unità
II
L’autunno
del Medioevo
Riferimenti storiografici
1
Nel riquadro miniatura del xv secolo che raffigura la battaglia di Crécy,
combattura tra francesi e inglesi nell’ambito della guerra dei cent’anni.
Sommario
1
2
3
Le origini asiatiche della peste
La peste: una malattia socialmente
ingiusta
L’appropriazione del tempo da parte dei
mercanti
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
4
5
6
L’industria tessile nel Tardo Medioevo
La centralità della morte nella religiosità
tardo medievale
Urbanistica e potere nell’Italia
del Quattrocento
1
Le origini asiatiche della peste
UNITÀ II
Prima di colpire l’Europa, la peste dilagò in Cina. La sua diffusione verso Occidente venne facilitata dal fatto che le grandi pianure della Russia e dell’Asia centrale, appartenendo all’immenso Impero dei mongoli, potevano essere attraversate con
relative regolarità e velocità dalle carovane dei mercanti.
l’autuNNo del medioevo
2
Nel periodo del massimo potere (1279-1350) gli imperi mongoli comprendevano l’intera Cina e quasi tutta
la Russia (solo la lontana Novgorod restava indipendente), nonché l’Asia centrale, l’Iran e l’Iraq. Una rete di
comunicazioni costituita da messaggeri postali capaci di
percorrere cento miglia al giorno per intere settimane di
seguito, e carovane di mercanti ed eserciti, che procedevano più lentamente percorrendo avanti e indietro
enormi distanze, tennero uniti questi imperi fino al sesto
decennio del XIV secolo, quando la rivolta divampò in
Cina determinando nel 1368 la completa espulsione
dei Mongoli dalla loro più ricca conquista. [...] Le comunicazioni istituite dai Mongoli ebbero un’altra importante conseguenza. Numerose persone non solo viaggiarono per lunghissime distanze, attraversando frontiere
culturali ed epidemiologiche, ma percorsero l’itinerario
più settentrionale che fosse mai stato intensamente
battuto. L’antica Via della seta fra la Cina e la Siria attraversava i deserti dell’Asia centrale, passando da
un’oasi all’altra. Ora, oltre a questo vecchio itinerario, le
carovane, i soldati e i corrieri postali percorrevano a cavallo l’aperta prateria. Essi crearono una rete umana che
copriva un vasto territorio e che univa i quartieri generali mongoli di Karakorum con Kazan e Astrachan sul
Volga, con Caffa in Crimea, con Kambaliq in Cina e con
innumerevoli altri caravanserragli situati lungo il percorso. [...]
Dai documenti cinesi non emerge nulla di inconsueto prima del 1331, quando un’epidemia scoppiata
nella provincia di Hopei, secondo le fonti, uccise i nove
decimi della popolazione. Analogamente, (negli anni
1353-54) l’epidemia infuriò in otto diverse e distanti
zone della Cina, e i cronisti riferiscono che morirono fino
a «due terzi della popolazione» [...] Dopo il 1331, e più
particolarmente dopo il 1353, la Cina iniziò un periodo
disastroso della propria storia. La peste coincise con la
guerra civile nel periodo in cui iniziò a svilupparsi una
reazione della popolazione cinese contro la dominazione mongola, che culminò col rovesciamento dei sovrani stranieri e con l’instaurazione di una nuova dinastia
Ming nel 1368. La combinazione di guerra e pestilenza
compì una devastazione tra la popolazione cinese. Secondo le valutazioni più attendibili vi fu una diminuzione
di popolazione dai centoventitré milioni intorno al 1200
(prima che iniziassero le invasioni dei Mongoli) a soli sessantacinque milioni nel 1323, una generazione dopo l’estromissione definitiva dei Mongoli dalla Cina. Nemmeno alla ferocia dei Mongoli può attribuirsi una
diminuzione così drastica. È certo che le malattie giocarono un ruolo rilevante nel dimezzare la popolazione
cinese, e la peste bubbonica, che dopo le devastazioni
apportate inizialmente si ripresentò a intervalli relativamente frequenti, proprio come avvenne in Europa, è con
ogni probabilità la miglior candidata a tale ruolo. [...]
