QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE Luigi Speranzini Detti modi di rire e proverbi di casa nostra QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE Sfogliando le care pagine ingiallite dall’ usura della lettura e del tempo del libro di Luigi Speranzini “Detti, modi di dire e proverbi di casa nostra”, una certezza mi ha pervaso: “Questo libro ed il bagaglio di saggezza che esso racchiude devono essere divulgati”. In un tempo come il nostro, in cui si corre il grave rischio di “navigare a vista”, la stella polare di Luigi e della sapienza popolare di cui si fece portavoce potranno guidarci nella quotidiana e difficile traversata. Luigi ha rappresentato la memoria storica della sua città, ha rinsaldato il legame tra passato e presente, riportando alla luce tradizioni, detti, modi di dire e proverbi laurentini. Luigi è ricordato ancora oggi, a San Lorenzo in Campo, come “Il Maestro” per eccellenza, un vero simbolo del paese, del suo dialetto, della sua cultura. Nato da una famiglia di coltivatori diretti, si dedicò alacremente allo studio, conseguendo prima il diploma magistrale e poi la laurea in Pedagogia all’ Università di Urbino; ma Luigi non cadde mai nell’ errore di reputare la cultura popolare come un sapere di livello inferiore rispetto alla cultura conseguita attraverso il percorso scolastico. Come lui stesso ha più volte affermato, ha prestato la sua penna alla gente di campagna tanto semplice ed umile, ma nel contempo tanto laboriosa e saggia. Le loro espressioni assumono un valore inestimabile non tanto sotto il profilo lessicale, piuttosto perché offrono un chiaro spaccato del loro modo di affrontare con serietà, impegno e spirito di sacrificio la dura realtà quotidiana del tempo. 5 In ragione di tutto ciò, abbiamo accolto con entusiasmo la richiesta di ristampare nella versione originale, con l’ introduzione dell’ indimenticato Dino Tiberi, già Presidente della giunta regionale delle Marche e cultore anch’ egli della nostra tradizione popolare, il libro di Luigi Speranzini, onorati di ospitarlo nella collana editoriale “I quaderni del Consiglio”. Vittoriano Solazzi Presidente del Consiglio Regionale delle Marche 6 Introduzione Leggere “I detti” di Luigi Speranzini è un piacere e per chi lo conosce di persona è, più ancora, una fortuna. E ciò per l’imporsi del personaggio, accorto e perspicace come gli antichi capoccia del Cesano. Lui, maestro di campagna, approdato all’insegnamento con il seme migliore di una cultura senza fronzoli; quella capace di dare senso alla storia locale, fuori dalla celebrazione e dal rifiuto, con il rispetto dei valori che sono segno di continuità nel pensiero, nei problemi e nella crescita dell’uomo. Un caro collega, Speranzini, che avevo già seguito in altri scritti e in particolare nel libro “Una civiltà al tramonto” (AGE 1992), spaccato di civiltà contadina, fonte preziosa nella messa a punto del mio “Dono alla memoria”. Un modo di narrare semplice, soprattutto fedele ai risvolti della tradizione in una terra ricca di significati, di saggezza e di venature linguistiche. E lo fa quasi assillato dal timore che la fretta e la superficialità dell’oggi portino a disperdere il patrimonio su cui ha modellato la sua quarantennale esperienza didattica e le ragioni stesse del vivere in un angolo di mondo per il quale non vede eguali. Più di un secolo fa il mondolfese Ivo Ciavarini Doni, introducendo i suoi detti e proverbi, sosteneva che essi sono “la parola scritta e viva del popolo, la grammatica, il lessico, lo stile. Grande e animoso - diceva - è lo studio che va facendosi di questi; grande e infecondo in alcuni filologi manuali, ricco e fecondo in altri che dalle indagini comparative traggono certe ed utili notizie di storia, come dai fossili il geologo”. Speranzini sembra aver raccolto, entusiasta, il messaggio del suo illustre ma dimenticato vicino di casa ricostruendo, paziente, la trama di una storia nella quale nulla sfugge delle antiche genti del Cesano: la moralità, la prudenza, il lavoro, la famiglia, l’arguzia, i 7 vizi, le abitudini, l’egoismo e quant’altro poteva, allora, essere “guida o remora nel vivere”, precisa ancora il Ciavarini. È così che i suoi detti finiscono sotto gli occhi del lettore, non per lo stimolo a curiosare, quanto per l’intento di approfondire le straordinarie verità raccontate dai nonni. “A Natale metà pane, a Pasqua metà vino” “Arivà dopp i fochi” “Bocca sott ’al crino” “Buttasse su l’imbraca” Espressioni genuine che stanno per finire nel dimenticatoio. Un impatto che sorprende; che è la riprova di come sia difficile penetrare il senso di queste e di altre sentenze, a volte contorte e misteriose da sembrare dei rebus. Tanto per dirne un’altra, pensate all’espressione “’L foco ha preso moje”, comunissima anche nel Montefeltro. Lì per lì si potrebbe supporre un felice e naturale connubio di affetti. L’intendimento invece mira all’opposto, sebbene con una buona dose di scherzosa ironia. A dimostrare cioè che il fuoco che si spegne segue, di fatto, la sorte dell’uomo che si ammoglia. Ma capita anche di scoprire interpretazioni diverse da vallata a vallata, pur rimanendo il proverbio una sentenza su misura per tutti. Nel Cesano, stando a Speranzini, “l’ha strollgato” equivale a dire che l’astrologo (l’indovino) ha plagiato il proprio interlocutore portandolo ad assecondare tutto ciò che vuole. Nell’urbinate invece “l’ha strolighet” si riferisce, per lo più, all’uomo conquistato o “cotto” da una donna, a tal punto da mutare d’improvviso vita e uso della ragione. L’autore, oltre a riproporci queste sentenze nel colorito vernacolo della vallata, le lega fedelmente al passato e le presenta chiamando personaggi, vicende paesane. Insomma, le espressioni più varie e significative del vivere, nobile ma gramo, della società agricola del tempo. Un lavoro encomiabile, per il quale non c’è da aspettarsi davvero il grazie di una certa cultura maggiore, o presunta tale, che raramente 8 ha trovato, almeno nella nostra provincia, il gusto di risalire alle origini della vita rurale, lo stimolo alla ricerca e alla memoria storica sì da lasciare, sul piano letterario, un qualche frutto apprezzabile. Se una pretesa c’è in pagine come queste, essa sta nel dare senso ai valori che il passato ci tramanda; di cogliere in essi riflessioni e riferimenti e il nesso stesso di una continuità della quale abbiamo pensato di fare a meno, ignari di quanto essa pesi invece nell’inquietudine e nel vuoto morale delle nuove generazioni. Diciamo infine che da uomo di scuola, appassionato ed attento, Luigi Speranzini ci offre una stimolante occasione per guardare indietro e far vivere i ricordi, gli stessi che egli sembra aver sottratto da un vecchio baule dimenticato in soffitta. Auguriamoci che perseveri su questa strada, memore del detto “C’ arvedemme a paja nova!” Dino Tiberi 9 Prefazione Sono trascorsi più di dieci anni da quel Natale ‘84 quando è stato pubblicato in sordina quel mio quadernetto sui “Detti, modi di dire e proverbi di casa nostra”, pubblicato dalla Pro-Loco di S. Lorenzo in Campo. L’idea di questi detti era nata per caso, mentre stavo guidando i miei alunni di quinta elementare in una ricerca sulla civiltà contadina nel nostro territorio. Mi resi conto che molti detti e proverbi se non fossero stati fissati sulla carta, nel volgere di pochi decenni sarebbero scomparsi definitivamente dal momento che alcuni di essi già allora restavano solo nella memoria dei vecchi. Scrissi quel quadernetto in pochissimo tempo e, una volta stampato, mi resi conto di averne tralasciati tanti, anzi troppi. Qualche mese dopo la pubblicazione del quadernetto il direttore del periodico mensile “La nostra valle” ha messo a mia disposizione una pagina del suo periodico. E così ogni mese ho riportato e commentato detti e proverbi. Dove li prendevo? Portavo sempre con me un foglietto di carta ed una penna e quando, in piazza, all’osteria o in altro luogo veniva fuori un detto o un proverbio non ancora preso in considerazione me lo annotavo. Nel fare questo lavoro ho sempre cercato di tenere nella massima considerazione quei detti,, modi di dire e proverbi tipici delle nostre campagne. Alcuni sono “nostri”, altri sono simili ai nostri, altri ancora sono uguali ai nostri anche se cambia la forma. All’inizio citavo la ricerca sulla civiltà contadina; quella ricerca ha dato l’avvio ad un lavoro conclusosi nel ‘92 con la pubblicazione di “Una civiltà al tramonto” (AGE - Urbino ‘92). Adesso grazie al contributo della Banca di Credito Cooperativo di Pergola è la volta di questo volume che contiene sia i detti, modi di dire e proverbi pubblicati dieci anni fa sia quelli pubblicati mensilmente su “La nostra valle” dal giugno ’85 ad oggi. 11 Nel fare questo lavoro mi sono sforzato di trasmettere lo spirito ed il modo di vedere e di pensare di quella gente umile, semplice, laboriosa e previdente qual è sempre stata la gente di campagna. I nostri vecchi hanno coniato detti e proverbi che io conosco fin da quando ero bambino, io ho messo a disposizione di quel mondo pressoché dimenticato solo la mia penna. Certi valori con il tempo si perdono ed occorre recuperarli prima che sia troppo tardi. Nel nostro caso sono i valori del dialetto che vanno recuperati. E vanno recuperati non tanto per il loro valore linguistico quanto per quel loro modo di affrontare le fatiche e le privazioni di ogni giorno. Forse dovremo riflettere su quell’espressione di Petrolini, anche se può sembrare un paradosso: “Tornate all’antico, faremo progresso!” Luigi Speranzini 12 IL DIALETTO DELLA VALLATA DEL CESANO Modificazione delle parole - Rispetto alla lingua italiana c’è la scomparsa del dittongo uo trasformato in o. Così ad esempio suono e fuori diventano “sono” e “fora”. - Spesso scompaiono le doppie. Così è ad esempio per le parole carriola e laggiù che diventano “cariòla” e “lagiù”. A volte succede l’inverso: così ad esempio al posto delle parole libro e invidia abbiamo “libbro” e “inviddia”. - Scompare qualche volta una vocale al centro di una parola: così le parole tutolo e peronospera diventano “tutlo” e “prònòspra”. - In alcuni casi scompare una sillaba al centro di una parola: poveretto ed eccolo diventano “pòretto” ed “èllo”. - Spesso in una parola scompare l’ultima lettera. Ad esempio le parole con e tutto diventano “co”’ e “tutt”’. - Scompare la prima sillaba in alcuni verbi. Così abbaiare, attra-’ versare ed accendere diventano: “baia”’, “traversa”’ e “cènde”. - Si ha il troncamento della sillaba finale in alcune parole. Così è ad esempio che le parole dove e cosa diventano “do” (o ndo’)” e “co”’. Il troncamento c’è sempre nei verbi all’infinito presente. Così i -verbi mangiare, bere e dormire diventano: “magna”’, “be’” e “durmi”’. 13 - A volte la o si trasforma in u. Ad esempio le parole formica e coltello diventano “furmica” e “curtello”. - Il digramma gli diventa j. Aglio e veglia diventano “ajo” e “veja”. A volte il digramma scompare come nelle parole pigliare e figliare che diventano “pia”’ e “fia”’. - A volte parole che finiscono in aio si trasformano in - aro. Così pagliaio e mugnaio si trasformano in “pajaro” e “mulinaro”. - La lettera m davanti a p e b diventa quasi sempre n. - Nei comparativi di maggioranza e di minoranza c’è sempre l’uso pleonastico di “nn è” (non è). Così il proverbio “È meglio perdere l’amico che la botta” diventa: “È mejo perde l’amico che nn è la botta”. - La lettera n da sola, se ha il segno dell’elisione prima (’n) indica l’articolo indeterminativo un, ma se ha l’elisione dopo (n’) indica la negazione non. - Il prefisso ri- dei verbi che indicano un’azione ripetuta, diventa ar. Così rinnovare, rileggere e risentire diventano “arnova”’, “arlegge” e “arsenti”’. - Molte parole del vocabolario della lingua italiana sono del tutto assenti dal nostro dialetto specie i tanti sinonimi. La nostra è la lingua che fa uso solo dei termini essenziali, perché è la lingua della gente comune che va sempre al sodo, senza tante sottigliezze. L’importante è il contenuto e non la forma. E così spesse volte, per far prima nel dire, viene tralasciata una o più lettere o una sillaba. 14 - Alcune parole sono storpiate, anche se il suono è simile. Così ad esempio è per le parole sciarpa e storpio che diventano “scialpa” e “struppio”. - Vi sono infine alcune parole (a dire il vero poche) che non hanno niente a che fare con la lingua italiana; sono probabilmente i resti delle lingue parlate dai barbari che invasero le nostre terre nell’alto Medio Evo. È il caso delle parole “burchio” e “roccia” che significano stalletta e verga (o piccolo ramo). La grammatica Le note che seguono fanno riferimento solo alle principali forme irregolari, mentre non vengono considerate quelle forme che sono regolari o quasi. Articoli Gli articoli il, un, uno ed una sono: ’1, ’n, ’no, ’na. Nomi I nomi degli alberi sono sempre al femminile. Alcuni nomi femminili diventano maschili così la lepre e le dita diventano ’1 lepre e i diti. In alcuni casi l’aggettivo diventa parte integrante del nome. Così tua madre, tuo padre e tuo nonno diventano: mammta, babbto e nonnto. Aggettivi Possessivi: mio, tuo, suo sono: mia, tua, sua messi di solito dopo il nome. Dimostrativi: (manca codesto) questo, quello sono: sto, chel o clo. Indefiniti: nessuno/molto 15 sono: nisciuno, ’n bel po’ de. Così: molti alberi si dice: ’n bel po’d’ piante. Cardinali: 1, 8, 11, 12, 13... sono: sett’, ott’, undce, doddce, treddce... Pronomi Personali: tu, egli, lei, noi, voi, essi sono: te, lu, lia, noia’, voia’, lora. Verbi Essere: le voci: io sono, noi siamo, voi siete, essi sono diventano: io so, noia’ semme, voia’ sete, lora enne. Le voci: noi eravamo, voi eravate, essi erano diventano: noia’ eraiamme, voia’ eraiate, lora èrne. Le voci: io sarei, tu saresti, egli sarebbe, noi saremmo, voi sareste, essi sarebbero diventano: io sarìa, te sarisci, lu sarìa, noia’ sarissme, voia’ sarìste, lora sarìene. Nella 1a persona plurale della 1a coniugazione la desinenza -iamo del presente diventa -amme, nella 2a coniugazione diventa -emme (esempio bevemme), nella 3a coniugazione diventa -imme (esempio dormimme). Nella 3a persona plurale le desinenze -iano ed -iono diventano -ne. Così si ha: magnne, bevne, dormne. I verbi vengono usati in tutti i tempi del modo indicativo, ad eccezione del passato remoto che di solito viene sostituito dal passato prossimo. Così invece di mangiai si usa “ho magnato”. Il gerundio è poco usato e viene sostituito da una locuzione. Così: sta scrivendo diventa “sta a scrive”, andando diventa “mentre givo”, essendo furbo diventa “siccome io so birbo”. 16 Avverbi Di tempo: adesso, dopo, subito sono: adè, doppo, subbto. Di luogo: lì, là/laggiù, sotto, fuori, dentro, dove, in alto, in basso sono: malì, malà, malagiù, sotta, fori, drento, do’ o ndo’, su alto, giù basso. Di quantità: molto è: n bel po’ o ’na mucchia. Di affermazione: sì, davvero, certo sono: sci, per davero, tropp’è. Di negazione: non, affatto sono: nn o en, pe’ gnente. Preposizioni Semplici: di, in, con sono: de, nten, co’ (ma spesso si usa “sa”). Articolate: agli, della, nel, nella, nei, nelle sono: aj, dla, ntel, ntla, nti, ntle. Per la lettura (note di fonetica) - Le vocali e ed o possono avere suono aperto (è ò) come nelle parole festa, bove oppure suono chiuso (è, o’) come nelle parole cena, bocca. Nel testo vengono segnate solo quelle vocali aperte o chiuse che sono di dubbia interpretazione. - La c’ ha suono dolce, come nella parola cena. - La g come pure la e, seguita da h hanno suono duro. Così è in: raghno (ramarro) e manchne (mancano). 17 DETTI, PROVERBI E MODI DI DIRE A chi mazza cani e gatti van male i suoi fatti (A chi ammazza cani e gatti, van male i suoi interessi) Molto prima dell’Impero Egizio le antiche civiltà sviluppatesi sulle rive del fiume Indo conoscevano il gatto. Gli Egiziani lo veneravano come un dio: famosa è la gatta di Bubasti, rappresentata con gli orecchini e a volte anche con un anello prezioso al naso. Tutti questi “idoli viventi” erano, dopo la morte, accuratamente imbalsamati e la loro mummia, fasciata di bende, veniva deposta in una delle numerose necropoli che erano meta di pellegrinaggio. In tutte le grandi religioni antiche i gatti furono simbolo del sole, cioè della regalità e della forza. Molto spesso i gatti furono rispettati di più degli uomini; basti pensare agli schiavi. Anche il cane è stato l’amico dell’uomo fin dagli albori della civiltà. Sono stati ritrovati resti fossili preistorici di cane nei luoghi dove era vissuto l’uomo. L’uomo addomesticava il cane per fare la guardia e per essere aiutato nella caccia. Dobbiamo quindi concludere che cani e gatti sono stati da sempre gli amici dell’uomo. Chi non li rispetta era ed è considerato incivile e crudele più di chi non rispetta le persone; il nostro proverbio rincara la dose dicendo che a chi ammazza (volontariamente, s’intende!) cani e gatti, le cose non andranno per il verso giusto. A chi nn j preme nn j ciacca (A chi non interessa non sente dolore) Chi non è direttamente interessato non sente dolore, o meglio, non sente l’urgenza di fare una certa cosa. Il detto viene usato quando si 19 vorrebbe che un certo lavoro o una certa pratica venisse sbrigata al più presto mentre l’incaricato a svolgerla non sembra intenzionato a fare presto. Ade, domatina appena che m’alzo... Ade, doppo... (Adesso, domattina appena alzato... Adesso, dopo...) Le espressioni vogliono indicare un adesso... al più presto possibile, ma solo nell’intenzione. In realtà espressioni del genere si usano per indicare che una certa cosa verrà fatta con sollecitudine, anche se “adesso” non è proprio... adesso. Insomma l’avverbio sta ad indicare la volontà di fare subito ma nella realtà bisognerà aspettare un po’. A denti secchi; a bocca asciutta I due detti hanno uguale significato, anche se il primo vuol dire stare senza mangiare mentre il secondo stare senza bere. In senso figurato si usano per dire che non si è ricevuto niente di quanto si pensava di ricevere o di quanto effettivamente ci spettava. A fa’ ’l bene ai somari s riceve i calci (A fare il bene ai somari si ricevono i calci) Il detto vuol ricordare che non è sempre consigliabile fare del bene a certe persone che si mostrano poco intelligenti, perché da esse invece di ricevere un grazie possiamo essere contraccambiati con i “calci” (cioè rimproveri o peggio). 20 A la Candelora da l’inverno semo fora; si ce nengue o si ce piove ce n’è più d’ quarantanove, ma se piove e tira ’l vento ce n’è più d’ cento. (Alla Candelora dall’inverno siamo fuori; se alla Candelora nevica o piove ci sono ancora più di quarantanove giorni, ma se piove e tira il vento ce ne sono ancora più di cento) La Candelora cade il 2 di febbraio e il calendario ci dice che è la presentazione di Gesù al tempio. Vediamo un po’ di chiarire. Secondo la legge mosaica ogni primizia del popolo eletto (primogenito, prodotti del campo o bestiame) avrebbe dovuto essere offerta a Dio come testimonianza che tutto era un suo dono. Il primogenito, dopo 40 giorni dalla nascita, veniva presentato al tempio dal sacerdote per essere riscattato con l’offerta di una vittima (un agnello o un paio di tortore). Con tale sacrificio si effettuava la purificazione legale anche della mamma del primogenito. La Presentazione in seguito (sec. X nella liturgia gallica) si arricchì del rito della benedizione delle candele che servivano per la processione. Da qui il termine Candelora. Da noi, fino agli anni Cinquanta, c’era l’usanza da parte delle donne che avevano partorito di portare, dopo 40 giorni dall’evento, una candela in chiesa per la propria purificazione. Secondo il nostro proverbio con il giorno della Candelora finisce l’inverno, o meglio, il freddo. Ma se quel giorno il tempo fa i capricci (e li fa quasi sempre) allora ci aspettano altri giorni di freddo per un periodo più o meno lungo. Osservare il tempo il giorno della Candelora serve per prevedere la durata dell’inverno meteorologico. Ma 21 i nostri vecchi avevano anche un altro modo per fare le previsioni del tempo dell’inverno e della restante parte dell’anno e lo facevano osservando i giorni “contarei” (contarelli). Erano detti così i primi 24 giorni di Gennaio, perché i giorni dall’1 al 12 “contano”, o meglio, rappresentano i vari mesi da Gennaio a Dicembre e dal 13 al 24 rappresentano gli stessi mesi, ma questa volta tornando indietro da Dicembre a Gennaio. Così ad esempio per sapere che tempo farà a Febbraio si devono osservare i giorni 2 e 23. Il tempo che farà in un certo mese dell’anno dunque potrebbe essere rafforzato da una riconferma quando si torna indietro da Dicembre a Gennaio, ma potrebbe essere anche contraddetto; in quest’ultimo caso in quel mese il tempo sarà “variabile”. Al d’ ingiù ogni merda corre A parte la traduzione letterale, il detto sta a significare che le cose facili le sanno fare tutti. A l’ Emmaria: l’donne a casa e j ommne via (All’Ave Maria: le donne a casa e gli uomini via) Questo detto, tipico delle nostre campagne, sta ad indicare che un tempo all’imbrunire (all’Ave Maria) le donne si ritiravano in casa mentre gli uomini andavano in paese a fare la chiacchierata o la partita a carte all’osteria o andavano a sbrigare gli affari di casa. Come è facilmente comprensibile il detto è chiaramente antifemminista. 22 A le pule (A pule) Le pule sono le glumelle che racchiudono i chicchi di grano. L’espressione viene usata per indicare chi al gioco ha perduto tutto, proprio come la spiga che, avendo perduto ogni chicco, non ha più altro che... le pule. Così l’espressione “è armaste a le pule” (è rimasto a pule) sta ad indicare chi non ha più niente, per aver perduto tutto al gioco. Almeno n’ c’ tacca l’ inviddia! (Così non ci attacca l’invidia!) Una credenza popolare molto radicata vuole che fatture e malocchio - causate dall’invidia di qualche persona che ha l’occhio “tristo” - siano causa di molte disgrazie, di molti mali e persino della morte delle persone. Si possono prevenire fatture e malocchio portando con sé il gobbetto, il cornetto - meglio se con il pelo del tasso -, il ferro di cavallo, il tredici. Almeno n t’ mordne i cani (Almeno non ti mordono i cani) Il detto viene rivolto a chi ha messo un indumento al rovescio. Con questa frase si vuoi intendere che la persona che ha indossato l’indumento al rovescio sembra un essere anormale, quasi una bestia rara dalla quale anche i cani si tengono alla larga. 23 A Natale mtà pane a Pasqua mtà vino (A Natale metà pane, a Pasqua metà vino) Per comprendere questo proverbio dobbiamo ritornare indietro nel tempo quando i nostri agricoltori dovevano fare i conti con le leggi della sopravvivenza. A quei tempi ogni agricoltore doveva sapere (e lo sapeva benissimo) che a Natale non doveva aver consumato più della metà del grano da macinare (pane) ed a Pasqua non doveva aver bevuto più della metà del vino. Chi non conosceva queste regole d’oro andava incontro a lunghi periodi di fame o di astinenza dal vino. Anch’ la ciovetta loda i fioi sua! (Anche la civetta loda i propri figli!) Il verso che comunemente emette la civetta è un “cuccù-meo”, che viene interpretato come un “cocco mio”, e quindi il verso della civetta sarebbe una lode continua dei suoi figli. Tutti i genitori, chi più chi meno, lodano i propri figli, ma c’è chi esagera e viene facilmente notato. Così, a chi loda troppo i propri figli, viene ricordato che “anche la civetta loda continuamente i propri figli”. Anch’ la miseria vol lo sfogo (Anche la miseria vuol lo sfogo) Si dice per giustificare chi, notoriamente povero, conduce un tenore di vita superiore alle sue possibilità. 24 Anch’ la prescia vole ’l tempo (Anche la fretta richiede del tempo) Questo proverbio ricorda, secondo l’esperienza dei nostri avi, che anche chi ha fretta non può fare a meno di quel minimo di tempo necessario per fare le cose come debbono essere fatte. Noi diciamo spesso che... il presto e bene non vanno d’accordo. Anch’ l’pulce han la tosse! (Anche le pulci hanno la tosse!) Quando pensiamo alla tosse ci vengono in mente persone o animali che possono essere affetti da questa malattia, ma non ci passa neanche per l’anticamera del cervello che la pulce - insetto piccolo per antonomasia - possa avere la tosse. Questo modo di dire sta ad indicare che anche un bambino (la pulce) a volte ha la pretesa di voler fare cose che sono tipiche dei grandi. L’espressione viene usata per mettere in evidenza che certe persone del tutto digiune in un certo campo - pulci in fatto di preparazione o di vedute - hanno la pretesa di dire la loro (tossire) alla pari o al di sopra degli stessi esperti. Anse’ si qualcuno n’ viene tajelo! (Anselmo, se qualcuno non viene taglialo!) Anselmo era il tuttofare nella frazione di Montalfoglio: era falegname, bottaio, arrotino e... barbiere! I suoi arnesi non erano molto efficienti, ma soprattutto era fuori uso la sua macchinetta per tagliare i capelli. Un giorno andò da lui “per farsi i capelli” un ometto di nome Vincenzo (era un mio zio) che era noto per le sue battute spiri25 tose. Anselmo iniziò il taglio dei capelli, ma già fin dall’inizio la macchinetta cincischiava e tagliava male. Molti dei capelli, più che tagliati, venivano strappati. Vincenzo, per non dire al suo barbiere che i capelli glieli strappava invece di tagliarglieli, disse: “Anse’, si qualcuno n’ viene tajelo!” A paga’ e muri’ ven sempre in tempo (A pagare e morire c’è sempre tempo) Il detto viene usato da certi debitori incalliti che non pensano proprio a pagare i propri debiti, anzi! Ricordano con compiacenza la buon’anima di Tumisguilli che ebbe a dire: “I debti vecchi n’ s’ paghne perché enn vecchi; quei nuovi basta fai invecchia’”. I debitori conoscono a memoria la loro cantilena: “Lundì non c’ i ho, Martdì non t’ i dò; Merculdì è San Clemente, Giuvdì n’ t’ dò gnente. Vence Vennerdì a bon’ ora o Sabto a qualunqu’ ora. Se per Domennca n’ t’ ho pagato Lundì arcominciamm da capo”. (Lunedì non ce li ho, Martedì non te li dò; Mercoledì è San Clemente, Giovedì non ti dò niente. Vienci Venerdì a buon’ora o Sabato a qualunque ora. Se per Domenica non ti ho pagato Lunedì ricominciamo daccapo). Insomma è proprio vero che certe persone sono convinte che “a paga’ e muri’, ven sempre in tempo”. 26 Aprile: dolce dormire; Maggio: l’assaggio; Giugno: l’insummio. (Aprile: dolce dormire; Maggio: è un assaggio; Giugno: è un sogno) In primavera il crogiolarsi nel letto è sempre stata una delle cose più desiderate dall’uomo. In Aprile anche l’agricoltore dei vecchi tempi poteva permettersi di indugiare un pochino sotto le coperte, ma nel mese seguente, a Maggio, i sonni erano rotti dalle preoccupazioni per i lavori impegnativi - si pensi alla fienagione o al “far la foglia” per i bachi da seta -. Bisognava “alzasse a bonora” (alzarsi presto) ed il sonno in questo mese era solo un... assaggio. A Giugno poi era un finimondo: c’era la mietitura - un lavoro da schiavi che durava 15/20 giorni, dall’alba al calar delle tenebre ma bisognava anche star dietro ai bachi nella fase culminante della “magnarella” (la furia). Il sonno a Giugno era proprio... un sogno! A quaranta e du’ figure (A quaranta e due figure) Nel gioco di tressette vince chi per primo arriva a quarantuno. A chi è arrivato a quaranta e due figure manca solo un terzo di punto per vincere, cioè manca pochissimo per arrivare alla fine del gioco. Il detto, usato in senso figurato, può voler indicare che una persona è arrivata alla fine dei suoi giorni, ma anche che per una certa situazione è facilmente prevedibile quale sarà la fine. Così si dice che è arrivato a “quaranta e du’ figure” un fuoco che ha finito di ardere e quindi sta per spegnersi, un albero talmente mal ridotto che sta per seccarsi, un ubriaco che barcolla e sta per cadere e così via. 27 Arcoje su broda e acene (Raccoglie broda e acini) Occorre subito precisare che in questo detto il termine “acini” sta ad indicare i semi dei vari legumi. Di solito, quando a tavola si porta una zuppa di legumi, si mangiano i legumi lasciando spesso nel piatto la broda o una parte di essa. Chi “arcoje su broda e acene”, è una persona che mangia senza tanti complimenti sia i legumi che la broda. Il detto sta ad indicare chi non sa distinguere (e poi scegliere) il buono dal meno buono. Ardaj, Mari’, co’ sta gamba! (Ridagli, Maria, con questa gamba!) È un po’ difficile capire quale sia l’origine del detto. Si possono immaginare delle situazioni nelle quali qualcuno si è espresso con “Ardaj, Mari’, co’ sta gamba!”, ma il trovare il perché qualcuno si è espresso così non è per noi la cosa essenziale. Quello che a noi interessa qui è il significato del detto. Esso viene usato per dire “non fare sempre la stessa cosa” oppure “non continuare a mettere il dito sulla piaga”, non insistere sempre sullo stesso argomento. Il detto viene usato anche nei confronti di chi dice o fa una certa cosa per la prima volta, ignaro che altri abbiano già detto o fatto quella stessa cosa. Arde comm i solfanei (Arde come gli zolfanelli) Gli zolfanelli, considerati i fiammiferi dei poveri, erano un tempo disponibili in ogni casa di campagna. Gli zolfanelli erano steccoline 28 di canne stagionate che avevano ad una estremità una capocchia di zolfo fuso; erano fatti in casa. Avvicinati ad un carboncino di brace si accendevano come un normale fiammifero e servivano per riaccendere la legna semispenta. Queste steccoline ardevano con facilità e per questo la combustione degli zolfanelli è diventata proverbiale. Arfa’ la boccia (Rifare la boccia) Il detto si usa quando si rende la pariglia o, come si dice, si rende “pan per focaccia”. Aria roscia: o piove o soffia (Aria rossa: o piove o soffia) Il termine “aria” vuoi indicare il cielo in genere, mentre “soffia” è il soffiare del vento. Nel contesto il proverbio significa che quando il cielo è arrossato c’è da aspettarsi o la pioggia o il vento. Questo proverbio fa a pugni con quell’altro a tutti noto: “Rosso di sera buon tempo si spera”. Il nostro proverbio parla di “aria rossa” senza specificare in quale ora del giorno e quindi è pensabile che si riferisca anche alla sera, ma ad analizzare bene il proverbio “rosso di sera buon tempo si spera”, c’è quel “si spera” che indica speranza e niente di più, mentre nel nostro c’è la certezza, anche se poi... Comunque i proverbi vanno presi per quel che sono, senza pretendere che siano infallibili; sono solo indicativi e vanno presi cum grano salis. 29 Ariva’ dopp’ i fochi (Arrivare dopo i fuochi) Il detto si rifa ai vecchi tempi quando si accendevano i fuochi alla vigilia dell’8 settembre, festa della Madonna, detta anche “la Madonna degli 8”. Già fin dai giorni precedenti i ragazzi delle frazioni e dei vari rioni dei paesi si preoccupavano di radunare una gran quantità di fascine trasportandole con carretti e persino sulle spalle nei luoghi prestabiliti. La sera del giorno fissato, dopo cena, si accendevano i fuochi che duravano fino a tarda notte. Chi arrivava in ritardo aveva perduto un grande spettacolo, un’occasione irripetibile. Arrivare dopo i fuochi significava e significa arrivare a cose fatte. “Arnova’ i pagne” (Rinnovare i vestiti) Con il termine “pagne” si intende ogni capo di vestiario. Un tempo, specie in campagna, quando c’era la miseria vera, la povera gente portava sempre i soliti vestiti o le solite vesti, tutte toppe e rammendi. Solo in rari casi riusciva a comperare la stoffa e andare poi dal sarto o dalla sarta per farsi confezionare un vestito, una gonna, una camicia od altro. Per gli indumenti di lana si provvedeva direttamente con lana di pecora. Erano le donne che, nelle lunghe sere d’inverno, filavano la lana con la rocca e il fuso e poi facevano le maglie od altro, stando vicino al focolare o nella stalla al calore animale. I capi di vestiario nuovo venivano “arnovati” (cioè messi per la prima volta) in un giorno festivo e questo rinnovo, quando si faceva, avveniva soprattutto in una delle maggiori feste dell’anno, quali la Pasqua o il Natale. Spesso si vedevano alla Messa di mezzogiorno, a Pasqua o a Natale, persone che ci andavano solo per osservare chi aveva il 30 vestito o il cappotto nuovo o per mostrare agli altri un capo nuovo. “Arnova’ i pagne” era dunque un avvenimento raro, e per questo il fortunato pagava da bere agli amici per “sbagna’ i pagne”. Questo vecchio uso è tuttora in vigore. Arven la paja al balzo (Ritorna la paglia al balzo) Nel detto si usa la parte per il tutto. Paglia sta ad indicare la spiga del grano che prima o poi finisce per essere stretta nella pressa - quella a mano s’intende - ed essere legata dal balzo (filo di ferro usato per legare i covoni). L’espressione indica che prima o poi ci si può rifare nei confronti di chi ci ha fatto un torto e ci sarà l’occasione d’“arfa’ la boccia”. A S. Andrea: o la neve o la bufea (A S. Andrea: o la neve o la bufera) Il giorno di S. Andrea cade il 30 novembre e per quel giorno o meglio per quei giorni - prima e/o dopo - bisogna mettere sul conto i primi freddi. È un proverbio tipico delle nostre campagne e sta ad avvertire gli agricoltori di fare le dovute provviste di farina e di legna in modo da poter stare in casa tranquilli. A Santa Barbara: sta vicino al foco e guardla (A Santa Barbara stai vicino al fuoco e guardala) 31 Santa Barbara è il 4 dicembre e il detto ci ricorda che inizia il freddo intenso e che bisogna stare attorno al fuoco, magari guardando l’immagine della Santa. Aspetta che Maggio venga Il detto si riferisce a una persona che pur potendo non agisce e magari perde un’occasione unica. Si può sollecitarla dicendo: “Chi ha tempo non aspetti tempo”. A te le cose t’ bocchine prima ntel culo che nn è ntla testa (A te le cose ti entrano prima nel culo che non nella testa) Alvaro era un bravo insegnante elementare che ha esercitato la sua professione per molti anni a Montalfoglio e per due anni anche insieme a me. La scuola al tempo dei fatti si trovava fra la torre campanaria e l’arco di entrata di questo paesetto medioevale. C’erano due aule spaziose ed uno stanzino ristretto che faceva parte della torre vera e propria. Appena si entrava nello stanzino e si alzavano gli occhi si vedeva una grossa pietra, in parte scalzata dal muro e pareva che dovesse caderti addosso da un momento all’altro. Gli scolari quando non studiavano proprio, a volte finivano lì dentro e Checco ci finiva spesso, anche perché invece di stare attento chiacchierava con il suo compagno di banco. Il poveraccio cercava di giustificarsi dicendo al maestro che lui si impegnava - così diceva lui - ma le cose non le ricordava. Un giorno che Checco chiese la stessa spiegazione per l’ennesima volta, il maestro Alvaro un po’ spazientico gli disse: “A te le cose t’ bocchne prima ntel culo che nn è ntla testa”. 32 Ave’ i uc(e)letti ntle mane (Avere gli uccelletti nelle mani) L’espressione vuol paragonare i morsi del freddo alle bezzicate degli uccelli. Il detto si usa quando si hanno i primi sintomi di congelamento alle mani. Ave’ la faccia comme ’l culo (Avere la faccia come il sedere) È detto di persona che ha la faccia tosta. Ave’ ’l bon nome e sta a la strada (Avere il buon nome e seguire la strada) E questa la raccomandazione che dovrebbero fare tutti i genitori ai propri figli: occorre avere una buona reputazione, ma bisogna meritarsela rigando dritto, seguendo la strada giusta. Bacia’ ’l culo a la vecchia (Baciare il sedere alla vecchia) Il detto è riferito a chi va per la prima volta in una località nella quale non è mai stato. Stando a questo detto, chi si recava in un centro mai visitato prima doveva baciare il sedere alla prima vecchia che incontrava. Il detto sta ad indicare che chi va in una località per la prima volta deve pagare il noviziato. 33 Bada gi’, che t’ho visto! (Vai pure, che ti ho visto!) Rafellino era sarto a San Lorenzo in Campo prima della guerra. Un giorno di autunno inoltrato andò da Spallaccia, un contadino suo cliente che abitava a San Cristoforo, con l’intenzione di riportare a casa qualche cosa. Giuanne, il capoccia, offrì da bere a Rafellino, gli diede una sporta di mele e poi gli disse che il martedì precedente, giorno di mercato, aveva comperato la stoffa per fare la giacca al piccolo Andrea. Giuanne, pensando che Rafellino volesse prendere le misure, chiamò Andrea che con una cesta era quasi arrivato sotto la grande quercia ad una trentina di metri da casa, per raccogliere le ghiande. Andrea sentendosi chiamare provò a tornare indietro ma, fatti pochi passi, sentì la voce del sarto che strillava: “Bada gi’ che t’ho visto!”, che era come dire: Non c’è bisogno di prenderti le misure. Il detto si usa oggi ironicamente per indicare chi lavora a braccio, con conseguenze facilmente immaginabili. Balla la vecchia (Balla la vecchia) Capita a volte, a causa del calore estivo, di vedere all’orizzonte il vapore che da terra sale verso l’alto e questo vapore ci fa vedere le cose come attraverso un vetro traslucido e per di più le vediamo traballare. Quando guardando lontano vediamo le cose offuscate dalla caligine, allora diciamo che “balla la vecchia”, forse per indicare il modo incerto del traballare apparente delle cose che vengono paragonate al ballo insicuro di una vecchia. Ma il detto, più che fare riferimento a questo fenomeno atmosferico causato dal calore, viene usato per far rimarcare che il gran caldo è in arrivo. 34 Balla su ’n soldo (Balla su un soldo) Il soldo, in uso fino alla seconda guerra mondiale, era la ventesima parte della lira e circolava come monetina di rame da 5 centesimi. Il nostro modo di dire sta ad indicare una persona agile e sveglia, ma anche chi sa far bene certe cose. Bastonate e acqua fresca Era questa un’espressione rivolta ai bambini che, avendo commesso qualche maracchella, dovevano aspettarsi le botte. “Bastonate e acqua fresca” significava che le bastonate sarebbero state tali da necessitare l’acqua fresca per lenire il dolore. Questa espressione ci ricorda che i genitori di un tempo non erano tanto teneri con i propri figli, anche se certe punizioni erano ritenute necessarie. Becca su le mane (Becca sulle mani) A proposito di creduloni a San Lorenzo c’è chi ricorda ancora ciò che capitò al tempo della prima guerra mondiale a Manone. Costui era un agricoltore che abitava in una casupola vicino al Rio Freddo. Era l’ultima casa del territorio di San Lorenzo. Per arrivarci si percorreva una stradina di terra battuta che a malapena lasciava passare un biroccio. Tolti i pochi mesi estivi la strada era difficile percorrerla anche a piedi. Manone conduceva una vita quasi da eremita e solo raramente - sì e no a Pasqua e Natale - lo si vedeva al paese. Il poveraccio il giorno della fiera d’Agosto venne a San Lorenzo 35 per vendere una manza. Il fattore trovò quasi subito l’acquirente giusto ed in poco tempo strinse il contratto. Manone si trovava come spaesato fra quella marea di gente: avrebbe voluto curiosare per la fiera, ma non vedeva l’ora di tornare a casa; si sentiva fuori dal suo ambiente, era proprio come un pesce fuor d’acqua. Lasciato il campo boario, mentre stava attraversando la piazza fu attratto da una strana merce che si trovava dentro una cassettina posata a terra. Chiese di cosa si trattasse ed il venditore rispose che erano “capple” (vongole). Manone si fece coraggio e chiese al venditore a che cosa servissero. Questi per tutta risposta disse semplicemente che era roba da mangiare. Manone insoddisfatto della risposta chiese dove le aveva prese. Il venditore capì di aver a che fare con un ingenuo. Gliene diede un cartoccio e gli disse: “Eccotene un po’. Una parte la puoi mangiare cruda ed una parte sarà bene che la pianti. Ricordati che queste vanno coltivate nelle buche come si fa con i fagioli, ma hanno bisogno di tanta acqua!”. Un mese più tardi a sella del suo cavallo arrivò il fattore a casa di Manone a portargli i soldi che gli spettavano per quella manza venduta alla fiera. Dopo aver parlato del più e del meno Manone, raccontò delle capple e concluse: “Quelle crude erne dure e nn i l’ho fatta a ciaccalle coi denti. Quelle c’ho piantate l’ho dacquate tutti i giorni, ma ancora nn enne nate!” (Quelle crude erano dure e non sono riuscito a schiacciarle coi denti. Quelle che ho piantate le ho annaffiate tutti i giorni, ma ancora non sono nate). “Bocca’sott al crino” (Entrare sotto il crino) Il “crino” era un cesto - oggi in disuso - a forma di botticella, alto circa 70 cm. e di circa 40/50 cm. di diametro. 36 Era intrecciato con vimini grossi che lasciavano fra di loro ampi spazi. Serviva per contenere erbe corte che non potevano essere legate a fascio, ma soprattutto veniva usato per contenere la “fronda”, cioè le foglie di certi alberi, quali: moro o gelso, acero, vite ed anche la foglia delle canne. Tutte queste foglie venivano sfrondate per i bovini. Quando in una famiglia di agricoltori nasceva un altro figlio, la mamma metteva temporaneamente il più grandicello sotto il crino il boxe del nostro tempo - per accudire al nuovo arrivato o ad altre faccende.“Entrare sotto il crino” significava per il bambino più grandicello perdere la sua importanza a favore del fratellino più piccolo. Oggi il detto si usa per indicare una persona che viene sottomessa da un’altra. Bocca unta e culo squartato (Bocca unta e sedére stracciato) Il detto veniva usato spesso in passato per evidenziare che c’era gente che mangiava bene (bocca unta), mentre non si preoccupava di comprarsi degli indumenti decenti. A quei tempi era facile vedere bambini, ma anche adulti, con i pantaloni stracciati nel sedere (culo squartato). Bocca unta n’ dice mai male (Bocca unta non dice mai male) Si dice di chi ha ricevuto o riceverà bustarelle o regalie; costui ha tutto l’interesse a non dire male di chi gli ha “untato le ruote”. 