2013 numero 11 Dicembre Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. sconfiggere le truppe borboniche, primo atto dell’agognata unificazione nazionale. Su quest’isola, lungo il litorale tra Licata e Siracusa, nel luglio del 1943 (lo sbarco degli Alleati in Normandia sarebbe avvenuto undici mesi dopo) prese terra la più grande spedizione militare mai vista prima d’allora, messa insieme per spazzare via il demone nazista, di cui gli scellerati fascisti erano alleati. Una frontiera, la Sicilia, una sorta di Far West d’Europa, dove si annidano le trappole della storia, dove il diritto — sacrosanto in ogni comunità che merita di essere definita civile — è messo perennemente in discussione, se non umiliato e sconfitto. Una frontiera, la Sicilia, e perciò luogo ideale per tagliagole e furfanti, avventurieri e fuorilegge, materia prima di cui si serve la mafia per esercitare il suo nefasto primato. I siciliani si arrabbiano quando, nel parlare della loro regione, puntualmente si finisce per tirare in ballo la mafia. Ma come si fa a non parlare di mafia, di morti ammazzati, se nella sola Palermo, una strada dopo l’altra, una piazza dopo l’altra, è possibile ritagliarsi un fitto itinerario in cui a decine sono stati abbattuti carabinieri, poliziotti, magistrati, politici, giornalisti? È vero, tuttavia, che questa desolante medaglia ha un’altra, certo meno visibile, faccia: quella dei siciliani onesti, dotati di senso dello Stato e di civiltà nei rapporti sociali. E siccome è legge di natura che a ogni male corrisponda un proprio anticorpo, ecco in Sicilia succedersi i vari Salvatore Carnevale e Peppino Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pino Puglisi e Pippo Fava... È fatale, la frontiera, per chi aspira alla legalità e alla giustizia, specie se si è sindacalisti, magistrati, carabinieri o poliziotti. Ed è particolarmente feroce con chi rompe le regole di un imposto quieto vivere (il commerciante Libero Grassi che si ribellò al «pizzo») o dice di no al silenzio. Storia e cronaca La regione esotica resta un mistero Sfuggente a ogni definizione, la Sicilia è sempre stata il Far West d’Europa, spesso cruciale per i destini del Continente e fatale per chi aspira alla legalità e alla giustizia È la più vasta isola del Mediterraneo e la più meridionale delle venti regioni italiane; quasi del tutto priva di tessuto industriale; ha un’economia gracile e assistita, condizionata dal perdurare di un’invasiva criminalità organizzata; ricca di storia e di cultura, continua a dare all’Italia acclamati scrittori. Si potrebbe dire così della Sicilia; sennonché, trattandosi di Sicilia appunto, non c’è definizione che possa pienamente soddisfare, renderne giusta idea. È un mondo a parte, la Sicilia; molti la considerano addirittura un continente, un luogo ancor oggi tutto da scoprire, da decifrare. Perché? Una prima risposta è data dalla geografia che ne ha segnato il destino: l’inizio dell’Europa per gli africani, l’Europa che finisce per scandinavi, britannici, tedeschi... Una frontiera dalla quale passare se si vuole storicamente incidere non soltanto sull’Italia, ma sull’intero Vecchio Continente. Esagerato? Tutt’altro. «Non si sfugge in Sicilia alla storia», ha scritto Denis Mack Smith, e alcuni esempi lo dimostrano. In quest’isola, precisamente su un tratto di costa che va da Messina a Scaletta Zanclea, nell’estate del 1571 prese forma la possente macchina da guerra degli alleati cristiani, che si sarebbe diretta a Patrasso e poi sul mare antistante Lepanto avrebbe mandato a picco la flotta di Mehmet Alì Pascià (se in quella risolutiva battaglia navale le cose fossero andate diversamente, è probabile che tutti noi europei oggi parleremmo e vestiremmo in modo diverso). Su quest’isola, a Marsala, nel maggio del 1860, i volontari di Garibaldi sbarcarono per affrontare e 1 Nessun’altra regione è stata altrettanto indagata, scrutata, raccontata, senza che se ne cavasse mai un veritiero ritratto, un’attendibile sintesi. Nonostante sia di continuo sotto i riflettori della cronaca, la Sicilia resta un arcano. E questo perché dalla sua porta sono entrati, dice Brancati, «gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l’io e il non io, la malinconia e i musaici », ma anche, «i fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio, l’inganno, la buffoneria, il comico». Insomma, ecco perché Empedocle e Pirandello, Bellini e Verga. E per andare ai giorni nostri, ecco perché i tanti scrittori, da Sciascia a Camilleri. Ha la seduzione dei paesi esotici, la Sicilia, con il vantaggio, per gli europei, di non trovarsi nell’altra parte del mondo. Per questo a partire dal XVIII secolo è stata meta irrinunciabile dei viaggiatori che vi hanno trovato -e vi trovano- un ambiente naturale al limite del delirio e una quantità impressionante di tesori d’arte. Il fascino dell’antica Grecia, dalla quale nacque e si sviluppò la filosofia e tutto quanto è alla base del pensiero di noi occidentali, si ritrova più in Sicilia che nella stessa Grecia. Eppure è un errore considerare la terra di Empedocle come parte di quel dominio. Calabria, Puglia, Campania appartennero a quella realtà, non la Sicilia, che, nei fatti, fu un’entità politica, sociale e militare a sé stante. Ne ebbero rispetto, se non paura, i Greci. E fu nel combattere contro Siracusa che si spezzò la potenza di Atene. Ancor oggi, Scilla e Cariddi sono a guardia di questo mondo a parte. Un mondo a parte in cui è possibile effettuare il «viaggio perfetto», secondo il grande saggista Mario Praz, il quale ne spiega il perché valutando la regione dal punto di vista della varietà del paesaggio e della profondità storica che vi si riscontra. Bagnata dal mare africano, la Sicilia offre alla vista paesaggi montuosi dall’aspetto tipicamente nordico, e ovunque sono visibili i resti di un passato che ha fatto di quest’isola un prezioso deposito della storia. Il teatro greco di Siracusa, la Valle dei templi di Agrigento, la Villa del Casale di Piazza Armerina, e Selinunte, Segesta, Mozia; e i monumenti arabonormanni di Palermo, Monreale, Cefalù; e il barocco di Catania, Ragusa, Noto. «Il massimo piacere del viaggiare», ne deduce Praz, assegnando il primato alla Sicilia, «si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo». Per questo tanti giornalisti uccisi (Mauro De Mauro, Mario Francese, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato, Beppe Alfano). In questa spietata frontiera, per reazione, per necessità, è nata e si è sviluppata una letteratura che continua a stupire per diffusione e tenuta. È un fatto che così come gran parte degli scrittori di lingua inglese nel XIX e XX secolo sono stati irlandesi, buona parte della letteratura italiana dello stesso periodo viene da scrittori e poeti siciliani. Insularità, marginalità, frontiera: forse viene da lì la proverbiale capacità dei siciliani di spaccare il capello in quattro, quel pirandelliano ragionare sul filo della ragione, pericolosamente accostandosi alla follia, l’ideale quando si fa letteratura. Gesualdo Bufalino ci ha lasciato un sapido saggio dell’odiato/amato (e potremmo dire coltivato) disagio degli intellettuali suoi conterranei: «Non so se altri luoghi in pari misura, ma la Sicilia -causa ne sia un eccesso o un difetto d’identità- non fa che investigarsi e discorrere permalosamente di sé. Sofistica, interrogativa, superba, ora si presume nazione e ombelico matematico dell’universo; ora si accascia in una sorta di rancoroso stupore, che solo rompono di tanto in tanto fulmini di bellissima intelligenza». Perché la Sicilia è così condizionante per coloro che vi nascono e vi abitano? Perché, come si legge nel Gattopardo, i siciliani sono convinti di essere creature perfette? Perché sono portati a credere a una simile sciocchezza? Cosa hanno di diverso dai lombardi o dai liguri? Cosa li autorizza a ritenersi diversi — perché più intelligenti, a sentir loro, meglio vaccinati contro la violenza della vita — dai toscani o dai piemontesi? La risposta più sensata a queste domande è quella che Vitaliano Brancati ci ha lasciato nel suo diario : «Noi siciliani siamo soggetti ad ammalarci di noi stessi: un male che consiste nell’essere contemporaneamente il febbricitante e la febbre, la cosa che soffre e quella che fa soffrire». Bufalino mostra di essere senz’altro d’accordo con l’autore del Bell’Antonio, quando cesella: «Terra infelice, che ogni mattino a chi ci vive e ne scrive impone lo stesso monotono dubbio: se gli convenga, tappandosi occhi ed orecchie, eleggerla a proprio eroico eliso; o se debba mischiarcisi, inzupparsene, ammalarsene, come innamorato che in un grembo infetto cerca di proposito l’assoluto di un’estasi e d’una morte». Quanta letteratura è sgorgata da questa ambigua fonte, quanto cinema, quanta cronaca. Eppure, resta un mistero, quest’isola. 2 Tutto questo spinge a chiedersi perché tanto ben di Dio non porti a un’economia sana e fiorente. Forse la risposta è nella mal compresa e mal gestita autonomia politica e amministrativa di questa ineffabile regione. Era il 1969 quando Leonardo Sciascia annotava: «Il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghesemafiosa. Questi privilegi, di cui il popolo di fatto non ha mai goduto ma sempre è stato pronto a sollevarsi per difenderli, si sono come cristallizzati in una coscienza giuridica astratta e involuta, alimentando quel gusto per le controversie, quell’acutezza, quella sospettosità e insomma quelle facoltà causidiche e sofistiche che (sembra impossibile) già Cicerone riconosceva ai siciliani». Quarantaquattro anni dopo, sottoscriviamo senza cambiare una virgola. Matteo Collura manuale di base per l'orientamento degli operatori psicogeriatrici per i tipi La Biblioteca by ASPPI. Vive e lavora a Roma. Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (pubblicato da Alpes) è un riuscito tentativo di coniugare il saggio con la finzione. Un componimento che grazie a una scrittura veloce, pur facendo ricorso a concetti che rimandano a Sigmund Freud, a Melanie Klein e a Ignacio Matte Blanco, si concede solo parzialmente al linguaggio complesso della psicoanalisi. Come scrive nella prefazione Fiorangela Oneroso, la scioltezza, la gradevolezza, la felice leggibilità di questo denso saggio sta nel fatto che Turno affronta il tema dello sdoppiamento, o della duplicità, procedendo sempre in modo scientificamente rigoroso ma con un'agile scrittura letteraria. DORIANO FASOLI: Pirandello in treatment: qualche lettore, sull'onda di questo popolare serial sulla psicoanalisi, ha così definito questo suo saggio/finzione. Lo possiamo affermare? MARCELLO TURNO: In un certo qual modo è vero, anzi lo si dice nel libro stesso: se Pirandello in un momento particolare della sua vita si fosse rivolto a uno psicoanalista cosa avrebbe potuto raccontargli? Certamente la sua storia, ma attraverso la finzione letteraria de Il fu Mattia Pascal. X gentile concessione del Corriere della Sera Ma Pirandello e Turno come si sono incontrati? Alcuni decenni fa… I Sei personaggi in cerca d'autore, per intenderci. Una rivelazione, una violazione della logica teatrale e del pensiero razionale. Un sogno, una pura espressione dell'inconscio, su cui Matte Blanco molto ha scritto. Ma quello fu un incontro fugace e perturbante. Poi, a metà degli anni Ottanta mi occupai di una messa in scena per teatrodanza sulla vita di Pirandello. Fu in quella circostanza che, seguendo le sue tracce ancora visibili, incontrai persone che avevano conosciuto sia lui che sua moglie, potei acquisire particolari sulla loro vita, lessi molte opere, ma, soprattutto notizie sulla sua vita. E fu così che capii che Il fu Mattia Pascal era il romanzo più autobiografico della sua vita. E nella veste di Mattia Pascal, Pirandello è andato in analisi, svelando i suoi desideri più profondi e allo stesso tempo irrealizzabili. Il mancato suicidio di Luigi Pirandello Conversazione con Marcello Turno di Doriano Fasoli Marcello Turno è medico psichiatra e psicoanalista, membro della International Psychoanalitic Association e della European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Sector. Insegna nel corso di laurea triennale e della laurea magistrale di Psicologia del Dipartimento di Scienze Umane della Lumsa di Roma. Autore di numerosi saggi e curatele, ha recentemente pubblicato Una notte senza luna, Insomma una buona risorsa per uno psicoanalista. Cosa è venuto fuori? È venuto fuori che, a causa del fallimento delle sue risorse economiche e con la sopraggiunta follia della moglie, Pirandello ha pensato di togliersi di 3 torno. Non lo fa direttamente, ma delega Mattia Pascal a farlo in vece sua. VOCABOLI ARCAICI Con l'aiuto di Santuzzo che, malgrado il minor tempo da lui passato in Sicilia, ha acquisito un bel fiuto per i nostri vocaboli desueti, arcaici o usati dai ceti popolari, siamo alla terza puntata (e scusate qualche ripetizione). In ordine più o meno alfabetico ricordiamo: AREMI (è il seme d'oro nelle carte siciliane: per gli antichi il settebello non era "sett'oru" ma "setti d'aremi"; non siamo riusciti a scovarne l'etimologia); AFFUNCIARI: mettere il muso ("a funcia" oggi si dice "mussu"); ALLEGGIU: Adagio AMMUCCARI: può significare mettere in bocca qualcosa di buono "ammuccamu cumpà" per dire "godiamoci questo bel boccone, compare" specie se il boccone è un bel bocconcino di donna; ma può significare anche "abboccare" come il pesce; si dice per i creduloni o per chi è ABBUNAZZATU: (sempliciotto); ADDURCARI: stava per rabbonire, attenuare, calmare; AGGRAMPARI: più efficace dell'attuale "acchiappari" visto che "grampa" sta per artiglio e quindi significa "artigliare"; ARIUTUNNU ("aere rotundo") sta per cielo totalmente coperto (niuru tunnu tunnu = nero tutt'intorno); ARRUNCHIARI: senza pretendere un'esatta corrispondenza sta per raccattare ammucchiando; il termine attuale, più tenue è ARRICOGGHIRI (raccogliere); citiamo il vecchio termine anche perché, specie al mio paese, (Raffadali-Ag) produttore di fave e rinomato per il suo "maccu" (la squisita minestra di purè di fave secche, e verdure varie) ARRUNCHIA-MACCU (operazione problematica!) sta per "pasticcione"; AZZIZZARI: ora "aggiustari" ma è di più: è sistemare bene una cosa; tenuto presente che AZIZ, vuol dire splendente, azzizzari è "rendere splendente." AZIZ è un bellissimo vocabolo arabo che ha il suo corrispondente nell'ebraico ZIZIT (lo splendore), e si ritrova in molti termini siciliani: ricordo sopratutto la Zisa (lo splendido "palazzo di delizie" arabo normanno di Palermo che dà il nome a tutto il quartiere) e i "cabbasisi" (quelli che il Dottor Pasquano non vuole rotti dal commissario Montalbano) che ormai credo tutti sappiano cosa sono, e che mutuano il loro nome da hab-aziz (un'infiorescenza risplendente che porta in basso due bacche gemelle:inteso?) Come si comporta Pascal in seduta? È puntuale? Collabora? È puntuale agli incontri con lo psicoanalista ed è molto sincero, non nasconde nulla. Così è possibile seguirlo nell'evoluzione del suo dramma personale e capire come affronta questa tragedia, fino a scoprire i meccanismi inconsci che muovono tutta la vicenda. Quindi possiamo dire che Pirandello/Pascal esce guarito dal trattamento, o per lo meno sembra che abbia risolto i suoi conflitti. In un certo senso, sì. Mattia Pascal è un'enorme fantasia che Pirandello mette in atto, un vero alter ego. Una fantasia densa di tutti i suoi desideri irrealizzabili. Alla fine riesce a recuperare il senso di realtà e il suo vero sé. Scrivere il romanzo lo salva? Direi proprio di sì. Del resto Freud lo diceva che gli scrittori hanno molto da insegnare agli psicoanalisti. Ma tutte le espressioni artistiche sono saldate con pezzi di inconscio. Un loro studio approfondito potrebbe rivelare molto sul modo di pensare degli artisti. Ad esempio? Mi viene in mente il Tondo Doni di Michelangelo, oggetto di studio di molti psicoanalisti, dove alle spalle della Sacra Famiglia si intravedono figure maschili nude, una sorta di lapsus di Michelangelo che riporta alla sua omosessualità. Qualche altro personaggio famoso ha preso il posto di Pirandello in analisi? Sì, da subito. Potremmo sapere chi è? Scherza? Lo sa che siamo obbligati a tutelare l'identità dei nostri pazienti. Comunque chiederò se posso fare uno strappo. Se in un tormentato frangente della sua vita Luigi Pirandello fosse ricorso ad uno psicoanalista, quale tra le sue tante storie avrebbe potuto narrargli? E perché? Sicuramente Il fu Mattia Pascal, romanzo scritto nel periodo più disperato della sua esistenza e che, nell'immaginario incontro con lo psicoanalista, diventa la chiave per accedere al mondo interiore dell'autore. 4 BATTARIA (oggi "rumuri o rumurata") deriva il suo nome dal fracasso che fa il fuoco delle batterie di cannoni; CATUNIARI: (concionare come Catone) CATUNIU (borbottio, "mugugno"); CAJORDA (dall'arabo?) stava per "buttana" ma è molto più esotico; CACINARU (oggi "pitruni") grosso masso; CIARAVEDRU (in passato stava per (agniddruzzu - agnellino) CURRIOTTU: contenitore fatto con doghe di legno per le sarde salate; CUPPULUNI: cuffia di lana o di panno per i bambini; FISCINUSU: (zozzone) oggi "lordu" o "ngrasciatu" (come il ligure "vunciun"); GAGLIUNI (mozzo di bordo=vedi l'affinità col napoletano guaglione-ragazzo); GINISI: carbonella; più correttamente è il carbone di gusci di mandorle, pregiato perché produce pochissima anidride carbonica e si usava per il riscaldamento domestico nelle "brascere" (bracieri) e nel prete "scaffalettu" (dal francesce "chauffe lit" scaldaletto) e nel PANAREDDRU (panierino) scaldino metallico per le mani a forma di paniere produttore di scottature specie sui geloni; GREVIU: oggi 'ntipaticu (greve); GRAMUSCIU (cucciolo, specie di gatto, che a sua volta viene chiamato "musciu" o “musciddru"); MARGAGLIUNI: ora Zappuni: zappa larga e piatta usata con gran fatica dai vecchi contadini: Leonardo Sciascia con amara ironia e molta compassione parlava ne "Le parrocchie dei Regalpetra" di contadini abbrutiti da un uso smodato dello zappone); MATTULA: oggi cuttuni, cotone idrofilo; MISCIASCIU: rammollito; MUCCATURI: (dal francese muchoir: fazzoletto); il termine è usato pari pari nel dialetto calabrese; MMALLITTU: crasi di "malidittu" NCIURPU: questo è veramente di difficilissima etimologia: sta per chi ha la testa per aria; NUTRICU: (da nutrire: equivale all'altro termine antico "ADDREVU”: da allevare: il primo sta più neonato, l'altro per bambino); PILACCHIU: parassita del grano (nero e segnato a metà; viene chiamato scherzosamente così il cravattino nero a farfalla); PUMUDAMURI: Pumadoru (pomodoro) (bello quel "pomo d'amore"); PUDDRU: puledro - Puddriddru = puledrino (specie dell'asino); si abbrevia così scherzosamente il nome di Leopoldo; PRIVENNA: dal latino Praebenda = ciò che si deve dare, ciò che si percepisce; si dice della quantità di nutrimento che spetta alle bestie da soma, e stava in genere per Paga; SANZIZZA: (più borghesemente Sosizza) salsiccia; SPLAPITU: (la usa molto Camilleri) slavato pallido; TANNURA(oggi Cufilaru) dall'orientale TANDUR stava per il fornello a legna o a carbone, sia in casa che all'aperto; più specificamente stava per l'attuale Furnacella, una grossa latta da olio aperta sopra e con una apertura a forma d'arco in basso per introdurvi il carbone (una specie di fornello trasportabile); TRANTI: (tiranti) sta per bretelle; TRABELI: tovaglia da tavolo (anche qui chissà da dove viene!); e, per finire (mi piace molto!): VINCIUDDRU: (prepotente, che vuole vincere ad ogni costo). Spero comunque che questo "finire" non sia "definitivo" e che ci sia una prossima volta. Enzo Motta La differenza tra ricchi e poveri nella nostra società, in qualche modo si rispecchia anche nelle librerie. Così il libro della piccola e quindi povera casa editrice, anche se più importante di tanti libri di grosse case editrici, è destinato a nascere nell'ombra e a morire nell'ombra. Il direttore della libreria Borri Book di Roma Termini,forse impietosito per il destino dei libri poveri meritevoli, ha avuto il coraggio di mettere in vetrina, accanto ai volumi su Papa Francesco, un libro religioso "povero" ma controcorrente che non cito, giacché tv e carta stampata di norma seguono la regola dei librai. Dice cose nuove, forse discutibilissime ma nuove, originali. Dei primi si stanno vendendo milioni di copie, del secondo si venderà qualche copia in più nella libreria del direttore pietoso e coraggioso, ma il suo destino è segnato. Perché non ha citato il libro della piccola casa editrice che stava accanto ai libri di successo su Papa Francesco delle grandi case editrici? Che tipo di censura le è scattata, per non indicare il nome dell'autore e il titolo? Per quel che vale questa pagina, una citazione avrebbe potuto aiutare la segnalazione di quel libro, e la vendita di qualche copia. 