Sembra quindi estremamente probabile che la Pasteurella pestis avesse invaso la Cina nel 1331 [...]. Poi
l’infezione deve aver percorso le vie carovaniere dell’Asia nel corso dei successivi quindici anni raggiungendo
la Crimea nel 1346, dopo di che il bacillo salì a bordo e
procedette alla penetrazione di quasi tutta l’Europa e del
Vicino Oriente lungo le vie che dai porti si irradiano nell’entroterra.
W. McNEILL, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio
dall’antichità all’età contemporanea, trad. di L. COMOGLIO,
Einaudi, Torino 1981, pp. 137-138, 147-149
Quale ruolo ebbe l’esistenza dell’Impero mongolo nella diffusione della peste verso Occidente?
Che effetti provocò la peste, all’interno della Cina?
Quale fattore di tipo politico si aggiunse alla peste e contribuì alla drastica diminuzione della popolazione cinese nel
Trecento?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
A causa delle pessime condizioni igieniche e della cronica
sottoalimentazione, i poveri erano colpiti dalla peste in modo molto più micidiale dei borghesi o dei nobili.
Pur non risparmiando nessuno, la peste trovò nei
poveri un magnifico terreno per attecchire, predisposto
da una prolungata sequenza di carestie: «Dopo la fame
domina la peste» ripete un detto popolare. L’insistenza
dei cronisti nel mostrare, come gli artisti delle danze macabre, un’eguale vulnerabilità del ricco e del povero, è
corretta dalle testimonianze del triste primato della povertà. La malattia colpì dapprima i quartieri poveri, per
esempio a Rimini, a Orvieto – dove i ricchi beneficiarono
di una tregua di tre mesi –, a Narbonne, tra i tintori delle
rive dell’Aude. Altrove la peste accentuava i suoi danni
fra i poveri: a Lincoln i notabili furono praticamente risparmiati, a Lubecca la media della mortalità fra i possidenti (25%) è inferiore del 50% alla media generale
(50%) nelle città tedesche. Sembra che nella Francia del
Nord siano morti, nel 1348-49, due poveri per ogni
ricco: si può parlare così di «epidemia proletaria». Alcuni
contemporanei constatarono il carattere selettivo di
quelle mortalità. Guido di Chauliac, il più celebre medico
di quel tempo, fu testimone della Peste Nera e del suo
ritorno nel 1361 e annotò questa differenza fra le due
epidemie: «Nella prima morirono più popolani, nella seconda più ricchi e nobili». Il suo collega, Simon de Couvin, che partecipò alle consultazioni della Facoltà di Medicina di Parigi in occasione della peste, mostrò una
perspicacia molto rara, con una punta di psicologia sociale: «Colui – scrisse – che era nutrito di alimenti poco
sostanziosi cadde colpito al più piccolo soffio della malattia. L’uomo del volgo molto povero (pauperrima turba)
accetta volentieri la morte, perché per lui vivere è morire.
Ma la Parca [dea pagana della morte, n.d.r.] crudele risparmiò i principi, i cavalieri e i giudici: pochi fra loro morirono, perché era stata data loro una vita dolce in questo mondo». […]
Simon de Couvin aveva ragione quando poneva
sotto accusa soprattutto la malnutrizione. Il regime alimentare dei poveri, a Firenze, per esempio, mostra
gravi carenze energetiche e vitaminiche: carenze di pro-
teine e di lipidi, di calcio e di vitamine antiscorbuto (A, C)
e antirachitiche (D). Un artigiano negli anni 1340-1347 a
malapena poteva aggiungere al pan bigio, fatto essenzialmente di orzo e spelta, un quantitativo sufficiente di
carne, formaggio, latte e legumi. Un’intera popolazione
urbana affrontò la peste in uno stato di grave deperimento. Il caso di Firenze non è isolato e sembra condiviso dalla vicina Orvieto; gli indizi raccolti in altre città
dell’Occidente non smentiscono questi dati. Nella campagna la malnutrizione superava la sottoalimentazione,
grazie a cereali poveri, a una proporzione eccessiva di
salumi rispetto alla carne fresca, di legumi ricchi di fecola
(piselli, fave, farinate), di vino acetato e di acqua malsana. Dovunque si era lontani, soprattutto fra i poveri,
