2013 numero 11 Dicembre
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
sconfiggere le truppe borboniche, primo atto
dell’agognata unificazione nazionale.
Su quest’isola, lungo il litorale tra Licata e Siracusa,
nel luglio del 1943 (lo sbarco degli Alleati in
Normandia sarebbe avvenuto undici mesi dopo)
prese terra la più grande spedizione militare mai
vista prima d’allora, messa insieme per spazzare via
il demone nazista, di cui gli scellerati fascisti erano
alleati.
Una frontiera, la Sicilia, una sorta di Far West
d’Europa, dove si annidano le trappole della storia,
dove il diritto — sacrosanto in ogni comunità che
merita di essere definita civile — è messo
perennemente in discussione, se non umiliato e
sconfitto.
Una frontiera, la Sicilia, e perciò luogo ideale per
tagliagole e furfanti, avventurieri e fuorilegge,
materia prima di cui si serve la mafia per esercitare
il suo nefasto primato.
I siciliani si arrabbiano quando, nel parlare della
loro regione, puntualmente si finisce per tirare in
ballo la mafia.
Ma come si fa a non parlare di mafia, di morti
ammazzati, se nella sola Palermo, una strada dopo
l’altra, una piazza dopo l’altra, è possibile ritagliarsi
un fitto itinerario in cui a decine sono stati abbattuti
carabinieri,
poliziotti,
magistrati,
politici,
giornalisti?
È vero, tuttavia, che questa desolante medaglia ha
un’altra, certo meno visibile, faccia: quella dei
siciliani onesti, dotati di senso dello Stato e di
civiltà nei rapporti sociali.
E siccome è legge di natura che a ogni male
corrisponda un proprio anticorpo, ecco in Sicilia
succedersi i vari Salvatore Carnevale e Peppino
Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino,
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pino Puglisi e
Pippo Fava...
È fatale, la frontiera, per chi aspira alla legalità e
alla giustizia, specie se si è sindacalisti, magistrati,
carabinieri o poliziotti.
Ed è particolarmente feroce con chi rompe le regole
di un imposto quieto vivere (il commerciante Libero
Grassi che si ribellò al «pizzo») o dice di no al
silenzio.
Storia e cronaca
La regione esotica resta un mistero
Sfuggente a ogni definizione, la Sicilia è sempre
stata il Far West d’Europa, spesso cruciale per i
destini del Continente e fatale per chi aspira alla
legalità e alla giustizia
È la più vasta isola del Mediterraneo e la più
meridionale delle venti regioni italiane; quasi del
tutto priva di tessuto industriale; ha un’economia
gracile e assistita, condizionata dal perdurare di
un’invasiva criminalità organizzata; ricca di storia e
di cultura, continua a dare all’Italia acclamati
scrittori.
Si potrebbe dire così della Sicilia; sennonché,
trattandosi di Sicilia appunto, non c’è definizione
che possa pienamente soddisfare, renderne giusta
idea.
È un mondo a parte, la Sicilia; molti la considerano
addirittura un continente, un luogo ancor oggi tutto
da scoprire, da decifrare. Perché?
Una prima risposta è data dalla geografia che ne ha
segnato il destino: l’inizio dell’Europa per gli
africani, l’Europa che finisce per scandinavi,
britannici, tedeschi...
Una frontiera dalla quale passare se si vuole
storicamente incidere non soltanto sull’Italia, ma
sull’intero Vecchio Continente.
Esagerato? Tutt’altro.
«Non si sfugge in Sicilia alla storia», ha scritto
Denis Mack Smith, e alcuni esempi lo dimostrano.
In quest’isola, precisamente su un tratto di costa che
va da Messina a Scaletta Zanclea, nell’estate del
1571 prese forma la possente macchina da guerra
degli alleati cristiani, che si sarebbe diretta a
Patrasso e poi sul mare antistante Lepanto avrebbe
mandato a picco la flotta di Mehmet Alì Pascià (se
in quella risolutiva battaglia navale le cose fossero
andate diversamente, è probabile che tutti noi
europei oggi parleremmo e vestiremmo in modo
diverso).
Su quest’isola, a Marsala, nel maggio del 1860, i
volontari di Garibaldi sbarcarono per affrontare e
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Nessun’altra regione è stata altrettanto indagata,
scrutata, raccontata, senza che se ne cavasse mai un
veritiero ritratto, un’attendibile sintesi.
Nonostante sia di continuo sotto i riflettori della
cronaca, la Sicilia resta un arcano.
E questo perché dalla sua porta sono entrati, dice
Brancati, «gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l’io e il
non io, la malinconia e i musaici », ma anche, «i
fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio,
l’inganno, la buffoneria, il comico».
Insomma, ecco perché Empedocle e Pirandello,
Bellini e Verga.
E per andare ai giorni nostri, ecco perché i tanti
scrittori, da Sciascia a Camilleri.
Ha la seduzione dei paesi esotici, la Sicilia, con il
vantaggio, per gli europei, di non trovarsi nell’altra
parte del mondo.
Per questo a partire dal XVIII secolo è stata meta
irrinunciabile dei viaggiatori che vi hanno trovato
-e vi trovano- un ambiente naturale al limite del
delirio e una quantità impressionante di tesori
d’arte.
Il fascino dell’antica Grecia, dalla quale nacque e si
sviluppò la filosofia e tutto quanto è alla base del
pensiero di noi occidentali, si ritrova più in Sicilia
che nella stessa Grecia.
Eppure è un errore considerare la terra di
Empedocle come parte di quel dominio. Calabria,
Puglia, Campania appartennero a quella realtà, non
la Sicilia, che, nei fatti, fu un’entità politica, sociale
e militare a sé stante.
Ne ebbero rispetto, se non paura, i Greci.
E fu nel combattere contro Siracusa che si spezzò la
potenza di Atene.
Ancor oggi, Scilla e Cariddi sono a guardia di
questo mondo a parte.
Un mondo a parte in cui è possibile effettuare il
«viaggio perfetto», secondo il grande saggista
Mario Praz, il quale ne spiega il perché valutando la
regione dal punto di vista della varietà del
paesaggio e della profondità storica che vi si
riscontra.
Bagnata dal mare africano, la Sicilia offre alla vista
paesaggi montuosi dall’aspetto tipicamente nordico,
e ovunque sono visibili i resti di un passato che ha
fatto di quest’isola un prezioso deposito della storia.
Il teatro greco di Siracusa, la Valle dei templi di
Agrigento, la Villa del Casale di Piazza Armerina, e
Selinunte, Segesta, Mozia; e i monumenti arabonormanni di Palermo, Monreale, Cefalù; e il
barocco di Catania, Ragusa, Noto.
«Il massimo piacere del viaggiare», ne deduce Praz,
assegnando il primato alla Sicilia, «si raggiunge
quando allo spostamento nello spazio si unisce lo
spostamento nel tempo».
Per questo tanti giornalisti uccisi (Mauro De Mauro,
Mario Francese, Mauro Rostagno, Giovanni
Spampinato, Beppe Alfano).
In questa spietata frontiera, per reazione, per
necessità, è nata e si è sviluppata una letteratura che
continua a stupire per diffusione e tenuta.
È un fatto che così come gran parte degli scrittori di
lingua inglese nel XIX e XX secolo sono stati
irlandesi, buona parte della letteratura italiana dello
stesso periodo viene da scrittori e poeti siciliani.
Insularità, marginalità, frontiera: forse viene da lì la
proverbiale capacità dei siciliani di spaccare il
capello in quattro, quel pirandelliano ragionare sul
filo della ragione, pericolosamente accostandosi alla
follia, l’ideale quando si fa letteratura.
Gesualdo Bufalino ci ha lasciato un sapido saggio
dell’odiato/amato (e potremmo dire coltivato)
disagio degli intellettuali suoi conterranei:
«Non so se altri luoghi in pari misura, ma la Sicilia
-causa ne sia un eccesso o un difetto d’identità- non
fa che investigarsi e discorrere permalosamente di
sé. Sofistica, interrogativa, superba, ora si presume
nazione e ombelico matematico dell’universo; ora
si accascia in una sorta di rancoroso stupore, che
solo rompono di tanto in tanto fulmini di bellissima
intelligenza».
Perché la Sicilia è così condizionante per coloro che
vi nascono e vi abitano?
Perché, come si legge nel Gattopardo, i siciliani
sono convinti di essere creature perfette?
Perché sono portati a credere a una simile
sciocchezza?
Cosa hanno di diverso dai lombardi o dai liguri?
Cosa li autorizza a ritenersi diversi — perché più
intelligenti, a sentir loro, meglio vaccinati contro la
violenza della vita — dai toscani o dai piemontesi?
La risposta più sensata a queste domande è quella
che Vitaliano Brancati ci ha lasciato nel suo diario :
«Noi siciliani siamo soggetti ad ammalarci di noi
stessi: un male che consiste nell’essere
contemporaneamente il febbricitante e la febbre, la
cosa che soffre e quella che fa soffrire».
Bufalino mostra di essere senz’altro d’accordo con
l’autore del Bell’Antonio, quando cesella:
«Terra infelice, che ogni mattino a chi ci vive e ne
scrive impone lo stesso monotono dubbio: se gli
convenga, tappandosi occhi ed orecchie, eleggerla
a proprio eroico eliso; o se debba mischiarcisi,
inzupparsene, ammalarsene, come innamorato che
in un grembo infetto cerca di proposito l’assoluto di
un’estasi e d’una morte».
Quanta letteratura è sgorgata da questa ambigua
fonte, quanto cinema, quanta cronaca.
Eppure, resta un mistero, quest’isola.
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Tutto questo spinge a chiedersi perché tanto ben di
Dio non porti a un’economia sana e fiorente.
Forse la risposta è nella mal compresa e mal gestita
autonomia politica e amministrativa di questa
ineffabile regione.
Era il 1969 quando Leonardo Sciascia annotava:
«Il fallimento dell’autonomia regionale si può
senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e
maneggiata come un privilegio, una franchigia, che
lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento
separatista, concedeva alla classe borghesemafiosa. Questi privilegi, di cui il popolo di fatto
non ha mai goduto ma sempre è stato pronto a
sollevarsi per difenderli, si sono come cristallizzati
in una coscienza giuridica astratta e involuta,
alimentando quel gusto per le controversie,
quell’acutezza, quella sospettosità e insomma
quelle facoltà causidiche e sofistiche che (sembra
impossibile) già Cicerone riconosceva ai siciliani».
Quarantaquattro anni dopo, sottoscriviamo senza
cambiare una virgola.
Matteo Collura
manuale di base per l'orientamento degli operatori
psicogeriatrici per i tipi La Biblioteca by ASPPI.
Vive e lavora a Roma.
Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (pubblicato
da Alpes) è un riuscito tentativo di coniugare il
saggio con la finzione.
Un componimento che grazie a una scrittura veloce,
pur facendo ricorso a concetti che rimandano a
Sigmund Freud, a Melanie Klein e a Ignacio Matte
Blanco, si concede solo parzialmente al linguaggio
complesso della psicoanalisi.
Come scrive nella prefazione Fiorangela Oneroso,
la scioltezza, la gradevolezza, la felice leggibilità di
questo denso saggio sta nel fatto che Turno affronta
il tema dello sdoppiamento, o della duplicità,
procedendo sempre in modo scientificamente
rigoroso ma con un'agile scrittura letteraria.