5 Se denunciamo le storture di un sistema e poi non aiutiamo a correggerle, ci limitiamo a sfogare i nostri sentimenti senza che nulla cambi. Da parte mia non ho il minimo dubbio che le piccole case editrici spesso pubblicano libri più interessanti e significativi di quelli delle grandi case editrici. E questo perché le grandi case editrici, e di conseguenza anche i librai, per stare in piedi devono seguire le leggi del mercato dove ciò che conta è la notorietà dell'autore, di solito veicolato dalla televisione, o il titolo ammiccante capace di sollecitare i bassifondi della nostra anima, più di quanto non conti l'originalità del contenuto o la forza delle idee. Oggi il mercato è vissuto da tutti, e in modo del tutto acritico, come se fosse una legge di natura. Ed è questa la ragione per cui Marx ebbe a scrivere: «Per il capitalismo, attento solo al denaro, un mercato di libri non differisce da un mercato di bestiame». Se non per il fatto - aggiungo io - che il libro, rispetto al bestiame, è una merce più povera. Ma chi, come lei, al valore mercantile preferisce il valore delle idee, giustamente ritiene che il mercato dei libri conservi una sua peculiarità, della quale i librai dovrebbero tener conto, evitando di assimilarsi ai commessi del supermercato e di perdere così di vista ciò che essi veicolano con la loro "merce". Cose facili e nobili a dirsi, ma difficili da sostenersi, in un'economia di mercato assetata più di novità che di nuove idee. Questa è la ragione per cui oggi, nella nostra società che ha velocizzato il tempo, la vita di un libro, anche di successo, non oltrepassa i tre mesi, dopo di che il libro incomincia a pesare sugli affitti dei magazzini che accumulano l'invenduto in attesa del macero. E al macero, insieme ai libri, se ne vanno anche le idee, che oggi non sembra siano le cose più ricercate, se è vero che solo nell'anno appena trascorso il mercato dei libri ha registrato un calo del 30%. In una situazione del genere che cosa possiamo obbiettare alle case editrici e di conseguenza alle librerie che riempiono le loro vetrine con una serie di copie tutte uguali dell'ultimo best-seller (espressione che serve in genere a segnalare quali sono i peggiori libri in circolazione), se il problema è di stare sul mercato, fuori dal quale non si diffondono neanche le idee? Così la cultura, già collassata nella scuola, collassa anche nell'editoria e, per colpa del degrado progressivo della nostra scuola che non ha incuriosito né invogliato i ragazzi a leggere, oggi sono considerati "lettori forti" quelli che leggono almeno quattro libri all'anno. Ma così la cultura degrada, e il suo degrado determina due conseguenze pericolose: la prima è che un popolo incolto, e per giunta con un linguaggio afasico e stentato a cui si aggiunge un analfabetismo di ritorno, con qualche maggiore difficoltà può uscire dalla crisi che ci attanaglia. La seconda è che, siccome "guardare" è più facile che "leggere", si consegna la cultura per intero alla televisione e ai personaggi che vi compaiono, capaci di suggestionare e determinare le scelte non solo politiche, ma anche gli stili di vita appresi per imitazione, senza che un minimo di vaglio critico ci trattenga dal rinunciare a essere noi stessi con le nostre idee. Caronda, mitico legislatore di Catania del VI secolo a.C., disse: «La libertà viene da un libro». Per questo il calo dei lettori getta un'ombra pericolosa sul nostro futuro. AMATE I LIBRI: Chi non legge non sa niente. Umberto Galimberti per gentile concessione di Repubblica Donna « Caronda, Antichissimo legislatore d'Italia istituiva in questa sua città nel settimo secolo avanti Cristo il primo celebrato ginnasio condotto da uomini liberi a spese dello Stato poche leggi dava e molte norme di pubblico e privato costume alla Sicilia e alla Magna Grecia e santificandole con l'esempio meritava gloria immortale qual fondatore austerissimo di civiltà. » (Epigrafe di Mario Rapisardi all'ingresso dell'Anfiteatro romano di Catania.) Χαρώνδας Catania, VI secolo a.C. 6 Tra Storia, Turismo e Commedia Quella gita galeotta che più galeotta non poteva essere. Più avvocati, medici, notai, magistrati e meno ingegneri, biologi, chimici. Il liceo classico fu attivato alla fine degli anni 40’ nato dalla collaborazione tra l'avvocato di Bivona Edmondo Trizzino, il ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella e l'avvocato bresciano Ludovico Montini, fratello di Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. Il liceo-ginnasio statale di Bivona, intitolato a Luigi Pirandello, ottenne l'autonomia il 18 marzo 1953; alla fine degli anni 70’ fu istituito l'istituto tecnico commerciale. Negli anni 90’ si aggiunsero nuovi corsi liceali tra cui il bio-socio-sanitario, unico in Sicilia, sostituito nel 2011 dal nuovo indirizzo socio-sanitario articolato tra "ottico" e "odontotecnico”. L 'istituto di istruzione secondaria superiore "Lorenzo Panepinto", invece, presenta gli indirizzi di istruzione tecnica (settore economico e tecnologico) e professionale (settore dei servizi per l'enogastronomia e l'ospitalità alberghiera e settore industria e artigianato, con sede nel comune limitrofo di Cianciana. Bivona è sede decentrata dell'Università degli Studi di Palermo: per i corsi di laurea in scienze forestali e ambientali della facoltà di agraria lo è stata dal 1991 al 2001;ospita tuttora il corso di laurea in tecniche erboristiche della facoltà di farmacia, sebbene dall'anno accademico 2004/2005 siano state chiuse le immatricolazioni, e pertanto a breve non sarà più attivo. Il corso, che dipende logisticamente dal consorzio universitario della provincia di Agrigento, si tiene in una struttura sita nel comune limitrofo di Santo Stefano Quisquina, priva di strutture di sostegno. A febbraio 2013 si sono aperte le celebrazioni per il 150° del Regio Ginnasio di Bivona, il Liceo "Luigi Pirandello”. Per celebrarlo degnamente si vuole fare una bella gita. Il preside di ruolo professor Salemi, si dimette per incompatibilità ambientale e chiede il trasferimento in un’ altra sede. Aveva tutti i colleghi contro sia per il modo autoritario con cui conduceva la scuola, sia per metodi troppo restrittivi nella valutazione degli studenti in sede di scrutinio: fosse stato per lui ne avrebbe bocciato più della metà. Il Provveditore agli Studi di Agrigento, in attesa del concorso, nomina preside facente funzione il professor Campo, professore di scienze naturali. Campo è un esempio di democraticità. Dimostra una grande disponibilità nel dare i voti. Il 6 politico non lo nega a nessuno. Se uno sa un pochino gli dà 7. Se sa un pochino di più 8. Se sa quasi tutto 9. Se sa tutto 10. di Lorenzo Turturici da Caltabellottà, già notaio in Saluzzo Bivona conta attualmente 3881 abitanti, meno di quanto ne contasse nel 1951 (oltre 5.500), poco più del 1861, anno dell’ Unità d’ Italia ( 3.500), a causa della emigrazione di massa del dopo guerra. Dista circa 60 km dal capoluogo di provincia Agrigento e circa 90 da Palermo. Eppure è uno dei centri scolastici più importanti della Sicilia. Ma la spiegazione c’è. La comunità ebraica prima e la Compagnia di Gesù con la loro presenza assicurano a Bivona un processo continuo di crescita culturale già a partire dal XVI secolo. Nel 1767 i gesuiti furono espulsi dalla Sicilia. La presenza di ben quattro conventi fu la fortuna di questo paese. Così il sistema scolastico, qualche anno dopo, fu gestito direttamente dal governo borbonico, che istituì una scuola in ciascuno dei conventi dell' Isola. La spiegazione potrebbe essere anche un’ altra. Dal 1860 al 1927 Bivona fu uno dei circondari in cui era divisa la provincia italiana di Girgenti( Girgenti, Bivona e Sciacca) che comprendeva tredici comuni, raggruppati in cinque mandamenti, e ricalcava il territorio dell' omonimo e precedente distretto borbonico costituito nel 1812 nel regno delle Due Sicilie, quando in Sicilia venne abolita la feudalità. Distretto che visse una fase di decadenza negli anni sessanta dell'Ottocento, gli anni del periodo post unitario, seguita da una parziale ricrescita nel decennio successivo. Fu abolito nel 1927, anno in cui il capoluogo di provincia fu ribattezzato Agrigento. Capoluogo del circondario era il comune di Bivona già a capo del distretto grazie alla costituzione siciliana del 1812, che ne valorizzò le antiche origini, la favorevole posizione geografica nell'ambito della circoscrizione, i titoli ricevuti. Bivona fu la prima città ducale di Sicilia e la sua tradizione scolastica fu favorita dall’ esistenza del collegio dei Gesuiti. Sotto i Savoia a Bivona fu istituito un ginnasio, con decreto di Garibaldi, nel 1860. L 'apertura si ebbe però solo il 9 febbraio 1863, risultando forse il più antico dell’ isola. Nel periodo fascista l' istituto fu sostituito da un istituto tecnico, intitolato a Francesco Crispi nativo della vicina Ribera, in cui veniva insegnato anche il latino. (In Sicilia gli studi classici sono privilegiati rispetto a quelli scientifici.) 