dal regime sofisticato prescritto dalla Facoltà (di Medicina di Parigi) per sfuggire alla peste: pane di buon frumento, carni bianche, agnelli d’un anno, pochi legumi,
evitando porri, cipolle e rape, «che provocano gran ventosità», in breve alimenti «fini e leggeri». […]
Sarebbe servita una certa igiene dei vestiti e della
pelle per tener lontana la pulce, autentico vettore della
peste, data la sua stretta simbiosi col ratto. Solamente
i ricchi potevano permettersi le novità della moda verso
il 1310. Quanti contadini e salariati di città portavano una
camicia di tela – e soprattutto la cambiavano – sotto i
panni di grossa lana, spesso comprati da un rigattiere,
o sotto le pellicce comuni (coniglio, gatto, volpe o montone) sempre più diffuse nel XIV secolo? L’uso di indossare le pelli con il pelo all’esterno non era sufficiente per
eliminarne i parassiti. Inoltre non ci si lavava e i consigli
medici di non bagnarsi erano per molti superflui; tutt’al
più, sconsigliando la frequentazione dei bagni pubblici,
si poteva evitare occasioni di contagio; ma i contadini
non vi andavano mai. Delle altre indicazioni della Facoltà
i poveri non sapevano che farsene: lavorare meno, accontentarsi di sforzi moderati, dormire con la testa sollevata da drappi «buoni e ben odorosi», usare disinfettanti aromatici costosi, incenso, mirra, aloé di Socotra,
irrorare la propria camera d’acqua di rose.
M. MOLLAT, I poveri nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993,
pp. 221-224, trad. it. M. C. DE MATTEIS, M. SANFILIPPO
Che cosa intende sottolineare Michel Mollat, nel momento in cui definisce la peste una «epidemia proletaria»?
Quali comportamenti e quali fattori avrebbero potuto attenuare la violenza dell’epidemia?
Perché i consigli dei medici appaiono del tutto privi di senso, per la maggior parte della popolazione?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
UNITÀ II
La peste: una malattia socialmente
ingiusta
3
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
2
3
L’appropriazione del tempo da parte
dei mercanti
UNITÀ II
A fianco del tempo della Chiesa, alla fine del Duecento fece
la sua comparsa il tempo del mercante, finalizzato a rendere più rigido l’orario di lavoro degli operai dell’industria tessile. Scandito, in una prima fase, da un’apposita campana, il
tempo del mercante trovò infine il proprio simbolo nell’orologio meccanico.
l’autuNNo del medioevo
4
L’unità del tempo di lavoro nell’Occidente medievale
è la giornata: agli inizi, giornata del lavoro rurale [...] e, a
sua immagine, giornata del lavoro urbano, definita mediante il riferimento mutevole al tempo naturale, dal sorgere al tramonto del sole, e sottolineata approssimativamente dal tempo religioso, quello delle horae
canonicae [= i momenti di preghiera dei monaci – n.d.r.],
derivato dall’antichità romana. [...] All’ingrosso il tempo
del lavoro è quello di un’economia ancora dominata
dai ritmi agrari, esenti dalla fretta, senza scrupolo di
esattezza, senza preoccupazioni di produttività e di una
società a sua immagine, «sobria e pudica», senza grandi
appetiti, poco esigente, poco capace di sforzi quantitativi. [...] Ora, a partire dalla fine del secolo XIII, questo
tempo del lavoro è messo in discussione, entra in crisi.
Offensiva del lavoro notturno, asprezza soprattutto nella
definizione, nella misura, nella pratica della giornata di lavoro, conflitti sociali, infine, intorno alla durata del lavoro:
così si manifesta in questo campo la crisi generale del
XIV secolo, un progresso d’insieme attraverso gravi difficoltà di adattamento. [...] I padroni infatti, di fronte alla
crisi, cercano dal canto loro di regolamentare quanto
meglio possono la giornata di lavoro, lottando contro gli
imbrogli degli operai in questo campo. Allora si moltiplicano le campane di lavoro (Werkglocken), di cui ricordiamo alcuni esempi. [...]