37 Botta chi, zecca là (... qui,... là) Il detto è di difficile traduzione letterale, perché i termini “botta” e “zecca” possono essere verbi, ma anche nomi. Nel primo caso “botta” ha valore di “bottare”, cioè colpire, mentre “zecca” ha valore di azzeccare o, meglio, centrare il bersaglio; significa che “chi vuoi colpire qui centra là”: si dice di una persona che nel parlare inizia un discorso e poi passa bruscamente ad un altro, senza un filo logico. Nel secondo caso la “botta” è il colpo e la “zecca” è un piccolo ramo; pertanto significa: “un colpo qui, un rametto (tagliato) là”. Nell’un caso o nell’altro si tratta di una persona che non sa fare un normale discorso logico, ma che... “salta di palo in frasca”. Bruma: davanti me scotta e dietro m’ consuma (Bruma: davanti mi scotta e dietro mi consuma) Bruma è il pieno inverno. E chi sta davanti al fuoco in questo periodo sente davanti un gran calore e dietro un freddo pungente. Il detto si usa per dire che in inverno, anche se stiamo vicino al fuoco, il freddo lo sentiamo ugualmente. Bubblà: batte el trentadue (Tremare dal freddo, battere il trentadue) “Bubblà” o “bibbia” è un verbo tipico del nostro dialetto e indica una persona che trema dal freddo. Con la seconda espressione “batte il trentadue” si vuoi indicare una situazione nella quale il freddo si 38 fa sentire ancor di più. Bisogna tener presente che con il “trentadue” si vuoi indicare la dentatura completa di un individuo e pertanto chi “batte ’1 trentadue” è una persona che batte i denti per il freddo. Queste espressioni oggi stanno scomparendo anche perché, tolti rari casi, nessuno soffre più il freddo. Ai nostri giorni disponiamo di indumenti adatti a difenderci dal freddo e le nostre case sono provviste di sistemi di riscaldamento adeguati. Bussa’ co’ i piedi (Bussare con i piedi) Per capire questo modo di dire bisogna ritornare agli anni Cinquanta e precedenti quando il mezzadro divideva con il padrone del fondo i prodotti dei campi al 50% ed inoltre era costretto a portare ogni tanto regalie al padrone e al fattore. Se non portava queste regalie veniva minacciato di essere mandato via dal podere. Quando l’agricoltore portava i regali - dagli animali da cortile alla frutta e verdura - doveva avere le mani talmente impegnate da essere costretto a “bussa” co’ i piedi”. Butta giù l’pacche del cielo (Butta giù le pacche del cielo) Ai vecchi tempi quando il cielo si faceva improvvisamente nero, foriero di tempesta, il sacrestano suonava le campane per allontanare il pericolo di una grandinata. Ma se nonostante ciò incominciava a grandinare, Stefano - che aveva il più grande podere di Castelvecchio - sganciava dal camino il catenaccio che sosteneva il caldaro e lo buttava fuori casa per far cessare la caduta della grandine. Era questa una delle tante credenze senza una spiegazione logica, ma 39 non era facile far capire alla gente che non c’era alcun nesso fra la grandine ed il catenaccio buttato fuori casa. Il cielo, secondo l’ingenuo modo di pensare dei nostri bisnonni, non era altro che un’immensa cupola posta sopra le nostre teste e da questa scendeva la pioggia. Quando dal cielo veniva giù la pioggia torrenziale, allora i nostri vecchi immaginavano che la grande cupola si spezzasse in due e che queste due metà (“pacche”) crollassero sulla terra assieme a tutta l’acqua che contenevano. Questa espressione ci da un’idea del modo di pensare di chi ricerca una spiegazione del perché di un fenomeno e, non riuscendo a trovare una risposta, ne dà una apparentemente ovvia. È questo un modo di dire molto calzante che ci fa capire lo stato d’animo di chi assiste ad un fenomeno fuori del normale. Buttasse su l’imbraca (Buttarsi sull’imbraca) L’imbraca è la parte di dietro dei finimenti dei cavalli da tiro e serve a trattenere il carro in discesa. Quando il cavallo si butta sull’imbraca si rifiuta di tirare. La persona che si butta sull’imbraca è quella che non fa più niente. Cacacalze È un modo di dire formato da due parole: caca e calze. Mentre la prima parola non ha bisogno di traduzione, la seconda, cioè calze, significa pantaloni. (Quelle che in italiano vengono chiamate calze, nel nostro dialetto sono indicate come “calzetti”). Il “cacacalze” è chi se la fa nei pantaloni perché ancora piccolo. Il modo di dire viene usato per lo più nei confronti dei bambini che vogliono fare cose che spettano ai grandi o prendono atteggiamenti tipici di persone mature. 40 Caccia ’l naso anche ‘ntel cul’ del diavolo (Mette il naso anche nel culo del diavolo) Questo modo di dire sta ad indicare una persona che potrebbe essere definita, usando il nostro dialetto, un “caccianaso”, cioè una persona che si impiccia delle cose degli altri. Si tratta spesso di una persona che va alla ricerca di pettegolezzo o di persona che cerca di scoprire cose che danno fastidio agli altri. A chi si comporta in questo modo occorre ricordare quanto avvertiva un vecchio proverbio: “Non metter bocca dove non ti tocca!”. Campara’ ’n antra magnata d’ cece (Campata un’altra mangiata di cece) Nei tempi passati quando la vita era... un po’ più dura di quella di oggi si usava spesso - forse anche troppo - pranzare o cenare con una zuppa di cece. Tenuto conto che questa cucina era frequente è facile capire che il detto stava ad indicare una persona poco lontana dalla sua fine. Cani e villani n’ chiudne l’porte (Cani e maleducati non chiudono le porte) Una volta l’unico mezzo di riscaldamento era il fuoco. Nelle case di campagna in ogni cucina c’era un ampio camino nel quale durante la brutta stagione ardeva in continuazione un bel fuoco. Serviva per scaldarsi, per cuocere gli alimenti e per ogni altro uso. Per mantenere il calore si aveva cura di tenere chiusa la porta che dava sull’esterno; ricordiamo che quasi sempre la cucina era la prima stanza in cima alla scala esterna della casa. Sotto la cucina c’era la stalla dalla quale saliva il calore animale, ma la cucina era un grande 41 stanzone da riscaldare e lì dentro si radunava tutta la famiglia. La famiglia di allora era di tipo patriarcale: a capo c’erano i genitori anziani (il “capoccia” e la “vergara”), poi venivano i figli che a loro volta potevano essere sposati e con un certo numero di figli propri. Si avevano così nuclei familiari formati anche da trenta-quaranta persone ed a volte anche di più. Il continuo via vai obbligava ad aprire e chiudere la porta causando in continuazione perdita di calore; quando la porta restava aperta c’era sempre chi strillava: - La porta! - ed aggiungeva: - Cani e villani n’ chiudne 1’ porte! -. Caricat’ comme ’n chiavaro (Caricato come un chiavato) Il chiavaio o chiavaro è colui che fa o ha in custodia le chiavi. Le chiavi un tempo erano grosse e pesanti ed il fabbro che le forgiava e le portava ai destinatari trasportava un grande peso. Il detto si addice a persona che trasporta più cose e pesanti, ma viene riferito anche a chi gliene hanno dette di tutti i colori. Carta canta e villan dorme (Carta canta e villano dorme) Questo modo di dire significa che la carta scritta parla e il campagnolo non lo sa o meglio non le dà importanza. Ciò che sta scritto non può essere negato: ci si rende conto che la “carta canta” quando ad esempio si ha a che fare con una scrittura o una multa. 42 C’ arvedemme a paja nova (Ci rivediamo a paglia nuova) La paglia è il gambo secco delle biade; normalmente noi la identifichiamo con il gambo secco del grano. Se “ci rivediamo a paglia nuova”, vuoi dire che ci rivediamo al nuovo raccolto. È come dire: “Ci rivediamo alla prossima occasione”. Insomma il detto è un augurio vero e proprio. C’chiappa la chioccia co’i pulcini (Ci prende la chioccia con i pulcini) La chioccia con i pulcini rappresenta la famiglia al completo. Non che il padre non conti, ma nel caso specifico è notorio che il gallo non si preoccupa né della chioccia né dei pulcini. Il nostro detto fa riferimento ad un incendio o ad un alluvione che non risparmia niente e nessuno; viene usato ad esempio nel caso di una grandinata che cade nel mese di Luglio: distrugge tutti i prodotti agricoli più importanti: grano, orzo, granoturco, uva, frutta ed ortaggi. Ce né tanti che t’ cavne i occhi (Ce ne sono tanti che ti cavano gli occhi) Il detto si usa quando si vuoi indicare una grande quantità di animali o di cose. È come dire che per il tanto guardare gli occhi rischiano di uscire dalle orbite. 43 C’entra camme ‘n cazzo e ‘n paternostro (C’entra come un cazzo ed un paternostro) Il detto è un po’ irriverente, ma di grande effetto. Il passare o il collegare un ragionamento con un altro di tutt’altro tipo è come passare da un discorso osceno ad uno sacro. È un lontano parente del detto in italiano: c’entra come i cavoli a merenda. Ce sta p’la pelle (Ci sta per la pelle) Il detto sta ad indicare chi per un’idea o per un interesse sostiene, a parole e/o a fatti, il suo punto di vista con accanimento tale che darebbe la pelle (la vita) pur di vedere realizzata la sua convinzione. C’ha du’ occhi bagarei! (Ha due occhi assonnati!) Bagareo deriva forse da baco da seta nell’ultima fase di sviluppo quando dalla bocca incomincia ad uscirgli il filo; ed è imbambolato. Chi ha gli occhi “bagarei” è assonnato ed imbambolato. C’ha la bocca sott’ al naso (Ha la bocca sotto il naso) La bocca serve per mangiare - anche se non solo - e tutti ce l’hanno sotto il naso. La bocca è sinonimo di mangiare e quando si dice di una persona che “c’ha la bocca sotto il naso” si vuoi intendere che quella persona si lascia corrompere facilmente. 44 Questo vecchio proverbio sembra coniato per certi personaggi della società di oggi. C’ha ‘l pepe ntel culo (Ha il pepe nel sedere) Chi non sta mai fermo è come se avesse il bruciore del pepe nel sedere. Il detto si usa per indicare chi è molto vivace, come certi bambini. C’ha l’ vacche ntle gambe (Ha le “vacche” nelle gambe) “Vacche” sono dette quelle macchioline rossastre causate dal calore che compaiono nelle gambe di chi rimane per molto tempo davanti al fuoco. C’ha ‘na ciafagna! (Ha una debolezza!) La traduzione a dire il vero non è proprio esatta se si tien conto che “ciafagna” è un termine intraducibile che corrisponde grosso modo a debolezza, sonnolenza, imbambolamento fusi insieme! Chi ha la “ciafagna” di solito è chi non ha dormito o chi ha straviziato o chi è ammalato. C’ha ‘na faccia da matto ch’arconsola (Ha una faccia da matto che riconsola) Da sempre in ogni paese ci sono delle persone un po’ bizzarre che 45 si comportano in maniera diversa dagli altri. Si tratta di individui che di solito non danno fastidio e che con il loro comportamento ci fanno tornare di buon umore. Dal loro modo di agire qualcuno si rende anche conto se cambia il tempo! C’ha ‘n palmo d’ lardo (Ha un palmo di lardo) In passato i maiali si allevavano non tanto per la carne che era pur sempre considerata, quanto per il lardo che in alcune zone costituiva l’unico condimento. C’era sì anche l’olio, ma l’usavano con disinvoltura solo coloro che lo producevano o i benestanti. Già prima del giorno della mattazione del maiale si facevano previsioni e scommesse sullo spessore del lardo. Un maiale che aveva un palmo di lardo era il massimo per chi lo aveva allevato. Oggi “c’ha ‘n palmo d’ lardo” è un modo di dire, usato generalmente nel gioco delle carte. Si dice così quando una partita, che avrebbe dovuto essere perduta, si è invece vinta per la bravura nostra o per la leggerezza dell’avversario. Insomma il modo di dire significa che in quella partita abbiamo conseguito un risultato quasi insperato. C’ha ‘na scucchia! (Ha un mento sporgente in fuori!) Chi ha la “scucchia” evidente, se sdentato, rischia che mento e naso si tocchino! 46 C’ha ‘na sventla! (Ha una sbornia!) I termini dialettali per indicare sbornia sono tanti. Oltre a “svenda” ricordiamo: castagna, bebbla, cuccuma, girandla, scuffia, calandra, mina... I termini per indicare sbornia sono tanti perché un tempo le sbornie erano molto più comuni di oggi. Ciò era dovuto forse al molto lavoro ed allo scarso cibo. Chi balla senza sono o ch’è matto o che nn ha del bono (Chi balla senza suono o che è matto o che non ha del buono) Il detto sta ad indicare che non è da persone normali ballare senza musica. Chi bella voi comparì, qualco’ ha da suffrì. (Chi bella vuoi comparire, qualcosa deve soffrire) Il detto è riferito ai vari tipi di tortura che sopportano le donne per apparire diverse da quelle che sono. Si pensi alla foratura delle orecchie per mettere gli orecchini o alla messa in piega, ai bigodini o alle altre diavolerie per cambiare la forma e/o il colore dei capelli. Chi beve prima dla minestra vede ‘l meddco da la finestra (Chi beve prima della minestra guarda il medico dalla finestra) Secondo il nostro proverbio è una buona abitudine quella di bere 47 prima dei pasti. Oggi si usa bere un aperitivo, ai vecchi tempi come si vede si consigliava di bere e basta. La Marietta si limitava a bere acqua e lei non aveva avuto in vita sua una sola malattia, non aveva avuto neanche la tosse o il raffreddore. Non conosceva né medici né medicine. Era ricorsa qualche volta al medico del paese il dottor Cardini, per un suo figlio di pochi anni, per qualche inconveniente di poco conto. H medico le aveva fatto notare che era troppo apprensiva per quel figlio, ma la Marietta non se ne dava per inteso. Un giorno la donna vedendo il bambino cosparso di puntolini rossi lo portò dal medico dicendo: “Dottor Gardlino, sto monello c’ha la rusulìa”. Il dottore diede un’occhiata al bambino e poi disse seccato: “Io non sono il dottor Cardellino e questa non è rosolia, ma sono vere morsicature di pulci!” Forse la Marietta avrebbe dovuto a quel suo figlioletto farlo bere prima della minestra. Chi cerca trova e... chi camina inciampa È normale che uno che cammina possa inciampare, come uno che cerca una certa cosa la possa trovare. È questa una considerazione ovvia ed il nostro detto sta lì a ricordare a chi cerca qualcosa di mettere impegno nella ricerca, perché prima o poi riuscirà a ritrovare l’oggetto cercato. Il nostro detto è un invito alla costanza ed alla metodicità in qualsiasi lavoro. Chi c’ l pane n c’ ha i denti, chi c’ ha i denti n’ c’ ha l pane 48 (Chi ha il pane non ha i denti, chi ha i denti non ha il pane) Questo proverbio ci vuoi ricordare che spesso chi ha le possibilità o le capacità di fare una certa cosa non ha voglia di farla, mentre chi ha buona volontà non ha i mezzi per farla. Il proverbio viene usato con un senso di invidia, ma più spesso con un senso di rammarico, per indicare una persona che non sa cogliere un’occasione favorevole ma soprattutto che non sa sfruttare le sue doti. Chi c’ha magna e chi n’ c’ha sta a vede (Chi ha mangia e chi non ha sta a vedere) I proverbi, che sono nati nei tempi antichi, fanno riferimento molto spesso ai grandi problemi di sempre: quelli della fame, del freddo, della miseria e così via. Molti sono i proverbi che si riferiscono al mangiare, ma soprattutto alle disuguaglianze fra i ricchi da una parte e la povera gente dall’altra. Ed è proprio il caso del nostro proverbio che dice che chi ha la possibilità mangia e chi non ce l’ha è costretto a guardare chi lo sta facendo. Naturalmente il proverbio è ancor oggi di attualità anche se non si fa più riferimento al mangiare inteso in senso stretto ma alle possibilità economiche di permettersi o meno certe necessità o certi lussi. Chi disprezza, compra e vole (Chi disprezza, compera e vuole) Spesso chi disprezza una persona, un animale o una cosa, lo fa 49 per sminuire il valore in modo che gli altri gli lascino campo libero perché a lui interessa e la vuole (quando si tratta di una persona) o la vuole comperare (quando si tratta di animali o cose). Chi è furtunato ntl’amore è sfurtunato a l’ carte (Chi è fortunato in amore è sfortunato alle carte) E un detto che sta ad indicare che non si può avere tutto, anche se c’è veramente chi crede al contenuto letterale del detto. Questo detto ne richiama alla mente un altro simile; “I sold’ e la salute n’ s’ possne ave” (“I soldi e la salute non si possono avere”). Quest’ultimo detto viene rivolto con significato letterale e con una punta di sarcasmo a chi è ricco ed accusa qualche malanno. “Co’ volete i sold’ e la salute?”. Chi fa colazione a casa, va a cena col mulinaro Fino alla metà degli anni Sessanta il pane nelle case di campagna era ancora fatto in casa e cotto nel proprio forno. Il pane “compro” e la farina “compra”, cioè acquistati al negozio, erano una eccezione ed un lusso. Ogni agricoltore provvedeva al proprio fabbisogno di farina caricando sul biroccio alcuni sacchi di grano assieme ad altre granaglie per il bestiame e andava al mulino. Capitava spesso però che fossero in molti a ritrovarsi davanti al mulino e così bisognava fare la fila per aspettare il proprio turno. Ancora oggi è molto in uso il detto “Chi arriva prima macina”, o l’altro meno usato “a la Messa e al mulino nn aspetta’ mai ’1 vicino”. Naturalmente chi arrivava tardi al mulino a volte tornava a casa che era ormai buio. E proprio a questo fa riferimento il nostro proverbio: “Chi fa colazione a casa” 50 Chi fatiga ‘na camiscia e chi n’ fatiga due (Chi lavora una camicia e chi non lavora due) Il proverbio vuoi ricordare che spesso gli sfaticati sbarcano il lunario meglio delle persone laboriose. Questo detto ci fa venire in mente l’altro: “Quant’ Natale ha poca luna, tutt’ l’putane han furtuna”. Chi gioca al lotto e spera de vence, sgappa dai stracce e bocca nti cence (Chi gioca al lotto e spera di vincere, esce dagli stracci ed entra nei cenci) Con questo proverbio si vuoi ricordare a tutti che non è facile migliorare il proprio stato di vita semplicemente giocando al lotto, anzi!... Chi gioca al lotto (o chi tenta la fortuna col gioco in genere) quasi sempre peggiora la propria situazione economica: dagli stracci (indice di povertà) passa ai cenci (indice di una povertà maggiore). Chi la sappa, chi la scura, ’l più cojon tien su la luma (Chi la zappa, chi la scure, il più coglione regge il lume) Le persone menzionate (colui che usa la zappa, colui che usa la scure e colui che regge il lume) non fanno parte di un gruppo omogeneo, ma sono piuttosto persone prese a caso; c’è chi fa un lavoro per un compenso (lo zappatore e lo spaccalegna) e chi come il fesso che regge il lume presta la sua opera senza un compenso e per di più viene di solito preso in giro; è pur sempre colui che regge il moccolo! Il proverbio vuoi farci notare che fra tanta gente il fesso non manca mai. 51 Chi magna e non invita, se strozzasse ogni mulica Chi mangia e non invita, si strozzasse ad ogni mollica) Per capire questo detto bisogna rifarsi a quando anche da noi c’era gente che aveva fame - quella vera - e così quando vedeva qualcuno mangiare desiderava essere invitato. In caso negativo pronunciava il detto che suonava come una maledizione a chi pensava solo a sé. Chi n c’ piove (Qui non ci piove) Chi pronuncia questa frase, contemporaneamente rappresenta con le mani un ombrello: atteggia una mano a mo’ di emisfera e la tocca sotto al centro con l’indice dell’altra per rappresentar il manico dell’ombrello. Questa espressione come l’altra: “Chi n’ e’ s’pianta ‘I chiodo” sta ad indicare che chi parla non si lascerà sopraffare da altri. Chi nn è bono pel re nnè bono manch pla regina (Chi non è buono per il re, non è buono neanche per la regina) È noto che per essere dichiarati “buoni per il re” cioè abili alla leva militare, si viene sottoposti a visita medica e ad un formale colloquio per la destinazione all’arma. Peppe e Giuanne molti decenni fa andarono, cartolina alla mano, al distretto militare di Pesaro. Dopo la visita medica furono fatti entrare insieme per il colloquio attitudinale. Prima fu la volta di Peppe che alla domanda cosa sapesse fare rispose: “anicò” (ogni cosa), la stessa domanda fu posta a Giuanne che subito rispose: “lo gnente, 52 sa fa anico tu’” (Io niente, sa fare ogni cosa lui). Non sarà stato per questa risposta ma Giuanne fu scartato. Il proverbio “chi nn è bono pel re nn è bono manch pla regina” viene ricordato a chi è inabile al servizio militare. È come dire: non hai il fisico per fare il militare e pertanto non ce l’hai neanche per fare l’amore. Chi nn è morto s’arvede (Chi non è morto si rivede) Avolte ci capita di non vedere per lungo tempo una persona che ci deve pagare e ci viene il sospetto che quella persona possa essere scomparsa; poi un certo giorno la rivediamo e allora usiamo il detto, come per dire: Pensavo che fossi morto. Finalmente ti rivedo! Altre volte il detto si usa nei confronti di chi arriva con molto ritardo e sta al posto di: Arrivi adesso? Credevo che fossi morto! Chi nn è svelt’ a magnà, nn è svelt’ a fatigà (Chi non è svelto a mangiare, non è svelto a lavorare) Il detto era notorio in campagna un tempo. Di solito chi aveva lavorato sodo aveva anche un grande appetito. Il detto serviva a stimolare i commensali a consumare il pasto in fretta in modo che si potesse dedicare più tempo al lavoro. A Montalfoglio c’era un modo un po’ particolare per avvisare i mietitori che era ora di pranzo e che quindi potevano partire dal campo: la massaia metteva un panno bianco ad una finestra di fronte al campo. Così non c’erano contrattempi e si era più svelti a fatigà! 53 Chi nn ha bona testa ha bone gambe (Chi non ha buona testa ha buone gambe) Spesso ci capita di andare da qualche parte (in giardino, in cantina o in soffitta) per fare o prendere una certa cosa. Solo quando siamo ritornati ci rendiamo conto di aver dimenticato il vero scopo del nostro spostamento, e a quel punto dobbiamo ripercorrere la stessa strada. Il proverbio ci ricorda che chi ha dimenticato di fare qualcosa (“chi non ha buona testa”) dovrà ritornare sui suoi passi (“ha buone gambe”). Chi non piscia in compagnia o è ’n ladro e è ‘na spia (Chi non piscia in compagnia, o è un ladro o è una spia) Il detto sta ad indicare che quando si è in compagnia si fa sempre quello che fanno gli altri pur di rimanere insieme. Chi n’ risiga n’ rusiga (Chi non rischia “non rosicchia) Questo proverbio si addice a chi è negli affari ed in genere a tutti coloro che svolgono un lavoro di commercio, oltre naturalmente a chi gioca al totocalcio, al lotto o a chi gioca d’azzardo. A dir il vero non sempre chi rischia rosicchia, perché a volte chi rischia subisce una perdita anche grave. Comunque il proverbio ci vuoi ricordare che senza rischio non c’è profitto. 54 Chi n’sa legg la su scrittura è ’n somaro addirittura (Chi non sa decifrare la sua calligrafìa è un somaro vero e proprio) Un tempo nella pagella della scuola elementare c’era anche la voce “calligrafia e bella scrittura” e molti erano gli insegnanti che al dettato davano due voti: uno per l’ortografia e uno per la “bella scrittura”. Oggi non si tien conto della calligrafia, anche perché i bambini imparano a scrivere imitando le lettere dell’alfabeto senza seguire una tecnica specifica e così vengono fuori le grafie più strane, a volte difficili da decifrare. Le cose poi peggiorano con il passare degli anni, cosicché a volte un alunno del secondo ciclo della scuola elementare scrive proprio “come un medico o un farmacista”. Fra gli insegnanti c’è chi sostiene che la calligrafia non è poi importante: quel che importa è il contenuto. Purtroppo però a volte può capitare che qualcuno non riesca a decifrare quello che lui stesso ha scritto. Nel qual caso c’è sempre chi gli ricorda il nostro proverbio. Chi n’ s’ guzza ’n chiodo (Qui non si aguzza un chiodo) Oggi i chiodi si comprano a chili e vengono tenuti in poca considerazione, ma un tempo erano fatti dal fabbro alla forgia e richiedevano un minimo di tempo ognuno. Era logico quindi che a quei tempi i chiodi usati venissero riutilizzati, raddrizzando quelli storti ed aguzzando quelli spuntati. Ma già allora i fabbri rimandavano il fare i chiodi a periodi nei quali scarseggiava il lavoro, perché il fare chiodi dava poco guadagno. Se 55 dava un guadagno modesto a chi era del mestiere e li produceva “in serie”, possiamo immaginare quanto poco guadagno ne ricavasse chi si metteva a far la punta a un chiodo. “Chi n’ s’ guzza ‘n chiodo”, ma anche “chi ri s batte ‘n chiodo” (dove battere sta ad indicare il martellare) significano che non si fa niente di utile. Chi pel foc’ e chi pia legna, per magna’ ognun s’ingegna (Chi per il fuoco e chi per la legna, per mangiare ognuno s’ingegna) C’è sempre chi attizza il fuoco e chi porta la legna quando si tratta di preparare da mangiare. È normale che quando delle persone si trovano insieme e devono preparare da mangiare, tutte si diano da fare. Chi pia prima, pia du’ volte (Chi prende prima, prende due volte) E vero che quando c’è da dividere qualcosa chi prende per primo, se c’è la possibilità, prenderà anche per la seconda volta mentre gli altri rimarranno a bocca asciutta. il detto è un invito a voler approfittare subito quando si presenta un’occasione favorevole. Chi piscia tra ’l foco, va l’inferno e n’ trova loco. Chi piscia tra l’acqua, va l’inferno e nn ariscappa 56 (Chi piscia tra il fuoco, va all’inferno e non trova riposo. Chi piscia tra l’acqua, va all’inferno e non riscappa) Talete di Mileto, uno dei sette Savi dell’antichità e uno dei filosofi della Scuola Ionica, riteneva che l’acqua fosse il principio di tutte le cose, forse perché la vita è accompagnata sempre dall’acqua (come nel caso della germinazione delle piante) o da un elemento umido (come l’inizio della vita degli animali e delle piante). Empedocle di Agrigento, anch’egli grande filosofo, riteneva che i principi delle cose fossero: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. In tutti i tempi l’uomo ha sempre ritenuto che l’acqua e il fuoco fossero i due elementi purificatori di tutte le cose. I nostri antenati ebbero sempre grande rispetto per l’acqua e per il fuoco e nessuno si sarebbe mai azzardato a pisciarci sopra ed il proverbio suona a maledizione a chi lo fa. Oggi purtroppo il rispetto per l’acqua è solo un ricordo. Il fuoco poi... viene usato per distruggere i boschi! Chi pole n’ vole, Chi vole n’ pole; chi fa nnel sa, chi sa, nnel fa, E cuscì che ’l mondo va (Chi può non vuole, chi vuole 57 non può; chi fa non lo sa, chi sa, non lo fa. E così che il mondo va) “Pole” nel dialetto di oggi è poco usato, ma un tempo era di uso comune; attualmente si usa “po’” con valore di “può”. Il proverbio è molto eloquente e ci spiega come in certi casi o in certi periodi vada il mondo. E un mondo che procede al rovescio: chi può agire non lo vuole fare, chi lo vuole fare non può (perché impedito da altri), chi fa non sa fare, chi sa fare non fa. Se ci giriamo intorno ed osserviamo attentamente la realtà ci rendiamo conto che questo vecchio proverbio può essere tranquillamente citato anche ai nostri giorni. Chi prima de San Marco se spoja, s’arveste co’ n’ gran voia (Chi prima di San Marco si spoglia, si riveste con grande voglia) Chi si toglie i vestiti pesanti prima di S. Marco, cioé verso la fine di Aprile, se li rimetterà in gran fretta. Il proverbio ci consiglia di non alleggerirci prima del tempo. Nella Vallata del Cesano, quando qualcuno va in maniche di camicia prima del tempo si usa dire, in tono ironico, che “ha smaggiato”, il che è comne dire: si è vestito come se fosse già passato maggio. “Chi risparagna, ’l gatto se l’ magna” (Chi risparmia, il gatto se lo mangia (il risparmio) La Marietta che abitava in una casupola di campagna nei dintorni 58 di S. Cristoforo aveva avuto in regalo una bella forma di formaggio. Gigetto, il marito, avrebbe voluto fettarla e mangiarsela ancora fresca, ma la Marietta tanto disse e tanto fece che alla fine convinse il marito a metterla sulla vecchia tavola del pane nel magazzino. Ogni tanto la Marietta andava nel magazzino, saliva sopra la sedia appoggiata di fianco alla tavola e rigirava la forma di formaggio. Gigetto ogni tanto sbirciava la forma e pensava a quando avrebbe potuto almeno assaggiarla. Certo assaggiarla non mangiarla perché la Marietta aveva già deciso cosa farne: formaggio grattugiato e nient’altro. Un brutto giorno la Marietta andò nel magazzino per rigirare il formaggio, ma non ci fu bisogno. I gatti si erano occupati di quella bella forma, riducendola a pochi pezzetti rosicchiati. Quando la Marietta informò dell’accaduto Gigetto, questi senza batter ciglio disse: “Chi risparagna, ’1 gatto se 1’ magna!”. Chi scola paga (Chi scola la bottiglia, paga) Spesso ci capita di andare al bar o all’osteria e, trovandoci in comitiva, ordiniamo una bottiglia. Dopo aver versato da bere ai presenti, può succedere che una parte rimanga ancora nella bottiglia. Si beve e poi c’è chi si versa ancora da bere; è allora che qualcuno, anche se scherzosamente, avverte che “chi scola paga”. Chi sgappa da ’n punto sgappa da mille (Chi esce male da una situazione, esce male da mille altre situazioni, legate alla prima) Il povero Luchetta, un agricoltore di Fabriano, non aveva voluto 59 comprare il podere di Checchino il Guercio perché secondo lui il prezzo era troppo alto e il terreno era solo di pochi ettari. Aveva i soldi necessari ma aspettava tempi migliori. La moglie Adele che era stata sempre favorevole all’acquisto incominciò a portargli il muso. Intanto passò il tempo e i prezzi lievitarono e quando Luchetta si decise per l’acquisto si accorse di disporre solo della metà somma necessaria. Si accontentò di acquistare una vecchia casa cadente con un orticello ma non riuscì mai ad aggiustarla anche perché il muratore che andò a vedere il da farsi gli disse che avrebbe dovuto riprenderla dalle fondamenta. Il che era come dire rifarla nuova o quasi. Così Luchetta non potè mai sistemarla. Potete immaginare la rabbia di Adele che continuò a rimproverare ogni giorno il marito per quell’affare mancato. Checchino si ammalò e rimase infermo per tanti anni. Un giorno riferendosi a quel mancato acquisto e alle sue conseguenze disse all’Adele: “Chi sgappa da ‘n punto sgappa da mille”. Checchino morì povero e disperato, forse anche per un destino avverso. Chi s’ loda s’ sbroda (Chi si loda si sbroda) Menco era un agricoltore che a Castellone era noto per quel suo parlare senza interruzioni. Sapeva sempre tutto e su tutti ed a casa sua secondo il suo modo di dire tutto andava per il meglio. Le sue vacche poi erano fra le migliori di tutti gli agricoltori delle due vallate che dominava dall’alto del suo podere. Erano in verità vacche sempre ben strigliate e con le corna lucidate, ma Menco era anche l’unico che si fermava a pulir loro il sedere dopo che queste 60 avevano soddisfatto i propri bisogni corporali. Lo faceva ovunque ed aveva sempre all’uopo qualche straccio pulito a portata di mano. I vicini però raccontavano volentieri i suoi modi anomali di trattare le vacche e sua moglie che guidava la “stroppa”, durante l’aratura. Quando le vacche si fermavano Menco senza usare la frusta di carpignano le incitava a voler proseguire dicendo: “Calate giù, Bio’; calate giù, Faorì” dando quindi alle vacche del voi. Se poi le vacche non accennavano a muoversi, allora Menco si rivolgeva alla moglie gridando: “Tocca giù ste vacche, puttana!”. Chi sputa ai cristiani fa la morte dei cani, chi sputa ai poretti, fa la morte di uc’letti (Chi sputa alle persone fa la morte dei cani, chi sputa ai poveretti, fa la morte degli uccelletti) Lo sputare addosso a una persona è sempre stato considerato atto di volgarissima offesa o di supremo disprezzo. Nel nostro idioma il termine “cristiani” ha valore di “persone” e si usa spesso quando si vuoi far distinzione fra persone ed animali (“I cristiani... le bestie...”), ma si usa anche quando si vuoi rimarcare che anche il più delinquente o il più disgraziato è pur sempre una persona “è ’n cristiano, nn è ’na bestia!” (è una persona non è una bestia!). La prima parte del nostro proverbio “Chi sputa sui cristiani fa la morte dei cani” ci vuoi far riflettere su un fatto evidente: chi si comporta in maniera incivile viene quasi sempre evitato da tutti e finisce con il rimanere solo, proprio come un cane. Chi poi, come è detto nella seconda parte, “sputa addosso ai poveretti”, o più sempli- 61 cemente a coloro che non possono o non sanno difendersi, farà una morte ancora peggiore: prima o poi troverà qualcuno che gli farà fare la morte degli uccelletti: morirà cioè di una schioppettata. Chi sputa pr aria j arcasca addosso (Chi sputa per aria gli ricade addosso) Il proverbio viene usato sempre in senso figurato e sta a signifi care che chi sparla degli altri finirà con l’essere disprezzato da tutti, cosicché il suo “sputare” (disprezzare o calunniare) sugli altri gli si ritorcerà contro. Chi tardi inossa, tardi infossa (Chi sviluppa la propria dentatura tardi, va nella fossa tardi) Il proverbio è in lingua italiana e fa pensare che ad inventarlo sia stata una persona colta, forse un esperto della crescita. Non so quanto ci sia di vero sulle affermazioni di questo proverbio, anche se osservando un bambino o una bambina che mostra qualche ritardo nello sviluppo fisico, in seguito con il passare degli anni quella stessa persona ci sembra molto più giovane di quanto non sia realmente. Chi va a caccia i pagni straccia, niente piglia e rovina la famiglia Questo proverbio mette alla berlina il cacciatore perché si strappa i vestiti (passando fra rovi e sterpi di ogni genere) e torna a casa quasi 62 sempre a mani vuote portando in rovina la sua famiglia. Teniamo presente che ai vecchi tempi era necessario lavorare sodo per tante e tante ore al giorno e pertanto chi trascorreva del tempo a girovagare per le campagne era considerato persona che non pensava agli interessi della propria famiglia. Chi va a la veja e nn è invitato arva’ a casa sconsolato (Chi va alla veglia e non è invitato ritorna a casa sconsolato) In campagna si usava andare alla veglia da un vicino, su invito. La veglia generalmente si svolgeva nella stalla al calore animale. Mentre si mangiavano lupini o castagne e si beveva vino brulé, si giocava a carte e si parlava dei lavori dei campi o si ascoltavano racconti fantastici su malocchio, spiriti, streghe, lupi marinari e così via. La veglia poteva poi essere rallegrata dalla fisarmonica che era suonata ad orecchio. La musica era uno zibaldone di note un po’ simili per tutti i balli: furlana, mazurka, polka, saltarello, valzer... Le persone non invitate alla veglia non erano gradite e spesso si recitava: “Piove, piove, mal temp’ è, a casa d’altri n’ se sta be’. E s’ io fussi a casa d’altri come j altri a casa mia piana la spiccia e girìa via!”. (Piove, piove, cattivo tempo è, a casa d’altri non si sta bene. E se io fossi a casa di altri, come gli altri a casa mia, in fretta me ne andrei via). 63 Chi va dal letto al foco perde ’l loco (Chi va dal letto al fuoco perde il posto) Bisogna riandare con la mente alle fredde sere d’inverno quando si stava attorno al focolare. Spesso capitava che attorno al camino ci fossero più persone di quante potesse ospitarne. Chi per una ragione o per un’altra si allontanava dalla “prima fila” spesso aveva la sorpresa di vedersi soffiare il posto. Ed allora l’usurpatore si giustificava citando il nostro detto, o quell’altro: “Chi va a Roma perde la poltrona” che è come dire: chi parte perde il posto. Chi vole ’l prete, camina (Chi vuole il prete, cammina) Nei tempi passati il prete, specie nei piccoli centri, era una delle persone più in vista. Generalmente dotato di buona cultura, era colui che più di altri era in grado di consigliare, ma anche di risolvere molti problemi. Era naturale quindi che molti fossero coloro che si recavano in parrocchia alla ricerca di una soluzione dei loro problemi che potevano essere di ordine morale o più semplicemente quelli riguardanti la mancanza di beni di prima necessità. Molto spesso O prete dava di che sfamarsi o indirizzava verso qualche persona agiata che avrebbe potuto darle una mano. Il detto “chi vole ‘1 prete, camina” si usa per dire che chi ha la necessità deve darsi da fare e non pensare che lo facciano gli altri per lui. 64 C’ho ’n magone! (Ho un dispiacere!) Chi ha il “magone” ha un grosso dispiacere che naturalmente può derivare da varie cause. ‘ Chi usa questa espressione è una persona che non riesce più a tener dentro di sé la sua pena e cerca di scaricarsi facendo partecipe del suo dispiacere l’interlocutore. C’ho ’n rusighino (Ho qualcosa “dentro” che mi rosicchia). Chi ha il “rusighino” è chi ha dentro di sé livore nei confronti di qualcuno per un’offesa subita e non vede l’ora di esternare la sua rabbia. C’ho ’n so che (Ho un so io che cosa) Il modo di dire viene usato quando non si vuoi mostrare subito una certa cosa, ma si vuoi tenere l’interlocutore in sospeso. L’espressione significa: “Ho (per te) una certa cosa” Insomma “n so che” è sempre una sorpresa. Cinque diti e ‘na paura (Cinque dita e una paura) Il modo di dire si usa quando si vuoi indicare la provenienza di qualcosa che è stato rubato. Le cinque dita rappresentano la mano che ha eseguito il furto e la paura è quella del ladro all’atto del furto. 65 Le mamme hanno sempre insegnato ai propri figli, fin dalla più tenera età, che non si deve mai rubare e facevano imparare loro questa filastrocca: Il pollice dice che ha fame, l’indice che non c’è il pane, il medio dice: “Come faremo?”, l’anulare risponde: “Ruberemo!” il mignolo: “Nicchia, nicchia, chi ruba s’impicca”. Il mignolo, cioè il più piccolo dei cinque fratelli, è il più saggio e la sua considerazione suona così: “Nicchia, cioè fai pure l’indeciso se rubare o no, ma ricordati che il ladro si usa impiccarlo!”. C’ magna l’ovo bnedetto (Ci mangia l’uovo benedetto) n modo di dire si usa nei confronti di chi esegue un certo lavoro con estrema lentezza. È come dire che ci impiegherà fino a Pasqua. Co’ aspetti Maggio? (Cosa aspetti Maggio?) Il detto si usa per sollecitare una persona a voler agire subito senza aspettare ancora per chissà quanto tempo. Co’ c’entra la gatta, si la padrona è matta!? (Cosa c’entra la gatta, se la padrona è matta!?) Il gatto (o la gatta), si sa, frequenta volentieri la cucina e qui può 66 succedere che chi è alle prese con i fornelli possa lasciare incustodito pesce, carne o altro. È normale che il gatto ne approfitti con conseguente disperazione della cuoca, ma “che colpa ha la gatta se la persona è distratta?” Il proverbio viene usato anche quando per negligenza degli adulti a combinare qualche guaio sono i bambini piccoli o gli animali in genere. Co’ è ‘sta rusmaia? (Che cos’è questo avanzo?) “Rusmaia” deriva da “rusumi” (avanzi di pasto degli animali) da non confondere con “rusume” (prurito). L’espressione sta ad indicare persone, animali o cose di poco conto. Co’ è? ‘L pista pi dindi? (Che cos’è? Il pisto per i dindi?) Il “pisto” - dal tardo latino - è il pesto, cioè il risultato del pestare o battere col manarino, riducendo qualcosa (nel nostro caso le erbe, di solito le ortiche) ad una poltiglia che viene poi data da beccare ai dindi o tacchini. La locuzione di solito sta ad indicare una minestra o una pasta passata di cottura («sghiozzata»). Co’fai l’ nozz’ coi fonghe? (Cosa fai le nozze con i funghi?) Un tempo, a differenza di oggi, era facile procurarsi i funghi. Bastava andare nel vicino bosco e raccoglierli. Forse per questo 67 erano considerati cibo di nessun conto. Il pranzo di nozze è sempre stato molto costoso e farlo con i funghi voleva dire spendere molto poco, il che era un contronsenso. Il detto sta ad indicare chi, in certe occasioni, vuoi spendere troppo poco. Co’ hai fatt’ la fuga al lepre? (Cosa hai fatto la fuga alla lepre?) Questo modo di dire viene rivolto a chi è “galato”, cioè senza voce. Di solito dopo una sudata se si sta fermi in un luogo ventilato si perde la voce. Secondo la fantasia popolare chi ha perduto la voce è una persona che ha cercato di acchiappare una lepre, cioè ha fatto una bella corsa con conseguente sudata ed è rimasto esposto all’aria. Il nostro modo di dire cerca di spiegare umoristicamente il perché si è persa la voce, ma in realtà la domanda viene posta per conoscere le ragioni dell’afonia. Co’ la bellezza n’ c’ho cenato manch’ ’na sera (Con la bellezza non ho cenato neanche una sera) Ieri più di oggi non si andava tanto per il sottile e si ricordava a chi pensava al matrimonio che bisognava guardare la consistenza economica e non la bellezza, perché con questa non si mangiava. Co l’aco e la pezzola si, mantìen la famiiolà (Con l’ago e la pezzuola si mantiene la famigliola) 68 Oggi questo proverbio è un po’ fuori moda. Non si usa più mettere le pezze ai vestiti da lavoro anche perché a volte costa meno comprarli nuovi che rattopparli. E poi le toppe non le vuole più nessuno se non certi giovani di oggi che se le fanno mettere sui loro indumenti, ma solo per il gusto di farsi notare. Una volta invece era una necessità e spesse volte rattoppando gli indumenti si riusciva a tirare avanti la famiglia. Il proverbio era un invito al volersi adattare alle situazioni di quel tempo. Col tempo e la paja s’maturne le nesple (Col tempo e la paglia si maturano le nespole) Le nespole in questione sono quelle dalla bacca bruna della grandezza di una piccola mela che maturano in novembre. Queste nespole sono mangiabili solo se molto mature, quando sono quasi marce e non prima perché contengono una grande quantità di tannino che le rendono molto aspre. Per farle maturare si usava metterle tra la paglia per molti giorni. Il proverbio ha valore di: dare tempo al empo. Comanda e fà da te e sarai servito (Comanda e fai da te se vuoi essere servito) Comandare è un imporre o se si vuole un manifestare la propria volontà perché sia eseguita una certa cosa. Ma il più delle volte è inutile comandare perché o la cosa viene eseguita male o non viene eseguita affatto. L’unica soluzione è quella di fare da soli. Il detto vuoi significare che: “Se vuoi che una certa cosa sia fatta bene ed essere accontentato, fattela da solo!”