7 Qualche giorno dopo Pasqua, verso la fine della lezione, annuncia agli allievi che intende fare una bella gita per festeggiare i 150 anni di esistenza della scuola e vuole che decidano loro dove andare. Gli studenti si riuniscono varie volte, in un’ aula appositamente concessa dal preside. In Sicilia la cultura si taglia a fette, in quasi tutte le città c’ è un teatro greco o romano, un sito archeologico, una torre, un castello arabo o normanno. Chi vuole andare a Selinunte, Segesta ed Erice. Chi alla Scala dei Turchi per poi visitare la casa natale di Pirandello a Porto Empedocle e la Valle dei Templi, ma gli altri obbiettano che questi ultimi posti sono così vicini che non c’è bisogno di una gita di più giorni per visitarli. Altri sono per Ragusa, capitale del barocco. Altri ancora per Siracusa o Piazza Armerina con il suo Casale. Vista l’ impossibilità di trovare un accordo vanno dal professor Campo dicendo che scelga lui perché loro non trovano un luogo condiviso dove andare. Sottoposta la questione al collegio dei professori, questi ultimi non ci provano nemmeno, dicendo che il preside era lui e che ci pensasse lui. Su una cosa sola erano d’accordo: a quella gita nessuno voleva mancare. Campo, senza neppure profferir verbo, prepara una circolare e la fa distribuire dal bidello ad alunni e professori. La gita si farà da lunedì 13 a sabato 18 maggio, con partenza in pullman alle 8, 30 del mattino davanti alla scuola. La prima ad arrivare è la professoressa Camilleri, insegnante di latino e greco accompagnata dal marito in macchina e prima di partire viene nominata capo gita. Segue il professor Alaimo, professore di storia e filosofia accompagnato dalla moglie a piedi. Poi la professoressa Lombardo, professoressa di matematica e fisica, il professor Catania, che insegna italiano, Nicolosi, professore di Storia dell’ Arte. E poi quella di scienze, Padre Gesualdo che insegna religione e infine la professoressa Ficarotta di Corleone, insegnante di educazione fisica. Anche gli allievi sono tutti presenti. Partenza per Palermo via Santo Stefano Quisquina. Fermate non ne sono previste: tanto in meno di un’ ora si arriva. Il preside aveva prenotato all’ Hotel delle Palme in via Roma, a due passi da via Cavour, teatro Massimo, via Ruggero Settimo: il cuore pulsante di Palermo. Dopo che il portinaio ha assegnato le camere e dopo aver scaricato le valige, essersi accomodati sui divani della hall ed aver commentato il viaggio, entrano nel ristorante per il pranzo. Intanto per tutto il viaggio sul pullman e durante il pranzo la professoressa Camilleri ed il professor Alaimo vengono notati seduti stretti stretti, fianco a fianco. Nel pranzo non eccedono dovendo nel pomeriggio iniziare le visite. Avendo tutto il pomeriggio a disposizione, su indicazione della capo gita, si fanno portare col pullman a Monreale. Visita al Duomo e all’ annesso chiostro a pianta quadrata addossato al lato meridionale del duomo. Gli archi ogivali poggiati su colonne binate e aperte sul giardino del convento. Perfetta corrispondenza fra i quattro lati, ciascuno con 26 archi in sequenza. L'equilibrio dello spazio viene ribadito e impreziosito dal chiostrino della fontana, anch'esso quadrato, che sporge verso l'interno del chiostro nell'angolo Sud-Occidentale. Luogo ideale, secondo i due, per tentare ciò che avevano architettato prima della partenza: la professoressa Camilleri appoggiata ad colonna si bacia con il professor Alaimo. Totò dice alla sua vicina Giusy “ Ma non sono tutti e due sposati?”. “ E che c’è di male, risponde Giusy, anch’io sono fidanzata, ma se capita, mi bacio ben volentieri con un altro”. Salvatore capisce la provocazione ma, per il momento, non abbocca. Ritornati a Palermo, dopo una passeggiata per le vie della città, vanno in un ristorante di Sferracavallo per la cena. Sul lungo mare vi sono i venditori di polipo fumante e mangiano il polipo di scoglio bollito che serve da antipasto. Al ristorante passano subito dal primo: spaghetti al nero di seppia, agli involtini di pesce spada, sarde a beccafico con contorno di caponata, cannoli o cassata. Sul lungo mare al ritorno Giusy salta addosso a Totò e questa volta Totò non può fare a meno di accontentarla. Le occasioni arrivano una volta sola. Palermo è talmente bella che c’ è l’ imbarazzo della scelta di cosa visitare. Il 14 maggio sera al teatro Massimo c’è una serata in omaggio a Giuseppe Verdi e vanno a teatro, quasi tutti. La professoressa di matematica e fisica Antonietta Lombardo, approfittando del buio, si bacia con l’allievo Nino, così si scoprono gli altarini. Antonietta è giovane. E’ al secondo anno di insegnamento, tra lei e Nino non vi è molta differenza di età. Chissà se un giorno non possano sbocciare fiori di arancio. Il mercoledì visitano la cattedrale ed il vicino Palazzo dei Normanni dove vi sono gli uffici della Regione. Lì davanti vi sono alcuni operai senza lavoro che protestano contro gli alti stipendi dei dipendenti regionali. 8 Dentro il palazzo visitano la Cappella Palatina in tutto il suo splendore ed il Palazzo Reale. Il giovedì lo passano a girare la città di Palermo da una parte all’ altra: villa Giulia, il giardino botanico, il Foro Italico, il porto, i cantieri navali e il vicino carcere dell’ Ucciardone, davanti al quale c’ è Pannella che protesta contro il sovraffollamento delle carceri. Il pomeriggio al mercato della Vucciria e alla vicina chiesa di San Domenico. La sera volevano andare a mangiare allo storico ristorante Shangai, sulla piazzetta della Vucciria, ma purtroppo non lo trovano più: un paio di anni fa ha chiuso ed ora è stato smantellato. Era qualcosa di davvero unico: un appartamento, forse due, da cui erano stati ricavati una sala e la cucina e soprattutto la terrazzina affacciata su una delle due piazze della Vucciria. Da lassù lo spettacolo era incredibile: si sentivano le abbanniate dei venditori. Poi scendono verso piazza Marina. In Cina il tempo delle mele arriva tardi: la bella cinesina Annachi, che studia al liceo di Bivona, prende una cotta per il suo compagno di scuola Angelino, lo trascina su un’ aiuola e lo bacia. Angelino rimane sorpreso. Chissà come se la prenderà la sua fidanzata al ritorno, se mai lo verrà a sapere. E siamo arrivati al venerdì. Mancavano ancora molte cose, ma non tutto in pochi giorni si può visitare di Palermo. Fanno a piedi il tratto che divide il teatro Massimo da Piazza Politeama attraverso la elegantissima via Ruggero Settimo dove qualche ragazza si compra la borsetta. Poi la facciata del Politeama con i suoi cavalli, viale della Libertà, i giardini inglesi. La sera tutti a cena in un ristorante di via Principe di Belmonte. Ce n’è per tutti i gusti: cucina tipica siciliana. Antipasto di arancinette, pasta al sugo e pomodorini di Pachino, triglie fritte, una bella cassata alla siciliana con la scritta della scuola e l’ anno 2013. La professoressa Camilleri, per farsi perdonare le scappatelle offre un brindisi: champagne e passito di Pantelleria ed il professor Alaimo, suo complice, l’aiuta a pagare. Il sabato il malinconico ritorno. Non rimane che il ricordo. In fondo le gite scolastiche servono per questo. La mente sgombera, senza dover prepararsi per l’ interrogazione dell’ indomani, senza dover preparare la lezione da spiegare. Nelle gite scolastiche sbocciano fiori di arancio, fior di loto ( simbolo della bellezza) e rose rosa. Caltabellotta: I segni di Santa Marta All’interno della Cattedrale di Caltabellotta, è collocata, nella Cappella della “Madonna della Catena” del Ferraro, la statua della Santa con ai piedi un cane (Mars Grabovius era un Dio romano che soleva trasformarsi in cane o in quercia per dare dei responsi). Dal mito dell’Oracolo di Delfi agli odierni oroscopi, l’usanza di chiedere responsi il giorno di Santa Marta, è arrivata fino a giorni nostri, grazie alla grande tradizione del popolo caltabellottese. La lettura dei segni è effettuata ogni martedì. Le interrogazioni sono tante. Chi vuole conoscere la fertilità di una donna, come andrà la giornata, o che fine abbia fatto un parente, o se avremo dei guadagni o no, basta affacciarsi la mattina e vedere se passa qualche chioccia con la propria covata, oppure una donna con prole, o dei ragazzi e così via. Nel periodo delle due grandi guerre, bastava affacciarsi sul costone della rupe “Gogala” e porre una domanda diretta al proprio congiunto e se si sentiva la risposta. Il parente lontano era vivo, o dava l’annuncio del suo imminente arrivo. Oggi vi sono i telefoni cellulari e quant’altro, ma in ogni modo tante persone guardano ancora ai segni premonitori, riconoscendo in questi molta veridicità. Lorenzo Turturici. Lorenzo Turturici 9 Foto del nostro Filippo Giusto a Bamberga in Baviera La vena poetica di Francesco Sisca non si inaridisce col passare degli anni, ma si affina, si interiorizza. Nell'ultima silloge,”Sfogliando di sera….” che ha dedicato a noi, a testimonianza della sua amicizia, prevalgono i sentimenti familiari, le nostalgie, l'amore per la sua Calabria, il commosso ricordo del fratello Antonio (nostro decano) da poco scomparso, e, soprattutto, il senso religioso della vita e il dialogo con Dio. Lo stile, come sempre, è semplice, atto a toccare con immediatezza la sensibilità del lettore. Presentiamo qui una poesia ispiratagli dal ritorno nella natia Filadelfia, dopo più di quaranta anni di insegnamento. Enzo Motta dalla raccolta Sfogliando di sera… Di ritorno al mio paese, Filadelfia Nella terra dove nacqui Aspetto il giorno fatale serenamente. Con me una donna di cuore Premurosa ed affettuosa Riesce a lenire i travagli Della tarda età. Per le vie del paese, oh! Quante strette di mano salutano il mio ritorno! Quanti vecchi amici mi ridestano gli anni felici della mia fanciullezza. Il Municipio di Bamberga Le campane di cara memoria Suonano come allora ed io rivedo mia mamma immobile a pregare sommessamente: “Gesù mio sia fatta la Tua volontà”. Purtroppo mi manca una voce cara ed io invano origlio nel chiuso della porta accanto. Mio fratello Antonio non c’è più a rimirar i nostri panorami divini, ad ascoltare il sinfonico canto dei voli al dolce sole estivo. Interno del Duomo di Bamberga Il cavaliere La statua è stata scolpita probabilmente dopo il 1225 e prima del 1237 (anno della consacrazione della cattedrale). Ora sulla terrazza solo e afflitto corro e vado lontano per fermare il verde del nostro tempo felice. 