A Amiens, il 24 aprile 1335, Filippo VI accoglie favorevolmente la richiesta del sindaco e degli scabini (= funzionari del governo cittadino, preposti alla giustizia –
n.d.r.), che gli hanno chiesto «che essi possano fare
un’ordinanza su quando gli operai nella detta città e suo
distretto (banlieue) andranno ogni giorno di lavoro alla
loro opera il mattino, su quando dovranno andare a
mangiare e su quando dovranno tornare all’opera dopo
mangiato; come pure la sera, su quando dovranno lasciare l’opera per la giornata; e che per la detta ordinanza che faranno, possano suonare una campana, che
hanno fatto appendere alla torre della detta città, che è
differente dalle altre campane». [...] A Aire-sur-la-Lys, il
15 agosto 1355, Giovanni di Picquigny, governatore
della contea di Artois, accorda [...] di costruire una torre
campanaria con una campana speciale a causa «del
mestiere di drapperia e altri mestieri dove convengono
parecchi operai a giornata, che vanno e vengono all’opera in certe ore».
La nostra ricerca non è certo esauriente, ma essa è
sufficiente a indicare che il problema della durata della
giornata di lavoro è soprattutto acuto nel settore tessile,
dove la crisi è più sensibile e dove la parte dei salari nel
prezzo di costo e nei guadagni dei padroni è considerevole. Così la vulnerabilità alla crisi in questo settore di
punta nell’economia medievale ne fa il campo di elezione
di un progresso nell’organizzazione del lavoro. Lo dice
bene il testo concernente Aire, che spiega la necessità
della nuova campana «perché la detta città è governata
dal mestiere di drapperia». Conferma a contrario: dove
la drapperia non ha una posizione dominante, non si vedono apparire Werkglocken. Fagniez l’aveva giustamente notato già per Parigi.
Così, almeno nelle città produttrici di panni, un
tempo nuovo incombe sulla città: il tempo dei drappieri
(= i grandi mercanti-imprenditori, che forniscono la materia prima agli artigiani ed esportano il prodotto finito –
n.d.r.); perché questo tempo è quello della dominazione di una categoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni. [...] Alla fine del secolo [XIV – n.d.r.] e all’inizio del
secolo successivo vediamo bene che la durata della
giornata di lavoro – non il salario direttamente – è la posta delle lotte operaie. [...]
Resta il fatto che la campana del lavoro, spinta certamente da corde, cioè a mano, non presenta alcuna innovazione tecnica. Ma il progresso decisivo verso le «ore
certe» è evidentemente l’invenzione e la diffusione dell’orologio meccanico, del sistema a scappamento, che
promuove infine l’ora in senso matematico, come la
ventiquattresima parte della giornata. Senza dubbio,
proprio il secolo XIV supera questa tappa essenziale. Il
principio dell’invenzione è acquisito alla fine del secolo
XIII, il secondo quarto del secolo successivo ne vede
l’applicazione in quegli orologi urbani, la cui area geografica è appunto quella delle grandi zone urbane: Italia del Nord, Catalogna, Francia settentrionale, Inghilterra
meridionale, Fiandre, Germania. Una ricerca più approfondita permetterebbe forse d’intravedere che, più o
meno, le regioni dell’industria tessile in crisi ricoprono l’area di diffusione degli orologi meccanici. Dalla Normandia alla Lombardia s’installa l’ora di sessanta minuti
che, all’alba dell’età preindustriale, sostituisce la giornata
come unità del tempo di lavoro.
J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi
sul lavoro e la cultura nel Medioevo, trad. di M. ROMANO,
Einaudi, Torino 1977, pp. 26-36
In quale settore produttivo, e per quali ragioni, il lavoro non è più scandito dal sorgere e dal tramontare del sole, bensì dal
suono di una campana?
Che cosa intende dire J. Le Goff mediante l’espressione «il tempo dei drappieri (...) è quello della dominazione di una
categoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni»?
Quale innovazione tecnica renderà ancora più rigido e preciso il «tempo dei drappieri»?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Quella tessile fu l’unica vera attività che, nel Medioevo, assomigliasse alla moderna produzione industriale. La principale materia prima utilizzata era la lana, trasformata in pregiati
tessuti che, insieme alle spezie, costituivano la voce più significativa del commercio di lusso su lunghe distanze.