DORIANO FASOLI: Pirandello in treatment:
qualche lettore, sull'onda di questo popolare
serial sulla psicoanalisi, ha così definito questo
suo saggio/finzione. Lo possiamo affermare?
MARCELLO TURNO: In un certo qual modo è vero,
anzi lo si dice nel libro stesso: se Pirandello in un
momento particolare della sua vita si fosse rivolto a
uno psicoanalista cosa avrebbe potuto raccontargli?
Certamente la sua storia, ma attraverso la finzione
letteraria de Il fu Mattia Pascal.
X gentile concessione del Corriere della Sera
Ma Pirandello e Turno come si sono incontrati?
Alcuni decenni fa… I Sei personaggi in cerca
d'autore, per intenderci. Una rivelazione, una
violazione della logica teatrale e del pensiero
razionale.
Un sogno, una pura espressione dell'inconscio, su
cui Matte Blanco molto ha scritto. Ma quello fu un
incontro fugace e perturbante. Poi, a metà degli anni
Ottanta mi occupai di una messa in scena per teatrodanza sulla vita di Pirandello.
Fu in quella circostanza che, seguendo le sue tracce
ancora visibili, incontrai persone che avevano
conosciuto sia lui che sua moglie, potei acquisire
particolari sulla loro vita, lessi molte opere, ma,
soprattutto notizie sulla sua vita.
E fu così che capii che Il fu Mattia Pascal era il
romanzo più autobiografico della sua vita.
E nella veste di Mattia Pascal, Pirandello è andato
in analisi, svelando i suoi desideri più profondi e
allo stesso tempo irrealizzabili.
Il mancato suicidio di Luigi Pirandello
Conversazione con Marcello Turno
di Doriano Fasoli
Marcello Turno è medico psichiatra e psicoanalista,
membro
della
International
Psychoanalitic
Association e della European Federation for
Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Sector.
Insegna nel corso di laurea triennale e della laurea
magistrale di Psicologia del Dipartimento di
Scienze Umane della Lumsa di Roma.
Autore di numerosi saggi e curatele, ha
recentemente pubblicato Una notte senza luna,
Insomma una buona risorsa per uno
psicoanalista. Cosa è venuto fuori?
È venuto fuori che, a causa del fallimento delle sue
risorse economiche e con la sopraggiunta follia
della moglie, Pirandello ha pensato di togliersi di
3
torno. Non lo fa direttamente, ma delega Mattia
Pascal a farlo in vece sua.
VOCABOLI ARCAICI
Con l'aiuto di Santuzzo che, malgrado il minor
tempo da lui passato in Sicilia, ha acquisito un bel
fiuto per i nostri vocaboli desueti, arcaici o usati
dai ceti popolari, siamo alla terza puntata (e scusate
qualche ripetizione).
In ordine più o meno alfabetico ricordiamo:
AREMI (è il seme d'oro nelle carte siciliane: per gli
antichi il settebello non era "sett'oru" ma "setti
d'aremi"; non siamo riusciti a scovarne
l'etimologia);
AFFUNCIARI: mettere il muso ("a funcia" oggi si
dice "mussu");
ALLEGGIU: Adagio
AMMUCCARI: può significare mettere in bocca
qualcosa di buono "ammuccamu cumpà" per dire
"godiamoci questo bel boccone, compare" specie se
il boccone è un bel bocconcino di donna; ma può
significare anche "abboccare" come il pesce; si dice
per i creduloni o per chi è ABBUNAZZATU:
(sempliciotto);
ADDURCARI: stava per rabbonire, attenuare,
calmare;
AGGRAMPARI:
più
efficace
dell'attuale
"acchiappari" visto che "grampa" sta per artiglio e
quindi significa "artigliare";
ARIUTUNNU ("aere rotundo") sta per cielo
totalmente coperto (niuru tunnu tunnu = nero
tutt'intorno);
ARRUNCHIARI: senza pretendere un'esatta
corrispondenza sta per raccattare ammucchiando; il
termine attuale, più tenue è ARRICOGGHIRI
(raccogliere); citiamo il vecchio termine anche
perché, specie al mio paese, (Raffadali-Ag)
produttore di fave e rinomato per il suo "maccu" (la
squisita minestra di purè di fave secche, e verdure
varie)
ARRUNCHIA-MACCU
(operazione
problematica!) sta per "pasticcione";
AZZIZZARI: ora "aggiustari" ma è di più: è
sistemare bene una cosa; tenuto presente che AZIZ,
vuol dire splendente, azzizzari è "rendere
splendente."
AZIZ è un bellissimo vocabolo arabo che ha il suo
corrispondente nell'ebraico ZIZIT (lo splendore), e
si ritrova in molti termini siciliani: ricordo
sopratutto la Zisa (lo splendido "palazzo di delizie"
arabo normanno di Palermo che dà il nome a tutto il
quartiere) e i "cabbasisi" (quelli che il Dottor
Pasquano non vuole rotti dal commissario
Montalbano) che ormai credo tutti sappiano cosa
sono, e che mutuano il loro nome da hab-aziz
(un'infiorescenza risplendente che porta in basso
due bacche gemelle:inteso?)
Come si comporta Pascal in seduta? È puntuale?
Collabora?
È puntuale agli incontri con lo psicoanalista ed è
molto sincero, non nasconde nulla. Così è possibile
seguirlo nell'evoluzione del suo dramma personale e
capire come affronta questa tragedia, fino a scoprire
i meccanismi inconsci che muovono tutta la
vicenda.
Quindi possiamo dire che Pirandello/Pascal esce
guarito dal trattamento, o per lo meno sembra
che abbia risolto i suoi conflitti.
In un certo senso, sì. Mattia Pascal è un'enorme
fantasia che Pirandello mette in atto, un vero alter
ego. Una fantasia densa di tutti i suoi desideri
irrealizzabili. Alla fine riesce a recuperare il senso
di realtà e il suo vero sé.
Scrivere il romanzo lo salva?
Direi proprio di sì. Del resto Freud lo diceva che gli
scrittori hanno molto da insegnare agli psicoanalisti.
Ma tutte le espressioni artistiche sono saldate con
pezzi di inconscio. Un loro studio approfondito
potrebbe rivelare molto sul modo di pensare degli
artisti.
Ad esempio?
Mi viene in mente il Tondo Doni di Michelangelo,
oggetto di studio di molti psicoanalisti, dove alle
spalle della Sacra Famiglia si intravedono figure
maschili nude, una sorta di lapsus di Michelangelo
che riporta alla sua omosessualità.
Qualche altro personaggio famoso ha preso il
posto di Pirandello in analisi?
Sì, da subito.
Potremmo sapere chi è?
Scherza? Lo sa che siamo obbligati a tutelare
l'identità dei nostri pazienti. Comunque chiederò se
posso fare uno strappo.
Se in un tormentato frangente della sua vita
Luigi Pirandello fosse ricorso ad uno
psicoanalista, quale tra le sue tante storie
avrebbe potuto narrargli? E perché?
Sicuramente Il fu Mattia Pascal, romanzo scritto
nel periodo più disperato della sua esistenza e che,
nell'immaginario incontro con lo psicoanalista,
diventa la chiave per accedere al mondo interiore
dell'autore.
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BATTARIA (oggi "rumuri o rumurata") deriva il
suo nome dal fracasso che fa il fuoco delle batterie
di cannoni;
CATUNIARI:
(concionare
come
Catone)
CATUNIU (borbottio, "mugugno");
CAJORDA (dall'arabo?) stava per "buttana" ma è
molto più esotico;
CACINARU (oggi "pitruni") grosso masso;
CIARAVEDRU (in passato stava per (agniddruzzu
- agnellino)
CURRIOTTU: contenitore fatto con doghe di
legno per le sarde salate;
CUPPULUNI: cuffia di lana o di panno per i
bambini;
FISCINUSU:
(zozzone)
oggi
"lordu"
o
"ngrasciatu" (come il ligure "vunciun");
GAGLIUNI (mozzo di bordo=vedi l'affinità col
napoletano guaglione-ragazzo);
GINISI: carbonella; più correttamente è il carbone
di gusci di mandorle, pregiato perché produce
pochissima anidride carbonica e si usava per il
riscaldamento domestico nelle "brascere" (bracieri)
e nel prete "scaffalettu" (dal francesce "chauffe lit" scaldaletto) e nel PANAREDDRU (panierino)
scaldino metallico per le mani a forma di paniere
produttore di scottature specie sui geloni;
GREVIU: oggi 'ntipaticu (greve);
GRAMUSCIU (cucciolo, specie di gatto, che a sua
volta viene chiamato "musciu" o “musciddru");
MARGAGLIUNI: ora Zappuni: zappa larga e
piatta usata con gran fatica dai vecchi contadini:
Leonardo Sciascia con amara ironia e molta
compassione parlava ne "Le parrocchie dei
Regalpetra" di contadini abbrutiti da un uso
smodato dello zappone);
MATTULA: oggi cuttuni, cotone idrofilo;
MISCIASCIU: rammollito;
MUCCATURI: (dal francese muchoir: fazzoletto);
il termine è usato pari pari nel dialetto calabrese;
MMALLITTU: crasi di "malidittu"
NCIURPU: questo è veramente di difficilissima
etimologia: sta per chi ha la testa per aria;
NUTRICU: (da nutrire: equivale all'altro termine
antico "ADDREVU”: da allevare: il primo sta più
neonato, l'altro per bambino);
PILACCHIU: parassita del grano (nero e segnato a
metà; viene chiamato scherzosamente così il
cravattino nero a farfalla);
PUMUDAMURI: Pumadoru (pomodoro)
(bello quel "pomo d'amore");
PUDDRU: puledro - Puddriddru = puledrino
(specie dell'asino); si abbrevia così scherzosamente
il nome di Leopoldo;
PRIVENNA: dal latino Praebenda = ciò che si deve
dare, ciò che si percepisce; si dice della quantità di
nutrimento che spetta alle bestie da soma, e stava
in genere per Paga;
SANZIZZA:
(più
borghesemente
Sosizza)
salsiccia;
SPLAPITU: (la usa molto Camilleri) slavato pallido;
TANNURA(oggi Cufilaru) dall'orientale TANDUR
stava per il fornello a legna o a carbone, sia in casa
che all'aperto; più specificamente stava per l'attuale
Furnacella, una grossa latta da olio aperta sopra e
con una apertura a forma d'arco in basso per
introdurvi il carbone (una specie di fornello
trasportabile);
TRANTI: (tiranti) sta per bretelle;
TRABELI: tovaglia da tavolo (anche qui chissà da
dove viene!); e, per finire (mi piace molto!):
VINCIUDDRU: (prepotente, che vuole vincere ad
ogni costo).
Spero comunque che questo "finire" non sia
"definitivo" e che ci sia una prossima volta.
Enzo Motta
La differenza tra ricchi e
poveri nella nostra società,
in qualche modo si
rispecchia anche nelle
librerie.
Così il libro della piccola e
quindi povera casa editrice,
anche se più importante di
tanti libri di grosse case
editrici, è destinato a
nascere nell'ombra e a morire nell'ombra.
Il direttore della libreria Borri Book di Roma
Termini,forse impietosito per il destino dei libri
poveri meritevoli, ha avuto il coraggio di mettere in
vetrina, accanto ai volumi su Papa Francesco, un
libro religioso "povero" ma controcorrente che non
cito, giacché tv e carta stampata di norma seguono
la regola dei librai.
