Una vita per la letteratura A Mario Marti Colleghi ed amici per i suoi cento anni a cura di Mario Spedicato e Marco Leone Edizioni Grifo Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti Marco Leone A Mario Marti per i suoi cento anni La terza parte del libro che Mario Marti dedica al periodo fiorentino-napoletano di Leopardi [I tempi dell’ultimo Leopardi (con una “Giunta” su Leopardi e Virgilio), Galatina, Congedo, 1988] è occupata da uno studio su Leopardi a Napoli (pp. 71-132), rielaborazione di una conferenza letta da Marti nel 1987 a un Convegno leopardiano. Questa terza parte non risulta per nulla scollegata da quelle precedenti e chiude un ideale trittico, nel quale le prime due ante sono rappresentate rispettivamente da un approfondimento sul ciclo d’Aspasia e da un’indagine sui rapporti fra le due sepolcrali e il Passero solitario, sempre in chiave di collocazione cronologica, ma anche spirituale e ideologica, dei componimenti poetici. È opportuno precisare che questo libro è uno dei quattro d’argomento leopardiano di cui è autore Marti. Gli altri tre sono: La formazione del primo Leopardi, uscito da Sansoni a Firenze nel 1944 (ripresa, con modifiche e integrazioni, della sua tesi di laurea alla Normale di Pisa con Luigi Russo); Dante, Boccaccio, Leopardi (Liguori 1980), quest’ultimo non esclusivamente dedicato a Leopardi, come si può notare, ma contenente una sezione di importanti saggi, fra l’altro, sugli idilli e sulle Operette morali; e l’ultimo, Amore di Leopardi (Casa Editrice La Finestra, Trento, 2002), che raccoglie contributi pubblicati in varie sedi (alcuni dei quali già apparsi in Dante, Boccaccio, Leopardi). Non c’è dubbio, dunque, che il poeta di Recanati è stato per Marti un fuoco d’interesse sempre costante. Una fedeltà da lui dimostrata anche da alcuni saggi apparsi negli ultimi suoi tre libri d’argomento miscellaneo: infatti, in Da Dante a Croce proposte consensi e dissensi (Congedo 2005), compare un contributo, in dialogo con Blasucci, ancora sulla datazione delle sepolcrali (pp. 125-134) e in Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica (Congedo 2009) sono comprese tre recensioni a libri leopardiani (raccolte sotto il titolo Su tre offerte leopardiane, pp. 97-108); infine, ne Il trilinguismo delle lettere italiane e altri studi d’italianistica (sempre Congedo, ma 2012), si torna a parlare, anche se solo indirettamente, di Leopardi, perché qui si trova un intervento sulla biografia del poeta recanatese scritta dal romanziere di origini salentine Michele Saponaro (Rileggendo il Leopardi di Michele Saponaro, pp. 75-82). In questo lungo percorso di ricerche su Leopardi, il libro del 1988 si pone a suggello di una importante stagione di studi leopardiani, che ha puntato a valorizzare temi e istanze ideologiche dell’ultima fase del poeta: sono ben noti, infatti, i celebri libri di Walter Binni, La nuova poetica leopardiana (1947) e La protesta di Giacomo 267 Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti Leopardi (1973). Accanto o nella scia di Binni, si posero altri critici come Umberto Bosco, col suo libro Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi (1957), e Cesare Luporini, con uno studio su Leopardi progressivo, del’47. A partire dalla metà del secolo scorso, insomma, si affermò un nuovo orientamento interpretativo sull’ultimo Leopardi (quello fiorentino-napoletano, per l’appunto), che portò alla scoperta, sull’asse Firenze-Napoli (due fra le più importanti città frequentate da Leopardi), di un poeta per certi versi ancor più significativo di quello degli idilli, anche se le due fasi esistenziali e creative della parabola leopardiana non possono, ovviamente, considerarsi propriamente disgiunte e irrelate. Come è noto, quest’ultimo Leopardi radicalizza la sua visione negativa del mondo (decisiva in questo senso l’esperienza biografico-poetica di Aspasia), proiettandola su un piano universale e collettivo e assestando questa sua ideologia del male assoluto, nell’ultimo suo periodo fiorentino, soprattutto attraverso alcune sue opere: il Tristano, A se stesso e l’abbozzo dell’inno ad Arimane. Negli anni napoletani questo radicalismo non subirà mutamenti notevoli, ma cambieranno invece le modalità di espressione di un simile atteggiamento, in senso più spiccatamente agonistico e gladiatorio (si pensi solo