Beato JOHN HENRY NEWMAN
(1801-1890)
Il 19 settembre 2010, durante il suo viaggio in Inghilterra […] Benedetto XVI ha proclamato beato
John Henry Newman, un anglicano convertito al cattolicesimo.
La sua lunga esistenza coprì quasi tutto il secolo XIX ed è divisa, in due tempi quasi uguali, dalla
conversione avvenuta nel 1845.
E fu tutta un’appassionata ricerca della Verità: una ricerca così totale – della mente, del cuore e
perfino del corpo (dato che vi spese tutte le forze, senza nulla risparmiare) – che egli la poté
realizzare soltanto santificandosi, giorno per giorno.
Se ne accorgevano bene gli amici, anche se lui si schermiva con quell’umorismo che gli era così
congeniale: “Io non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I santi non sono letterati, essi non
amano i classici, non scrivono romanzi. Io sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma
questo non è alto profilo… Mi basta lucidare le scarpe ai santi. Se san Filippo, in cielo, avesse
bisogno di lucido da scarpe…”.
Si riferiva a san Filippo Neri, il Santo della gioia cristiana e cattolica, che l’aveva affascinato al
tempo della conversione, e al cui carisma aveva subito aderito.
Ma l’espressione di Newman non è solo segno della sua umiltà. Essa ci avverte anche che tracciare
il “ritratto della sua santità” non sarà una cosa facile.
Di solito noi siamo attratti da quei santi che si muovono immersi nella carità sociale, coinvolti nei
drammi del loro tempo e coinvolgenti per le opere compiute e per gli esempi o gli insegnamenti
lasciati in eredità.
E rischia di sembrarci meno interessante, perché più difficile, la vicenda di quei santi che si sono
immersi nella carità dell’intelligenza, e hanno combattuto – anche per noi – battaglie decisive per
salvare l’identità cristiana dei popoli e delle nazioni.
Il Beato J. H. Newman è uno di questi Santi […]
La famiglia in cui nacque, primo di sei figli, apparteneva alla buona borghesia londinese: il papà
aveva fondato una piccola banca nella City e la mamma era di origine francese e di religione
calvinista. […]
Il piccolo John Henry era d’indole timida, portato allo studio, propenso alla solitudine, non bello,
ma di un fascino particolare; lettore appassionato di opere classiche e di romanzi, traeva grande
piacere dalla lettura della Bibbia e sapeva a perfezione il catechismo, anche se le sue convinzioni
religiose non erano molto solide. […]
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Non conosceva quasi nulla del mondo cattolico-romano, anche se da adulto – riguardando i
quaderni d’infanzia – resterà sorpreso nello scoprire che vi aveva una volta disegnato una grande
croce e un piccola coroncina del rosario, simboli religiosi cattolici, inusuali tra gli anglicani di
allora.
La tentazione dell’incredulità gli venne a quattordici anni: lesse un testo di Hume contro la
possibilità stessa dei miracoli e alcuni versi di Voltaire che negavano l’immortalità dell’anima e ne
restò affascinato: “Quanto è terribile, ma quanto è verosimile!”, annotò diligentemente sui margini
del libro. E cominciò “ad atteggiarsi in maniera sprezzante verso le cose sante”.
Gli sembrava allora che bastasse coltivare un generico ideale di bontà, accontentandosi di essere un
gentleman: credere in Dio gli pareva inutile, e non capiva cosa significasse il doverlo amare.
Poi la sofferenza (una sua grave malattia e il fallimento economico del papà) e la lettura di alcuni
buoni libri gli riaprirono le porte della fede, le cui verità fondamentali gli si impressero nell’anima
in maniera indelebile.
A segnarlo profondamente fu un’esperienza in parte discutibile, anche se decisiva in quegli anni
giovanili: “Mi ancorai al pensiero di due, e solo due, esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa
evidenza: me stesso e il mio Creatore” (Apologia, pp. 137-138): era la presa di coscienza del
proprio radicamento originario in Dio.