Dice cose nuove, forse discutibilissime ma nuove,
originali.
Dei primi si stanno vendendo milioni di copie, del
secondo si venderà qualche copia in più nella
libreria del direttore pietoso e coraggioso, ma il suo
destino è segnato.
Perché non ha citato il libro della piccola casa
editrice che stava accanto ai libri di successo su
Papa Francesco delle grandi case editrici?
Che tipo di censura le è scattata, per non indicare il
nome dell'autore e il titolo?
Per quel che vale questa pagina, una citazione
avrebbe potuto aiutare la segnalazione di quel libro,
e la vendita di qualche copia.
5
Se denunciamo le storture di un sistema e poi non
aiutiamo a correggerle, ci limitiamo a sfogare i
nostri sentimenti senza che nulla cambi.
Da parte mia non ho il minimo dubbio che le
piccole case editrici spesso pubblicano libri più
interessanti e significativi di quelli delle grandi case
editrici.
E questo perché le grandi case editrici, e di
conseguenza anche i librai, per stare in piedi devono
seguire le leggi del mercato dove ciò che conta è la
notorietà dell'autore, di solito veicolato dalla
televisione, o il titolo ammiccante capace di
sollecitare i bassifondi della nostra anima, più di
quanto non conti l'originalità del contenuto o la
forza delle idee.
Oggi il mercato è vissuto da tutti, e in modo del
tutto acritico, come se fosse una legge di natura.
Ed è questa la ragione per cui Marx ebbe a scrivere:
«Per il capitalismo, attento solo al denaro, un
mercato di libri non differisce da un mercato di
bestiame».
Se non per il fatto - aggiungo io - che il libro,
rispetto al bestiame, è una merce più povera.
Ma chi, come lei, al valore mercantile preferisce il
valore delle idee, giustamente ritiene che il mercato
dei libri conservi una sua peculiarità, della quale i
librai dovrebbero tener conto, evitando di
assimilarsi ai commessi del supermercato e di
perdere così di vista ciò che essi veicolano con la
loro "merce".
Cose facili e nobili a dirsi, ma difficili da sostenersi,
in un'economia di mercato assetata più di novità che
di nuove idee.
Questa è la ragione per cui oggi, nella nostra società
che ha velocizzato il tempo, la vita di un libro,
anche di successo, non oltrepassa i tre mesi, dopo di
che il libro incomincia a pesare sugli affitti dei
magazzini che accumulano l'invenduto in attesa del
macero.
E al macero, insieme ai libri, se ne vanno anche le
idee, che oggi non sembra siano le cose più
ricercate, se è vero che solo nell'anno appena
trascorso il mercato dei libri ha registrato un calo
del 30%.
In una situazione del genere che cosa possiamo
obbiettare alle case editrici e di conseguenza alle
librerie che riempiono le loro vetrine con una serie
di copie tutte uguali dell'ultimo best-seller
(espressione che serve in genere a segnalare quali
sono i peggiori libri in circolazione), se il problema
è di stare sul mercato, fuori dal quale non si
diffondono neanche le idee?
Così la cultura, già collassata nella scuola, collassa
anche nell'editoria e, per colpa del degrado
progressivo della nostra scuola che non ha
incuriosito né invogliato i ragazzi a leggere, oggi
sono considerati "lettori forti" quelli che leggono
almeno quattro libri all'anno.
Ma così la cultura degrada, e il suo degrado
determina due conseguenze pericolose: la prima è
che un popolo incolto, e per giunta con un
linguaggio afasico e stentato a cui si aggiunge un
analfabetismo di ritorno, con qualche maggiore
difficoltà può uscire dalla crisi che ci attanaglia.
La seconda è che, siccome "guardare" è più facile
che "leggere", si consegna la cultura per intero alla
televisione e ai personaggi che vi compaiono,
capaci di suggestionare e determinare le scelte non
solo politiche, ma anche gli stili di vita appresi per
imitazione, senza che un minimo di vaglio critico ci
trattenga dal rinunciare a essere noi stessi con le
nostre idee.
Caronda, mitico legislatore di Catania del VI secolo
a.C., disse: «La libertà viene da un libro».
Per questo il calo dei lettori getta un'ombra
pericolosa sul nostro futuro. AMATE I LIBRI:
Chi non legge non sa niente.
Umberto Galimberti
per gentile concessione di Repubblica Donna
« Caronda, Antichissimo legislatore d'Italia istituiva
in questa sua città nel settimo secolo avanti Cristo il
primo celebrato ginnasio condotto da uomini liberi a
spese dello Stato poche leggi dava e molte norme di
pubblico e privato costume alla Sicilia e alla Magna
Grecia e santificandole con l'esempio meritava gloria
immortale qual fondatore austerissimo di civiltà. »
(Epigrafe di Mario Rapisardi all'ingresso dell'Anfiteatro romano di
Catania.)
Χαρώνδας Catania, VI secolo a.C.
6
Tra Storia, Turismo e Commedia
Quella gita galeotta
che più galeotta non poteva essere.
Più avvocati, medici, notai, magistrati e meno
ingegneri, biologi, chimici.
Il liceo classico fu attivato alla fine degli anni 40’
nato dalla collaborazione tra l'avvocato di Bivona
Edmondo Trizzino, il ministro della Pubblica
Istruzione Guido Gonella e l'avvocato bresciano
Ludovico Montini, fratello di Giovanni Battista
Montini, futuro papa Paolo VI. Il liceo-ginnasio
statale di Bivona, intitolato a Luigi Pirandello,
ottenne l'autonomia il 18 marzo 1953; alla fine degli
anni 70’ fu istituito l'istituto tecnico commerciale.
Negli anni 90’ si aggiunsero nuovi corsi liceali tra
cui il bio-socio-sanitario, unico in Sicilia, sostituito
nel 2011 dal nuovo indirizzo socio-sanitario
articolato tra "ottico" e "odontotecnico”. L 'istituto
di istruzione secondaria superiore "Lorenzo
Panepinto", invece, presenta gli indirizzi di
istruzione tecnica (settore economico e tecnologico)
e professionale (settore dei servizi per
l'enogastronomia e l'ospitalità alberghiera e settore
industria e artigianato, con sede nel comune
limitrofo di Cianciana.
Bivona è sede decentrata dell'Università degli Studi
di Palermo: per i corsi di laurea in scienze forestali
e ambientali della facoltà di agraria lo è stata dal
1991 al 2001;ospita tuttora il corso di laurea in
tecniche erboristiche della facoltà di farmacia,
sebbene dall'anno accademico 2004/2005 siano
state chiuse le immatricolazioni, e pertanto a breve
non sarà più attivo.
Il corso, che dipende logisticamente dal consorzio
universitario della provincia di Agrigento, si tiene
in una struttura sita nel comune limitrofo di Santo
Stefano Quisquina, priva di strutture di sostegno.
A febbraio 2013 si sono aperte le celebrazioni per il
150° del Regio Ginnasio di Bivona, il Liceo "Luigi
Pirandello”.
Per celebrarlo degnamente si vuole fare una bella
gita.
Il preside di ruolo professor Salemi, si dimette per
incompatibilità ambientale e chiede il trasferimento
in un’ altra sede. Aveva tutti i colleghi contro sia
per il modo autoritario con cui conduceva la scuola,
sia per metodi troppo restrittivi nella valutazione
degli studenti in sede di scrutinio: fosse stato per lui
ne avrebbe bocciato più della metà.
Il Provveditore agli Studi di Agrigento, in attesa del
concorso, nomina preside facente funzione il
professor Campo, professore di scienze naturali.
Campo è un esempio di democraticità. Dimostra
una grande disponibilità nel dare i voti.
Il 6 politico non lo nega a nessuno.
Se uno sa un pochino gli dà 7. Se sa un pochino di
più 8. Se sa quasi tutto 9. Se sa tutto 10.
di Lorenzo Turturici da Caltabellottà,
già notaio in Saluzzo
Bivona conta attualmente 3881 abitanti, meno di
quanto ne contasse nel 1951 (oltre 5.500), poco più
del 1861, anno dell’ Unità d’ Italia ( 3.500), a causa
della emigrazione di massa del dopo guerra.
Dista circa 60 km dal capoluogo di provincia
Agrigento e circa 90 da Palermo. Eppure è uno dei
centri scolastici più importanti della Sicilia.
Ma la spiegazione c’è. La comunità ebraica prima e
la Compagnia di Gesù con la loro presenza
assicurano a Bivona un processo continuo di
crescita culturale già a partire dal XVI secolo.
Nel 1767 i gesuiti furono espulsi dalla Sicilia.
La presenza di ben quattro conventi fu la fortuna di
questo paese.
Così il sistema scolastico, qualche anno dopo, fu
gestito direttamente dal governo borbonico, che
istituì una scuola in ciascuno dei conventi dell'
Isola.
La spiegazione potrebbe essere anche un’ altra. Dal
1860 al 1927 Bivona fu uno dei circondari in cui
era divisa la provincia italiana di Girgenti( Girgenti,
Bivona e Sciacca) che comprendeva tredici comuni,
raggruppati in cinque mandamenti, e ricalcava il
territorio dell' omonimo e precedente distretto
borbonico costituito nel 1812 nel regno delle Due
Sicilie, quando in Sicilia venne abolita la feudalità.
Distretto che visse una fase di decadenza negli anni
sessanta dell'Ottocento, gli anni del periodo post
unitario, seguita da una parziale ricrescita nel
decennio successivo. Fu abolito nel 1927, anno in
cui il capoluogo di provincia fu ribattezzato
Agrigento. Capoluogo del circondario era il comune
di Bivona già a capo del distretto grazie alla
costituzione siciliana del 1812, che ne valorizzò le
antiche origini, la favorevole posizione geografica
nell'ambito della circoscrizione, i titoli ricevuti.
Bivona fu la prima città ducale di Sicilia e la sua
tradizione scolastica fu favorita dall’ esistenza del
collegio dei Gesuiti.
Sotto i Savoia a Bivona fu istituito un ginnasio, con
decreto di Garibaldi, nel 1860.
L 'apertura si ebbe però solo il 9 febbraio 1863,
risultando forse il più antico dell’ isola.
Nel periodo fascista l' istituto fu sostituito da un
istituto tecnico, intitolato a Francesco Crispi nativo
della vicina Ribera, in cui veniva insegnato anche il
latino. (In Sicilia gli studi classici sono privilegiati
rispetto a quelli scientifici.)
7
Qualche giorno dopo Pasqua, verso la fine della
lezione, annuncia agli allievi che intende fare una
bella gita per festeggiare i 150 anni di esistenza
della scuola e vuole che decidano loro dove andare.
Gli studenti si riuniscono varie volte, in un’ aula
appositamente concessa dal preside.
In Sicilia la cultura si taglia a fette, in quasi tutte le
città c’ è un teatro greco o romano, un sito
archeologico, una torre, un castello arabo o
normanno.
Chi vuole andare a Selinunte, Segesta ed Erice.
Chi alla Scala dei Turchi per poi visitare la casa
natale di Pirandello a Porto Empedocle e la Valle
dei Templi, ma gli altri obbiettano che questi ultimi
posti sono così vicini che non c’è bisogno di una
gita di più giorni per visitarli.