alla Ginestra). Marti contribuisce alla rivisitazione di questa stagione leopardiana tra Firenze e Napoli, restaurandone in modo dinamico e correlato tempi, cronologie di composizione delle opere poetiche, posizioni ideologiche, psicologiche e spirituali, rapporti personali, sulla base di filologici accertamenti e di minuziosi riscontri testuali, avendo come imprescindibile riferimento documentario il ricco epistolario leopardiano, i testi e i fatti biografici del poeta, secondo un costante asse metodologico del suo storicismo integrale: dal certo al vero. Così da lui apprendiamo che il primo contatto di Leopardi con Napoli non risale al momento preciso del suo arrivo nella città partenopea nell’ottobre del ’33, ma, sia pure in forma indiretta e mediata, già ai suoi primi due soggiorni a Firenze, dal 21 giugno al 9 novembre 1927, e fra il 1830-31, quando Leopardi ebbe occasione di conoscere la colonia di fuoriusciti ed esuli napoletani, lì confluiti dopo il fallimento dell’esperienza della Repubblica Partenopea e, soprattutto, dei moti del ’21 (auspice l’amico Antonio Ranieri, il compagno degli anni fiorentini e napoletani, che al sodalizio con Leopardi dedicò un controverso libro, pubblicato nel 1880, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi). Giuseppe e Alessandro Poerio, Matteo e Paolo Emilio Imbriani, Carlo Troya, Pietro Colletta, il promotore della prima pubblicazione dei Canti, lo stesso Ranieri: tutti intellettuali di origine napoletana gravitanti intorno al circolo del Vieusseux, che Leopardi frequentò a Firenze nel ’27. Fu qui e allora, anche come conseguenza di queste frequentazioni napoletane, che probabilmente Leopardi ideò per la prima volta i suoi Paralipomeni alla Batracomiomachia pseudo-omerica, di cui aveva già pubblicato la traduzione nel ’26 a Bologna, prima di passare alla loro stesura concreta che, per Marti e per altri studiosi, ha inizio durante il soggiorno fiorentino del ’30 e del ’31 (primo canto ed abbozzo del secondo) e che si completerà poi a Napoli. Sono gli anni, infatti, in cui il Leopardi dimostra un concreto interesse per il genere della poesia satirica (lo testimoniano alcune sue lettere del tempo) e si formano nella sua mente, attraverso la mediazione e il filtro 268 Marco Leone dei suoi amici napoletani, un’idea e un’immagine di Napoli e dei suoi abitanti, che poi saranno alla base dell’identificazione del centro partenopeo con Topaia, la città fantastica e immaginaria in cui sono ambientate le vicende dei Paralipomeni. Dunque, il primo contatto con Napoli avvenne per Leopardi già durante i suoi soggiorni fiorentini, secondo l’interpretazione di Marti. Si trattò di un contatto certamente indiretto, ma che ebbe un esito favolistico e satirico nella poesia dei Paralipomeni e che fu anche il risultato di una situazione ambivalente. Da una parte, la frequentazione reale e quotidiana che Leopardi ebbe con la colonia napoletana a Firenze, dall’altra l’iconografia pittoresca e immaginaria che egli andava frattanto assimilando della città partenopea, come simbolo catalizzatore dell’intera civiltà meridiana: un’iconografia di origine essenzialmente libresca e non priva di suggestioni letterarie, fra mito e anti-mito, e non priva neppure di certe intrinseche connotazioni stereotipate e negative, quasi di segno discriminatorio ed etnico-razziale. Si pensi, ad esempio, allo stereotipo della tipica indolenza meridionale o alla considerazione del popolo napoletano come di un “popolo semibarbaro, semiaffricano e semicivile” (sono parole che Leopardi usa in un pezzo dello Zibaldone del 18 novembre 1828). Questa idea negativa, di matrice libresca e letteraria, non si mutò in Leopardi, anzi si confermò quando egli giunse a Napoli nell’ottobre del ’33, spinto da ragioni amicali (la volontà di seguire l’amico Antonio Ranieri, che lì si era trasferito) e di salute (l’esigenza di vivere in un clima più mite). Il quadro che emerge dalle lettere del periodo napoletano è desolante e segnala un rapporto conflittuale e tormentoso fra Leopardi e Napoli: Leopardi vi denuncia una condizione di isolamento, il controllo occhiuto della censura, la venalità dell’editore Starita, la generale inclinazione all’inganno e al raggiro, l’esosità dell’affitto di casa. Non mancano giudizi violenti di carattere antropologico, come risulta dalla celebre