. 69 Come si vede gli sfaticati non ci sono solo oggi ma sono sempre esistiti anche se il detto è forse di attualità più oggi che un tempo. Combatt’ la lima e la raspa (Combatte la lima e la raspa) Lima e raspa sono due arnesi simili ed entrambi servono per assottigliare, rodere e pulire; il primo serve per lavorare il ferro e il secondo per lavorare il legno. Lima e raspa, per sfregamento riducono in polvere ferro e legno, ma se vengono sfregate fra di loro che cosa succede? Dato che entrambe sono di acciaio è difficile dare una risposta. Comunemente noi usiamo dire “combatt’ la lima e la raspa” quando si affrontano due persone simili ed è quasi impossibile prevedere chi avrà la meglio. Com va? Com chi lavora co’ i cani: mal d’insù e pegg d’ingiù! (Come va? Come chi lavora con i cani: male all’andata e peggio al ritorno!) Alla domanda “come va?”, chi risponde è una persona convinta che le cose vadano proprio male se in quel momento paragona l’andamento della sua vita al risultato di un’immaginaria aratura con i cani che sostituiscano i buoi nella trazione dell’aratro. Anche se l’aratro fosse a misura di cani il risultato sarebbe proprio desolante! Il proverbio serve a rimarcare che le cose vanno male e basta. A volte per commentare che le cose non vanno per il verso giusto 70 si usa anche un’altra espressione: “Van male i bozzi!”. Ricordiamo che ancora nel dopoguerra era in uso nelle nostre campagne allevare i bachi per la produzione dei bozzoli da seta. Allevare i bachi era da parte degli agricoltori un aggiungere al già duro lavoro di quei tempi un super lavoro. Basti pensare che allevare i bachi voleva dire lavorare per più di quaranta giorni per molte ore, in aggiunta ai già tanti lavori pressanti e proprio nei mesi di maggio e giugno quando occorreva prestare tante cure alle viti e ai fieni. Il correre dietro ai bachi era un’impresa se si pensa che l’ultimo periodo di voracità dei bachi (la “magnarella” cioè la furia) coincideva spesso con l’inizio della mietitura. Se poi, dopo tanto affannarsi, i bachi, proprio quando stavano per trasformarsi in bozzoli, si ammalavano... allora era proprio il caso di esclamare: “Van male i bozzi!’. Comm va? Comme ’l somaro del compa’: più lo tocchi e meno va (Come va? Come il somaro del compare: più lo pungoli e meno va) Quando ad una persona alla quale le cose non vanno bene, gli chiedi come va ti puoi sentire rispondere: “Come il somaro del compare che anche se pungolato, s’impunta e non vuoi saperne di andare avanti”. Il proverbio si usa per evidenziare che più ci si da da fare e peggio è. Questo proverbio ha un significato ancora più forte di quello precedente. Serve per indicare che le cose vanno proprio tutte storte. 71 Co’ sfuticchi? Co’ struficchi? (Cosa fai?!) Il verbo “sfuticchtó” significa fare qualcosa senza riuscirci, mentre O verbo “struficchià” significa fare qualcosa senza mettere grande impegno nel lavoro che si sta facendo. Entrambi stanno a significare un fare senza un vero risultato. Co’ sgaggi!? (Cosa gridi!?) Di solito gli agricoltori usano un tono di voce più alto di altre persone. Ciò forse è dovuto al fatto che sono abituati a parlarsi da un campo all’altro. Il tono di voce alto, a volte stridulo, da fastidio a quelle persone che non ci sono abituate e per questo le senti dke al proprio interlocutore: “E co’ sgaggi!?” “Sgaggiare” è fare il verso della “gaggia” (gazza), è oltretutto un modo di comunicare poco aggraziato. Co’Sgaucci? (Cosa grufoli?) “Sgaucciare” è un verbo quasi intraducibile: è il grufolare, ma anche il rovistare maldestro alla ricerca di qualcosa. Lo “sgaucciare” è tipico del porcello al quale un tempo per impedkgli di grufolare gli veniva infilato al grugno un filo di ferro legato ad anello. Non dimentichiamo che il maiale spesso si lasciava libero intorno a casa ed il suo grufolare poteva rendere impraticabile l’aia. 72 Costa ’n sangue (Costa un sangue) Con questo modo di dire si vuoi mettere in evidenza il prezzo esagerato (o ritenuto tale) di una certa cosa. Con valore simile ma sicuramente con una carica emotiva maggiore viene usato l’altro: “Costa ‘n colpo e mezzo”. Entrambi i modi di dire trovano un riscontro nella lingua italiana nell’espressione: “Costa un occhio della testa”. Costa più che ’l sale a Perugia Perugia è capoluogo dell’Umbria e l’Umbria è l’unica regione dell’Italia Peninsulare che non è bagnata dal mare. Il sale a basso costo è quello delle saline che si ottiene mediante l’evaporizzazione dell’acqua del mare. Un tempo (quando non era ancora monopolio di Stato ed il prezzo variava secondo il mercato) andarlo a comprare a Perugia voleva dire pagarlo al più alto prezzo. Il nostro proverbio - “costa più che ‘1 sale a Perugia” - sta ad indicare l’alto costo di un certo prodotto o di una certa prestazione. Co’ ’sti lumi d’ luna! (Con questi lumi di luna!) Un tempo le case erano illuminate con lumi a petrolio; Pilluminazione ad acetilene era spesso un lusso perché il carburo aveva un costo superiore a quello del petrolio, e la candela, come oggi, era usata solo in casi di emergenza. L’illuminazione che non costava niente era quella del “lume di 73 luna”, cioè quella della luna, ma chi aveva solo questo tipo di illuminàzione era una persona che non aveva proprio niente. Alla domanda: “Come va?”, chi attraversa un periodo particolarmentè difficile sul piano economico o chi vuoi far notare una situazione critica in generale, risponde: “Co’ ’sti lumi d’ luna!”. Cova fatta e gaggia morta (Cova fatta e “gaggia” morta) Il termine dialettale “gaggia” da solo non specifica niente, dal momento che esiste la “gaggia brusca” cioè la ghiandaia e la “gaggia da la coda lunga” cioè la gazza. Quella cui fa riferimento il proverbio è la “gaggia brusca” cioè la ghiandaia. È questa un uccello di media dimensione, di color grigio rossiccio, con le coprotrici delle ali striate di nero e di azzurro. Questo uccello dalla livrea sgargiante si incontra facilmente nelle nostre campagne dove nidifica ed è stazionario. Questa “gaggia” è soprannominata “brusca” perché è scontrosa, ombrosa e sospettosa a tal punto che il suo comportamento è diventato proverbiale. Si dice infatti: “Permaloso comm’ la gaggia brusca”. È permalosa a tal punto che se si accorge che qualcuno si aggira nei pressi del suo nido lo abbandona specie se ancora non sono nati i piccoli. Così osservando un nido recente di ghiandaia sui rami più alti di un pioppo o di una quercia e non vedendo più il viavai della ghiandaia è ovvio pensare: “Cova fatta e gaggia morta”. Il nostro proverbio viene comunemente usato per indicare che spesse volte chi costruisce la sua nuova casa non sopravvive a lungo alla sua “cova”. A volte il proverbio dice il vero, ma nella maggior parte dei casi si tratta di persone ormai anziane che dopo tanti anni di sacrifici si costruiscono una casa. E ad una certa età è facile... partire con la casa o senza. Ci sono persone che hanno cercato di sfatare questo 74 proverbio con un rimedio semplicissimo: non completano mai la casa - magari lasciando incompiuto uno stanzino di poco conto - in modo che non si possa parlare di “cova fatta”. Secondo costoro, morire solamente perché la cova è fatta cioè completa è proprio da... “gaggiotti!”. Cristo i fa, po’ i compagna (Cristo li fa, poi li accoppia) Giuacchino e la Clurinda erano due vecchietti di Montevecchio che in vita loro non fecero altro che risparmiare. Si privavano di tutto pur di mettere da parte pochi spiccioli. Andavano nel bosco a far la legna, andavano a badare le loro tre pecore per fare il formaggio ed ogni centesimo veniva messo da parte. Giuacchino era vestito sempre allo stesso modo anche la domenica e la gente quando lo vedeva passare diceva: “Quello è uno che scordcarìa ‘I pidocchio per pia’ la pelle” (Quello è uno che scorticherebbe il pidocchio per prendere la pelle). E della Clurinda dicevano che non era da meno: “Quella n’ magna pe’ n caca’” (Quella non mangia per non cacare). C’era poi chi faceva notare che “Cristo i fa, po’ i compagna” (Cristo li fa, poi li accoppia). Cristo manda l’ freddo second’ i pagne (Cristo manda il freddo, più o meno intenso, a seconda dei vestiti che hanno le persone) Secondo questa espressione Dio si comporta con comprensione nei confronti di chi non ha di che coprirsi o ripararsi dal freddo. In senso lato sta ad indicare che la miseria che affligge le persone di solito è commisurata alle capacità di sopportazione delle stesse. 75 Croce crocione Formula di giuramento dei bambini che l’accompagnavano incrociando i due indici fra loro, mentre qualcuno dei presenti “guastava la croce” ad indicare che credevano nel giuramento. Intanto chi giurava recitava: “Croce crocione, ‘1 diavolo sul forcone e chi dice la bugia non è figlio di Maria. Non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù; va laggiù da quel vecchiaccio che si chiama diavolaccio. C’ sei nuto o t’ c’ han portato? (Ci sei venuto o ti ci hanno portato?) Il detto sta a significare: “Cosa sei venuto a fare?”; ma anche: “Di cosa t’impicci?”. Daj e daj: la cipolla diventa l’aj (Dagli e dagli: la cipolla diventa l’aglio) Questo detto viene usato per dire che insistendo si arriva a cambiare l’andamento delle cose. Ma il cambiamento può avere sia risvolti positivi che negativi. Da ’na paja ne fa ’n pajaro (Da ima paglia ne fa un pagliaio) Si addice a chi esagera smisuratamente nel raccontare un torto ricevuto. 76 Daj ’na torqlata. (Dagli un colpo con un bastone) “Torqlata” deriva dal latino “torquere” (torturare) e significa torturata o meglio tortorata o randellata. Daj ’n mazzacunile (Dagli una grossa botta alla nuca) Il “mazzacunile” è il colpo forte e deciso che si usa assestare alla nuca del coniglio per ammazzarlo. Il detto si usa quando si sollecita qualcuno a farsi giustizia da solo ricorrendo a maniere forti e decise. Dammne ’na gemmna (Dammene una giumella) “Gemmna” (deriva dal vocabolo latino “gemina”, che significa gemella): è il contenuto che sta nel cavo delle mani che sono gemelle quando sono unite fra loro. D’ botta o de stolzone (Di colpo o di scossone) Tradotto alla lettera è “di colpo o di scossone”, anche se l’espressione sta al posto di “in un modo o nell’altro, ma saltuariamente”. Saltuariamente e in un modo o nell’altro si può fare una certa cosa sotto forma di lavoro o di divertimento, ma saltuariamente si può subire un certo danno per se stessi o per le proprie cose. Così c’è chi lavora “d’ botta o de stolzone”, o chi ad esempio - usando scalpello 77 e martelo - “d’ botta o de stolzone”, si da qualche martellata sulle dita. De ’n bove arpiassi ’n pelo! (Di un bue potessi almeno riprendere un pelo!) Capita a volte che qualcuno avendo fatto un cattivo affare o essendo stato bidonato si renda conto di non riuscire a riprendere il suo avere. A questo punto l’interessato si augura di riprenderne almeno una piccola parte (‘n pelo), dal momento che non riavrà mai l’intero (‘n bove). D’inverno: sembla e cendra (D’inverno: semola e cenere) Era il vecchio detto diffuso nelle nostre campagne per indicare che nella brutta stagione si consumava senza produrre. La semola e la cenere sono i resti del grano e della legna. In passato era sempre presente lo spauracchio della fame e frequentemente i nostri vecchi all’arrivo dell’inverno erano preoccupati perché non erano sempre sicuri di “sbarcare O lunario”. Disgraziata cla nora ndo’ c’è la matre e la fiala (Disgraziata quella nuora dove c’è la madre e la figliola) La sposa che va in casa e trova madre e figlia, cioè suocera e cognata, non ha certo fatto un tredici. Almeno questo è il senso del nostro proverbio. È vero che quando accostiamo i termini “suocera” e “nuora” 78 è come se parlassimo del diavolo e dell’acqua santa. È vero che spesso ci sono incomprensioni e litigi, ma è anche vero che ci sono tanti casi nei quali suocera e nuora vanno perfettamente d’accordo. D’altra parte il termine “suocera” viene affibbiato a quelle donne che in famiglia hanno sempre da ridire e riprendere gli altri componenti. Quindi “suocera” è anche chi... non ha la nuora! Disgraziate cle case ndo’ la galina canta e ’l gallo tace (Disgraziate quelle case dove la gallina canta e il gallo tace) Questo proverbio, molto in uso negli anni andati, fa riferimento al ruolo del padre (gallo) e della madre (gallina). Ancora nel dopoguerra esisteva la famiglia patriarcale (i vari figli sposati vivevano con il padre), nella quale il “capoccia” era colui che disponeva tutto ed era il portavoce della casa. Quando a parlare era sua moglie o peggio ancora erano le nuore, allora era segno che la grande famiglia si stava sfasciando. Do’ c’è ’l sono dle campane c’enne anche le putane (Dove c’è il suono delle campane ci sono anche le puttane) È un proverbio che veniva citato spesso nella nostra vallata, quasi a significare che in ogni paese c’erano donne di facili costumi. Alla nostra gente pareva di sentire una interessante conversazione fra le diverse campane che suonavano. E seguendo ritmi e tonalità delle campane la gente ripeteva ciò che le campane sembravano dire. Mentre una campana diceva: “Din, don, din, don, 79 le donne del pian enn tutte putan” (Din, don, din, don, le donne del piano son tutte puttane) Il nostro proverbio non va preso alla lettera perché anche nelle famiglie dirette dalla madre (matriarcato) spesso le cose andavano bene. Per dimostrare l’esistenza di residui di matriarcato basti pensare a quelle famiglie nelle quali i componenti vengono ancora indicati come: “Piero dia Peppa”, “Checco dia Giuanna” facendo così riferimento alla madre e non al padre. Un’altra a distanza rispondeva: “Anch da nò, anch da nò anch da nò, anch da nò”. (Anche da noi, anche da noi, anche da noi, anche da noi). Una terza, cercando di distogliere il discorso, pareva che dicesse: “I dindi en bon, en bon, en bon; en tanti bon, en tanti bon. (I dindi son buoni, son buoni, son buoni son tanto buoni, son tanto buoni). Ma le prime due campane ripetevano il loro ritornello. Domine non son degno, la scorsa arsomeja al legno (Signore, non sono degno, la scorza somiglia al legno) La prima parte di questo proverbio riporta le parole che il Centurione disse a Gesù in un passo del Vangelo. La frase esatta, a onor del vero, è: “Domine, non sum dignus” (Signore, non son degno). La seconda parte che è quella che ci interessa è messa vicino alla prima solo per assonanza o forse anche perché, messa vicina ad 80 una frase di sapore latino, dava più autorevolezza al proverbio. “La scorza arsomeja al legno” nel nostro caso è una asserzione che sta ad indicare che due persone parenti fra di loro hanno rassomiglianza in negativo sotto l’aspetto morale. Du donne e ’na pignatta e la fiera è fatta! (Due donne e una pignatta e la fiera è fatta!) Questo detto fa riferimento alle donne in genere considerate spesso a torto o a ragione un po’ troppo loquaci. Secondo il detto citato bastano due donne che parlano di un argomento qualsiasi ad esempio di una pignatta e si avverte subito quel continuo vociare tipico di una fiera con tanta gente. Du gai ’nte ’n pollaro: n’ s’fa mai giorno (Due galli in un pollaio: non si fa mai giorno) E il gallo ad annunciare all’alba l’arrivo di un nuovo giorno. Quando i galli sono più di uno non cantano all’unisono. Il detto vuoi significare che quando a comandare sono due o più non si conclude mai niente di buono. Dura ’l ben volè fin ch’ dura ’l ben servì (Dura il voler bene finché dura il ben servire) D nostro proverbio può essere tradotto così: dura l’amore fin che dura il servire. Fa riferimento a chi mostra di voler bene e portare rispetto ad una certa persona fino a quando questa gli fa comodo (ad esempio quando questa gli presta dei servizi senza alcun compenso, gli fa dei regali o gli porta a casa la pensione). Quando vengono a 81 mancare questi utili viene a mancare anche il voler bene. Natural mente questo non è amore vero perché dura fino a quando viene “pagato”. È albanese (o mezzo albanese) L’Albania, pur essendo di fronte alle coste abruzzo - pugliesi, è una nazione con pochi contatti con l’Italia e l’albanese è una lingua per noi sconosciuta. Nella mente della gente comune questa lingua è incomprensibile o quasi. Chi è ubriaco generalmente si esprime in modo incomprensibile e per questo si dice che è “albanese” o “mezzo albanese”, a seconda del grado di ubriachezza. È alto ’n pipino e ’n sassetto L’espressione generalmente si usa quando si vuoi indicare sarcasticamente una persona bassa oltre misura. A proposito di statura sono molti quelli che ricordano e citano la battuta spiritosa di mio padre: “Chi è più alto di me è argiunto, chi è più basso è tappo”. L’altezza ideale era... il suo metro e cinquantasette! È a ’n tiro de schioppo (È a un tiro di fucile) Il piombo di uno schioppo (o fucile) arriva ad una distanza modesta: intorno ai settanta metri un tempo ed ai cento e più metri oggi che le polveri esercitano una maggior spinta. Il detto sta per indicare che una certa strada, via, abitazione o luogo in genere si trovano molto vicini. 82 La distanza non va sempre presa alla lettera nel senso che se si mettono a confronto due località una a mille chilometri e l’altra a cinquanta chilometri si dice che la seconda rispetto alla prima “è a ‘n tiro de schioppo”. E ardotto comme ’n lugignlo (È ridotto come uno stoppino di candela) L’espressione viene usata per indicare una persona alta ma talmente magra da essere paragonata allo stoppino di una candela. La persona può essere ridotta così per malattia o per stravizio. È ardott’ tutt’ ’recchie (È ridotto tutto orecchie) Modo di dire per indicare una persona che in poco tempo è dimagrita visibilmente. Di solito l’espressione viene usata maliziosamente per indicare chi, sposato da poco tempo, è mal ridotto... dal troppo zelo per i suoi doveri coniugali. È rmasta per S. Antogno (È rimasta per S. Antonio) La donna che non si è sposaa si dice che è rimasta zitella; l’uomo che non ha preso moglie è detto “giodco”. Zitelle e “giodchi” sonorimasti per S. Antonio. Con ciò si vogliono indicare persone che vivono per proprio conto come S. Antonio Abate che viveva eremita nel deserto. 83 È comme Barbanera: c’induvina quanto nne sbaja (È come Barbanera: c’indovina quando non sbaglia) Si dice nei confronti di chi si vanta di prevedere ciò che succederà in futuro. Ancora oggi circola nelle nostre campagne un libretto: “Barbanera di Foligno”. È un manualetto che contiene consigli sui lavori dei campi e degli orti. Mette in evidenza le fasi lunari - ricordiamo che molti lavori vanno fatti “a luna bona”, cioè a luna nuova - e le previsioni del tempo. Queste previsioni essendo state fatte per un intero anno tirano a indovinare e spesso sono sballate. E comme da l’ mlarance ai porci (È come dare le arance ai porci) Il detto fa riferimento a chi non sa apprezzare qualcosa di pregiato e viene paragonato al maiale che rifiuta le arance. E comm’ di’ putana a la volpe (È come dare della puttana alla volpe) Certamente la volpe non si cura di eventuali “titoli” che le possono essere affibbiati e continua ad agire come sempre. Così è quando si rivolgono dei rimproveri a certe persone che si dimostrano indifferenti ad ogni richiamo. E comme di’ sfacciato al gatto (È come dare dello sfacciato al gatto) Questo detto viene usato per indicare chi, continuando a compor- 84 tarsi in maniera sfrontata nei confronti degli altri, non sente vergogna e non si cura dei rimproveri. Ha valore simile a quello precedente. È comm’ la gatta d’ San Giovanni: ’n pezzo ride e ’n pezzo piagne (È come la gatta di San Giovanni: un po’ ride e un po’ piange) Questo modo di dire non ha niente a che vedere con “la gatta” di San Giovanni Battista, di San Giovanni Evangelista o di qualsiasi altro San Giovanni; è stato coniato semplicemente per assonanza. Il modo di dire che la gatta di San Giovanni ora ride ed ora piange si usa quando si ha a che fare con persone che cambiano d’umore da un momento all’altro, proprio come fanno di solito i bambini. E comm’ la merda: più la muscini e più puzza (È come la merda: più la rimesti e più puzza) Il proverbio viene usato per far rimarcare che certe situazioni o discussioni sarebbe bene lasciarle così come sono perché, sperando di migliorarle, si finisce invece con il peggiorarle. E un proverbio poco... odoroso, ma è sicuramente molto incisivo. Il suo intento è quello di farci capire che in certe situazioni è più prudente non rimestare la frittata. E comm’ l’amore dla sora Vincenza: lu’ la fa e lia n’ c’ pensa (È come l’amore della Signora Vincenza: lui la fa e lei non ci pensa) Il detto è rivolto a chi ama - o dice di amare - senza essere ricambiato e spesso addirittura all’insaputa della persona interessata. 85 È comme ’l cane di contadini: bàja da lontano (È come il cane dei contadini: abbaia da lontano) Il proverbio fa riferimento a chi sparla con altri, ma poi sta zitto davanti al diretto interessato. È comm’ l’ peq.re del diavlo: n’ c’ s’ pia nnè cacio nnè lana (È come le pecore del diavolo: non ci si prende né cacio né lana) Le pecore del diavolo secondo il nostro detto non danno i prodotti che danno tutte le altre pecore: formaggio e lana. Certe persone vengono paragonate alle pecore del diavolo perché non ci si prende niente, ma soprattutto non si riesce a capire che cosa vogliono anche perché cambiano parere con facilità. Un detto simile a quello citato è: “N’ c’ s’ pia ‘n accapezzo” (non ci si prende un accapezzo, o meglio, non ci si raccapezza niente). Si dice quando parlando con una persona non si riesce a capire che cosa voglia dire o quali idee abbia per la testa. È comme ’l pidocchio: magna e svergogna (E come il pidocchio: mangia e svergogna) Il pidocchio come è noto è un insetto parassita e come tutti i parassiti vive a spese degli altri. Questo parassita per eccellenza fa vergogna alla persona che lo porta in testa. Non ci sono insetti ma anche persone parassite che vivono alle spalle degli altri. Questi parassiti sono sempre esistiti e già nelle commedie greche e latine venivano messi in scena: persone sempre pronte a fare i leccapiedi pur di scroccare pranzi e cene. Il parassita è vecchio quanto il mondo e il nostro detto non fa che confermare l’esistenza; semmai vuoi rimarcare che quasi 86 sempre il parassita, oltre che vivere alle spalle degli altri, è sempre pronto a “sputare nel piatto” nel quale mangia. È comme ’n fantasma (È come un fantasma) È un detto ricorrente che fa riferimento a chi compare all’improvviso o a chi altrettanto all’improvviso scompare alla vista. A proposito di fantasmi ecco una storia vera di tanti e tanti anni fa raccontatami più volte dai diretti interessati. La notte di S. Giovanni mio padre Amedeo, suo fratello Vincenzo ed il loro inseparabile amico Romeo Borri - un omone di forza eccezionale - poco prima della mezzanotte si trovavano nel crocevia di S. Cristoforo a un tiro di schioppo da Montalfoglio per giocare un brutto scherzo ad eventuali malcapitati che si trovassero a passare di lì verso la mezzanotte. Era quella la notte delle streghe, ma loro pensarono di assumere le sembianze di fantasmi. Avevano portato l’occorrente: tre teli bianchi con buchi per gli occhi, due vecchi coperchi, un bidone mezzo sfondato ed una catena arrugginita. La luna piena rischiarava la strada imbrecciata che si snodava come un serpente su per i tornanti fino al paesetto di Montalfoglio che sembrava addormentato lassù in cima al cucuzzolo. Una civetta posata sul punto più alto del campanile della chiesetta di S. Cristoforo ogni tanto faceva un breve volo e ritornava sul campanile emettendo i suoi lugubri versi marcati come per segnare la presenza dei tre; ma questi diedero poca importanza alla civetta e tantomeno al canto insistente dei grilli. Aspettavano ormai da più di mezz’ora quando... aguzzano la vista verso S. Vito. È da quella parte che proviene un cigolìo di ruote di carro. Ognuno indossa subito il proprio lenzuolo e prende il suo strumento: mio padre i suoi due coperchi, zio Vincenzo 87 il bidone e un bastone da sbattere su quell’improvvisato tamburo, mentre Romeo afferra la robusta catena. Poco dopo ecco spuntare dal dosso - che si trova a poco più di una decina di metri da loro - un grosso cavallo che arranca tirandosi dietro un carro a quattro ruote con un uomo a cassetta. Da dietro gli olmi che si trovano a pochi metri dall’incrocio sbucano le tre figure bianche: due piccole ed una molto alta mentre un fracasso infernale squarcia il silenzio della notte. Il carro si arresta ed il fracasso aumenta. Dopo pochi minuti uno sparo e poco dopo un altro e un altro ancora, poi silenzio assoluto. Pochi minuti dopo si sente lo schioccare della frusta ed un “va là!” del carrettiere che incita il suo cavallo a voler proseguire per la sua strada. Ora si sente solo il cigolìo del carro e il rumore sordo degli zoccoli del cavallo che lentamente prosegue dopo aver imboccato la strada della Gessara che porta giù verso il ponte dei Sospiri. Intanto i tre amici inseparabili sono corsi nel campo di grano buttando frettolosamente i loro strumenti e liberandosi del lenzuolo, ora strisciano verso il primo filare di viti e da lì scappano a gambe levate verso San Lorenzo. Avevano fatto male i loro conti: a passar di lì quella notte era stato Antogno di Ciampicone, un carrettiere del luogo che ritornava da Montevecchio trsportando una vecchia botte. Era un carrettiere che non conosceva la paura, abituato com’era ad affrontare le insidie della strada e gli eventuali malintenzionati. Il giorno dopo all’osteria di Egidio il carrettiere grattandosi la testa da sopra la berretta raccontava che la notte precedente aveva sparato non so quanti colpi di rivoltella contro tre fantasmi - due piccoli ed uno molto grosso - che aveva incontrato al crovevia di S. Cristoforo. Rivolgendosi a Romeo che era lì presente disse: “Uno era grosso ed alto come te!” Romeo rimase serio, sgranò i suoi occhioni ed ingoiò tutto d’un sorso il vino rimasto nel bicchiere, mentre i presenti pensarono che il racconto fosse del tutto inventato. 88 È comme ’n pulcino ntla stoppia (È come un pulcino nella stoppia) La stoppia è la parte della paglia che rimane nel campo dopo la mietitura del grano o dell’orzo. Ai vecchi tempi il grano era molto più alto delle diverse varietà coltivate oggi e la mietitura fatta a mano lasciava nel campo paglia più alta di quella che resta oggi dopo la mietitrebbiatura. Un pulcino in mezzo ad una tale stoppia si trovava in difficoltà per uscirne fuori. Così è per certe persone che in particolari situazioni incontrano grosse difficoltà a causa della loro timidezza o del loro impaccio. È comme riscalda’ la bretta a ’n morto (È come riscaldare la berretta a un morto) Quando una persona si ammala si ha cura di farla stare a letto al caldo; una volta morta, il caldo purtroppo non serve più ed è inutile riscaldargli il berretto da notte. Il nostro proverbio si usa per dire che certe cose non possono essere fatte quando ormai è troppo tardi. Il corrispondente del nostro proverbio è quello in italiano: “Chiudere la stalla quando sono scappati i buoi!”. E comme tira’ fori ’l sangue da ’na rapa (È come tirare fuori il sangue da una rapa) Questo modo di dire sta ad indicare una cosa che è impossibile che si verifichi, così come è impossibile tirar fuori O sangue da una rapa. Di solito l’espressione viene usata quando si vuoi indicare che 89 da una certa persona non si può pretendere che paghi un debito dal momento che non ha una lira. E co’ va a foco? (E cosa va a fuoco?) Quando nei tempi passati scoppiava in campagna un incendio tutti gli agricoltori del vicinato accorrevano per spegnerlo. Gli agricoltori si aiutavano fra di loro in qualsiasi occasione: dalla trebbiatura allo sfalcio dello strame, dall’aratura alla semina, dall’aggiustare il biroccio al rifare il pularo. In caso malaugurato di incendio tutti si davano da fare. A quei tempi la gente di campagna non sapeva nemmeno che esistessero i pompieri ed erano loro che correvano il più in fretta possibile per portarsi sul luogo dell’incendio. Il nostro detto: “È co’ va a foco?” viene usato per dire: “Che fretta hai?”. E fatiga a fatiga’. E fatiga a lavora’! (E fatica a faticare. È fatica a lavorare!) “Fatiga”’ significa lavorare in genere. “Lavora”’ non significa lavorare ma arare. L’aratura, fino agli inizi degli anni Sessanta, era fatta con il “perdicaro” (aratro) tirato da uno o due paia di buoi o vacche e durava dall’alba al tramonto per alcuni mesi. Era un lavoro da schiavi e per questo arare era detto “lavora”’. All’aratura generalmente provvedeva il garzone aiutato da un ragazzetto che guidava la “stroppa” (secondo e/o terzo paio di vacche che tiravano l’aratro contemporaneamente al primo paio) incitando le vacche coi nomi di “Bio”’ (Bionda) e “Favori”’ (Favorita) ed i 90 buoi con “Faico”’ (Faicosa, cosa fai?) e “Namora”’ (Innamorato). Il garzone, che era un po’ lo schiavo della famiglia, durante l’ara tura non vedeva l’ora che piovesse per potersi riposare un po’. Quando pioveva il “capoccia” o la “vergara” commentavano amaramente: “La notte sta ’1 sereno e ’1 giorno piove. È questa la stagion che ’1 garzon vole”. (La notte sta al sereno e il giorno piove. È questa la stagione che il garzone vuole). “È fatiga a fatiga’” vuoi significare che il lavoro costa fatica. Il detto viene rivolto quasi sempre agli sfaticati. È fatiga a ferrà l’oca: c’ha l’ugna tenera (È fatica a ferrare l’oca: ha l’unghia tenera) La ferratura di bovini ed equini è iniziata nel Medioevo ed è proseguita fino ai nostri giorni. Ma nessuno si è mai sognato di ferrare l’oca, sia perché sarebbe una tortura inutile per l’animale sia perché sarebbe di difficile attuazione pensando alla struttura palmata dejle sue zampe. Il nostro modo di dire ci richiama proprio a questa strana operazione quando vogliamo fare qualcosa che difficilmente riusciremmo a compiere o a far compiere. È lenta comm’ la cacarella (È lenta come la cacarella) Il detto è riferito a cose che in condizioni normali sono abbastanza solide ma che per varie cause sono divenute quasi liquide; spesso fa riferimento a persone lente nell’agire. 91 È ’l viaggio de l’orto! (È il viaggio dell’orto!) L’orto si trova quasi sempre vicino a casa ed il tragitto dall’abitazione all’orto è molto breve. Il detto viene usato in senso ironico per indicare una località molto lontana e sta per dire: “Non è mica la distanza che c’è fra la casa e l’orto!” oppure “Non è mica un viaggio tanto breve”. Questo detto è esattamente il contrario di quello già citato: “E a ‘n tiro de schioppo”. È mejo ch’ dole che nnè ch’ puzza (È meglio che duole piuttosto che puzzi) Il proverbio fa riferimento a chi, malato, si lamenta del dolore che sente in una certa parte del corpo. Mentre l’ammalato si lamenta per il dolore che lo affligge c’è sempre chi lo rincuora dicendo: “è mejo eh’ dole che nnè eh’ puzza” intendendo con ciò che fin che si sente dolore c’è una reazione del corpo al male e quindi si può sperare nella guarigione, mentre quando la parte del corpo ammalata puzza vuoi dire che è infetta e quindi c’è serio pericolo per la vita. Il proverbio è un invito a chi sta male a voler sopportare pazientemente in attesa della guarigione. È mejo ’n tristo cappello che ’na bona pioggia (È meglio un cattivo cappello che una buona pioggia) Quando piove e chi viene bagnato dall’acqua non è un agricoltore certamente non pensa agli effetti benefici della pioggia per i campi, ma pensa piuttosto che in quel momento gli farebbe comodo un cappello qualsiasi anche se mal ridotto. 92 Il proverbio si usa per dire che è meglio avere qualcosa per sé piuttosto che avere benefici per gli altri. E miga i caca ’n cane! (E mica li caca un cane!) Il detto, che fa riferimento ai soldi, si usa di solito quando si parla di una discreta somma di denaro che non si ha a propria disposizione e che deve essere sborsata subito o in breve tempo oppure quando qualcuno della famiglia ha fatto una spesa di una certa rilevanza senza avvertire il nucleo familiare e così via. L’espressione può essere sostituita con quella italiana: “E mica si trovano per strada!”. È ’na bazza! (È una bazza!) La “bazza” è la mano fortunata alle carte quando si gioca a briscola. L’espressione sta ad indicare una cosa di difficile realizzazione, proprio come a briscola è difficile fare la bazza. Chi gioca la schedina del totocalcio lo fa perché spera di .vincere ma... “è ‘na bazza!”. D’altra parte c’è anche chi assicura di aver avuto una bazza (o almeno così crede) essendo riuscito a comprare qualcosa a basso prezzo. E ’na gran giamblandana (È una grande trasandata) “Giamblandana” è considerata quella donna dall’aspetto trasandato che va sempre in giro per le vie del paese a chiacchierare e che trascura le faccende di casa e la famiglia. 93 È ’na ploia! Fa ’na ploia! (È una lagna! Fa una lagna!) I detti vengono usati per significare il ripetersi continuo dello stesso argomento fino a diventare un tormento per chi ascolta. È ’na scarpa e ’no tzocco (È una scarpa e uno zoccolo) Nessuno si metterebbe in testa di calzare una scarpa ed uno zoccolo, semplicemente perché sono due cose del tutto diverse. D detto viene usato per indicare cose che non sono in sintonia tra di loro, più spesso il detto si usa per indicare un accoppiamento o un accostamento sballato. È ’n freddo! Eeh! C’enn tutti i ucei scodati! (È un freddo! Beh! Ci sono tutti gli uccelli scodati!) Quando in autunno si fanno sentire i primi accenni al freddo c’è chi si lamenta dicendo che è proprio freddo. Ed allora c’è sempre qualche scanzonato che fa osservare che il freddo è tanto intenso che ha fatto cadere la coda a tutti gli uccelli. Checco era il primo a mettere la maglia alla fine dell’estate quando l’aria rinfrescava un po’ mentre la gente si metteva semplicemente la camicia. Quando poi gli altri si mettevano la maglia, lui portava già la giacca ed in seguito sopra la giacca ne metteva una seconda ed anche una terza giacca. E tutti lo conoscevano col soprannome di Settegiubbe. Ho avuto modo di incontrarlo per la prima volta casualmente su un colle di Montevecchio una domenica mattina di metà 94 Ottobre mentre andavo a caccia. C’erano due segugi che facevano la canizza dietro ad una lepre e qualcuno gridava: “Vien verso di te!”. Io sentivo la canizza che si dirigeva verso una dirczione diversa dalla mia e poco dopo sentii due spari. Andai da quella parte, mentre i cani proseguivano la loro corsa per tutt’altra dirczione. Arrivai in una stra-detta di terra proprio mentre due cacciatori stavano discutendo animatamente. “Ma comm hai fatt’ a buga’?” (Ma come hai fatto a spadellare?). “N’ m’è gitta su bene la doppietta” (Non sono riuscito ad impostare bene la doppietta!”. “Con tutt’ chi pagni ch’ c’ hai! Già! N’ t’ chiamariene Settgiubbe!” (Con tutti quei panni che hai! Già! Non ti chiamerebbero Settegiubbe!”). È ’n freddo che pela i gatti (È un freddo che pela i gatti) È un modo di dire usato per significare che è un freddo pungente fuori della norma. Enn comm quei d’ Sasferrato: culo rotto e carcerato (Sono come quelli di Sassoferrato: culo rotto e carcerato) I proverbi a volte come nel nostro caso possono sembrare sfacciati, ma l’intenzione è sempre buona. Ho detto “possono” perché invero quel “culo rotto” sta ad indicare i pantaloni strappati nel sedere, che si potevano vedere un tempo addosso alla gente povera. È necessario fare anche un’altra precisazione: Sassoferrato viene citato come potrebbe essere citato un paese qualsiasi; qui si tira in ballo Sassoferrato semplicemente perché fa rima con “carcerato”. Il proverbio sta a significare che chi è povero o chi ha subito una umiliazione spesso finisce con il subirne anche altre. 95 Enn d’Acqualagna: Crist’ i fa, pò i accompagna (Sono di Acqualagna: Cristo li fa, poi li accoppia) Anche in questo caso Acqualagna viene citato solo per comodità di rima. Il nostro proverbio vuoi ricordarci che certe persone hanno come amici chi la pensa o agisce come loro. A volte il proverbio fa riferi-metno a persone che si sposano con difetti fisici simili. Il proverbio è antichissimo: basti pensare al “similes cum similibus” (simili con i simili) degli antichi Romani. Enn fnite l’ noce a Bacucco che c’ n’ aveva sett’ solari! (Sono finite le noci a Bacucco che ce ne aveva sette solai!) Bacucco è un nome che ci richiama alla mente la parola “cucca”, usata dai bambini per indicare la noce. Bacucco dunque è sinonimo di noci e questo signore doveva averne tante se il proverbio ci dice che ne aveva riempite sette soffitte. Bacucco doveva essere di manica larga se a forza di regalarle a questo ed a quello un brutto giorno rimase a secco. Il nostro proverbio viene usato quando una persona o un gruppo di persone largheggia più del dovuto e prima o poi si ritrova senza una lira. Dante Alighieri nel suo viaggio nell’Aldilà trova gli spendaccioni nel quarto cerchio dell’inferno insieme agli avari, perché ad entrambi è mancato il senso della misura sia nello spendere che nell’accumulare il denaro. Il proverbio è un invito a voler meditare sul senso della misura. E notte e n’ c’è ’n pel d’erba (È notte e non c’è un filo di erba) Il detto sta ad indicare che si è fatto buio e non si è provveduto 96 all’erba per i conigli. La locuzione più in generale significa che è la fine della giornata e ancora non si è concluso niente. È ’n passro d’ cova: becca su le mane! (È un passero di cova: becca sulle mani!) Un passero ancora nel nido può essere allevato dall’uomo e in alcuni casi, anche se adulto, continua a beccare sulle mani. Il nostro proverbio si usa per indicare persone un po’ troppo ingenue che si fidano ciecamente degli altri e spesso si lasciano raggirare; più frequentemente il detto si usa per indicare persone che “beccano” cioè che credono a tutto quello che si dice anche quando è evidente la non veridicità di una certa cosa. E ’n... Signor c’ guarda! (È un... Signore ci guardi!) Il detto va più esattamente tradotto così: è un elemento... che il Signore ci guardi dall’incontrarlo! È come dire: Tizio è una persona che semina scompiglio nella normale vita delle persone. Di solito il detto viene usato per indicare un bambino (o una bambina) di pochi anni che inizia ad avere una certa autonomia e per questo, senza rendersi conto, mette a soqquadro la casa. È ntel fior del bel canta’ (E nel momento giusto per fare una certa cosa) Si dice ad esempio che è “ntel fior del bel canta’” una ragazza che si trova nell’età giusta per prendere marito. 97 Entra la Quaresima, entra l’inverno Secondo questo proverbio - uno dei pochi in lingua italiana -l’inverno va dietro alla Pasqua e quindi non c’è da illudersi che il freddo finisca anche se si è in aprile. Questa è una previsione che riguarda un ristretto periodo dell’anno; per conoscere l’andamento meteorologico di ogni mese occorre, secondo una convinzione popolare, tener d’occhio i “giorni contarci” dei quali ho già parlato a proposito del proverbio “A la Candelora da l’inverno semo fora”. Questi “giorni contarci” termometro dell’andamento stagionale dell’intero anno. È passato pel bugo dla gattara (È passato per il buco della gattaiola) Il buco della gattaiola era un piccolo sportello di circa 15 cm. che si trovava in un angolo basso della porta d’ingresso della casa. Era incernierato nel lato superiore ed oscillava in avanti e indietro. Serviva per far passare il gatto in qualsiasi ora del giorno e della notte. Naturalmente come si può ben immaginare era comodo per il gatto, ma un po’ meno per i padroni di casa: pensiamo al vento freddo che entrava in inverno o alla polvere che entrava in estate, senza contare i vari insetti ed animaletti. Il nostro detto si usava nei confronti del bambino che non era stato promosso o, come si diceva allora, che non era “passato”. Così quando ad un genitore veniva chiesto: “È passato sto’ monello?” (È stato promosso questo ragazzo?). La risposta poteva essere: “Sci... pel bugo dia gattara!”... 98 È più facile pia’ ’n ape co’ ’na goccia d’ miele che co’ ’na bigonza d’aceto (È più facile prendere un’ape con una goccia di miele che con una bigoncia d’aceto) II proverbio non ha bisogno di spiegazioni, semmai dovrebbe essere oggetto di riflessione per tutti, specie da parte di chi, nei confronti degli altri, non sempre fa uso di quella “goccia di miele” (un minimo di bontà), ma pensa di conquistare o sottomettere gli altri con l’uso di una “bigonza d’aceto” (violenza e prepotenza) È più vicino l’ dente che nn è ’l parente (È più vicino il dente che non il parente) Questo detto viene usato tutte le volte che si ha qualche boccone ghiotto e c’è l’intenzione di lasciarlo per una certa persona, ma si finisce poi col mangiarlo. In senso lato il detto sta ad indicare che troppo spesso si pensa per se stessi dimenticando che esistono anche gli altri. È sgulmito (È striminzito) “Sgulmito” è un termine che sta ad indicare un animale che non ha la pancia perché è molto tempo che non mangia. Si potrebbe tradurre con: striminzito, anche se il termine non è del tutto corrispondente a quello dialettale. 