Non abbiamo cifre precise sul grado di occupazione, ma è probabile che più della metà dei cinquantamila abitanti che, secondo certe stime, formavano la
popolazione di Gand e facevano di essa la più grande
città dell’Europa nordoccidentale traessero il loro sostentamento, direttamente o indirettamente, dall’industria della lana. La percentuale era, forse, ancora più alta
a Ypres, una città di dimensioni un po’ più ridotte che,
nel 1313, esportava non meno di 40000 pezze di
panno, secondo i calcoli più recenti. Lovanio e Malines
ne producevano 25000 ciascuna. (Per fare un confronto, si può ricordare che Troyes, uno dei maggiori
centri di produzione della Champagne, raggiunse appena – nello stesso periodo – le duemila pezze all’anno,
mentre l’intera Inghilterra, che attraversava allora un
periodo di depressione, esportò in dodici mesi, nel
1347-48, non più di 4422 pezze). Le proporzioni erano
ancora largamente inferiori a quelle della rivoluzione industriale, ma avevano ormai superato in modo definitivo
i limiti della tradizionale produzione di mestiere del Medioevo. [...]
Anche il saggio [= tasso – n.d.r.] di meccanizzazione
raggiunse un valore intermedio fra quello delle comuni
imprese artigiane e quello del primo stadio della rivoluzione industriale. Nel secolo XII, come nel XVIII, la prima
grossa trasformazione si ebbe nei processi di filatura e
tessitura, così strettamente intrecciati fra loro che una
qualsiasi accelerazione introdotta nell’uno esigeva un’eguale accelerazione nell’altro. Mentre nel corso della rivoluzione industriale furono introdotte, una dopo l’altra,
tutta una serie di innovazioni meccaniche, nel corso de-
gli anni della crescita preindustriale il progresso si limitò
a due dispositivi semplici e poco costosi, che consentirono un notevole risparmio di lavoro: il telaio a pedale al
posto del telaio a mano, la ruota a filare al posto della
rocca e del fuso. Si sarebbe potuto facilmente fare un altro passo avanti impiegando il mulino ad acqua per azionare ruote a filare e telai a pedale; la forza motrice dell’acqua venne infatti impiegata a questo scopo agli inizi
della rivoluzione industriale del Settecento. E già intorno
alla metà del secolo XIII il principio del mulino ad acqua
fu applicato in Italia al torcitoio che preparava il delicato
filo destinato all’industria della seta. Non venne invece
impiegato per il filo di lana – più rozzo e meno costoso
– probabilmente perché non conveniva investire denaro
in un dispositivo complicato quando si poteva far filare la
lana a domicilio da filatrici miseramente pagate. [...]
Nel Medioevo come nel Settecento (anche se in minor misura) alla meccanizzazione si accompagnò una
crescente divisione del lavoro e l’integrazione industriale
conferì una direzione unificata alle sparse operazioni
della produzione artigiana. Non vi fu, tuttavia, alcuna fusione dei laboratori e delle botteghe artigiane in imprese industriali di grandi dimensioni, simili alla fabbrica
moderna. Intorno alla metà del secolo XIII le fonti testimoniano l’esistenza di più di trenta fasi successive nella
produzione dei tessuti e di quasi altrettante corporazioni
o gruppi non organizzati di lavoratori ai quali era affidata
la lavorazione di ciascuna fase. [...] Gli attrezzi, in genere,
non erano così pesanti e i processi di lavorazione così
interdipendenti da rendere necessaria la concentrazione
di tutti i lavori sotto lo stesso tetto; l’imprenditore si limitava a fornire successivamente la materia prima a ciascuno degli artigiani a cui era affidata una determinata
fase della lavorazione.
R. S. LOPEZ, La rivoluzione commerciale del Medioevo,
trad. di A. SERAFINI, Einaudi, Torino 1975, pp. 168-172
Quali dimensioni aveva l’industria tessile nell’Europa del tardo Medioevo?
Com’era organizzata la divisione del lavoro?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
UNITÀ II
L’industria tessile nel Tardo Medioevo
5
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
4
5
La centralità della morte nella
religiosità tardo medievale
UNITÀ II
La Morte occupa il centro dell’immaginario religioso dei secoli compresi fra la peste nera del 1347-1350 e la Riforma protestante. Ma pensare alla Morte significava soprattutto, per l’uomo del Quattrocento, riflettere sul giudizio che, dopo la fine della vita, ogni individuo avrebbe dovuto sostenere davanti a Dio.
l’autuNNo del medioevo
6
Sembrava che la morte dominasse l’intera esistenza;
essa era per gli uomini quasi come il pane quotidiano.