lettera (citata da Marti) che Leopardi scrive al padre Monaldo il 3 febbraio del ’35, nella quale si esprime il desiderio di fuggire da Napoli e dai suoi abitanti, definiti “Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e fottuti, degnissimi di Spagnuoli e di forche”; né valgono neppure in parte a controbilanciare questi giudizi, così severi e perentori, gli apprezzamenti sul clima e sulla bellezza della città, pure contenuti in altre sue lettere. Insomma, se è vero che Leopardi non si adattò mai veramente a nessuna delle varie città in cui abitò e che frequentò (con l’eccezione di Pisa), è altrettanto vero, però, che le opinioni di Leopardi su Napoli e i Napoletani hanno sempre un che di più acrimonioso e altezzoso, essendo anche il frutto combinato, come si è detto, di specifiche relazioni personali e luoghi comuni inveterati, mai rimossi e profondamente interiorizzati. Di qui la condizione di disagio e di isolamento di Leopardi, il suo desiderio di andar via, magari nell’agognata Parigi o a Roma o a Pisa o, persino, a Recanati, il suo sentirsi distante ed estraneo rispetto alla città, frequentemente espressi nelle lettere. Di qui, pure, una certa immagine oleografica e pittoresca che di Napoli il Leopardi continua a trasmettere nei suoi componimenti del periodo napoletano, come in questi versi dei Nuovi credenti, in cui la città è identificata spregiativamente in un simbolo gastronomico, quello dei maccheroni: “…tutta in mio danno / s’arma Napoli a gara, alla difesa / de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni / anteposto il morir, troppo le pesa…”. 269 Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti Dopo aver definito il quadro storico-psicologico degli anni napoletani, Marti ritiene necessario, nel suo studio, come egli stesso afferma, “gettare un ponte tra questi elementi così intensamente esistenziali del periodo napoletano e le vibrazioni, i toni, le tensioni della coeva produzione” (p. 83). E anche a non volere enfatizzare legami troppo stretti tra poesia e biografia, in modo deterministico o meccanico, è indubbio tuttavia che tutte le opere del periodo napoletano di Leopardi (Aspasia, la Palinodia al Marchese Gino Capponi, I Nuovi credenti, i già citati Paralipomeni, almeno a partire dal terzo canto, come si è visto, i 111 Pensieri, la seconda sepolcrale, La ginestra, Il Tramonto della luna) risentono di un peculiare clima ideologico e dimostrano comunque un’operosità notevole del poeta, che tocca il suo picco nell’inverno fra il ’34 e il ’35, con la preparazione dell’edizione Starita dei Canti, ma che prosegue almeno sino all’autunno inoltrato del ’36, quando Leopardi, a seguito di un’epidemia di colera, si rifugiò nella Villa Ferrigni di Torre del Greco e vi trascorse un disagevole inverno, l’ultimo della sua vita, dal momento che egli morirà, come è noto, nel giugno del ’37. Ma fino al ’36 Leopardi fu attivo e operoso, come rivelano anche altre sue occupazioni minori: una nuova edizione, con apposita introduzione, del suo commento al Petrarca; una revisione del giovanile Discorso sopra la Batracomomiachia; la polemica col Tommaseo; le lettere; il progetto della edizione parigine delle sue Opere, un altro progetto editoriale a Napoli. Mentre per Marti non sono assegnabili a questo periodo, come dimostra in altre sedi, né la prima sepolcrale, né il Passero solitario. Vanno dunque ridimensionate, per lo studioso, le affermazioni del Ranieri, contenute nel libro citato sul sodalizio con Leopardi, di lunghi periodi di forzosa inattività da parte del poeta, che invece fu impegnato e alacre, anche se non si possono escludere pause di una certa lunghezza dovute a disagio fisico e psicologico, soprattutto all’inizio e alla fine del suo soggiorno partenopeo. Il primo grande risultato creativo del periodo napoletano è Aspasia, l’unico canto napoletano di quel cosiddetto ciclo, che fu ideata in giorni di primavera inoltrata, come risulta dal contesto dei versi, e il cui primo abbozzo Marti colloca, diversamente da altri studiosi, nella primavera del ’34: della primavera del ’35 è il trasferimento di Leopardi dalla sua prima dimora partenopea (Casa Cammarota, al n. 35 della Strada Nuova di Santa Maria Ognibene, con vista sul golfo e sul Vesuvio) all’altra casa, sita al n. 2 di Vico Pero, proprio a ridosso della pubblicazione dei