Altri sono per Ragusa, capitale del barocco.
Altri ancora per Siracusa o Piazza Armerina con il
suo Casale.
Vista l’ impossibilità di trovare un accordo vanno
dal professor Campo dicendo che scelga lui perché
loro non trovano un luogo condiviso dove andare.
Sottoposta la questione al collegio dei professori,
questi ultimi non ci provano nemmeno, dicendo che
il preside era lui e che ci pensasse lui. Su una cosa
sola erano d’accordo: a quella gita nessuno voleva
mancare. Campo, senza neppure profferir verbo,
prepara una circolare e la fa distribuire dal bidello
ad alunni e professori. La gita si farà da lunedì 13 a
sabato 18 maggio, con partenza in pullman alle 8,
30 del mattino davanti alla scuola. La prima ad
arrivare è la professoressa Camilleri, insegnante di
latino e greco accompagnata dal marito in macchina
e prima di partire viene nominata capo gita.
Segue il professor Alaimo, professore di storia e
filosofia accompagnato dalla moglie a piedi.
Poi la professoressa Lombardo, professoressa di
matematica e fisica, il professor Catania, che
insegna italiano, Nicolosi, professore di Storia dell’
Arte. E poi quella di scienze, Padre Gesualdo che
insegna religione e infine la professoressa Ficarotta
di Corleone, insegnante di educazione fisica. Anche
gli allievi sono tutti presenti. Partenza per Palermo
via Santo Stefano Quisquina. Fermate non ne sono
previste: tanto in meno di un’ ora si arriva.
Il preside aveva prenotato all’ Hotel delle Palme in
via Roma, a due passi da via Cavour, teatro
Massimo, via Ruggero Settimo: il cuore pulsante di
Palermo.
Dopo che il portinaio ha assegnato le camere e
dopo aver scaricato le valige, essersi accomodati sui
divani della hall ed aver commentato il viaggio,
entrano nel ristorante per il pranzo.
Intanto per tutto il viaggio sul pullman e durante il
pranzo la professoressa Camilleri ed il professor
Alaimo vengono notati seduti stretti stretti, fianco a
fianco. Nel pranzo non eccedono dovendo nel
pomeriggio iniziare le visite.
Avendo tutto il pomeriggio a disposizione, su
indicazione della capo gita, si fanno portare col
pullman a Monreale. Visita al Duomo e all’ annesso
chiostro a pianta quadrata addossato al lato
meridionale del duomo.
Gli archi ogivali poggiati su colonne binate e aperte
sul giardino del convento.
Perfetta corrispondenza fra i quattro lati, ciascuno
con 26 archi in sequenza. L'equilibrio dello spazio
viene ribadito e impreziosito dal chiostrino della
fontana, anch'esso quadrato, che sporge verso
l'interno del chiostro nell'angolo Sud-Occidentale.
Luogo ideale, secondo i due, per tentare ciò che
avevano architettato
prima della partenza: la
professoressa Camilleri appoggiata ad colonna si
bacia con il professor Alaimo. Totò dice alla sua
vicina Giusy
“ Ma non sono tutti e due sposati?”.
“ E che c’è di male, risponde Giusy, anch’io sono
fidanzata, ma se capita, mi bacio ben volentieri
con un altro”.
Salvatore capisce la provocazione ma, per il
momento, non abbocca.
Ritornati a Palermo, dopo una passeggiata per le
vie della città, vanno in un ristorante di
Sferracavallo per la cena.
Sul lungo mare vi sono i venditori di polipo
fumante e mangiano il polipo di scoglio bollito che
serve da antipasto.
Al ristorante passano subito dal primo: spaghetti al
nero di seppia, agli involtini di pesce spada, sarde a
beccafico con contorno di caponata, cannoli o
cassata.
Sul lungo mare al ritorno Giusy salta addosso a
Totò e questa volta Totò non può fare a meno di
accontentarla. Le occasioni arrivano una volta sola.
Palermo è talmente bella che c’ è l’ imbarazzo della
scelta di cosa visitare. Il 14 maggio sera al teatro
Massimo c’è una serata in omaggio a Giuseppe
Verdi e vanno a teatro, quasi tutti.
La professoressa di matematica e fisica Antonietta
Lombardo, approfittando del buio, si bacia con
l’allievo Nino, così si scoprono gli altarini.
Antonietta è giovane. E’ al secondo anno di
insegnamento, tra lei e Nino non vi è molta
differenza di età. Chissà se un giorno non possano
sbocciare fiori di arancio.
Il mercoledì visitano la cattedrale ed il vicino
Palazzo dei Normanni dove vi sono gli uffici della
Regione. Lì davanti vi sono alcuni operai senza
lavoro che protestano contro gli alti stipendi dei
dipendenti regionali.
8
Dentro il palazzo visitano la Cappella Palatina in
tutto il suo splendore ed il Palazzo Reale.
Il giovedì lo passano a girare la città di Palermo da
una parte all’ altra: villa Giulia, il giardino botanico,
il Foro Italico, il porto, i cantieri navali e il vicino
carcere dell’ Ucciardone, davanti al quale c’ è
Pannella che protesta contro il sovraffollamento
delle carceri. Il pomeriggio al mercato della
Vucciria e alla vicina chiesa di San Domenico.
La sera volevano andare a mangiare allo storico
ristorante Shangai, sulla piazzetta della Vucciria,
ma purtroppo non lo trovano più: un paio di anni fa
ha chiuso ed ora è stato smantellato.
Era qualcosa di davvero unico: un appartamento,
forse due, da cui erano stati ricavati una sala e la
cucina e soprattutto la terrazzina affacciata su una
delle due piazze della Vucciria. Da lassù lo
spettacolo era incredibile: si sentivano le
abbanniate dei venditori.
Poi scendono verso piazza Marina. In Cina il tempo
delle mele arriva tardi: la bella cinesina Annachi,
che studia al liceo di Bivona, prende una cotta per il
suo compagno di scuola Angelino, lo trascina su
un’ aiuola e lo bacia. Angelino rimane sorpreso.
Chissà come se la prenderà la sua fidanzata al
ritorno, se mai lo verrà a sapere.
E siamo arrivati al venerdì. Mancavano ancora
molte cose, ma non tutto in pochi giorni si può
visitare di Palermo.
Fanno a piedi il tratto che divide il teatro Massimo
da Piazza Politeama attraverso la elegantissima via
Ruggero Settimo dove qualche ragazza si compra la
borsetta.
Poi la facciata del Politeama con i suoi cavalli,
viale della Libertà, i giardini inglesi.
La sera tutti a cena in un ristorante di via Principe
di Belmonte. Ce n’è per tutti i gusti: cucina tipica
siciliana. Antipasto di arancinette, pasta al sugo e
pomodorini di Pachino, triglie fritte, una bella
cassata alla siciliana con la scritta della scuola e l’
anno 2013.
La professoressa Camilleri, per farsi perdonare le
scappatelle offre un brindisi: champagne e passito
di Pantelleria ed il professor Alaimo, suo complice,
l’aiuta a pagare.
Il sabato il malinconico ritorno.
Non rimane che il ricordo. In fondo le gite
scolastiche servono per questo.
La mente sgombera, senza dover prepararsi per l’
interrogazione dell’ indomani, senza dover
preparare la lezione da spiegare.
Nelle gite scolastiche sbocciano fiori di arancio, fior
di loto ( simbolo della bellezza) e rose rosa.
Caltabellotta: I segni di Santa Marta
All’interno della Cattedrale di Caltabellotta, è
collocata, nella Cappella della “Madonna della
Catena” del Ferraro, la statua della Santa con ai
piedi un cane (Mars Grabovius era un Dio romano
che soleva trasformarsi in cane o in quercia per dare
dei responsi).
Dal mito dell’Oracolo di Delfi agli odierni oroscopi,
l’usanza di chiedere responsi il giorno di Santa
Marta, è arrivata fino a giorni nostri, grazie alla
grande tradizione del popolo caltabellottese.
La lettura dei segni è effettuata ogni martedì.
Le interrogazioni sono tante.
Chi vuole conoscere la fertilità di una donna, come
andrà la giornata, o che fine abbia fatto un parente,
o se avremo dei guadagni o no, basta affacciarsi la
mattina e vedere se passa qualche chioccia con la
propria covata, oppure una donna con prole, o dei
ragazzi e così via.
Nel periodo delle due grandi guerre, bastava
affacciarsi sul costone della rupe “Gogala” e porre
una domanda diretta al proprio congiunto e se si
sentiva la risposta.
Il parente lontano era vivo, o dava l’annuncio del
suo imminente arrivo.
Oggi vi sono i
telefoni cellulari e
quant’altro, ma in
ogni modo tante
persone guardano
ancora ai segni
premonitori,
riconoscendo in
questi molta
veridicità.
Lorenzo Turturici.
Lorenzo Turturici
9
Foto del nostro Filippo Giusto
a Bamberga in Baviera
La
vena poetica di Francesco Sisca non si
inaridisce col passare degli anni, ma si affina, si
interiorizza.
Nell'ultima silloge,”Sfogliando di sera….” che ha
dedicato a noi, a testimonianza della sua amicizia,
prevalgono i sentimenti familiari, le nostalgie,
l'amore per la sua Calabria, il commosso ricordo del
fratello Antonio (nostro decano) da poco
scomparso, e, soprattutto, il senso religioso della
vita e il dialogo con Dio.
Lo stile, come sempre, è semplice, atto a toccare
con immediatezza la sensibilità del lettore.
Presentiamo qui una poesia ispiratagli dal ritorno
nella natia Filadelfia, dopo più di quaranta anni di
insegnamento.
Enzo Motta
dalla raccolta Sfogliando di sera…
Di ritorno al mio paese, Filadelfia
Nella terra dove nacqui
Aspetto il giorno fatale serenamente.
Con me una donna di cuore
Premurosa ed affettuosa
Riesce a lenire i travagli
Della tarda età.
Per le vie del paese,
oh! Quante strette di mano
salutano il mio ritorno!
Quanti vecchi amici
mi ridestano gli anni felici
della mia fanciullezza.
Il Municipio di Bamberga
Le campane di cara memoria
Suonano come allora
ed io rivedo mia mamma immobile
a pregare sommessamente:
“Gesù mio sia fatta la Tua volontà”.
Purtroppo mi manca una voce cara
ed io invano origlio
nel chiuso della porta accanto.
Mio fratello Antonio
non c’è più a rimirar
i nostri panorami divini,
ad ascoltare il sinfonico canto
dei voli al dolce sole estivo.
Interno del Duomo di Bamberga
Il cavaliere
La statua è stata scolpita probabilmente dopo il
1225 e prima del 1237 (anno della consacrazione
della cattedrale).
Ora sulla terrazza solo e afflitto
corro e vado lontano
per fermare il verde
del nostro tempo felice.
10
Andrea Camilleri
Ogni mattina qui è la stessa storia: mi trascino giù
aggiunge alla sua
collana "storica" una
perla che mi riguarda
personalmente.
"La Banda Sacco" è un
western siciliano vero
che si svolge nel
territorio di Raffadali (il
mio paese) a cavallo tra
il 1800 e il 1900.
dal letto, sciolgo la mia lunga treccia scura e chiudo
le tende della finestra di casa….
