°. Che
numerosi altri furti e omicidi, avvenuti nelle regioni
bagnate dal Danubio, debbano esservi imputati.
L'istruzione di quei crimini è aperta. I testimoni sono stati
citati. Voi sarete messo alla loro presenza… Volete
sottoscrivere il vostro interrogatorio? No?… Come
volete… Guardie, riconducete l'imputato!
Per raggiungere la prigione Ladko doveva passare
nuovamente attraverso la folla e subirne ancora le grida
ostili. La collera popolare nel frattempo sembrava essersi
accresciuta: la polizia fece fatica a proteggere il
prigioniero.
Nella prima fila di quella folla urlante appariva Ivan
Striga, che divorò con gli occhi colui che prendeva il suo
posto con tanta compiacenza. Il pilota passò a un paio di
metri da lui e poté vederlo benissimo. Ma in quell'uomo
senza barba, con i capelli neri, e con il viso nascosto da un
paio di grossi occhiali neri, non riuscì a riconoscere
nessuno, e le sue perplessità non ne furono attenuate.
Quando le porte della prigione si furono richiuse, Striga
pensieroso si allontanò con il resto della folla. Decisamente
non conosceva l'arrestato. Non era, in ogni caso, né
Dragoch né Ladko. E poi, che cosa gli importava che fosse
Ilia Brusch o un altro? Chiunque fosse l'accusato,
l'essenziale era che egli accentrava l'attenzione della
giustizia e Striga non aveva più motivo di rimanere a
Semlin. Decise perciò di partire il giorno seguente per
raggiungere il suo battello.
Ma il giorno dopo, la lettura dei giornali gli fece
cambiare idea. Il rigoroso riserbo con il quale la faccenda
Ladko era condotta induceva la stampa a cercare, con
qualsiasi mezzo, di scoprirne il mistero. E vi era riuscita; la
messe delle informazioni raccolte era ampia.
I giornali riferivano infatti, con sufficiente precisione, il
primo interrogatorio dell'imputato, con commenti che non
si potevano dire favorevoli all' accusato. In generale, si
meravigliavano della sua ostinazione nel sostenere di
essere soltanto un pescatore di nome Ilia Brusch, abitante
nella cittadina di Szalka. Quale interesse poteva avere nel
sostenere una tesi del genere, di così evidente fragilità?
Secondo la stampa, il giudice istruttore Rona aveva già
mandato a Gran una commissione inquirente. Tra
pochissimi giorni dunque un magistrato sarebbe andato a
Szalka per svolgervi un'inchiesta che avrebbe invalidato le
affermazioni del detenuto. Si sarebbe cercato questo Ilia
Brusch e lo si sarebbe trovato… se esisteva, la qualcosa,
però, era assai dubbia.
La notizia indusse Striga a cambiare i suoi progetti.
Mentre leggeva, gli era venuta una strana idea, che finito di
leggere, aveva preso corpo. Era certamente una buona cosa
che la giustizia avesse tra le mani un innocente; ma sarebbe
stato ancora meglio se lo avesse trattenuto. Per raggiungere
tale scopo, che cosa bisognava fare? Fornirle un Ilia Brusch
in carne e ossa, la qualcosa avrebbe provato ipso facto 3 che
il vero Ilia Brusch, prigioniero a Semlin, era un impostore.
Questa accusa si sarebbe aggiunta a quelle che ne avevano
determinato l'arresto e sarebbe probabilmente bastata a
condannarlo definitivamente, con grande vantaggio del
vero colpevole.
Senza attendere oltre, Striga lasciò la città. Ma invece di
raggiungere il battello, con una veloce vettura si fece
portare alla stazione ferroviaria per prendere un treno che
lo avrebbe portato verso Budapest e il nord del paese.
Nel frattempo, Serge Ladko contava con tristezza le ore.
Dopo il primo interrogatorio, era tornato in cella allarmato
dalla gravità delle accuse che pesavano su di lui. Era certo
che con il tempo sarebbe riuscito a far trionfare la sua
innocenza. Ma doveva avere molta pazienza, perché si
rendeva conto che gli indizi erano contro di lui e che la
giustizia aveva costruito con logica la sua impalcatura di
3
Sull'atto stesso. (N.d.T.)
ipotesi.
C'è però una bella differenza tra semplici sospetti e
prove formali. Prove contro di lui non sarebbero riusciti
mai a raccoglierne, non avendo egli commesso alcun
crimine. L'unico testimone che poteva temere, per quanto
riguardava il segreto del suo nome, era l'israelita Simon
Klein. Ma Simon Klein, che professionalmente era uomo
d'onore, non avrebbe verosimilmente consentito mai a
riconoscerlo. Del resto, ci sarebbe stato proprio bisogno di
metterlo in presenza del suo vecchio corrispondente di
Vienna? Non aveva detto il giudice che avrebbe chiesto
informazioni a Szalka? Poiché quelle informazioni
sarebbero state certamente eccellenti, il prigioniero di
sicuro sarebbe stato rimesso in libertà.
Trascorsero parecchi giorni durante i quali Serge Ladko
riesaminò a lungo le sue considerazioni, con crescente
preoccupazione. Szalka non era lontana e non occorreva
molto tempo per avere qualche informazione. Erano
trascorsi sette giorni dal suo interrogatorio, quando fu
condotto nell'ufficio del signor Frantz Richter.
Il giudice sembrava molto occupato e per dieci minuti
lasciò il pilota in piedi, come se ne avesse ignorato la
presenza.
— Szalka ci ha risposto — disse alla fine con
indifferenza, senza neppure alzare gli occhi sul prigioniero,
controllandolo però di soppiatto attraverso le ciglia
abbassate.
— Ah! — disse Ladko con soddisfazione.
— Avevate ragione — proseguì il signor Rona. —
Esiste a Szalka un tale di nome Ilia Brusch, il quale ha
un'ottima reputazione.
— Ah! — disse il pilota per la seconda volta, che
vedeva già spalancata la porta della sua cella.
Con tono distaccato e indifferente il giudice, quasi non
volesse dare importanza a ciò che diceva, mormorò:
— Il commissario di polizia di Gran incaricato
dell'inchiesta ha avuto la fortuna di parlargli di persona.
— Di persona? — ripeté Ladko, senza capirci nulla.
— Di persona — affermò il giudice.
Serge Ladko credeva di sognare. Come poteva aver
trovato a Szalka un altro Ilia Brusch?
— Non è possibile — balbettò. — C'è un errore.
— Giudicate voi stesso — rispose il giudice. — Ecco il
rapporto del commissario di polizia di Gran. Risulta che un
magistrato, conformandosi alla commissione inquirente da
me indirizzatagli, si è recato a Szalka il 14 settembre ed è
andato in una casa all'angolo con l'alzaia e la strada di
Budapest… È l'indirizzo che ci avete dato, non è vero? —
s'interruppe il giudice.
— Precisamente — rispose Serge Ladko con aria
smarrita.
— … e la strada di Budapest — riprese il signor Rona
— ed è stato ricevuto nella detta casa dal signor Ilia Brusch
in persona, il quale ha dichiarato di essere tornato in quei
giorni, dopo lunghissima assenza. Il commissario aggiunge
che le informazioni che ha potuto raccogliere sul conto del
detto Ilia Brusch confermano la sua perfetta onorabilità e
che nessun altro abitante di Szalka porta quel nome. Avete
qualcosa da dire? Non abbiate timore, vi prego.
— No — balbettò Serge Ladko, credendo d'impazzire.
— Ecco un primo punto chiarito — concluse con
soddisfazione il signor Rona, guardando il prigioniero
come il gatto guarda il topo.
CAPITOLO XIV
TRA CIELO E TERRA
TERMINATO l'interrogatorio, Serge Ladko raggiunse la
propria cella senza neppure rendersi conto di ciò che
faceva. Era già tanto se aveva capito le altre domande del
giudice dopo che questi gli aveva riferito la conclusione
della commissione inquirente, e vi aveva risposto con aria
ebete. Ciò che gli capitava superava i limiti della sua
intelligenza. Che si voleva da lui, alla fin fine? Rapito,
imprigionato a bordo di un battello da misteriosi nemici,
aveva riacquistato la libertà per perderla subito; ed ecco
che a Szalka saltava fuori un altro Ilia Brusch, e cioè un
altro se stesso, in casa sua! Tutto ciò aveva del
fantasmagorico!
Stupito e sgomento dal susseguirsi di quegli avvenimenti
inspiegabili, egli aveva la sensazione di essere alla mercé
di potenze ostili e più forti di lui; di essere incappato, preda
inerte e senza difesa, negli ingranaggi di quella formidabile
macchina che si chiama Giustizia.
Depressione e annientamento di ogni energia erano
stampati sul suo viso con molta eloquenza: persino uno dei
suoi guardiani, pur considerandolo un indegno criminale,
ne fu commosso.
— Non va dunque come vorreste, amico mio? — chiese
con tono di pietosa simpatia, pur essendo disincantato di
fronte alle miserie umane.
Se avesse parlato a un sordo, il risultato sarebbe stato lo
stesso.
— Su! — riprese compassionevole il guardiano —
bisogna farsene una ragione. Il giudice Rona è un buon
diavolo; forse ogni cosa si aggiusterà meglio di quanto
crediate… Nell'attesa, voglio darvi questo… Vi si parla del
vostro paese. Vi distrarrà.
Il prigioniero non si mosse. Non aveva neppur sentito.
Non udì neppure il chiavistello che girava nella toppa e
tanto meno vide il giornale che la guardia, nell'andarsene,
aveva lasciato sul tavolo della cella, dimenticando, in
buona fede, che il prigioniero doveva essere tenuto nella
segretezza più assoluta.
Le ore passarono; il giorno finì, lasciando posto alla
notte, e spuntò di nuovo l'aurora. Intontito, seduto sulla
sedia, Serge Ladko non aveva coscienza del trascorrere del
tempo.
Quando la luce del giorno gli batté sul viso, parve uscire
dal suo accasciamento. Aprì gli occhi e il suo sguardo
incerto vagò per la cella. Scorse quasi subito il giornale
lasciato il giorno precedente dalla pietà del guardiano.
Aperto sul tavolo così come l'aveva lasciato il
guardiano, il giornale metteva in evidenza un articolo in
neretto il cui titolo: «I massacri di Bulgaria», attirò
immediatamente lo sguardo di Serge Ladko.
Trasalendo, afferrò febbrilmente il giornale: gli tornò di
colpo l'intelligenza. A mano a mano che leggeva, gli
brillavano gli occhi.
Gli avvenimenti dei quali veniva a conoscenza in quel
momento erano stati resi noti in tutti i paesi europei nello
stesso tempo, sollevandovi un coro di riprovazioni.
Sarebbero poi entrati nella storia, scrivendovi una pagina
non certamente gloriosa.
Come abbiamo detto all'inizio del nostro racconto,
l'intera regione balcanica era allora in fermento. Sin
dall'estate del 1875, l'Erzegovina si era ribellata e le truppe
ottomane mandate contro di essa non erano riuscite a
domarla. Nel maggio del 1876, la Bulgaria si era ribellata a
sua volta e la Porta aveva risposto all'insurrezione
concentrando un numeroso esercito in un vasto triangolo,
le cui estremità erano costituite da Russe, Widdin e Sofia.
Il 1° e il 2 luglio dello stesso anno, infine, la Serbia e il
Montenegro, entrati in scena, avevano dichiarato guerra
alla Turchia. Comandati dal generale russo Tchernaief, i
serbi, dopo alcuni successi iniziali, avevano dovuto ritirarsi
al di qua della loro frontiera e il 1° settembre il principe
Milan era stato costretto a chiedere un armistizio di dieci
giorni, durante il quale aveva sollecitato alle nazioni
cristiane un intervento che esse purtroppo tardarono ad
accordare.
«Allora — scrisse Edouard Driault, nella sua Storia
della Questione d'Oriente — si verificò il più spaventoso
episodio di quelle lotte, che richiama alla memoria i
massacri di Chio, al tempo dell'insurrezione greca: i
massacri di Bulgaria. Durante la guerra contro la Serbia e il
Montenegro, la Porta temette che l'insurrezione bulgara,
alle spalle dell'esercito, ne compromettesse le operazioni.
Chefkat Pascià, governatore della Bulgaria, ebbe ordine di
soffocare a qualunque costo l'insurrezione? Probabilmente,
sì. Bande di Basci-Buzuki e di circassi chiamati dall'Asia
furono mandate in Bulgaria, ed esse in pochi giorni misero
a ferro e a fuoco il paese, appagarono a piacere le loro
selvagge passioni, bruciarono villaggi, massacrarono gli
uomini tra raffinate torture, sventrarono donne e fecero a
pezzi i bambini. Le vittime furono circa trentamila.»
Mentre leggeva, gocce di sudore imperlavano il viso di
Serge Ladko. Natcha!… Che ne era stato di Natcha in quel
terribile sconvolgimento? Era ancora viva oppure era
morta, e il suo cadavere sventrato, fatto a pezzi come
quello di tante altre vittime innocenti, trascinato nella
melma, nel fango e nel sangue, calpestato dai cavalli?
Serge Ladko si era alzato; come una bestia feroce chiusa
in gabbia andava su e giù per la cella come se cercasse
un'uscita per poter correre in aiuto di Natcha.
L'accesso di disperazione durò poco. Tornato presto alla
ragione, con terribile sforzo si costrinse alla calma e
razionalmente pensò al mezzo per riacquistare la libertà.
Andare dal giudice, confessargli la verità, implorarne se
necessario la compassione? Non sarebbe servito a nulla:
come poteva sperare di ottenere la fiducia del giudice già
prevenuto, dopo aver perseverato così a lungo nella
menzogna? Come poteva cancellare con una sola parola il
sospetto legato a Ladko, il suo vero nome, e distruggere in
un istante tutte le accuse che gli erano state fatte? No.
Sarebbe stata necessaria un'inchiesta, per lo meno, e
l'inchiesta avrebbe richiesto settimane, se non mesi.
Bisognava tentare la fuga, dunque.
Per la prima volta da quando vi aveva messo piede,
Serge Ladko esaminò la cella. Bastarono pochi istanti.
Quattro pareti, due buchi: la porta da un lato, la finestra
dall'altro. Dietro altre pareti, altre celle, altre prigioni; oltre
la finestra, lo spazio e la libertà.