Canti presso Starita. Un dettaglio non secondario, questo, della biografia napoletana di Leopardi, di carattere logistico, ma che per Marti costituisce la prova che Aspasia doveva essere già pronta nella primavera del ’34, mentre alla primavera dell’anno seguente risale il trasferimento nella nuova casa e l’allestimento della nuova edizione dei Canti. Definita la cronologia di composizione, Marti individua tre nuclei ideologici fondamentali di Aspasia, ormai acquisiti come dati certi dalla critica leopardiana: 1) Aspasia rappresenta non il punto di rottura della vicenda sentimentale con la Targioni Tozzetti, ma il momento della rievocazione riflessiva e distaccata, benché ancora percorsa da venature asprigne e polemiche. 2) La scena iniziale del componimento, quella in cui la “dotta allettatrice” Aspasia-Fanny abbraccia i suoi figli e si concede ai loro baci, è tutt’altro che seduttiva in sé, ma appare così solo agli 270 Marco Leone occhi di Leopardi. Egli rappresenta Fanny come una “dotta allettatrice”, non perché la donna si fosse dimostrata realmente tale (il suo carteggio dimostra che mai aveva dato reali speranze a Leopardi, da lei definito “un brav’uomo”, anche se un po’ “camorro”), ma perché Leopardi in tale rappresentazione è mosso da risentimento polemico (emerge qui la delicata questione del rapporto fra verità poetica e verità autobiografica). 3) Aspasia trascende la specifica avventura fiorentina e si pone platonicamente come l’incarnazione di un eterno femminino leopardiano, che assomma in sé anche le trascorse esperienze amorose nel segno della palinodia, del rifiuto e della rimozione polemica rispetto al mito e all’illusione dell’amore. Dunque, anche per questo si accorda pienamente, per Marti, al carattere prevalente della produzione letteraria napoletana, nella quale lo studioso inserisce anche la seconda sepolcrale (Sopra il ritratto di una bella donna) per alcuni consonanti tratti stilistici e ideologici con Aspasia. Qui, nella seconda sepolcrale, il ricordo di Aspasia è ancora vivo, anche se proiettato in un’aura funeraria, in una trascendenza negativa del dolore che annulla ogni impulso illusorio. Se Aspasia è una palinodia reale e amara, la Palinodia dedicata a Gino Capponi, afferma Marti, è falsa e irridente. Entrambe sono scritte in endecasillabi sciolti, gli unici componimenti del periodo napoletano scritti in tale metro (notevole come sempre, in Marti, la viva attenzione all’aspetto metricologico), ed entrambe si distinguono per un condiviso carattere intellettualistico, raziocinante e razionale, essendo anche accomunate da una quasi identità di tempi di composizione (la Palinodia al Capponi, pubblicata per la prima volta nell’edizione Starita del ’35, fu composta tra la fine del ’34 e l’inizio del ’35, ma è già preannunciata da un appunto di sentore napoletano, della fine del ’33 o dell’inizio del ’34). Anche in quest’opera non si ritrova nulla di nuovo rispetto al sistema del pensiero leopardiano precedente, fondato sulla consapevolezza dell’infelicità connaturata nell’esistenza umana: sotto la veste di una finta ritrattazione, che comprende anche il rovesciamento antifrastico della quarta egloga virgiliana, si muove una critica mordace e corrosiva all’ottimismo scientifico e tecnologico e a quello di marca spiritualista, che era già riconoscibile nell’ironica Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi e nella giovanile, del ’15, Orazione agl’Italiani. Solo che qui l’ironia, collocata nella concreta realtà socio-economica del tempo, si muta in sarcasmo e si avvertono per la prima volta un tono gagliardo e vibrante, a tratti inasprito, e una spinta agonistica nuova e differente, già segnalati dall’epigrafe petrarchesca dell’opera: “Il sempre sospirar nulla rileva”. Un’epigrafe che può essere assunta a emblema di tutta la poesia del periodo napoletano, Tramonto della luna compreso, da Marti ritenuta un insieme di variazioni su di uno stesso tema (l’infelicità dell’uomo). A ben vedere, anche la fittizia adesione alle credenze dell’aureo secolo è una ripresa del Tristano, nel quale però essa appare collocata in una dimensione extra-storica ed extra-temporale, al contrario di quanto accade nella Palinodia. Insomma, con la Palinodia si inaugura un nuovo registro della poesia leopardiana, confermato anche in tutte le opere