La preoccupazione per gli altri e per il loro destino non entrava ancora nei suoi interessi, ma almeno
dentro di lui si erano radicati un senso profondo della propria dignità e una fame di approfondire e
vivere le verità della fede.
Imparò a studiare e a pregare: “O Dio, sono peccatore, ma finché ti sarò fedele, tu mi sarai fedele
sino alla fine e sovrabbondantemente. Io posso riposarmi tra le tue braccia; posso addormentarmi
sul tuo seno.[…]”. Sentiva di dover appartenere a Dio totalmente.
Entrò nel Trinity College a Oxford, “la città santa dell’anglicanesimo”, consacrandosi allo studio
della teologia e poi all’insegnamento e alla formazione degli studenti.
Nel 1824 si fece ordinare Diacono e nel suo diario scrisse: “Ora sono responsabile per le anime
fino al giorno della mia morte”.
L’anno dopo ricevette l’ordinazione sacerdotale, alternando il lavoro accademico a quello pastorale
in una povera parrocchia.
A ventisette anni divenne parroco della chiesa universitaria di St Mary, dove per quindici anni
svolse un’intensa attività pastorale, soprattutto mediante la predicazione che riscuoteva molti
consensi perché egli sapeva parlare ai fedeli come se parlasse a ciascuno di essi, con la tenerezza
dovuta ad ognuno. Spiegava loro:
“Dio ti osserva individualmente, chiunque tu sia. Egli ti chiama con il tuo nome (cfr. Is 43,1). Egli
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ti vede, ti comprende perché ti ha creato. Egli sa quello che passa dentro di te, conosce tutti i tuoi
sentimenti e pensieri, le tue inclinazioni e le cose che ti piacciono, la tua forza e la tua debolezza.
Egli ti osserva nei giorni della gioia come pure nei giorni del dolore. Egli ti è vicino nelle tue
speranze come nelle tue tentazioni.[…]” (Parochial and Plain Sermons, vol. III, pp. 124-125).
Quando poi voleva approfondire la dottrina, allora si dedicava con passione a rievocare la fede e la
storia dei primi cristiani e gli insegnamenti dei grandi Padri della Chiesa.
Purtroppo l’università era impregnata di razionalismo e in teologia s’indulgeva sempre più al
liberalismo.
Newman diceva allora, non senza sofferenza, che la fede di molti anglicani sembrava ormai pronta
ad accettare come ideale questa specie di preghiera: “O Dio, se esisti, salva la mia anima, se io ho
una anima!”.
Perciò, dopo qualche iniziale entusiasmo, si sentì disgustato dall’ambiente accademico, dove
svolgeva il compito di Tutor occupandosi della formazione culturale degli universitari, e l’ambiente
cominciò ad emarginarlo, finché gli tolsero gli studenti.
Ne approfittò per studiare più sistematicamente e con crescente affezione gli antichi Padri della
Chiesa (“Sono loro che mi hanno fatto diventare cattolico”, dirà in seguito) e si appassionò
soprattutto alle vicende del IV secolo, quando era sembrato che l’eresia ariana potesse sommergere
la cristianità, e tuttavia la Chiesa aveva mostrato di saper reagire e ritrovare il giusto cammino.
Cercava di trarne criteri per identificare le caratteristiche della vera Chiesa.
Per sua fortuna incontrò anche degli amici che lo aiutarono a equilibrare i suoi giudizi sulla storia
ecclesiastica: certo egli restava assolutamente persuaso della centralità della Chiesa anglicana, ma
cominciò a giudicare più severamente la Chiesa riformata (protestante) e più positivamente (con
una certa ammirazione) la Chiesa romana (che Newman fino ad allora aveva considerato quasi
anticristiana).
E certi aspetti tipicamente cattolico-romani (come la devozione alla Vergine Santa e la presenza
reale del corpo e sangue di Cristo nell’Eucaristia) cominciarono ad affascinarlo.