Poi vado in cucina e fisso il pavimento per un paio
di minuti, sobbalzando ad ogni rumore che proviene
dall’esterno e pregando che non sia mai abbastanza
vicino. La mia domanda è sempre la stessa; ma
anziché immaginarne la risposta, fantastico su come
potrebbe essere la mia vita se quella domanda non
dovesse esserci affatto.
Se fossi ricca, penso, avrei così tante case da non
dovere essere costretta a vivere nella stessa per più
di un anno. Mi piacerebbe, inoltre, imparare a
guidare l’automobile.
Qui non ne ho mai avuto l’opportunità e anche se
ho solo sedici anni, so che non potrò mai averla.
Mi alzo dalla sedia perché, come direbbe mio padre,
pensare troppo può farmi male.
Così preparo una tazza di tè, mentre aspetto con
ansia che i miei fratelli tornino a casa.
Poi un altro rumore prorompe fuori della finestra e
la tazza bollente che tenevo in mano si frantuma per
terra, bagnando tutto il tappeto. “Ottimo” penso.
Ma almeno ho trovato qualcosa da fare e per un
attimo riesco persino a dimenticare dove mi trovo.
Raccolgo i pezzi e provo ad asciugare il tappeto, ma
risulta un’impresa levare la macchia che si è creata.
Quando non devo occuparmi della casa e dei miei
fratelli, adoro studiare i libri di storia di mio padre.
Anche se non mi è permesso leggerli, ogni mattina
ne approfitto, essendo sola in casa, per prenderne
uno dallo scaffale e sfogliarlo con cura.
La storia dell’antica Grecia è la mia preferita: più e
più volte ho letto di filosofi e astronomi greci che
con i loro studi hanno posto le basi per le credenze
moderne.
Ma la storia più affascinante è quella di Ipazia
d’Alessandria, una donna che non ha mai temuto di
mettere a confronto le sue idee con quelle dei grandi
uomini del tempo: e con che coraggio camminava a
testa alta per la città, nonostante conoscesse i
giudizi della gente!
Ed eccola di nuovo qui: la domanda che mi
bombarda il cervello, senza lasciarmi in pace.
Quella stupida domanda che mi fa venire voglia di
urlare, di rompere qualcosa o addirittura di uscire di
casa. Ma che dico? Sarebbe solo una follia.
Così chiudo il libro con un gesto deciso e lo poso
nuovamente sullo scaffale a cui appartiene.
Poi mi guardo allo specchio: una ciocca di capelli
fuoriesce dal mio velo e so che se mia madre fosse
qui mi direbbe, a differenza di mio padre, di
lasciarla stare.
Ma faccio ciò che è giusto per mio padre e la
rimetto dentro; d’altronde se anche mia madre gli
E' la storia unica di un gruppo familiare di
galantuomini che non si vogliono piegare alla
mafia, e sostenuti dagli onesti borghesi di Raffadali
la combattono con i suoi stessi metodi, il che li
costringe a darsi alla macchia, incorrendo nelle ire
di Cesare Mori, il "Prefetto di Ferro", che li arresta
e li fa condannare a gravi pene, detenendo nel
contempo per periodi più o meno lunghi i loro
sostenitori più autorevoli.
Una storia che ha coinvolto miei parenti e amici di
famiglia e che mi è stata raccontata, quando ero
ragazzo, da Vincenzo Sacco che, uscito dal carcere
prima degli altri fratelli veniva a fare "rimunna"
(potatura degli alberi) a Modaccamo, la campagna
del mio nonno materno che era uno dei loro
sostenitori (l'unico che non era stato arrestato
perché Console della Milizia Fascista oltreché
Colonnello dei Bersaglieri e invalido di guerra).
Camilleri ha raccolto la testimonianza di un figlio di
Gerolamo Sacco, (che gli ha chiesto di risvegliare
questa storia), e ha riscritto la vicenda da par suo
(anche se la ricostruzione "politica" è forse un po’
troppo sottolineata) facendone un piccolo prezioso
capolavoro che rende un po’ di giustizia alla storia
del mio paese.
Enzo Motta
11
avesse dato ascolto, forse sarebbe ancora qui e forse
non sarebbe stata lapidata in pubblico.
Un altro rumore violento mi riporta al presente, e
questa volta so che è più vicino.
Poi sento qualcuno buttare giù la porta di ingresso e
le mie ginocchia iniziano a farsi sempre più deboli
fino a perdere completamente l’abilità di reggermi
in piedi. Crollo per terra stanca e arresa alla realtà in
cui vivo.
Prima di scomparire per sempre, mi torna in mente
quella domanda con cui mi sveglio al mattino e con
cui sono costretta ad addormentarmi la sera, e
penso: quanto diversa sarebbe la mia vita se non
fosse toccato proprio a me di nascere qui, in Iran ?
fa fotografare durante la processione insieme ai
componenti della confraternita e accanto al
simulacro del Santo, indossando un vestito poco
adatto alla circostanza e una maschera di “Barbie”.
Il decoro religioso raggiunge il suo limite nel
momento in cui la giovane e avvenente soubrette
decide (evidentemente con la disponibilità e l’aiuto
dei confrati) di salire sulla “vara” (in Sicilia il
cosiddetto “carro” usato per portare in processione
il simulacro del santo), e seduta ai piedi di san
Calogero, a gambe incrociate, abbraccia il santo
della sua terra natia, mentre la banda musicale
intona un’allegra canzonetta.
“E’ stata un’esperienza adrenalinica salire sulla vara
di San Calogero, documenterò tutto con foto e
video – annuncia Clizia Incorvaia al Giornale di
Sicilia – sul mio sito”, mentre la Chiesa
Empedoclina, con i suoi sacerdoti ed i fedeli tutti
prende le distanze dall’increscioso episodio.
“La festa di San Calogero – si legge nel Giornale di
Sicilia – non è folklore ma espressione di religiosità
popolare.
Pertanto abbiamo il dovere di salvaguardare la festa
da deviazioni pagane e volgari che possano
stravolgere la genuinità del culto a San Calogero.
Noi parroci ci riserviamo di incontrare i rispettivi
organismi parrocchiali al fine di discutere ed
approfondire l'accaduto.
Non si escludono decisioni e provvedimenti drastici
che riguardino i futuri festeggiamenti in onore di
San Calogero”.
Clizia Incorvaia a tal proposito riferisce:
“Sono credente, cattolica da sempre. Non trovo
nessuna volgarità nel documentare la festa del mio
santo protettore e volergli dare un respiro
internazionale attraverso il mio blog di moda… La
volgarità spesso sta negli occhi di chi guarda e di
chi ha la coda di paglia. Non è mio costume
emettere giudizi ma in questa sede… vi dirò che
trovo volgare la gente che va alle processioni e
bestemmia lì, trovo volgare la gente che si spaccia
per cristiano e non porge l'altra guancia, che non è
solidale, che vive di sotterfugi, di vigliaccheria, di
disonestà. Là dove come in questo caso c’è purezza
d’animo, che ben venga!”
Forse una maggiore attenzione da parte degli
organizzatori avrebbe potuto impedire l’episodio.
“Concludo – afferma infine Clizia Incorvaia –
dicendo che non voglio che vengano coinvolti nella
vicenda terzi come gli organizzatori della festa di
San Calogero. La festa è da preservare e non da
ostacolare”. Ora si attende di conoscere le eventuali
decisioni di Francesco Montenegro, Arcivescovo di
Agrigento, in merito a quanto accaduto
di Aurora D’Amico
per gentile concessione de
“Il Vesprino”
In
una festa patronale, alcuni episodi profani
mettono in imbarazzo vescovo, sacerdoti e fedeli.
E’ accaduto a Porto Empedocle, un comune
siciliano appartenente al territorio diocesano di
Agrigento, nel corso dei tradizionali festeggiamenti
in onore di san Calogero, il dotto eremita di colore,
rinomato guaritore, venerato in molti paesi della
provincia agrigentina.
Durante la processione del Santo eremita, Clizia
Incorvaia, – la modella, soubrette e recentemente
anche attrice, protagonista di un sensuale servizio
fotografico pubblicato dal magazine Fox Uomo – si
5 sett.2013
12
(Giornale di Sicilia).
A commento, abbiamo recuperato nella penna di
Andrea Camilleri da "Il corso delle cose", il primo
romanzo di Andrea Camilleri,edito da Lalli nel
1978, e poi da Sellerio nel 1998.
pagg. 115/121
Il parroco, che durante quel pomeriggio, sotto le
occhiate di S. E., era invecchiato a vista, tentò di
spiegargli che evidentemente il santo non se la
sentiva di tornare in chiesa, che tanto usciva una
volta all'anno, e si vede che gli era venuto desiderio
di fare un altro giretto sul molo.
Del resto quello era un fatto non tradizionale, per
amor del cielo!, ma che di tanto in tanto succedeva.
S. E., fuori dalla grazia di Dio, prese a chiamare con
tutto il suo fiato i carabinieri e questi, con le buone
e con le cattive, riuscirono a convincere il santo a
tornarsene in chiesa.
Il giorno dopo S. E. fece sapere che da quel
momento in poi i comunisti non avrebbero più
dovuto portare la vara, che il pane non doveva più
essere buttato dai balconi, che le offerte in denaro
era meglio consegnarle personalmente al parroco e
che appena vedeva che qualcuno faceva bere un
goccio di vino a San Calogero faceva scomunicare
l'intero paese.
Fu così che cominciò la lunga guerra fra i fedeli di
San Calogero e S. E. Rufino.
E macari quando questo finì col ripensarci, dopo
qualche tempo, sugli usi e i costumi dei siciliani,
proclamando soprattutto a destra e a manca che la
mafia era una maligna invenzione dei giornali del
nord, su di una cosa non volle sentire ragioni e cioè
che un santo, in quanto tale, fosse oggetto di
costumanze tanto pagane.
Si raggiunse però un accordo: il santo, prima di
essere fatto volare dai gradini, veniva dai preti
declassato a comune mortale, gli levavano la spera
dalla testa e non lo accompagnavano per il paese.
La vera processione, quella riconosciuta dal
vescovo, avveniva la sera, quando, di ritorno dai
suoi ultimi giretti sul molo, al santo veniva di nuovo
messa in testa la spera: ma la voce popolare diceva
che di quella processione serale, tanto composta,
con dietro solo qualche vecchio e le signore civili,
San Calogero si stufava fino alle lagrime.
All'una in punto le porte si aprirono e il santo uscì.
Nel 1946, durante la prima domenica di settembre la festa di San Calogero cadeva sempre quel
giorno…
Intanto, mentre la processione lasciava le vie del
centro, dove abitavano le persone civili, per andare
verso i vicoli di periferia - sempre a passo di carica,
dopo ore e ore di faticata, e ancora le madri
dovevano scansare i figli piccoli per non farli
travolgere - il santo cominciava a fare le sue
spettacolose acrobazie per entrare in certe stradette
strettissime, si metteva di traverso, di tre quarti,
sottosopra, ma comunque finiva per passare dove
c'era qualche malato che ne aspettava con ansia
l'arrivata.
E via via che la vara penetrava verso le strade dei
poveri - chiamate per disperazione dagli stessi
abitanti con nomi dolcissimi, vicolo del miele, salita
dello zucchero, piazzetta del paradiso, - si
appesantiva di grappoli di bambini, bambini
sordomuti, bambini rognosi, bambini con gli occhi
pisciati, bambini con la guàllara.