L'altezza del parapetto di quella finestra (il cui
architrave raggiungeva il soffitto) superava il metro e
mezzo e quello che avrebbe potuto dirsi il davanzale nel
caso di un'apertura normale era irraggiungibile, poiché una
fila di grosse sbarre murate negli stipiti impediva di
avvicinarvisi. D'altro canto, quand'anche si fosse superata
tale difficoltà, ne sarebbe rimasta un'altra. All'esterno, una
specie di cappa, i cui lati venivano ad appoggiarsi a destra
e a sinistra della finestra, bloccava gli sguardi e permetteva
la vista solo di un ridotto rettangolo di cielo. Quindi, non
tanto per tentare la fuga ma soltanto per mettersi nelle
condizioni di cercare il modo, bisognava per prima cosa
superare l'ostacolo delle sbarre e poi issarsi a forza di
braccia alla fine di quella specie di scatola onde riuscire a
dare un'occhiata ai dintorni.
A giudicare dalle scale discese in occasione delle
convocazioni del signor Rona, Ladko riteneva di essere
rinchiuso al quarto piano della prigione: era quindi a una
dozzina di metri o poco più dal suolo. Gli sarebbe stato
possibile superarli? Impaziente di accertarlo, decise di
mettersi subito all'opera.
Innanzi tutto però bisognava procurarsi uno strumento di
lavoro. Gli avevano tolto ogni cosa, quando lo avevano
incarcerato, e nella cella non c'era nulla che gli potesse
essere d'aiuto. Un tavolo, una sedia e un modesto
pagliericcio che ricopriva un incavo in muratura,
costituivano il mobilio della cella.
Serge Ladko continuava a cercare invano quando,
tastandosi per la centesima volta gli abiti, la sua mano
percepì un qualcosa di duro. Proprio come i suoi carcerieri,
egli fin allora non aveva dato peso a quella cosa
insignificante che è la fibbia dei pantaloni: ma quale
importanza acquistava ora quell'unico oggetto metallico in
suo possesso!
Staccata la fibbia, Ladko attaccò senza perdere tempo la
parete ai piedi di una sbarra, e la pietra, ostinatamente
graffiata dai puntali d'acciaio, cominciò a cadere in
polvere. Quel lavoro, già così lento e penoso, era reso
ancor più difficile dall'incessante sorveglianza a cui era
sottoposto. Non passava ora che un guardiano non mettesse
l'occhio allo spioncino della porta. Doveva perciò tenere
l'orecchio sempre teso ai rumori provenienti dall'esterno e
interrompere, al minimo segno di pericolo, il lavoro
facendo sparire ogni traccia sospetta.
A questo scopo, Serge Ladko utilizzò la mollica del
proprio pezzo di pane, che mischiata con la polvere che
cadeva dalla parete prendeva un colore quasi simile a
quello della pietra, e la usò come mastice per occultare il
buco a mano a mano che lo scavava. Il resto dei detriti lo
nascose sotto il letto.
Dopo dodici ore di fatica, la sbarra era scalzata per
un'altezza di tre centimetri, ma la fibbia non aveva più
punte. Ladko la spezzò e ne utilizzò i rottami. Dodici ore
dopo, anche quei pezzettini di acciaio erano inservibili.
Ma la fortuna che già aveva sorriso al prigioniero pareva
non volerlo abbandonare. Al primo pasto che gli fu portato
si arrischiò a tenere il coltello e poiché nessuno si accorse
del piccolo furto, lo rifece, con eguale fortuna, il giorno
seguente. Possedeva adesso due strumenti migliori di quelli
avuti fino allora, anche se erano pessimi coltelli; ma le loro
lame erano abbastanza buone e il manico ne facilitava il
maneggio.
Da quel momento il lavoro proseguì più in fretta, anche
se ancora troppo lentamente. Man mano che scavava il
cemento diventava sempre più duro e più difficoltoso da
raschiare. Doveva poi interrompere il lavoro a ogni istante,
sia a causa della ronda, sia per i frequenti interrogatori del
signor Rona.
Il risultato di questi interrogatori era sempre lo stesso.
L'istruttoria segnava il passo. Ogni volta era una sfilata di
testimoni le cui dichiarazioni non apportavano alcun
contributo. Se qualcuno credeva di ravvisare qualche vaga
rassomiglianza tra Serge Ladko e il malfattore visto più o
meno bene il giorno in cui ne era stato vittima, qualche
altro
negava
invece
categoricamente
qualsiasi
rassomiglianza. Inutilmente il signor Rona faceva
camuffare l'accusato con ogni specie di barba posticcia,
l'obbligava a mostrare gli occhi o a nasconderli dietro lenti
nere; non riusciva a ottenere alcuna testimonianza decisiva.
Aspettava perciò con impazienza che le condizioni di
salute di Christian Hoël, ferito nel corso dell'ultimo crimine
della banda del Danubio, consentissero a quest'ultimo di
recarsi a Semlin.
Serge Ladko non mostrava alcun interesse per questi
interrogatori: docilmente si prestava agli esperimenti del
giudice, metteva parrucche e barbe posticce, metteva o
toglieva gli occhiali, senza osar fare la minima
osservazione. Il suo pensiero non era in quell'ufficio; era
nella sua cella, dove la sbarra che lo separava dalla libertà
usciva a poco a poco dalla pietra.
Gli ci vollero quattro giorni per riuscire a svellerla.
Soltanto la sera del 23 settembre egli ne raggiunse
l'estremità inferiore. Ora doveva segarne l'estremità
opposta.
Quella parte del lavoro era la più faticosa. Sospeso con
una mano all'inferriata, con l'altra Serge Ladko si dava da
fare a muovere il suo attrezzo, quella lama di coltello che
come sega non valeva niente e intaccava il ferro
lentamente. D'altra parte, la posizione scomoda lo
obbligava a riposarsi spesso.
Il 29 settembre, dopo sei giorni di sforzi eroici, Ladko
ritenne sufficiente la profondità della tacca. Il ferro era
quasi del tutto segato e in qualsiasi momento avrebbe
potuto vincerne la resistenza. Era tempo: la lama del
secondo coltello era ridotta ormai a un filo.
Il mattino dopo, subito dopo il passaggio della prima
ronda, la qualcosa gli avrebbe assicurato un'ora di
tranquillità, Serge Ladko proseguì con metodo il suo
lavoro. Come aveva previsto, la sbarra si piegò senza
difficoltà. Attraverso quell'apertura egli passò dall'altra
parte dell'inferriata e, sollevandosi a forza di braccia,
raggiunse l'estremità della cappa, dalla quale guardò
avidamente attorno.
Come aveva immaginato, circa quattordici metri lo
separavano dal suolo. Se avesse avuto una corda
sufficientemente lunga, non sarebbe stato difficile superare
questa distanza. Calarsi a terra era il problema meno grave,
le vere difficoltà sarebbero cominciate solo dopo.
Come Serge Ladko poté constatare, la prigione era
circondata infatti da un vicolo per le pattuglie di guardia,
delimitato in fondo da un muro alto circa otto metri, oltre il
quale si vedevano i tetti delle case. Una volta a terra,
avrebbe dovuto scavalcare il muro, la qualcosa a prima
vista appariva impossibile.
A giudicare dalla distanza, la prigione era probabilmente
separata dalle case da una strada: se l'avesse raggiunta,
l'evaso avrebbe potuto considerarsi salvo. Ma esisteva la
possibilità di raggiungerla sani e salvi?
Alla ricerca di una qualsiasi soluzione, Serge Ladko
cominciò a esaminare attentamente ciò che poteva vedere
sulla sinistra. Non vi scorse la soluzione che cercava, ma
ciò che vide gli fece battere il cuore per l'emozione. Da
quella parte egli vedeva il Danubio, le cui acque giallastre
erano solcate da numerosi battelli di varia dimensione.
Alcuni seguivano o risalivano la corrente, altri tendevano
la gomena all'ancora o all'ormeggio che li tratteneva alla
banchina. Tra questi ultimi il pilota riconobbe subito la sua
chiatta. Niente la differenziava dalle imbarcazioni vicine,
né pareva che fosse fatta oggetto di particolare
sorveglianza. Che fortuna se fosse riuscito a riprendersela!
In meno di un'ora, avrebbe oltrepassato la frontiera, e in
territorio serbo si sarebbe fatto beffe della giustizia austroungarica.
Guardando verso destra, l'attenzione di Serge Ladko fu
attirata da un particolare: trattenuto a intervalli da robusti
ramponi piantati nel muro, un cavo di ferro — quasi
certamente quello del parafulmine — scendeva dal tetto,
passava vicino alla finestra e spariva nel suolo. Se avesse
potuto raggiungerlo, quel cavo gli avrebbe facilitato la
discesa; e forse ciò era possibile. Proprio a livello del
pavimento della sua cella un cornicione decorativo, largo
all'incirca venticinque centimetri, correva lungo tutto il
muro. Tenendovisi in equilibrio con abilità e sangue freddo
forse sarebbe riuscito a raggiungerlo.
Disgraziatamente, anche ad esser capaci di tanta follia,
restava sempre l'invalicabile muro esterno. Prigioniero in
una cella o nel cammino della ronda, era pur sempre in
prigione.
Esaminando il muro ancora più attentamente, Serge
Ladko notò che la sua parte superiore, appena al disotto
della cappa, era decorata internamente ed esternamente da
un bugnato, formato da pietre squadrate semincastrate nella
costruzione. Serge Ladko contemplò a lungo quel fregio
architettonico; poi si lasciò scivolare sul davanzale della
finestra e rientrò nella cella, dove si affrettò a far sparire
ogni traccia compromettente.
Aveva già deciso che cosa doveva fare, aveva trovato il
modo di tornare libero. Anche se rischioso, quel mezzo
poteva e doveva riuscire. Del resto, meglio morire piuttosto
che vivere con simili angosce.
Attese con pazienza il passaggio della seconda ronda e
poi, certo di un nuovo periodo di tranquillità, cercò di
completare i suoi preparativi di fuga. Con l'aiuto di ciò che
rimaneva del coltello, tagliò le lenzuola in strisce di alcuni
centimetri di larghezza. Per non attirare l'attenzione dei
sorveglianti, mise una parte della tela nella sua cuccetta
perché conservasse il solito aspetto, anche se era sicuro che
a nessuno sarebbe venuta l'idea di sollevare il copriletto.
Fece una treccia di quattro strisce, annodandovene delle
altre quando le prime erano alla fine. Il lavoro richiese
un'intera giornata. Il 1° ottobre, prima di mezzogiorno,
Ladko era in possesso di una solida corda lunga una
quindicina di metri, che nascose sotto la cuccetta.
Poiché ogni cosa era pronta, egli decise di tentare
l'evasione alle nove di quella stessa sera.
Ladko trascorse la giornata a riesaminare ogni
particolare dell'impresa e a calcolarne rischi e pericoli.
Quale esito avrebbe avuto: la libertà o la morte? Tra poco,
ogni cosa sarebbe stata decisa. In qualsiasi caso, egli
avrebbe tentato la fuga.
Prima che scoccasse l'ora di agire, il destino volle
riservargli però un'ultima prova. Verso le tre del
pomeriggio, i chiavistelli della porta furono aperti con
fracasso. Che cosa volevano da lui? Un altro interrogatorio,
forse? L'ora solita era già trascorsa, però…
Non si trattava di un'altra convocazione da parte del
giudice. Dalla porta spalancata, Serge Ladko vide nel
corridoio, oltre ai soliti guardiani, tre persone a lui
sconosciute, tra le quali una giovane di circa vent'anni, dal
cui viso spiravano dolcezza e bontà. I due uomini che
l'accompagnavano erano il marito e il direttore del carcere,
come facilmente si poteva indovinare dalle parole e
dall'atteggiamento del guardiano.
Si trattava evidentemente di una visita. A giudicare dal
rispetto con cui erano trattati, i visitatori erano
probabilmente una coppia principesca in viaggio, alla quale
il direttore faceva da cicerone.
— L'attuale occupante di questa cella — disse ai suoi
ospiti — è il famoso Ladko, capo della banda del Danubio,
il cui nome sarà certamente giunto alle vostre orecchie.
La giovane rivolse una timida occhiata al celebre
malfattore. Non aveva affatto l'aria terribile, il celebre
malfattore. Mai si sarebbe immaginato il capo di una banda
di leggendaria crudeltà sotto l'aspetto di quell'uomo
smagrito e macilento, dall'aria sparuta e i cui occhi
esprimevano angoscia e disperazione.
— E vero che egli si incaponisce a dichiararsi innocente
— aggiunse con imparzialità il direttore — ma noi siamo
abituati a ritornelli del genere.
Egli fece in seguito osservare la pulizia e l'ordine che
regnavano nella cella; accalorandosi nel discorso, ne varcò
persino la soglia e andò ad appoggiarsi alla parete della
finestra, nell'intento di guardare in faccia gli ospiti.
A un tratto il cuore di Serge Ladko cessò di battere.
Senza rendersene conto, l'oratore sfiorava il punto della
parete intaccato dal prigioniero e un po' di sottile polvere di
cemento cominciava a cadere. Un altro movimento, e
stavolta fu il tampone di mollica a staccarsi e a cadere sul
pavimento. Ladko ebbe un brivido di spavento nel vedere
che l'estremità della sbarra segata appariva in fondo alla
cavità.
Qualcuno se ne era forse accorto? Sì, qualcuno aveva
visto. Mentre il marito e il direttore esaminavano la misera
tavola come oggetto di altissimo interesse, mentre i
guardiani, rispettosamente voltati, sembravano guardare in
fondo al corridoio, la giovane teneva gli occhi fissi sul
buco scavato nella parete e l'espressione del suo viso
rivelava che ella ne comprendeva il misterioso linguaggio.
Ella avrebbe parlato… con una parola, avrebbe rovinato
ogni cosa… Ladko aspettava e, poco alla volta, si sentiva
morire.
Pallida, la giovane alzò gli occhi sul prigioniero e lo
sfiorò con il suo limpido sguardo. Vide le grosse lagrime
che sfuggivano lentamente dalle palpebre dell'infelice?
Comprese la sua tacita supplica? Intuì la sua tremenda
disperazione?
Trascorsero dieci drammatici secondi e all'improvviso
ella si volse, con un grido di dolore. I due uomini le furono
subito accanto. Che cosa le era capitato? Nulla di grave,
ella disse con voce incerta, sforzandosi di sorridere. Aveva
preso scioccamente una storta al piede, ecco tutto.