Rimasto senza studenti, intraprese con alcuni amici un viaggio nell’Europa meridionale, per visitare
le varie coste del mediterraneo. Toccò Cadice, Gibilterra, Algeri, Malta, Corfù, e infine la Sicilia.
Patì come tutti il mal di mare e scrisse, con tipico umorismo inglese, che il peggio di questo male
sta nel fatto che lo soffrono anche gli oggetti a bordo: tavoli, sedie, bicchieri, posate. […] Ma
compiuto il viaggio, s’intestardì a voler tornare un’altra volta, da solo, in Sicilia.
A Napoli assoldò un certo Gennaro come cameriere (un personaggio pittoresco), comprò due muli,
ingaggiò anche un mulattiere e si rimbarcarono tutti per Messina. Restò incantato da Taormina:
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«Non ho mai visto niente di più meraviglioso. Non sapevo che potesse esistere tanta bellezza!».
[…]
Si ammalò di febbre tifoidea, rischiando di morire. Dovette fermarsi tre settimane ad Enna (allora
Castrogiovanni), accolto affettuosamente dalla gente del luogo, anche se quasi nessuno lo capiva.
Spesso si ritrovava a piangere seduto sul letto, mentre mormorava: “Non morirò, non morirò. Non
ho peccato contro la luce!”. Ma lui stesso non sapeva che cosa volesse dire con queste parole. E
l’ultimo giorno della sua permanenza nella locanda, all’infermiere ripeté: “Non posso morire. Ho
un lavoro da fare in Inghilterra!”. Sentiva d’avere una missione da compiere.
Quando poté riprendere la strada tra Enna e Palermo, il panorama primaverile tornò ad affascinarlo:
«Non avevo mai visto una campagna simile: la primavera era nel suo rigoglio. […]».
A Palermo dovette aspettare per tre settimane che un battello carico di arance (erano diventate la
sua passione!) partisse per Marsiglia, e le passò visitando le chiese gremite di gente, osservando
stupito funzioni religiose e devozioni di cui non capiva il senso. “Non sapevo nulla della Presenza
del Santissimo Sacramento”, spiegherà poi.
Alle Bocche di Bonifacio la nave restò ferma una settimana per mancanza di venti e Newman
trascorse il tempo a comporre poesie.
Una di esse è diventata celebre ed esprime bene lo stato d’animo di quei giorni in cui sentiva
l’urgenza di seguire Dio (la sua luce) con maggiore umiltà e decisione di quanto non avesse fatto
fino ad allora.
S’intitola Lead Kindly Light (Guidami, luce gentile) e, più che una poesia, è una preghiera e la
promessa di un nuovo stile di vita:
“Guidami, luce gentile, tra le tenebre, guidami tu!
Nera è la notte, lontana la casa - guidami tu!
Reggi i miei passi;
non voglio vedere cose lontane,
un solo passo mi basta!
Così non fui mai; né ti pregai così, per la tua guida.
Amavo scegliere io la mia strada; ma ora guidami tu!
Amavo il giorno chiaro, l’orgoglio mi guidava,
disprezzavo la paura: non ricordare quegli anni.
La tua potenza che sempre mi benedisse, ancor oggi mi guiderà
per paludi e brughiere, per monti e torrenti,
finché svanisca la notte
e mi sorridano all’alba i volti degli angeli
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amati a lungo, e ora perduti”.
Riepilogando, in una lettera alla madre, la sua avventura siciliana, le scriverà con rara potenza
espressiva di sapore agostiniano: “Ovunque sia, Dio è Dio e io sono io”, per spiegarle che si era
trovato solo, in un mistico faccia a faccia che lo aveva segnato per sempre, togliendo al suo io ogni
presunzione; l’io gli era apparso in tutta la sua nudità spirituale, ma “davanti a Dio, giudice
misericordioso”.