Ma le già forti sofferenze di S. E. erano destinate,
verso sera, ad aumentare.
Un reparto di soldati negri, che gli americani
avevano lasciato a guardia non si sa di che cosa,
appena in libera uscita tutt'insieme si fecero largo
nella processione. A vedere un santo con lo stesso
colore della loro pelle, i negri impazzirono di colpo.
Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre
davanti ai preti sparando in aria, uno si mise a
suonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o
cinque, a modo loro, i tamburi, gli altri pigliarono a
fare fantasia, ballando e cantando, dopo avere
coperto i nastri di dollari.
A un certo momento domandarono macari di poter
portare la vara, e gli scaricatori non si fecero
pregare, forse perché il dispiacere di dover
tanticchia lasciare il santo venne prontamente
compensato con buona moneta degli stati.
Quando i portatori, momentaneamente liberi, si
strinsero attorno a S. E., acclamandolo, questi si
accorse, con terrore, che tutti indistintamente
portavano appuntato sulla camicia grigia di sudore
il distintivo del partito comunista.
Poi ci fu lo scandalo finale.
Al tramonto, al momento di rientrare in chiesa per
la solenne funzione serale, S. E., che aspettava
l'arrivata in piedi davanti alle porte, vide con
stupore la processione fare tutt'insieme dietro front
e sparire dietro l'angolo.
Qualche anno fa , la
statua del Santo che
vedete ora
restaurata,
a causa di un troppo
affettuoso abbraccio
dei suoi fedeli, perse
il dito indice della
mano destra, con un
effetto non proprio
benedicente.
13
varie opere ispirate a questa sua esperienza in terra
piemontese. Ricordiamo, in ordine cronologico, le
novelle Gioventù e La Messa di quest’anno, il
romanzo Suo marito, dove Coazze compare con lo
pseudonimo di Cargiore.
Pirandello venne a Coazze perché la sorella Lina
che viveva dal 1897 a Torino (e vi resterà fino al
1902 quando il marito, ingegnere minerario dello
Stato, sarà trasferito a Massa Carrara), veniva a
Coazze in villeggiatura, e tutti sappiamo la
differenza tra un “tour” qualsiasi ed un viaggio
che abbia per meta un luogo dove trovi una casa e
persone amiche.
Egli avrebbe già voluto venire a Torino presso la
sorella per l’Esposizione Internazionale del 1898,
ma non gli era poi stato possibile.
Ma Pirandello aveva avuto rapporti con Torino sin
dall’adolescenza, se ricordiamo che il suo primo
scritto narrativo pubblicato fu l’elzevìro La
capannetta che comparve sulla “Gazzetta del
Popolo della domenica” del 1° giugno 1884, e se
ricordiamo che considerava, come modello per la
sua poesia, Arturo Graf, docente dell’Università di
Torino sin dal 1876, al quale,“come a Maestro”,
aveva inviato la sua prima raccolta poetica Mal
giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889.
Prima di arrivare al successo con Il fu Mattia
Pascal, Pirandello pubblicò i suoi lavori in case
editrici d’ogni parte d’Italia e, come si è detto, il
suo editore torinese fu Renzo Streglio presso il
quale pubblicò due collane di novelle: Quand’ero
matto nel 1902 (che comprende la novella Lumìe di
Sicilia), e nel 1904 Bianche e nere.
Renzo Streglio era un editore minore militante.
“Dalla sua casa editrice – scrive Enzo Bottasso,
uscirono, insieme a libri importanti per tener desta
la nostra tradizione letteraria, come la monografia
del Rinieri su Silvio Pellico o la ristampa dei Miei
tempi di Angelo Brofferio, novità di Giovanni
Cena, Enrico Thovez, Corrado Corradini, Edmondo
De Amicis, Francesco Pastonchi e Luigi Pirandello”
appunto.
Nel 1907 pubblicò La via del rifugio di Guido
Gozzano ed ancor prima, per tutto il 1905, fu
l’editore del settimanale letterario “Il Campo”,
“quasi travolto dalla tragica fine scelta per sé da
Giovanni Camerana” (di cui pubblicherà postumi,
nel 1907, i Versi). E’ proprio su “Il Campo” del 2
aprile 1905 che si dà notizia, per la prima volta,
d’un romanzo “umoristico” di Luigi Pirandello,
intitolato Suo marito.
Siamo nel 1924, Pirandello ormai aveva conquistato
il pubblico ed ogni sua prima rappresentazione era
un evento. E’ di quell’anno la commedia Ciascuno
a suo modo, che ricorda nel titolo il motto del
Le vacanze di Luigi Pirandello a Coazze
.. ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi
di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso il
ponte che ritiene per una pescaia l’impeto delle
acque che vi fremono irose: l’aria era di una
trasparenza meravigliosa ; tutte le cose in ombra
parevano smaltate in quella limpidezza; ed
io,guardando, mi sentii così ebro della mia libertà ,
che temetti quasi d’impazzire, di non potervi
resistere a lungo ...
Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, nella collana
“Tutti i romanzi” ed. Mondadori 1957, pag.342
Nell’estate del 2001 è stato celebrato il centenario
della villeggiatura di Luigi Pirandello a Coazze,
paese della Val Sangone in provincia di Torino.
Per la ricorrenza è uscita una pubblicazione (Album
di Coazze, per una scrupolosa ricostruzione di
questa villeggiatura fino allora misconosciuta nella
biografia pirandelliana.
In estrema sintesi Pirandello, giovane professore
trentaquattrenne, venne a Coazze in villeggiatura
con moglie e bambini nella tarda estate del 1901
(dal 23 agosto ai primi di ottobre) per raggiungere
la famiglia della sorella Lina, allora risiedente a
Torino, che come molte altre famiglie della
borghesia torinese trascorreva le vacanze estive in
questa apprezzata località montana.
Fu un soggiorno sereno per Pirandello ed anche
letterariamente fecondo perché ci ha lasciato il
cosiddetto Taccuino di Coazze, quadernetto di note
e appunti che servirono poi al nostro autore per
14
campanile di Coazze, Ognuno a suo modo, che
aveva tanto colpito Pirandello quando era venuto
nel paese in villeggiatura.
giorni prima della rappresentazione in Milano, che è
tutta una spassosa presa in giro del suo avversario,
ed anzi ne approfittò per creare ancora una volta un
magistrale gioco degli specchi tra finzione e realtà.
…il signor Domenico Lanza, mio feroce e
riveritissimo nemico, - scrive Pirandello - senza
aspettare che la mia nuova commedia fosse
rappresentata, non dico a Torino (dove pur sarà tra
una ventina di giorni) ma neppure a Milano, le
rovescia addosso sulla “Gazzetta del Popolo”
quattro colonne di vituperi. Dio mi guardi dal
volergliene male, ché anzi, gliene sono gratissimo.
Ed ecco perché. Nel primo degli intermezzi corali
della commedia sono introdotti anche i critici
drammatici a dare il loro parere sul primo atto di
essa… Ora, per osservare fino allo scrupolo questa
obiettività che mi sono proposta, mi par lecito
approfittare, come d’una fortunata congiuntura, del
giudizio preventivo che il sig. Domenico Lanza ha
voluto fare della mia commedia, e farò ripetere
questo suo giudizio in buon piemontese da uno di
quei critici drammatici … E il signor Domenico
Lanza , di qua a venti giorni, allorché la commedia
sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di
scriverne ancora sulla “Gazzetta del Popolo”…”.
Ciò che più colpisce, al di là del duello verbale tra i
due personaggi, sono le reazioni che seguirono alla
polemica.
La lettera di Pirandello sul “Corriere della sera”
provocò il risentimento dell’Associazione della
Stampa Subalpina, che fece pubblicare un ordine
del giorno del suo Consiglio direttivo dove
prendeva le difese di Domenico Lanza, autore di un
giudizio severo sì, ma, secondo loro, “espresso in
forma piena di dignità e di rispetto”, stigmatizzando
invece “la risposta acre e sarcastica” di Luigi
Pirandello; e deplorava “il fatto nuovo” che il
“grande giornale milanese” avesse ospitato, contro
“il buon costume giornalistico”, “le espressioni
evidentemente inopportune ed esorbitanti in banali
quanto ingiuste offese per la gente subalpina”, (e
pensare che il bel titolo della sua commedia,
Ciascuno a suo modo, Pirandello l’aveva preso
proprio dal motto sul campanile della chiesa d’un
paesello montano piemontese come Coazze, vicino
a Torino, dove aveva passato una felice vacanza!).
Un elemento fondamentale dell’arte pirandelliana è
l’umorismo, che l’Autore stesso teorizzò nel saggio
omonimo, L’umorismo, del 1908.
A mio parere l’umorismo scatta nell’opera
pirandelliana come reazione, e difesa, alla perdita di
fede nell’assoluto, ma quello che mi preme notare è
che l’umorismo in Pirandello non è sarcasmo (se
mai ironia) cioè non implica un atteggiamento
Preannunciando la commedia in un’intervista sul
“Giornale di Sicilia” del 10 aprile 1924, Pirandello,
mettendo le mani avanti e mostrando di divertirsi
allo scandalo, aveva detto:
“In Ciascuno a suo modo avvengono cose da
pazzi”, facendo il verso, evidentemente, ai suoi
detrattori.
Bemporad, nuovo editore di Pirandello dopo
Treves, pubblicò il libretto della commedia pochi
giorni prima del debutto. Domenico Lanza, che in
quegli anni insieme a Renato Simoni e Marco Praga
di Milano, e Adriano Tilgher di Roma, era tra i
critici teatrali più autorevoli, notoriamente non
favorevole alle opere di Pirandello, si buttò sul
libretto e ne stilò una lunghissima recensione
demolitrice sulla “Gazzetta del Popolo”, zeppa di
giudizi spregiativi: “…la nuova commedia di Luigi
Pirandello non esce dai confini d’una creazione non
solo comune e banale, ma travagliata dagli sforzi
d’un barocchismo insignificante e inane, e in
parecchi momenti di assai discutibile buon gusto, e
di ancor più discutibile forza di idee e abilità di
forme… manca la guida della misura e
dell’equilibrio mentale…”; i personaggi sono
“un’accolta di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi,
decadenti della volontà , tormentatori di sé e degli
altri, svuotati d’ogni persuasiva umanità e
congegnati artificialmente come puri macchinismi
dialettici…”ecc ecc.
Domenico Lanza, un “torinese di stampo antico, –
come scriveva Lorenzo Gigli, critico letterario suo
collega alla “Gazzetta del Popolo" di intransigente
dirittura, di alto e coraggioso sentire”,
evidentemente non poteva sopportare Pirandello,
forse per una vera e propria incompatibilità di
carattere, e neppure temeva di andare contro la
moda.
Pirandello prontamente volle vendicarsi con una
”lettera al direttore” del Corriere della Sera tre
15
Eppure questa raccolta è a tutt’oggi sconosciuta,
perché Pitrè aveva scelto di trascrivere le fiabe nel
dialetto siciliano ottocentesco in cui gli erano state
raccontate e così facendo le aveva rese sì immortali
ma indecifrabili ai lettori italiani.