99 È svelto comme ’l gatto a magna’ l’ajo (È svelto come il gatto a mangiare l’aglio) Tenuto conto che il gatto non mangia l’aglio, il detto viene usato per mettere in evidenza una persona lenta per natura o una persona lenta nel fare una certa azione. Il detto sta anche ad indicare una persona che dimostra di non aver proprio voglia di fare una certa cosa. E tutt’ a ’n culo e ’n par d’ brache (È un tutt’uno come un sedere ed un paio di brache) Le brache erano usate dai popoli barbari antichi, mentre non le usavano Greci e Romani. Questi ultimi finirono con l’adottarle quando vennero a contatto con i Celti e con i Germani. Oggi al posto di “brache” si usa il termine “pantaloni”. Il detto “formano un tutt’uno come sedere ed un paio di brache” si usa ironicamente nei confronti di due persone che si vedono spesso insieme e che vanno perfettamente d’accordo o almeno così sembra. È tutto voce e penne comme l’ cucco (È tutto voce e penne come il cuculo) In maggio le nostre campagne risuonano dei versi sonori e monotoni del cuculo. Sembra un uccello grosso mentre in realtà è molto più piccolo di quanto sembra; ci traggono in inganno le sue penne e i suoi versi. Il detto si addice a chi fa tante chiacchiere ma po’chi fatti. È una da sette soldi Sette soldi non erano neanche mezza lira, perché per formarla ce 100 ne volevano dieci. E la donna che aveva come prezzo sette soldi era davvero una donna da poco. Ancor oggi sta ad indicare una donna di facili costumi da pochi spiccioli. Fa a cica (Intraducibile) “Cica” è un qualcosa di nessun valore. Fare a cica significa far durare il più a lungo possibile un qualcosa ridotto ai minimi termini. L’espressione veniva usata spesso in passato quando ad esempio si invitavano i bambini a mangiare il pane e “fare a cica” di companatico. Fa casa d’inverno (Fa come se fosse in una casa dell’inferno) Il detto si usa per indicare chi strepita, urla ed impreca fuori misura. Un detto simile è: “Fa casa del diav.lo” (fa come a casa del diavolo). Nel primo detto si evidenzia il luogo dove la casa si trova - inferno -, nel secondo si fa riferimento a chi abita in quella casa - diavolo -. Entrambi i detti indicano persone che si comportano come se fossero possedute dal diavolo, tanto è anormale il loro comportamento. Ma a volte questi detti servono per indicare semplicemente chi “fa un chiasso indiavolato”. Fa crede ch’ Cristo è mort’ dal freddo (Fa credere che Cristo è morto dal freddo) Questa espressione viene indirizzata nei confronti di chi cerca di far credere cose del tutto inventate come nel caso di chi fa credere 101 che Cristo sia morto dal freddo e non in croce. Ad indicare che una certa cosa è del tutto inverosimile si usa l’espressione: “Fa crede eh’ Cristo è mort’ dal freddo”, seguita dal commento “e 1’ legna erne tutt’ 1’ sua”, proprio per rafforzare l’idea che si tratta di una bugia bella e buona. Facce ’n mann.co d’foco (Facci un manico di fuoco) Spesso c’è chi crede di saper fare delle cose solo perché ha visto qualcuno farle. E così prende gli arnesi e si mette al lavoro. In genere si tratta di usare il legno, anche perché questo materiale si lavora più facilmente rispetto ad un altro materiale. Ecco dunque il nostro Tizio all’opera anche se non ha le minime cognizioni della lavorazione del legno. I risultati sono facilmente immaginabili e così c’è sempre chi suggerisce cosa fare del lavoro mal riuscito: “Facce ’n mann.co d’ foco” che è come dire: “Quel legno puoi solo bruciarlo!”. Faccia tosta è mtà dla spesa (Faccia tosta è metà della spesa) Chi ha la faccia tosta spesso riesce con la sua sfrontatezza ad avere una certa cosa a poco prezzo, anche perché spesso il venditore (o chi regala) vuole levarsi di torno la faccia tosta. Fa la maffia - Fa la vernia Questi due modi di dire si equivalgono in quanto a significato. Entrambi infatti significano: fare il lusso oltre le proprie possibilità, mettersi in mostra per fare invidia al prossimo. 102 Fa la terra pel cece (Prepara la terra per il cece) Il detto si riferisce a persona o animale che è sul punto di morire. È come dire che il suo corpo renderà fertile il terreno nel quale si potrà piantare il cece. Fa ’l bregno (Fa il broncio) “Bregno” o “trocco” è la vaschetta di forma rettangolare realizzata in cemento o scavata in un blocco di pietra che serve per contenere acqua o pastone per gli animali in genere. Il “trocco” era l’immancabile contenitore che si trovava in ogni stalla per maiali. il modo di dire “fa ’l bregno” significa: “dispone la bocca a mo’ di vaschetta”, che è proprio l’atteggiamento del bambino che sta per piangere. Falciatura, fatiga dura (Falciatura, fatica dura) Era questo il detto che veniva ripetuto in campagna all’approssimarsi della fienagione. Certamente uno dei lavori più pesanti nella vita contadina di un tempo era quello della falciatura dell’erbaio o delle stoppie. Prima di iniziare questo lavoro i falciatori con l’uso di una piccola incudine ed un apposito martello battevano la lama della falce fienaia per renderla tagliente. Questo lavoro veniva fatto ogni giorno della falciatura durante le ore di riposo e all’ombra di un grande albero o di un pagliaio. I falciatori nel campo si disponevano in riga ad un paio di metri l’uno dall’altro. Iniziava il primo che era 103 quello che faceva l’andatura, poi seguiva il secondo e man mano tutti gli altri. Chi si trovava in mezzo non poteva rallentare perché così facendo faceva rallentare tutti quelli che lo seguivano. Quando sembrava che la falce non tagliasse a dovere ci si concedeva il tempo necessario per affilarla usando la cote che era infilata in un apposito fodero fissato alla cinghia dei pantaloni. Il segreto per lavorare di meno e meglio era quello di battere bene la falce ed essere abili nell’affilarla con la cote. Ricordo ancora la filastrocca dei falciatori: - Fugge erba che ecco i falciatori. - Co’ enne vecchi o giovni? - Enne giovni, n’ sanne nnè batte nnè cota’. - Basso la testa e i lascio passa’. - Fugge erba che ecco i falciatori. - Co’ enne vecchi o giovni? - Enne vecchi, san ben batte e mejo cota’. - E difficile che m’ posso salva. Fa l’ bucce (Fa le bucce) Si dice di chi non si accontenta mai, ma soprattutto di donna o uomo che rifiuta un buon partito. Ma il detto è riferito anche a chi non accetta una situazione favorevole. Fa l’fiare del foco (Fa le fiamme del fuoco) Tipico di chi si arrabbia molto e al quale sembra quasi che dagli occhi escano le fiamme del fuoco. Il detto sta ad indicare una persona arrabbiatìssima. 104 Fa ’l macacco (Fa il macaco) Macacco (dal francese “macaque”) è la storpiatura del termine “macaco” che è una scimmia senza coda. Il detto letteralmente significa: “persona che scimmiotta”. In genere chi “fa ‘1 macacco” è una persona che vuoi farsi notare ad ogni costo, magari per il mezzo che usa o per il vestito che indossa. Si tratta sempre di persona goffa e di poco conto. Fa ’l magalotto (Fa il malloppo) Chi “fa ’1 magalotto” sottrae illegalmente al gruppo cui appartiene una parte degli introiti che andrebbero equamente ripartiti o che dovrebbero confluire nel capitale del gruppo e lo fa in modo che nessuno se ne accorga (o quasi). D detto può anche indicare chi, semplicemente risparmiando ogni giorno, riesce a mettere da_ parte qualcosa senza che gli altri se ne accorgano. Fa ’l paino (Fa il damerino) “Paino” (dal latino “paginus”, derivante da pagus = borgo) è sinonimo di provinciale, ma più esattamente va tradotto: bellimbusto provinciale. Paino è chi ostenta un vestire ricercato e vistoso, ma anche maniere affettate per mettersi in mostra di fronte agli altri. C’è anche l’espressione: “Fa ’na spainata” che indica sia il giovanotto che passeggia con una bella ragazza sia l’anziano che fa mostra di sé andando a passeggio con una ragazza più giovane. 105 Fa l’petrie (Fa gli imbuti) Il detto nella sua traduzione letterale non significa niente, ma ha valore onomatopeico (imitazione del suono) e, nel nostro caso, per il ripetersi di quel “pe... pe... pe...” di “petrie”. “Fa 1’ petrie” chi pronuncia male e con difficoltà le parole. Può trattarsi di persona che balbetta o tartaglia. La balbuzie è generalmente un difetto congenito che dipende da una imperfezione degli organi vocali, ma si può anche verificare in casi di ira, di vergogna o simili. La persona che tartaglia ripete la sillaba iniziale di una parola più volte come per prendere la rincorsa ed arrivare in fondo alla parola il più presto possibile. “Tartaglia” era così soprannominato Nicola Fontana, illustre matematico del ‘500, proprio perché tartagliava. Ma Tartaglia era anche una maschera napoletana che impersonava il domestico astuto che tartagliando faceva muovere a riso gli spettatori. Fa ’tonto pr avè la crescia (Fa il tonto per avere la crescia) È un modo di dire che sta ad indicare una persona che fa la sorniona per sapere o per ottenere qualcosa. Spesso la persona che assume questo atteggiamento fa finta di non capire per saperne di più su un certo argomento, specie su certe indiscrezioni. Si tratta in genere di notizie che sotto sotto sono note ad una certa cerchia e “chi fa ’1 tonto pr avè la crescia” le conosce già, ma vuole una ulteriore riconferma. 106 Fa ’na bella sbaioccata (Fa una bella sbaioccata) H baiocco era una monetina di rame del valore di 5 centesimi in uso da noi al tempo dello Stato Pontificio. In seguito alla Unificazione d’Italia il baiocco fu sostituito con il soldo che era dello stesso valore. Sbaioccare di per sé significa spendere allegramente baiocchi, ma nel detto qui citato “fare una bella sbaioccata” significa incassare molti soldi. Fa ’n fatto e du’servizi (Fare una cosa che serve per due scopi) Il detto viene usato allo stesso modo del “prendere con una fava due piccioni”. Fa più uno a spende che cento a mucchià (Fa più uno a spendere che cento ad ammucchiare) Il nostro proverbio, molto eloquente come tutti i proverbi, è di facile comprensione: uno spendaccione riesce facilmente a dissipare quanto è stato risparmiato (mucchiato) da più persone. È opinione diffusa che il nonno accumula, il padre amministra saggiamente la piccola o grande fortuna vivendo una vita tranquilla e il nipote che non sa da dove vengono quei soldi spende con facilità e si ritrova prima o poi senza una lira. Spesso però il passaggio di mezzo non c’è: il padre accumula e il figlio annulla i sacrifici del padre. 107 Farà la fin del gatto d’ Goffo ch’è morto linito nten cantone (Farà la fine del gatto di Goffo che è morto sfinito in un cantone) “Linito” non è traducibile, ma “sfinito” è il vocabolo italiano che più gli si avvicina. Si racconta che il gatto di Goffo fosse famoso per le molte gat-tine che corteggiava. Ma come si può ben immaginare sul finire della primavera finì i suoi giorni sfinito in un cantone della cucina, proprio vicino al focolare. Il detto è un ammonimento a chi “va a ruspo”. Farà la fine dla capra d’ Baldella ch’è gitta al monte e è arnuta gravida (Farà la fine della capra di Baldella che è andata al monte ed è ritornata gravida) Un tempo il becco più vicino da noi era sul monte S. Angelo; quando una capra si portava lassù, generalmente ritornava gravida. Questo detto si usa quando certe donne si allontanano da casa con un pretesto qualsiasi. Qualcuno malignamente già immagina la fine e cita questo detto. Fatiga, vecchio, che c’hai la pelle dura (Lavora, vecchio, che hai la pelle dura) Una volta non c’era la pensione per chi aveva lavorato per tanti e tanti anni. E quasi sempre i vecchi lavoravano fino all’ultimo respiro. Giuanne di Fontebona, frazione a monte di San Vito, soprannominato il “Gobbo”, abitava in una capanna in mezzo ad un bosco a ridosso del torrente. Anche se ormai vecchio non conosceva feste, lavorava dalle prime luci dell’alba fino al tramonto. Per questo era 108 conosciuto come “il Selvatico”. La sua pelle era più simile a quella del rospo che a quella di un uomo. Le sue mani erano semichiuse e non si aprivano più di tanto; faceva un lavoro talmente inumano che una bestia forse non sarebbe sopravvissuta. Ma il Gobbo continuava a lavorare dicendo che questo era non solo il suo destino ma il destino di tutti. Anche lui però nei momenti di sconforto cantava: “Fa-tiga, vecchio, che c’hai la pelle dura”. E lo faceva prima in sordina e poi sempre più forte. I vicini dicevano che quando il Gobbo cantava, il giorno dopo cambiava il tempo. Erano contenti di avere il Gobbo dalle loro parti: chi altri sapeva prevedere i cambiamenti del tempo? Non certo Barbanera che secondo loro c’indovinava... quando non sbagliava! Fa tutt’ pappa e bomba (o bumbo) (Fa tutto pappa e bumbo) Pappa e bumbo sono due termini usati dai bambini per indicare cibo e vino. Chi “fa tutt’ pappa e bomba” è persona che mette al primo posto nella scala dei valori il mangiare ed il bere senza preoccuparsi delle altre necessità e soprattutto senza nessuna preoccupazione per il futuro che a volte riserva tempi di vacche magre. Oggi chi pensa solo a mangiare e bere passa quasi sempre inosservato, ma un tempo era facilmente individuabile anche quando passava per strada perché i meno abbienti se accontentavano la gola non potevano vestirsi decentemente, tanto è vero che circolava l’altro detto: “Bocca unta e culo squartato” che significa: “Chi ha la bocca unta (chi pensa solo a mangiare) ha sempre i pantaloni squarciati nel sedere”. 109 Fin che dura fa verdura Una certa cosa dopo averla usata per lungo tempo ci si rende conto che ormai è alla fine, ma si continua ad usarla fin che dura perché ancora fa la sua finzione (fa verdura). Il modo di dire viene usato per significare che quella certa cosa è sì ormai verso la fine, ma si spera che ancora duri per un po’. Fin che la bocca pia e ’l culo rende, acidenti a l’ medcine e chi le vende (Fino a quando si ha appetito e si digerisce facilmente accidenti alle medicine e ai farmacisti) Questo proverbio, peraltro molto colorito, vuole semplicemente ribadire una cosa abbastanza ovvia: chi ha appetito e digerisce facilmente se ne frega delle medicine e di chi le vende. Fin ch’ piove n’ s’ secca gnente (Fintanto che piove non si secca niente) La campagna - si sa - ha sempre bisogno di acqua ed è ben accetta dagli argicoltori, ma a tutto c’è un limite ed in caso di eccessi c’è chi completa questo proverbio aggiungendo: “Ma s’infradia anicò” (si infradicia ogni cosa). E la pioggia, guarda caso, cade abbondante sempre nei mesi di aprile e maggio, i mesi nei quali i nostri agricoltori sono interessati all’erbaio che ha bisogno di acqua, ma sono anche interessati all’erba tagliata che deve seccarsi. Il fatto è che gli stessi agricoltori si rendono conto della contraddizione: c’è chi desidera la pioggia e chi vuole il sole, quando non capita che lo stesso agricoltore vorrebbe la pioggia per un campo 110 ed il sole per un altro. Ma poi tutti si consolano con il dire: “Quel lassù fa come ha fatt’ sempre”. C’è anche chi molto filosoficamente dice: “Si piove farimm com quei d’ Milano” (Se piove faremo come quelli di Milano). E chi chiede come fanno quelli di Milano, gli viene risposto: “La fann ni giù!” (la fanno venire giù!) Fino a Natale n’ c’è nnè freddo nnè fame. Da Natale in là fredd e fame in quantità (Fino a Natale non c’è né freddo né fame. Da Natale in là freddo e fame in quantità) Questo proverbio è antico come la fame e il freddo, due calamità naturali che hanno sempre preoccupato l’uomo fin da quando è comparso sulla faccia della terra. L’uomo delle caverne non conosceva il fuoco o altri mezzi di riscaldamento e si cibava di ciò che la natura gli offriva spontaneamente. Sopravvivere all’inverno era per lui sempre un’impresa. Con il passare dei millenni si appropriò del fuoco ed imparò a coltivare i campi, ma per varie ragioni (povertà, liti, carestie...) spesso si trovò a dover affrontare lo spauracchio della fame e talvolta anche quello del freddo. Il proverbio, di attualità da noi fino agli anni Cinquanta, voleva mettere in evidenza che fino a Natale (cioè nei primi mesi dopo O raccolto) la fame non si faceva sentire e spesso neanche il freddo, ma dopo Natale... si “batteva il trentadue” e soprattutto si incominciava a soffrire la fame. Fori ’l verde (Fuori il verde) Era il gioco che si faceva nell’ultima quindicina che precedeva la 111 Pasqua. Consisteva nel mostrare una foglia d’edera e pronunciare la formula “Fori ‘1 verde”. L’interpellato, già d’accordo per il gioco, mostrando a sua volta una foglia d’edera (spesso era fermata all’interno della camicia o maglia con una spilla) rispondeva: “Fori ‘I tua che ‘I mia n’ perdei” (fuori il tuo che il mio non perde). Chi veniva sorpreso senza foglia d’edera doveva pagare la posta già stabilita in precedenza e... il gioco continuava. Fortunato comme ’n pesce nten pajaro (Fortunato come un pesce in un pagliaio) I pesci si sa vivono solo ed esclusivamente in acqua e naturalmente il colmo della sfortuna per loro sarebbe finire in un ambiente senz’acqua, se poi finissero in un ambiente completamente asciutto come un pagliaio, allora sarebbe il massimo della sfortuna. Il detto viene citato per indicare sia una persona perseguitata dalla sfortuna sia chi viene accidentalmente a trovarsi in una situa zione sfavorevole. Gente trista, nominata e vista (Gente cattiva, nominata e vista) Quando si parla di qualcuno e questo arriva proprio nel bel mezzo del discorso, si dice: “gente trista, nominata e vista”. Il detto viene citato non per rimarcare che quella certa persona sia cattiva, ma semplicemente per dire che proprio in quel momento si stava parlando di lei. Certamente a volte c’è anche un pizzico di malizia nell’indicare il nuovo arrivato, ma quando lo si vuoi fare si usa un altro detto: “Quant’ s’ parla del diavlo j spunta la coda” (quando si parla del diavolo gli spunta la coda), e se si vede spuntare la coda... il diavolo non è molto lontano! 112 Gì’ a fa’ la scampanata (Andare a far la scampanata) La scampanata era il prodotto dei vari suoni emessi da campanacci, barattoli e simili. Questa strana orchestra era messa insieme dai buontemponi del posto ed aveva luogo la prima notte di matrimonio davanti alla casa di vedovi o vedove che si erano risposati in avanzata età. Non era raro il caso che lo sposo per disperdere i musicanti facesse uso del fucile sparando in aria a scopo intimidatorio. Gì’ a garavella’ (Andare a racimolare) Spesso dopo la vendemmia si andava lungo i filari alla ricerca di qualche grappolo d’uva che poteva essere rimasto nascosto sotto i pampini. Si poteva anche andare a “garavella”’ le pannocchie del gra-noturco dopo il raccolto e così per altri prodotti agricoli. Generalmente chi andava a “garavella”’ erano i “nolanti” o “casanavolo” (i paganti il nolo di casa), i più poveri delle nostre campagne fino al dopoguerra. Gì’ a pia’ l’acqua salata (Andare a prendere l’acqua salata) Durante l’ultima guerra il sale era diventato introvabile e così si usava l’acqua salata (clorurata) che si andava ad attingere in certi luoghi, come nelle vicinanze di Fratterosa in località Profondo. Ci si metteva in fila e spesso si attendevano dei giorni prima che arrivasse il proprio turno! L’acqua poteva essere fatta bollire fino a completa evaporazione e così nel fondo del recipiente rimaneva il sale che a 113 dir il vero rassomigliava per colore più alla fuliggine che al sale, tanto era nero! Si faceva grande uso anche di acqua “cucia” (bicarbonata) che facilitava la cottura dei legumi. Il fango dell’acqua “cucia” inoltre veniva usato per curare mali alle zampe degli animali, cospargendolo abbondantemente nelle parti interessate. Questo impiastro era detto “lubacata” (da “Lubachi”, campi dei quali era tipica questa creta). Gi’ a pr aria (Andare per aria: fallire) Quando il sole all’orizzonte coperto da una grande nuvola, lascia passare il suo primo raggio di luce ci sembra che questo raggio che sale verso l’alto sia come impazzito. Chi improvvisamente perde tutti i suoi averi viene paragonato al raggio di luce che va verso l’alto; si dice che una persona va per aria forse perché non ha più niente sulla terra. Un tempo i fallimenti erano rari. E chi falliva veniva additato con disprezzo dalla gente. Era un marchio infamante che spesso coinvol geva anche i figli. Non era raro sentire delle espresioni come questa: “Tu stai zitto, sei il figlio di un fallito!”. Gi’ a ruspo (Andare alla ricerca di avventure amorose) Gindo e nindo (Andando e tornando) Le due forme verbali sono fuori di ogni uso, ma l’espressione serve per prendere in giro chi vuole parlare in lingua italiana e non 114 sa farlo. Chi parla come sa parlare senza voler sembrare quello che non è non viene mai deriso, ma chi vuoi parlare “aguzzo” e dice degli sfondoni è oggetto di risa e di prese in giro. Gi’ ’n curina (Andare in curina) La curina è lo scirocco, vento caldo che spira in estate dalla Siria e che può causare il ribollire del vino, facendogli perdere il suo colore e sapore. Il detto sta ad indicare una persona che perde il controllo e si arrabbia. Gi’ in ramenga (Andare in dispianto) Il termine “ramengo”, tipico della parlata veneziana, viene usato per indicare il bastone che serve per andare a ramingo. Chi va ramingo è una persona che va errando per il mondo senza una dimora fissa, proprio come fanno gli zingari. Un tempo per i poveri che non avevano niente non c’era altra alternativa che quella di fare il mendicante. Era la professione di chi bussava di porta in porta per chiedere qualcosa in elemosina: un tozzo di pane, qualche vecchio vestito, pochi soldi... A quei tempi non passava giorno che qualcuno non bussasse alla porta, ma di solito si aveva compassione solo degli storpi o dei vecchi perché ai giovani si era soliti ripetere: “Non ti vergogni di andare per l’elemosina? Vai piuttosto a lavorare!”. 115 Gira come l’ombra del pajaro (Gira come l’ombra del pagliaio) Il pagliaio nei giorni di sole proietta il suo cono d’ombra entro un ristretto raggio di azione e la sua ombra gira seguendo il movimento apparente del sole. Questo movimento dell’ombra, lento e ristreto nello spazio, viene paragonato a quello di certe persone che non riescono a muoversi più di tanto o a causa della loro avanzata età o a causa di qualche malattia. Gira comm ’na bizzarola (Gira come una trottola) Tutti sanno che la trottola è un giocattolo di legno di forma cilindrica e con una punta conica; si avvolge strettamente con uno spago e tenendone il capo in mano si scaglia sul pavimento ritirando a sé lo spago perché giri velocemente sulla punta. Si usa colpirla poi con lo stesso spago che viene usato come frusta per farla girare più velocemente. Il nostro detto fa riferimento a qualcosa che gira vorticosamente; esprime un senso di meraviglia o una constatazione di fatto. Giust’ giust’ comme a ’l nozze d’ Cacone (Giusto giusto come alle nozze di Cacone) Chi fosse questo signore non è dato a saperlo. Il detto sta ad indicare un qualcosa che, sebbene non calcolato in precedenza, all’atto pratico risulta esatto, preciso, giusto, senza eccesso né difetto, come se tutto fosse stato calcolato alla perfezione. 116 Guarda che piangle! (Guarda che piante di piedi!) Come dire: “C’ha i piedi di San Paolo” (Ha i piedi di San Paolo). Si immaginava che S. Paolo dovesse avere dei piedi fuori del normale, se è vero, che ha percorso a piedi tanta strada come ad esempio il viaggio da Gerusalemme a Roma. Guardare e non toccare, è roba da crepare La seconda parte del detto non sempre ha a che fare con la prima, ma serve per darle più forza. Questo detto si usa quando non si vuole che venga toccata una cosa di valore. Il detto non è in dialetto proprio perché chi volesse toccare senta il distacco da chi parla. Ha fatt’ ’n cul’ d’ neve (Ha fatto un culo di neve) I nostri bisnonni quando dovevano misurare qualcosa facevano quasi sempre riferimento alle parti del corpo. Le unità di misura per loro erano: i passi, i palmi, i “forcelli” (spanne), le braccia e così via. Per quanto riguarda la quantità di neve caduta, il corpo umano sembra trasformato in un “nivometro” se pensiamo alle espressioni: “N’ha fatt’ ’na scarpa”, “n’ha fatt’ ’na gamba”, “n’ha fat’ ’n ginocchio”, “n’ha fatt’ ’n culo”. Piede, polpaccio, ginocchio e sedere indicano le misure crescenti di neve caduta. C’è anche l’espressione: “N’ha fatt’ ’na scasciata” (ne ha fatto una spolverata) per indicare che la neve ha appena ricoperto il suolo. 117 Ha fnito ’l lardo a Lardone... (Ha finito il lardo a Lardone... Secondo il detto, Lardone di lardo ne aveva sette solai, ma lo finì tutto egualmente. il detto è rivolto agli scialacquatori che prima o poi finiranno nella miseria. Mio padre amava raccontare le vicende di un suo conoscente, un certo Peppe dl’Abate che era ritornato dall’America con tanti dollari. Peppe era proprio ricco sfondato. Ma credendo che le sue ricchezze fossero infinite cominciò a spendere e spandere. A chi gli faceva notare che spendeva troppo e che i suoi soldi prima o poi sarebbero finiti, rispondeva immancabilmente: “Fnisc’ prima l’acqua ma ’1 mar!” (Finisce prima l’acqua al mare). Ma non fu così, perché Peppe in capo a qualche anno si ridusse in miseria. Hai da magna sett’ coppe d’ cendra (Devi mangiare sette coppe di cenere) Fino agli anni dell’immediato dopoguerra entrando in una casa di campagna era normale nella brutta stagione veder cuocere qualcosa sotto la brace. Poteva trattarsi di patate, cipolle, fave, olive, ecc. Naturalmente quando si tiravano fuori dalla brace erano cosparsi abbondantemente di cenere ma nessuno ci faceva caso: una soffiata alla meglio e via. Ai bambini che erano un po’ inesperti nell’eliminare la cenere e che quindi si lamentavano, veniva data la solita risposta: “N’ t’ la pia’, tant hai da magna sett’ coppe d’ cendra” (Non te la prendere, tanto devi mangiare sette coppe di cenere). Non era certo poca se pensiamo che il coppo (in dialetto “coppa”) corrispondeva a circa 25 chili. Era questa una misura in uso nelle nostre zone prima dell’Unità d’Italia e serviva per pagare la decima 118 al clero. Naturalmente facendo i debiti conti era un’esagerazione, ma una cosa è certa: di cenere ne mangiavano tanta. Hai da spremette l’opra a miete (Dovrai disdire le persone che hai impegnato per la mietitura) Quando era tempo di mietitura l’agricolture aveva bisogno di aiuto in questo lavoro abbastanza lungo e sempre molto pressante anche perché il vento e la grandine erano i peggiori nemici - ricordiamo che il grano di allora era solamente quello tenero e i chicchi quando il grano era maturo cadevano facilmente dalla spiga -. Ogni agricoltore per la mietitura faceva affidamento su un certo numero di operai (“opra”) che potevano essere sia i nolanti (quelli che pagavano il nolo) sia i montagnoli (quelli che abitavano nelle vicinanze dei monti). Questi ultimi dovevano aspettare ancora alcune settimane prima di mietere il loro grano e pertanto venivano a prestare la loro opera da noi. Erano soprattutto loro che con i canti della mietitura rallegravano questo lavoro che proprio allegro non era. Disdire l’“opra”, cioè le persone impegnate per la mietitura, era tona cosa che non avveniva tanto facilmente e così il proverbio “Hai da spromette l’opra a miete” stava ad indicare una cosa che sarebbe avvenuta chissà quando. Il proverbio potrebbe essere tradotto con l’espressione: “A voja aspetta!” (dovrai aspettare ancora a lungo... e forse vanamente). Hai volut’ la bicicletta?! Pdala! (Hai voluto la bicicletta?! Pedala!) I Romani dicevano: “Quisque est faber fortume suae” (Ognuno è artefice della propria sorte). La “fortuna” per i Romani era quella che 119 per noi è la sorte, che può essere favorevole o sfavorevole a seconda della scelta fatta. II nostro detto però non fa riferimento alla scelta del lavoro o della professione o agli affari, ma fa riferimento a chi si mette in una particolare situazione da lui cercata e voluta e che poi vede solo i lati negativi e si lamenta dei sacrifici che quella situazione comporta. Nei casi estremi può essere una persona che si è sposata e poi maledice di averlo fatto o chi ha scelto di ricoprire una certa carica che richiede impegno e responsabilità e poi si lamenta della situazione nella quale si trova. E così, quando si lamenta, si sente quasi sempre ripetere: “Hai volut la bicicletta?! Pdala!”. Ho fatt’ ’na bardella! (Ho fatto una sudata!) Aldo Montanari aveva lasciato il podere di Cagli - dove per i trasporti usava la treggia - per uno più comodo a Mondavio. A Cagli i suoi campi erano: le Ripe, la Selva, le Balze, il Fosso, la Selvatica e la Cupa. Già i nomi stessi ce la dicono lunga su quanto fosse scomodo quel podere. Ad Mondavio la situazione era migliorata, almeno a dar retta ai nomi: l’Alborata, la Tornalunga, la Pianella, il Canneto e il Muntirozzo. Nel nuovo podere però Aldo fece una brutta esperienza sul Muntirozzo (la Montagnola) quando dopo la mietitura era andato cpn buoi, biroccio e sterzo a caricare i covoni. L’aiutavano in questa operazione i suoi due figli, due ragazzi robusti; mentre lui sistemava i covoni sul carro, i figli glieli portavano. In un paio di ore il carico già completo e legato col “sarcio” (canapo) si avviava verso casa. Ma poco dopo, in un punto dove il terreno presentava delle irregolarità, il carico si piegava paurosamente, ondeggiava e poi si adagiava su di un lato. Padre e figli dapprima osservarono sconsolati e poi si fecero 120 coraggio e lavorarono con lena: sciolsero il carico, raddrizzarono il carro con l’aiuto dei buoi e di nuovo ricomposero il carico e via verso casa. Sull’aia c’era già ad aspettarli la Peppa, la suocera di Aldo, una vecchia curva e senza denti che alzando il suo bastone con un gesto minaccioso e dopo aver urlato alcune invettive, disse: - A st’ora s’ariva? E Aldo: “N’ m’ fa discorre! Ho fatt’ ‘na bar della!”. (- A quest’ora s’arriva? - Non mi far parlare! Ho fatto una sudata!). Ho fatto ’n palugine (Ho fatto un pisolino) A distanza di più di mezzo secolo c’è ancora chi a San Lorenzo ricorda quello che successe a Bdollo di Montesecco dopo un pisolino sotto un albero in attesa che il fabbro Giuanne de Tulino finisse di assottigliare il vomere di un suo cliente. Giuanne, dopo aver reso incandescente il vomere alla forgia, assestò con il maglio dei colpi ben precisi e quando ritenne di averlo ben assottigliato buttò il vomere a terra. Il vomere da rosso che era all’inizio divenne in poco tempo blu. Giuanne chiamò Bdollo che ancora un po’ assonnato si presentò sulla porta della bottega del fabbro con un coltro legato con una cordicella per portarlo a tracolla. Slegò la cordicella mentre il fabbro ravvivava i carboni sulla forgia. Giuanne prese il coltro e lo immerse sotto i carboni, Bdollo si stroppicelo gli occhi e si avvicinò al fabbro per vedere meglio quello che stava facendo. Ad un certo punto Giuanne si distolse dal suo lavoro, cominciò a guardare in giro e ad annusare l’aria: solo quando vide Bdollo saltare e correre verso la tinozza dell’acqua si rese conto che il poveraccio aveva messo i piedi sopra il vomere incandescente. Bdollo 121 lì per lì non si era accorto perché aveva la pelle dei piedi ispessita dai calli. Giuanne un po’ preoccupato gli disse: “Ma dormi?” e il povero Bdollo gli rispose: “No, ho fatt’ solo ‘n palugine”. Ho ’na fame che n’ c’ veggo! (Ho una fame che non ci vedo!) Il detto viene usato da chi non mangia da molto tempo o da chi sente quel languore persistente allo stomaco che è segno inequivocabile di fame vera. I cavi riscaldati enn boni, ma n’enn graditi (I cavoli riscaldati sono buoni, ma non sono graditi) Che i cavoli riscaldati siano buoni o meno, graditi o meno è una questione di gusti. Il nostro proverbio vuole semplicemente evidenziare che i ripensamenti (“I cavi riscaldati”) non sono mai graditi a nessuno. J dà a battecerquella (Intraducibile) “Cerqua” è la trasposizione di sillabe della parola “quercia” e “cerquella” va tradotto con “quercella” o più esattamente con “querciolo”. Un tempo le ghiande venivano raccolte con cura sia dagli agricoltori che dai nolanti per allevare maiali e conigli; schiacciate venivano date da mangiare anche alle oche ed alle anatre. Di solito le ghiande venivano raccolte dopo alcune ore di vento, ma la raccolta 122 più importante si faceva dopo la abbacchiatura che veniva effettuata con lunghe pertiche. Abbacchiare le ghiande in una grande quercia era spesso un’impresa e chi l’eseguiva stando in equilibrio su un ramo a volte rischiava l’osso del collo. “Battere” o meglio abbacchiare le ghiande in un querciolo era un lavoro semplice e veniva effettuato in poco tempo. Chi “i dà a bat-tercerquella”, è una persona che esegue il lavoro in poco tempo anche se in modo approssimativo. J da i cricchi (Gli da i cricchi) Il termine “cricchio” è onomatopeico di “ticchio”, che significa capriccio. Chi dà i cricchi da modo - in genere ad un bambino - di fare i capricci. L’educazione dei figli nei primi anni di vita è compito della famiglia e in seguito anche della scuola. In genere i capricci vengono tollerati da genitori permissivi e spesso dai nonni, un po’ meno dalla scuola, specie quella elementare che nei vigenti programmi ha come suo fine il dettato costituzionale della “formazione dell’uomo e del cittadino”. Uomo e cittadino, inteso in senso autentico, non può essere una persona che fa i capricci. Quello dell’educazione dei figli è oggi uno dei problemi più discussi con punti di vista variegati e a volte anche opposti quali il permessivismo e l’autoritarismo; queste due posizioni estreme sono entrambe sbagliate. Nel campo dell’educazione non esiste una ricetta universale, valida per tutti. La stessa scienza dell’educazione da degli indirizzi, dei suggerimenti, indica metodi e mezzi, ma i risultati dell’azione educativa finiscono per essere quasi sempre diversi da un soggetto all’altro. Spesso l’intuizione e il buon senso dei genitori possono molto più della scienza. 123 J dà l’azzico (Gli da l’azzico) “Azzico” è un termine venatorio che sta ad indicare un uccello vivo imbracato che serve per attirare uccelli della stessa specie. Si usa di solito nella caccia allo storno. In passato si usava la civetta inanellata e legata ad un trespolo per attirare le allodole. Nella caccia ai colombacci si usano ancor oggi i piccioni addomesticati che con il loro volo portano i colombacci sopra i capanni dei cacciatori. Azzichi sono anche i tordi ai quali sono state tarpate le ali e che vengono messi dentro un piccolo recinto situato nelle immediate vicinanze del capanno di caccia. Gli azzichi sono sempre uccelli in movimento che con la loro presenza attirano uccelli della stessa specie. Il detto “j dà l’azzico” viene usato per indicare l’intenzione di qualcuno a voler stuzzicare altri a dire più del dovuto o spingere altri a fare certe azioni. J darìa ’l pillotto! (Gli darei il pillotto!) Il pillotto è quell’arnese che serve per mettere il lardo fuso per ùngere l’arrosto. Di solito sopra lo spiedo che gira si versa l’unto bollente, già caduto in quel tegame bislungo detto “ghiotta” che si trova sotto lo spiedo. Si può anche pillottare facendo colare, da un cartoccio incendiato alla fiamma, del lardo fuso sopra l’arrosto. Dare il pillotto vuoi dire versare olio bollente. L’espressione si usa nei confronti di chi si vorrebbe punire severamente. 124 J fa comm l’oio sul lume (Gli fa lo stesso effetto dell’olio sul lume) Lume (dal latino lumen) è lo strumento per produrre luce. Lume quindi è qualsiasi oggetto che fa luce, ma nelle nostre campagne la parola “lume” indicava un oggetto ben preciso: quel lumino a petrolio usato in ogni casa e molto più indietro negli anni era la lampada ad olio. Era buona norma prima di accenderlo controllare il livello dell’olio e la lunghezza dello stoppino. A volte invece succedeva di comportarsi come le vergini stolte ricordate nel Vangelo e così la luce si affievoliva. Ma prima che si spegnesse si provvedeva a rimettere l’olio nel lume e così la fiamma ritornava normale. Il detto “j fa comm l’oio sul lume” si usa tutte le volte che si vuoi indicare che una medicina produce subito i suoi effetti e in senso lato indica il giusto rimedio per ovviare ad un inconveniente. J fa male la nebbia sul monte (Gli fa male la nebbia sul monte) Per chi è lontano dal monte non ha importanza se sul monte nevica, piove o tira il vento. Eppure secondo il nostro proverbio c’è chi si ammala perché sul monte c’è la nebbia e questo per dire che ci sono delle persone che si ammalano per un nonnulla. Il proverbio si usa anche per indicare una persona che si arrabbia senza una buona ragione. J feta anche ’l gallo (A lui fa le uova anche il gallo) L’espressione si usa per indicare persone alle quali le cose vanno meglio di ogni immaginazione. 125 J manca la terra sott’ i piedi! (Gli manca la terra sotto i piedi!) Si usa dire così per indicare una persona che non si accontenta del suo stato e che vuoi fare quante più cose possibili ai fini di realizzare maggiori guadagni. J manca sempre ’n soldo per fa’ ‘na lira (Gli manca sempre un soldo per fare una lira) Fino all’immediato dopoguerra erano ancora in circolazione i soldi, la ventesima parte della lira. Una lira anche a quei tempi era una moneta di poco valore; i soldi poi avevano un valore quasi insignificante come potrebbe essere oggi una monetina da cinque lire. Se ad una persona mancava un soldo per arrivare ad una lira voleva dire che era povera davvero. Il proverbio si usava e si usa ancor oggi per indicare una persona povera che non riesce a migliorare la sua posizione economica. I monei c’hann j occhi più grandi che nnè la trippa (I bambini hanno gli occhi più grandi della pancia) I bambini sono spesso dei golosi e vorrebbero mangiare senza limiti, almeno con gli occhi, ma quando poi in concreto si tratta di mangiare è normale che anche la loro pancia non ne riceva più di tanto. Accade spesso che i bambini facciano mettere nel loro piatto molto più di quanto possono mangiare. La dimostrazione di ciò è evidente osservando il loro piatto quando si sparecchia la tavola. 126 J ne van più di pidocchi ai poretti (Gliene vanno di più che i pidocchi ai poveri) Questa espressione si usa nei confronti del giocatore fortunato oltre misura a carte. Insalata: poc’aceto e ben oliata (Insalata: poco aceto e ben oliata) Ai vecchi tempi l’insalata veniva “trattata” con un po’ di aceto e sale, mentre l’olio glielo si faceva vedere da lontano. La gente sapeva che l’insalata andava condita con molto olio e poco aceto, ma il detto si ricordava solo quando si mangiava l’insalata a casa d’altri. Io n’ l’ho con te: l’ho con chi t’ guema (Io non ce l’ho con te: l’ho con chi ti dà da mangiare) Questo detto è rivolto a chi, ormai adulto, vive senza far niente alle spalle dei suoi genitori che continuano a sgobbare come hanno sempre fatto, mentre lui se la spassa allegramente. Io n’ vojo gì’ in paradiso per dispetto di santi (Io non voglio andare in paradiso per dispetto dei santi) Usiamo questo modo di dire quando siamo indispettiti perché qualcuno non si decide a farci un certo lavoro o ce lo fa male. È come dire: io non voglio le cose fatte per dispetto. 127 I piatt’, ch’enne i piatt’, fan rumore (I piatti, che sono piatti, fanno rumore) I piatti essendo cose inanimate non dovrebbero emettere alcun suono o rumore, ma naturalmente se vengono smossi anche loro producono rumore. I detto vuoi significare che rientra nella normalità che ci possa essere qualche screzio fra persone che sono andate sempre d’accordo. I poi e i monei smerdne la casa (I polli e i bambini sporcano la casa) In campagna anche oggi è facile che i polli entrino in casa e sporchino con i loro escrementi. Altrettanto facile è che i bambini piccoli lascino all’interno della casa il segno del loro passaggio. Questo il senso letterale. Ma il detto sta ad indicare che i bambini, bocca della verità, generalmente raccontano cose che altri al di fuori della famiglia non dovrebbero sapere. I pulcini han portato a be’ l’oche (I pulcini hanno portato a bere le oche) Quando si gioca a carte può succedere che vinca chi è meno abile e così si dice che i pulcini (i piccoli giocatori) hanno portato a bere le oche (i grandi giocatori). Il detto viene usato quando i deboli hanno avuto la meglio sui forti. I sold enn comm i dolore: chi ci ha si tiene (I soldi sono come i dolori: chi li ha se li tiene) La lira è l’unità di valore della moneta italiana ma un tempo 128 avevano valore anche i sottomultipli della lira come il soldo che aveva soprattutto valore al tempo di Giolitti (fine ottocento e primi anni di questo secolo) quando la lira (moneta in argento da 5 grammi) faceva aggio sull’oro. In seguito il valore del soldo fu occupato dalla lira. Il nostro proverbio non è altro che una constatazione: il denaro è di chi lo possiede ed è inutile desiderarlo, come è impossibile scaricare sugli altri i dolori che ci tormentano: ognuno si tiene quelli che ha: soldi e dolori! I soldi fan gi’ l’acqua d’insù (I soldi fanno andare l’acqua verso l’alto) L’acqua come tutti i liquidi scorre se ha una certa pendenza; se la pendenza manca, ristagna. Per andare “d’insù”, cioè verso l’alto, ha bisogno di macchine che la sollevino e le macchine naturalmente hanno un costo. Insomma per “fa gi’ d’insù l’acqua” ci vogliono “i soldi”. Chi per primo ha coniato questa espressione doveva essere una persona che si era resa conto che anche quelle cose che si oppongono alle leggi della natura possono essere realizzate: basta spendere. I somar’ d’ Frontone enn tutt’ uguali (I somari di Frontone sono tutti uguali) Frontone, Comune alle pendici del monte Catria, ha oggi un’economia fondata su piccole fabbriche, sull’agricoltura e sul turismo. Un tempo era invece basata in parte sull’agricoltura e in gran parte sull’allevamento del bestiame per lo più lasciato al pascolo sul monte. Fra gli animali si annoveravano oltre che bovini, ovini e caprini, anche un certo numero di muli e somari, adibiti al trasporto della legna dei boschi. 