Tornò in Inghilterra giusto in tempo per ascoltare il discorso programmatico del suo più caro amico,
che segnò una svolta nella sua vita.
Il tema era di sconcertante gravità: “L’apostasia nazionale”. Era un grido di protesta, perché da
tempo la Chiesa inglese si lasciava dominare da un pauroso liberalismo: non c’erano più dogmi, non
c’era più rivelazione, ma soltanto i pretesi diritti della ragione. I cristiani si erano arresi a un
“potere eretico”, così com’era accaduto a molte comunità durante la crisi ariana del IV secolo.
Per rivitalizzare la Chiesa Anglicana era nato perciò il Movimento di Oxford, di cui ben presto
Newman sarebbe diventato il leader indiscusso.
Erano quattro amici e cominciarono a pubblicare una serie di brevi trattati per riproporre le
fondamentali verità del cristianesimo. Ma più entravano nel vivo dei problemi, più si rendevano
conto che, per reagire alle storture del liberalismo teologico ormai imperante, non avevano altra
strada che accostarsi al pensiero cattolico-romano.
Alla fine l’Università di Oxford e i Vescovi anglicani li sconfessarono pubblicamente.
Ma qual era esattamente il pensiero di Newman e dei suoi amici?
Il punto di partenza era sempre un attaccamento profondo e quasi geloso alla Chiesa Anglicana: fin
da giovane e nel corso degli studi egli si era convinto che essa fosse la vera Chiesa erede diretta di
quella fondata dagli Apostoli, collocata esattamente tra le chiese protestanti ammalate di
riduzionismo e quella romana piena d’intemperanze e di contaminazioni pagane.
Durante il viaggio nel Mediterraneo, Roma gli era apparsa un miscuglio di bene e di male, di
grandezza e di corruzione. […]
Lo avevano attratto le memorie dei martiri e lo aveva disgustato il fatto che il Papa vi risiedesse
come un Regnante e Capo di Stato; aveva provato ripugnanza per titoli, cariche e cerimonie a cui
aveva potuto assistere. Il clero cattolico gli era parso incolto e piuttosto egoista. L’abbondanza di
raffigurazioni e di devozioni dedicate alla Madonna e ai Santi gli era sembrata una specie di
cedimento al politeismo. E poi tra i cattolici si predicavano dottrine (il sacrificio della Messa, il
purgatorio) che riteneva inventate nel corso dei secoli. Gli era parso anche che i cattolici
ostentassero un’eccessiva sicurezza in fatto di perdono e di salvezza.
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Tutto sommato non aveva fatto fatica a credere che il Papa fosse quell’Anticristo corruttore della
vera dottrina di cui parlano i testi biblici.
D’altra parte, però, aveva dovuto ammirare il profondo senso religioso della gente, il sistema di
governo pontificio, l’impregnazione tra fede e vita quotidiana.
Ed era stato affascinato dal senso di “cattolicità” (universalità) che a Roma si respirava.
Una frase di Sant’Agostino continuava a risuonargli nella mente: «Solo la Chiesa universale può
essere sicura della verità, nei suoi giudizi».
E proprio in fatto di universalità la chiesa anglicana cominciava a sembrargli paurosamente ristretta,
sia dal punto di vista storico che culturale.
Fino ad allora si era sentito appagato dall’idea che gli anglicani fossero una via media (piccola, però
autentica) tra l’ampia e individualistica strada della riduzione critica percorsa dai protestanti (in
seguito dirà che il protestantesimo gli sembrava “la più triste delle religioni possibili”) e l’ampia e
caotica strada dell’effervescenza troppo umana dei cattolici romani.
Ma proprio quell’espressione che avevano coniato con tanto amore (Via Media) rischiava di
sottolineare un limite preoccupante.
“O Roma, se tu non fossi Roma!”, si era trovato ad esclamare.
Poi era sopravvenuta la crisi, quasi mistica, della malattia in Sicilia e la percezione d’avere ancora
in sé qualcosa di troppo umano […].