Mentre Serge Ladko, senza essere notato, andava a
mettersi dinanzi alla sbarra per occultarla, il marito, il
direttore e un guardiano le si fecero accanto
premurosamente. I primi due uscirono sostenendo la
giovane, mentre il terzo si affrettava a chiudere la porta
della cella. Serge Ladko era nuovamente solo.
Quale slancio di gratitudine per la dolce pietosa creatura
gli gonfiò il petto! Doveva a lei la salvezza. Le doveva la
vita; più della vita, le doveva la libertà.
Si era disteso, prostrato, sulla cuccetta. L'emozione era
stata troppo violenta. Quest'ultimo colpo del destino gli
faceva vacillare la mente.
Il resto della giornata trascorse senza altri incidenti. I
lontani orologi della città sonarono, finalmente, le nove. La
notte era sopraggiunta. Grosse nuvole percorrevano il
cielo, accrescendone l'oscurità.
Nel corridoio, un rumore annunciava l'avvicinarsi della
ronda, che giunta dinanzi alla sua porta, si fermò: un
guardiano mise l'occhio sullo spioncino e se ne andò
soddisfatto. Il prigioniero dormiva con la coperta fin sotto
il mento. La ronda proseguì il proprio servizio: il rumore
dei passi si allontanò e poi si spense.
Il momento di agire era giunto.
Serge Ladko saltò giù dalla cuccetta e sistemò le coperte
in modo che nella penombra della cella potessero simulare
il corpo di un uomo addormentato. Poi prese la corda,
s'insinuò come già la prima volta di là dall'inferriata, si tirò
su e si mise a cavalcioni sull'orlo superiore della cappa.
All'altezza di ogni piano si allungavano i cornicioni che
ornavano la costruzione; Serge Ladko dominava da quasi
quattro metri quello sul quale doveva mettere piede. Aveva
previsto quella difficoltà: passò la corda intorno a una
sbarra dell'inferriata, e tenendone in mano entrambe le
estremità, si lasciò scivolare senza troppa fatica sino alla
sporgenza esterna.
Con il dorso appoggiato al muro e la mano sinistra
attaccata alla corda che lo sosteneva, il fuggitivo prese fiato
per un istante. Come mantenere l'equilibrio su quella stretta
superficie? Non appena mollato il sostegno, sarebbe
precipitato sul cammino della ronda.
Con estrema prudenza, con movimenti quasi
impercettibili, riuscì a prendere la corda con la mano
destra, mentre con la sinistra tastava la parete della cappa:
non poteva star su da sola, quella cappa dinanzi alla
finestra, doveva esserci per forza un sostegno. E a furia di
cercare, la sua mano urtò in un ostacolo nel quale
riconobbe, dopo qualche incertezza, un fermo piantato
nella costruzione.
Per debole che fosse la presa, doveva accontentarsene.
Aggrappandovisi con le dita contratte, tirò lentamente un
capo della corda, facendola a poco a poco ricadere sulle
sue spalle. Dietro di lui ormai i ponti erano rotti. Se anche
lo avesse voluto, non gli sarebbe stato più possibile
raggiungere la cella. Ormai bisognava andare avanti.
Serge Ladko si arrischiò a voltare un po' la testa verso il
cavo del parafulmine, sul cui aiuto contava. Ma quale non
fu il suo spavento nel constatare che quasi due metri
separavano il cavo dalla cappa, dalla quale non poteva
allontanarsi, se non a rischio di morire!
Bisognava prendere una decisione, comunque. In piedi
su quella stretta sporgenza, con le spalle appoggiate al
muro, trattenuto sul vuoto da quel pezzetto di ferro che
l'estremità delle sue dita riuscivano a malapena a stringere,
non poteva rimanerci. Tra pochi minuti le sue dita
rattrappite avrebbero mollato la presa e sarebbe
inevitabilmente caduto. Meglio dunque morire nel tentativo
di un ultimo sforzo verso la salvezza.
Piegandosi nella direzione della finestra, il fuggitivo
ripiegò il braccio sinistro come una molla pronta a
distendersi; poi, abbandonando ogni appoggio, si spinse di
colpo verso destra.
Cadde. La spalla urtò la sporgenza del cornicione, ma
grazie allo slancio, le sue mani protese erano riuscite ad
aggrapparsi al cavo.
La prima difficoltà era stata vinta. Occorreva vincere la
seconda.
Ladko si lasciò scivolare lungo il cavo e si fermò su un
rampone che lo fissava al muro. Fece una breve sosta e si
concesse il tempo di riflettere.
Il terreno era invisibile a causa dell'oscurità della notte,
ma dal basso giungeva fino a lui il rumore di un passo
cadenzato. Era evidente che una sentinella montava la
guardia e, a giudicare dal rumore che di volta in volta
s'avvicinava per poi allontanarsi, la sentinella, dopo aver
costeggiato quel lato del carcere, svoltava sull'altro lato,
per poi tornare a ricominciare il suo avanti-indietro senza
interruzione. Ladko calcolò che la sentinella s'allontanava
per la durata di tre o quattro minuti; doveva dunque
superare la distanza che lo separava dal muro esterno in
quel breve tempo.
Intravedeva sotto di lui il biancore del muro che si
stagliava vagamente nell'ombra, ma non poteva distinguere
le pietre sporgenti che ne coprivano la sommità. Serge
Ladko si lasciò scivolare più in basso e si fermò su un
rampone inferiore. Da quel punto egli dominava ancora di
almeno un paio di metri l'orlo del muro che bisognava
superare.
Ora, aggrappato al cavo, si poteva muovere più
rapidamente. In un istante srotolò la corda, la fece passare
dietro il cavo del parafulmine e ne annodò le due estremità
in modo da renderla più lunga possibile. Calcolata
approssimativamente la distanza, egli lanciò la corda al
disopra del muro di cinta e, come se fosse un laccio, ne tirò
l'estremità a forma di anello cercando di agganciare una
delle pietre sporgenti di cui il muro era esternamente
ornato.
L'impresa era difficile; a causa della profonda oscurità
non poteva vedere le sporgenze del muro, e quindi non
poteva contare che sul caso.
Aveva lanciato la corda più di venti volte senza risultato,
quando alla fine oppose resistenza. Serge Ladko tirò con
insistenza: la presa non cedette. Il tentativo era dunque
riuscito. L'anello della corda si era chiuso intorno a un
fregio: una specie di passerella era ora gettata al disopra del
cammino della ronda.
Passerella fragile, certamente! Non si sarebbe rotta
oppure staccata dalla pietra che la tratteneva? Nel primo
caso, ci sarebbe stata una paurosa caduta dall'altezza di
dieci metri; nel secondo, scattando come un elastico contro
il muro della prigione, il suo fardello umano sarebbe
andato a schiacciarvisi.
Serge Ladko non esitò neppure un attimo dinanzi al
pericolo. Tese fortemente la corda e ne riunì nuovamente le
estremità; poi, pronto a lanciarsi, prestò orecchio ai passi
del soldato di guardia.
Costui era proprio sotto al fuggitivo. Si allontanò. Girò
l'angolo e il rumore dei suoi passi cessò. Bisognava
approfittare della sua assenza, senza perdere un solo
secondo.
Ladko avanzò sul cammino aereo. Sospeso tra cielo e
terra, procedeva con mosse eguali ed elastiche, senza
preoccuparsi dei cedimenti della corda, la cui curva si
accentuava a mano a mano che egli si avvicinava alla metà
del percorso. Voleva passare. Sarebbe passato. Passò. In
meno di un minuto, superato il vertiginoso abisso,
raggiunse la cresta del muro.
Senza prendere respiro, si diede da fare febbrilmente,
eccitato dalla certezza del successo. Erano trascorsi
soltanto dieci minuti da quando aveva lasciato la cella, ma
quei dieci minuti gli sembravano più lunghi di un'ora:
temeva che una ronda andasse a ispezionare la sua cella. Si
sarebbero accorti della sua fuga, nonostante il trucco della
cuccetta? Doveva essere lontano, prima che ciò accadesse.
La chiatta era a due passi da lui! Pochi colpi di remo e
sarebbe stato fuori della portata dei suoi persecutori.
Interrompendo il suo lavoro a ogni passaggio del soldato
di guardia, Ladko sciolse febbrilmente la corda,
arrotolandola la tirò a sé e poi, doppiandola un'altra volta,
fece presa intorno a una sporgenza interna del muro e
cominciò a scendere, dopo essersi assicurato che la via era
deserta.
Giunto felicemente a terra, fece subito ricadere la corda
ai suoi piedi e l'arrotolò. Tutto era finito. Era libero; della
sua audace evasione non sarebbe rimasta traccia.
Stava per andare alla ricerca della sua chiatta quando nel
buio udì improvvisamente una voce.
— Diamine! — disse qualcuno a pochi passi da lui, — è
il signor Ilia Brusch, parola mia!
Serge Ladko ebbe un brivido di gioia. Il destino gli era
decisamente favorevole: ecco che gli mandava l'aiuto di un
amico.
— Il signor Jaeger! — esclamò con voce allegra, mentre
qualcuno usciva dall'ombra e veniva verso di lui.
CAPITOLO XV
VICINO ALLA META
IL 10 OTTOBRE, da quando la chiatta aveva ripreso a
discendere il Danubio l'alba si alzò per la nona volta: nel
corso degli otto giorni precedenti, erano stati percorsi quasi
settecento chilometri.
Russe era vicina; sarebbe stata raggiunta prima di sera.
A bordo, nulla sembrava cambiato; sulla chiatta c'erano
come in passato Serge Ladko e Karl Dragoch, tornati ad
essere il pescatore Ilia Brusch e il brav'uomo Jaeger.
Il modo con cui il primo recitava ora la sua parte
rendeva più difficile all'altro sostenere la propria. Spinto
dal desiderio di arrivare a Russe, remando giorno e notte,
Serge Ladko trascurava infatti le più elementari
precauzioni. Non portava più gli occhiali, non si rasava e
non si tingeva più i capelli, permettendo a quei
cambiamenti che già si erano manifestati durante la sua
detenzione, di mostrarsi in tutta la loro evidenza. I capelli
neri si schiarivano di giorno in giorno e la barba bionda
cominciava a raggiungere una lunghezza rispettabile.
Sarebbe stato naturale che Karl Dragoch manifestasse
stupore per quella trasformazione, ma non diceva nulla.
Risoluto ad arrivare fino in fondo al vicolo nel quale si era
cacciato, aveva deciso di fingere di non vedere ciò che
l'avrebbe messo in una situazione imbarazzante.
Nel momento in cui si era trovato dinanzi a Serge
Ladko, le precedenti idee di Karl Dragoch erano
fortemente vacillate: ora si sentiva meno portato ad
ammettere la colpevolezza del suo compagno di viaggio.
L'incidente provocato dalla commissione d'inchiesta di
Szalka era stato la prima causa del cambiamento. Karl
Dragoch aveva proceduto infatti a un'inchiesta personale.
Più difficile da accontentare del commissario di polizia di
Gran, egli aveva interrogato a lungo gli abitanti della città e
le risposte ottenute erano riuscite a turbarlo.
Che un tale Ilia Brusch, la cui vita era del resto più che
regolare, avesse eletto domicilio a Szalka e avesse lasciato
la cittadina poco prima della gara di Sigmaringen, era fuor
di ogni dubbio. Ilia Brusch era stato di nuovo visto dopo la
gara, particolarmente nella notte dal 28 al 29 agosto? Su
questo punto le testimonianze furono evasive. Anche se i
vicini credevano di ricordare che verso la fine di agosto
avevano visto la luce accesa nella casa del pescatore,
chiusa da oltre un mese, tuttavia non osarono affermarlo.
Quelle notizie, per quanto vaghe ed incerte, accrebbero
ovviamente le perplessità del poliziotto.
Rimaneva un altro punto da chiarire. Chi era la persona
che aveva parlato con il commissario di Gran, in casa
dell'accusato? A tale riguardo, Dragoch non riuscì a
raccogliere alcuna informazione. Poiché Ilia Brusch era
molto conosciuto a Szalka, e poiché nessuno l'aveva visto,
per forza di cose, se vi era venuto, doveva essere arrivato e
ripartito durante la notte. Questo mistero, già strano di per
se stesso, lo divenne ancora di più, quando Karl Dragoch
ebbe messo la mano sul proprietario di un alberghetto, al
quale, nella sera del 12 settembre, trentasei ore prima della
visita del commissario di polizia di Gran, uno sconosciuto
aveva chiesto l'indirizzo di Ilia Brusch. La faccenda si
complicava. Si complicò ancora di più quando
l'albergatore, incalzato dalle domande, fornì le
caratteristiche somatiche dello sconosciuto, che
rispondevano perfettamente a quelle che la voce popolare
attribuiva al capo della banda del Danubio.
Tutto questo diede da pensare a Karl Dragoch. Egli fiutò
qualcosa di losco. Ebbe istintivamente l'impressione di
essere di fronte a una macchinazione tenebrosa, di cui gli
rimaneva oscuro lo scopo, ma della quale non era
impossibile che l'imputato potesse essere la vittima.
Quell'impressione si rafforzò quando, tornato a Semlin,
seppe come procedevano le indagini. Dopo venti giorni di
segretezza, non era stato fatto un passo avanti. Nessun
complice era stato scoperto, nessun testimone aveva
formalmente riconosciuto il prigioniero, contro il quale
esisteva soltanto l'imputazione di aver cercato di
modificare i suoi connotati e di essere stato in possesso di
un ritratto di donna sul quale c'era scritto il nome di Ladko.
Le congetture sostenute da altre avrebbero avuto un
grande valore, da sole perdevano gran parte della loro
importanza. Dopo tutto, il travestimento e il ritratto
potevano avere una giustificazione.
Quelle considerazioni rendevano l'animo di Karl
Dragoch particolarmente accessibile alla pietà. Ecco perché
non aveva potuto impedire a se stesso di essere
profondamente commosso dall'ingenua fiducia di Serge
Ladko, in una circostanza in cui sarebbe stato scusabile se
avesse diffidato dell'amico più intimo.
Era impossibile, dunque, conciliare la pietà con i doveri
della sua professione e riprendere, come prima, il proprio
posto sulla chiatta? Se Ilia Brusch si chiamava
effettivamente Ladko, e se Ladko era un malvivente, Karl
Dragoch, stando con lui, avrebbe depistato i suoi complici.