129 I tanti somari usati per il trasporto della legna non erano certamente molto diversi fra loro. Questo proverbio che ci ricorda che i somari di Frontone sono tutti uguali, viene rivolto a chi dice che è sua una certa cosa che si trova in mano di altri. il nostro proverbio ci vuoi ricordare che tutti i somari si rassomigliano e volerne distinguere uno da un altro non è facile, così come è quasi impossibile distinguere due cose uguali. J tira ’l culo (Gli tira il sedere) È un modo di dire comune dalle nostre parti che significa: è arrabbiato per una cosa da niente, oppure: è arrabbiato e non si sa per che cosa. Un altro modo di dire che ha lo stesso significato ed è altrettanto colorito è: “C’ha ’l culo stempro!”. La bocca fa ’l forno: o ch’ha fame o ch’ha sete o ch’ ha sonno (La bocca fa il forno: o che ha fame o che ha sete o che ha sonno) L’espressione “la bocca fa il forno” ci fa pensare alla bocca che si atteggia come un forno quando è aperto; fa riferimento a chi sbadiglia. Secondo questo proverbio chi sbadiglia lo fa perché: o ha fame o ha sete o ha sonno. La casa loggia, ma n’ guerna (La casa alloggia, ma non dà da mangiare) È stato sempre un luogo comune pensare all’uomo dei campi come 130 a colui che, più di ogni altro, assiste ai meravigliosi spettacoli della natura: dalle bianche nevicate silenziose ai temporali fragorosi, dalle albe rosate ai rossi tramonti. Ma l’agricoltore ha sempre dovuto fare i conti con la dura realtà, fatta di lavoro sodo e per ore interminabili. Ai vecchi tempi il ritmo di lavoro non era regolato dall’orologio ma dalle ore di luce e dalle stagioni. Dalla primavera all’autunno l’agricoltore lavorava dall’alba fino al calar delle tenebre. Solo durante le ore più calde dell’estate, quando il sole scottava e rendeva l’aria irrespirabile, il contadino si concedeva un paio di ore di riposo per riprendere il suo lavoro fino al buio della sera. Durante la mietitura lavorava instancabilmente e si allontanava dai campi solo per dormire. Lo si vedeva di continuo chino, a testa bassa, intento a tagliare le messi con la caratteristica “falce da grano” o ad ammucchiare i covoni quando anche i gufi erano andati a dormire. Quelli erano tempi nei quali la povera gente era proprio convinta che “la casa loggia, ma n’ guerna” e per questo lavorava tanto e lo faceva semplicemente per poter sopravvivere. La casa piatta, ma n’ ruba (La casa nasconde, ma non ruba) Ci capita a volte di non ricordare dove abbiamo messo qualcosa di importante. Mettiamo sottosopra la casa e quando dobbiamo arrenderci nella ricerca, allora ci consoliamo pensando a quel proverbio che ci ricorda che la casa nasconde le cose ma non ce le porta via. Quasi sempre poi ritroviamo la cosa cercata anche se ormai possiamo aver provveduto diversamente. La donna sfacendata, fa ’l pane e la bocata (La donna sfaccendata, fa il pane e il bucato) Un tempo ogni massaia cuoceva il pane nel suo forno. Fare O 131 pane voleva dire alzarsi presto per impastare, dare la forma al pane, riscaldare il forno e seguire la cottura del pane. Queste operazioni impegnavano più persone per molte ore. Il fare il bucato significava: far bollire nella “caldara” molta acqua, mettere i panni lavati già con due “passate” ed insaponati nella “mastella”, mettere sopra i panni il “cenerale” (tela che tratteneva la cenere) passata al setaccio per eliminare i carboni spenti o altre impurità, versare sopra la cenere acqua bollente. Quest’acqua detta “ranna” veniva conservata per un certo tempo perché serviva per lavare altri panni o per lavare... i capelli. Si doveva poi aspettare che l’acqua si freddasse, togliere il Generale con cenere, risciacquare i panni e stenderli al sole. Come si può ben capire fare il bucato impegnava la donna per molte ore, se poi faceva anche il pane... Il detto veniva ricordato con sarcasmo a quelle donne che volevano fare più faccende impegnative nello stesso tempo. Ladro è ’l campo (Ladro è il campo) Anche nei tempi peggiori quando la povera gente cercava di sopravvivere ricorrendo a volte a piccoli furti dei prodotti agricoli il contadino non se la prendeva più di tanto; era solito invece ripetere che “ladro è 1’ campo” per sottolineare che se i prodotti erano abbondanti ce n’erano per tutti. A proposito di ladri c’è ancora chi ricorda due persone ormai scomparse che un tempo erano note per i loro furtarelli. I due un giorno si incontrarono per la via principale del paese. Uno disse all’altro: “A San Vito han rubbato sei dindi. Ntla zona i ladri semine solo noia’ due. O te m’ dai la parte o io fo la spia” (A San Vito hanno rubato sei dindi. Nella zona i ladri siamo solo noi due. O tu mi dai la mia parte o io faccio la spia). 132 La fame fa sgappà ’l lupo da la tana (La fame fa uscire il lupo dalla tana) Qualche secolo fa il lupo scorrazzava per le nostre campagne e le denominazioni di luoghi e di chiesette del nostro Appennino e subap-pennino ci ricordano la presenza di questo carnivoro. Era il nemico dichiarato dei contadini e di pastori e per questo era costretto a tenersi alla larga dalle case e restare a lungo in luoghi per lui sicuri. Ma naturalmente spesso, dopo tanto digiunare, la fame lo spingeva ad uscire allo scoperto; meglio morire di morte violenta che morire di fame. Il nostro proverbio viene citato di solito per indicare quelle persone che escono di casa solo per necessità, proprio come fa il lupo. La fatiga nn è unta (La fatica non è unta) Quando una ruota, un ingranaggio o un qualunque meccanismo si inceppa o non scorre nei modi dovuti allora si usa ungere la parte o le parti interessate per riportare le cose alla normalità. Anche la fatica a volte - anzi spesso! - non scorre nei modi dovuti, ma non c’è nessun olio - se si eccettua quello di gomito - adatto a rendere più agevole la fatica. E così mentre i più stringono i denti e proseguono per la loro strada c’è chi si arrende dopo aver iniziato un lavoro e c’è anche chi si spaventa prima e non inizia neanche. Un detto con significato identico è: “È fatiga a fatiga!” (si fa fatica a lavorare). Come si vede da questi proverbi l’allergia alla fatica è una malattia molto vecchia. 133 La gaggia pel(e)la, ma n’ la fa’ strìde (La gaggia pelala, ma non la fare stridere) Per capire questo proverbio bisognerebbe immaginare una persona che sta spennando una gazza viva e che lo fa senza esagerare, senza cioè farla stridere. Il proverbio viene indirizzato nei confronti di chi spreme un po’ troppo le tasche del prossimo; lo potrà forse anche fare, ma... via, non esageri troppo! La galina che n’ becca ha beccato (La gallina che non becca ha beccato) A chi forza una persona che non ha fame a voler mangiare di solito viene ricordato un po’ maliziosamente che “la gallina che n’ becca ha beccato”; è come dire che quella persona non mangia perché ha già mangiato. Questo detto si usa in genere per indicare che chi non fa una cosa piacevole vuoi dire che l’ha già fatta e non sente il bisogno di ripeterla. La galina chi l’ha magnata l’ha magnata (La gallina chi l’ha mangiata, l’ha mangiata) La Celestina e Gigione abitavano nelle campagne di Montalfoglio conducendo una vita sempre uguale: il lavoro dei campi, la domenica al paese per la Messa e qualche rara volta ad un mercato o ad una fiera a San Lorenzo, ma niente di più. Era da tempo che la Celestina non vedeva l’ora di andare a Serra a trovare il suo unico fratello. Dopo la trebbiatura prese l’essenziale per il viaggio e mise il tutto nella “guluppa” (fazzoletto da spesa con gli angoli opposti annodati), la infilò in un bastone, se la mise in spalla 134 e partì alla volta di Serra per rimanervi alcuni giorni. Gigione salutò a malincuore sua moglie, anche perché di cucina non era esperto. I primi due giorni mangiò solo pomodori e cetrioli con un po’ di sale, il terzo giorno si fece una bella frittata, ma il quarto giorno, mise a bollire la più bella gallina del pollaio, anche se si ren deva conto che se la Celestina l’avesse saputo l’avrebbe trattato come un cane. Gigione si mangiò tutta la gallina ed ebbe cura di sotterrare le ossa nel campo del vicino (le penne le aveva già bruciate). Il giorno dopo che era tornata, la Celestina si rese conto che mancava la gallina e chiese a Gigione se ne sapeva niente. Alla ri sposta negativa di costui la Celestina incominciò a mandare colpi ed accidenti all’autore del furto ed il secondo giorno non fu da meno. Il povero Gigione dapprima fece finta di niente, ma poi sbottò: “Basta co’ ste sentenze! La galina chi l’ha magnata l’ha magnata!” (Basta con queste maledizioni! La gallina chi l’ha mangiata l’ha mangiata!). Il detto si usa ancora oggi per dire: “È inutile prendersela. Ormai è fatta”. La gola è ’n bugo stretto: ingoia la casa e ’l tetto (La gola è un buco stretto:ingoia la casa e il tetto) Il proverbio ci ricorda che chi asseconda smodatamente la propria gola spesso finisce col mangiarsi la casa, tetto compreso. Naturalmente non si mangerà la casa intesa in senso stretto ma il suo valore. Il che è come dire ridursi in miseria. La morte dle peqre è la furtuna di cani (La morte delle pecore è la fortuna dei cani) Una pecora morta può essere un buon pasto per i cani ed il nostro proverbio ci vuoi ricordare che a volte le disgrazie per alcuni possono 135 essere la fortuna per altri. Queste situazioni erano già note nei tempi antichissimi; i Romani avevano un proverbio simile al nostro: “Mors tua vita mea”, (La tua morte è la mia vita). L’an del mai e ’l mes’ del poi (L’anno del mai ed il mese del poi) L’espressione sta ad indicare che una certa cosa non sarà mai fatta o una certa situazione non si verificherà mai. L’anno è lungo e i giorn’ en fitte (L’anno è lungo e i giorni sono fitti) In tempi di miseria era necessario tirare la cinghia per poter arrivare alla fine dell’anno mangiando quel tanto che bastava per sopravvivere. Oggi l’espressione viene usata in senso metaforico e non con il valore che aveva un tempo. È semplicemente un invito al risparmio. La pianta tocca ’ndrizzarla fin eh’è picqla (La pianta occorre raddrizzarla fin che è piccola) Ogni agricoltore che si rispetti provvede a tirar su gli alberi diritti, mettendo accanto ad essi un sostegno fin da quando sono piccoli. Un albero di tanti anni non si raddrizza e, se proviamo a farlo, si spezza. Ma il proverbio fa quasi sempre riferimento alle persone che vanno raddrizzate - cioè corrette - quando ancora sono in tenera età. Quando sono grandi e si manifestano certi difetti forse è tardi per correggerli ed allora ripensiamo al nostro proverbio e alla sua fondatezza. 136 La prima è ’n vleno (La prima è un veleno) Il proverbio si usa generalmente nel campo del gioco: carte, lotto, lotterie, ecc. Ed ha un senso: spesso chi gioca e vince continua a giocare pensando di vincere ancora ma il più delle volte finisce con il perdere. L’arcrocc(o)la (Gli fa le coccole) La traduzione fatta sopra è letterale e non rispecchia il significato che in dialetto diamo al verbo. “Arcrocc(o)la” dovrebbe essere tradotto diversamente, in quanto chi “arcrocc(o)la” è generalmente la madre che agisce così per difendere a torto o a ragione il figlio dai rimproveri o dalle busse di parenti o estranei. “Arcrocc(o)la” dunque ha valore di “prendere le difese”. La robba fa ’l prezzo (La roba fa il prezzo) Una cosa può costare molto o poco a seconda del suo valore. Al mercato o ad una fiera è facile sentire un commerciante pronunciare il detto per convincere gli acquirenti che una determinata merce costa molto, semplicemente perché ha quel valore. A volte, valutando a distanza di tempo, diamo ragione al commerciante: quella certa cosa l’abbiamo pagata molto ma ne valeva la pena. Non sempre però veniamo consigliati bene. 137 La robba tocca buttalla via tre giorni doppo che puzza (La roba si deve buttar via tre giorni dopo che puzza) Questo proverbio si usa quando si vuoi far capire a qualcuno che non bisogna disfarsi facilmente di cose che prima o poi potrebbero tornarci utili. È un proverbio che oggi viene citato molto meno che in passato quando qualsiasi cosa veniva riutilizzata in un modo o in un altro. Dobbiamo buttar via solo quel che marcisce e solo dopo che puzza, ma il proverbio esagera un po’ specie oggi che la società dei consumi invita a volerci disfare di tante cose. Certamente bisognerà seguire una via di mezzo tra il buttare e il conservare, ma non è facile sempre seguire questa via di mezzo. La robba trovata nn è mai rubbata, ma quant’ s’ trova ’l padrone j sa da rdà (La roba trovata non è mai rubata, ma quando si trova il padrone deve essergli restituita). È questo un proverbio che invita coloro che trovano qualcosa a restituirla ai legittimi proprietari. L’arpì su la schina del lepre! (Lo ripigli sulla schiena della lepre!) La lepre è proverbiale per la sua velocità - si dice: “corre come una lepre!” - e riprendere una cosa sulla schiena della lepre è come dire che non verrà mai ripresa. 138 Lasc’me ’l cacanotlo (Lasciami il... (?)) “Cacanotlo” è un termine intraducibile, ha valore di “il più piccolo della covata”. Ancor oggi c’è chi ritiene che il più piccolo (che non sempre è l’ultimo nato) una volta adulto darà i migliori risultati. Un tempo i più poveri quandi dovevano comprare un maialino da allevare acquistavano il “cacanotlo”, non tanto perché credevano che il più piccolo della covata sarebbe cresciuto quanto o più degli altri, ma semplicemente perché il più piccolo... costava meno. Oggi il detto è rimasto e viene rivolto in senso ironico a chi indossa un capo di abbigliamento un po’ strano. È come dire: “lasciami il più piccolo... dal momento che io non posso permettermelo!”. L’aspetto a la grella... (L’aspetto alla grella...) “Creila” fa riferimento al grillo. I grilli cantano all’imbrunire e questo è il momento più opportuno per aspettare la persona della quale ci si vuole vendicare. Ma si può anche aspettare “a la grella” la lepre nelle notti di luna. La staccia ha da gi’ d’in qua e d’in là (La staccia deve andare da una parte e dall’altra) Il setaccio è un oggetto ormai raro e in via di estinzione. Un tempo veniva usato dopo la macinatura del grano per separare la farina dalla crusca e dal tritello. Posto sopra la “panara” (spianatoia) veniva spinto bruscamente 139 avanti e indietro per far sobbalzare il macinato in modo che le parti più minute (la farina) potessero passare attraverso la fitta rete che si trovava tra due cerchi di legno mentre la rimanente parte restava nel setaccio. Il nostro proverbio sta ad indicare che se si vuoi avere qualcosa bisogna anche dare qualcosa; se si vogliono favori è necessario contraccambiare. Insomma ci dovrebbe essere il dare e l’avere: il pareggio bilancio! La toss’ d’istate e la cacarella d’inverno, se sta bene ma s’ campa poco (La tosse d’estate e la cacarella d’inverno, non provocano fastidi ma si campa poco) Il proverbio vuoi mettere in guardia la gente nel non voler sottovalutare questi inconvenienti fuori stagione. Possono passare come disturbi di poco conto, ma spesso non è così. La tosse e la trippa n’ se piattne (La tosse e la pancia non si nascondono) È ovvio che chi ha la tosse non può trattenersi, così come chi ha la pancia non può nasconderla. Il nostro proverbio viene citato tutte le volte che qualcuno cerca di nascondere cose o fatti che sono sotto gli occhi di tutti. La vanga e la sappa a lu’ poc’ j s’aggrappa; lo spito e la padella 140 sci ch’è ’na cosa bella! (La vanga e la zappa a lui poco gli si aggrappano; lo spiedo e la padella sì che sono cose belle!) Questo detto girava un tempo per le nostre campagne e serviva per rimarcare persone poco portate per il lavoro; un po’ più per la buona cucina. “S’aggrappa” è l’aggrapparsi dell’attrezzo alle mani. Noi oggi più semplicemente diciamo: impugnare un attrezzo. Può sembrare che quel “s’aggrappa” sia stato usato a sproposito, ma a pensarci bene non è così: il detto vuoi mettere in evidenza che a quei tempi gli attrezzi si adoperavano per tante, troppe ore ed era come se gli stessi si aggrappassero a chi li usava. Vanga e zappa erano, fra i piccoli attrezzi, quelli più usati dai nostri agricoltori e coloro che cercavano di evitarli erano considerati dei fannulloni. Per di più questi scansafatiche di solito vedevano di buon occhio spiedo e padella, simboli della buona cucina. A quei tempi il grosso problema era quello di trovare qualcosa da mettere sotto i denti per sopravvivere, non era certo il caso di pensare al mangiar bene! Lavora come ’n can’ lgato (Lavora come un cane legato) L’espressione viene usata nei confronti di chi non fa niente. Costui viene paragonato ad un cane alla catena che non può certo in quello stato svolgere alcun lavoro, quale il cacciare o l’andare a tartufi. 141 ’L bene avuto nn el leva nisciuno (Il bene avuto non lo toglie nessuno) Nessuno riuscirà mai a portar via uno stato di benessere trascorso. Seguendo questo principio c’è chi va continuamente alla ricerca del benessere quotidiano senza preoccuparsi del domani. Già al tempo dei Romani era noto a tutti il “carpe diem” (godi l’oggi) di Orazio. Il nostro proverbio viene usato come una constatazione di fatto ma più frequentemente viene usato da chi trovandosi in difficoltà si consola ricordando tempi passati migliori. L’ bestie n’ s’ confessne (Le bestie non si confessano) Chi si confessa si pente. Le bestie si comportano sempre alla stessa maniera e spesso sono pericolose. Il proverbio è un monito a non fidarsi delle bestie in genere. ’L braccio al petto, la gamba al letto (Il braccio al petto, la gamba al letto) Quando ad una persona gli fa male un braccio mette la “bracciarola” (fascia che partendo dal collo sorregge il braccio) e così facendo il braccio sta riposato sul petto, mentre chi ha male ad una gamba deve tenerla riposata a letto. Il nostro proverbio è frutto di quella medicina popolare che ai vecchi tempi era tenuta in grande considerazione. A quei tempi i poveri non si riguardavano molto e spesso, pur essendo in qualche modo impediti, continuavano per necessità a lavorare, ma il proverbio raccomandava: “Il braccio al petto, la gamba al letto”. 142 ’L caldaro dic’ male dla padella (Il caldaio dice male della padella) Caldaio e padella per l’uso quotidiano si coprono ogni giorno di più di fuliggine. È difficile stabilire quale dei due sia più sporco, anche se il proverbio dice che il caldaio critica la padella facendole notare che è sporca. Anche nella vita di tutti i giorni c’è chi vede i difetti degli altri e non vede i propri. A dir male di solito è sempre chi ha tanto da pensare per sé. L’ cerque n’ fan ’ mlarance (Le querce non fanno le melarance) Un albero come la quercia che ha sempre dato le ghiande, frutti immaginabili, non potrà mai dare dei frutti squisiti come quelli dell’arancio. Anche gli uomini come gli alberi, secondo il proverbio, se sono cattivi generano figli cattivi; se sono un po’ lenti nel comprendere generano figli poco svegli e così via. “Talis pater talis filius” (tale padre tale figlio) avrebbero detto i Romani. ’L contadino, ’l prete e ‘ passro: ndò l’ vedi mazlo (Il contadino, il prete e il passero: dove lo vedi ammazzalo) Per capire questo detto dobbiamo tornare ai tempi del potere temporale dei papi, quando le nostre terre facevano parte dello Stato Pontificio ed i preti erano considerati come dei questuanti rompiscatole, quando i padroni odiavano i contadini perché vedevano in loro chi li derubava di una parte dei raccolti e quando infine i passeri erano 143 visti come uccelli che devastavano i campi di grano. Oggi il detto non viene più usato, anche perché i preti di oggi non mandano più i sacrestani per la questua e fanno parte di una categoria di persone povere; i contadini a mezzadria non esistono più; i passeri non si vedono più a nuvoli come un tempo e perciò non arrecano gravi danni ai raccolti. ’L difficile è scordcà la coda (Il difficile è scorticare la coda) Scorticare un animale è un lavoro relativamente facile, ma scorticare la coda diventa un po’ difficile anche per i più esperti. Il proverbio non fa riferimento allo scorticare la coda in senso stretto, ma all’ultima fase di un qualsiasi lavoro che quasi sempre presenta difficoltà nella rifinitura. L’ donne d’ poc’ onore vèjne col lume e dormne col sole (Le donne di poco onore vegliano con il lume e dormono con il sole) Il detto fa riferimento a quando le donne, oltre alle loro normali mansioni, la sera dopo cena filavano, tessevano, cucivano, rammendavano e facevano la calza. Succedeva spesso che prolungavano il lavoro notturno più del normale, con la conseguenza che al mattino si svegliavano tardi. Oggi diremmo che la cosa è normale ma a quei tempi non era vista così perché vegliare più a lungo del solito voleva dire consumare molto più petrolio e la gente povera questo non se la poteva permettere. 144 La raccomandazione che faceva il “capoccia” o la “vergara” era sempre quella di vegliare poco la sera per alzarsi presto al mattino. Vegliare con il lume e dormire con il sole era considerato come una cosa riprovevole. Oggi il detto viene rispolverato quando le donne dormono più del dovuto al mattino. L’educazione sta bene anch’ giù la stalla del porcello (L’educazione sta bene anche nella stalla del porcello) Spesso si crede che certe parole siano termini dialettali. Basterebbe consultare un normale dizionario di lingua italiana per rendersi conto che le cose non stanno così. Termini come: prescia, sorcio, porcello fanno parte a pieno titolo della nostra lingua. A volte nelle nostre scuole con l’intento di allontanare i termini dialettali si è finito con l’allontanare un sinonimo del tutto italiano. Così è stato per “prescia” sinonimo di fretta e “porcello” sinonimo di maiale. Anche certi termini tecnici vengono scambiati per parole non appartenenti alla lingua italiana. Chi direbbe che il termine “martinicca” (il freno del biroccio) appartiene alla lingua di Manzoni? Andate a controllare e vedrete. Ma torniamo al nostro proverbio. Il maiale è stato sempre considerato a torto o a ragione un animale sporco e quindi di poco riguardo; eppure il nostro proverbio ci dice che anche a casa sua va usata educazione. Certamente il proverbio può sembrare fuori del tempo, vista la maleducazione imperante un po’ ovunque, ma proprio per questo è il caso di meditare seriamente su questo proverbio che sta lì a ricordarci la regola fondamentale del vivere civile: l’educazione. 145 Lègg’ lègg, ’l mond’ è sempr’ pègg’ (Leggi, leggi, il mondo è sempre peggio) Questo detto era citato spesso ai vecchi tempi in campagna perché non si vedeva di buon occhio chi si metteva a leggere. Il leggere a quei tempi era considerato tempo perso perché secondo il parere della maggior parte della gente di campagna il leggere e/o lo scrivere non portavano alcun utile. I bambini erano sconsigliati dall’andare a scuola dopo aver appreso la tecnica del leggere e dello scrivere. Molto spesso dopo aver frequentato la seconda o la terza elementare a scuola non ci andavano più, anche perché i grandi volevano che andassero a guardare le pecore o i branchi di oche e di anatre o di tacchini. Quando i bambini non avevano queste faccende da sbrigare ne avevano altre: dovevano andare a raccogliere le ghiande per i porci, dovevano andare a cercar le cipollacce fra le zolle del maggese, ma dovevano anche portar le “pecorelle” (mannelli di spighe) alla pressa durante la mietitura, dovevano guidare la “stroppa”, dovevano raccogliere le spighe dopo la mietitura e gli acini di uva dietro ai vendemmiatori. L’elenco delle faccende che venivano comandate ai bambini sarebbe molto lungo: basti pensare alle faccende spicciole di ogni giorno: dall’andare a prendere la legna all’accendere il fuoco, dall’an-dare a spillare il vino in cantina all’andare ad attingere acqua alla fontana, dall’annaffiare l’orto al dar da mangiare agli animali. A quei tempi per significare che il leggere non portava miglioramenti, ma semmai peggioramenti - allora si badava soprattutto al lato economico e chi studiava non produceva, ma spendeva - si diceva: “Lègg’, lègg’, ‘1 mond’ è sempr’ pègg’”. Ma il nostro detto faceva anche riferimento a chi leggeva il giornale e vi trovava delle brutte notizie. Sotto questo aspetto il detto è di grande attualità oggi che i giornali riportano ogni giorno un sempre maggior numero di fatti di cronaca nera. 146 Legg, pulenta e religione en fatte p’i cojone (Legge, polenta e religione son fatte per i minchioni) Come già detto le Marche fecero parte dello Stato Pontificio (fino al 1860) e pertanto nelle nostre campagne non mancavano gli anticlericali, ma anche chi non credeva nelle leggi e nella giustizia umana. Il detto certamente ha un suo fondo di verità quando la legge non è uguale per tutti, quando gli squilibri sociali sono troppo forti o quando chi predica non è convinto di quel che dice. L’erba trista n’ more mai (L’erba cattiva non muore mai) Con l’espressione “erba trista” si comprendono sia quelle erbe che non sono commestibili da persone e da animali sia quelle che danneggiano le piante. Queste varie specie di erbe purtroppo sopravvivono, ricrescono e si moltiplicano nonostante si cerchi in ogni modo di estirparle ricorrendo anche ai moderni trattamenti chimici. Tutti conoscono la gramigna e sanno quanto sia difficile estirparla anche perché le sue radici scendono in profondità tali che la vanga non riesce a scalzarla completamente. Il nostro proverbio fa riferimento non tanto alle erbacce quanto alle persone cattive che di solito vivono più a lungo delle persone buone, anche se questa è solo una nostra impressione dato che la morte non guarda in faccia a nessuno. Le scarpe enne comm’ i parenti: più enne strette e più fan male (Le scarpe sono come i parenti: più sono strette e più fanno male) Dionisio era un grande lavoratore, conosciuto in Apecchio come il più abile dei carbonai. Era però un po’ scorbutico, non aveva amicizie 147 e litigava spesso con i suoi fratelli. Era un gran camminatore ed i maligni facevano osservare che non poteva essere diversamente dal momento che era “tutto piedi”. Dionisio un giorno che era andato al mercato a Serravalle si fermò davanti ad una bancarella di scarpe. Ce n’era un paio che forse erano adatte ai suoi piedi. Chiese il prezzo e poi se le misurò. Il piede vi entrò a stento, ma il venditore convinse Dionisio che portandole queste scarpe si sarebbero adattate al piede. Ma così non fu e l’anno dopo alla stessa fiera Dionisio andò dall’ambulante e mostrandogli le scarpe che aveva a tracolla gli disse: “Queste enne comm’ i fratei mia: è tanto che ce sto insieme ma ancora non i sopporto”. (Queste sono come i miei fratelli: è tanto che ci sto insieme ma ancora non li sopporto). Le società hann da esse dispari, ma nn hann da esse più d’ due (I componenti di una società devono essere di numero dispari, ma non devono essere più di due) Una società è una convenzione fra due o più persone che pongono in comune beni o denari per un’industria, un’impresa o altro, al fine di ottenere utili che poi vengono ripartiti tra i vari componenti. Se i componenti di una società devono essere di numero dispari ma non superiore a due, vuoi dire che la società dovrebbe essere costituita da una sola persona: come dire che le società non dovrebbero esistere. Franco d’Trippanera ripeteva spesso questo modo di dire perché era rimasto scottato dal suo socio in affari. Leva’ l’ cataracchie (Levare le cataratte) Le cataratte sono le porte che si alzano o si abbassano nei canali 148 per far entrare o non entrare l’acqua; nel nostro caso sono le basette che vengono forzatamente alzate. Per “leva” 1’ cataracchie” i capelli delle basette venivano attanagliati fra il pollice e l’indice, mentre il malcapitato non poteva che alzarsi sulla punta dei piedi per evitare momentaneamente un po’ di dolore. Era questo lo scherzo, a dir il vero poco simpatico, che veniva fatto ai bambini. ’L foco ha preso moje (Il fuoco ha preso moglie) Questo modo di dire si usa per indicare che il fuoco si è spento. Chissà perché?! Se chi ha preso moglie è finito come il fuoco... Sicuramente questo detto è stato inventato da qualcuno che non vedeva di buon occhio il matrimonio. A ben guardare se avesse riflettuto un tantino si sarebbe forse accorto che.se il proprio padre non avesse preso moglie egli non sarebbe nato e non avrebbe potuto pronunciarsi. Non voglio difendere chi si sposa ma non credo che chi non si sposa abbia una vita tanto più facile. L’fratte n’ c’ hanne l’ recchie, ma l’ mettne (Le siepi non hanno le orecchie, ma le mettono) Questo modo di dire ci vuoi ricordare che se anche ci troviamo in aperta campagna e confidiamo un segreto ad un amico senza ab bassare il tono della voce c’è pericolo che ci sia qualcuno che magari involontariamente ascolti dietro ad una siepe od altro riparo naturale che diciamo. “Non parlare che il nemico ti ascolta” avrebbe detto qualcuno dei tempi passati. 149 ’L fumo va ai bei (Il fumo va verso i belli) Quando il fuoco scoppietta allegramente nel focolare è normale che qualche volta quando il vento cambia dirczione o quando la legna è verde ci sia del fumo che, fuoriuscendo dalla cappa del camino, invada la cucina. A consolazione di chi “piange” per il fumo si dice: “Il fumo va verso le persone belle”. L’espressione però non finisce qui, perché completa è: “’L fumo va ai bei, ai brutti, ai fiotti e sciugabotti” (beoni). Così, riportato per intero, il detto sta ad indicare che il fumo non guarda in faccia a nessuno: prende ogni possibile dirczione e non fa distinzioni. ’L gioco, ’l letto e ’l foco n s’ contentne mai d’ poco (Il gioco, il letto e il fuoco non si contentano mai di poco) Chi inizia a giocare d’azzardo difficilmente smette, anzi aumenta continuamente la posta con conseguenze spesso disastrose. La stessa cosa si può dire che accada a chi sta pigramente a letto: più sta a letto e più a lungo ci vorrebbe stare. Il fuoco poi una volta acceso divora con sempre maggior veemenza tutto ciò che incontra nel suo cammino. I proverbi - come si sa - vogliono sempre insegnarci qualcosa. Il nostro ha lo scopo di metterci in guardia nei confronti del gioco, del letto e del fuoco. L’ha strollgato (Intraducibile) La “strollga” è l’astrologa, cioè colei che legge il futuro osservando le stelle. 150 Nel nostro caso sta ad indicare la zingara che legge la mano e nell’uso comune significa: ha cercato di carpire, mediante domande, ciò che diversamente non avrebbe mai saputo. Lillà e bacilla (Intraducibile) I due verbi, di origine incerta, possono essere usati da soli ma spesso vengono usati insieme per rafforzare l’espressione. In ogni caso hanno sempre lo stesso significato: indicano il modo di agire di una persona molto lenta ed insicura. Chi va per le spicce infatti usa dire: “Io n’ la bacillo tanto” o “Io nne sto tanto a lillà”, o anche usando un altro modo di dire più comune: “Io n’ c’ bado tanto” (io non ci impiego tanto). L’insalata nn’ è bella si n’ c’è la pimpinella (L’insalata non è bella se non c’è la pimpinella) La pimpinella (o selvastrella) è un’erba aromatica che si trova facilmente nei campi incolti. Ha foglie ovali a margine seghettato, di sapore acidulo. Serve per completare un’insalata fatta di varie erbe, quali: lattuga, indivia, radicchio, cappuccina, lattughino e così via. Ne va messa poca, ma è necessaria, come dice il nostro proverbio. L’invernata nn armane in cielo (L’invernata non rimane in cielo) “La natura non fa salti” e le stagioni si alternano regolarmente anche se a volte con piccole varianti. Anche quando sembra che l’inverno non si faccia vedere prima o poi farà la sua comparsa. 151 L’ male manch’ ai cani arrabbiti (Il male neanche ai cani affetti da rabbia) Nei momenti d’ira c’è chi prorompe in imprecazioni contro qualcuno, ma nei momenti di riflessione e di calma tutti sono concordi nell’affermare che il male non va augurato neanche ai cani affetti da rabbia. ’L matt’ fugg’, ma la casa no (Il matto fugge, ma la casa no) Veniva spesso rivolto dai grandi ai bambini che, avendone combinata una delle loro, fuggivano da casa. Rimaneva in loro l’incubo del ritorno perché ricordavano ciò che era stato detto loro mentre correvano allontanandosi da casa: “stasera farim’ i conti” (stasera faremo i conti). La sera infatti i bambini erano costretti a rientrare e allora erano sculacciate. ’L mejo c’ha la rogna (Il migliore ha la rogna) La rogna è una malattia della pelle, conosciuta anche come scabbia. Si tratta di una malattia causata da un insetto parassita che si scava un cunicolo nell’epidermide dell’uomo e vi deposita le uova. H sintomo predominante di questa malattia è il prurito molto forte in certe parti del corpo quali: mani, gomiti, ginocchi, malleoli, ecc. È stata sempre considerata una brutta malattia da evitare ad ogni costo e per questo bisognava stare lontani da chi ne era affetto. Il nostro proverbio usato quasi sempre nei confronti di un piccolo gruppo di persone vuoi rimarcare che di quel gruppo il migliore è da 152 tener lontano come si fa nei confronti di chi ha la rogna. E se così è del migliore, che sarà degli altri? “’L mejo c’ha la rogna” è sicuramente una delle espressioni più crude del nostro dialetto che viene usata per indicare il massimo disprezzo nei confronti di un gruppo che ha quasi sempre un comportamento anomalo. ’L mejo è ‘l cane (Il meglio è il cane) Spesso ad una persona che ha un modo di fare o di dire poco consono al vivere civile, vien detto: “Ma va a fa’ ‘1 cane’” (“Ma vai a fare il cane!”). L’espressione indica la poca considerazione ed in parte anche un certo disprezzo che si ha in quel momento per quella persona. Quando poi vengono fatte delle considerazioni su un gruppo o una famiglia poco ben vista dalla gente c’è chi dice: ‘”L mejo è ‘1 cane!” e c’è anche chi aggiunge: “e quello m’ha morso!”. ’L mulinaro da la bianca farina co’ j occhi guarda e co’ le mani rampina; ’l mulinaro da la farina bianca co’ j occhi guarda e co’ le mani rampa Entrambi i verbi “rampina” e “rampa” stanno ad evidenziare il prendere lesto del mugnaio nell’attimo in cui il suo cliente è distratto. Un tempo il mugnaio era una persona che economicamente stava bene, ma gli agricoltori non lo vedevano tanto di buon occhio. Quella linguaccia di Checco, conosciuto da tutti come il Cagnarotto, diceva che il grano veniva scambiato dal mugnaio. Gli agricoltori però per 153 essere sicuri di riprendere la farina del loro grano scelto e non quella del grano scarto destinato ai polli andavano di persona al mulino. L’oro tira l’oro, la vacca tira ’l toro e ’l poretto tira ’l carretto (L’oro attira l’oro, la vacca attira il toro, ed il poveretto tira il carretto) Il “tira” del nostro dialetto corrisponde sia al verbo “tira” che al verbo “attira”; di qui l’uso indifferenziato dello stesso verbo nelle tre espressioni. Il proverbio fa una constatazione di fatto: come la vacca attira il toro così i ricchi attirano i ricchi, mentre i poveri saranno sempre costretti a lavorare. Il proverbio ci ricorda - se ancora ce ne fosse bisogno - che chi è ricco sarà sempre più ricco e chi è povero resterà tale. L’orto t’ vole morto (L’orto ti vuole morto) Chi possiede un orto anche piccolo e lo coltiva con amore sa che ha bisogno di ogni sorta di cure. Chi poi fa l’ortolano di mestiere sa bene di non avere un minuto di tempo libero. E giustamente Felice, un omone che faceva l’ortolano vicino a Maretta, era solito ripetere il detto: “L’orto t’ vole morto”. Lo diceva con convinzione perché, quando gli pareva di aver eseguito tutti i lavori possibili era ora di ricominciare. Forse Felice, contrariamente al suo nome, era l’eterno scontento ma a volte aveva delle valide ragioni. Si racconta che Felice, per le sue idee politiche, finì un brutto giorno al tempo del 154 Ventennio a Rocca Costanza. Capitò in quel carcere un suo amico che non credendo ai propri occhi vedendolo lì gli chiese: “Me sbajo o te sei Felice?” (Mi sbaglio, o tu sei Felice?) e quello rispose: “So Felice, ma sto in galera!” (Sono Felice, ma sto in galera!). L’ ovo a Pasqua, la botta quant’ e casca. Mejo perde l’amico che nnè la botta (L’uovo a Pasqua, la battuta quando ci vuole. Meglio perdere l’amico che la battuta) La “botta” è la risposta salata che si da in caso di provocazione. I due proverbi che hanno identico valore ci ricordano che con certa gente non dobbiamo subire ma rispondere per le rime. ’L pan de ’n giorno, ’l vino de ’n anno e la serva d’ diciott’anni (Il pane di un giorno, il vino di un anno e la serva di diciotto anni) I nostri vecchi avevano le idee chiare riguardo al tempo ideale che dovevano avere pane, vino e serva, anche se non potevano permettersi certi lussi. Il pane infatti, cotto nel forno della casa colonica, non era quasi mai di un giorno dal momento che se ne faceva una grande infornata perché il pane duro e spesso anche ammuffito durava di più. Il vino poi, che avrebbe dovuto avere un anno, lo si beveva sia quando era ancora mosto sia quando aveva preso di aceto non badando al tempo. La serva infine, che secondo il nostro proverbio avrebbe dovuto avere diciotto anni, poteva avere qualsiasi età a patto che fosse robusta e resistente ai lavori più duri. 155 L’paure n’ s’ meddchne (Le paure non si medicano) In effetti le paure non possono essere curate con una medicina vera e propria e pertanto l’espressione è un invito a non mettere paura soprattutto ai bambini. ’L peggio è per chi more (II peggio è per chi muore) Spesso vedendo delle persone afflitte per la morte di un loro congiunto pensiamo che in quei giorni la loro è una situazione molto difficile ma, riflettendo a chi non c’è più, ci viene spontaneo osservare che forse chi sta peggio è proprio chi è morto. Non tutti però sono d’accordo su questo punto. Già fin dall’antichità c’era chi non aveva paura della morte. Una massima di Epicuro suona più o meno così: “Della morte non c’è d’aver paura, perché quando arriva lei andiamo via noi!” L’ pia sempre do’ nne scotta (Lo piglia sempre dove non scotta) In senso figurato il detto vuoi far capire che c’è sempre chi cerca una mansione facile. In un lavoro di gruppo c’è sempre chi esegue le cose più semplici lasciando agli altri quelle più impegnative: la parte dove scotta! L’ quaje s’ pinne perché cantne (Le quaglie si prendono perché cantano) È detto di chi per voler parlare troppo finisce per far sapere ad 156 altri anche cose che avrebbe dovuto tenere per sé. Di questa persona si dice anche che “è stagno comme ‘n canestro” (è stagno come un canestro). ’L’ sa anche ’l gatto: Pasqua tre, Natale quattro (Lo sa anche il gatto: Pasqua tre, Natale quattro) Ai vecchi tempi i giorni di festa e quindi di un certo riposo erano solo quelli indicati in rosso sul calendario; nessuno aveva mai sentito parlare di “ferie”. Si conoscevano solo le domeniche e le feste “comandate” e fra queste ultime le più importanti erano quelle di Pasqua e di Natale e per ricordare quanti erano i giorni di festa c’era il detto: “L’ sa anche ‘1 gatto: Pasqua tre, Natale quattro”. A Pasqua erano tre: il Sabato Santo, la Pasqua ed il Lunedì dell’Angelo; a Natale erano quattro: il Natale, Santo Stefano, San Giovanni e gli “Innocentini”. Questa era l’ultima festa ed a ricordarlo c’era il proverbio: “Passati i Nocentini, fhite le feste e miti e quadrini” (Passati i S.S. Innocenti finite le feste e finiti i quattrini). ’L sacco tant’ tiene al dritto e tant’ al rovescio (Il sacco ha uguale capienza sia al dritto che al rovescio) Serve per indicare che se c’è una esagerazione in un senso c’è da aspettarsi altrettanta esagerazione in senso contrario. Può sembrare il noto principio di meccanica “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”, ma in realtà il detto serve per fare considerazioni sull’andamento del tempo meteorologico che quando esagera in un senso c’è da aspettarsi che lo faccia altrettanto in senso contrario. Questo detto oggi è di attualità più che mai: a lungi periodi di freddo seguono altrettanti lunghi periodi di caldo, senza alcun rispetto 157 per le stagioni; a siccità impreviste seguono altrettante impreviste lunghe piogge. ’L sacco voto ’nne sta su dritto (Il sacco vuoto non sta in piedi) E un fatto che un sacco vuoto non sta in piedi ma il proverbio viene citato per il suo significato metaforico. Una persona che non si nutre o che non si nutre abbastanza non può fare quello che fanno tutti gli altri e specificatamente non può lavorare. Il proverbio veniva particolarmente citato in tempi lontani quando il procurarsi il cibo necessario talvolta era un problema e chi non mangiava abbastanza cibo non era in grado di lavorare. Oggi il proverbio viene ricordato a chi non ha appetito ed è come dire: mangia, se non vuoi finire a letto. ’L santaro s’frega ’na volta sola (Il santaro si inganna una volta soltanto) Uno dei racconti che si tramanda da generazioni è quello del Santaro. Fratel Rinaldo era, frate laico a Fonte Avellana ed ogni anno passava per la “cerca” (questua) del grano lungo la vallata del Cesano. Era benvoluto da tutti e lui, passato anche una sola volta, ricordava località, strade e stradine da percorrere e i nomi dei vari agricoltori. Aveva insomma una memoria di ferro. Dopo che l’agricoltore gli aveva dato qualche manciata di grano o poco più fratel Rinaldo gli regalava - secondo che l’offerta fosse stata più o meno generosa - uno o più santini e per questo era conosciuto come il “Santaro”. Un giorno d’agosto, con l’aria quasi irrespirabile, il Santaro bussò alla porta di casa di Lorenzo. Questi sbucando da dietro un pagliaio 158 si stropicciò gli occhi e visto il frate lo fece subito accomodare in casa. Dopo aver scambiato poche parole prese un piatto, andò nel magazzino e ritornò poco dopo con il piatto colmo di grano. Lo versò nella bisaccia del frate e questi, mentre diceva “II Signore te ne renda merito”, gli consegnò un santino. Lorenzo posò il santino sopra il tavolo poi prese da una vetrinetta il fiasco ed un bicchiere per offrire da bere all’ospite ma questi, ricordandosi che il vino bevuto l’anno precedente era aceto, lo fermò con la mano dicendo: “No grazie! ‘L Santaro s’ frega ‘n volta sola!” Il detto viene citato per ricordare che le persone possono essere ingannate solo una volta. ’L sole è alto ’na canna (Il sole è alto una canna) L’altezza di una canna è intorno ai tre metri. Il sole che si trova a questa altezza sulla linea dell’orizzonte indica approssimativamente un orario corrispondente ad un paio d’ore prima del tramonto. Il detto, ora pressoché scomparso, si usava un tempo per intendere che c’erano ancora un paio d’ore di luce, cioè di lavoro. Allora gli agricoltori erano particolarmente esperti nel valutare l’ora guardando il sole. Sapevano stimare agevolmente pesi e misure. Erano molto bravi nei calcoli orali, anche se molti di loro erano analfabeti o semianalfabeti. L’ tiene comme la rosa al naso (Lo tiene come la rosa al naso) La rosa profuma e tenerla vicino al naso è una cosa che fa piacere e per questo si ha cura di mantenerla in vita il più a lungo possibile e nella situazione ottimale. Il proverbio viene usato per indicare qual159 cosa di particolarmente caro per il suo valore affettivo e del quale si ha la massima cura. Potrebbe trattarsi di persona alla quale si porta il massimo rispetto e si usano tutti i mezzi per proteggerla da eventuali pericoli o insidie, ma potrebbe trattarsi anche di animali o di cose. Lungo filaccia, tristo sartaccio (Lungo filo, cattivo sarto) Nei tempi passati le donne, molto più di oggi, si dedicavano a cucire, rammendare e rattoppare. Alle ragazze più giovani che iniziavano ad usare ago e filo si raccomandava di non fare una agugliata troppo lunga se non volevano trovarsi in difficoltà nel cucire perché il filo troppo lungo poteva ingarbugliarsi. Il colmo sarebbe stato se ad usare una agugliata lunga fosse stato un sarto: sarebbe stato proprio un pessimo sarto. L’ vacche brutte fan i fioj bei (Le vacche brutte fanno i figli belli) A volte da una madre non bella possono nascere figli veramente belli ed allora senza ricercare il perché, senza scomodare la biogenetica ci ricordiamo di questo proverbio. L’ vacche vecchie armanghne ntle mane di cojoni (Le vacche vecchie rimangono nelle mani dei coglioni) Gli agricoltori, fino al dopoguerra, avevano solo una parte del loro terreno (circa un terzo) coltivato ad erbaio che doveva alimentare i tanti animali e così il foraggio scarseggiava per il prevalere della 160 coltivazione dei cereali (grano ed orzo). Erba e fieno non bastavano e nei periodi estivi si provvedeva a raccogliere ogni sorta di verde: si tagliava il falasco nei greppi e nei fossi, si sfrondavano i rami di certi alberi quali olmi ed aceri, ma non si disdegnava neanche di ripulire le canne delle loro foglie. Dopo la vendemmia si spogliavano le viti dai loro pampini. La fronda fin dai tempi antichi ha sostituito durante l’estate l’erba che veniva seccata per l’inverno. Per sfamare le pecore in inverno si usavano fasci di rami di quercia e/o di pioppo tagliati a settembre e lasciati seccare. Ai conigli durante l’estate venivano dati di solito rami di acacia e di salice e questi roditori li ripulivano non solo delle foglie ma anche della scorza. Nell’inverno per i bovini c’erano fieno e paglia passati alla trinciaforaggi che poi venivano mescolati accuratamente e portati alle greppie. Ma spesso non bastavano neanche la paglia e lo strame (quello falciato dopo la mietitura) ed alla fine dell’autunno si rastrellavano foglie secche di ogni tipo che servivano per rifare il letto al bestiame. Erano quelli tempi difficili per sfamare gli animali e naturalmente gli agricoltori cercavano di evitarne ad ogni costo la perdita, ma soprattutto di rimanere con le vacche vecchie che non erano più in grado di tirare l’aratro. Quando si sapeva che si avvicinavano alla vecchiaia, o si ingrassavano per il macello o si vendevano. Solo ai fessi rimanevano le vacche vecchie: era un po’ come l’asso di bastoni al gioco dell’orno nero. ’L vino ntel fiasco, a la sera è bono e a la marina è guasto (Il vino nel fiasco, alla sera è buono e alla mattina è guasto) Il vino di un tempo, fatto con sistemi tradizionali, era sensibile all’aria. Se si iniziava il fiasco e non si beveva tutto in giornata, spesse volte si aveva la sgradita sorpresa che il giorno dopo il vino cambiasse colore o sapore. Per evitare tutto ciò, alla sera la rimanenza 161 del fiasco la si metteva in una bottiglia. Ricordiamo che a quei tempi anche il vino era un bene prezioso: serviva per dare un po’ di carica o... per attenuare i morsi della fame. ’L volem fa’ papa? (Lo vogliamo fare papa?) Era uno scherzo comune che i bambini facevano a uno di loro. Al povero malcapitato, steso a forza per terra, gli tiravano giù i pantaloni e gli sputavano nel pisellino. Il disprezzo per il sesso si addice a chi... viene fatto papa. Maccaroni e lasagne: case grosse diventne capanne (Maccheroni e lasagne: case grosse diventano capanne) Nei tempi passati si mangiavano maccheroni e lasagne - segno di abbondanza e agi - solo nelle grandi occasioni e a volte molta gente di campagna non sapeva neanche cosa fossero le lasagne. In proposito ricordo un simpatico dialogo che ho ascoltato quando ero in tenera età e che mi è sempre rimasto impresso. Un Tizio disse: “Le lasagne sono molto buone!”