Tornato, dunque, in Inghilterra, si trovò a dover affrontare con decisione il problema della “vera
Chiesa”.
S’immerse nello studio degli antichi Padri, nell’approfondimento di alcune vicende storiche
controverse, nella verifica di certi aspri giudizi antiromani che aveva troppo pacificamente ereditato
dai suoi maestri e dai libri.
Decise di approfondire i dogmi della fede cristiana in tutta la loro ampiezza e coerenza: nell’esigere
che il sistema sacramentale inaugurato da Cristo fosse studiato e accettato in maniera compatta e
organica; nel valutare la coerenza tra la fede professata e la santità della vita.
E qui gli accadde qualcosa di assolutamente inatteso.
Era talmente convinto della verità dell’autentico anglicanesimo e degli inaccettabili errori dei
cosiddetti “papisti”, che non sentiva alcun bisogno di difendersi dal fascino della Chiesa di Roma.
Riconosceva solo, con onestà, che la Via Media a cui si era appassionato, nei fatti esisteva solo nella
carta e nelle dottrine. Ed era quasi tentato di ammettere: “Per ora la Via Media dorme nelle
biblioteche”.
Perciò si dedicò ad arricchirla, a darle consistenza, ampiezza, profondità…
Ed ecco che più s’inoltrava su questo terreno, più si trovava spostato oggettivamente dalla parte
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della Chiesa di Roma. Quando qualcosa si muoveva, nelle sue idee, nelle sue scoperte, nelle sue
esperienze, ecco che si muoveva sempre verso Roma, anche quando ciò non era nelle sue intenzioni.
E più cercava di spiegarsi, davanti ad amici e avversari, più tutti gli dicevano che stava diventando
un papista.
Affrontò allora di petto la questione radicale: Roma aveva aggiunto dottrine inaccettabili alla fede
originaria? Il suo culto della Vergine e dei Santi era idolatria? Il Papa era l’Anticristo?
Il primo problema si sciolse come neve al sole quando Newman afferrò l’idea dello sviluppo del
dogma e la approfondì in maniera sistematica: nella storia i cambiamenti accadono inevitabilmente,
ma ci sono cambiamenti che indicano un mutamento e altri cambiamenti che indicano uno sviluppo,
una maturazione.
E bisognava ammettere che, nella Chiesa di Roma, certe verità non erano state inventate, ma si
erano semplicemente “ingrandite nella coscienza”: contemporaneamente, però, si era ingrandito
anche l’insieme del corpo ecclesiale, e quell’accrescimento era bello e armonioso, come accade a un
corpo umano col passare degli anni.
La Chiesa insomma era “un organismo vivente” in progressiva e armonica crescita.
Rifletteva: «…Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte
trasformazioni».
Il fatto, poi, che Roma indulgesse a una religione popolare dove la Madonna e i Santi avevano un
posto eccessivo (era questo – a parere di Newman – “il peccato essenziale della Chiesa romana”)
cessò di scandalizzarlo quando comprese fino a che punto fossero legati assieme l’attaccamento a
Maria e la fede nella vera Incarnazione del Figlio di Dio.
A Roma la fede nella Trinità e nell’Incarnazione non avevano mai vacillato; in Inghilterra erano
messe in questione.
Non era la devozione a Maria a sminuire la fede in Cristo-Dio (come temevano anglicani e
protestanti), ma era la scarsa fede in Cristo-Dio a impedire la devozione a Maria. […]
Aveva voluto leggere S. Alfonso Maria de' Liguori, l’autore cattolico più incriminato in fatto di
“eccessi mariani”, ed era rimasto stupefatto: aveva trovato sì qualche espressione eccessiva e
qualche pratica contrastante col suo gusto inglese, ma la teologia era limpida e bella. E annotò con
quell’umorismo che non gli mancava mai: “Quanto ai consigli pratici, S. Alfonso li scrisse per i
napoletani che lui conosceva e che io non conosco”.