Se innocente, lo avrebbe forse condotto al vero colpevole,
al quale l'incidente di Szalka provava, in tal caso, che dava
fastidio.
Questi ragionamenti, un po' speciosi, non mancavano
però di una certa logica. Il misero aspetto di Serge Ladko,
il coraggio sovrumano dimostrato nel compiere la sua
straordinaria evasione, e soprattutto il ricordo del servizio
resogli con eroica semplicità, fecero il resto. Karl Dragoch
doveva la vita a quel pover'uomo che ansava dinanzi a lui,
con le mani che gli sanguinavano per la fatica e con il
sudore che gli colava sul viso scarno. Lo avrebbe, come
ricompensa, ricacciato nell'inferno? Il poliziotto non
sapeva che cosa fare.
— Venite! — disse, rispondendo all'esclamazione
gioiosa del fuggitivo, trascinandolo verso il fiume.
Poche parole erano state scambiate tra i due compagni
nel corso degli otto giorni passati insieme. Serge Ladko
stava quasi sempre zitto, concentrando ogni sforzo nel
cercare di accrescere la velocità dell'imbarcazione.
Con frasi spezzettate, che occorreva strappargli
faticosamente di bocca, egli raccontò tuttavia le sue
inspiegabili disavventure, dalla confluenza con l'Ipoly in
poi. Disse della sua lunga prigionia nel carcere di Semlin,
dopo il sequestro ancora più strano a bordo del battello
sconosciuto. Mentivano dunque coloro che dicevano di
averlo visto tra Budapest e Semlin, poiché in quel
frattempo egli era prigioniero in quel battello, con mani e
piedi legati.
Quel racconto fece evolvere ancor più le congetture
iniziali di Karl Dragoch. Egli stabiliva, senza volerlo, un
accostamento tra l'aggressione subita da Ilia Brusch e la
presenza di un sosia a Szalka. Senza alcun dubbio, il
pescatore dava fastidio a qualcuno ed era nel mirino di un
ignoto nemico; purtroppo i suoi dati segnaletici
sembravano corrispondere a quelli del vero bandito.
A poco a poco Karl Dragoch s'incamminava verso la
verità. Era nell'impossibilità di verificare le sue deduzioni,
nondimeno sentiva diminuire di giorno in giorno i vecchi
sospetti.
Non pensò neppure per un istante di abbandonare la
chiatta per tornare indietro a ricominciare da capo
l'inchiesta.
Il suo fiuto di poliziotto gli diceva che la pista era quella
buona e che il pescatore, forse innocente, era in un modo o
nell'altro legato alla storia della banda del Danubio.
Sull'alto fiume la tranquillità era perfetta, del resto; la
successione dei crimini commessi provava che anche i loro
autori avevano disceso la corrente, almeno sino ai dintorni
di Semlin. C'era dunque ogni probabilità che essi avessero
continuato a discendere il fiume anche durante la
detenzione di Ilia Brusch.
Su questo punto Karl Dragoch non si sbagliava. Ivan
Striga continuava infatti ad avvicinarsi al Mar Nero, con
dodici giorni di anticipo, alla partenza da Semlin, sulla
chiatta. Ma quei dodici giorni egli li stava perdendo a poco
a poco: la distanza che separava le due imbarcazioni
diminuiva di giorno in giorno: ad ogni ora, ad ogni minuto,
la chiatta, sotto lo sforzo rabbioso di Serge Ladko,
guadagnava implacabilmente tempo sul battello.
Ladko aveva una sola meta: Russe; una sola idea:
Natcha. Se non prendeva più le precauzioni di un tempo
per non farsi riconoscere, era perché non ci pensava
proprio più. Del resto, quale importanza avrebbero avuto
ora? Dopo l'arresto e l'evasione, chiamarsi Ilia Brusch
doveva essere compromettente tanto quanto chiamarsi
Serge Ladko. Sotto un nome o sotto l'altro, ormai poteva
entrare a Russe soltanto di nascosto, pena l'arresto
immediato.
Assorto nella sua idea fissa, in quegli otto giorni egli
non aveva prestato alcuna attenzione alle rive del fiume. Se
si era accorto di passare dinanzi a Belgrado — la città
bianca disposta a piani sulla collina dominata dal palazzo
del principe, il Konak, e preceduta da un sobborgo dal
quale transita un'immensa quantità di merci — era perché
Belgrado rappresentava la frontiera serba, dove finivano i
poteri del signor Izar Rona. Dopo non guardò più nulla.
Non vide Semendria, antica capitale della Serbia,
celebre per i vigneti che la circondano; non vide
Colombals, dove il turista può visitare una caverna nella
quale, secondo la leggenda, San Giorgio avrebbe deposto il
corpo del drago ucciso; non vide Orsova, al di là della
quale il Danubio scorre tra due antiche province turche,
divenute in seguito regni indipendenti; non vide le Porte di
Ferro, famosa gola chiusa tra pareti verticali alte
quattrocento metri, dove il Danubio urge e si rompe
furiosamente contro le rocce di cui il suo letto è cosparso;
non vide Widdin, primo villaggio bulgaro di qualche
importanza; non vide Nikopoli né Sistowa, le altre due città
che erano a monte di Russe.
Costeggiava di preferenza la riva serba, ove riteneva di
essere più al sicuro; infatti, sino all'uscita delle Porte di
Ferro, egli non fu disturbato dalla polizia.
A Orsova, per la prima volta, un canotto della brigata
fluviale intimò alla chiatta di fermarsi. Inquieto, Serge
Ladko obbedì, chiedendosi che cosa avrebbe risposto alle
domande che inevitabilmente gli sarebbero state fatte.
Non fu neppure interrogato. Bastò una parola di Karl
Dragoch e il capo del distaccamento salutò con rispetto,
senza nemmeno accennare a una perquisizione.
Il pilota neppure si stupì per il fatto che un borghese di
Vienna usasse a suo piacimento la forza pubblica. Felice di
cavarsela a buon mercato, trovò del tutto naturale che
un'onnipotenza si desse da fare per il suo interesse; non si
stupì, ma divenne sempre più impaziente per il prolungarsi
del colloquio tra l'agente e il passeggero.
In seguito agli ordini ricevuti sia dal signor Izar Rona,
furioso per l'evasione del detenuto, sia da Karl Dragoch in
persona, la polizia del fiume era stata notevolmente
rinforzata. Di tratto in tratto, la navigazione era costretta a
superare una serie di sbarramenti, tra i quali quello di
Orsova era molto importante. La stretta del fiume in quella
parte facilitava la sorveglianza; era impossibile infatti che
un battello riuscisse a passare senza essere stato
minuziosamente perquisito.
Karl Dragoch interrogò il subordinato ed ebbe la
spiacevole sorpresa di apprendere che le perquisizioni non
avevano dato alcun risultato e che un nuovo crimine, un
furto di una certa gravità, era stato commesso due giorni
prima in territorio rumeno, alla confluenza del Jirel, quasi
esattamente di fronte alla città bulgara di Rahowa.
La banda del Danubio era dunque riuscita a passare tra
le maglie della rete. Poiché aveva l'abitudine di rubare non
soltanto oro ed argento, ma anche oggetti preziosi di
qualsiasi natura, il suo bottino doveva essere ingombrante;
era del tutto inconcepibile quindi che non si riuscisse a
trovarne traccia, se nessun battello era sfuggito alla
perquisizione.
Eppure era così.
Karl Dragoch era stupito di tanta abilità, ma bisognava
arrendersi all'evidenza, visto che i malfattori, con altri furti,
davano la prova di essere più a valle. La sola conclusione
alla quale si poteva giungere era che bisognava far presto.
Il luogo e la data dell'ultimo furto segnalato dimostravano
che gli autori avevano meno di trecento chilometri di
vantaggio. Se si teneva conto del tempo durante il quale
Ilia Brusch era stato prigioniero, tempo che la banda aveva
certamente messo a profitto, bisognava supporre che la
velocità del suo battello era appena la metà di quella della
chiatta. Non era dunque impossibile raggiungerlo.
Partirono subito e sin dalle prime ore del 6 ottobre
avevano oltrepassato la frontiera bulgara. Da quel punto
Serge Ladko, che fin allora aveva fatto del suo meglio per
seguire la riva destra, si accostò il più possibile alla riva
rumena, alla quale, a partire da Lom-Palamka, una serie di
paludi larghe da otto a dieci chilometri impediva l'accosto.
Per quanto Ladko fosse assorto in se stesso, il fiume in
acque bulgare doveva per forza metterlo in sospetto. Lo
solcavano un certo numero di navi a vapore e persino delle
torpediniere, ossia delle cannoniere, battenti bandiera
ottomana. In previsione della guerra che sarebbe scoppiata
meno di un anno dopo con la Russia, la Turchia
cominciava già a sorvegliare il Danubio, nel quale avrebbe
fatto affluire in seguito una vera flottiglia.
Il pilota preferì tenersi lontano dalle navi turche, a costo
di gettarsi nelle grinfie delle autorità rumene, contro le
quali il signor Jaeger sarebbe stato capace probabilmente di
proteggerlo, come già aveva fatto a Orsova.
L'occasione di mettere a nuova prova il potere del
passeggero non si presentò; nessun incidente turbò l'ultima
parte del viaggio. Il 10 ottobre, verso le quattro del
pomeriggio, la chiatta giungeva finalmente all'altezza di
Russe, che si vedeva confusamente sull'altra riva. Il pilota
raggiunse allora il centro del fiume e poi, smettendo di
remare per la prima volta dopo tanti giorni, diede fondo
all'ancorotto.
— Che cosa c'è? — chiese Karl Dragoch, sorpreso.
— Io sono arrivato — rispose laconicamente Serge
Ladko.
— Arrivato? Non siamo ancora al Mar Nero.
— Vi ho ingannato, signor Jaeger — dichiarò Serge
Ladko con franchezza. — Non ho mai avuto l'intenzione di
andare fino al Mar Nero.
— Bah! — disse il poliziotto, la cui attenzione si era
risvegliata.
— Sono partito con l'idea di fermarmi a Russe. Ci
siamo.
— Dov'è Russe?
— Là — rispose il pilota indicando le case della città
lontana.
— Perché non ci andiamo, allora?
— Perché debbo aspettare la notte. Sono braccato,
perseguitato. Di giorno rischierei di farmi arrestare dopo
qualche passo.
La faccenda si faceva interessante. I sospetti
inizialmente avuti da Dragoch erano dunque giustificati?
— Come a Semlin — mormorò a bassa voce.
— Come a Semlin — assentì Ladko per nulla turbato, —
ma non per lo stesso motivo. Sono un uomo onesto, signor
Jaeger.
— Non ne dubito, signor Brusch, benché le ragioni che
fanno temere l'arresto raramente sono buone.
— Le mie lo sono — disse con freddezza Ladko. —
Scusatemi se non ve le dico. Ho giurato a me stesso di
mantenere il segreto e lo manterrò.
Con un gesto di assenso Karl Dragoch espresse assoluta
indifferenza. Il pilota proseguì:
— Capisco, signor Jaeger, che non abbiate alcuna voglia
di essere immischiato nelle mie faccende. Se preferite, vi
farò scendere in terra rumena. Eviterete in tal modo i
pericoli ai quali potrò essere esposto.
— Quanto tempo contate di rimanere a Russe? — chiese
Dragoch, senza rispondere direttamente.
— Non lo so. Se le cose andranno secondo i miei
desideri, tornerò a bordo prima che faccia chiaro. In questo
caso, non sarò solo. Diversamente, non so quello che farò.
— Vi seguirò sino in fondo, signor Brusch — disse
senza esitare Karl Dragoch.
— Come volete! — concluse Ladko. E non aggiunse
altro.
Al cader della notte riprese il remo e si avviò verso la
riva bulgara. Quando accostò, un po' a valle delle ultime
case della città, l'oscurità era fitta. Tutto teso verso il
proprio scopo, Serge Ladko si moveva come un
sonnambulo. Con gesti secchi e precisi faceva senza
esitazione ciò che doveva fare; faceva ciò che gli sarebbe
stato impossibile non fare. Non vedeva niente di quel che
lo circondava e perciò non vide neppure il compagno
sparire sotto la tuga, non appena salpato l'ancorotto. Il
mondo esterno aveva perso ogni realtà. Esisteva soltanto il
suo sogno, un sogno folgorante di sole, a dispetto della
notte: la sua casa, e nella sua casa, Natcha! Oltre a Natcha,
non c'era più nulla sotto il cielo.
Non appena la ruota di prora ebbe toccato la riva, egli
saltò a terra, fissò saldamente l'ormeggio e si allontanò
rapidamente.
Karl Dragoch uscì immediatamente dalla cabina: non
aveva perduto tempo. Chi avrebbe mai riconosciuto il
poliziotto dalla figura energica e asciutta in quel balordo
dal passo pesante, esatta copia di un contadino ungherese?
Il poliziotto saltò a terra e seguì ancora una volta le
tracce del pilota.
CAPITOLO XVI
LA CASA VUOTA
POCHI minuti dopo, Serge Ladko e Karl Dragoch
raggiungevano le prime case.
Nonostante la sua importanza commerciale, Russe non
possedeva allora illuminazione pubblica; sarebbe stato
perciò difficile, anche volendolo, che essi potessero farsi
un'idea della città irregolarmente raggruppata intorno a un
vasto imbarcadero, in fondo al quale si ammucchiavano
piccole costruzioni malandate che servivano da magazzini
o da bettole. Ma essi non se ne preoccupavano; il primo
camminava rapidamente, guardando fissamente dinanzi a
sé, come attratto da una meta che brillava nel buio. Il
secondo era così preoccupato nel seguire il pilota da non
accorgersi che due uomini erano sbucati da una stradetta
laterale.
Non appena furono sulla via che costeggiava il fiume, i
due uomini si separarono. Uno di essi andò a destra, a
valle.
— Buona sera — disse in bulgaro.
— Buona sera — rispose l'altro, che voltando a sinistra
tagliò la strada a Karl Dragoch.
Il suono di quella voce fece sobbalzare il poliziotto, il
quale, dopo un attimo di esitazione, rallentò istintivamente
il passo. Poi, rinunciando a seguire Ladko, si fermò di
colpo e si volse.