10 Andrea Camilleri Ogni mattina qui è la stessa storia: mi trascino giù aggiunge alla sua collana "storica" una perla che mi riguarda personalmente. "La Banda Sacco" è un western siciliano vero che si svolge nel territorio di Raffadali (il mio paese) a cavallo tra il 1800 e il 1900. dal letto, sciolgo la mia lunga treccia scura e chiudo le tende della finestra di casa…. Poi vado in cucina e fisso il pavimento per un paio di minuti, sobbalzando ad ogni rumore che proviene dall’esterno e pregando che non sia mai abbastanza vicino. La mia domanda è sempre la stessa; ma anziché immaginarne la risposta, fantastico su come potrebbe essere la mia vita se quella domanda non dovesse esserci affatto. Se fossi ricca, penso, avrei così tante case da non dovere essere costretta a vivere nella stessa per più di un anno. Mi piacerebbe, inoltre, imparare a guidare l’automobile. Qui non ne ho mai avuto l’opportunità e anche se ho solo sedici anni, so che non potrò mai averla. Mi alzo dalla sedia perché, come direbbe mio padre, pensare troppo può farmi male. Così preparo una tazza di tè, mentre aspetto con ansia che i miei fratelli tornino a casa. Poi un altro rumore prorompe fuori della finestra e la tazza bollente che tenevo in mano si frantuma per terra, bagnando tutto il tappeto. “Ottimo” penso. Ma almeno ho trovato qualcosa da fare e per un attimo riesco persino a dimenticare dove mi trovo. Raccolgo i pezzi e provo ad asciugare il tappeto, ma risulta un’impresa levare la macchia che si è creata. Quando non devo occuparmi della casa e dei miei fratelli, adoro studiare i libri di storia di mio padre. Anche se non mi è permesso leggerli, ogni mattina ne approfitto, essendo sola in casa, per prenderne uno dallo scaffale e sfogliarlo con cura. La storia dell’antica Grecia è la mia preferita: più e più volte ho letto di filosofi e astronomi greci che con i loro studi hanno posto le basi per le credenze moderne. Ma la storia più affascinante è quella di Ipazia d’Alessandria, una donna che non ha mai temuto di mettere a confronto le sue idee con quelle dei grandi uomini del tempo: e con che coraggio camminava a testa alta per la città, nonostante conoscesse i giudizi della gente! Ed eccola di nuovo qui: la domanda che mi bombarda il cervello, senza lasciarmi in pace. Quella stupida domanda che mi fa venire voglia di urlare, di rompere qualcosa o addirittura di uscire di casa. Ma che dico? Sarebbe solo una follia. Così chiudo il libro con un gesto deciso e lo poso nuovamente sullo scaffale a cui appartiene. Poi mi guardo allo specchio: una ciocca di capelli fuoriesce dal mio velo e so che se mia madre fosse qui mi direbbe, a differenza di mio padre, di lasciarla stare. Ma faccio ciò che è giusto per mio padre e la rimetto dentro; d’altronde se anche mia madre gli E' la storia unica di un gruppo familiare di galantuomini che non si vogliono piegare alla mafia, e sostenuti dagli onesti borghesi di Raffadali la combattono con i suoi stessi metodi, il che li costringe a darsi alla macchia, incorrendo nelle ire di Cesare Mori, il "Prefetto di Ferro", che li arresta e li fa condannare a gravi pene, detenendo nel contempo per periodi più o meno lunghi i loro sostenitori più autorevoli. Una storia che ha coinvolto miei parenti e amici di famiglia e che mi è stata raccontata, quando ero ragazzo, da Vincenzo Sacco che, uscito dal carcere prima degli altri fratelli veniva a fare "rimunna" (potatura degli alberi) a Modaccamo, la campagna del mio nonno materno che era uno dei loro sostenitori (l'unico che non era stato arrestato perché Console della Milizia Fascista oltreché Colonnello dei Bersaglieri e invalido di guerra). Camilleri ha raccolto la testimonianza di un figlio di Gerolamo Sacco, (che gli ha chiesto di risvegliare questa storia), e ha riscritto la vicenda da par suo (anche se la ricostruzione "politica" è forse un po’ troppo sottolineata) facendone un piccolo prezioso capolavoro che rende un po’ di giustizia alla storia del mio paese. Enzo Motta 11 avesse dato ascolto, forse sarebbe ancora qui e forse non sarebbe stata lapidata in pubblico. Un altro rumore violento mi riporta al presente, e questa volta so che è più vicino. Poi sento qualcuno buttare giù la porta di ingresso e le mie ginocchia iniziano a farsi sempre più deboli fino a perdere completamente l’abilità di reggermi in piedi. Crollo per terra stanca e arresa alla realtà in cui vivo. Prima di scomparire per sempre, mi torna in mente quella domanda con cui mi sveglio al mattino e con cui sono costretta ad addormentarmi la sera, e penso: quanto diversa sarebbe la mia vita se non fosse toccato proprio a me di nascere qui, in Iran ? fa fotografare durante la processione insieme ai componenti della confraternita e accanto al simulacro del Santo, indossando un vestito poco adatto alla circostanza e una maschera di “Barbie”. Il decoro religioso raggiunge il suo limite nel momento in cui la giovane e avvenente soubrette decide (evidentemente con la disponibilità e l’aiuto dei confrati) di salire sulla “vara” (in Sicilia il cosiddetto “carro” usato per portare in processione il simulacro del santo), e seduta ai piedi di san Calogero, a gambe incrociate, abbraccia il santo della sua terra natia, mentre la banda musicale intona un’allegra canzonetta. “E’ stata un’esperienza adrenalinica salire sulla vara di San Calogero, documenterò tutto con foto e video – annuncia Clizia Incorvaia al Giornale di Sicilia – sul mio sito”, mentre la Chiesa Empedoclina, con i suoi sacerdoti ed i fedeli tutti prende le distanze dall’increscioso episodio. “La festa di San Calogero – si legge nel Giornale di Sicilia – non è folklore ma espressione di religiosità popolare. Pertanto abbiamo il dovere di salvaguardare la festa da deviazioni pagane e volgari che possano stravolgere la genuinità del culto a San Calogero. Noi parroci ci riserviamo di incontrare i rispettivi organismi parrocchiali al fine di discutere ed approfondire l'accaduto. Non si escludono decisioni e provvedimenti drastici che riguardino i futuri festeggiamenti in onore di San Calogero”. Clizia Incorvaia a tal proposito riferisce: “Sono credente, cattolica da sempre. Non trovo nessuna volgarità nel documentare la festa del mio santo protettore e volergli dare un respiro internazionale attraverso il mio blog di moda… La volgarità spesso sta negli occhi di chi guarda e di chi ha la coda di paglia. Non è mio costume emettere giudizi ma in questa sede… vi dirò che trovo volgare la gente che va alle processioni e bestemmia lì, trovo volgare la gente che si spaccia per cristiano e non porge l'altra guancia, che non è solidale, che vive di sotterfugi, di vigliaccheria, di disonestà. Là dove come in questo caso c’è purezza d’animo, che ben venga!” Forse una maggiore attenzione da parte degli organizzatori avrebbe potuto impedire l’episodio. “Concludo – afferma infine Clizia Incorvaia – dicendo che non voglio che vengano coinvolti nella vicenda terzi come gli organizzatori della festa di San Calogero. La festa è da preservare e non da ostacolare”. Ora si attende di conoscere le eventuali decisioni di Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento, in merito a quanto accaduto di Aurora D’Amico per gentile concessione de “Il Vesprino” In una festa patronale, alcuni episodi profani mettono in imbarazzo vescovo, sacerdoti e fedeli. E’ accaduto a Porto Empedocle, un comune siciliano appartenente al territorio diocesano di Agrigento, nel corso dei tradizionali festeggiamenti in onore di san Calogero, il dotto eremita di colore, rinomato guaritore, venerato in molti paesi della provincia agrigentina. Durante la processione del Santo eremita, Clizia Incorvaia, – la modella, soubrette e recentemente anche attrice, protagonista di un sensuale servizio fotografico pubblicato dal magazine Fox Uomo – si 5 sett.2013 12 (Giornale di Sicilia). A commento, abbiamo recuperato nella penna di Andrea Camilleri da "Il corso delle cose", il primo romanzo di Andrea Camilleri,edito da Lalli nel 1978, e poi da Sellerio nel 1998. pagg. 115/121 Il parroco, che durante quel pomeriggio, sotto le occhiate di S. E., era invecchiato a vista, tentò di spiegargli che evidentemente il santo non se la sentiva di tornare in chiesa, che tanto usciva una volta all'anno, e si vede che gli era venuto desiderio di fare un altro giretto sul molo. Del resto quello era un fatto non tradizionale, per amor del cielo!, ma che di tanto in tanto succedeva. S. E., fuori dalla grazia di Dio, prese a chiamare con tutto il suo fiato i carabinieri e questi, con le buone e con le cattive, riuscirono a convincere il santo a tornarsene in chiesa. Il giorno dopo S. E. fece sapere che da quel momento in poi i comunisti non avrebbero più dovuto portare la vara, che il pane non doveva più essere buttato dai balconi, che le offerte in denaro era meglio consegnarle personalmente al parroco e che appena vedeva che qualcuno faceva bere un goccio di vino a San Calogero faceva scomunicare l'intero paese. Fu così che cominciò la lunga guerra fra i fedeli di San Calogero e S. E. Rufino. E macari quando questo finì col ripensarci, dopo qualche tempo, sugli usi e i costumi dei siciliani, proclamando soprattutto a destra e a manca che la mafia era una maligna invenzione dei giornali del nord, su di una cosa non volle sentire ragioni e cioè che un santo, in quanto tale, fosse oggetto di costumanze tanto pagane. Si raggiunse però un accordo: il santo, prima di essere fatto volare dai gradini, veniva dai preti declassato a comune mortale, gli levavano la spera dalla testa e non lo accompagnavano per il paese. La vera processione, quella riconosciuta dal vescovo, avveniva la sera, quando, di ritorno dai suoi ultimi giretti sul molo, al santo veniva di nuovo messa in testa la spera: ma la voce popolare diceva che di quella processione serale, tanto composta, con dietro solo qualche vecchio e le signore civili, San Calogero si stufava fino alle lagrime. All'una in punto le porte si aprirono e il santo uscì. Nel 1946, durante la prima domenica di settembre la festa di San Calogero cadeva sempre quel giorno… Intanto, mentre la processione lasciava le vie del centro, dove abitavano le persone civili, per andare verso i vicoli di periferia - sempre a passo di carica, dopo ore e ore di faticata, e ancora le madri dovevano scansare i figli piccoli per non farli travolgere - il santo cominciava a fare le sue spettacolose acrobazie per entrare in certe stradette strettissime, si metteva di traverso, di tre quarti, sottosopra, ma comunque finiva per passare dove c'era qualche malato che ne aspettava con ansia l'arrivata. E via via che la vara penetrava verso le strade dei poveri - chiamate per disperazione dagli stessi abitanti con nomi dolcissimi, vicolo del miele, salita dello zucchero, piazzetta del paradiso, - si appesantiva di grappoli di bambini, bambini sordomuti, bambini rognosi, bambini con gli occhi pisciati, bambini con la guàllara. Ma le già forti sofferenze di S. E. erano destinate, verso sera, ad aumentare. Un reparto di soldati negri, che gli americani avevano lasciato a guardia non si sa di che cosa, appena in libera uscita tutt'insieme si fecero largo nella processione. A vedere un santo con lo stesso colore della loro pelle, i negri impazzirono di colpo. Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre davanti ai preti sparando in aria, uno si mise a suonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o cinque, a modo loro, i tamburi, gli altri pigliarono a fare fantasia, ballando e cantando, dopo avere coperto i nastri di dollari. A un certo momento domandarono macari di poter portare la vara, e gli scaricatori non si fecero pregare, forse perché il dispiacere di dover tanticchia lasciare il santo venne prontamente compensato con buona moneta degli stati. Quando i portatori, momentaneamente liberi, si strinsero attorno a S. E., acclamandolo, questi si accorse, con terrore, che tutti indistintamente portavano appuntato sulla camicia grigia di sudore il distintivo del partito comunista. Poi ci fu lo scandalo finale. Al tramonto, al momento di rientrare in chiesa per la solenne funzione serale, S. E., che aspettava l'arrivata in piedi davanti alle porte, vide con stupore la processione fare tutt'insieme dietro front e sparire dietro l'angolo. Qualche anno fa , la statua del Santo che vedete ora restaurata, a causa di un troppo affettuoso abbraccio dei suoi fedeli, perse il dito indice della mano destra, con un effetto non proprio benedicente. 13 varie opere ispirate a questa sua esperienza in terra piemontese. Ricordiamo, in ordine cronologico, le novelle Gioventù e La Messa di quest’anno, il romanzo Suo marito, dove Coazze compare con lo pseudonimo di Cargiore. Pirandello venne a Coazze perché la sorella Lina che viveva dal 1897 a Torino (e vi resterà fino al 1902 quando il marito, ingegnere minerario dello Stato, sarà trasferito a Massa Carrara), veniva a Coazze in villeggiatura, e tutti sappiamo la differenza tra un “tour” qualsiasi ed un viaggio che abbia per meta un luogo dove trovi una casa e persone amiche. Egli avrebbe già voluto venire a Torino presso la sorella per l’Esposizione Internazionale del 1898, ma non gli era poi stato possibile. Ma Pirandello aveva avuto rapporti con Torino sin dall’adolescenza, se ricordiamo che il suo primo scritto narrativo pubblicato fu l’elzevìro La capannetta che comparve sulla “Gazzetta del Popolo della domenica” del 1° giugno 1884, e se ricordiamo che considerava, come modello per la sua poesia, Arturo Graf, docente dell’Università di Torino sin dal 1876, al quale,“come a Maestro”, aveva inviato la sua prima raccolta poetica Mal giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889. Prima di arrivare al successo con Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò i suoi lavori in case editrici d’ogni parte d’Italia e, come si è detto, il suo editore torinese fu Renzo Streglio presso il quale pubblicò due collane di novelle: Quand’ero matto nel 1902 (che comprende la novella Lumìe di Sicilia), e nel 1904 Bianche e nere. Renzo Streglio era un editore minore militante. “Dalla sua casa editrice – scrive Enzo Bottasso, uscirono, insieme a libri importanti per tener desta la nostra tradizione letteraria, come la monografia del Rinieri su Silvio Pellico o la ristampa dei Miei tempi di Angelo Brofferio, novità di Giovanni Cena, Enrico Thovez, Corrado Corradini, Edmondo De Amicis, Francesco Pastonchi e Luigi Pirandello” appunto. Nel 1907 pubblicò La via del rifugio di Guido Gozzano ed ancor prima, per tutto il 1905, fu l’editore del settimanale letterario “Il Campo”, “quasi travolto dalla tragica fine scelta per sé da Giovanni Camerana” (di cui pubblicherà postumi, nel 1907, i Versi). E’ proprio su “Il Campo” del 2 aprile 1905 che si dà notizia, per la prima volta, d’un romanzo “umoristico” di Luigi Pirandello, intitolato Suo marito. Siamo nel 1924, Pirandello ormai aveva conquistato il pubblico ed ogni sua prima rappresentazione era un evento. E’ di quell’anno la commedia Ciascuno a suo modo, che ricorda nel titolo il motto del Le vacanze di Luigi Pirandello a Coazze .. ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso il ponte che ritiene per una pescaia l’impeto delle acque che vi fremono irose: l’aria era di una trasparenza meravigliosa ; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza; ed io,guardando, mi sentii così ebro della mia libertà , che temetti quasi d’impazzire, di non potervi resistere a lungo ... Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, nella collana “Tutti i romanzi” ed. Mondadori 1957, pag.342 Nell’estate del 2001 è stato celebrato il centenario della villeggiatura di Luigi Pirandello a Coazze, paese della Val Sangone in provincia di Torino. Per la ricorrenza è uscita una pubblicazione (Album di Coazze, per una scrupolosa ricostruzione di questa villeggiatura fino allora misconosciuta nella biografia pirandelliana. In estrema sintesi Pirandello, giovane professore trentaquattrenne, venne a Coazze in villeggiatura con moglie e bambini nella tarda estate del 1901 (dal 23 agosto ai primi di ottobre) per raggiungere la famiglia della sorella Lina, allora risiedente a Torino, che come molte altre famiglie della borghesia torinese trascorreva le vacanze estive in questa apprezzata località montana. Fu un soggiorno sereno per Pirandello ed anche letterariamente fecondo perché ci ha lasciato il cosiddetto Taccuino di Coazze, quadernetto di note e appunti che servirono poi al nostro autore per 14 campanile di Coazze, Ognuno a suo modo, che aveva tanto colpito Pirandello quando era venuto nel paese in villeggiatura. giorni prima della rappresentazione in Milano, che è tutta una spassosa presa in giro del suo avversario, ed anzi ne approfittò per creare ancora una volta un magistrale gioco degli specchi tra finzione e realtà. …il signor Domenico Lanza, mio feroce e riveritissimo nemico, - scrive Pirandello - senza aspettare che la mia nuova commedia fosse rappresentata, non dico a Torino (dove pur sarà tra una ventina di giorni) ma neppure a Milano, le rovescia addosso sulla “Gazzetta del Popolo” quattro colonne di vituperi. Dio mi guardi dal volergliene male, ché anzi, gliene sono gratissimo. Ed ecco perché. Nel primo degli intermezzi corali della commedia sono introdotti anche i critici drammatici a dare il loro parere sul primo atto di essa… Ora, per osservare fino allo scrupolo questa obiettività che mi sono proposta, mi par lecito approfittare, come d’una fortunata congiuntura, del giudizio preventivo che il sig. Domenico Lanza ha voluto fare della mia commedia, e farò ripetere questo suo giudizio in buon piemontese da uno di quei critici drammatici … E il signor Domenico Lanza , di qua a venti giorni, allorché la commedia sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di scriverne ancora sulla “Gazzetta del Popolo”…”. Ciò che più colpisce, al di là del duello verbale tra i due personaggi, sono le reazioni che seguirono alla polemica. La lettera di Pirandello sul “Corriere della sera” provocò il risentimento dell’Associazione della Stampa Subalpina, che fece pubblicare un ordine del giorno del suo Consiglio direttivo dove prendeva le difese di Domenico Lanza, autore di un giudizio severo sì, ma, secondo loro, “espresso in forma piena di dignità e di rispetto”, stigmatizzando invece “la risposta acre e sarcastica” di Luigi Pirandello; e deplorava “il fatto nuovo” che il “grande giornale milanese” avesse ospitato, contro “il buon costume giornalistico”, “le espressioni evidentemente inopportune ed esorbitanti in banali quanto ingiuste offese per la gente subalpina”, (e pensare che il bel titolo della sua commedia, Ciascuno a suo modo, Pirandello l’aveva preso proprio dal motto sul campanile della chiesa d’un paesello montano piemontese come Coazze, vicino a Torino, dove aveva passato una felice vacanza!). Un elemento fondamentale dell’arte pirandelliana è l’umorismo, che l’Autore stesso teorizzò nel saggio omonimo, L’umorismo, del 1908. A mio parere l’umorismo scatta nell’opera pirandelliana come reazione, e difesa, alla perdita di fede nell’assoluto, ma quello che mi preme notare è che l’umorismo in Pirandello non è sarcasmo (se mai ironia) cioè non implica un atteggiamento Preannunciando la commedia in un’intervista sul “Giornale di Sicilia” del 10 aprile 1924, Pirandello, mettendo le mani avanti e mostrando di divertirsi allo scandalo, aveva detto: “In Ciascuno a suo modo avvengono cose da pazzi”, facendo il verso, evidentemente, ai suoi detrattori. Bemporad, nuovo editore di Pirandello dopo Treves, pubblicò il libretto della commedia pochi giorni prima del debutto. Domenico Lanza, che in quegli anni insieme a Renato Simoni e Marco Praga di Milano, e Adriano Tilgher di Roma, era tra i critici teatrali più autorevoli, notoriamente non favorevole alle opere di Pirandello, si buttò sul libretto e ne stilò una lunghissima recensione demolitrice sulla “Gazzetta del Popolo”, zeppa di giudizi spregiativi: “…la nuova commedia di Luigi Pirandello non esce dai confini d’una creazione non solo comune e banale, ma travagliata dagli sforzi d’un barocchismo insignificante e inane, e in parecchi momenti di assai discutibile buon gusto, e di ancor più discutibile forza di idee e abilità di forme… manca la guida della misura e dell’equilibrio mentale…”; i personaggi sono “un’accolta di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi, decadenti della volontà , tormentatori di sé e degli altri, svuotati d’ogni persuasiva umanità e congegnati artificialmente come puri macchinismi dialettici…”ecc ecc. Domenico Lanza, un “torinese di stampo antico, – come scriveva Lorenzo Gigli, critico letterario suo collega alla “Gazzetta del Popolo" di intransigente dirittura, di alto e coraggioso sentire”, evidentemente non poteva sopportare Pirandello, forse per una vera e propria incompatibilità di carattere, e neppure temeva di andare contro la moda. Pirandello prontamente volle vendicarsi con una ”lettera al direttore” del Corriere della Sera tre 15 Eppure questa raccolta è a tutt’oggi sconosciuta, perché Pitrè aveva scelto di trascrivere le fiabe nel dialetto siciliano ottocentesco in cui gli erano state raccontate e così facendo le aveva rese sì immortali ma indecifrabili ai lettori italiani. Grazie alla collaborazione tra Donzelli Editore e Fondazione Sicilia, che ha patrocinato il progetto editoriale, questa raccolta esce finalmente in libreria in una doppia edizione, una più grande in 4 volumi con il testo siciliano a fronte dal titolo Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (cofanetto in 4 volumi, pp. 2875 – € 165,00); una più piccola dal titolo Il pozzo delle meraviglie. 