successive, ancora una volta sull’asse Napoli-Firenze: a Napoli Leopardi conferma coerentemente nella concreta realtà storica di quel luogo 271 Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti e nella frequentazione di alcuni ritrovi cittadini (i caffè partenopei), esplicitamente menzionati nel componimento (“per entro il fumo / de’ sigari onorato, al romorio / de’ crepitanti pasticcini…”), la sua avversione ad idee già da lui contrastate al tempo della sua partecipazione ai salotti mondani fiorentini; e da Napoli, dove si trova, ne dà notizia, in forma ironica e scanzonata, a un amico di Firenze (il Capponi). Mutano i luoghi geografici di riferimento e gli interlocutori di turno, ma rimane costante la posizione ideologica di Leopardi, che, “di rimbalzo da Firenze”, afferma Marti, colpisce anche “la cultura napoletana di quegli anni, quella da lui giudicata sciocca e da caffè, fumosa e gazzettiera” (p. 101). Un sarcastico attacco alla coeva società napoletana si ritrova nel capitolo in terza rima de I nuovi credenti, vera gemmazione della Palinodia, composta nella pausa della pubblicazione dell’edizione Starita dei Canti, una pausa dovuta all’intervento della censura locale, che contribuisce ad accrescere i risentimenti anti-napoletani di Leopardi. Questa ostilità anti-napoletana nasce in Leopardi come sentimento soggettivo, da lui espresso soprattutto nella Palinodia e nei Nuovi credenti, e sarà passivamente assorbita dalla critica e dalla storiografia risorgimentali, ma, avverte Marti, si tratta di un sentimento che non corrisponde del tutto alla concreta realtà storica del tempo: a Napoli esplose la prima rivoluzione italiana, quella del 1799, su presupposti illuministici di respiro europeo, violentemente repressa, ma vitali e feconde idealità politiche continuarono a sopravvivere a Napoli anche nel successivo decennio murattiano e al tempo dei primi moti liberali del 1820-21, nonostante la feroce tirannia di Francesco I, appena attenuata dal suo successore Ferdinando II. Certo, le repressioni svuotarono la città delle sue forze migliori, con il fenomeno degli esuli e dei fuoriusciti, ma questo non impedì che la Napoli di epoca romantica fosse anche il luogo in cui misero radici il vichismo e il purismo, magari in declinazione patriottica e “nazionale”; si svilupparono gli studi di diritto e di economia; si diffusero correnti filosofiche europee (il coscienzialismo, l’eclettismo, e poi anche l’hegelismo); si affermò una diffusa stampa periodica (al tempo della Napoli di Leopardi, erano attivi nella capitale oltre quaranta periodici); si promosse una fiorente cultura artistica e teatrale. Dunque, l’immagine di Napoli che emerge dai giudizi e dalle opere di Leopardi andrebbe curvata su parametri di interpretazione storica più veritieri e oggettivi e non deformati dalla soggettività del poeta. Tuttavia, non si può neppure ignorare che la diffidenza di Leopardi per questa città fu un dato ricorrente, ribadito anche dall’identificazione che il recanatese stabilisce nei Paralipomeni fra Napoli e la città immaginaria di Topaia, come si è detto. Sullo sfondo di questo disagio ambientale, anche nei Paralipomeni si conferma la polemica di Leopardi contro l’antropocentrismo, contro l’idea di progresso, contro lo spiritualismo. Semmai, più che questa ripetuta carica ideologica eversiva e radicale che travolge anche i movimenti insurrezionali, derubricati a esperimenti velleitari e ingannevoli, vale la pena sottolineare, come fa Marti, “i modi comici del travestimento, ora satirici, ora ironici e sarcastici, ora anche giocosi, e il composito linguaggio che ne deriva” (p. 107). Questa varietà di toni stilistici e linguistici è lo strumento di cui Leopardi si serve per “devirilizza- 272 Marco Leone re” (la definizione è di Marti, p. 111) gli slanci risorgimentali, poco più che illusioni dinanzi alla sua consapevolezza del male metafisico che colpisce l’umanità; e anche dinanzi al suo peculiare concetto di Italia, non coincidente con la corriva oleografia risorgimentale, che è tutto basato su un’idea culturale, letteraria e antropologica di nazione. E tale varietà è anche lo strumento funzionale a riaffermare la propria visione negativa del mondo, sicché la satira dei Paralipomeni non è mai veramente personale o storica, neppure nelle sue individualità più spiccate (il ritratto