Un investigatore per non marcire nelle funzioni più
umili della sua professione deve possedere un insieme di
doni naturali o acquisiti. Ma quello più prezioso fra i tanti,
è una perfetta memoria visiva e uditiva.
E Karl Dragoch l'aveva molto sviluppata. Vista e udito
erano in lui veri e propri apparecchi di registrazione; egli
non dimenticava mai certe sensazioni, qualunque fosse il
tempo trascorso. Dopo mesi o anni, riconosceva subito un
viso scorto di sfuggita, o una voce che aveva fatto vibrare
una sola volta i suoi timpani.
Era stato esattamente così per la voce appena udita; non
era trascorso molto tempo da quando si era trovato dinanzi
al suo proprietario, perché potesse sbagliarsi. Quella voce,
che era risonata al suo orecchio nella radura ai piedi del
monte Pilis, era il filo conduttore inutilmente cercato. Per
quanto ingegnose, le deduzioni relative al suo compagno di
viaggio erano dopo tutto soltanto delle ipotesi. La voce, al
contrario, gli dava finalmente la certezza. Tra il probabile e
il sicuro non ci poteva essere esitazione, perciò il poliziotto
abbandonò il pedinamento e si lanciò sulla nuova pista.
— Buona sera, Titcha — disse Karl Dragoch in tedesco,
quando l'uomo gli fu vicino.
Titcha si fermò, scrutando nel buio.
— Chi mi parla? — chiese.
— Io — rispose Dragoch.
— Chi, io?
— Max Raynold.
— Non vi conosco.
— Ma io vi conosco, avendovi chiamato per nome.
— D'accordo — disse Titcha. — Dovete avere buoni
occhi, amico.
— Eccellenti, infatti.
Il dialogo cessò per un istante.
— Che cosa volete da me? — riprese Titcha.
— Parlarvi — disse Dragoch. — Voglio parlare a voi e a
un altro. Sono a Russe proprio per questo.
— Non siete di qua, dunque?
— No. Sono giunto oggi.
— Avete scelto un bel momento — sogghignò Titcha,
alludendo certamente all'anarchia che regnava in quel
momento in Bulgaria.
Con un gesto d'indifferenza, Dragoch aggiunse:
— Io sono di Gran. Titcha non disse nulla.
— Conoscete Gran? — insistette Dragoch.
— No.
— E stupefacente: ci eravate così vicino!
— Vicino? Che cosa vi fa credere che io ci sia stato
vicino?
— Diamine! — disse Dragoch ridendo — la villa
Hagueneau non è lontana dalla città.
Questa volta toccò a Titcha sobbalzare. Cercò tuttavia di
giocar d'azzardo.
— La villa Hagueneau? — balbettò con voce che voleva
rendere scherzosa. — Non la conosco, come non conosco
voi.
— Davvero? — disse ironicamente Dragoch. — Non
conoscete neppure la radura di Pilis?
Titcha si avvicinò al suo interlocutore e gli afferrò il
braccio.
— Parlate sottovoce, diamine! — disse senza cercare
stavolta di nascondere il proprio turbamento. — Siete
matto per gridare in questo modo?
— Ma se non c'è nessuno! — disse Dragoch.
— Non si sa mai — rispose Titcha. Poi chiese: — Che
cosa volete da me?
— Voglio parlare con Ladko — rispose Dragoch senza
abbassare la voce. Titcha gli strinse più forte il braccio.
— Zitto! — fece guardandosi intorno impaurito. —
Volete forse farmi impiccare?
Karl Dragoch si mise a ridere.
— Beh! — disse — non sarà facile capirsi se dobbiamo
parlare stando zitti!
— Non si può avvicinare qualcuno nel cuore della notte,
senza nemmeno avvertirlo di stare in guardia! — brontolò
sordamente Titcha. — Ci sono cose che non si urlano in
mezzo alla strada.
— Non ci tengo a parlarvi per la strada — rispose
Dragoch. — Andiamo altrove.
— Dove?
— Non importa dove. C'è un'osteria nelle vicinanze?
— A pochi passi.
— Andiamoci.
— Seguitemi — disse Titcha.
Dopo una cinquantina di metri, i due raggiunsero una
piazzetta. Dinanzi a loro, una finestra brillava debolmente
nell'oscurità della notte.
— È là — disse Titcha.
Aperta la porta, si trovarono direttamente nella sala
deserta di un modesto caffè, con una decina di tavolini.
— Qui staremo benissimo — disse Dragoch. Il padrone
andò incontro agli insperati clienti.
— Che cosa si beve? Son io che offro — disse il
poliziotto, battendo la mano sul borsellino.
— Un bicchiere di racki? — propose Titcha.
— Vada per il racki!… E del ginepro?… Ciò non vi dice
nulla?
— E buono anche il ginepro — approvò Titcha.
Karl Dragoch si volse verso il proprietario che
attendeva.
— Avete sentito, amico? Serviteci, e alla svelta!
Mentre l'oste se ne andava, Dragoch pesò con
un'occhiata l'avversario. Fece presto a giudicarlo. Spalle
ampie, collo taurino, fronte stretta rosicchiata dai folti
capelli grigi; in poche parole, un perfetto esemplare di
lottatore da baraccone, un vero bruto.
Non appena furono portati bicchieri e bottiglie, Titcha
riprese la conversazione dal punto in cui era cominciata.
— Avete detto, dunque, che mi conoscete.
— Ne dubitate?
— E che sapete della faccenda di Gran.
— Anche. Vi abbiamo lavorato insieme.
— Non è possibile!
— Invece sì.
— Non ci capisco nulla — mormorò Titcha, frugando in
buona fede nei suoi ricordi. — Ma se eravamo soltanto in
otto…
— Scusate, eravamo in nove, poiché c'ero anch'io — lo
interruppe Dragoch.
— Avevate le mani in pasta? — insistette Titcha, poco
convinto.
— Sì, nella villa e anche nella radura. Ho persino
guidato la carretta.
— Con Vogel?
— Con Vogel.
Titcha rifletté un istante.
— Non è possibile — protestò. — Con Vogel c'era
Kaiserlick.
— No, c'ero io — rispose Dragoch tranquillamente. —
Kaiserlick era rimasto con voi.
— Ne siete sicuro?
— Assolutamente — affermò Dragoch.
Titcha stava vacillando. Il bandito non brillava proprio
per intelligenza. Non solo aveva fatto i nomi di Vogel e di
Kaiserlick a quel sedicente Max Raynold, ma considerava
come valida la prova che questi conoscesse i loro nomi.
— Un bicchiere di ginepro? — propose Dragoch.
— Non si rifiuta mai — disse Titcha.
Vuotato il bicchiere d'un fiato, mormorò quasi convinto:
— Però è strano. E la prima volta che un estraneo entra
nei nostri affari.
— C'è una prima volta per ogni cosa — rispose
Dragoch. — Non sarò più un estraneo, quando sarò
accettato nella banda.
— Quale banda?
— È inutile fare il furbo, amico. Vi dico che è cosa
stabilita.
— Che cosa è stabilito?
— Che sarò dei vostri.
— Stabilito con chi?
— Con Ladko.
— Tacete, perbacco — lo zittì brutalmente Titcha. — Vi
ho già detto di tenervelo per voi, quel nome!
— Me lo avete detto per strada; ma qui?
— Qui e ovunque, in tutta la città, s'intende.
— Perché? — chiese Dragoch, seguendo il suo istinto.
Titcha era ancora diffidente.
— Se qualcuno ve lo chiede — rispose prudentemente
— direte che non lo sapete. Voi sapete molte cose, ma non
sapete tutto, lo vedo, e non riuscirete certamente a far
cantare una vecchia volpe come me.
Titcha si sbagliava: non aveva la capacità di lottare con
un uomo della forza di Dragoch; la vecchia volpe aveva
trovato il maestro. La sobrietà non era il suo forte e, non
appena il detective se ne rese conto, cercò di trarre
vantaggio dal punto debole dell'avversario. Le sue ripetute
offerte vinsero la resistenza piuttosto debole del bandito.
Ai bicchieri di ginepro fecero seguito i bicchieri di racki, e
viceversa. Gli effetti dell'alcool cominciavano a farsi
avvertire; l'occhio di Titcha si annebbiava, la lingua si
impastava e la sua prudenza cedeva. Come tutti sanno,
l'ubriachezza è una strada in discesa: più si beve e più si ha
sete.
— Dicevamo, dunque — riprese Titcha con voce
alquanto pastosa — che il capo è d'accordo?
— D'accordo — dichiarò Dragoch.
— Ha fatto bene… il capo — affermò Titcha, e sotto i
fumi dell'alcool cominciò a dare del tu al suo interlocutore.
— Hai l'aspetto di un bravo compagno.
— Puoi ben dirlo — approvò Dragoch, dandogli corda.
— Il capo, però, non lo vedrai… ecco!
— Perché?
Prima di rispondere, Titcha prese la bottiglia e si versò
due bicchieri di racki. Finito di bere, disse con voce rauca:
— Il capo… è partito.
— Non è a Russe? — insistette Dragoch, deluso.
— Non c'è più.
— Vi era venuto, dunque?
— Quattro giorni fa.
— E ora?
— Discende il fiume con il battello sino al mare.
— Quando farà ritorno?
— Tra una quindicina di giorni.
— Quindici giorni di ritardo! Sono sfortunato! —
esclamò Dragoch.
— Hai tanta premura di far parte della compagnia? —
chiese Titcha, con una grande risata.
— Diamine! — disse Dragoch — faccio il contadino e
con il colpo di Gran ho guadagnato in una notte quello che
non riesco a guadagnare in un anno zappando la terra.
— Ciò ti ha fatto venire la voglia — concluse Titcha
scoppiando a ridere. Dragoch notò che il bicchiere del
compagno era vuoto e si affrettò a riempirlo.
— Ma tu non bevi, amico! — esclamò. — Alla tua
salute!
— Alla tua! — ripeté Titcha, vuotando il suo di colpo.
Le notizie raccolte dal poliziotto erano abbondanti. Egli
sapeva di quanti membri era composta la banda del
Danubio: otto, secondo Titcha; il nome di tre di essi, anzi
di quattro, comprendendovi quello del capo; la sua
destinazione: il mare, ove indubbiamente il bottino sarebbe
stato caricato sopra una nave; la base delle sue operazioni:
Russe. Al suo ritorno, tra una quindicina di giorni, Ladko
avrebbe trovato ogni cosa predisposta per il suo arresto
immediato, a meno che non si fosse riusciti a mettergli le
mani addosso alle foci del Danubio.
C'erano però altre cose da chiarire. Karl Dragoch ritenne
che gli sarebbe stato possibile, approfittando dello stato di
ebrietà del suo interlocutore.
— Perché — chiese con indifferenza, dopo qualche
istante di silenzio — non volevi poco fa che io
pronunciassi il nome di Ladko?
Ormai ubriaco, Titcha guardò con occhi umidi il
compagno, e gli tese la mano, in un improvviso slancio di
tenerezza.
— Te lo dirò — balbettò — perché sei un amico!
— Sono un amico! — confermò Dragoch, rispondendo
alla stretta dell'ubriaco.
— Un fratello!
— Un fratello.
— Un buontempone, un ragazzo in gamba.
— Proprio così.
Titcha cercò con gli occhi le bottiglie.
— Un bicchiere di ginepro? — propose.
— Non ce n'è più — rispose Dragoch.
Poiché riteneva che l'avversario fosse più che ubriaco e
temendo di vederlo scivolare sul pavimento da un
momento all'altro, aveva rovesciato per terra, di nascosto,
parte del contenuto delle bottiglie. Ma Titcha non si diede
per vinto; fece una smorfia di delusione e implorò:
— Un bicchiere di racki, allora?
— Ecco — disse Dragoch avvicinando sulla tavola la
bottiglia con ancora poche gocce di liquore. — Fa'
attenzione, amico!… Non dobbiamo ubriacarci.
— Io!… — protestò Titcha, scolando la bottiglia. —
Non potrei neppure se lo volessi!
— Dicevamo dunque che Ladko?… — suggerì
Dragoch, riprendendo con pazienza il cammino tortuoso
che portava alla meta.
— Ladko? — ripeté Titcha, il quale non sapeva più di
che cosa stavano parlando.
— Già… Perché non bisogna farne il nome? Titcha fece
una risata da avvinazzato.
— Ti interessa eh, ragazzo mio? Il fatto è che qui Ladko
si pronuncia Striga, ecco tutto.
— Striga? — ripeté Dragoch, non riuscendo a capire. —
Perché Striga?
— Perché quello è il suo nome… Così come tu ti
chiami… Già! come ti chiami?
— Raynold.
— Sì, Raynold… Ebbene! Io ti chiamo Raynold… Lui
si chiama Striga… È chiaro.
— A Gran, però… — insistette Dragoch.
— A Gran era Ladko — lo interruppe Titcha, — ma a
Russe è Striga. E strizzò l'occhio, con aria d'intesa.
— Allora, capisci, mai visto, mai conosciuto.
Che un malfattore si nasconda sotto un falso nome per
compiere i suoi misfatti, non stupisce un poliziotto; ma
perché proprio Ladko, lo stesso nome con cui era firmato il
ritratto trovato nella chiatta?
— Esiste però un altro Ladko — esclamò Dragoch,
spazientito, formulando in tal modo la conclusione del suo
pensiero.
— Diamine! È la cosa più bella della faccenda — disse
Titcha.
— Chi è Ladko?
— Una canaglia! — disse Titcha con forza.
— Che cosa ti ha fatto?
— A me? Nulla. A Striga…
— Che cosa ha fatto a Striga?
— Gli ha soffiato la ragazza… la bella Natcha.
Natcha! lo stesso nome del ritratto. Sicuro di essere sulla
buona strada, Dragoch ascoltava avidamente Titcha che
parlava senza farsi più pregare.
— Da allora non sono più amici, come puoi
immaginare! E per questo motivo che Striga ha preso il suo
nome. Striga è furbo.
— Tutto questo però — obiettò Dragoch — non spiega
perché non debbo pronunciare il nome di Ladko.
— Perché non è prudente — spiegò Titcha. — A Gran…
e altrove tu sai a chi si riferisce… Qui, invece, è quello di
un pilota che si è messo contro il governo. L'imbecille
cospira… E a Russe le vie sono piene di turchi!
— Che ne è di lui? — chiese Dragoch. Titcha fece il
gesto di chi non sa niente.
— È sparito — rispose. — Striga dice che è morto.