Media vita in morte sumus: nella vita siamo circondati
dalla morte. La morte era l’oggetto dell’esperienza
umana del XV secolo. Ed è significativo che le prime volgarizzazioni tedesche di quell’antica antifona [= ritornello
cantato durante una liturgia di preghiera monastica –
n.d.r.] abbiano luogo proprio in questo periodo. Il tetro
sentimento della morte intravista fa sì che il pensiero dell’uomo del tardo medioevo si volga incessantemente alla
morte. A partire dal XIV secolo e sino alla Riforma, osserviamo un ampliarsi crescente delle espressioni e
delle testimonianze intorno alla morte. In nessuna epoca
come questa il pensiero di ciascuno fu incessantemente
fisso sulla morte: memento mori, pensa che devi morire.
Fra tutte le forme e figure intorno alle quali si volgono il
pensiero e la devozione, la fiducia e l’angoscia, l’amore
e il timore degli uomini, una è più vivida e rilevata, quella
della morte, anzi, del «Sire Morte».
Le «danze macabre» riproducono quello che l’esperienza dell’epoca ha connesso con la morte. Dappertutto, ben presto, si trova una copiosa [= abbondante –
n.d.r.] diffusione della sua immagine, ora oggetto di
rappresentazione drammatica, ora di pittura, ora di incisione su legno. Raffigurazioni delle danze macabre ricoprono le pareti delle cappelle cimiteriali, degli ossari,
dei conventi, dei chiostri, e sembra quasi che da quei
luoghi vogliano presentarsi come una predica rivolta a
tutti; oppure sotto una forma di foglio miniato o di libretto
popolare, pervengono sino al singolo individuo, raggiungendo il borghese nel suo salotto, come il monaco
nella sua cella. Nata originariamente come una ridda [=
ballo – n.d.r.] del morto col vivente, la danza macabra
si trasforma in danza della morte con l’uomo, che essa
sorprende da solo, in coppia o in folla. Artisti, piccoli e
grandi, raffigurano, in variazioni sempre nuove, la predominante potenza della morte, la sua minacciosa vicinanza e la sua forza livellatrice.
Ora la morte sta sui rami di un albero, sotto cui
amoreggiano il garzone e la sguattera, ora afferra il con-
tadino tra i buoi nell’atto di arare, ora abbraccia il corpo
di una donna che si guarda allo specchio, ora si pone
in agguato della coppia d’amanti che passeggiano
spensierati, ora sbalza il cavaliere dalla sella, e non risparmia neppure il bambino. La morte prende tutto, davanti ad essa tutti gli uomini sono eguali, tutte le classi
sociali vengono passate al suo vaglio: papa, imperatore,
cavalieri, contadini, signori, servi, mendicanti, «tutto
quello che è nato ha in sorte di dover soffrire l’amara
morte». Così, alle danze macabre viene a collegarsi una
tendenza democratica; esse finiscono, infatti, con il rivestire il carattere di una satira sociale, nel contesto dei
fermenti e dei rivolgimenti del tempo. [...]
La morte non viene avvertita (tanto – n.d.r.) come un
predatore della vita, quanto piuttosto come un predatore
della salute [= salvezza – n.d.r.] dell’anima. E perciò l’intensa esperienza della morte, sul finire del medioevo,
non conduce ad un arricchimento e ad un approfondimento della vita, ma, al contrario, trascina i pensieri degli uomini proprio in direzione dell’aldilà e stimola in
loro, ancora più profondamente, la preoccupazione della
vita eterna. Un aspetto condiziona l’altro, ed è come un
circolo vizioso: quanto più intensamente gli uomini temono la morte, tanto più appassionatamente, per ciò
stesso, si preoccupano della salvezza della loro anima
e, di converso, quanto più appassionatamente si preoccupano della salute della loro anima, tanto più temono
la morte. Ne scaturisce l’espressione del giudizio così
terribilmente paventoso [= spaventoso – n.d.r.] e della
temuta penitenza, che risuona sino a noi attraverso le
note del canto dei flagellanti:
«Or sollevate le mani
ché Dio conduce la grande
morte. Or levate il braccio e
che Dio abbia di noi pietà. Gesù
con il tuo rosso sangue
preservaci dalla nera morte».