del Conte Leccafondi) e nelle sue allusioni più scoperte ai contemporanei fatti storici, ma tende a colpire, piuttosto, sottolinea Marti, “atteggiamenti mentali e stati d’animo, simboli e ideologie” (p. 108). Uguale predisposizione agonistica e spietatamente razionalistica si riscontra nei 111 Pensieri, elaborati per tutto il periodo napoletano fino allo scorcio del ’36, in cui trovano consolidamento gli universali della filosofia leopardiana, che il poeta aveva già in gran parte delineato in molti pezzi dello Zibaldone, a dimostrazione e riprova che dopo il Tristano, A se stesso e l’inno Ad Arimane il pensiero di Leopardi non subisce scosse di rilievo, ma trova canali d’espressione sempre più contrassegnati nella direzione di un vigoroso agonismo protestatario, in perfetta coerenza con lo stigma identificativo di tutta la produzione napoletana: così, i Pensieri non si riducono ad astratte riflessioni, ma vibrano per i loro toni di denuncia civile e di rivendicazione etica, anche attraverso l’arma del riso demistificatorio e di un velo di dissimulato autobiografismo. È lo stesso quadro psico-ideologico e spirituale in cui vanno collocati gli ultimi due canti, La Ginestra e Il tramonto della luna, composti a breve distanza l’uno dall’altro, anche se è da ritenersi una leggenda la stesura degli ultimi versi del Tramonto in punto di morte. In base a elementi interni ed esterni, Marti fissa l’ideazione e la composizione della Ginestra alla primavera piena del ’36, il Tramonto, invece, all’estate dello stesso anno. Entrambe le poesie, comunque, dovevano essere già composte prima del 2 giugno del ’37, quando Leopardi abbandona Villa Ferrigni per tornare a Capodimonte e per lo studioso costituiscono un ideale e indissolubile dittico, punto culminante della esperienza napoletana di Leopardi. Questo perché, secondo Marti, del Tramonto della luna non va colto tanto il pur presente alone idillico-contemplativo, scorza essenzialmente esteriore del componimento, quanto invece la riflessione lucida e disincantata su alcune nervature focali del pensiero di Leopardi: l’infelicità dovuta alla corruzione della morte, l’ineluttabile procedere della vecchiezza, la sofferenza e la decadenza fisica, tutte prove dell’azione di una Natura matrigna. In altri termini, il Tramonto non è per Marti un postremo rigurgito della stagione degli idilli, ma una riaffermazione, costruita su un’alta e solenne retorica, di alcune direttrici portanti del Leopardi napoletano, riversate in un testo che presenta rilevanti agganci con la Palinodia e con i Pensieri e che dimostra così la sua piena collocazione, anche ideologica e non solo cronologica, dentro l’ultimo periodo di Leopardi. Per quanto riguarda La Ginestra, Marti la definisce “sintesi vibrante dell’intero tempo napoletano” (pp. 119), non pienamente comprensibile, se considerata per la 273 Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti sua grandezza artistica testo autonomo e distaccato, come spesso è stato fatto, dalla restante produzione napoletana. Invece, la tensione poetica che attraversa la poesia è tutta volta a concentrare e a sublimare gli snodi nevralgici dell’intero periodo partenopeo. È l’ultimo tempo di questa fase biografico-creativa, ma il più significativo per il ventaglio di problemi e di spunti che racchiude: la convinzione della nullità dell’uomo di fronte alla potenza malvagia della Natura; il sarcasmo beffardo nei confronti del secolo superbo e sciocco; l’esaltazione della filosofia materialistica di stampo illuministico. Per la verità sono tutti temi che riallacciano l’opera alla precedente produzione, non solo napoletana, ma anche pregressa: Tristano, le Operette morali, le canzoni filosofiche, ecc. Con una proposta finale, quella della “social catena” degli uomini contro il potere prevaricatore della Natura, non in funzione di salvezza (che è un traguardo non possibile nella concezione leopardiana), ma di resistenza fiera e consapevole, anche se mai orgogliosa e superba. Una proposta non del tutto nuova, perché a “un’alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura” Leopardi aveva già pensato in una sua riflessione zibaldoniana del ’27, concepita come una Lettera a un giovane del ventesimo secolo. L’idea della confederazione umana è, dunque, uno spunto antico, che ritorna come antidoto contro