300 fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (pp. XXIV-806 – € 30,00). Entrambe le opere si avvalgono della traduzione di Bianca Lazzaro e della cura di Jack Zipes, esperto di fama internazionale e autore di decine di studi e ricerche sulla fiaba. L’intera opera è stata presentata il 28 ottobre a Palermo, presso la Società Siciliana per la Storia Patria, e a Roma il 29 ottobre, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. “Per un editore come Donzelli la doppia edizione delle Fiabe di Pitrè corrisponde a un obiettivo esaltante: mettere in circolazione un tesoro assoluto della letteratura popolare, vorrei dire senza mezzi termini un monumento della tradizione culturale italiana, sottraendolo a un oblio che dura da quasi centocinquanta anni. Per fare questo si trattava di tradurre, per la prima volta integralmente e nel modo più rigoroso, queste 300 storie dal siciliano all’italiano, rispettando il ritmo della narrazione orale, restituendo il gusto del parlato, e ricostruendo – senza facili concessioni a qualche finto sicilianismo – i colori e il calore di un contesto.” afferma Carmine Donzelli. L’edizione maior, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani riproduce tutti i testi in siciliano di Giuseppe Pitrè, affiancandoli con la traduzione a fronte di Bianca Lazzaro e con le note critiche di Jack Zipes. Questa edizione “ha rappresentato una grande sfida redazionale: si è trattato di trovare una serie di soluzioni, nell’editing come nella grafica, e persino nella scelta dei materiali da adoperare, che fossero in grado di esaltare la bellezza di questo libro. Ecco un caso – ribadisce Carmine Donzelli – in cui il tradizionale supporto cartaceo si prende le sue rivincite: non c’è pagina ‘digitale’ che a questi livelli possa competere.” L’edizione minor, Il pozzo delle meraviglie raccoglie tutte le 300 fiabe in traduzione, si vuole rivolgere al più vasto pubblico dei lettori che, semplicemente, amano la fiaba. impietoso, bensì esprime una profonda e spesso indulgente simpatia umana. Il romanzo “coazzese” Suo marito ne è un eloquente esempio. All’inizio di questo lavoro abbiamo posto una citazione dal Fu Mattia Pascal, che è una veduta assai familiare per chiunque conosca Torino, ed esempio di natura vista come stato d’animo. Si tratta del “ponte della Gran Mamarzodre”, con quella “rapida” d’acque, subito dopo il ponte, tuttora esistente. Pirandello mette in rilievo con straordinaria intensità la limpidezza del cielo del Piemonte, così come aveva fatto per lo stesso luogo il Bellotto nella veduta “L’antico ponte sul Po a Torino” che si trova alla Pinacoteca Sabauda e non è affatto improbabile che Pirandello ivi l’avesse vista; la stessa limpidezza resa dai paesaggi della Val Sangone del pittore Marco Calderini intorno agli anni della villeggiatura coazzese di Luigi Pirandello. da uno studio del 2003 di Silvio Montiferrari Su preziosa indicazione dell’amico Renato Cesarò, sempre attento a segnalarci notizie interessanti: Le fiabe di Giuseppe Pitrè: un tesoro ritrovato 1841-1916 Torna alla luce, dopo quasi un secolo e mezzo, la straordinaria, per qualità e quantità, raccolta di fiabe siciliane di Giuseppe Pitrè (il più importante raccoglitore di tradizioni popolari dell’Isola, vissuto a cavallo fra ’800 e ’900) nella prima traduzione integrale in italiano moderno. Si tratta della collezione di storie orali più ricca, e forse più bella, che l’Italia abbia mai avuto, come ebbe a dire Italo Calvino nel 1956 quando selezionando dai repertori di ogni regione italiana le 200 Fiabe a suo giudizio più significative, ben 40 le attinse proprio all’opera di Pitrè. Da Giufà a La volpe Giovannina, da Rosmarina a Cola Pesce… sono storie di fate e di giganti, di maghi e di contadini, di sciocchi e di furbi. Sono racconti di fichi e zafferano, di fontane e giardini incantati. Sono il cuore pulsante di una Sicilia del tempo che fu. 16 Siamo di fronte, come ebbe a dire Italo Calvino, alla “più bella raccolta di fiabe che l’Italia possieda” e, come sostiene Zipes, a un patrimonio “ancora più importante di quello dei fratelli Grimm”. L’edizione ‘piccola’ vuole portare il lettore e la lettrice a godere direttamente della forza, del fascino, della magia di queste storie. Un contributo ulteriore per entrare in questo mondo fatato è rappresentato dalle splendide tavole disegnate dal grande illustratore argentino Fabian Negrin appositamente per questa edizione (è possibile richiedere le immagini all’ufficio stampa della casa editrice: [email protected].) “Questo straordinario progetto editoriale rende la meritata dignità culturale a quelle meravigliose, ma al contempo semplicissime, storie popolari raccolte da Pitrè fra i borghi, i campi e le contrade di una Sicilia di oltre cento anni fa e da lui poi diligentemente trascritte così come le aveva ascoltate, quasi a voler tramandarle ai posteri nella genuinità dei loro colori e dei loro sapori, delle loro arguzie e dei loro arcani.” – dichiara Giovanni Puglisi, presidente della Fondazione Sicilia – “Mi piace pensare che da oggi, tradotte in italiano, sgrovigliate dal dialetto ma non per questo impoverite, le magiche fiabe di Pitrè possano essere apprezzate da un pubblico assai più ampio di quello che fino ad oggi ha potuto assaporarle.” Sulle stesse navi, migliaia di emigranti sono arrivati dall'Italia, e New Orleans è diventata una sorta di colonia di agricoltori Siciliani. Il biglietto da Palermo a New Orleans costava molto meno delle altre tratte, invece da Napoli o Genova si arrivava più facilmente a Boston o New York. Nel 1876 Girolamo La Rocca e sua moglie Vittoria Di Nino arrivarono a New Orleans. Partiti da Salaparuta, un piccolo paese vicino a Trapani, Girolamo trovò lavoro subito come calzolaio; nel servizio militare aveva fatto il bersagliere, trombettiere sotto il comando del generale Lamarmora, e ancora suonava, per arrotondare il bilancio familiare. Il giovane Nick venne subito attratto dalla musica delle bande musicali e in particolare dagli ottoni. Segretamente cominciò a studiare cornetta, contro i desideri del suo padre, che sperava che suo figlio entrasse in una professione più prestigiosa. Siciliainformazioni.com Nick al centro con la cornetta. Nick La Rocca ha inizialmente lavorato come elettricista, suonando solo come dilettante. Dopo la morte prematura del genitore, nel 1904, Nick poté dare sfogo a tempo pieno alla sua passione. Dal 1910 al 1916, all’incirca, fece parte della banda di Papa Jack Laine (il vero nome era George Vitale). Mentre non era considerato come uno dei più virtuosi o creativi dei suonatori di Laine, era solido, con un labbro forte che gli permetteva di fare delle lunghe parate senza riposo.. Nel 1916 venne scelto come rimpiazzo all'ultimo minuto al posto di Frank Christian nel gruppo di Johnny Stein per un lavoro a Chicago, nel Illinois. Questo gruppo diventò la famosa "Original Dixieland Jass Band" che avrebbe fatto le prime incisioni commerciali di jazz nel 1917. Queste registrazioni furono grandi successi ed hanno trasformato i musicisti del gruppo in celebrità. Presto altri musicisti di New Orleans cominciarono a seguire il percorso dell’ ODJB, fino a New York per suonare il jazz. L’angolo della Musica, ovvero musicisti Siciliani nel mondo Nick La RoccaDominic James "Nick" La Rocca (New Orleans, Louisiana 11-4-1889/22-2-1961) Nick La Rocca, grande cornettista e pioniere del jazz classico, era il capo della "Originale dixieland Jass Band". Secondo lo stesso La Rocca era “il creatore di jazz", il "Cristoforo Colombo della musica". Era il secondo di quattro figli di poveri immigranti Italiani a New Orleans che alla fine dell'ottocento era una città multi culturale (era stata il porto principale dove arrivavano le navi cariche di schiavi africani fino al 1860). Dopo la guerra di secessione, da Palermo e Trapani partivano le navi cariche di agrumi e ortaggi per scaricare nel porto di New Orleans in cambio di cotone. 17 La Rocca era geloso degli altri gruppi musicali. Frank Christian ricorda che La Rocca gli offrì $200 e un biglietto ferroviario di ritorno per farlo tornare a casa a New Orleans. Dopo che una banda di musicisti di New Orleans composta da Alcide Nunez, Tom Brown e Ragbaby Stevens aveva vinto un concorso di bande contro ’l’ODJB, il batterista Ragbaby trovò le pelle dei suoi tamburi tagliata da qualcuno. Ciò diede a La Rocca il sopranome di “Taglierino Joe" e venne pubblicata una canzone chiamata “Taglierino Joe, Tagliente Come un Tacco". La Rocca condusse la sua band durante le tournée nell'Inghilterra e negli Stati Uniti nei primi anni '20, fino a quando soffrì un crollo psichico e tornò a New Orleans per lasciare la musica e diventare un appaltatore edile. Nel 1936 La Rocca riunì l’ ODJB per una tournée e alcuni incisioni. La Rocca affermava che lui e la sua banda erano gli inventori della musica swing, ora in voga al momento e che questa nuova musica era in realtà il vecchio jazz in abiti moderni. Il gruppo ottenne un contratto radiofonico con la NBC Red Network. La Rocca suonò di nuovo ''Tiger Rag'' catturando più ascoltatori di tutti gli ospiti precedenti e attirando offerte da tutti gli USA. Dopo due anni di successi, i conflitti di personalità sfasciarono nuovamente il gruppo e Nick La Rocca lasciò di nuovo la musica. Negli anni '50 cominciò a scrivere numerose veementi lettere a giornali, radio, e programmi televisivi, dichiarandosi l'unico inventore della musica jazz e affermando che chi sosteneva che la musica avesse origini africane doveva far parte di una cospirazione comunista. Quando l'università di Tulane fondò un archivio di jazz di New Orleans nel 1958, Nick La Rocca donò la sua ampia raccolta delle carte relative all’ ODJB, dopo l'aggiunta dei numerosi commenti nei margini, spesso ingiuriosi verso i suoi musicisti e colleghi. Aveva anche modificato dei documenti per renderli più aderenti alla propria versione della storia. Allo stesso tempo, lavorava