È questa l’impressione che l’esperienza vissuta e generalizzata della morte produce allora nella maggior
parte degli uomini: il castigo di Dio incombe; il suo sdegno deve essere placato.
H. ZAHRNT, Il tempo dell’attesa, trad. di F. VOLTAGGIO,
Coines, Roma 1973, pp. 63-66
In che senso la «danza macabra» (che fu la rappresentazione più diffusa della potenza della morte sugli uomini) aveva
una «tendenza democratica» e un significato di «satira sociale»?
La «grande morte» del canto dei flagellanti si riferisce alla «peste nera»: come viene interpretata quest’ultima?
Chi l’ha inviata contro gli uomini?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Nel corso del xv secolo, l’Italia centro-settentrionale assiste al fiorire dell’urbanistica, cioè della pianificazione dello spazio urbano. L’edificazione di palazzi, chiese e strade non è più
lasciato al caso, ma rispetta le esigenze del signore, le necessità difensive e quelle abitative della corte.
Gli edifici – la loro genesi, conformazione e sito – costituiscono uno dei più eloquenti documenti di una società ed una sua eccellente base di lettura e di interpretazione. Tra le varie forme di creazione artistica,
quella architettonica è senz’altro – con quella teatrale –
una di quelle dotate di più densi significati collettivi. Né
sembra dubbio che la deliberata utilizzazione degli edifici a scopo di prestigio privato e pubblico abbia avuto
nella Penisola un incremento rinnovato e molto rilevante
nel corso del XV secolo.
Non è questa la sede per valutare in modo adeguato se la gerarchia dei vari tipi di costruzione sia
stata più accentuata nel periodo comunale o in quello
dei principati. È certo comunque che nel Quattrocento
essa è stata perseguita e realizzata in maniera manifesta ed intenzionale, al punto da potersi sostenere che
essa abbia rappresentato uno dei modi di concretare
un processo di aristocratizzazione in atto su vari altri
piani [la struttura degli edifici e l’impianto urbanistico diventano lo specchio evidente del fatto che il potere non
è più nelle mani del popolo, ma di un pugno di aristocratici: i signori e i principi, n.d.r.]. Se cioè il contesto
costituito dalla comunità cittadina rimaneva lo sfondo
di riferimento, su di esso si tendeva a far campeggiare
sempre meglio e sempre di più la presenza di attori singoli. […]
In altri termini il dominio politico si manifestò – certo
in gradi diversi e nelle forme più svariate da una città all’altra – e si tradusse regolarmente ed in larga misura sul
piano urbanistico ed architettonico. I centri che furono
maggiormente investiti da tale fenomeno furono innanzitutto quelli ove risiedevano i signori e i principi, cioè in
genere le capitali degli Stati, oltre a quelli ove il potere
centrale intendeva proiettare l’immagine e segnare l’impronta della propria supremazia.
A Milano ed in varie altre città lombarde i Visconti
avevano impresso già nel secolo XIV le tracce visibili del
loro dominio: basterebbe citare in merito il castello di
Pavia. Alla morte dell’ultimo loro duca, Filippo Maria, i
milanesi cercarono di realizzare il sogno di restaurare
il precedente regime municipale. Molto breve fu nondimeno la stagione della loro Repubblica ambrosiana
[di sant’Ambrogio, patrono di Milano, n.d.r.] (14471450), che dovettero capitolare di fronte alle milizie del
condottiero Francesco Sforza. Quest’ultimo operò subito in modo da ridurre alla soggezione i suoi nuovi
sudditi proprio intervenendo in modo decisivo sul tessuto urbano della metropoli milanese [Milano è chiamata metropoli in quanto (come Venezia e Napoli)
aveva circa 200 000 abitanti, in un momento storico in
cui Genova e Firenze ne avevano 60 000, Bologna e
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Palermo 55 000, Roma appena 25 000, n.d.r.]. Per fissarvi la propria residenza egli scelse – come già avevano fatto i Visconti – un sito al margine del centro abitato, alla cerniera fra la zona popolosa dell’agglomerato
ed il suburbio circostante. Vari signori d’Italia e di altri
paesi avevano già optato per una soluzione del genere
ed a metà del Quattrocento, nel suo trattato De re aedificatoria [Sulle modalità del costruire, n.d.r.], Leon
Battista Alberti consigliava al principe proprio questo
tipo di residenza. Resta il fatto che la colossale mole
del Castello sforzesco, innestata nella cerchia delle
mura milanesi, corrispose pressoché perfettamente
alle esigenze del nuovo duca e dei suoi successori.