quell’idea di Natura cieca e distruttrice (si ricordi l’immagine del picciol pomo che abbatte il popolo di formiche): un’idea elaborata da Leopardi, come dimostra questo passo dello Zibaldone, almeno da una decina d’anni prima della Ginestra. La stessa idea di Natura materialistica e meccanicistica che si ritrova in alcuni passi dei Paralipomeni o in tanti Pensieri, rispetto alla quale il rimedio della “social catena” si configura come una rivendicazione del libero arbitrio dell’uomo, è una riconferma di posizioni ideologiche già precedentemente raggiunte. Marti sottolinea però che non c’è alcun significato politico o remotamente sociale in una simile proposta; e nemmeno una fiducia nella capacità degli uomini. Anzi, la proposta di una società dell’amore scaturisce da una visione negativa dell’umanità e si presenta come un rovesciamento della reale società dell’odio e dell’egoismo, magari anche con qualche tratto utopistico, così come tale società era stata già delineata nel Dialogo di Platino e Porfirio. C’è di più quel tono gladiatorio, polemico, aggressivo, vibrante, tipico del periodo napoletano, che rende la Ginestra, dice Marti, “il supremo canto leopardiano, il più alto inno sacro elevato dal poeta in figura di vero apostolo di una santa religione laica” (p. 125). Tuttavia, anche se la Ginestra è priva di espliciti significati politici e per Leopardi la chiave interpretativa della realtà risiede ben altrove, egli aveva comunque le sue idee pure in tal senso: era un democratico laico e repubblicano, un orientamento evidentemente inconciliabile con la Napoli borbonica. Di qui il suo isolamento, anche in questo specifico ambito, di qui gli attacchi dei giornali locali, con l’ostilità dei circoli intellettuali sul duplice fronte sia del cattolicesimo liberale, sia di quello legittimista e il dualismo col Manzoni alimentato dalla pubblicistica del tempo. Ancora una volta, la Napoli che con i suoi squarci paesistici e il Vesuvio gli aveva ispirato la grande poesia della Ginestra e di tanti altri componimenti del suo ultimo periodo creativo, gli si era rivelata nemica, stimolando quel suo rapporto continuamente 274 Marco Leone ambivalente con la città, tra attrazione sentimentale e rifiuto razionalistico. “Vesuvio contro ginestra”, chiosa a tal proposito, in conclusione (p. 130), Marti, a conferma di una duplice simbolicità di Napoli, in vivo e opposto contrasto dialettico, tra morte e vita, disperazione e speranza. Un contrasto che in realtà attraversa tutta la vita di Leopardi e che anima inevitabilmente, sul caratterizzante fondale partenopeo, anche quest’ultimo tempo della sua esistenza e della sua poesia. 275 INDICE Mario Spedicato, Marco Leone, Introduzione ............................................... p. 5 Vincenzo Zara, Mario Marti protagonista e testimone di un’epoca ............. “ 11 Paolo Perrone, Per i cento anni di Mario Marti ........................................... “ 13 Marcello Aprile, “Imperitu si ttie”: una lezione di stile e di sapienza di Mario Marti a un giovane arrogante .................................................... “ 15 Carlo Alberto Augieri, Per una lettura integrale del testo: riflessioni sul linguaggio critico di Mario Marti ...................................... “ 17 Giuseppe Antonio Camerino, Saggezza e straordinaria dottrina. Una testimonianza per Mario Marti e qualche incursione tra Dante e Leopardi ................................................................................. “ 37 Salvatore Capodieci, Il mio Mario Marti ....................................................... “ 43 Lorenzo Carlino, Ricordi di un amico ........................................................... “ 55 Mario Chiesa - Mario Pozzi, Mario Marti e il «Giornale storico della letteratura italiana» ...................................... “ 59 Domenico Cofano, Per Mario Marti ............................................................... “ 71 Rosario Coluccia, Preistoria e storia di un rapporto .................................... “ 75 Giovanni Cosi, Storie di donne nel Salento di antico regime ......................... “ 77 Luisa Cosi, “Il cervello mi fa capitommola”. Satira sociale e paradossi estetici nella commedia in musica del Settecento napoletano .................. “ 85 p. Ilario D’Ancona, Mario Marti e i Cistercensi di Martano ........................ “ 109 Fabio D’Astore, Su un ‘Libretto rosso’ .......................................................... “ 115 Salvatore De Masi, Mi si permetta l’ardire sintattico: noterelle linguistiche intorno ad uno scritto di Mario Marti ....................................................... “ 125 Wanda De Nunzio Schilardi, Per Mario Marti ............................................. “ 135 Luigi De Santis, ofm, P. Bonaventura Sicara da Avetrana (1750-1830): filosofo e teologo della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia ............... “ 137 Paolo De Stefano, L.A. Muratori (1672-1750). Il trattato “Della perfetta poesia italiana” ............................................... “ 147 Arnaldo Di Benedetto, Su Leopardi e il Romanticismo ............................... p. 157 Emilio Filieri, Immagini femminili del Purgatorio dantesco. Matelda e l’ideologia dell’Eden ................................................................ “ 171 Cosimo Damiano Fonseca, Per Mario Marti: una testimonianza ................... “ 189 Lucio Galante, Il Sant’Oronzo di Giovanni Andrea Coppola: genesi di un’iconografia ............................................................................ “ 205 Antonio Lucio Giannone, Il Novecento di Mario Marti ................................ “ 213 Luciano Graziuso, Dal 1948... ....................................................................... “ 223 Pasquale Guaragnella, La malinconia e un sistema narrativo antifrastico. Osservazioni su Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile..................... “ 231 Eugenio Imbriani, Leopardi e la vita selvaggia .............................................. “ 241 Giovanni Invitto, Letteratura e/è vita ............................................................ “ 249 Rosario Jurlaro, Il maggio brindisino di Isabella del Balzo d’Aragona e il “salvo condotto” di Re Carlo VIII ...................................................... “ 253 Alessandro Laporta, Galateo Antonino Lenio e l’Antologia Palatina: un caso di convergenza ............................................................................. “ 261 Marco Leone, Il Leopardi napoletano nell’interpretazione di Mario Marti . “ 267 Antonio Mangione, Un ricordo di Mario Marti (marzo-aprile 2013) ........... “ 277 Vitilio Masiello, Osservazioni sulla Ginestra ............................................... “ 279 Gigi Montonato, Perch’i’ no spero di tornar giammai. Cimenti allegorici per Guido Cavalcanti .................................................. “ 283 Mariarosaria Stoja Muratore, Lettera a Mario Marti ................................. “ 295 Maurizio Nocera, Mario Marti e il suo candido centenario natalizio .......... “ 297 Pantaleo Palmieri, Magister in aeternum ...................................................... “ 307 Emilio Pasquini, Variazioni sul testo della «Commedia» ............................... “ 319 Carlachiara Perrone, Mario Marti dantista ................................................. “ 331 Livio Ruggiero, Un Amico, maestro di cultura e di vita ................................. “ 337 Luigi Scorrano, Nel dolce frui. (Il canto XIX del Paradiso) .......................... “ 341 Mario Spedicato, Sigismondo Castromediano nella storia del Salento post-unitario ........................................................................... “ 357 Mario Spedicato, Testimonianza .................................................................... “ 373 Beatrice Stasi, Una lunga fedeltà e lo sviluppo di un metodo: Marti tra Aspasia e Spitzer ........................................................................ p. 377 Francesco Tateo, Il «Bembo» di Mario Marti ............................................... “ 389 Domenico Urgesi, Il carteggio di Mario Marti nella Biblioteca Comunale di Mesagne: un primo elenco ........................ “ 395 Donato Valli, A Mario Marti per i suoi 100 anni (un ricordo) ..................... “ 409 Gianluca Virgilio, Di Mario Marti, per Mario Marti ................................... “ 415 Paolo Viti, «Libris satiari nequeo». Scheda su Petrarca e i libri .................. “ 419 Vittorio Zacchino, Mario Marti mio Maestro e Donno ................................ “ 435 Ringraziamenti di Mario Marti ....................................................................... “ 449