. L’interlocutore chiese: “E tu come lo sai?” E Tizio: “Le ha viste babbo mangiare a casa del nostro padrone”. A parte questa breve disgressione, va detto che il proverbio veniva ripetuto dai nostri bisnonni per frenare i golosi della loro famiglia perché accontentare la gola voleva dire ridurre notevolmente i propri risparmi. 162 Ma chi t’ha sciolto? (Ma chi ti ha sciolto?) Il detto si usa nei confronti di chi ha un modo di ragionare fuori della norma. Sentendola parlare pensiamo che questa persona sia stata sempre tenuta sotto controllo come si fa con il cane alla catena. Magna che è sgrofanato (Mangia come uno scorfano) Il termine “sgrofanato” è la storpiatura di scorfanato che ha valore di “trasformato in scorfano”. Lo scorfano è un pesce di colore rossastro con macchie scure, particolarmente ricercato per la zuppa di pesce. Generalmente si da dello scorfano sia a chi è molto brutto e di carattere scorbutico sia a chi a tavola è insaziabile. Il modo di dire indica una persona che mangia in fretta e sempre a bocca piena. Magna, chi magna magna, ma l’ bute han da esse pari (Mangiare, chi mangia mangia, ma le bevute devono essere pari) Questo detto deve essere stato inventato da qualcuno che amava particolarmente il bere, mettendo in secondo ordine il mangiare. Quando si è fra amici al bar o all’osteria si cita il detto per costringere anche i più moderati a bere. E se qualcuno si rifiuta di farlo adducendo qualche scusa allora si tira fuori lo spirito di gruppo ed è subito pronto quel colorito modo di dire: “In compagnia ha pres’ moje anche ’n frate” (in compagnia ha preso moglie anche un frate). 163 Magna e bozza! (Mangia e sopporta!) Il detto potrebbe sembrare simile a quello in lingua “Vivi e lascia vivere”, ma nel nostro viene evidenziata una acquiescienza a volte obbligata da parte di chi è più debole perché il reagire potrebbe comportare conseguenze spiacevoli. Il detto significa: “anche se sei convinto che sarebbe giusto reagire, parlare, contraddire è meglio che tu lasci perdere”. Non tutti però sono d’accordo con questa filosofia della sopportazione, specie quelli che hanno un carattere forte. Magna’ la panzanella, i frescarei, i cioncioni, le patacchelle... (Mangiare... i cibi poveri) La cucina dei piatti qui citati viene descritta nel mio libro “Una civiltà al tramonto” Ed. AGE - Urbino 1992 nell’ultimo capitolo. La base dei piatti della cucina campagnola erano quasi sempre farina di grano, di granoturco, di fava ed acqua per impastare. Era una cucina proprio povera. Magna’ la pappa masticata (Mangia la pappa masticata) il detto si usa per indicare una persona che ripete cose dette o suggerite da altri. Chi “magna la pappa masticata” è una persona senza personalità che non ragiona con la propria testa ma con quella degli altri. È insomma un pappagallo. Un detto simile è “Va a pappa fatta”; in questo caso si tratta di una persona che non agisce perché aspetta che altri lo facciano al suo posto. 164 Magna pe’ ’n cecce (Mangia quanto un “cecce”) Il “cecce” è lo scricciolo, l’uccellino più piccolo che nelle nostre campagne immigra durante l’inverno. Pappagalli e scansafatiche sono persone che nessuno vorrebbe fra i propri amici perché non c’è proprio niente da imparare né dagli uni né dagli altri. Il detto quindi sta ad indicare una persona (in genere un bambino piccolo) che mangia molto poco, e spesso è “sciaganito” (mingherlino). Nel modo di dire citato è evidente la preoccupazione dei familiari che temono che l’interessato faccia “la terra pel cece” (prepari la terra per il cece: muoia). Magnarai sempre ’l pan duro, bevrai sempre ’l vin forte, farai ’l contadino fin a la morte (Mangerai sempre il pane duro, berrai sempre il vino che sa di aceto, farai il contadino fino alla morte) Il contadino mangiava il pane duro perché così... durava di più; beveva il vino forte perché quello buono lo vendeva per tirare avanti. In questo detto dei nostri nonni agricoltori c’era la convinzione (o rassegnazione) di restare sempre nei campi come ai tempi dei servi della gleba (servi della zolla) quando il figlio di un agricoltore non aveva altra prospettiva se non quella del lavoro di suo padre. 165 Magnaria anche ’l ciborio (Mangerebbe anche il ciborio) U “ciborio” è la pisside, il contenitore delle ostie. Chi “magnarla anche ‘1 ciborio” è persona che sembra avere uno stomaco senza fondo, una di quelle che quando ti sembra che sia sazia continua a mangiare proprio come se si fosse messa a tavola in quel momento. E nel nostro caso la persona in questione è talmente vorace che si mangerebbe persino... il piatto! Il detto viene anche usato in senso figurato per indicare chi si appropria, in modo più o meno legale, degli averi degli altri e più se ne appropria e più gli cresce la voglia di appropriarsene. Male, malanno e l’uscio addosso Malanno è una grave disgrazia o un grave danno. A chi oltre ad avere male e malanno cade addosso anche l’uscio di casa, bisogna riconoscere che è una persona disgraziata oltre ogni dire. Sicuramente questo proverbio è più incisivo dell’altro che dice: “N” c’è due senza tre”, che sta a significare che “le disgrazie n’ venghne mai sole”. C’è poi un altro proverbio che rafforza la tesi di quello citato all’inizio e dice che ‘”1 peggio nn’è mai morto” (il peggio non è mai morto). Questo vuoi ricordarci che se ci sono capitate delle disgrazie anche gravi ci può capitare ancora di peggio. Potrei proseguire sull’argomento ma mi sembra che po_ssa bastare anche perché potrei essere scambiato per una civetta, uccello tradizionalmente ritenuto di malaugurio. 166 Manda giù i bovi coi corn’ e tutto (Inghiottire i buoi con le corna e tutto) Sta ad indicare chi deve subire tutto senza poter reagire. Marzo, ’l villano va scalzo; Aprile, ’l villano e l’ gentile (Marzo, il campagnolo va scalzo; Aprile, il campagnolo e il cittadino) Villano non inteso nel senso dispregiativo ma secondo quello dell’etimologia latina (villa = casa di campagna), significa: “colui che abita in campagna”. “Gentile” ha valore di persona delicata e opposto al termine “villano” sta ad indicare il cittadino. Secondo questo proverbio Marzo è un mese abbastanza mite se il campagnolo (quello d’un tempo s’intende) riesce a camminare scalzo senza sentire i morsi del freddo; Aprile poi è un mese ancora più mite se anche le altre persone riescono a camminare scalze. Certamente la prima parte di questo proverbio (“Marzo, ‘1 villano va scalzo”) non persuadeva molto i nostri bisnonni se usavano citare anche: “Febbraio Febbraietto, corto e maledetto”. Come si poteva infatti pensare che Febbraio fosse maledettamente freddo mentre Marzo, lo stretto coetaneo, fosse un mese mite? Marzo, Marzotto, tanto ’l dì e tant’ la notte (Marzo, Marzotto tanto il dì e tanto la notte) In marzo il tempo del dì è uguale a quello della notte; è in questo mese (precisamente il 21) che cade l’equinozio di primavera. 167 Matto come ’n crovello (Matto come un crivello) Il crivello che è una specie di setaccio se dovesse essere giudicato per i suoi movimenti apparentemente irregolari si direbbe che è proprio matto. Il detto viene usato in modo bonario nei confronti di chi scherza spesso e volentieri. Me fischiene le recchie (Mi fischiano le orecchie) Secondo questo detto quando ci fischiano le orecchie, o meglio quando sentiamo quella specie di ronzio nelle orecchie, è segno che qualcuno ci pensa o sta parlando di noi. Ci sarà capitato di sentirci chiedere: “Ieri ti fischiavano le orecchie? Abbiamo parlato di te”. Naturalmente il detto che fa riferimento ad una delle tante credenze popolari ha un riscontro di veridicità solo in rarissimi casi, ma c’è ancor oggi chi ci crede. ... m’è fuggito l’ucello! (... m’è fuggito l’uccello!) Ciccioli era conosciuto da tutti a San Lorenzo e nei paesi limitrofi come un grande maestro nell’addestrare gli uccelli da richiamo usati nei capanni di caccia. Fra gli altri aveva un fringuello da verso che non stava mai zitto. Era il suo vanto e tutti si fermavano sotto la finestra di casa sua che dava sulla via principale del paese ad ascoltare i versi di questo uccello dentro una vecchia gabbia appesa ad un chiodo del muro. 168 Un giorno alcuni amici si fermarono estasiati ad scollare questo fenomeno del canto. Ciccioli, lusingato, volle mostrare da vicino questo fuori classe e presa la gabbia scese in strada. I suoi amici ancora una volta si complimentarono per le doti del tutto eccezionali di questo fringuello ma poi il discorso prese ben altra piega: si finì col parlare di una donna del paese che se la dava un po’ con tutti. Quando O discorso si fece più animato del solito qualcuno inavvertitamente battè con un piede la gabbia e poco dopo il fringuello - fortuna sua! - volò libero nell’aria. E fu allora che Ciccioli disse le famose parole: “Col cazz’ dla fica... m’è fuggito l’ucello!”. Mejo ‘na quaja presa che cento da pia’! (Meglio una quaglia presa che cento da prendere!) Il proverbio corrispondente noto a tutti è: “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Mette l’unto sopra ’l bullito (Mettere l’unto sopra il bollito) Il bollito - come tutti sanno - è la carne con una parte di grasso che viene cotta in pentola. Il mettere l’unto sopra il bollito è fare qualcosa di sbagliato, ma è soprattutto un buttar via i soldi. Il detto si usa per indicare un’azione nettamente sbagliata o un fatto accaduto che porta danno su danno preesistente. Mettlo a rimboccone (Mettilo capovolto) “A rimboccone” significa “con la bocca (o apertura) rivolta verso 169 il basso”. L’agricoltore usava mettere “a rimboccone” ad esempio “la crina” (cesta grande e bassa fatta con grossi vimini, intrecciati a cestole rade) per tenerci momentaneamente animali da cortile. M’fa stremuli’ (Mi fa rabbrividire) Si può rabbrividire dal freddo o nel bere certe sostanze, ma si può rabbrividire anche vedendo una scena raccapricciante o sentendo certe espressioni o ripensando a certe situazioni. M’ manca l’anima (Mi manca l’anima) Quando ad una persona sta per mancare l’anima vuoi dire che sta per morire e a quanto mi risulta nessuno desidera morire. L’espressione significa: voglio tener lontana quella certa situazione, anche se prima o poi dovrò affrontarla. Moje a chi tocca e marito a chi l’trova (Moglie a chi tocca e marito a chi lo trova) Nella grande famiglia patriarcale c’erano delle regole ferree da seguire e non poteva essere diversamente, pena il dissolvimento della grande famiglia. Fra queste regole, non scritte s’intende ma che erano una consuetudine, c’era anche quella che i figli maschi si sposassero secondo la scala dell’età, mentre le figlie se trovavano marito potevano sposarsi anche se non era il loro turno. Baldo di Fontebona che era il capoccia di una grande famiglia di 170 quattro “getti” (quattro figli sposati in casa) era preoccupato che, fra tanti giovanotti in età da matrimonio, il più grande non si decidesse o non trovasse una fidanzata. Se il più grande non si fosse sposato era un bel pasticcio per Baldo, anche perché lui aveva sempre sostenuto e ripetuto all’osteria della Nena che la regola più importante di una famiglia perbene era quella del rispetto della “moglie a chi tocca”. A rompere questa regola però ci pensò Quarto, l’ultimo maschio, che aveva sedici anni e che mise incinta la Giovanna, una vispa ragazzina dagli occhi azzurri. Il povero Baldo acconsentì a malincuore che il più piccolo dei suoi nipoti si sposasse per primo. E al matrimonio, alla Nena che lo apostrofò: “E la moglie a chi tocca?!”, Baldo rispose seccamente: “A sposasse, a chi tocca tocca!”. Morto a la cuccia (Morto alla cuccia) L’espressione sta a constatare che un animale qualsiasi è morto nella propria cuccia o stalla o porcilaia, ecc. Generalmente il detto viene usato per indicare che quella carne venduta a basso prezzo è di un animale che non è stato ammazzato intenzionalmente, ma che è morto o per malattia o per infortunio. È il caso di una mucca morta per parto o perché ha ingerito un corpo estraneo. Si tratta quasi sempre di carne venduta “a bassa macellazione”, con regolare certificato del veterinario. Morte n’ venga e guai co la pala (Morte non venga e guai con la pala) La paura della morte è una paura atavica, di sempre. È una paura presente in tutti anche in chi dice di non averne. Forse 171 fa eccezione San Francesco che nel Cantico delle creature chiamava la morte “sorella”. Quando arrivano i guai di solito la gente è preparata e sopporta; a volte si aspetta di peggio ed è solita ripetere che “n’ c’è due senza tre”. E quando i guai persistono, spesso si rassegna consolandosi con il detto: “Morte n’ venga e guai co’ la pala”, che è come dire vengano pure tanti guai, basta che stia lontana la morte, perché “la morte n’ s’armedia”. M’ pari ‘n lampione! (Mi sembri un lampione!) Il lampione - come tutti sanno - è quel palo di ferro o di cemento che serve per rilluminazione e sta... sempre fermo. D detto si usa nei confronti di chi sta impalato ed è di impiccio a chi lavora; è un invito alla persona che sta immobile a volersi dare da fare o a levarsi di torno. M’ rode ’l culo: arcresce ’l sale (Mi rode il sedere: rincara il sale) Secondo il nostro detto il prurito al sedere fa prevedere un aumento del costo del sale. Naturalmente questa è una vecchia credenza popolare che ha poco da spartire con la realtà. Ma una spiegazione al detto potrebbe essere data: il prurito al sedere è stata sempre una cosa normale, come lo era un tempo il rincaro del sale, dovuto soprattutto alla distanza dell’approvvigionamento ed alle tante dogane e dazi che dovevano essere pagati. Il rincaro del sale ha portato così ad associarlo al prurito al sedere. 172 M’ sa ch’ho pisciato ntel battesimo (Ho l’impressione di aver pisciato nel fonte battesimale) Il neonato fa la sua prima uscita ufficiale in occasione della cerimonia del Battesimo e se in tale occasione fa la pipì inizia male la sua presentazione. Oggi con l’uso dei pannolini nessuno più si accorge se il piccolo ha fatto la pipì, ma un tempo tutti i presenti si rendevano conto di ciò che stava succedendo e pensavano che portasse sfortuna al neonato. Chi suppone di aver “pisciato ntel battesimo” è chi si sente perseguitato dalla sfortuna. M’ sa milland (Mi sa mille anni) Il detto significa non vedo l’ora. Muri co’ le scarp’ lgate (Morire con le scarpe legate) Generalmente chi muore di morte naturale fa un periodo più o meno lungo di malattia e quindi sta a letto non certamente con le scarpe, ma chi muore di morte improvvisa di solito muore con le scarpe ai piedi. il nostro detto fa riferimento a persona che non considera il pericolo e fa cose che fanno presagire una morte imprevista alla quale va incontro con troppa facilità. Così è per chi corre spericolatamente in moto o in auto, ma anche chi rischia un po’ troppo nel lavoro senza prendere le dovute precauzioni. 173 M’ va poc’ a cece (Mi va poco a cece) Corrisponde al detto: “Non mi va a fagiolo”. Ha valore di: “Mi va poco a genio”. ’Na breccia arbalta ’l carro (Una breccia rovescia il carro) Un tempo le strade principali erano imbrecciate. Molto spesso erano sconnesse e un carro che percorreva una strada a pendenza laterale poteva essere rovesciato da una breccia che - come la goccia fa traboccare il bicchiere - lo faceva fatalmente sbilanciare e poi rovesciare. Metaforicamente il detto significa che basta poco per cambiare il corso degli eventi. ’N’ aria d’foco e ’n’aria d’ cantina fa bene a la sera e a la matina (Un’aria di fuoco e un’aria di cantina fa bene alla sera e alla mattina) Il proverbio vuol evidenziare che quando fa freddo lo stare accanto al fuoco e il bere un buon bicchiere di vino fa sempre bene. Entrambi riscaldano e in certi giorni è proprio quello che ci vuole. ’Na scarc.lata n’ butta giù ’na cerqua (Un colpo di scure non abbatte una quercia) Un sol copo di scure non può abbattere un albero - nel caso specifico una quercia - ed il nostro detto viene usato quando si vuoi dire 174 che si può fare uno strappo alla regola, come nel caso - una tantum - di una spesa imprevista che certamente non manda in dispianto. Natale al sole, Pasqua al tizzone Il tizzone è un pezzo di legno o carbone che brucia. Secondo il nostro proverbio se a Natale c’è il sole a Pasqua bisognerà stare attorno al fuoco. Chissà perché ma le cose stanno quasi sempre così. D proverbio, frutto di osservazioni fatte nei secoli, evidenzia questo comportamento anomalo del tempo. E dire che abbiamo sempre sognato un Natale con la neve ed una Pasqua con il sole! ’Na volta per uno n fa male a nisciuno (Una volte per uno non fa male a nessuno) Quando capita qualche fatto increscioso a qualcuno, è d’uso ricordare che “una volta per uno non fa male a nessuno”, che è come dire che sono cose che possono capitare a tutti, anche a coloro che proprio non se lo aspettavano. ’Na volta fugge ’l can’ ‘na volta l’ lepre (Una volta corre il cane, una volta la lepre) La lepre è un animale timido e non.sa affrontare certi pericoli e per questo scappa, specie se inseguita dai cani. Anche il cane scappa ma solo in casi di stretta necessità e non certo di fronte alla lepre. Il nostro detto, vuoi far notare che non sempre a battere in ritirata sono gli umili e i deboli, anche i forti ed i prepotenti prima o poi trovano chi li fa correre. Il detto viene anche usato per indicare che qualche volta gli avvenimenti costringono le persone a cambiare 175 abitudini e comportamenti, come nel caso di persone ricche che diventano povere o di persone povere che diventano ricche. N’ butta via manch’ j osse dla pulenta (Non butta via neanche gli ossi della polenta) La polenta si sa non ha ossi. E chi si tiene anche ciò che non esiste è proprio una persona che non butta via davvero niente. Queste persone esistevano quando la gente povera era semplicemente poverissima; oggi non ci sono più o sono come le mosche bianche. Questo modo di dire è forse oggi fuori del tempo tanto è vero che viene usato raramente e da persone molto vecchie. N’ c’è più nnè puzza nnè bruciaticcio (Non c’è più puzza né bruciaticcio) L’espressione si usa per indicare che di una certa cosa non c’è rimasta alcuna traccia, neanche i rimasugli, perché di quella cosa che è stata bruciata per farla scomparire non c’è più neanche la puzza del bruciaticcio. N’ c’è terra da fa’ pallette (Non c’è terra da fare pallette) “Palletta” è una piccola palla che nel nostro caso è fatta con terra bagnata. Se per un attimo immaginiamo un tale che si trova in mezzo ad un deserto e che voglia appallottolare la terra, è proprio il caso che dica: “non c’è terra per fare pallette”. Il detto viene usato tutte le volte che si vuoi indicare che una cosa è impossibile da eseguire e che proprio non c’è niente da fare. 176 N’ c’ha manch’ la fede del boncostume (Non ha neanche la fede del buoncostume) Il detto ci riporta a quando era “buoncostume” (cioè norma) avere la fede in Dio. Non avere neanche la fede, come voleva il buoncostume, era come dire di non avere niente, cioè come si dice oggi “essere poveri in canna”. Geppetto quando ebbe finito di fare il suo burattino decise di chiamarlo Pinocchio perché aveva conosciuto una famiglia di Pinocchi che se la passavano bene. Il più ricco di loro... chiedeva l’elemosina! N’ c’ha manch’ ’l temp’ d’ batte j occhi (Non ha neanche il tempo di battere gli occhi) L’espressione sta ad indicare colui che avendo molte faccende da sbrigare non riesce a fare neanche cose pur necessarie e naturali come il... battere le palpebre degli occhi. Un’altra espressione che rasenta l’inverosimile e che per certi versi richiama la precedente è: “N’ c’ ha manc’ i occhi per piagne” (Non ha neanche gli occhi per piangere). In questo caso si tratta di persona talmente povera che non possiede proprio nulla,... neanche gli occhi per piangere il suo stato di miseria. N’ c’ha manco ’n soldo per fa’ canta’ ’n ceco (Non ha neanche un soldo per far cantare un cieco) In tempi andati i minorati fisici erano numerosi ed era facile incontrarli alle fiere, per le strade e anche sull’uscio di casa nell’atto di stendere la mano. Di solito i ciechi per sollecitare l’elemosina cantavano accompagnandosi con il violino; spesso era la gente stessa che chiedeva loro di cantare in cambio di un soldo. 177 Chi non aveva un soldo per far cantare un cieco era una persona che non aveva proprio nulla. La frase si usa anche oggi per evidenziare la povertà di una persona, di una famiglia o di un gruppo. N’ c’ mettemme ’l cappello che la Messa nn è fnita (Non ci mettiamo il cappello perché la Messa non è finita) Durante la Messa si sta a capo scoperto e solo alla fine cioè all’uscita ci si rimette il cappello. È chiaro che se la Messa non è ancora terminata nessuno pensa di mettersi il cappello. Il proverbio vuoi mettere in evidenza che non si deve dire o fare una certa cosa prima del tempo. N’ c’ n’è un da la grazia! (Non ce n’è uno dalla grazia!) Questa espressione può essere riferita indifferentemente a persone, animali o cose e vuoi mettere in evidenza che nel gruppo preso in considerazione non c’è nessun elemento che si presenti come dovrebbe o per l’aspetto esteriore (animali o cose) o per il comportamento (persone). Di solito questo detto viene usato nei confronti di un gruppo ristretto di persone - una famiglia, ad esempio - per esprimere un giudizio negativo sul loro comportamento. N’ cresce e n’ crepa (Non cresce e non crepa) Il detto viene usato per indicare una persona, un animale o un 178 vegetale che stenta a crescere anche se non da segni evidenti di essere alla fine dei suoi giorni. Nel caso che il soggetto in questione diminuisca il volume o di peso si usa dire che “arbocca ntel crocc(i)olo” (ritorna nel guscio). Quest’ultima espressione viene particolarmente usata per i bambini che stentano a crescere. N’ c s’ combatte (Non ci si combatte) Il detto viene usato per indicare una persona con la quale non ci si ragiona. Si tratta quasi sempre di una persona volgare e violenta. N’c’s’pia ’n acapezzo (Non ci si prende un accapezzo) L’espressione ha valore di “non ci si capisce niente” ed è riferita a persona che parla senza seguire un filo logico. Un’espressione simile è quella citata: “È comme le pecore del diavolo: n’ e’ s’ pia nnè cascio nnè lana” (È come le pecore del diavolo: non ci si prende né cacio né lana). Quest’ultimo modo di dire sta da indicare una persona dalla quale non ci si capisce mai niente né da un lato né dall’altro: né quando parla né quando agisce. N’ c’ s’ vede manch’ a bestemmià (Non ci si vede neanche a bestemmiare) Il bestemmiare non richiede certo la luce, tuttavia il buio a volte è talmente fitto che sembra impossibile fare qualsiasi cosa, anche lo stesso bestemmiare. L’espressione sta ad indicare il buio più pesto. 179 N’ c’ va manco ’l diavlo pe’ ’n’anima (Non ci va neanche il diavolo per un’anima) Nessuno mette in dubbio che il diavolo andrebbe a prendere un’anima in qualsiasi posto essa si trovi. Quando si vuoi indicare un luogo che sembra inaccessibile per le infinite difficoltà da superare si dice che in quel luogo “n’ c’ va manco ’1 diavlo pe’ ’n’anima”. N’ da manch’ nti muri d’ Caj (Non da neanche nei muri di Cagli) Le mura di cinta di Cagli sono note per la loro ampiezza e così chiunque guarda Cagli anche a distanza gli saltano subito agli occhi queste mura. Chi guarda la città di Cagli e non da nelle mura (non vede le mura) non è una persona normale. L’espressione sta ad indicare chi parla a vanvera. N’ da retta ai sogni che n’ dicchne ’l vero (Non dar retta ai sogni che non dicono il vero) È condivisione comune che una cosa sognata, solo raramente si avvera e così quasi nessuno fa caso a ciò che sogna. Il detto però non fa riferimento a cose sognate ma vuoi ricordare che una cosa molto desiderata, quasi fosse un sogno, non si ottiene facilmente. Ci sarà capitato a volte di aver sognato di essere in possesso di tante monete d’oro o di fare un bel viaggio, ma questo non vuoi dire che le cose si siano poi avverate. C’è, è vero, chi consulta il libro dei sogni per individuare i numeri da giocare al lotto sperando in una vincita ma anche qui restiamo nel mondo dei sogni! Il detto è un invito a non sognare ad occhi aperti! 180 Ndo’ caca lascia la merda (Dove caca lascia la merda) Il detto rievoca i vecchi tempi quando nelle case di campagna non c’era un gabinetto vero e proprio. Nel migliore dei casi era una costruzione simile ad un capanno da caccia fatto con materiale di fortuna e posto in un angolo della concimaia. A volte fungeva da gabinetto un luogo un po’ riparato dagli sguardi indiscreti e così si formavano qua e là costellazioni indesiderate. Oggi il detto indica una persona che non riordina le sue cose. Ndo’ n’ c’ ariva c’ tira ’l cappello (Dove non ci arriva ci tira il cappello) Il detto è riferito soprattutto al Don Giovanni che prova a far la corte a tutte le donne che incontra anche se non sempre i risultati sono quelli sperati. Ndo’ vai? A pia’ ’l papa pia barba? (Dove vai? A prendere il papa per la barba?) Il detto viene rivolto a chi gira senza una meta prestabilita o va in un posto senza una ragione specifica. Ndo’ n’ c’ ariva c’ tira ’l cappello (Dove non ci arriva ci tira il cappello) Il detto è riferito soprattutto al Don Giovanni che prova a far la corte a tutte le donne che incontra anche se non sempre i risultati sono quelli sperati. 181 Nengue fino fino: ne fa’ ’n blichino (Nevica fino fino: ne fa un ombellichino) I nostri vecchi che avevano esperienza del comportamento del tempo non si spaventavano della neve che cadeva a grandi fiocchi perché quella era di breve durata. Era invece motivo di preoccupazione la neve che cadeva a piccoli fiocchi fitti. In questo caso prevedevano che la nevicata durasse più a lungo del solito e che di neve ne cadesse tanta da arrivare... all’ombellico! N’ fa l’ materie! (Non giocare!) La frase era rivolta spesso dai grandi ai bambini che giocavano. In questo modo di dire c’era la preoccupazione dei grandi perché i bambini non giocassero, ma li aiutassero invece nei vari lavori, a I nostri vecchi che avevano esperienza del comportamento del tempo non si spaventavano della neve che cadeva a grandi fiocchi perché quella era di breve durata. Era invece motivo di preoccupazione la neve che cadeva a piccoli fiocchi fitti. In questo caso prevedevano che la nevicata durasse più a lungo del solito e che di neve ne cadesse tanta da arrivare... all’ombellico! N’ ganga ’n’aria (Intraducibile) “Ganga”’ è il lamentarsi di un bambino che desidera qualcosa. In italiano il verbo con significato simile è “ganghire”, ma è poco usato. Il nostro detto sta ad indicare mancanza assoluta di vento (e quindi mancanza di qualsiasi forma di... lamento dell’aria); è quello che a volte si verifica nel colmo della calura estiva. C’è anche il detto “nn ha gangato” e viene usato per indicare un animale che è morto sul colpo senza aver avuto il tempo di lamentarsi. 182 N’ha but’ ’na doga (Ne ha bevuto una doga) Doga è una delle striscie di legno che compongono la botte. Bere il vino per l’altezza di una doga è un bere senza fine. N’ha da pia’ più del somar’ d’ Berti (Ne dovrà prendere più del somaro di Berti) Berti era un mugnaio che aveva il mulino lungo il corso del Rio Freddo di Fratterosa. Questo mugnaio - come del resto gli altri mugnai - andava a prendere i cereali da macinare nelle case degli agricoltori e poi li riportava con l’aiuto del suo somaro. Si dice che questo somaro fosse molto testardo ed il padrone non aveva né il tempo né la pazienza per correggerlo. E per questo il povero asino che spesso si impuntava su per le salite di Frtterosa di botte ne prendeva a non finire. A noi è rimasto il detto: “N’hai da pia’ più del somar’ d’ Berti” che vuoi dire che se tu continui a comportarti così sei destinato a prenderne tante. N’ha fatt’ più d’ Bertoldo (Ne ha combinate più di Bertoldo) Sono proverbiali le tante maracchelle di Bertoldo e pertanto l’espressione viene affibbiata a chi ne ha combinate di tutti i colori. N’ la di’ sott’ al tetto (Non la dire sotto il tetto) L’espressione si riferisce alla cova. Secondo una credenza popolare particolarmente radicata fra i bambini non si doveva dire ad 183 altri dove si trovava un certo nido quando si era sotto il tetto, perché la serpe poteva udire ed andare a distruggere il nido. Se per caso succedeva di indicare inavvertitamente il luogo bisognava recitare questo scongiuro: “Serpe, serpe sbrigolata non anda a la mia covata, c’è ’na falce ruginita che ti taglia, che ti trita fina fina comme ’l fior de la farina” (Serpe, serpe variegata non andare alla mia covata, c’è una falce arrugginita che ti taglia, che ti trita fina fina come il fiore della farina). N’ lugrà ’l petrolio (Non sprecare il petrolio) Il lume era strettamente necessario durante la cena e quando le donne filavano o tessevano, diversamente doveva essere spento perché... si sprecava il petrolio! Era un invito al risparmio fra gente che aveva appena quel che bastava per sopravvivere. Nn è gnente, nn è gnente... e ’l somaro è morto (Non è niente, non è niente... e il somaro è morto) Occorre ricordare che un tempo per alcuni il somaro rappresen- 184 tava la maggiore ricchezza e quando il somaro moriva questa era una grande disgrazia. Il detto di cui sopra sta ad indicare che quando si sta male non si deve pensare o dire che non è niente: occorre invece correre ai ripari fin che si è in tempo. Nn è né dì nn è ora (non è giorno né ora) Il detto si usa per indicare che un avvenimento o un incontro fastidioso sono avvenuti del tutto fuori orario; più specificamente fa riferimento al mattino presto quando ancora è buio e dobbiamo alzarci anche se non abbiamo proprio finito il sonno. Nn è sempre festa quant’ sonene le campane (Non è sempre festa quando suonano le campane) Le campane possono suonare per vari motivi: perché è mezzogiorno, perché c’è un temporale in arrivo, perché inizia una funzione religiosa e così via. Insomma quando suonano non è sempre festa. Il proverbio ci vuoi ricordare che non dobbiamo pensare che le cose vanno sempre per il verso giusto. Le campane possono suonare perché è festa, ma anche perché è morto qualcuno. Nne sta’ a splendone (Non stare con le mani a penzoloni) L’espressione è un invito a chi sta senza fare niente a volersi sbrigare e fare qualcosa. 185 Nn ha fatt’ manch’ la capezzagna (Non ha fatto neanche la cavedagna) La cavedagna è quella striscia in cima e in fondo ad ogni campo che, non potendo essere arata o seminata secondo il verso della lunghezza, viene arata o seminata secondo la larghezza, con l’ultima passata. Come facilmente si capisce si tratta di una piccolissima parte del terreno rispetto all’intero campo. Il detto sta ad indicare chi di un certo lavoro ne ha fatto ancora solo una parte insignificante rispetto al tutto. Nn ha sonno (Non ha sonno) Chi non ha sonno per forza di cose sta sveglio e il detto viene riferito a chi è sempre attento e pronto sia nel parlare che nel fare. Di una persona del genere si usa anche dire che: “n’ dorme da piedi”. Per capire quest’ultimo detto, con significato uguale al primo, bisogna ritornare indietro nel tempo quando in un letto matrimoniale dormivano anche quattro persone e in caso di necessità una quinta persona poteva dormire di traverso in fondo al letto. Naturalmente coloro che non dormivano “da piedi” (in fondo al letto) erano le persone più accorte. Nn j da’ da di’ (Non gli dare modo di dire) Ci sono persone che sembrano nate apposta per infastidire gli altri. E quando si accingono a farlo ci può essere qualcuno di giudizio che li invita a non infastidire chi in quel momento sta zitto e si fa gli affari suoi. 186 “Nn j da’ da di’” è l’invito a non dar modo ad altri di dire... qualcosa di poco corretto. Insomma è come dire: “Non gli dar fastidio”. Nn j fa ’l colletto (Non fargli il collarino) La frase è detta durante la mescita delle bevande ed è un invito all’oste o al barista o ad altri a non voler lasciare nel bicchiere tanto spazio vuoto, quasi quanto il colletto del prete. N’ m’inciurlì (Non mi assordare) “Ciurlo” è un tappo di legno e serve per chiudere un buco, ad esempio quello di una cannella tolta in una botte. “Inciurlire” ha valore di mettere un tappo alle orecchie cioè di rendere sorda una persona usando un tono di voce stridulo ed acuto emesso vicino all’orecchio di chi ascolta. L’espressione ha valore di: non strillare. N’ parla e n’ muge (Non parla e non muggisce) Si dice quando si vuoi indicare chi non parla quasi mai. Il detto indica una persona che non solo non si comporta come fanno gli esseri umani che per natura comunicano con gli altri, ma non si comporta neanche come gli animali che bene o male emettono la loro voce e a modo loro comunicano con i propri simili. 187 N’pol paidi’ (Non può digerire) E detto soprattutto dei volatili da cortile, nati da poco, quando non viene dato loro un becchime adatto nei primi giorni di vita e quindi non possono digerire. N’ sa fa manch’ ’n o co’ ’n bicchiere (Non sa fare neanche una “o” con un bicchiere”) La lettera “o” è quel piccolo cerchio che tutti dovrebbero essere in grado di tracciare. Più facile ancora dovrebbe essere tracciare un tondo usando il fondo di un bicchiere. Chi non riesce neanche a fare questo è una persona che non sa fare neanche il lavoro più semplice. Insomma si tratta di un buono a nulla. N’ s’ guadagna manch’ l’acqua per lavass’ l’ mane (Non si guadagna neanche l’acqua per lavarsi le mani) Oggi l’acqua potabile è un bene prezioso e il contatore sta a dirci che ha un prezzo, ma un tempo l’acqua potabile non aveva alcunvalore: si trattava semplicemente di andare ad attingerla alla fontana pubblica anche se a volte poteva essere lontana. L’acqua potabile dunque non aveva valore e quella per lavarsi le mani meno ancora, perché era acqua non potabile e per di più bastava quella poca contenuta in un mezzo catino. Chi non si guadagna neanche l’acqua per lavarsi le mani è una persona che pur mettendo buona volontà non riesce a ricavare un utile evidente dal proprio lavoro. 