con il produttore H.O. Brunn sul libro La Storia della Original Dixieland Jass Band (a volte soprannominato sarcasticamente dagli storici del jazz come “Il Vangelo secondo Nick La Rocca"),mentre Brunn ha attenuato alcune polemiche più estreme di La Rocca; il libro ancora presenta un racconto curioso di La Rocca che cresce in una New Orleans apparentemente priva della presenza di afroamericani e fonda la Original Dixieland Jass Band nel lontano 1908. Il libro minimizza anche l'importanza degli altri membri del ODJB. Quelli che provano a valutare i contributi di Nick La Rocca verso il jazz a volte sono ostacolati dalle dichiarazioni dello stesso La Rocca. Pochi (principalmente in Inghilterra) hanno preso La Rocca sulla parola, mentre una parte molto più grande degli storici di jazz lo ha sminuito. La Rocca ha involontariamente danneggiato la propria reputazione, particolarmente in alcune delle sue dichiarazioni che sono insolitamente razziste, anche quando confrontate con le idee degli altri bianchi dell'epoca. Le dichiarazioni di La Rocca fatte verso la fine della sua vita sono state rilasciate quando non era completamente sano. Una valutazione equilibrata può essere di considerare Nick La Rocca come una figura importante nella storia del jazz, che ha aiutato a portarlo da uno stile regionale alla popolarità internazionale, il capo della banda di jazz più influente del periodo da 1917 a 1921, e infine un buon suonatore in uno stile molto arcaico di jazz. Le incisioni di Nick La Rocca hanno influenzato trombettisti importanti di jazz come Red Nichols, Bix Beiderbecke e Phil Napoleon. Nel 1992 a Salaparuta, la città dei genitori, ci fu un Nick LaRocca Memorial Day per festeggiare con un convegno di studi ed un concerto della Sicilia Jazz Big Band il 75º anniversario dell'incisione del primo disco di jazz della storia da parte di La Rocca nel 1917. Nel 1991 Claudio Lo Cascio, primo e tuttora unico jazzista siciliano ad ottenere la cittadinanza onoraria di New Orleans, città definita La culla del jazz, scrisse un libro intitolato: Una Storia Del Jazz: Nick La Rocca. Decano dei jazzisti siciliani e notissima figura di pianista, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra, Lo Cascio dichiara esplicitamente sin dal titolo di voler affrontare e dibattere soltanto una piccola questione di quel confuso periodo in cui il jazz ebbe origine e cioè restituire la giusta dimensione artistica alla vicenda del cornettista Nick La Rocca, puntualizzando i suoi numerosissimi meriti con il corredo della minuziosa documentazione raccolta nei molti anni di richieste e studi, la maggior parte dei quali condotti sul campo, sia in Sicilia che negli USA. At The Jass Band Ball e Tiger Rag sono due dei brani più celebri che permettono un delizioso assaggio di questo meraviglioso mondo musicale. 18 10. Un si fici nianti a machina… Un vali a’ pena chiamari i vigli, haiu n’amicu carruzzìeri! (Classica frase da accordo post tamponamento, in cui colui che ha torto cerca di evitare l’intervento dei Vigili Urbani per poter risparmiare soldi, millantando conoscenze di carrozzieri fidati). Ecco le 10 frasi che un automobilista palermitano ha detto almeno una volta nella sua vita… in una raccolta che sicuramente farà ridere ma anche riflettere sui nostri modi di fare a volte un po’ spartani e coloriti alla guida! 1. Che Minchia ci soni! (Tipica per gentile concessione del sito: Grazie a Dio sono Palermitano espressione dell’automobilista palermitano in prossimità di un semaforo. Solitamente infatti, allo scattare del verde, il palermitano ha l’abitudine di suonare il clacson per sollecitare il primo della fila a partire con celerità. Ci si chiede quindi che si suona a fare quando davanti sono ancora fermi!? 2. Ma cu’ ta rietti a patenti?!? (Frase di sdegno verso qualcuno che ha appena effettuato una manovra non consentita dal codice stradale) 3. Smoviti u’ sangu ca’ è virdi! (Classica frase pronunciata dal personaggio di cui al punto n.1, in prossimità di un semaforo. Pare che a Palermo, infatti, non sia tollerato neanche un nanosecondo tra lo scatto del verde e la partenza della prima auto in fila); 4. Ma runni minchia av’a ghiri chistu?!? (Classica frase in cui gli indicatori di direzione sono usati, ma nel senso opposto a quello in cui si vuole andare, inducendo l’automobilista che sta dietro all’ errore) 5. A freccia mancu l’indiani ormai… (Classica frase usata in prossimità di un incrocio o quando qualcuno si appresta a parcheggiare, ignorando gli indicatori di direzione, volgarmente chiamati “frecce”. L’accostamento alle frecce scagliate dagli indiani, dunque, ormai in disuso come appunto l’uso da parte degli automobilisti palermitani) 6. Passa e vafanculu! (Tipica espressione usata in prossimità di incroci, in cui qualcuno ci chiede la precedenza. La variante è l’espressione gentile “prego, passi pure”, seguita da “vafanculu”, una volta che l’altra macchina si è allontanata); 7. Cucì, un secunnu e a spostu! (Classica frase del palermitano che, per prendere un caffè o le sigarette, deve obbligatoriamente posteggiare di fronte al negozio in questione. Non importa che 50 metri più avanti ci sia un posto libero, si preferisce sostare in doppia fila, perché tale tragitto comporterebbe troppa fatica) 8. Cuinnutu e Sbirru (Tipica espressione del palermitano usata quando qualcuno fa una manovra azzardata mettendo in pericolo la propria incolumità e quella degli altri) 9. Allazza (Frase pronunciata solitamente dal passeggero che invita il conducente ad “allazzare”, cioè premere sull’acceleratore per raggiungere il più velocemente possibile la destinazione! Due amiche siciliane dopo aver convinto i mariti, riescono ad uscire a cena da sole per svagarsi un po'. Fra una chiacchiera e l'altra e dopo due bottiglie di buon vino, lo champagne, i limoncelli e qualche amaro, fattosi tardi, decidono di tornare a casa. Completamente ubriache escono dal ristorante e mentre camminano nella notte sentono l'impellente bisogno di fare la pipì, una dice: - Trasemu n’o cimitero, nun ci viri nuddu”. Così la prima si sfila le mutandine, e dopo la funzione usa gli slip per asciugarsi, poi li butta. L'altra che porta biancheria firmata alla quale tiene molto, si sfila le mutandine, le mette in tasca e per pulirsi stacca un nastro da una corona di fiori. La mattina dopo il marito della prima telefona all'altro dicendo: “Cumpari sugnu cunzumatu. Me mugghieri Carmela stanotte s’arricampò, imbriaca e senza mutanne! A ittai fora di casa!” E l’altro: “Ammia mu cunti! Me mugghieri Santuzza s’arricampò mbriaca senza mutanne e con una coccarda n’ to culu, cu sta scritta: Salvo, Saro Turiddu, Calogero e tutti gli amici della palestra... ” NON TI DIMENTICHEREMO MAI! 19 A questo punto unite al soffritto la passata di pomodoro e aggiustate il sapore con il sale, peperoncino ed il prezzemolo. La salsa dovrà cuocere a fuoco basso per circa 30 minuti. Alla fine togliete l'aglio e condite i maccarruna con il sugo e magari una spolverata di formaggio. (ragusano col pepe sarebbe perfetto) I maccheroni di casa in salsa e tonno. Nella speranza che qualche socio/a voglia testimoniarmi l’abilità in cucina eccovi inoltre una specialità tipicamente natalizia: LA GALLINA RIPIENA E' importante sottolineare la differenza tra maccheroni e maccheroni di casa. Gli ultimi son sempre una pasta ottenuta mescolando semola di grano duro ed acqua, ma sono una specialità siciliana: sono più lunghi e goderecci da masticare. Spesso all'impasto si aggiungono peperoncino o spinaci o inchiostro di seppia per conferire una particolare colorazione alla pasta: rossa, verde o nera. In tutti i casi è difficile dare una ricetta sulla preparazione dei maccheroni di casa perché ogni famiglia possiede una ricetta propria e che spesso conserva e tramanda con grande orgoglio e riservatezza. Ingredienti: 600 grammi di riso vallone, una gallina con le uova nonnate, 300 grammi di polpette di carne di vitello trita, 200 grammi di tuma, 150 grammi di pecorino col pepe stagionato grattugiato, sei uova fresche, 150 grammi di caciocavallo di provola fresco, 150 grammi di cotenna di maiale, 200 grammi di salsiccia di maiale, quattro pomodori pelati, 50 grammi di estratto di pomodoro, due cipolle medie, due gambi di sedano, un trito di aglio e prezzemolo, 50 grammi di mollica di pane, 50 grammi di pan grattato, una spruzzata di latte, burro o strutto, olio d'oliva, sale e pepe. INGREDIENTI Maccarrùna di casa; tonno in scatola; passata di pomodoro; cipolla; capperi; prezzemolo; 1 spicchio d'aglio; vino bianco secco (mezzo bicchiere); olio – sale – peperoncino; PROCEDIMENTO Pulite la cipolla, tritatela e soffriggetela leggermente con dell'aglio ed i capperi. Aggiungete anche il tonno in scatola (prima scolate il contenuto) e dopo qualche minuto unite il vino e fate sfumare. 20 Una prima fase della ricetta prevede la preparazione del brodo di gallina insaporito con la cipolla, poco pomodoro, prezzemolo e sedano e le polpette precedentemente preparate impastando la carne di vitello - o di manzo - trita con uova, formaggio pecorino grattugiato, prezzemolo e aglio tritato, mollica di pane ammorbidita nel latte, sale e pepe. Quando la gallina è ben cotta, la si toglie dal brodo, la si priva di pelle ed ossa e la si divide in pezzettini che poi si conservano insieme alle polpette lessate. Si filtra il brodo e lo si riporta in ebollizione aggiungendo il sale. Qui si cuocerà il riso al dente. A cottura ultimata, occorre mantecare il riso denso con il pecorino grattugiato. Umettare una teglia con burro e pan grattato e stendere il primo strato di riso che deve esser alto due centimetri. Su esso occorre stendere pezzetti di gallina, polpettine, le uova nonnate lesse e fettine di tuma. Si aggiunge un secondo strato di riso e poi si le polpettine, salsiccia e pezzi di caciocavallo di provola; se si vuole, prima della seconda fascia di ripieno si può stendere un velo di ragù. Si ricopre il tutto con un ulteriore strato di riso che sarà a sua volta coperto con la "conza", una salsa di uova battute, pecorino grattugiato, sale e pepe. La pietanza va infornata e la cottura sarà ultimata quando il piatto avrà ottenuto una crosta dorata e compatta. BUON NATALE Un’ottima occasione per farci gli Auguri. Santuzzo 21