Grazie alla collaborazione tra Donzelli Editore e
Fondazione Sicilia, che ha patrocinato il progetto
editoriale, questa raccolta esce finalmente in libreria
in una doppia edizione, una più grande in 4 volumi
con il testo siciliano a fronte dal titolo Fiabe,
novelle e racconti popolari siciliani (cofanetto in 4
volumi, pp. 2875 – € 165,00); una più piccola dal
titolo Il pozzo delle meraviglie. 300 fiabe, novelle e
racconti popolari siciliani (pp. XXIV-806 – €
30,00).
Entrambe le opere si avvalgono della traduzione di
Bianca Lazzaro e della cura di Jack Zipes, esperto
di fama internazionale e autore di decine di studi e
ricerche sulla fiaba.
L’intera opera è stata presentata il 28 ottobre a
Palermo, presso la Società Siciliana per la Storia
Patria, e a Roma il 29 ottobre, presso la Sala
Zuccari di Palazzo Giustiniani.
“Per un editore come Donzelli la doppia edizione
delle Fiabe di Pitrè corrisponde a un obiettivo
esaltante: mettere in circolazione un tesoro assoluto
della letteratura popolare, vorrei dire senza mezzi
termini un monumento della tradizione culturale
italiana, sottraendolo a un oblio che dura da quasi
centocinquanta anni.
Per fare questo si trattava di tradurre, per la prima
volta integralmente e nel modo più rigoroso, queste
300 storie dal siciliano all’italiano, rispettando il
ritmo della narrazione orale, restituendo il gusto del
parlato, e ricostruendo – senza facili concessioni a
qualche finto sicilianismo – i colori e il calore di un
contesto.” afferma Carmine Donzelli.
L’edizione maior, Fiabe, novelle e racconti popolari
siciliani riproduce tutti i testi in siciliano di
Giuseppe Pitrè, affiancandoli con la traduzione a
fronte di Bianca Lazzaro e con le note critiche di
Jack Zipes.
Questa edizione “ha rappresentato una grande sfida
redazionale: si è trattato di trovare una serie di
soluzioni, nell’editing come nella grafica, e persino
nella scelta dei materiali da adoperare, che fossero
in grado di esaltare la bellezza di questo libro.
Ecco un caso – ribadisce Carmine Donzelli – in cui
il tradizionale supporto cartaceo si prende le sue
rivincite: non c’è pagina ‘digitale’ che a questi
livelli possa competere.”
L’edizione minor, Il pozzo delle meraviglie
raccoglie tutte le 300 fiabe in traduzione, si vuole
rivolgere al più vasto pubblico dei lettori che,
semplicemente, amano la fiaba.
impietoso, bensì esprime una profonda e spesso
indulgente simpatia umana. Il romanzo “coazzese”
Suo marito ne è un eloquente esempio.
All’inizio di questo lavoro abbiamo posto una
citazione dal Fu Mattia Pascal, che è una veduta
assai familiare per chiunque conosca Torino, ed
esempio di natura vista come stato d’animo.
Si tratta del “ponte della Gran Mamarzodre”, con
quella “rapida” d’acque, subito dopo il ponte,
tuttora esistente. Pirandello mette in rilievo con
straordinaria intensità la limpidezza del cielo del
Piemonte, così come aveva fatto per lo stesso luogo
il Bellotto nella veduta “L’antico ponte sul Po a
Torino” che si trova alla Pinacoteca Sabauda e non
è affatto improbabile che Pirandello ivi l’avesse
vista; la stessa limpidezza resa dai paesaggi della
Val Sangone del pittore Marco Calderini intorno
agli anni della villeggiatura coazzese di Luigi
Pirandello.
da uno studio del 2003 di Silvio Montiferrari
Su preziosa indicazione dell’amico Renato
Cesarò, sempre attento a segnalarci notizie
interessanti:
Le fiabe di
Giuseppe
Pitrè: un
tesoro
ritrovato
1841-1916
Torna alla luce,
dopo quasi un secolo e mezzo, la straordinaria, per
qualità e quantità, raccolta di fiabe siciliane di
Giuseppe Pitrè (il più importante raccoglitore di
tradizioni popolari dell’Isola, vissuto a cavallo fra
’800 e ’900) nella prima traduzione integrale in
italiano moderno.
Si tratta della collezione di storie orali più ricca, e
forse più bella, che l’Italia abbia mai avuto, come
ebbe a dire Italo Calvino nel 1956 quando
selezionando dai repertori di ogni regione italiana le
200 Fiabe a suo giudizio più significative, ben 40 le
attinse proprio all’opera di Pitrè.
Da Giufà a La volpe Giovannina, da Rosmarina a
Cola Pesce… sono storie di fate e di giganti, di
maghi e di contadini, di sciocchi e di furbi.
Sono racconti di fichi e zafferano, di fontane e
giardini incantati. Sono il cuore pulsante di una
Sicilia del tempo che fu.
16
Siamo di fronte, come ebbe a dire Italo Calvino, alla
“più bella raccolta di fiabe che l’Italia possieda” e,
come sostiene Zipes, a un patrimonio “ancora più
importante di quello dei fratelli Grimm”.
L’edizione ‘piccola’ vuole portare il lettore e la
lettrice a godere direttamente della forza, del
fascino, della magia di queste storie.
Un contributo ulteriore per entrare in questo mondo
fatato è rappresentato dalle splendide tavole
disegnate dal grande illustratore argentino Fabian
Negrin appositamente per questa edizione (è
possibile richiedere le immagini all’ufficio stampa
della casa editrice: [email protected].)
“Questo straordinario progetto editoriale rende la
meritata dignità culturale a quelle meravigliose, ma
al contempo semplicissime, storie popolari raccolte
da Pitrè fra i borghi, i campi e le contrade di una
Sicilia di oltre cento anni fa e da lui poi
diligentemente trascritte così come le aveva
ascoltate, quasi a voler tramandarle ai posteri nella
genuinità dei loro colori e dei loro sapori, delle loro
arguzie e dei loro arcani.” – dichiara Giovanni
Puglisi, presidente della Fondazione Sicilia –
“Mi piace pensare che da oggi, tradotte in italiano,
sgrovigliate dal dialetto ma non per questo
impoverite, le magiche fiabe di Pitrè possano essere
apprezzate da un pubblico assai più ampio di quello
che fino ad oggi ha potuto assaporarle.”
Sulle stesse navi, migliaia di emigranti sono arrivati
dall'Italia, e New Orleans è diventata una sorta di
colonia di agricoltori Siciliani.
Il biglietto da Palermo a New Orleans costava
molto meno delle altre tratte, invece da Napoli o
Genova si arrivava più facilmente a Boston o New
York. Nel 1876 Girolamo La Rocca e sua moglie
Vittoria Di Nino arrivarono a New Orleans.
Partiti da Salaparuta, un piccolo paese vicino a
Trapani, Girolamo trovò lavoro subito come
calzolaio; nel servizio militare aveva fatto il
bersagliere, trombettiere sotto il comando del
generale Lamarmora, e ancora suonava, per
arrotondare il bilancio familiare.
Il giovane Nick venne subito attratto dalla musica
delle bande musicali e in particolare dagli ottoni.
Segretamente cominciò a studiare cornetta, contro i
desideri del suo padre, che sperava che suo figlio
entrasse in una professione più prestigiosa.
Siciliainformazioni.com
Nick al centro con la cornetta.
Nick La Rocca ha inizialmente lavorato come
elettricista, suonando solo come dilettante.
Dopo la morte prematura del genitore, nel 1904,
Nick poté dare sfogo a tempo pieno alla sua
passione.
Dal 1910 al 1916, all’incirca, fece parte della banda
di Papa Jack Laine (il vero nome era George
Vitale). Mentre non era considerato come uno dei
più virtuosi o creativi dei suonatori di Laine, era
solido, con un labbro forte che gli permetteva di
fare delle lunghe parate senza riposo..
Nel 1916 venne scelto come rimpiazzo all'ultimo
minuto al posto di Frank Christian nel gruppo di
Johnny Stein per un lavoro a Chicago, nel Illinois.
Questo gruppo diventò la famosa "Original
Dixieland Jass Band" che avrebbe fatto le prime
incisioni commerciali di jazz nel 1917.
Queste registrazioni furono grandi successi ed
hanno trasformato i musicisti del gruppo in
celebrità. Presto altri musicisti di New Orleans
cominciarono a seguire il percorso dell’ ODJB, fino
a New York per suonare il jazz.
L’angolo della Musica,
ovvero musicisti Siciliani nel mondo
Nick La RoccaDominic James "Nick" La Rocca
(New Orleans, Louisiana 11-4-1889/22-2-1961)
Nick La Rocca, grande cornettista e pioniere del
jazz classico, era il capo della "Originale dixieland
Jass Band". Secondo lo stesso La Rocca era “il
creatore di jazz", il "Cristoforo Colombo della
musica".
Era il secondo di quattro figli di poveri immigranti
Italiani a New Orleans che alla fine dell'ottocento
era una città multi culturale (era stata il porto
principale dove arrivavano le navi cariche di schiavi
africani fino al 1860).
Dopo la guerra di secessione, da Palermo e Trapani
partivano le navi cariche di agrumi e ortaggi per
scaricare nel porto di New Orleans in cambio di
cotone.
17
La Rocca era geloso degli altri gruppi musicali.
Frank Christian ricorda che La Rocca gli offrì $200
e un biglietto ferroviario di ritorno per farlo tornare
a casa a New Orleans.
Dopo che una banda di musicisti di New Orleans
composta da Alcide Nunez, Tom Brown e Ragbaby
Stevens aveva vinto un concorso di bande contro
’l’ODJB, il batterista Ragbaby trovò le pelle dei
suoi tamburi tagliata da qualcuno. Ciò diede a La
Rocca il sopranome di “Taglierino Joe" e venne
pubblicata una canzone chiamata “Taglierino Joe,
Tagliente Come un Tacco".
La Rocca condusse la sua band durante le tournée
nell'Inghilterra e negli Stati Uniti nei primi anni '20,
fino a quando soffrì un crollo psichico e tornò a
New Orleans per lasciare la musica e diventare un
appaltatore edile. Nel 1936 La Rocca riunì l’ ODJB
per una tournée e alcuni incisioni.
La Rocca affermava che lui e la sua banda erano gli
inventori della musica swing, ora in voga al
momento e che questa nuova musica era in realtà il
vecchio jazz in abiti moderni.
Il gruppo ottenne un contratto radiofonico con la
NBC Red Network. La Rocca suonò di nuovo
''Tiger Rag'' catturando più ascoltatori di tutti gli
ospiti precedenti e attirando offerte da tutti gli USA.
Dopo due anni di successi, i conflitti di personalità
sfasciarono nuovamente il gruppo e Nick La Rocca
lasciò di nuovo la musica. Negli anni '50 cominciò
a scrivere numerose veementi lettere a giornali,
radio, e programmi televisivi, dichiarandosi l'unico
inventore della musica jazz e affermando che chi
sosteneva che la musica avesse origini africane
doveva far parte di una cospirazione comunista.
Quando l'università di Tulane fondò un archivio di
jazz di New Orleans nel 1958, Nick La Rocca donò
la sua ampia raccolta delle carte relative all’ ODJB,
dopo l'aggiunta dei numerosi commenti nei margini,
spesso ingiuriosi verso i suoi musicisti e colleghi.