188 N’ te fa più vede nnè te nnè ’l tempo tristo (Non ti far più vedere né tu né il tempo cattivo) Questo modo di dire viene indirizzato nei confronti di una persona indesiderata che viene paragonata al tempo cattivo e come il tempo cattivo, dovrebbe stare sempre alla larga. Ntel libbra di poretti segnmce che c’ so nato, ntel libbro dei cojoni... scassme (Scrivi il mio nome nel libro dei poveretti perché ci sono nato, in quello dei fessi... cancellami) Il detto viene ricordato da chi è consapevole di essere povero e non ne fa mistero anzi sembra esserne fiero. Il povero però non vuole essere scambiato per un fesso - perché povero non è sinonimo di fesso - e nel caso che qualcuno avesse scritto il suo nome nel libro dei fessi lo cancelli pure. Ntl’ anno bisesto, chi s’ la cava è lesto! (Nell’anno bisesto, chi se la cava è lesto!) L’inventore dell’anno bisestile fu Giulio Cesare. Seguendo i consigli dell’astronomo alessandrino Sosigene rimise ordine nel calendario. Per prima cosa fissò la lunghezza dei mesi - che è quella di oggi - e stabilì che l’anno solare fosse di 365 giorni, ma che ogni 4 anni fosse aggiunto un giorno in più dopo il sesto giorno (bis - sesto) avanti le calende di Marzo; così Febbraio, che era di 28 giorni, ogni 4 anni ebbe un giorno in più e l’anno fu detto bisesto. E proprio l’anno bisesto, al quale fa riferimento il nostro proverbio, porta sfor-tuna e chi se la cava è bravo. Questo proverbio come tanti altri rientra in quella serie di credenze popolari che quasi sempre sono infondate 189 ma che si continuano a tramandare proprio perché c’è ancora chi crede a queste cose. Nt’ogni mlaro c’è sempre qualch’ mela fradia (In ogni melato c’è sempre qualche mela fradicia) Il “melare” veniva predisposto su un grosso albero - per lo più olmo o moro - potato e guidato in modo da contenere un enorme nido fatto di tralci di viti con all’interno uno strato di paglia. Dentro questa grande cavità l’agricoltore metteva le mele raccolte nel proprio podere in ottobre-novembre. Il tutto poi lo ricopriva con paglia per proteggere i frutti dai freddi invernali. Quando andava a prelevare le mele era anche naturale che ne trovasse qualcuna... fradicia. Il detto sta ad indicare che anche da una famiglia esemplare può venir fuori la “pecora nera”. N’ trova loco (Non trova luogo) Chi “n” trova loco” è una persona che non trova - o da l’impressione di non trovare - un luogo adatto per fermarsi e riposare un po’. In genere è una persona che smania, si agita, si strugge per qualche ragione ben precisa ma può anche trattarsi di persona irrequieta per natura. A volte però l’espressione si usa anche per indicare una persona che è continuamente indaffarata. Nuvole e pan fresco (Nuvole e pane fresco) Il detto fa riferimento ai tempi passati quando gli agricoltori avevano alle dipendenze i garzoni con contratto annuale. I garzoni 190 erano ragazzi, giovanotti o uomini maturi che svolgevano i lavori più umili e più duri ricevendo una paga molto modesta. Il garzone era colui che eseguiva l’aratura o che guidava la “stroppa” ma il garzone era anche colui che vangava l’orto, che falciava l’erbaio o lo strame, che zappava, rastrellava, che custodiva le viti, che sbrigava i vari lavori nella stalla e così via. Il più delle volte lavorava da solo mangiando un tozzo di pane duro. Questo poveraccio non vedeva l’ora che qualche pioggia o temporale interrompesse il ritmo pressante dei suoi interminabili lavori e che il pane duro finisse per poter mangiare una fetta di pane fresco. “Nuvole e pan fresco” era quindi l’augurio che il garzone faceva a se stesso. Nvelle (Da nessuna parte) Questa espressione, se di origine latina, pò derivare da “in villa” (in campagna)’e quindi ha valore di: “non c’è” o meglio “da nessuna parte”. Quando non si vuole andare da nessuna parte, nel nostro dialetto si dice: “N’ vo nvelle” (non vado da nessuna parte). N’ vola ’na bebbla (Non vola una farfalla) Il detto indica calma assoluta e quasi mancanza di ogni forma di vita. Ciò si verifica nella calura del colmo dell’estate, in assenza assoluta di vento. È quella che nella scala dei venti del Beaufort viene indicata come forza zero. 191 O dento o ganascia Il detto viene pronunciato da chi è deciso ad arrivare fino in fondo ad ogni costo. Naturalmente questo detto - riferito al dentista - va preso in senso metaforico; sentite cosa è successo a me. Ero al terzo anno delle magistrali. Frequentavo spensieratamente la scuola ad Urbino e mi trovavo bene: si studiava sì ed anche per tante ore, ma ogni tanto, come si diceva lassù, si faceva “sgarraticcio”, cioè si marinava la scuola. E così fu per alcuni di noi della terza A: invece di andare a scuola andammo in giro per la fiera in un caldo giorno di Maggio. Curiosammo fra le bancarelle poi ritornammo nella piazzetta centrale dove ci fermò una giovane zingara che leggeva la mano. Qualcuno del gruppo non disdegnando le sue fattezze si fece avanti. A me non interessava la lettura della mano ma dopo che tutti gli altri si erano fatti leggere la mano fu la volta mia. Mi prese la mano, me la scrutò a lungo, poi mi previde una vincita al gioco, un felice matrimonio e così via. Le solite baggianate pensai, ma quando mi disse che presto avrei dovuto cavarmi un dente allora diventai serio perché avevo veramente un dente che ogni tanto mi procurava un dolore insopportabile. E quando aggiunse: “Giovanotto, non ti preoccupare, chi ti caverà il dente sarà una persona decisa: o dente o ganascia” le sue parole mi fecero raggelare. Passò Maggio e gran parte di Giugno. Finita la scuola tornai a casa per le vacanze estive. Ogni tanto sentivo quel maledetto dolore al molare ma quando vedevo il dentista cercavo di cambiare strada. Anche perché Lellino, il dentista, di diminutivo aveva solo O nome; era un omone ben proporzionato, sempre con il sorriso sulle labbra. Sì, ma io lo tenevo sempre a distanza anche se eravamo amici, anche se aveva lo studio accanto a quello legale di mio fratello dove io andavo a battere a macchina. In una afosa giornata di fine giugno lo incontrai al bar e dopo aver bevuto insieme ad un tavolo, gli parlai del mio molare che 192 in quel momento mi doleva da morire. Gli raccontai quello che mi aveva previsto la zingara in quel giorno di fiera ad Urbino. Lellino sorrise e mi disse di passare la sera stessa nel suo studio dentistico. Ci andai deciso a non farmi togliere il dente, ma Lellino con quel suo sorriso suadente mi disse che se le zingare potessero prevedere il futuro degli altri farebbero prima di tutto le previsioni per loro stesse. Compilerebbero una schedina vincente della sisal (il totocalcio di oggi) e non avrebbero bisogno di andare nelle fiere ad adescare la gente. Mi convinse e così mi decisi per l’estrazione. Lellino mi fece delle piccole iniezioni intorno al dente e qualche minuto più tardi prese una strana pinza fra le tante disposte in fila. La disinfettò, io aprii la bocca e lui armeggiò un po’ e quando mi mostrò il dente estratto mi sembrava che avesse fatto un gioco di prestigio. Non avevo sentito alcun dolore. Secondo la zingara il dentista mi avrebbe tolto “o dente o ganascia”; per fortuna Lellino mi aveva tolto solo il dente e per di più senza procurarmi alcun dolore! Ogni lasciata è persa (Ogni occasione non colta è perduta) Le occasioni favorevoli vengono spesso offerte dalla fortuna e possono essere di vario genere: si va da quelle che potrebbero cambiare la nostra situazione economica o il nostro lavoro a quelle del divertimento in genere. Ed è a queste ultime che fa riferimento il detto invitando tutti a non lasciarsi sfuggire le occasioni. Ognuno al mestier sua e ’l lupo a l’peqre (Ognuno al suo mestiee e il lupo alle pecore) Questo proverbio vuoi dire: ognuno faccia le cose che sa far bene 193 come il lupo nello sbranare le pecore. Il proverbio con molta saggezza vuoi ricordare a quelli che si mettono in testa di saper fare un certo mestiere o una professione che per far ciò occorre una specifica competenza, diversamente poi nella pratica andranno incontro ad un fallimento quasi sicuro. Nei tempi passati l’artigiano prima di esercitare il suo mestiere frequentava per molti anni la bottega per imparare bene tecniche e segreti. Anche chi si preparava a esercitare una professione dopo studi seri, prima di esercitarla in proprio, seguiva un lungo tirocinio per imparare quelle cose che si apprendono solo con la pratica. Oggi non sono molti quelli che si sottopongono a questo lungo e paziente tirocinio prima di esercitare un mestiere o una professione e così ci capita ogni tanto di imbatterci in questi... guastamestieri! D’altra parte anche ad ognuno di noi sarà forse capitato qualche volta di essersi messo in testa di saper fare un certo lavoro - manuale o intellettuale - e poi alla prova dei fatti di dover constatare che quel lavoro non era pane per i suoi denti. Allora forse ci è tor nato in mente il vecchio proverbio: “ognuno al mestier sua e ‘1 lupo a 1’ peqre”. -Padre Fiolo e Spirto Santo ho trovato ’l cojon fin che campo - Acqua santa benedetta si n’ basta ’l baston c’è la paletta (Padre, Figlio, Spirito Santo ho trovato il fesso fin che campo. Acqua santa benedetta se non basta il bastone c’è la paletta) Terragobba, soprannominato così per quel suo stare curvo nei lavori dei campi, era di Sassoferrato; tutti lo conoscevano come un bravo coltivatore diretto ed un abile mediatore. 194 Alla grande fiera che si svolge in agosto a San Lorenzo ebbe modo di conoscere la Santina, una bella ragazza bionda con gli occhi azzurri ed una tal parlantina da essere soprannominata “l’avvocatessa”. A questa ragazza, figlia di un mezzadro di S. Lorenzo, piaceva il vestir bene, un po’ meno il lavoro. Terragobba si innamorò subito della Santina e l’anno dopo si sposarono. Si dice che al termine della cerimonia, prima di uscire dalla chiesa, la Santina segnandosi con l’acqua santa disse: “Padre, Piolo e Spirito Santo, ho trovato ‘1 cojon fin che campo”. Terragobba sorridendo mise la mano nell’acquasantiera e segnandosi continuò: “Acqua santa benedetta si n’ basta ‘1 baston c’è la paletta” per ricordare alla sposa che a dettar legge sarebbe stato lui a costo di usare la paletta del fuoco. Il proverbio si addice a un modo di pensare ormai lontano nel tempo quando le donne si sposavano pensando ad una sistemazione e gli uomini pensavano di imporsi alle mogli usando la forza. Credo che il proverbio oggi non abbia più senso o almeno lo spero! Pagà a babbo morto (Pagare alla morte del padre) Ancora nell’immediato dopoguerra esistevano nelle nostre campagne le famiglie patriarcali nelle quali chi comandava ed amministrava tutto era il “capoccia” e in second’ordine sua moglie, la “ver-gara”. Tutti gli altri - trenta ed anche quaranta persone o più - non disponevano di una lira e così, a volte, contraevano debiti con l’impegno di pagarli quando avrebbero ereditato, cioè dopo la morte del padre. Il pagare un debito in questo modo era come dire: “Te li dò quando ce li ho”,, cioè... forse mai! 195 Paga’ col sole d’Agosto. Paga’ co’ l’ombra del campanile (Pagare col sole d’Agosto. Pagare con l’ombra del campanile) In entrambi i proverbi è un pagare con qualcosa che non si può avere in mano e che praticamente non ha alcun valore di scambio. I detti vengono usati per indicare l’impossibilità di pagare da parte di qualcuno. Pare che sei statto a ’n funerale! (Pare che tu sia stato ad un funerale!) D detto viene rivolto a chi ha una espressione mesta e pensierosa. Un tempo però non tutti quelli che avevano seguito il feretro avevano una faccia da funerale perché c’era anche chi ci andava per ricevere una ricompensa. Questa usanza era ancora in auge al tempo di mio nonno che scherzando si ricordava di quando Menco, parente del defunto, fermò tempestivamente sul cancello di entrata del cimitero il mesto corteo dicendo: “Lee, ade’ pago a tutti!” (Fermi, perché adesso pago a tutti!). Questa vecchia usanza di pagare chi non parente del defunto partecipava al corteo funebre ha radici molto lontane: al tempo dei Romani c’erano le “prefiche” che erano donne pagate per cantare, piangere e lodare il morto. Parla comm’ magni (Parla come mangi) Quando parliamo dobbiamo avere la stessa naturalezza che usiamo nel mangiare. È questa la raccomandazione a chi cercando di parlare in italiano colleziona una serie di sfondoni che sono motivo di sonore 196 risate da parte di chi ascolta. Parlare in dialetto è la cosa più normale di questo mondo in qualsiasi regione d’Italia. I più accaniti nemici del dialetto sono quasi sempre gli insegnanti della scuola elementare, anche se i programmi di questa scuola parlano di “far conseguire agli alunni la capacità di comunicare correttamente in lingua, ma... va anche rispettato l’eventuale uso del dialetto in funzione dell’identità culturale del proprio ambiente”. Certe espressioni dialettali tradotte in lingua perdono tutta la loro vivacità ed il loro calore. Se poi a voler tradurre ad ogni costo espressioni o termini dialettali in lingua è una persona come la sora Teresa allora il bavaglino diventa “sbavaglio”, il geometra diventa “geometro” e così via. Un giorno che il figlio era fuori della porta di casa e la sora Teresa voleva farlo rientrare a causa del freddo, visto che poco lontano c’era un signore distinto, disse al figlio: “Vieni qui e bocca drento!”. Passa ’l tempo e la morte s’allontana (Passa il tempo e la morte si allontana) Ai miei tempi fra bambini erano d’uso le “fregarelle”, cioè i tranelli. Uno di questi era dire alla prima persona che si incontrava: “Passa ‘1 tempo e la morte s’allontana”. Questa naturalmente correggeva il tiro e diceva: “Vorrai dire che la morte s’avvicina!”. Subito si ribatteva: “E p’i cojoni n’ c’è la medicina” (E per i coglioni non c’è la medicina). L’ingenuità è una “malattia” che non si cura. Di persone ingenue ce ne sono sempre state ovunque ma qui vale la pena di ricordare una delle tante ingenuità di Checco, soprannominato Nasone per quel suo naso grosso e bitorzoluto. In una chiara notte d’estate Nasone, rientrando a casa dall’osteria di San Vito dove forse aveva bevuto un po’ troppo, vide in un pozzo 197 poco distante da casa sua la luna piena riflessa nell’acqua. La osservò quasi estasiato come chi la vede per la prima volta. Corse nella stalla, prese un secchio, lo legò con un pezzo di corda e ritornò al pozzo. Dopo vari tentativi riuscì a far entrare la luna nel suo secchio e tutto contento s’avviò verso casa. Ma quando si trovò a passare sotto i grandi olmi la luna scomparve dal suo secchio. Tornò al pozzo e la luna era di nuovo lì e pareva che risplendesse più di prima. Nasone si riprese la luna e via di nuovo verso casa ma sotto gli olmi la luna scomparve di nuovo ed anche questa volta Nasone ritornò al pozzo e si riprese la luna, ma sotto gli olmi la luna scomparve e Nasone desistette dall’impresa. Tornò a casa, ripose gli arnesi nella stalla e andò a dormire. Non accese il lume per non farsi sentire dalla moglie. Mentre si stava spogliando la moglie che era ancora sveglia additando la finestra disse: “Guarda che luna!” e Nasone: “L’ voi di’ a me? Ho picchiato fin ade per portalla a casa!” (Lo vuoi dire a me? Mi sono dato da fare fino adesso per portarla in casa!). Poi chiuse gli scuretti per non vederla più. Ma l’aveva sempre davanti agli occhi e non gli dette tregua neanche nel sonno perché la sognò per tutta la notte. Ancora oggi a San Vito c’è un pozzo con la luna. Pe’ gnente n mov’ la coda manco ’l gatto (Per niente non muove la coda neanche il gatto) Il detto vuoi significare che senza ricompensa non si ottiene niente da nessuno. Il gatto, che è considerato il meno importante in una famiglia e quindi è alle dipendenze di tutti, ebbene neanche lui non fa niente (non muove neanche la coda) se non riceve una ricompensa. A proposito di gatto ricordiamo l’altro detto: “L’ sa anche ’1 gatto!” (lo sa anche il gatto) per indicare una cosa nota a tutti. 198 Pe’ ’n cazz’ d’ mosca (Per un cazzo di mosca) L’espressione sta ad indicare che c’è mancato un niente al verificarsi o al non verificarsi di un certo fatto. A parte la crudezza la frase è molto calzante e spesso sembra insostituibile. Per guarì’ i calli c’ vole ’l sudor di cantonieri (Per guarire i calli ci vuole il sudore dei cantonieri) Una persona che fa’ un lavoro manuale pesante ha generalmente i calli alle mani ed i calli permangono se la persona continua a lavorare. Secondo il nostro proverbio c’è un solo rimedio per guarire da questi calli: occorre spalmare su di essi il sudore dei cantonieri. Ma secondo l’opinione comune dei vecchi tempi questo sudore non si trovava. Alcuni maligni sostengono che ancor oggi è la stessa cosa. Se le cose stanno proprio così, allora chi ha i calli se li tiene. Fortuna vuole però che i calli non sono una malattia ma se mai un vanto dal momento che chi li ha è sicuramente una persona che lavora e pertanto una persona di tutto rispetto. Per magna c’ vol’ la fame (Per mangiare ci vuole la fame) Questo proverbio oggi è fin troppo ovvio. Ma un tempo quando il cibo spesso era immangiabile il capoccia ricorreva al nostro proverbio come per dire: non è che non mangi perché il cibo è cattivo ma semplicemente perché non hai fame. Naturalmente quando si aveva fame, fame vera, si mangiava qualsiasi cosa e ci si consolava con il dire: “quel che ‘nne strozza, ingrassa” (quello che non strozza, ingrassa) 199 oppure rivolgendosi a chi non mangiava gli si diceva: “La galina che n’ becca ha beccato’ (La gallina che non becca ha beccato); il che era come dire: non mangi perché hai già mangiato. Un giorno si discuteva fra amici sul come è buona la polenta ed ognuno diceva la sua. Uno dei presenti saggiamente tagliò corto dicendo: “Sapete comm’è bona la pulenta? Co’ la fame!”. Per questa volta sorvoliamo Giovanni Guerra era di corporatura robusta e per questo lo chiamavano Giovannone o più semplicemente “Giuanon”. Era guardia e scopino a Fratterosa al tempo della prima guerra mondiale. Nel paese lo ricordano per un episodio curioso che si è tramandato nel tempo. Un giorno mentre era in servizio notò una gallina che razzolava tranquillamente in una via del paese, poco distante dalla casa della Marietta. Giuanon, vista la Marietta sull’uscio di casa, l’apostrofò dicendo: “Guardate, Marietta, che sete in contravvenzione, perché c’avete ’na gallina fori” (Guardate, Marietta, che siete in contravvenzione, perché avete una gallina fuori). E la Marietta: “Guardate, Giuanon, che la galina e dl’Anastasia” (Guardate, Giuanon, che la gallina è dell’Anastasia). L’Anastasia era la moglie di Giuanon. Allora Giuanon, facendo un bel sorriso, disse: “Per questa volta sorvoliamo!” Per Santa Caterina: o la neve o la strina (Per Santa Caterina: o la neve o il gelo) Ricordiamo che Santa Caterina cade il 25 novembre e quindi è da aspettarsi che intorno a questa data ci possa essere neve o gelo. Questo proverbio, che ci richiama l’altro: “A Sant’Andrea: o 200 la neve o la bufea” (A Sant’Andrea: o la neve o la bufera), ci vuoi ricordare che sul finire di novembre siamo già in inverno. Pia gambone (Prende gambone) Gambone nella lingua italiana significa orgoglio, baldanza. E chi prende gambone è una persona che incomincia a fare un po’ troppo di testa sua. Mentre per un adulto fare o ragionare con la propria testa è un pregio, per un bambino di pochi anni agire secondo il proprio istinto potrebbe essere dannoso per lui e per chi gli sta intorno. Occorrendo quindi ridimensionare questo comportamento si cita il detto che di solito fa rifermento a quel bambino che sta prendendo il sopravvento sui suoi genitori o su chi per loro. Pia’ ’na grastica (Prendere una “fregata”) Il termine grastica può essere tradotto sia con “averla” (uccello migratore del genere dei passeriformi) sia con “vescicola” (si tratta di quella vescicola sieroso-ematica che si forma nelle dita per la rottura dei capillari in seguito ad una pizzicatura causata da arnesi quali tenaglie o pinze). Nel nostro caso “grastica” fa riferimento proprio alla vescicola e l’espressione equivale a prendere un bidone o più semplicemente a “prendere una fregata”. Pia’ ’na rimbeccata (Prendere una “rimbeccata”) Rimbeccare è beccare di nuovo e l’animale che becca in conti201 nuazione non fa altro che aprire il becco. E così fa chi ha la tosse o una respirazione difficile. Il modo di dire indica chi prende o ha preso la tosse e/o il raffreddore. Pianta’ l’ cannelle (Piantare le cannelle) Qui cannella non è la droga usata in cucina, ma il rubinetto dell’acqua e “pianta 1’ cannelle” che letteralmente significa collocare saldamente rubinetti, nel nostro detto ha valore di piantagrane e chi sente di essere uno col quale non si piantano grane è solito dire: “Chi n’ s’ piantne le cannelle!” (Qui non si piantano le grane!). Espressioni con valore del genere sono: “Chi n’ e’ s’impicca la giachetta!” o “Chi n’ e’ piove!”. Pianta ’l chiodo ndo’ c’ bocca (Conficca il chiodo dove entra) L’espressione si addice a chi fa il prepotente con chi è più debole di lui ma fa poi il cagnolino con chi è più forte. Più in generale significa che c’è chi fa soprusi con chi non sa reagire. P’i minchioni n’ c’è la medcina (Per i minchioni non c’è la medicina) Indovina, indovinello, chi fa.l’uovo nel cestello? In genere si risponde: “La galina” e il commento che segue può 202 essere: “Merda in bocca a chi l’indovina” oppure: “E p’i minchioni n’ c’è la medcina!». A parte il falso indovinello in realtà per chi soffre di fessopatia non è stata ancora scoperta nessuna medicina. Piscia chiaro e fa i fichetti al meddco (Piscia chiaro e fai gli sberleffi al medico) La vecchia medicina popolare era fatta di ricette a base di erbe, radici, semi e foglie ed insegnava come preparare tisane, infusi, impacchi, ma dava anche dei consigli e delle indicazioni alla gente circa il proprio stato di salute deducendolo dalle osservazioni che si potevano fare di volta in volta. Orinare chiaro era sintomo - e lo è ancor oggi - di buon funzionamento delle vie urinarie e più in generale di buona salute può ben immaginare un nuvolo di insetti assalì la povera capra che morì poco dopo. Piscialetto e magnasorci (Piscialetto e mangiasorci) Era un detto famoso conosciuto da tutti gli abitanti della nostra vallata. Il detto si usava nei confronti di chi faceva la pipì sul letto e si credeva che il rimedio di questa malattia fosse quello di mangiare sorci. E così c’era chi cuoceva qualche topolino per il bambino o la bambina che la faceva sul letto. Naturalmente chi mangiava questo topolino non sapeva di che carne si trattasse perché... anche i grandi mangiavano carne. Spesso però gli interessati si accorgevano che quella non era la stessa carne che mangiavano i suoi familiari, sia perché si sentivano 203 ripetere “piscialetto e magnasorci” e quindi ci pensavano sia perché si rendevano conto dall’aspetto del pezzo di carne che non si trattava né di pollo, né di coniglio e tanto meno di bistecca o di fettina. , Più che medicina popolare, questa del far mangiare topi era una credenza popolare e sicuramente una delle più ingenue. Più semme e più comparimme (Più siamo e più figuriamo) Il detto significa “più siamo e più bella figura facciamo”; si usa sia quando si è contenti che a far parte del gruppo ci sia qualche persona in più sia quando si accetta che una persona non del tutto gradita faccia parte della compagnia. Podessi fa’ la fine dla capra d’Ottavio! (Possa tu far la fine della capra di Ottavio!) Ottavio era un noto invalido di guerra che viveva a Montalfoglio ed aveva una bella capra che gli dava latte fresco. Un brutto giorno la capra inavvertitamente calpestò una famiglia di vespe. Come si può ben immaginare un nuvolo di insetti assalì la povera capra che morì poco dopo. È una “sentenza” (maledizione), una delle tante, che si può sentire fra persone che stanno litigando. Quanto canta ’l cucco, a la sera piove e a la matina è sciucco (Quando canta il cuculo, a la sera piove ed al mattino è asciutto) Questo proverbio sta ad indicare la facilità del variare del tempo nel mese di maggio con alternanza di piogge e di venti. 204 Quant’ canta ’l gallo for d’ora, se ’l tempo è brutto armijora se è bello peggiora (Quando canta il gallo fuori dell’ora, se il tempo è brutto migliora se è bello peggiora) Il gallo di solito canta all’alba, se lo fa in un orario diverso la gente cita il nostro proverbio per dire che il tempo cambierà. Quanto fa’ ’l pane ’n poretto, s’ lama ’l forno (Quando fa il pane un povero, crolla il forno) Questo detto, famoso nelle nostre campagne, vuoi mettere in evidenza che la sfortuna (“s’ lama ’1 forno”) si accanisce subito contro il povero, appena questo fa un piccolo miglioramento (“fa ’1 pane”). Quanto ’l contadino magna la galina, o sta male ’l contadino o la galina (Quando il contadino mangia la gallina, o sta male il contadino o la gallina) Peppe d’ Binotti era fabbro a San Lorenzo. Un giorno andò a S. Vito a riscuotere il cottimo da Delino. Peppe arrivò poco dopo mezzogiorno e già la famiglia di Delino aveva mangiato la minestra in brodo ed al centro della tavola c’era il lesso fumante di gallina. Peppe fu invitato a sedersi ed a voler mangiare. Il fabbro restando in piedi chiese: “Chi sta male?”. Delino quasi meravigliato rispose: “Nessuno. Perché?”. E Peppe: “Quanto ’l contadino magna la galina, o sta male ’l contadino o la galina”. Quel giorno il fabbro riscosse il cottimo, ma non si fermò a pranzo. 205 Quanto ’l corpo sta bene, l’anima n’ fugge (Quanto il corpo sta bene, l’anima non scappa) È una constatazione di fatto: quando c’è la salute l’anima rimane nel corpo. Il proverbio viene spesso citato da chi ama mangiare e bere. Un tempo il mangiare a sazietà era un lusso di pochi. Il fattore di allora, che era una delle poche persone benestanti e mangiava e beveva a sazietà, aveva di solito una bella pancia. Quella per la gente di campagna, era simbolo di benessere e la gente comune quando incontrava un obeso era solita esclamare con una punta di invidia: “Mi sembri un fattore!”. Ora le cose sono cambiate ed il mangiare troppo non è certo sinonimo di salute e chi lo fa deve poi rivolgersi ad un dietologo. Il nostro proverbio viene oggi citato solo raramente e quando lo si fa c’è sempre un pizzico di ironia nei confronti di chi mangia un po’ troppo. Quando ’l gatto s’ lecca, ’l tempo argambia (Quando il gatto si lecca, il tempo cambia) Questo proverbio fa riferimento ad una vecchia credenza secondo la quale il gatto che si lecca a lungo il pelo sente che il tempo sta per cambiare. Si dice anche che quando il gatto gira il sedere al fuoco vuoi dire che sta per nevicare. In realtà quando il gatto si lecca è perché ha bisogno di pulirsi e quando si mette vicino al fuoco, qualsiasi posizione assume, lo fa perché... ha freddo! Quanto ’l pesco mi fiorì tant’ la notte e tanto ’l dì Quanto ’l pesco si magnò ’n’antra volta era a chel mo’ 206 (Quando il pesco mi fiorì tanto la notte e tanto il dì. Quando la pesca si mangiò un’altra volta era a quel modo) Questo proverbio fa riferimento agli equinozi - 21 marzo e 23 settembre - quando la durata della luce (il dì) e quella della notte sono uguali (“tant’ la notte e tant’ ’1 dì”). Il periodo nel quale si maturano le pesche va da giugno ad agosto, ma quelle citate dal nostro proverbio sono le pesche rustiche i cui alberi ancora oggi allignano spontaneamente nelle nostre campagne. Possono considerarsi come dei “portainnesti” (alberi da innestare) e questi alberi maturano i propri frutti a settembre. E così i conti tornano: il pesco fiorisce a marzo e il suo frutto si mangia a settembre, mesi durante i quali la notte e il dì hanno la stessa durata. Quanto ’l porcello è stuffo arbalta ’l trocco (Quando il porcello è sazio rovescia il truogolo) Il maiale quando è sazio a volte rovescia il truogolo che ormai non gli serve più. Il nostro proverbio però, più che al comportamento del maiale, fa riferimento a persone che, dopo aver sfruttato una situazione favorevole, cambiano posizione, fanno il voltafaccia e disprezzano i loro benefattori. Quanto ’l sorcio l’ha preso ’l gatto, qual ch’ fa lu’ è tutt’ ben fatto, (Quando il sorcio l’ha preso il gatto, quello che fa lui (il gatto) è tutto ben fatto) Se si mettono di fronte sorcio e gatto si conosce già in anticipo il 207 risultato. È scontato poi che il gatto che ha in bocca il topo è padrone assoluto di fare del topo quello che vuole e non sarà certo il topo a dettare condizioni. Il proverbio viene usato per dire che i potenti, anzi i prepotenti, fanno sempre quello che vogliono senza che nessuno possa interferire. Quanto ’l tempo s’ annette d’ notte, dura quanto ’n caldaro a’ pere cotte (Quando il tempo si mette al buono di notte, dura quanto un caldaro di pere “cotte) Nei tempi difficili, fino agli anni Cinquanta, si usava cuocere nel caldaro le pere acerbe cadute a terra. Queste pere cotte, anche se erano molte, duravano poco perché venivano mangiate o meglio divorate in poco tempo. Come il caldaro di pere cotte dura poco così è per il tempo che si rimette al buono durante la notte. Quanto nengue su le foje, arnengue su le foje (Quando nevica sulle foglie, nevicherà di nuovo sulle foglie) È questo uno dei tanti proverbi che servono per la lettura dell’andamento meterologico. Quando nevica con grande anticipo sull’inverno quando ancora le foglie devono cadere, nevicherà anche a primavera inoltrata quando gli alberi avranno già messo le prime foglioline. 208 Quanto nnè ceco nnè zoppo, è bello troppo (Quanto non è cieco né zoppo, è bello troppo) Ritornando indietro nel tempo, per una ragazza povera e non molto bella lo sposarsi era un grosso problema, ma era un punto di onore il farlo (“belle o brutte, si sposan tutte”). Il consiglio che la gente dava alla ragazza in cerca di marito era che il suo ragazzo non doveva avere doti speciali: bastava che non fosse né cieco né zoppo, perché già così era fin troppo bello. A quei tempi le conoscenze erano ristrette. Basti pensare agli scarsi mezzi di trasporto ed alle tante ore di lavoro alle quali ognuno si dedicava con la conseguenza di nori avere tempo a disposizione per conoscere altre persone. Spesso c’era chi per sposarsi sperava nell’aiuto del “ruffiano” (mediatore di matrimoni) e pertanto doveva accontentarsi della persona che gli capitava, se gli capitava. Diversamente sarebbe rimasto “giodco” (scapolo) o “armasta” (zitella). Quant ne voi te, pe’ ’n soldo! (Quanto ne vuoi tu, per un soldo!) Abbiamo già detto del piccolissimo valore di un soldo. Con cinque soldi si potevano comprare alcuni spilli o pochi lupini. Con pochi soldi insomma si potevano comprare solo cose di minimo valore. A chi pretendeva con un soldo di comprare tante cose veniva rivolto il detto citato. Oggi si usa sia nei confronti di chi con pochi spiccioli pretende di acquistare cose di un certo valore, sia nei confronti di chi chiede favori in continuazione senza contraccambiare. La nostra espressione può anche essere rivolta ad una persona un po’ ficcanasa che vuoi conoscere cose riservate senza dare mai risposte alle nostre domande e che quando lo fa rimane sempre nel vago. 209 Quanto Pasqua ven d’ Maggio (Quando Pasqua viene di Maggio Un detto equivalente a questo è: “L mes’ del poi e l’an’ del mai” (il mese del poi e l’anno del mai). Le due espressioni stanno ad indicare una cosa che è impossibile che si realizzi, dal momento che Pasqua - festa mobile - non cade mài di maggio ed il mese del poi e l’anno del mai stanno ad indicare un calendario sconosciuto a tutti. Quanto semme ai Nocentine fnite l’feste e fniti i quadrine (Quanto siamo agli Innocentini finite le feste e finiti i quattrini) Il 28 dicembre è la festa degli Innocenti e secondo il nostro proverbio è la fine delle feste natalizie e dei quattrini da spendere. Quant’ tira la curina ’n pezzo tira e po’ urina (Quando tira la curina un pezzo tira e poi... piove) La curina è lo scirocco, vento caldo che spira in estate dalla Siria. Questo proverbio ci vuoi insegnare che lo scirocco spira per una durata più o meno lunga, ma al suo cessare piove. 210 Quattr’aprilanti, quaranta dì duranti (Il tempo del 4 aprile, durerà quaranta giorni) È questo uno dei tanti proverbi che, basandosi su certe manifestazioni metereologiche di un certo giorno, fa delle previsioni sul tempo che farà in seguito. Nel nostro caso il proverbio ci vuoi far capire che se piove nei primi di Aprile le piogge dureranno a lungo ed abbondanti. Quei “quaranta dì duranti” ci fanno tornare alla memoria il diluvio universale che secondo la Bibbia durò quaranta giorni. Ma come già fatto notare per altri proverbi occorre tener presente che anche questo non va preso alla lettera; i nostri avi volevano semplicemente dire che i primi giorni di Aprile ci danno un’idea sull’abbondanza o meno delle pioggie per il periodo seguente. Quello e gnente j dà parente (Quello e niente sono parenti) È come dire: quella certa cosa e niente sono uguali. Il detto si usa quando si riceve una ricompensa irrisoria invece di quanto meritato, o si usa quando qualcuno ci da un consiglio che non risolve affatto O nostro problema. Questa è ’na fava che ’n s’ coce (Questa è una fava che non ci cuoce) È noto che i legumi hanno bisogno di molto tempo per cuocersi. Per ridurre il tempo di cottura noi oggi usiamo il bicarbonato di soda. Un tempo in campagna per cuocere fava, ceci e fagioli si usava un’acqua particolare che sgorgava ed ancora sgorga in certi luoghi 211 che la gente di campagna ben conosce. Quest’acqua era conosciuta come acqua “cucia o cottora”, cioè acqua che favoriva la cottura dei legumi; ma a volte nonostante l’uso di quest’acqua la fava rimaneva dura e allora si diceva: “Questa è ‘na fava che n’ s’ coce”. Il nostro proverbio viene citato tutte le volte che non si trova la soluzione a un certo problema. Questa n’ s’arconcia (o n’ s’arciappla) (Questa non si rimedia) “Arconcia”’ è ricucire, mentre “arciapplà” è rappezzare. I due modi di dire stanno ad indicare una situazione disperata alla quale è difficile porre rimedio. È noto il detto: “Questa n’ l’ar-concia manch’ Meletti” (Questa non la ricuce neanche Meletti). Me-letti era un bravo chirurgo che operava all’ospedale di Pergola e se non la rimediava lui... Ragiona comm’ na scarpa rotta (Ragiona come una scarpa rotta) Di una persona che non segue un filo logico si usa dire che “ragiona con i piedi”. Per evidenziare maggiormente la mancanza di logicità si usa l’espressione: “ragione come una scarpa”. Il nostro proverbio indica mancanza assoluta di ragionamento. Se ci pensiamo bene è già grave “ragionare con i piedi” dato che la sede del ragionamento è il cervello; ancor più grave è ragionare come una scarpa; se poi la scarpa è rotta... 212 Ride p’ ’na pacca d’fava (Ride per mezza fava) “Pacca” è la meta di un animale o di una cosa. “La pacca del maiale” è l’espressione più usata.Chi ride per una “pacca” di fava ride per un nonnulla; è una persona sciocca. Sa comda’ quattr’ovi nten piatto (Sa disporre quattro uova in un piatto) Mettere quattro uova in un piatto è la cosa più semplice di questo mondo, ma disporle in modo appariscente non è da tutti. Chi “sa comda’ quattr’ovi nten piatto” è una persona che sa esprimersi in modo convincente. Sa fa’ j occhi a l’ pulce (Sa fare gli occhi alle pulci) Si dice di persona che sa fare con precisione tante cose, anche fuori del proprio lavoro. Sa l’arte e sa l’inganno s’vive metà dl’anno, sa l’inganno e sa l’arte s’ vive ql’altra parte (Con l’arte e con l’inganno si vive metà dell’anno, con l’inganno e con l’arte si vive quell’altra parte) L’arte nel nostro caso è il mestiere e il proverbio fa riferimento ai 213 bottegai che un tempo, a torto o a ragione, erano ritenuti imbroglioni. Un noto proverbio fabrianese ne rincarava la dose: “40 mulinari, 40 macellai e 40 osti fan 120 ladri giusti giusti”. Naturalmente quest’ultimo proverbio lo dobbiamo prendere con le pinze nel senso che non si possono colpevolizzare artigiani e commercianti in blocco. Se è vero che fra loro ci può essere qualche imbroglione ciò non pregiudica le categorie menzionate perché la pecora nera la troviamo in qualsiasi categoria. Ma ritorniamo al nostro proverbio. Ad Anselmo, che era falegname a Montalfoglio da prima della guerra, capitò un giorno fra le mani la porta di casa un po’ mal ridotta di Mencone, noto capomastro del luogo. Anselmo prima di iniziare il suo lavoro tolse la crosta di vernice e vennero alla luce varie magagne riempite con lo stucco in modo impeccabile. Le indicò al proprietario della porta e poi chiudendo gli occhi come per una riflessione, commentò ironicamente: “Sa l’arte e sa lo stucco si frega il mammalucco” (con l’arte e con lo stucco si inganna lo stupidotto). Mencone, che stupido non era proprio, incassò la battuta ma non la dimenticò mai. E la domenica, quando gli uomini si radunavano nella piazzetta dopo la Messa delle undici, Mencone era lì, appoggiato alle mura di cinta del paesetto medioevale, pronto a scambiare quattro chiacchiere con chiunque. E quando era il caso ricordava con un grande sorriso la battuta di Anselmo come per dire che negli affari bisogna stare sempre molto attenti. Salv’ m’tocco (Salvo dove mi tocco) Quando si mostra sul proprio corpo la parte ammalata di un altro, si usa questa espressione che ha funzione di scongiuro. 214 Salv’ sia (Salvo io sia) È la forma di scongiuro che si usa quando si nomina il male di un altro. San Marco è ’n gran santo (San Marco è un grande santo) Marco, assieme a Matteo, Luca e Giovanni, è uno dei quattro evangelisti. Dire che S. Marco è un grande santo è la cosa più ovvia di questo mondo. Il detto si usa quando vogliamo dire: è naturale, per forza; è così per forza di cose. San Lorenzo antico, se ce stai ceni’anni n’ te fai ’n amico; se cel fai, t’ n’ pentirai (San Lorenzo antico, se ce stati cent’anni non ti fai un amico; se ce lo fai te ne pentirai) Questo detto sta a ricordarci la rivalità che un tempo esisteva fra gli abitanti dei paesi limitrofi ed i Laurentini che così erano stati bollati. Ma i Laurentini non erano certo stinchi di santo se ai Castelleonesi si impediva di scendere a San Lorenzo e si intimava loro di non oltrepassare il ponte di Castelleone e tanto meno quello “dell’acqua purgativa”. Quando oltrepassavano questi ponti era guerra aperta e 215 si finiva col picchiarli o col... prenderle! A quei tempi era particolarmente spiccato lo spirito campanilistico e quando non si poteva far di peggio si umiliavano gli abitanti vicini con un soprannome. Così si diceva: A la Torre i Polverari, a le Fratte i Pignatari. A S. Vito le donne belle a la Pergola i Conciapelle. A Castiglione i Postinari, a S. Andrea i Cotcari. A S. Lorenzo i Cipollari, a la Villa del Monte i Pisciapaiari. A Montevecchio i Batticuli, al Vergineto i Cacamuri. Ad Orciano i Cordari e a Bareni i Ranocchiari. Santa Bibbiana, 40 giorni chiama È questo uno dei tanti proverbi che fanno riferimento al tempo meterologico. “Santa Bibbiana, 40 giorni chiama” significa che il tempo che farà il giorno di Santa Bibbiana (2 dicembre) perdurerà nei 40 giorni seguenti. E quindi il 2 dicembre veniva osservato attentamente dagli agricoltori che poi si regolavano nella programmazione dei loro lavori al coperto e fuori. Sant’Antogn’ che l’ guarda! (Che Sant’Antonio lo/li protegga!) E il detto che tuttora si usa pronunciare durante o alla fine della 216 visita ad una stalla in cui ci sono degli animali. Chi visita una stalla e non pronuncia questa frase viene sospettato di essere un fattucchiere. Perciò tutti dicono: “Sant’Antogn che 1’ guarda!”. La frase è una supplica a Sant’Antonio Abate affinchè voglia proteggere il bestiame di quella stalla. Il rispetto dell’agricoltore per il Santo è notorio. Ricordiamo che un tempo in ogni stalla c’era il calendario del Santo sul quale si segnavano: inizio delle gravidanze, nascite, ferrature delle vacche, inizio della domatura delle manze e così via... Il 17 gennaio, giorno dedicato al Santo, davanti alla porta della chiesa ci sono foraggi, becchime e mangime di ogni specie per gli animali, in attesa di essere benedetti dal sacerdote. Il pane per le persone veniva ed è appositamente fatto per quell’occasione e la Compagnia di Sant’Antonio con a capo il Priore provvede a far avere ai presenti il pane benedetto. Ogni componente della famiglia dell’agricoltore ne assaggia almeno un boccone. È come l’uovo benedetto a Pasqua. Nell’alta valle del Cesano queste usanze si conservano ancora gelosamente. Sant’Antogno da la barba bianca, mett’ la neve ndo’ ch’amanca (Sant’Antonio dalla barba bianca, mette la neve dove manca). Questo proverbio sta ad indicare che per S. Antonio Abate (17 gennaio) nevicherà anche dove non ha ancora nevicato. Sarà ’n curidore, ma la faccia n’ ce l’ha (Sarà un corridore, ma la faccia non ce l’ha) Il detto viene usato per indicare una persona che a prima vista non 217 sembra adatta a svolgere una certa mansione o a rivestire una certa carica. È sempre usato in senso ironico e denigratorio. Sbaja ’l prete ntel pollaro!... invece d’uno ne pia ’n paro! (Sbaglia il prete nel pollaio!... invece d’uno ne piglia un paio!) Il proverbio corrisponde a quello italiano: “sbaglia il prete sull’altare” e vuoi mettere in evidenza la facilità di sbagliare. Ma il nostro è sicuramente più pittoresco: il prete non è sull’altare, ma nel pollaio e da sotto i paleti sui quali stanno i polli, per essere sicuro di prendere un pollo prende due zampe e tira giù due polli. L’errore ha del comico ed il proverbio viene usato quando chi sbaglia non ha poi commesso un errore irreparabile. Scatizza’ la pipa (o ’l foco) (Attizzare la pipa (o il fuoco)) Menchino de Mencone diceva sempre che il fuoco, così come le donne, vanno stimolati per mantenerli sempre vivi. S’ contne col naso (Si contano con il naso) Quando si contano persone, animali o cose sparse si usa farlo con l’indice teso. Nessuno si sognerebbe di farlo usando il naso. La nostra espressione si usa per dire che quelle certe persone, animali o cose sono rarissime, come è raro - o forse non esiste - chi 218 conta usando il naso. Potremmo dire che si contano con il naso coloro che hanno vinto la lotteria di Capodanno. Scordcarìa ’l pidocchio per pia’ la pelle (Scorticherebbe il pidocchio per pigliarne la pelle) Questo modo di dire vuoi evidenziare l’avarizia di qualcuno. Il pidocchio si sa ha una pelle di nessun conto: è una pelle di minima estensione e di nessuna resistenza, è una pelle che non ha alcun valore, ma l’avaro vorrebbe impadronirsi anche di quella pensando forse di ricavarne un utile. L’avaro si attacca a tutto anche alla pelle del pidocchio che certamente non avrà mai un acquirente, ma l’avaro in ogni momento pensa al guadagno. Nel nostro gergo, con valore simile all’espressione citata, c’è il detto: “N’ magna pe’ n’ caca’” (Non mangia per non cacare). Il detto può sembrare che faccia riferimento al pigro che, non avendo voglia neanche di defecare, ritenga di non dover mangiare; ma al contrario di quanto detto fa riferimento a chi (l’avaro) è talmente dispiaciuto di doversi liberare di qualcosa che gli appartiene (gli escrementi) che si astiene dal mangiare. Il detto fa anche riferimento all’avaro che è dispiaciuto di mangiare dato che il vitto comporta sempre una spesa e i suoi soldi vuoi tenerseli sempre ben stretti. Secco frusciato; mollo tzuppo (Asciutto bruciato; bagnato inzuppato). Le due espressioni hanno un rafforzativo: asciutto bruciato, bagnato inzuppato. Nel primo caso l’asciutto è tale che l’assenza di acqua è così assoluta che in quel certo qualcosa pare che ci sia passato il fuoco; nel 219 secondo caso il bagnato è tale che l’acqua non è solo passata sopra, ma vi è rimasta impregnata. Secco comme no spito (Secco come uno spiedo) In questa espressione “secco” ha valore di “magro” ed è come dire: “magro come uno spiedo”. Viene usato nei confronti di persona o animale che è ridotto tutto pelle ed ossa. Secondo l’ soldato j s’ da l’arma (Secondo il soldato gli si dà l’arma) Non tutte le persone sono uguali sia per caratteristiche fisiche che per personalità. È quindi naturale che ad ogni persona, nel caso specifico ad ogni soldato, venga data l’arma che gli è più confacente. Il nostro proverbio si usa per indicare che secondo i casi l’arnese più grosso viene dato al più robusto, quello più piccolo al più debole. In altri casi il proverbio sta ad indicare che gli incarichi vengono affidati secondo le capacità di ognuno. Semm arrivati a la fontana del papa (Siamo arrivati alla fontana del papa) Un tempo era uso andare in pellegrinaggio a Roma. Il lungo percorso era fatto a piedi e durava tanti interminabili giorni. Quando i pellegrini arrivavano nelle vicinanze del Vaticano la prima cosa che appariva loro era una monumentale fontana che 220 faceva bella mostra di sé, in mezzo ai giardini pontifici. Arrivati alla fontana - dove fra l’altro si ristoravano - erano arrivati a destinazione. Quando si dice “semm arivati alla fontana del papa” si vuoi dire che siamo arrivati alla fine dei nostri giorni. Semm d’acordo e n c’intendemme (Siamo d’accordo, ma non ci capiamo) Avviene spesso che due persone che intendono dire o fare la stessa cosa siano in disaccordo perché non riescono a chiarire i termini del loro dire o del loro fare. Una volta arrivati ad un chiarimento i due si rendono conto di essere d’accordo sull’essenziale del discorso o sulle modalità di eseguire un certo lavoro. Se nn è ’n lupo è ’n cane nero (Se non è un lupo è un cane nero) Questo detto si ricollega ad un aneddoto che circolava nelle nostre campagne quando ero piccolo. Uno spaccone un giorno racconta di aver visto di notte lungo un sentiero di campagna un lupo. Agli amici che gli fanno notare che da noi i lupi non esistono, quel tale si giustifica dicendo che forse era un cane nero. Quando i presenti gli fanno notare che nella zona nessuno possiede un cane nero, risponde che forse quello che ha visto era una giacchetta. Gli amici lo incalzano facendogli notare che essendo in estate nessuno poteva aver lasciato nel campo una giacchetta. Allora quel tale ammette che forse era un... ciocco! Il detto sta ad indicare che anche se ciò che si dice non è forse del tutto vero, ci sarà pur sempre un minimo di verità. 