Con le sue possenti strutture e le sue vaste dimensioni
si rivelò adatta a svolgere tanto la funzione di cittadella
che quella di fastosa struttura. […]
L’azione degli Estensi a Ferrara fu in certo modo più
originale, per quanto anch’essi si fossero fatti costruire
verso la fine del Trecento la propria sede in un castello
che rimase al margine della città per quasi tutto il secolo
XV. Nel 1492, nondimeno, il duca Ercole I diede inizio alla
più grande operazione urbanistica cui si assistette nella
Penisola a quell’epoca. Quel principe decise un ingrandimento tale della superficie di Ferrara che essa ne risultò quasi triplicata. Il suo castello si venne allora a trovare pressoché nella parte centrale dell’abitato, fra il
nucleo medioevale ed il nuovo spazio creato dall’ampliata cerchia delle mura.
Questo ampliamento prese il nome di Addizione erculea e risultò improntato a caratteristiche inabituali,
rese possibili anche dalla pressoché completa libertà di
cui godé Biagio Rossetti di tracciarvi arterie rettilinee e
di ritmarlo con piazze adeguate. Il criterio al quale l’architetto s’ispirò fu di collegare la zona della residenza
ducale ai nuovi quartieri a settentrione per mezzo di vie
larghe e diritte, punteggiate da dimore dai vasti cortili interni. La più notevole toccò ad un membro della famiglia estense, Sigismondo, e fu detta Palazzo dei diamanti per il singolare rivestimento decorativo a cuspidi
della facciata. […] Fra le nuove arterie, una delle più importanti fu proprio quella che collegava il giardino del castello ad una residenza esterna di sollazzo posta all’estremità dell’Addizione. Questo permetteva al duca di
sfilare in mezzo ai propri sudditi ogniqualvolta intraprendeva quel percorso.
Di non minore spicco fu l’intervento dei nuovi signori di Urbino, i Montefeltro, e particolarmente di Federico (morto nel 1484) che vi governò per circa un
quarantennio. Condottiero come Francesco Sforza,
egli era titolare di una signoria limitata in quanto il suo
territorio era subordinato alla sovranità dello Stato pontificio. Il carattere singolare dell’iniziativa che egli prese
verso la metà del Quattrocento consistette nella struttura del tutto diversa ch’egli volle dare alla sua residenza: non più un castello e tanto meno una cittadella
(anche se vi erano annessi di possibile impiego militare)
UNITÀ II
Urbanistica e potere nell’Italia
del Quattrocento
7
RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
6
ma un palazzo. Le imponenti strutture di quest’ultimo
sposarono in modo felice la conformazione topografica
ed il sito seducente. Il palazzo costituì il centro di gravitazione di un vero e proprio quartiere che, oltre alla
cattedrale, comprendeva delle scuderie modello, una
piazza d’armi contigua e dei sotterranei abilmente si-
stemati. Questo insieme urbanistico, completato da
una vicina arteria fiancheggiata da dimore per funzionari e cortigiani, venne a costituire una delle realizzazioni più alte e riuscite del Quattrocento italiano.
A. TENENTI, L’Italia del Quattrocento. Economia e società,
Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 8-11
UNITÀ II
Quali scopi si proponevano di raggiungere i principi, promuovendo una vasta azione urbanistica, nelle loro capitali?
Che cosa distingue la residenza di Francesco Sforza da quella dei duchi estensi? E che cosa, invece, distingue la residenza
del duca di Urbino da quelle dei duchi di Milano e di Ferrara?
l’autuNNo del medioevo
8
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Scarica

L`autunno del Medioevo