— Morto?
— E dev'essere vero, perché Striga ha in mano sua
moglie, ora.
— Quale moglie?
— La bella Natcha… Dopo il nome, anche la moglie…
La colomba però non è contenta! Ma Striga la custodisce a
bordo del battello.
Per Dragoch tutto appariva chiaro. Non era in
compagnia di un volgare malfattore che egli aveva
trascorso tanti giorni, ma in quella di un patriota in esilio.
Quale doveva essere, in quel momento, il dolore
dell'infelice nel trovare la casa vuota, dopo gli sforzi fatti
per raggiungere la moglie! Bisognava correre in suo aiuto.
Riguardo alla banda del Danubio, Dragoch, ormai bene
informato, non avrebbe fatto fatica, in seguito, ad
acciuffarla.
— Fa caldo! — sospirò, fingendo di essere ubriaco.
— Molto caldo — approvò Titcha.
— È il racki — balbettò Dragoch. Titcha batté il pugno
sulla tavola.
— Non hai la testa solida, ragazzo! — lo canzonò
Titcha. — Io, vedi, sono pronto a ricominciare.
— Non posso competere con te — convenne Dragoch.
— Sei un merlo!… — continuò a canzonarlo Titcha. —
Usciamo, se ti fa piacere.
Pagato il proprietario, i due compagni si ritrovarono
sulla piazza. Il cambiamento non parve giovare a Titcha.
Non appena all'aria aperta, la sua ubriachezza peggiorò
notevolmente. Dragoch temette di aver forzato la dose.
— Dimmi — chiese — e questo Ladko?…
— Quale Ladko?
— Il pilota. Abita da quella parte?
— No.
Dragoch si volse dall'altro lato della città.
— Da questa?
— Neppure.
— Da quest'altra, allora? — chiese Dragoch.
— Sì — balbettò Titcha.
Il poliziotto sorreggeva Titcha che, traballante, si
lasciava trascinare borbottando parole incoerenti; dopo
cinque minuti di marcia, si fermò bruscamente, sforzandosi
di stare in equilibrio.
— Perché Striga diceva — balbettò — che Ladko era
morto?
— Ebbene?
— Non è morto; c'è qualcuno in casa sua.
E Titcha indicò poco lontano delle strisce di luce che
filtrando attraverso le fessure di un'imposta, rigavano la
strada. Dragoch si affrettò a raggiungere la finestra e con
Titcha guardò da una fenditura.
Videro una stanza di modeste proporzioni, ma
ammobiliata confortevolmente. Il disordine e la spessa
polvere che ricopriva i mobili lasciavano supporre che in
quella camera, da molto tempo abbandonata, si era svolta
qualche scena di violenza. Il centro era occupato da una
grande tavola, sulla quale appoggiava i gomiti un uomo che
sembrava riflettere profondamente. Le dita contratte
affondate nei capelli in disordine esprimevano
eloquentemente il tormento penoso del suo animo. Dagli
occhi di quell'uomo sgorgavano grosse lagrime.
Dragoch riconobbe in lui il suo compagno di viaggio.
Ma non fu il solo a riconoscerlo.
— E lui!… — mormorò Titcha, facendo energici sforzi
per allontanare l'ubriachezza.
— Lui?
— Ladko.
Titcha si passò la mano sul viso e parve ritrovare un po'
di sangue freddo.
— Non è morto, canaglia! — disse fra i denti. — Ma è
come se lo fosse… I turchi mi pagheranno la sua pelle più
di quanto non valga. Striga ne sarà felice! Non muoverti di
qui, amico — disse a Karl Dragoch. — Se vuole uscire,
ammazzalo! Chiama aiuto, se necessario. Io vado a cercare
la polizia.
E Titcha si allontanò di corsa, senza attendere risposta.
Zigzagava, appena: l'emozione gli aveva reso l'equilibrio.
Non appena fu solo, il poliziotto entrò nella casa.
Serge Ladko non fece alcun movimento. Karl Dragoch
gli mise la mano sulla spalla.
L'infelice alzò il capo. La sua mente era assente; lo
sguardo spento rivelava di non aver riconosciuto il
passeggero. Costui disse una parola:
— Natcha!
Serge Ladko si alzò di scatto. Gli occhi lampeggianti
erano inchiodati, interrogativi, a quelli di Dragoch.
— Seguitemi — disse il poliziotto — e spicciamoci.
CAPITOLO XVII
A NUOTO
LA CHIATTA volava sulle acque. Ebbro, esaltato, in preda
a una specie di rabbia, con più forza che mai, Serge Ladko
premeva sul remo. Affrancato dal suo violento desiderio
dalla soggezione a qualsiasi legge umana, la notte si
concedeva soltanto qualche ora di riposo. Cadeva allora in
un sonno di piombo e si svegliava all'improvviso due ore
dopo come chiamato dal suono di una campana, per
riprendere immediatamente la sua massacrante fatica.
Testimone dell'accanito inseguimento, Karl Dragoch si
stupiva che un organismo umano potesse avere tanta
resistenza. Era sì un uomo che gli dava quel prodigioso
spettacolo, ma un uomo che attingeva quell'energia
sovrumana da una spaventosa disperazione.
Per risparmiare all'infelice pilota la più lieve distrazione,
il poliziotto cercava di non rompere il silenzio. Ciò che
doveva dire l'aveva detto alla partenza da Russe. Non
appena la chiatta era stata spinta sul filo della corrente,
Karl Dragoch aveva dato infatti le spiegazioni
indispensabili. Per prima cosa gli aveva rivelato la sua
professione. Poi, in poche parole, gli aveva spiegato il
motivo del suo viaggio, all'inseguimento della banda del
Danubio, il cui capo, diceva la gente, era un certo Ladko di
Russe.
Il pilota aveva ascoltato distrattamente, manifestando
una febbrile impazienza. Che cosa gliene importava? Non
aveva che un pensiero, uno scopo, una speranza: Natcha.
La sua attenzione si era risvegliata solo nel momento in
cui Karl Dragoch aveva cominciato a parlare della giovane,
dicendo di avere appreso dalla bocca di Titcha che Natcha
discendeva il fiume, prigioniera a bordo di un battello
comandato dal capo della banda, il cui vero nome era
Striga e non Ladko.
Nell'udire quel nome, Ladko aveva cacciato un ruggito.
— Striga! — aveva gridato stringendo con forza il remo.
Non aveva chiesto altro. Da quel momento, si affrettava
senza respiro, senza tregua, senza riposo, le sopracciglia
aggrottate, gli occhi da folle, e l'animo proiettato verso la
meta. Quella meta, in cuor suo, era sicuro di raggiungerla.
Perché? Era incapace di dirlo: ne era certo, ecco tutto.
Sapeva che al primo colpo d'occhio avrebbe trovato il
battello, fosse stato tra mille, sul quale Natcha era tenuta
prigioniera. Come? Non lo sapeva.
Ma lo avrebbe trovato. Ciò era indiscutibile, fuori di
ogni dubbio. Ora si rendeva conto perché mai gli era parso
di conoscere il carceriere che gli portava da mangiare
quand'era prigioniero, e perché le voci udite confusamente
avevano trovato eco nel suo cuore. Il carceriere era Titcha.
Le voci, quelle di Striga e di Natcha. Anche il grido udito
nella notte era di Natcha che invocava inutilmente aiuto.
Perché non si era fermato, allora? Quanti rimpianti e quanti
rimorsi si sarebbe risparmiati!
Era già tanto se al momento della fuga aveva scorto nel
buio la massa scura della prigione galleggiante, nella quale
abbandonava, senza saperlo, colei che amava. Ma non
aveva importanza, era più che sufficiente. Non avrebbe
potuto passare accanto a quel battello senza che una voce
misteriosa, dal profondo del cuore, l'avvertisse.
La speranza di Serge Ladko, a dire il vero, era meno
presuntuosa di quanto si fosse tentati di credere. Le
possibilità di sbagliarsi infatti, erano minime, poiché le
chiatte che solcavano il Danubio erano poche. Già dopo
Orsova erano diminuite, dopo Russe erano pochissime, le
ultime poi si erano fermate a Silistrie. A valle di questa
città, che la chiatta avrebbe oltrepassata fra ventiquattr'ore,
sul fiume erano rimasti soltanto due battelli, gli altri ormai
erano tutti bastimenti a vapore.
Il fatto è che all'altezza di Russe il Danubio è immenso.
Sulla riva sinistra si estendono interminabili paludi e il suo
letto supera le due leghe. A valle è ancora più vasto; tra
Silistrie e Braila raggiunge a volte i venti chilometri di
larghezza. Questa distesa d'acque è un vero mare, al quale
non mancano né le tempeste né le onde coronate di
schiuma; è quindi comprensibile che i battelli a fondo
piatto, poco adatti ad affrontare le onde del largo, esitino ad
avventurarvisi.
Per Serge Ladko era anche un'ottima cosa che il tempo
si mantenesse stabilmente al bello. Con un'imbarcazione di
così piccole dimensioni e così poco marina, se il vento
avesse soffiato con qualche violenza, egli sarebbe stato
costretto a cercare rifugio in qualche anfratto della riva.
Pur partecipando di tutto cuore alle preoccupazioni del
compagno, Karl Dragoch, che mirava anche a un altro
scopo, non cessava di essere turbato dal deserto di quella
triste distesa d'acque. Forse Titcha gli aveva dato delle
false informazioni? Tutti i battelli a fondo piatto si erano
fermati, ma egli temeva che Striga non l'avesse fatto. La
sua inquietudine giunse al punto di indurlo a parlarne con
Serge Ladko.
— Un'imbarcazione a fondo piatto può andare fino al
mare?
— Sì — rispose il pilota. — Capita di rado, ma succede.
— Vi è capitato di condurvene?
— A volte.
— Come fanno a trasferire a terra il loro carico?
— Riparando in qualche insenatura. Ne esistono al di là
delle foci: ed è là che i vapori vanno a caricare.
— Le foci, avete detto. Ce ne sono parecchie, infatti.
— Le principali sono due — rispose Serge Ladko. — A
nord c'è quella di Kilia; a sud, quella di Sulina, la più
importante.
— Non potremmo esserci sbagliati? — chiese Dragoch.
— No — disse il pilota. — I clandestini non passano
mai per Sulina. Seguono il braccio settentrionale.
La risposta tranquillizzò Karl Dragoch soltanto in parte.
Mentre si seguiva una strada, la banda poteva
tranquillamente scappare dall'altra. Ma che fare contro tale
eventualità se non affidarsi al caso, visto che erano
nell'impossibilità di sorvegliare tutte le foci del fiume?
Come se avesse indovinato ciò che pensava, Serge Ladko
completò le sue rassicuranti spiegazioni.
— Inoltre, oltre la fóce di Kilia, esiste un'insenatura
nella quale un battello può procedere allo scarico.
Seguendo la foce di Sulina, invece, sarebbe costretto a
scaricare nel porto che ha lo stesso nome e che è situato
sulla riva del mare. Per quanto riguarda il braccio San
Giorgio, più a sud, esso è appena navigabile, anche se più
importante dal punto di vista della larghezza. Non è
possibile sbagliarsi.
Nella mattinata del 14 ottobre la chiatta raggiunse
finalmente il delta del Danubio. Lasciandosi a destra il
braccio di Sulina, essa imboccò decisamente quello di
Kilia. A mezzogiorno passava dinanzi a Ismail, ultima città
di qualche importanza da superare. Nelle prime ore del
giorno dopo, la chiatta sarebbe sboccata nel Mar Nero.
Avrebbero raggiunto prima la chiatta di Striga? Nulla
autorizzava a crederlo. Dopo aver abbandonato il braccio
principale, il fiume si era fatto completamente deserto. Fin
dove giungeva lo sguardo, non si vedeva una vela né un fil
di fumo. Karl Dragoch era divorato dall'inquietudine.
Se Serge Ladko era inquieto, non lo dimostrava affatto.
Sempre piegato sul remo, spingeva infaticabilmente avanti
la chiatta, soltanto preoccupato di seguire il canale che la
lunga pratica gli permetteva di riconoscere tra le rive basse
e paludose.
Il suo ostinato coraggio fu premiato. Nel pomeriggio
dello stesso giorno, verso le cinque, videro finalmente un
battello ormeggiato a una dozzina di chilometri al disotto
della piazzaforte di Kilia. Serge Ladko smise di remare,
prese il cannocchiale e guardò attentamente il battello.
— E lui! — disse con voce soffocata.
— Ne siete sicuro?
— Sicurissimo — disse Serge Ladko. — Ho
riconosciuto Yacoub Ogul, un abile pilota di Russe, anima
dannata di Striga, del quale conduce certamente il battello.
— Che faremo? — chiese Karl Dragoch.
Serge Ladko non rispose immediatamente. Rifletteva. Il
poliziotto riprese:
— Bisogna tornare indietro sino a Kilia; se necessario,
fino a Ismail, per procurarci i necessari rinforzi.
Il pilota scosse negativamente il capo.
— Risalire fino a Ismail controcorrente o anche soltanto
fino a Kilia — disse — richiederebbe troppo tempo. Il
battello guadagnerebbe terreno e in mare, poi, non ci
sarebbe più possibile rintracciarlo. Restiamo qui e
aspettiamo la notte. Ho un'idea. Se mi riesce, seguiremo il
battello da lontano e quando sapremo dove sosterà,
andremo a cercare aiuto a Sulina.
Alle otto l'oscurità si fece completa. Serge Ladko lasciò
che la chiatta andasse alla deriva fino a duecento metri dal
battello, e poi calò silenziosamente l'ancorotto. Infine,
senza una parola di spiegazione a Karl Dragoch che lo
guardava con stupore, si tolse gli abiti e si tuffò nel fiume.
Nuotando con poderose bracciate, si diresse deciso verso
il battello. Lo superò quel tanto per non essere visto, poi,
vincendo la forte corrente, tornò indietro e andò ad
aggrapparsi alla larga pala del timone. Rimase in ascolto.
Quasi soffocato dallo sciabordio serico dell'acqua che
ciangottava sui fianchi della chiatta, il motivo di una
canzone giunse fino a lui. Sopra il suo capo, qualcuno
canticchiava a mezza voce. Aggrappandosi con i piedi e
con le mani alla superficie vischiosa del legno, Ladko si
sollevò con sforzi misurati fino alla parte superiore della
pala e riconobbe Yacoub Ogul.