221 S’è rincigulito tutto (Si è rimpicciolito tutto) La parte mediana del termine “rincigulito” comprende la parola “cigolo” o “cigulo” che significa piccolo; “rincigulito” quindi significa “ritornare piccolo”. Il termine si usa per indicare indifferentemente persona, animale o cosa che, per qualsiasi ragione, si è rimpicciolita. Se sgappo da ’sta cacata, i sorbi nn i magno più (Se riesco a defecare, le sorbe non le mangio più) È notorio che le sorbe sono frutti particolarmente astringenti e quindi causano stitichezza in chi le mangia. La frase è detta da chi si trova in difficoltà per essersi comportato in una certa maniera piuttosto che in un’altra. Ora si è pentito e non vede l’ora di uscire da quella brutta situazione. Sete parenti? Sci, mamma mia e... (Siete parenti? Sì, mia madre e...) Capita spesso che vedendo due persone insieme molto affiatate chiediamo loro se sono parenti. A volte uno dei due ci da una risposta alquanto singolare per spiegarci che non c’è parentela. Ironicamente ci risponde: “Siamo parenti perché mia madre e sua nonna stendevano i panni da asciugare allo stesso sole”. Insomma fra i due l’unica parentela è il sole che è comune a tutti. Se voi servì l’amico: carne d’ carpa e legna d’fico 222 (Se vuoi servire l’amico: carne di capra e legna di fico) L’espressione è ironica. La carne di capra - non quella di capretto - è fra le peggiori e così è per la legna di fico che produce molta cenere e poco carbone. Sfortunata è la capra che n’ c’ha la coda (Sfortunata è la capra che non ha la coda) Ci sono persone che quando le cose non gli vanno per il verso giusto invece di reagire se la prendono con la sfortuna. A queste persone che continuano ad insistere di essere sfortunate viene loro detto che sfortunata è solo la capra semplicemente perché, poverina, non ha... la coda! S’ guadagna (o s’ pia) quel che s’ tira coi denti (Si guadagna (o si prende) quello che si tira con i denti) Tirare coi denti significa mangiare; quindi chi si guadagna quello che tira con i denti è chi riceve come ricompensa solo quello che mangia. L’espressione oggi può sembrare incomprensibile ma ritornando indietro nel tempo il detto ha una sua logicità. Ancora nel dopoguerra nelle campagne c’erano i “nolanti” che andavano a lavorare nei campi quando gli agricoltori li chiamavano. Per i lavori più importanti, questi braccianti agricoli venivano pagati, ma quando si trattava di altri lavori meno importanti ci andavano solo per mangiare. Era proprio il caso di dire che si guadagnavano quello che tiravano con i denti. 223 Sia di Venere che di Marte non si sposa, non si parte, non si dà principio all’arte È una creenza popolare molto radicata un po’ ovunque. Questo pregiudizio resiste ancora oggi: chi non ha sentito dire che il venerdì porta sfortuna? Se poi il venerdì cade nel giorno diciassette... Si era ’n cane m’aveva morso! (Se era un cane mi aveva morso!) A volte si cerca affannosamente una certa cosa e si rovista un po’ ovunque senza arrivare ad un risultato concreto. Poi quando si è perduta la speranza di ritrovarla ci si accorge che era lì a portata di mano e che non c’era bisogno di cercarla chissà dove. In quel momento ci viene spontaneo esclamare: “Si era ’n cane m’aveva morso!” che è come dire: “Se quella cosa fosse stata un cane mi avrebbe morso”, tanto era vicina. Signore, datme la salute, la pace, ’l grano, ’l vino, i soldi da spende... e doppo n’ v’ domando più gnente (Signore, datemi la salute, la pace, il grano, il vino, i soldi da spendere... e dopo non vi domando più niente) Questo detto un po’ sarcastico è la preghiera di quegli agricoltori che nella vita vogliono un po’ troppo. Si tratta di quelle persone che non si accontentano mai e vogliono sempre molto di più degli altri e molto di più di quanto possono realmente avere. E la preghiera dei ricchi è: “Signore, fate tribola’ i poretti perché loro c’enne abituati” (Signore, fate tribolare i poveri perché loro ci sono abituati). 224 Si i birbe n’ s’fregasene, i cojon comm’ campariene? (Se i furbi non si fregassero, i fessi come camperebbero?) Il detto vuoi rimarcare che anche i furbi a volte incorrono in errore e se così non fosse i fessi come potrebbero tirare avanti? È normale che quelli che possono sembrare infallibili commettano errori madornali come tutti gli altri. Si la Vecchia n’ fà la bava poco cece e meno fava (Se alla Vecchia non piove saranno magri i raccolti di ceci e di fave) La Quaresima, per sue certe caratteristiche, veniva simbolica mente rappresentata come una vecchia brutta e piuttosto antipatica. La Quaresima non era ben vista e per questo si pensò di renderla più accetta dimezzandola. Così a mezza Quaresima si fa un po’ di baldoria; nei tempi passati era uso andare per la questua di casa in casa cantando stornelli e fingendo di tagliare con una sega la gobba della Vecchia, impersonata da uno del gruppo. A mezzanote fra grandi falò si segava effettivamente in due un pupazzo che rappre sentava la Vecchia. Originariamente “Segalavecchia” stava ad indicare la mezza Quaresima che oggi viene chiamata semplicemente “la Vec chia”. Ed è proprio nel periodo della Vecchia che secondo il nostro proverbio dovrebbe piovere per sperare in un buon raccolto di ceci e di fave. 225 Si l’ culo avesse paura dia merda n’ cacarìa mai (Se il culo avesse paura della merda non cacherebbe mai) È questo un detto poco fine, ma dal momento che esiste non si può fare a meno di menzionarlo. Si usa per dire che se una persona avesse paura di fare una cosa di per sé normale non farebbe mai niente. È un incitamento all’operosità senza remore di alcun genere. Si uno fusse indovinello n’ saria poverello (Se uno fosse indovino non sarebbe povero) Indovini, astrologi, chiaroveggenti e maghi asseriscono di prevedere il futuro. Gli unici a mio parere che possono prevedere il futuro sono i metereologi quando fanno le previsioni del tempo a breve Solo comme ’l cucco (Solo come il cuculo) Il cuculo, uccello migratore che proviene dai tropici, arriva da noi ai primi di aprile, nidifica e poi riparte tra luglio e agosto; prima partono gli adulti, gli ultimi a partire sono i giovani. Ogni uccello parte da solo e non in branchi come fanno tutti gli altri uccelli. È noto che il cuculo non costruisce un nido proprio ma depone le sue uova nei nidi degli altri uccelli deponendo di solito un uovo per nido. Per fare questo la femmina del cuculo osserva gli altri uccelli mentre nidificano. Quando il nido è al completo e l’ignaro genitore adottivo ha deposto un uovo O cuculo sceglie il momento in cui la madre adottiva è assente, tira fuori l’uovo dal nido, lo avvinghia e lo fa cadere, poi molto rapidamente depone quello proprio. Quando il piccolo del cuculo è diventato abbastanza robusto spinge i suoi 226 fratellastri fuori dal nido e rimane solo. Il detto “solo comme ‘1 cucco” si usa per indicare una persona che vive sola, ma soprattutto che si ritrova sola perché non ha amicizie. Sòna la battistrangola (Suona la...?) Dal Giovedì Santo fino al Sabato Santo le campane tacciono e così in passato per le vie del paese si suonava la “battistrangola”, una tavola di legno munita di due battagli di ferro che produceva dei rumori sordi. Sòna p’ l’acqua bona (Suona per l’acqua buona) Quando in estate si addensano improvvisamente nel ciclo nuvole nere c’è sempre pericolo di tempeste con grandine. Un tempo era O campanaro che suonando le campane prima e durante il temporale a volte riusciva ad evitare la caduta della grandine. Sòna p’ l’ang(io)letto (Suona per l’angioletto) Era il suono festoso col quale la Chiesa annunciava la... salita al ciclo dell’anima di un fanciullo. Un tempo data l’alta percentuale di mortalità dei neonati era cosa di ordinaria amministrazione ascoltare questo tipico suono di cam pane. E la gente fermandosi ad ascoltare commentava: “Sona p’ l’an gioletto”. 227 “Sordo cmme ’n greppo” (Sordo come un greppo) Dal momento che i greppi non hanno udito, paragonare una persona ad un greppo equivale ad indicare chi è del tutto privo dell’udito (o chi vuoi sembrare tale). Spellaria ’l pidocchio per pia’ la pelle (Spellerebbe il pidocchio per prenderne la pelle) L’espressione si addice al taccagno che fa di tutto pur di accumulare ricchezze. Dello stesso valore è l’altra espressione già citata: “N’ magna pe’ n’ caca’” (non mangia per non defecare). Sta a cul puzzone (Sta col sedere in aria) Tipico di chi fa certi lavori come la raccolta dei prodotti della terra o di chi fa la lavandaia. Sta a la musa (Sta a guardare) Può trattarsi di una persona, ma più spesso di un animale che sta senza mangiare perché costretto. Così può essere delle vacche che stanno a la musa perché legate alla greppia ed alle quali nessuno porta da mangiare o anche del cane alla catena. Chi “sta a la musa” sta a guardare, aspetta, cerca il cibo con gli occhi. 228 S’ tacca anche nti spini (Si appiglia anche agli spini) Si dice di chi è avaro oltre misura. Sta coi frati e sappa l’orto (Sta coi frati e zappa l’orto) Il detto indica una certa persona che fa quello che vogliono gli altri e molto spesso viene citato per indicare chi non contraria mai gli altri, anche se a volte si comporta così per il quieto vivere, per evitare discussioni. St’anno ’n bresciolo ’n antr’anno ’n fiolo (Quest’anno un foruncolo l’anno prossimo un figlio) I foruncoli sono mali di gioventù e che cosa c’è di meglio per farli sparire se non lo sposarsi ed avere dei figli? Sta su ’n fico e ’na pacca (Da importanza ad un fico e mezzo) La “pacca” è la metà di qualcosa. Si dice “pacca” quella del maiale, ma anche quella della porta, quando questa è divisa in due parti. Il detto fa riferimento ai fichi che sono stati sempre considerati come dei frutti di poco valore sia perché gli alberi del fico allignano un po’ dappertutto sia perché i frutti sono facilmente deperibili. Chi “sta su ‘n fico e ‘na pacca” è chi guarda le cose di poco valore o 229 perché non ne trova di importanti o perché non sa distinguere quelle importanti da quelle secondarie. Il detto sta ad indicare chi si attacca anche a pochi spiccioli. Sta su per pradca (Sta su per pratica) Si dice di persona molto debole o ubriaca che sta in piedi perché è una cosa che fa da quando ha imparato a stare in piedi. Sta tzitto che nne sbaj mai (Stai zitto che non sbagli mai) Pasquale era un fattore che amministrava pochi contadini ma che sapeva il fatto suo. Un sabato Berto della Grigia portò a vendere i suoi maiali alla fiera a Pergola e Pasquale, che era il suo fattore, gli raccomandò di non chiacchierare tanto, come era suo solito. Gli fece sistemare i maialini in un punto della fiera che sembrava favorevole per la vendita e poi si allontanò dicendo: “Parla poco!”. Berto annuì ma col passare del tempo non vedeva l’ora di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno. Arrivarono alcune persone, osservarono i maialini e tirarono avanti, poi ecco il fattore con due nolanti intenzionati a comperare un maialino ciascuno. Pasquale si sbracciava mentre faceva le lodi dei maialini dicendo che erano figli di una grossa fattrice, che erano di bocca buona... e così via. Ma quando uno dei possibili acquirenti fece osservare che erano piccoli, Berto intervenne dicendo: “Nn guardate ch’enne picqui, ma ‘1 tempo ce l’hanne!” (Non guardate che sono piccoli, ma il tempo ce l’hanno!). A Berto sembrava di aver parlato bene, ma i presenti capirono che i maialini erano un po’ rachitici. 230 Fu allora che il fattore che quasi fuori dai gangheri si rivolse al contadino dicendo: “Te sta zitto, che nne sbaj mai!”. “Svelto comme ’na lucc’la” (Lesto come una lucciola) La lucciola, scintilla che sprizza dal fuoco, ha sempre un guizzo rapido e chi viene paragonato ad una lucciola è persona sempre pronta e lesta nell’eseguire un lavoro. T’amova ’l lecco! (Ti rinnova il boccino!) Il “lecco” è il boccino al gioco delle bocce. È detto “lecco” forse perché ogni giocatore cerca di far avvicinare ad esso - quasi a “leccarlo” - il più possibile le proprie bocce. “T’arnova il lecco!” ha valore di: “Ti mette a posto!”, o “Ti sistema!” (usati in modo ironico). T’ bocca prima ntel culo che nné ntla testa (Ti entra prima nel sedere che nella testa) I detti a volte sono un po’ sfacciati, ma l’intenzione è sempre buona: vogliono farci capire subito ed in maniera incisiva un insegnamento. H nostro detto si usava e si usa ancor oggi per indicare che certe persone le cose non le capiscono e non le capiranno mai anche se ripetute più volte ed in maniera semplice e chiara. Ma forse, più che di persone poco intelligenti, molto spesso si tratta di persone caparbie che continuano a pensarla a modo loro o non vogliono riconoscere che il punto di vista degli altri è più giusto di quello proprio. 231 Te cachi ntla latta (Tu cachi nella latta) Ad una persona che minaccia di fare chissà che cosa nei confronti di un’altra persona, quando si sa che non farà proprio niente di quanto minacciato di solito gli viene detto: “Te cachi ntla latta” che è come dire: “Tu non farai proprio niente fuori del normale”. Te cresmo! (Ti cresimo!) Quando ero piccolo ed insieme ai miei coetanei andavo a dottrina i grandi ci prendevano in giro per via della Cresima. Ci facevano credere che durante la funzione della Cresima il Vescovo piantasse un chiodo nella fronte di ogni cresimando e poi mettesse il nastro sulla fronte come benda. Questa innocente bugia di uso comune, a forza di ripeterla, era quasi diventata una mezza verità e l’espressione “te cresmo!” significava e significa tuttora: “ti picchierò fno a farti venire il sangue!”. Ci sono nel nostro gergo altre espressioni simili a questa, come: “Te gonfio!”, che può essere tradotto: “ti gonfierò la faccia!”; “te meno!”, che si traduce: “Ti picchio!”; “te le dò!”, “ti darò le botte!”; ed infine: “Buschi!”, cioè “buscherai!” nel senso “ti guadagnerai le botte”. Come si vede, un tempo era quasi norma farsi giustizia da soji forse perché non si aveva fiducia nella giustizia degli uomini, ma soprattutto perché non si era abituati a ragionare anche dal punto di vista degli altri. 232 Te l’fa p’ na prescia! (Te lo fa in fretta!) Il modo di dire è sarcastico e ha valore di “Non pensare che Tizio ti faccia questa cosa in fretta!”. Si usa quando quel Tizio è noto per rinviare le cose... alle calende greche. A proposito: rimandare alle calende greche vuoi dire rimandare a tempo indeterminato, semplicemente perché nel calendario dei Greci non esistevano le calende. Te l’fo de scarlancà, che n’ s’pò mette e n’ s’pò cava’ (Te lo faccio di “scarlancà”, che non si può mettere e non si può togliere) Quando ero piccolo e vedevo gli altri bambini con vestiti o scarpe un po’ particolari, era naturale per me chiedere a mia madre un vestito o un paio di scarpe simili. Mia mamma per non dirmi che lei non aveva la possibilità di comprarmi queste cose mi rispondeva in modo sibillino che me le avrebbe fatte (o comprate) di “scarlancà”. Era questa una parola che indicava un qualcosa di misterioso e nessuno mi ha mai detto di che cosa si trattasse. Solo quando sono diventato grandicello ho capito che mia madre - come tante altre persone - usava questa parola per indicare un qualcosa che non esiste e se così è, è ovvio che non si può né indossare né toglierselo di dosso. Temp’ d’ guerra enn più bugìe che zupp’ d’ terra (Tempo di guerra sono più le bugie che le zolle di terra) Ad illustrare il nostro proverbio basterebbe ripensare alle notizie 233 che abbiamo ricevuto durante la guerra del Golfo: a notizie date seguivano spesso smentite, quando non erano i fatti stessi a smentirle. Pensiamo per un attimo a noi, quali diretti interessati, come nel caso dell’ultima guerra mondiale; tenendo presente che allora i mezzi di comunicazione di massa - quali giornali e radio - erano scarsi, una notizia anche se vera, passata di bocca in bocca diventava tutta un’altra cosa da quella originale. Se poi si aggiunge che il regime del tempo era interessato a darci solo le informazioni che gli facevano comodo si può immaginare che quasi sempre si trattava di bugie. Tenga caldo e rida la gente Era il detto usato un tempo da chi si sentiva deriso perché era vestito male. Ma erano tempi quelli nei quali l’indigenza la faceva da padrona ed i capi di vestiario si riducevano allo stretto necessario. Tutti i contadini ad esempio, comprese le donne, avevano un abito da lavoro per tutti i giorni ed uno da la festa, buono per tutte le stagioni. Nonna Rosa portava la veste al rovescio e la rimetteva per il verso giusto la domenica! Di solito gli abiti da lavoro erano gli scarti di quelli da la festa. Era regola che i bambini più piccoli mettessero vestiti e scarpe “sfuggiti” (stretti) ai più grandi. L’agricoltore marchigiano spesso durante l’inverno portava un cappotto di bavella che era chiamato bagello (da bagio o baco), in primavera ed autunno portava un camiciotto chiaro, fatto di canapa, che gli arrivava fin sotto il ginocchio. Questo camiciotto, detto guazzarone, era trattenuto in vita da una cordicella. In testa portava una berretta ed in estate un cappello di paglia, mentre le donne portavano sempre il fazzoletto. Ai piedi l’agricoltore portava nell’inverno gli zoccoli con il fondo in legno, alto il doppio del normale, mentre andava scalzo in estate; nelle stagioni di mezzo a volte portava i 234 sandali che spesso eran fatti alla bell’e meglio da lui stesso. Il vestire male dipendeva sicuramente dalla povertà, ma in parte anche dal fatto che l’agricoltore lavorava nei campi e non in luogo pubblico. Le toppe nei vari indumenti come si può ben immaginare erano tante; spesso non si riusciva a capire quali fossero le parti che appartenevano all’originale. E questo era ancor più evidente in inverno quando col freddo l’agricoltore era infagottato con tanti indumenti stracci. Era naturale quindi che ci fosse chi rideva vedendolo vestito tanto male. Ed era allora che l’agricoltore si difendeva dicendo: “Tenga caldo e rida la gente”. Te n’ m’imburcini! (Intraducibile) Burcino è il moscerino. Chi vuole “imburcinare” vuoi mettere i moscerini negli occhi dell’interlocutore. Questo è un modo di dire, cioè un’espressione che contiene qualcosa di immaginario come ad esempio “Fare i castelli in aria”. Il nostro modo di dire vuoi indicare che a volte una certa persona ci vuoi mettere i moscerini negli occhi; cioè ingannare. Noi però non ci lasceremo ingannare e subito precisiamo: “Te n’ m’ imburcini!”. Te nnel sai quanti giri fa ’na boccia (Tu non lo sai quanti giri fa una boccia) È impossibile o quasi sapere quanti giri possa fare una boccia lanciata da un giocatore. È una espressione data in risposta a chi pone una domanda alla quale non è facile rispondere. Una volta chiariti certi punti ci si rende conto anche del perché dei tanti giri. 235 Te parla quant’ piscia la gallina (Tu parla quando piscia la gallina) Questa espressione viene rivolta a chi si intromette a sproposito in una discussione animata fra due persone ed è come dire: “Tu stai zitto!”. Il malcapitato infatti per parlare dovrebbe aspettare che pisci la gallina, cioè non dovrebbe parlare mai. Te sdovezza! (Ti svezza!) Ha valore di: “ti sveglia!”. È detto di chi, avendo fatto qualche scherzo un po’ pesante, è stato ripagato con la stessa moneta più gli interessi. Te se’ comme ’l vogolo del biroccio: sei sempre d’ dietro (Sei come il volgolo del biroccio: sei sempre di dietro) H volgolo è quel rullo che si trova dietro al biroccio e che serve per tirare le corde avvolgendole attorno a se stesso al fine di fissare saldamente il carro. Il volgolo serve anche per far scorrere la corda della martinicca o freno del carro. Essendo l’ultimo pezzo del carro viene paragonato a chi è ultimo per importanza e che pertanto non conta proprio niente. Te sei matto anche nti pagni (Tu sei matto anche nei vestiti) Questo modo di dire si usa nei confronti di chi fa o dice cose del tutto fuori del normale. 236 Te sei sporco, ma io n’ m’ lavo mai (Tu sei sporco, ma io non mi lavo mai) La Peppa d’ Palchetto era una donna sveglia e senza tanti peli sulla lingua. Un brutto giorno si trovò improvvisamente vedova per la morte di suo marito Adelmo. La donna si trovò a dover sbarcare il lunario da sola senza alcun aiuto né da parte dei parenti né da parte del Comune. Ma se la cavò bene in ogni occasione e per sfamare i suoi tre figli ancora in tenera età andò a fare il pane dal fornaio. Un giorno capitò a casa sua un venditore ambulante di scarpe che, non riuscendo a concludere il prezzo, le propose uno scambio: un paio di scarpe da donna di pelle lucida in cambio di quattro conigli. La Peppa osservò le scarpe con molta attenzione... e poi disse al venditore: “Te sei sporco, ma io n’ m’ lavo mai. ‘Ste scarpe enne d’cartone!” (Tu sei furbo, ma io ti supero. Queste scarpe sono di cartone). Te sono l’Emmaria co’ la bigonza! (Ti suono l’Ave Maria con la bigoncia!) La bigoncia è un recipiente di legno, alto e stretto, con fondo di forma ovoidale e che, pur allargandosi, mantiene tale forma fino alla bocca. La bigoncia si usava per trasportare l’uva da pigiare. Un tempo sul far della sera si udiva il suono delle campane che invitava i fedeli a recitare l’Ave Maria o più esattamente l’Angelus Domini. Il suono della campana a quell’ora ricordava a tutti che la giornata volgeva al termine - allora l’orologio non era di uso comune -. Per chi si trovava nei campi a lavorare - a meno che non avesse dovuto portare a termine un lavoro urgente - era l’ora del rientro per accudire al bestiame o alle faccende di casa. Il suono dell’Ave Maria era squillante e si udiva anche a grande distanza. Chi avesse voluto 237 “suonare l’Ave Maria con la bigoncia” avrebbe dovuto battere sulla bigoncia con forza sovrumana. Il modo di dire significa: “Te le darò belle”, “Ti colpirò con tanta forza!”. Te va giù fra latte e sangue (Ti va giù fra latte e sangue) Latte e sangue sono sinonimi di salute. Il nostro detto “te va giù fra latte e sangue” sta ad indicare un cibo o una bevanda che quando vengono ingeriti danno un senso di piacere e di benessere. T’ fa d’ gozzo (Ti fa di gozzo) Il gozzo è la parte sporgente dell’esofago ed il nostro modo di dire ha valore di: “ti fa gola”, “ti fa venir gola”. E detto quando qualcuno mostrandoti un certo cibo ti fa venire l’acquolina in bocca, ma anche quando fa qualcosa per farti invidia o per farti venir voglia di una certa cosa. T’fa ’l cul nero (Ti fa il sedere nero) Questa espressione in senso letterale sta ad indicare che riceverai una tal dose di sculacciate che il tuo sedere diventerà nero per i lividi. Il detto in generale significa: riceverai una mortificante sconfitta. 238 T ‘fa ’l piombo?! (Ti fa il piombo?!) Il detto sembra uscito dalla bocca di un cacciatore che dopo molto penare dietro ad una preda è riuscito nel suo intento. Piombo sta per pallini da caccia e nel caso citato è il piombo che è riuscito a far sentire la sua forza. T’ fa ’na testa come ’n mazzo (Ti fa una testa come un mazzo) “Mazzo” è una grossa mazza di legno. Si tratta di un blocco di legno ricavato di solito dall’ultimo pezzo di tronco - dalla parte della Il detto in senso figurato si usa nei confronti di chi non volendo fare una certa cosa è stato poi costretto con le maniere forti a farla o ad assumere un certo atteggiamento. T’ fo magna dal Bobò (Ti faccio mangiare dal Bobò) Il Bobò è un essere pauroso, non bene identificato, che viene sempre messo davanti per incutere spavento ai bambini per convincerli a fare o non fare una certa cosa. A volte devono smettere persino di piangere se non vogliono essere mangiati dal Bobò. Oggi questo comportamento dei grandi viene decisamente condannato dagli esperti dell’educazione. 239 T’fo ‘na faccia comme ’n pallone (Ti faccio una faccia come un pallone) Questo detto molto colorito ha lo stesso significato di “T’ gonfio!”. Entrambi corrispondono al detto in lingua italiana: “Te le dò di santa ragione”. Il primo dei nostri due detti ci da l’idea che la persona picchiata alla fine ha la faccia gonfia come un pallone, mentre il secondo ci da l’idea che la persona picchiata si ritrova gonfia in genere. Il secondo detto è dunque minaccioso quanto il primo, anzi sembra voler dire: “Ti gonfio in tutto il corpo”. Tien su ’ l fiato sa i denti (Trattiene il fiato con i denti) Modo di dire che si usa per indicare una persona che trattiene il fiato - cioè la vita - con i denti. Si riferisce a persona estremamente debole alla quale resta un sottile filo di vita. Simile a questo c’è quell’altro modo di dire, già citato: “Sta su per pradca”. Tira ’l vento e baja ‘l cane nte la mattra n’ c’è più ’l pane nte la botte n’ c’è più ’l vino farò ’l mestier del contadino (Tira il vento e abbaia il cane nella madia non c’è più il pane nella botte non c’è più il vino farò il mestiere del contadino) Mancano pane e vino e la soluzione è solo quella di produrli: fare il contadino. 240 Tira più ’n pelo d’fica che ’n par d’ bua (Tira più un pelo di fica che un paio di buoi) I buoi erano il simbolo della massima potenza. Ma se i buoi riescono a fare grandi cose, il sesso femminile riesce a fare molto di più. E la storia delle Eve e delle Cleopatre di ieri e di sempre! T’ lamenti del brodo grasso?! (Ti lamenti del brodo grasso?!) Spesso ci capita di imbatterci in persone benestanti che si lamentano della propria situazione economica; e lo fanno talmente bene che se non le conoscessimo finiremmo col dar loro una piccola offerta. Queste sono le persone che si lamentano del brodo grasso. Il detto viene rivolto a chi si lamenta senza ragione del proprio stato di benessere. T’ leva la sete co’ l’osso del presciutto (Ti leva la sete con l’osso del prosciutto) E detto quando qualcuno ti fa pagare qualcosa ad un alto prezzo. Chi ti leva la sete con l’osso del prosciutto, facendo una certa cosa ti peggiora la situazione. La sete infatti non si toglie con qualcosa di salato come è l’osso del prosciutto. Tocca a te comm’ l’osso pel cane! (Tocca a te come l’osso per il cane!) Si sa che il cane mangia gli ossi anche perché la carne... se la mangia il padrone! Che al cane tocchino gli ossi è una legge che vige 241 da sempre ed alla quale il cane non può sfuggire salvo casi eccezionali. Il proverbio si usa per dire che tu devi fare una certa cosa e non puoi sfuggire. Tocca fa’ ’ na croce ndo’ che n’ s’arguasta (Bisogna fare una croce dove non si disfa) Si dice quando qualcuno fa un gesto inaspettato o fa un lavoro che non aveva mai fatto in precedenza o quando avviene qualcosa di positivo che sembrava non potesse mi avvenire. Tocca gi’ arguasta’ la fattura (Bisogna andare a “guastare” la fattura) Secondo una credenza popolare esistono persone in grado di eseguire operazioni malefiche (fatture) su altre persone mediante un guardare insistente e invidioso (il malocchio). Le fatture possono essere rivolte su persone, animali e cose. Per quanto riguarda le persone e gli animali questi possono ammalarsi, avere breve vita o addirittura morire. Per quanto riguarda le cose possono essere rese inservibili o passare ad altro proprietario. La fattura può essere annullata solo da persone capaci di farlo; il più delle volte sono quelle stesse che le fanno! Secondo una credenza popolare per “arguasta”’ la fattura i fattucchieri usano sgozzare una gallina nera ad un crocevia in una notte di luna piena oppure, sempre in un crocevia, bruciano un cuscino per la fattura ad un adulto, un “pisciotto” nel caso che si tratti di un bambino. Ma chi crede alle fatture e al malocchio si premunisce: inchioda sulla porta della stalla il ferro di cavallo a protezione del bestiame; porta sempre con sé un oggetto con potere di tener lontano ogni 242 maleficio. Può scegliere indifferentemente fra i tanti: il fiocchetto rosso, il gobbetto, il cornetto, il pelo del tasso, il tredici, il ferro di cavallo. Ma nel caso che non abbia niente addosso, quando si avvicina una persona sospetta esser capace di fare fatture o malocchio, incrocia le dita della mano sinistra accavallando il dito medio sopra l’indice. Questo modo di fare è un “fare fico”. Toccaria mettij la bardella (Bisognerebbe mettergli la “bardella”) “Bardella” è la tela che si mette al ventre del birro per impedirgli in certi periodi il rapporto sessuale con le pecore. L’espressione oltre che riferita all’ariete è detta anche nei confronti di certi giovanotti... un po’ troppo esuberanti. Tocca scuprì ’ l Crucifisso (Bisogna scoprire il Crocefisso) Di solito il Crocefisso viene scoperto dal sacerdote quando c’è stato un avvenimento fuori del normale. Il detto viene rivolto a chi ha mangiato oltre misura, per dire che quello è un fatto del tutto fuori dalla normalità. Tocca sta’ comm’ la foja su l’albero (Bisogna stare come la foglia sull’albero) Come sta la foglia sull’albero? È sempre in attesa di cadere. Nella stessa situazione si possono trovare certe persone che si aspettano che da un momento all’altro succeda qualcosa di poco piacevole. È 243 il caso ad esempio di un bambino molto vivace che va dappertutto e tocca o prende quello che vede; chi lo segue - in genere la mamma si aspetta che da un momento all’altro combini qualche guaio e per questo “sta’ comm’ la foja su l’albero”. T’puzza la salute! (Ti puzza la salute?) Questo monito viene rivolto al piantagrane per ricordargli che c’è anche chi può fargli perdere la salute somministrandogli una buona dose di botte. Espressione simile a questa è quella seguente. T’puzza ’ l fiato? (Ti puzza il fiato?) L’espressione significa: “Ti dispiace respirare?”. Viene rivolta a chi cerca la lite ad ogni costo. Naturalmente anche costoro possono trovare “’1 pan p’i denti lora!” (il pane per i loro denti!). Tra ’ l fugge e ’ l corre... (Tra il fuggire ed il correre...). Il detto viene usato per significare che due cose possono sembrare diverse ma che in realtà sono la stessa cosa. Tra l’imbra e l’ambra (Tra lume e oscuro) “Imbra” è una parola storpiata che sta al posto di ombra, mentre 244 “ambra è una resina trasparente. “Tra l’ombra e l’ambra” è la via di mezzo fra la luce ed il buio, situazione che si verifica all’alba ed al crepuscolo. Tre cose gabbne ’ l villano: credenza, bon mercato e piove piano (Tre cose gabbano il villano: il credito, il buon mercato e la pioggerellina) Il termine “villano” non sta ad indicare una persona sgarbata, ma semplicemente chi abita in campagna, cioè il contadino che è “persona del contado” (territorio attorno ad un centro). In questo proverbio il contadino è visto come persona ingenua, diversamente dall’altro proverbio in lingua italiana che dice: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”, cioè il contadino può essere mal vestito, ma è intelligente. Il contadino, persona notoriamente povera, come poteva non venire attirato dal credito che gli veniva fatto per cose che costavano poco o dalla pioggerellina con la quale spesso conviveva? A proposito di pioggerellina, spesso si sente dire che “tanto è acqua che non bagna” e l’origine di questo detto si fa risalire a quel tale che avendo rubato una gallina e avendola nascosta dentro l’ombrello, a chi gli chiedeva perché non aprisse l’ombrello dal mometo che stava piovendo, rispose: “Questa è acqua che n’ bagna!”. Trist’ chel dente ch’ magna la somente (Cattivo quel dente che mangia la semente) Un tempo in certi anni di carestia succedeva a volte che l’agricoltore si trovasse nella necessità di dover macinare le granaglie 245 destinate a seme. Il seme per eccellenza a quei tempi era il grano, poi veniva il granoturco; grano e granoturco erano i principali alimenti con i quali si faceva il pane. Ed il mangiare era mangiare pane, alternato a polenta. Quando il seme veniva mangiato ancor prima di essere seminato voleva dire che si era proprio in una situazione disperata. Trist’ chel piatt’ eh’ seti’ ma’ rastellan (Cattivo quel piatto che sette mani lo rastellano) Dopo la minestra o la polenta, raramente la pastasciutta, sulla tavola apparecchiata di un tempo si mettevano: la “bocaletta” (boccale dell’acqua), il fiasco del vino, un unico bicchiere ed un “reale” che conteneva il secondo. E proprio questo è il piatto indicato dal nostro proverbio attorno al quale sette mani (persone) prendono il cibo, proprio come fa il rastrello che va avanti e indietro. Il piatto è detto “tristo” che letteralmente significa cattivo, ma nel nostro caso ha valore di “maledetto”, perché non riesce a sfamare le tante bocche che gli stanno attorno. T’ rode ’ l culo? (Ti rode il sedere?) Il detto viene rivolto con ironia a chi si mostra acido, invadente o chi sparla con invidia. Spesso non si attende neanche la risposta e si suggerisce il rimedio: “Grattilo!” (grattatelo!), che è come dire: “Arrangiati! Io non posso farti niente”. 246 Trova’ Cristo ntl’orto (Trovare Cristo nell’orto) Il modo di dire significa avere fortuna o comunque avere vita facile. Chi abita in campagna dispone di un orto che cura amorosamente e che difende gelosamente. Ecco un curioso dialogo che si svolge di notte fra un ladro di cavolfiori che si trova nell’orto ed il padrone che si è affacciato alla finestra della sua camera per vedere chi è: - Chi è giù st’orto? - È ’ n’ anima senza corpo. - Co’ s’ fa ntl’altro mondo? - S’ pin pel collo e s’ tajen dal fondo. - Quant’ se ne salva? - Quei bei nisciuno, quei brutt’ tutti. - Salutate ’ 1 por mi’ patre. - Chiudit’ la fnestra e n’ dubitate. Rispondendo alla prima domanda, il ladro dichiara di essere un’anima, ma più avanti fa riferimento ai cavolfiori. Il padrone dell’orto continua a fare domande perché crede che le risposte si riferiscano sempre al mondo dell’aldilà, mentre il ladro parla dei cavolfiori. T’ vojo bene comm’ a ’ na covata d’ sorce (Ti voglio bene come a una covata di sorci) I topi di campagna si moltiplicano con facilità e perciò sono diffusi un po’ ovunque. Da sempre sono nemici dichiarati degli agricoltori ed è facile capire come l’espressione venga usata in modo sarcastico, perché ai sorci di bene non gliene vuole proprio nessuno. 247 Un d’ meno e ’ n pezz’ d’più (Uno di meno e un pezzo di più) Il detto viene usato quando in un gruppo manca qualcuno e c’è qualcosa da spartire fra i presenti. Il dividendo potrebbe essere solo una porzione di cibo, ma potrebbe essere anche un dividendo in beni o in denaro. All’origine il detto faceva riferimento soprattutto ad un pezzo in più che c’era sulla tavola per i commensali. Uno sul forno e un su la pala (Uno dentro al forno ed uno sulla pala) Per capire questo proverbio dobbiamo pensare al fornaio intento al suo lavoro: ha sistemato una fila di pane dentro al forno, mentre un’altra fila è già pronta sulla pala e sta per essere infornata. Le due file di pane rappresentano due persone che stanno per fare la stessa fine nel giro di poco tempo: si tratta quasi sempre di due persone o molto vecchie o molto mal ridotte: è come dire che una è morente e l’altra è poco lontano. Va inciampella (Va inciampando) Con questo modo di dire si vuole intendere chi accenna ad incespicare o barcolla per debolezza e per ubriachezza. Va in scirisciola (Va vestito in maniera leggera) Chi “va in scirisciola” è persona che durante la brutta stagione va in giro in maniche di camicia. 248 Vall’ a badurlà (Vallo a trastullare) La frase viene rivolta a chi deve trastullare un bambino che piange. Di solito il bambino viene preso in braccio e cullato mentre gli si canta “staccia minaccia” o qualche altra nenia. Nel nostro gergo c’è un’altra espressione di valore simile: “È comme un dindio quant’ ha avut’ ‘na scannata” (è come un dindo quando ha avuto una scannata). Anche in questo caso si vuoi evidenziare un senso di intontimento. Vecchie enne le strade! (Vecchie sono le strade!) È noto che le strade (o meglio i sentieri) furono tracciati fin da quando sulla faccia della terra comparvero i primi uomini. È naturale quindi che le strade siano vecchie. Quando qualcuno dice di essere vecchio, generalmente per fargli coraggio gli si risponde:”Vecchie enne le strade!”. Vede la diavla (Vede la diavola) Vedere il diavolo è stato sempre sinonimo di spavento e di tribolazione. La diavola o la diavolessa era per i nostri bisnonni un essere che incuteva terrore ancora più del diavolo stesso. Chi “vedeva la diavla” era una persona che viveva tra fame e stenti lavorando dalla mattina alla sera. Chi “vede la diavla” ancora oggi è una persona che deve affrontare una vita molto difficile. 249 Verde comme l’ajo Nero comme ’l carbone. Giallo comme ’n fango. Bianco comme ’n pezz’ d’ carta. Roscioo comme ’l foco (Verde come l’aglio. Nero come il carbone. Giallo come un fungo. Bianco come un pezzo di carta. Rosso come il fuoco) Per rendere più evidenti i colori spesso si usano fare dei paragoni: così il verde è il colore dell’aglio, il nero è il colore del carbone (spento), il giallo è il colore di una certa varietà di funghi, il bianco è il colore della carta, il rosso è il colore del fuoco. Si dice anche “roscio “nfrangato” nei confronti di chi è diventato rosso in viso in seguito ad una corsa o per febbre, ira o vergogna. Voi sempre ’l meccolo (Vuole sempre “qualcosa di speciale”) “Meccolo” (o “leccolo”, meno usato) sta ad indicare una cosa particolare da mangiare. I bambini, si sa, non mangiano sempre volentieri. Un tempo quando il cibo era scarso e non era gradito al palato i bambini erano quelli che più di ogni altro si rifiutavano di mangiare e così le mamme cercavano per questi figli un po’ schizzinosi dei cibi particolari al posto del solito tozzo di pane più o meno ammuffito. In tal modo questi bambini si abituavano a mangiare - a tavola o quando sbocconcellavano - qualcosa di diverso dagli altri componenti della famiglia; mangiavano, come si dice ancor oggi in gergo, “arcapato” (scelto). Naturalmente questo qualcosa di diverso era sempre una piccola 250 quantità e così il “meccolo” stette anche per indicare una piccola rimanenza di cibi a tavola; di solito chi sta per sparecchiare dice: “Finisc’ d’ magna chel meccolo” (finisci di mangiare quel poco che resta). 251 252 Luigi Speranzini è vissuto a S. Lorenzo in Campo (Pesaro). Figlio di coltivatori diretti, dopo il diploma magistrale si è laureato in Pedagogia all’Università di Urbino. Ha fatto il segretario della scuola media a S. Lorenzo in campo. Vincitore di concorso ha insegnato per molti anni alle scuole elementari di Caravaggio (Bergamo) e poi in seguito ad un nuovo concorso è rientrato nella provincia di Pesaro insegnando per lo più al suo paese di origine. Ha coltivato molti hobbyes: da quello dello sbalzo del rame a quello della tassidermia, da quello della lavorazione delle terrecotte a quello del teatro dialettale e studio del dialetto. Scrittore, autore tra gli altri, del libro “Una civiltà al al tramonto” edito nel ‘92 dall’ AGE - Urbino. 253