Aveva anche modificato dei documenti per renderli
più aderenti alla propria versione della storia. Allo
stesso tempo, lavorava con il produttore H.O. Brunn
sul libro La Storia della Original Dixieland Jass
Band (a volte soprannominato sarcasticamente dagli
storici del jazz come “Il Vangelo secondo Nick La
Rocca"),mentre Brunn ha attenuato alcune
polemiche più estreme di La Rocca; il libro ancora
presenta un racconto curioso di La Rocca che cresce
in una New Orleans apparentemente priva della
presenza di afroamericani e fonda la Original
Dixieland Jass Band nel lontano 1908. Il libro
minimizza anche l'importanza degli altri membri del
ODJB.
Quelli che provano a valutare i contributi di Nick
La Rocca verso il jazz a volte sono ostacolati dalle
dichiarazioni dello stesso La Rocca. Pochi
(principalmente in Inghilterra) hanno preso La
Rocca sulla parola, mentre una parte molto più
grande degli storici di jazz lo ha sminuito.
La Rocca ha involontariamente danneggiato la
propria reputazione, particolarmente in alcune delle
sue dichiarazioni che sono insolitamente razziste,
anche quando confrontate con le idee degli altri
bianchi dell'epoca.
Le dichiarazioni di La Rocca fatte verso la fine
della sua vita sono state rilasciate quando non era
completamente sano.
Una valutazione equilibrata può essere di
considerare Nick La Rocca come una figura
importante nella storia del jazz, che ha aiutato a
portarlo da uno stile regionale alla popolarità
internazionale, il capo della banda di jazz più
influente del periodo da 1917 a 1921, e infine un
buon suonatore in uno stile molto arcaico di jazz.
Le incisioni di Nick La Rocca hanno influenzato
trombettisti importanti di jazz come Red Nichols,
Bix Beiderbecke e Phil Napoleon. Nel 1992 a
Salaparuta, la città dei genitori, ci fu un Nick
LaRocca Memorial Day per festeggiare con un
convegno di studi ed un concerto della Sicilia Jazz
Big Band il 75º anniversario dell'incisione del
primo disco di jazz della storia da parte di La Rocca
nel 1917.
Nel 1991 Claudio Lo Cascio, primo e tuttora unico
jazzista siciliano ad ottenere la cittadinanza onoraria
di New Orleans, città definita La culla del jazz,
scrisse un libro intitolato: Una Storia Del Jazz: Nick
La Rocca. Decano dei jazzisti siciliani e notissima
figura di pianista, compositore, arrangiatore e
direttore d'orchestra, Lo Cascio dichiara
esplicitamente sin dal titolo di voler affrontare e
dibattere soltanto una piccola questione di quel
confuso periodo in cui il jazz ebbe origine e cioè
restituire la giusta dimensione artistica alla vicenda
del cornettista Nick La Rocca, puntualizzando i suoi
numerosissimi meriti con il corredo della minuziosa
documentazione raccolta nei molti anni di richieste
e studi, la maggior parte dei quali condotti sul
campo, sia in Sicilia che negli USA.
At The Jass Band Ball e Tiger Rag sono due dei
brani più celebri che permettono un delizioso
assaggio di questo meraviglioso mondo musicale.
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10. Un si fici nianti a machina… Un vali a’ pena
chiamari i vigli, haiu n’amicu carruzzìeri!
(Classica frase da accordo post tamponamento, in
cui colui che ha torto cerca di evitare l’intervento
dei Vigili Urbani per poter risparmiare soldi,
millantando conoscenze di carrozzieri fidati).
Ecco le 10 frasi che un automobilista palermitano
ha detto almeno una volta nella sua vita… in una
raccolta che sicuramente farà ridere ma anche
riflettere sui nostri modi di fare a volte un po’
spartani e coloriti alla guida!
1.
Che
Minchia
ci
soni!
(Tipica
per gentile concessione del sito:
Grazie a Dio sono Palermitano
espressione
dell’automobilista palermitano in prossimità di un
semaforo. Solitamente infatti, allo scattare del
verde, il palermitano ha l’abitudine di suonare il
clacson per sollecitare il primo della fila a partire
con celerità. Ci si chiede quindi che si suona a fare
quando davanti sono ancora fermi!?
2. Ma cu’ ta rietti a patenti?!? (Frase di sdegno
verso qualcuno che ha appena effettuato una
manovra non consentita dal codice stradale)
3. Smoviti u’ sangu ca’ è virdi! (Classica frase
pronunciata dal personaggio di cui al punto n.1, in
prossimità di un semaforo. Pare che a Palermo,
infatti, non sia tollerato neanche un nanosecondo tra
lo scatto del verde e la partenza della prima auto in
fila);
4. Ma runni minchia av’a ghiri chistu?!?
(Classica frase in cui gli indicatori di direzione sono
usati, ma nel senso opposto a quello in cui si vuole
andare, inducendo l’automobilista che sta dietro all’
errore)
5. A freccia mancu l’indiani ormai… (Classica
frase usata in prossimità di un incrocio o quando
qualcuno si appresta a parcheggiare, ignorando gli
indicatori di direzione, volgarmente chiamati
“frecce”. L’accostamento alle frecce scagliate dagli
indiani, dunque, ormai in disuso come appunto
l’uso da parte degli automobilisti palermitani)
6. Passa e vafanculu! (Tipica espressione usata in
prossimità di incroci, in cui qualcuno ci chiede la
precedenza. La variante è l’espressione gentile
“prego, passi pure”, seguita da “vafanculu”, una
volta che l’altra macchina si è allontanata);
7. Cucì, un secunnu e a spostu! (Classica frase del
palermitano che, per prendere un caffè o le
sigarette, deve obbligatoriamente posteggiare di
fronte al negozio in questione. Non importa che 50
metri più avanti ci sia un posto libero, si preferisce
sostare in doppia fila, perché tale tragitto
comporterebbe troppa fatica)
8. Cuinnutu e Sbirru (Tipica espressione del
palermitano usata quando qualcuno fa una manovra
azzardata mettendo in pericolo la propria incolumità
e quella degli altri)
9. Allazza (Frase pronunciata solitamente dal
passeggero che invita il conducente ad “allazzare”,
cioè premere sull’acceleratore per raggiungere il più
velocemente possibile la destinazione!
Due amiche siciliane dopo aver convinto i mariti,
riescono ad uscire a cena da sole per svagarsi un
po'.
Fra una chiacchiera e l'altra e dopo due bottiglie di
buon vino, lo champagne, i limoncelli e qualche
amaro, fattosi tardi, decidono di tornare a casa.
Completamente ubriache escono dal ristorante e
mentre camminano nella notte sentono l'impellente
bisogno di fare la pipì, una dice:
- Trasemu n’o cimitero, nun ci viri nuddu”.
Così la prima si sfila le mutandine, e dopo la
funzione usa gli slip per asciugarsi, poi li butta.
L'altra che porta biancheria firmata alla quale tiene
molto, si sfila le mutandine, le mette in tasca e per
pulirsi stacca un nastro da una corona di fiori.
La mattina dopo il marito della prima telefona
all'altro dicendo:
“Cumpari sugnu cunzumatu. Me mugghieri
Carmela stanotte s’arricampò, imbriaca e senza
mutanne! A ittai fora di casa!”
E l’altro:
“Ammia mu cunti! Me mugghieri Santuzza
s’arricampò mbriaca senza mutanne e con una
coccarda n’ to culu, cu sta scritta:
Salvo, Saro Turiddu, Calogero e tutti gli amici
della palestra...
” NON TI DIMENTICHEREMO MAI!
19
A questo punto unite al soffritto la passata di
pomodoro e aggiustate il sapore con il sale,
peperoncino ed il prezzemolo.
La salsa dovrà cuocere a fuoco basso per circa 30
minuti.
Alla fine togliete l'aglio e condite i maccarruna con
il sugo e magari una spolverata di formaggio.
(ragusano col pepe sarebbe perfetto)
I maccheroni di casa in salsa e tonno.
Nella speranza che qualche socio/a voglia
testimoniarmi l’abilità in cucina eccovi inoltre una
specialità tipicamente natalizia:
LA GALLINA RIPIENA
E' importante sottolineare la differenza tra
maccheroni e maccheroni di casa.
Gli ultimi son sempre una pasta ottenuta
mescolando semola di grano duro ed acqua, ma
sono una specialità siciliana: sono più lunghi e
goderecci da masticare.
Spesso all'impasto si aggiungono peperoncino o
spinaci o inchiostro di seppia per conferire una
particolare colorazione alla pasta: rossa, verde o
nera.
In tutti i casi è difficile dare una ricetta sulla
preparazione dei maccheroni di casa perché ogni
famiglia possiede una ricetta propria e che spesso
conserva e tramanda con grande orgoglio e
riservatezza.
Ingredienti:
600 grammi di riso vallone,
una gallina con le uova nonnate,
300 grammi di polpette di carne di vitello trita,
200 grammi di tuma,
150 grammi di pecorino col pepe stagionato
grattugiato,
sei uova fresche,
150 grammi di caciocavallo di provola fresco,
150 grammi di cotenna di maiale,
200 grammi di salsiccia di maiale,
quattro pomodori pelati,
50 grammi di estratto di pomodoro,
due cipolle medie,
due gambi di sedano,
un trito di aglio e prezzemolo,
50 grammi di mollica di pane,
50 grammi di pan grattato,
una spruzzata di latte,
burro o strutto,
olio d'oliva, sale e pepe.
INGREDIENTI
Maccarrùna di casa;
tonno in scatola;
passata di pomodoro;
cipolla;
capperi;
prezzemolo;
1 spicchio d'aglio;
vino bianco secco (mezzo bicchiere);
olio – sale – peperoncino;
PROCEDIMENTO
Pulite la cipolla, tritatela e soffriggetela
leggermente con dell'aglio ed i capperi. Aggiungete
anche il tonno in scatola (prima scolate il
contenuto) e dopo qualche minuto unite il vino e
fate sfumare.
20
Una prima fase della ricetta prevede la preparazione
del brodo di gallina insaporito con la cipolla, poco
pomodoro, prezzemolo e sedano e le polpette
precedentemente preparate impastando la carne di
vitello - o di manzo - trita con uova, formaggio
pecorino grattugiato, prezzemolo e aglio tritato,
mollica di pane ammorbidita nel latte, sale e pepe.
Quando la gallina è ben cotta, la si toglie dal brodo,
la si priva di pelle ed ossa e la si divide in pezzettini
che poi si conservano insieme alle polpette lessate.
Si filtra il brodo e lo si riporta in ebollizione
aggiungendo il sale.
Qui si cuocerà il riso al dente.
A cottura ultimata, occorre mantecare il riso denso
con il pecorino grattugiato.
Umettare una teglia con burro e pan grattato e
stendere il primo strato di riso che deve esser alto
due centimetri.
Su esso occorre stendere pezzetti di gallina,
polpettine, le uova nonnate lesse e fettine di tuma.
Si aggiunge un secondo strato di riso e poi si le
polpettine, salsiccia e pezzi di caciocavallo di
provola; se si vuole, prima della seconda fascia di
ripieno si può stendere un velo di ragù.
Si ricopre il tutto con un ulteriore strato di riso che
sarà a sua volta coperto con la "conza", una salsa di
uova battute, pecorino grattugiato, sale e pepe.
La pietanza va infornata e la cottura sarà ultimata
quando il piatto avrà ottenuto una crosta dorata e
compatta.
BUON
NATALE
Un’ottima occasione per farci gli
Auguri.
Santuzzo
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