A bordo, tutto era tranquillo. Dalla tuga, nella quale Ivan
Striga si era certamente ritirato, non usciva rumore. Cinque
uomini dell'equipaggio chiacchieravano tranquillamente,
allungati sul ponte a prua. Le loro voci erano un indistinto
mormorio. Soltanto Ogul era a poppa. Salito sulla tuga, si
era seduto sulla sbarra del timone e si lasciava cullare nella
pace notturna, canticchiando un motivo familiare.
Il motivo si spense all'improvviso. Due mani di ferro
stringevano la gola del cantante, che oscillando sopra il
coronamento, andò a cadere sulla pala. Era morto? Gambe
e braccia penzoloni, il suo corpo inerte pendeva come uno
straccio a cavallo dello stretto spigolo. Serge Ladko allentò
la stretta e afferrò l'uomo per la vita; poi, riducendo la
pressione delle ginocchia contro la pala, si lasciò scivolare
a poco a poco e sparì silenziosamente in acqua.
Sul battello nessuno aveva avuto il sospetto
dell'aggressione. Ivan Striga non era uscito dalla tuga; a
prua, i cinque uomini continuavano a chiacchierare
tranquillamente.
Nel frattempo Serge Ladko nuotava verso la sua chiatta.
Il ritorno richiedeva maggior fatica dell'andata: oltre a
risalire la corrente, egli doveva sostenere il corpo di Ogul
che, se non era morto, lo sembrava certamente. Il freddo
dell'acqua non lo aveva rianimato: il suo corpo era sempre
inerte. Ladko cominciò a temere di aver avuto la mano
pesante.
Se erano bastati cinque minuti per andare dalla chiatta al
battello, occorse più di mezz'ora per rifare il percorso in
senso inverso. Il pilota ebbe anche la buona sorte di non
smarrirsi nel buio della notte.
— Aiutatemi — disse a Karl Dragoch, attaccandosi
all'imbarcazione. — Eccone uno, se non altro.
Con l'aiuto del detective, Ogul fu issato a bordo e
deposto sulla chiatta.
— È morto? — chiese Ladko. Dragoch si chinò
sull'uomo.
— No — disse — respira.
Ladko emise un sospiro di sollievo e prendendo subito il
remo cominciò a risalire la corrente.
— Legatelo saldamente — disse — se non volete che,
quando vi avrò deposto a terra, se ne vada senza salutarvi.
— Stiamo dunque per separarci? — chiese Dragoch.
— Sì — rispose Ladko. — Vi lascerò a terra, tornerò
nelle vicinanze del battello e domani cercherò di
introdurmi a bordo.
— In pieno giorno?
— In pieno giorno. Ho la mia idea. State tranquillo,
almeno per un certo tempo non correrò alcun pericolo. Non
dico che quando saremo vicini al Mar Nero le cose non
rischieranno di mettersi male. Conto su di voi in quel
momento, anche se cercherò di fare in modo che giunga il
più tardi possibile.
— Contate su di me? Che cosa potrò fare?
— Portarmi degli aiuti.
— Farò il possibile, non dubitate — disse calorosamente
Dragoch.
— Non ne dubito, ma forse incontrerete qualche
difficoltà. Farete ciò che potrete, ecco tutto. Tenete
presente che il battello lascerà l'ormeggio domani a
mezzogiorno e che, se nulla lo fermerà, sarà in mare verso
le quattro. Sappiate regolarvi.
— Perché non restate con me? — chiese Karl Dragoch,
inquieto sulla sorte del compagno.
— Perché voi potreste tardare e ciò permetterebbe a
Striga di portarsi avanti e di sparire. Non deve raggiungere
il mare. Non lo raggiungerà, anche se arriverete troppo
tardi per portarmi aiuto: in questo caso, però,
probabilmente io sarò morto.
Il tono della voce del pilota non ammetteva replica;
comprendendo che nulla gli avrebbe fatto cambiare idea,
Karl Dragoch non insistette. La chiatta fu quindi condotta
alla riva, dove Yacoub Ogul fu deposto a terra, svenuto.
Ladko spinse al largo l'imbarcazione e la chiatta
scomparve nell'oscurità della notte.
CAPITOLO XVIII
IL PILOTA DEL DANUBIO
DOPO la scomparsa di Serge Ladko nell'oscurità della
notte, Karl Dragoch esitò un istante pensando a ciò che gli
conveniva fare. Solo nella notte alla frontiera con la
Bessarabia, con il fastidio di quel corpo inerte che il dovere
gli impediva di abbandonare, la sua situazione continuava
ad essere difficile. Poiché tuttavia era evidente che non
avrebbe mai trovato aiuto se non fosse andato a cercarlo,
doveva decidersi a fare qualcosa. Il tempo stringeva. La
salvezza di Serge Ladko poteva dipendere da un'ora, forse
da un minuto. Abbandonato per il momento Ogul, sempre
svenuto e sufficientemente legato perché non potesse
fuggire nel caso si fosse ripreso, risalì il fiume con la
sveltezza che la natura del terreno gli consentiva.
Dopo mezz'ora di cammino in una zona completamente
deserta, quando cominciava a temere di doversi spingere
sino a Kilia, scorse per caso un'abitazione sulla riva del
fiume.
Non fu facile farsi aprire la porta di quella che sembrava
una grossa fattoria. A quell'ora e in quel luogo una certa
diffidenza era normale; si può quindi capire perché i
proprietari non avessero alcuna voglia di lasciarlo entrare.
Le difficoltà erano aggravate poi dall'impossibilità di
comprendersi: infatti i contadini usavano il dialetto locale,
che Karl Dragoch, benché conoscesse più lingue, non
capiva. Usando un linguaggio tutto inventato fatto di un
terzo di rumeno, di russo e di tedesco, riuscì ad accattivarsi
la loro fiducia e la porta così energicamente difesa finì per
schiudersi.
Quando fu entrato, dovette subire un interrogatorio dal
quale venne fuori con onore: non erano ancora trascorse
due ore dal suo sbarco, infatti, che una carretta lo
conduceva da Ogul, che non aveva ancora ripreso
conoscenza. Non diede segno di vita neppure quando fu
caricato sulla carretta che riparti subito verso Kilia. Sino
alla fattoria fu necessario andare a passo d'uomo; dopo, un
sentiero, anche se in pessime condizioni, permise loro di
accelerare l'andatura.
Era già mezzanotte passata quando Dragoch entrò in
Kilia. La città dormiva e rintracciare il capo della polizia
non fu facile. Tuttavia vi riuscì e si assunse la
responsabilità di svegliarlo; l'alto funzionario, senza
nemmeno troppo cattivo umore, si mise cortesemente a sua
disposizione.
Dragoch ne approfittò per mettere al sicuro Ogul, che
cominciava ad aprire gli occhi; poi, finalmente libero di
agire, poté occuparsi della cattura del resto della banda e
della salvezza di Ladko, alla quale teneva maggiormente.
Sin dall'inizio incontrò insormontabili difficoltà. A Kilia
non c'era alcun vapore e il capo della polizia si rifiutava
energicamente di mandare i suoi uomini sul fiume. Poiché
quel braccio del Danubio era allora in comune a Romania e
Turchia, era da temere che il loro intervento provocasse da
parte della Sublime Porta reclami spiacevolissimi, in un
momento in cui c'erano in aria minacce di guerra. Se il
funzionario rumeno avesse potuto sfogliare il libro del
Destino, avrebbe visto che quella guerra, voluta da sempre,
sarebbe scoppiata soltanto pochi mesi dopo, e ciò lo
avrebbe reso indubbiamente meno timido; non conoscendo
il futuro, egli tremava al pensiero di essere immischiato in
un qualsiasi modo in complicazioni diplomatiche, e perciò
si uniformava al saggio precetto: «Niente grattacapi», che
è, come si sa, il motto dei funzionari di ogni paese.
Tutto quello che egli osò fare fu di consigliare a Karl
Dragoch di andare a Sulina e gli indicò l'uomo capace di
guidarlo in quel difficile viaggio di quasi cinquanta
chilometri attraverso il delta del Danubio.
Andare a svegliare quell'uomo, persuaderlo, preparare la
carrozza, portarla sulla riva destra richiese molto tempo.
Erano quasi le tre del mattino quando finalmente il
poliziotto se ne andò al trotto di un cavallino le cui qualità
erano, per fortuna, superiori all'apparenza.
Il capo della polizia di Kilia aveva avuto ragione nel
definire difficile la traversata del delta. La carrozza
avanzava con difficoltà sulla strada fangosa, a volte
ricoperta di vari centimetri d'acqua; e senza l'abilità del
conducente si sarebbe smarrita più volte su quella pianura
priva di qualsiasi punto di riferimento. Perciò non si
avanzava in fretta e ogni tanto bisognava pure lasciar
riposare il cavallo affaticato.
Sonava mezzogiorno quando Dragoch giungeva a
Sulina. Il termine fissato da Ladko sarebbe scaduto tra
poche ore! Senza perdere tempo per mangiare, egli corse a
parlare con le autorità locali.
Diventata rumena dopo il trattato di Berlino, Sulina era
turca all'epoca in cui si svolgevano questi avvenimenti.
Poiché le relazioni tra la Sublime Porta e le potenze
occidentali erano allora molto tese, Karl Dragoch, suddito
ungherese, non poteva sperare di essere persona grata,4
nonostante la missione d'interesse generale di cui era
investito. Accolto un po' meglio di quanto sperasse, non fu
però sorpreso di trovare presso quelle autorità un aiuto
assai modesto.
La polizia locale, gli fu detto, non possedeva
un'imbarcazione da potergli dare; poteva contare perciò
soltanto su quella della dogana che, date le attuali
circostanze, con un po' di buona volontà poteva far passare
per una banda di ladri, per una banda di contrabbandieri.
La nave a vapore della dogana, abbastanza rapida, non era
purtroppo in porto: incrociava in mare, ma sicuramente a
poca distanza dalla costa. Dragoch non doveva far altro che
noleggiare una barca da pesca e, senza alcun dubbio
appena fuori della gettata, l'avrebbe incontrata.
Disperato, il detective si rassegnò a fare a quel modo.
All'una e mezzo del pomeriggio, issava la vela e doppiava
il molo alla ricerca del vapore della dogana. Aveva a sua
disposizione appena centocinquanta minuti per giungere
all'appuntamento di Ladko.
Quest'ultimo, mentre Dragoch affrontava le sue
disavventure, proseguiva con metodo l'esecuzione del suo
piano.
Nascosta la chiatta tra le canne della riva, era rimasto
tutta la mattina a spiare per assicurarsi che il battello non si
preparasse a partire. Si era impadronito, un po' brutalmente
forse — ma non aveva altra scelta – di Yacoub Ogul per
uno scopo ben preciso. E come aveva previsto, Striga non
4
In italiano nel testo. (N.d.T.)
osava avventurarsi senza pilota in una navigazione così
difficile, che numerosi banchi di sabbia rendono
impossibile a chi non ne ha grande esperienza. Si doveva
supporre che i pirati, nell'impossibilità di dare una
spiegazione alla scomparsa del loro pilota, alla prima
occasione l'avrebbero sostituito. Ma i piloti non abbondano
sul braccio di Kilia; fino alle undici del mattino, fatta
eccezione per il battello sempre fermo e per la chiatta
invisibile di Ladko, le acque del fiume rimasero deserte.
Soltanto alle undici giunsero due imbarcazioni dal mare.
Serge Ladko le esaminò con il cannocchiale e in una
riconobbe quella di un pilota. Ivan Striga poteva trovare
l'aiuto che probabilmente attendeva con impazienza. Il
momento di intervenire era dunque giunto.
La chiatta uscì dal canneto e si accostò al battello.
— Eh voi del battello! — chiamò Ladko quando fu a
portata di voce.
— Oh! — gli fu risposto.
Un uomo apparve sulla tuga: era Ivan Striga.
Quale furore sconvolse il cuore di Serge Ladko quando
vide il nemico della sua felicità, il vile che da mesi teneva
Natcha nelle sue mani!
Ma egli era preparato a quell'incontro che aveva voluto.
Era pronto. Dominò il furore e, facendo uno sforzo su se
stesso, chiese:
— Avete bisogno di un pilota?
Invece di rispondere, Striga, riparandosi gli occhi con la
mano, esaminò per un lungo momento colui che lo
interpellava. A dire il vero, gli era bastato un solo sguardo
per capire chi era. Ma il trovarsi davanti il marito di Natcha
gli pareva una cosa talmente straordinaria e talmente
insperata, se così si può dire, che esitava dinanzi
all'evidenza.
— Non siete Serge Ladko di Russe? — chiese a sua
volta.
— Sono proprio io — rispose il pilota.
— Non mi riconoscete?
— Bisognerebbe essere ciechi per non riconoscervi —
rispose Serge Ladko. — Vi riconosco perfettamente, Ivan
Striga.
— E mi offrite i vostri servizi?
— Perché no? Sono pilota — dichiarò Ladko con
indifferenza. Striga esitò un istante. Che colui che egli
odiava più di ogni altro al
mondo venisse a mettersi nelle sue mani di sua
spontanea volontà, gli sembrava troppo bello. C'era da
temere un tranello, forse? Ma quale pericolo poteva far
correre un uomo solo a un equipaggio numeroso e deciso a
tutto? Guidasse pure il battello fino al mare, se era così
stupido da chiederlo! Raggiunto il mare…
— Sali! — disse il pirata, con un ghigno crudele che non
sfuggì a Ladko. Costui non si fece ripetere l'invito: accostò
e sali a bordo. Striga gli si fece incontro.
— Sono stupito — disse — di vedervi alle bocche del
Danubio. Il pilota non disse nulla.
— Vi si credeva morto — riprese Striga — da quando
siete scomparso da Russe.
L'insinuazione non ebbe maggior successo della
precedente.
— Dove eravate andato a finire? — chiese Striga senza
scoraggiarsi.
— Non ho mai lasciato i dintorni del mare — rispose
Ladko.
— Così lontano da Russe?! — esclamò Striga.
Ladko aggrottò le sopracciglia. L'interrogatorio
cominciava a esasperarlo. Seguendo la linea di condotta
che si era ripromessa, tenne a freno l'impazienza e spiegò
tranquillamente:
— Rivolte e agitazioni non sono propizie agli affari.
Striga lo guardò con occhio beffardo.
— Dicevano che eravate un patriota! — esclamò con
ironia.
— Non faccio più politica — disse seccamente Ladko.
In quel momento gli occhi di Striga caddero sulla chiatta
che la corrente aveva fatto girare sull'ancora a poppa del
battello. Sussultò; non poteva ingannarsi: era la chiatta che
aveva usato per otto giorni e che aveva trovato ormeggiata
alla banchina di Semlin. Ladko mentiva, dunque, dicendo
che non aveva lasciato il delta del Danubio?
— Da quando avete lasciato Russe, non vi siete
allontanato da questi paraggi? — insistette Striga scrutando
l'interlocutore.
— No — rispose Ladko.
— Mi stupite — disse Striga.
— Perché? Credete di avermi visto altrove?
— Voi, no; ma quella imbarcazione… Giurerei di averla
vista sull'alto fiume.
— È possibile — rispose Ladko, con indifferenza. —
L'ho acquistata tre giorni fa da un uomo che diceva di
venire da Vienna.
— Com'era quest'uomo? — chiese Striga, che pensava
con sospetto a Dragoch.
— Un uomo bruno, con occhiali.
— Ah! — disse Striga con aria pensierosa.
Le risposte del pilota lo avevano chiaramente scosso.
Non sapeva a che cosa credere. Ma non tardò ad
abbandonare ogni preoccupazione. Che importava, dopo
tutto? Che Serge Ladko dicesse o meno la verità, era però
nelle sue mani. L'imbecille si era cacciato in bocca al lupo!
Dal battello egli non sarebbe più uscito vivo. Erano mesi
che Striga mentiva a Natcha dicendole che era vedova. Non
appena in mare, quella menzogna sarebbe diventata verità.
— Partiamo! — disse a mo' di conclusione di ciò che
pensava.
— A mezzogiorno — rispose tranquillamente Ladko. E
tirando fuori alcune provviste dal sacchetto che teneva in
mano, cominciò a far colazione.
Il pirata ebbe un gesto d'impazienza, che Ladko finse di
non vedere.
— Vi avverto — disse Striga — che voglio raggiungere
il mare prima che faccia buio.
— Ci saremo — confermò il pilota, determinato a non
cambiare la sua decisione.
Striga si allontanò verso prua. A giudicare
dall'espressione pensosa del viso, gli restava ancora una
preoccupazione. Che Ladko si offrisse di pilotare il battello
nel quale sua moglie era prigioniera, era una coincidenza
troppo strana. Ma Serge Ladko a bordo era
inequivocabilmente solo contro sei uomini ben decisi;
Striga non doveva pensare ad altro. Però quell'inconfutabile
ragionamento non gli bastava: aveva l'assoluto bisogno di
sapere se la scomparsa di Natcha fosse nota al principale
interessato. La sua morbosa curiosità doveva essere
soddisfatta.
— Avete avuto notizie da Russe, da quando siete venuto
via? — chiese tornando verso il pilota, che continuava
tranquillamente a mangiare.
— Mai — rispose questo.
— Tale silenzio non vi ha sorpreso?
— Perché avrebbe dovuto sorprendermi? — chiese
Ladko fissando il suo interlocutore.
Per quanto audace, quest'ultimo si sentì imbarazzato
sotto lo sguardo fermo del pilota.
— Credevo che aveste lasciato vostra moglie a Russe —
balbettò.
— E io credo che sarebbe meglio cambiare argomento
— replicò Ladko freddamente.
Striga tacque.
Pochi minuti dopo mezzogiorno il pilota diede l'ordine
di levare l'ancora; poi, issata la vela, prese la barra del
timone. In quel momento Striga gli si avvicinò.
— Devo avvertirvi che il battello ha bisogno di fondo —
gli disse.
— È in zavorra — obiettò Serge Ladko. — Due piedi
d'acqua basteranno.
— Ce ne vogliono sette — disse Striga.
— Sette! — si stupì il pilota, che capì improvvisamente
tutto.
Ecco perché la banda del Danubio era sempre sfuggita a
tutte le ricerche! Il battello era abilmente truccato. La parte
fuor d'acqua era finta: il vero battello era sotto; e lì
venivano nascosti i frutti delle rapine. E quel nascondiglio,
Serge Ladko lo sapeva per esperienza, poteva anche
diventare un'inviolabile cella.
— Sette — aveva ripetuto Striga, in risposta
all'esclamazione del pilota.
— D'accordo — disse quest'ultimo senza fare altre
osservazioni. Nei primi momenti dopo la partenza, Striga,
non del tutto tranquillo,
sorvegliò rigorosamente il pilota. Ma il comportamento
di Ladko lo tranquillizzò. Manovrava attentissimo, non
manifestava alcuna cattiva intenzione e dimostrava anzi
che la sua nota abilità era largamente giustificata. Sotto la
sua guida il battello si moveva docilmente tra gli invisibili
banchi di sabbia, seguendo con precisione matematica le
tortuosità dei passaggi.
A poco a poco gli ultimi timori del pirata svanirono. La
navigazione proseguiva senza incidenti; presto avrebbero
raggiunto il mare.
Alle quattro lo avvistarono. Dopo un ultimo gomito del
fiume, cielo e mare si congiunsero all'orizzonte.
Striga disse al pilota:
— Bene. Potete lasciare la barra al nostro timoniere.
— Non ancora — rispose Ladko. — Il difficile deve
ancora venire.
A mano a mano che ci si avvicinava alla foce, il fiume si
allargava. Fissando oltre a quell'orizzonte mobile che a
poco a poco si apriva, Striga teneva lo sguardo
ostinatamente rivolto verso il mare.
A un tratto egli prese il cannocchiale e guardò un
vaporetto di circa quattro o cinquecento tonnellate che
doppiava la punta settentrionale; poi, dopo il breve esame,
diede ordine di issare una bandiera in testa all'albero. Un
segnale identico apparve sul vaporetto che, dalla destra,
cominciò ad avvicinarsi all'estuario.
In quel momento, avendo Ladko spinto la barra tutta a
sinistra, il battello accostò sulla destra e, tagliando
obliquamente la corrente, prese l'abbrivo verso sud-est,
come se volesse accostarsi alla riva destra.
Stupito, Striga guardò il pilota, la cui impassibilità lo
rassicurò. Un ultimo banco di sabbia obbligava
indubbiamente i battelli a seguire quella rotta capricciosa.
Striga non s'ingannava. C'era veramente un banco di
sabbia nel letto del fiume, ma non verso il mare: e proprio
direttamente su quel banco Serge Ladko puntava con mano
ferma.
A un tratto ci fu un formidabile schianto. Il battello
tremò fino alla chiglia. Il colpo fece cadere l'albero,
spezzato di netto alla scassa, e la vela si abbatté sugli
uomini che si trovavano a prua, ricoprendoli con le sue
larghe pieghe. Il battello, irrimediabilmente arenato, rimase
immobile. A bordo, tutti erano stati rovesciati, compreso
Striga, il quale si rialzò pazzo di rabbia.
Il suo primo sguardo fu rivolto al pilota, che non era per
niente emozionato dall'accaduto. Aveva abbandonato il
timone e con le mani nelle tasche del camiciotto
sorvegliava il suo nemico con occhio vigile.
— Canaglia! — urlò Striga e con la rivoltella in mano
corse verso poppa. A tre passi di distanza, sparò.
Serge Ladko si abbassò. Il proiettile gli passò sul capo
senza colpirlo. Si raddrizzò di scatto, con un salto fu
sull'avversario e con il coltello lo colpì al cuore. Ivan Striga
cadde, inerte.
Il dramma si era svolto così fulmineamente, che i cinque
uomini dell'equipaggio, ancora alle prese con la vela, non
avevano avuto il tempo di intervenire. Nel veder cadere il
loro capo, cacciarono un urlo terribile.
Serge Ladko si slanciò verso la parte anteriore della
contro-coperta, e corse verso di loro. Di là dominava il
ponte, verso il quale accorrevano gli uomini in tumulto.
— Indietro! — gridò, armato di due rivoltelle, una
strappata allora a Striga.
Gli uomini si fermarono: non avevano armi e per
procurarsene avrebbero dovuto entrare nella tuga, passare
cioè sotto il fuoco di Ladko.
— Una parola, amici — riprese Ladko, sempre
minaccioso. — Ho undici colpi a disposizione, più di
quanti ne occorrano per uccidervi tutti. Vi avverto che se
non tornate subito a prua, sparerò.
Indeciso, l'equipaggio si consultò. Ladko comprese che
se si fossero gettati tutti su di lui, sarebbe riuscito
certamente a ucciderne alcuni, ma sarebbe stato a sua volta
ucciso dagli altri.
— Attenzione! Conto fino a tre — disse, senza lasciar
loro il tempo di riflettere. — Uno!
Gli uomini non si mossero.
— Due! — disse il pilota.
Il gruppo si agitò: tre uomini mostrarono di voler
combattere; due batterono in ritirata.
— Tre! — disse Ladko, tirando il grilletto.
Un uomo cadde, la spalla attraversata da un proiettile.
Gli altri si affrettarono ad allontanarsi.
Senza abbandonare il suo posto di osservazione, Serge
Ladko lanciò un'occhiata al vapore che aveva risposto al
segnale di Striga. Il bastimento era a meno di un miglio di
distanza. Quando fosse stato a fianco della chiatta e il suo
equipaggio si fosse unito ai pirati, dei quali era
necessariamente più o meno complice, la situazione
sarebbe diventata gravissima.
Lo steamer continuava ad avvicinarsi. Era ad appena tre
gomene dal battello quando virò bruscamente sulla destra e
descrivendo un ampio semicerchio si allontanò verso l'alto
mare. Che cosa significava quella manovra? Si era
spaventato per qualcosa che Ladko non poteva vedere?
Il pilota attese, con il cuore che batteva forte.
Trascorsero alcuni minuti: un altro vapore, con il camino
che vomitava torrenti di fumo, spuntò velocemente dalla
punta meridionale dirigendo verso il battello. A prua Ladko
riuscì a riconoscere una figura amica, quella del suo
passeggero, il signor Jaeger, ossia il poliziotto Dragoch.
Era salvo!
Poco dopo la polizia invadeva il ponte della chiatta il cui
equipaggio si arrese senza opporre resistenza.
Intanto Serge Ladko correva verso la tuga. Aprì le
cabine una dopo l'altra. Una sola porta era chiusa: la
spalancò con una spallata e, smarrito, si fermò sulla soglia.
Natcha gli tendeva le braccia.
CAPITOLO XIX
EPILOGO
IL PROCESSO alla banda del Danubio, nel divampare della
guerra russo-turca, passò inosservato. I briganti, compreso
Titcha che fu catturato a Russe, furono impiccati, senza
attirare l'attenzione del pubblico, interessato a ben altre
tragiche circostanze.
Il dibattimento fornì ai principali interessati la
spiegazione di ciò che era rimasto loro fin allora
incomprensibile. Serge Ladko seppe così in seguito a quale
equivoco era stato imprigionato nel battello al posto di Karl
Dragoch; e che Striga, appreso dai giornali dell'invio di una
commissione inquirente a Szalka, si era introdotto
nell'abitazione del pescatore Ilia Brusch per rispondere alle
domande del commissario di polizia di Gran.
Seppe ugualmente che Natcha, rapita dalla banda del
Danubio, aveva dovuto lottare contro gli attacchi di Striga,
il quale, ritenendo di aver ucciso il suo nemico, non
cessava di ripeterle che era vedova. Una sera, in
particolare, Striga, a sostegno delle sue parole, aveva fatto
vedere alla giovane il ritratto da lei mandato al marito,
dicendole di averlo conquistato dopo un'accanita lotta con
il legittimo proprietario. Ne era seguita una scena violenta,
nel corso della quale Striga aveva osato persino
minacciarla. Era stato allora che Natcha aveva lanciato il
grido udito dal fuggiasco nel cuore della notte.
Ma tutto ciò era storia vecchia. Serge Ladko non
pensava più a quei giorni di pena, dopo che aveva avuto la
felicità di ritrovare la sua cara Natcha.
Poiché il territorio della Bulgaria le era interdetto, la
felice coppia, dopo gli avvenimenti già narrati, si era
stabilita in un primo momento nella città rumena di
Giurgievo. Si trovava là quando, nel maggio dell'anno
seguente, lo zar dichiarò ufficialmente la guerra al sultano.
Non è necessario dire che Serge Ladko fu tra i primi ad
arruolarsi nelle file dell'esercito russo, al quale, per la sua
conoscenza della zona delle operazioni, rese importanti
servigi.
Finita la guerra e liberata la Bulgaria, egli tornò con
Natcha nella casa di Russe, dove riprese il mestiere di
pilota. Entrambi vi abitano ancor oggi, felici e rispettati.
Karl Dragoch è rimasto loro amico. Per molto tempo ha
disceso il Danubio, almeno una volta all'anno, per andare a
Russe. Oggi la ferrovia, la cui rete si è continuamente
sviluppata, gli permette di abbreviare il viaggio. Ma è
sempre con il seguire le sinuosità del fiume che Serge
Ladko, quando il suo lavoro gliene fornisce l'occasione, gli
fa visita a Budapest.
Dei tre maschietti che Natcha gli ha dato e che
attualmente sono uomini fatti, il più giovane, dopo un
severo tirocinio agli ordini di Karl Dragoch, è sulla buona
strada per raggiungere i più alti gradi nell'amministrazione
giudiziaria bulgara.
Il cadetto, degno erede di un campione della Lega
Danubiana, si è dedicato alla piscicoltura. Egli ha però
rinunciato alla lenza e ha perfezionato i metodi di lotta.
Egli deve alle sue peschiere di storioni una celebrità
mondiale e una fortuna che promette di diventare
considerevole.
Il maggiore, invece, succederà al padre, quando giungerà
l'età del riposo per quest'ultimo. Vapori e battelli saranno
allora condotti da lui da Vienna al mare, lungo i passaggi
sinuosi e tra i perfidi banchi di sabbia del grande fiume;
con lui si perpetuerà la razza dei piloti del Danubio.
Ma nonostante la diversa posizione sociale, i cuori dei
tre figli di Serge Ladko battono all'unisono. Condotti dalla
vita lungo strade divergenti, essi si incontrano sempre a
questi crocicchi: la stessa venerazione per il loro padre,
un'eguale tenerezza per la loro madre, un identico amore
per la patria bulgara.
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Il Pilota del Danubio