Pian piano arrivò a poter quasi tratteggiare le due opzioni teologiche ed ecclesiali, che aveva
davanti a sé, descrivendo due diverse icone.
L’icona preferita dalla teologia anglicana è quella del Calvario: il Crocifisso si staglia in alto,
isolato e irraggiungibile, anche se con la Chiesa vicina, ma sempre sullo sfondo.
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L’icona preferita dalla teologia cattolica è l’immagine della Madonna col Bambino: la Verità giace
nascosta nella Chiesa, quasi fosse un tutt’uno con lei, abbracciata e per così dire perduta in
quell’abbraccio” (Apologia, p. 142).
Infine la questione del Papa-Anticristo, studiata a fondo, lo portò a una completa ritrattazione e
domanda di perdono: capì di essersi trascinato addosso, in maniera acritica, antichi pregiudizi che
gli erano stati trasmessi. Senza volerlo s’era portato dietro, per anni e anni, “un’immaginazione
macchiata”. In Inghilterra tutto ciò che era cattolico-romano era stato sporcato perfino nel
linguaggio che il popolo usava abitualmente.
Insomma, alla fine del percorso, Newman era arrivato a una persuasione radicale: “Ci sono solo due
alternative: una che porta a Roma e una che porta all’ateismo (…). Io sono cattolico perché credo in
Dio” (Apologia, p. 226).
L’espressione può sembrare eccessiva, ma nasceva dalla persuasione che tutto il cristianesimo si
radica sull’Incarnazione del Figlio di Dio, e ci sono solo due strade: o innamorarsi sempre di più
della concretezza storica di questo avvenimento o ridurlo sempre di più fino a colpire Dio stesso e
ad escluderlo.
Intanto Newman e i suoi amici si trovavano sempre più emarginati e rifiutati. Non mancavano
neppure le calunnie: da tempo erano accusati d’esser già passati nascostamente alla Chiesa di
Roma, ma di restare ipocritamente tra gli anglicani solo per farsi nuovi discepoli e traviare vecchi
amici.
In realtà egli attendeva di poter compiere il passo con coscienza assolutamente pura e certa.
Quando ne fu persuaso, si dimise dall’incarico universitario che ricopriva ad Oxford e dall’ufficio
pastorale a St. Mary.
La sera del giorno 8 ottobre 1845 Newman attendeva p. Domenico Bàrberi, un umile frate
passionista italiano, missionario in Inghilterra, per chiedergli di essere accolto nella Chiesa
Cattolica (ormai la chiamava soltanto così, e non usava più l’aggettivo “romana”).
Il frate aveva viaggiato cinque ore sotto la pioggia battente ed era giunto completamente fradicio;
mentre egli si asciugava rabbrividendo accanto al cammino, Newman gli fece un lunga confessione
generale. Il giorno dopo emise la sua abiura, ricevette nuovamente il Battesimo (per maggior
sicurezza) e assistette alla prima vera Messa della sua vita.
Tra i colleghi e i conoscenti, alcuni lo accusarono d’essere un uomo debole e senza carattere; altri lo
sospettarono di nutrire interessi personali; altri tirarono un respiro di sollievo per essersi finalmente
liberati di una voce scomoda; altri lo deridevano e preconizzavano il suo pronto ritorno all’ovile
quando avrebbe scoperto le malefatte di Roma e vi avrebbe trovato un’aria chiusa e irrespirabile.
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Ma Newman sapeva bene che, in realtà, niente l’aveva attirato se non la raggiunta certezza che non
esistesse un’altra vera Chiesa di Cristo al di fuori di quella di Roma.
Quello era l’unico guadagno, tutto il resto poteva sembrare umanamente una perdita.
Abbandonando la comunità anglicana, egli sapeva che avrebbe perso prestigio, potere, carriera,
denaro, amici e familiari, per appartenere a un gruppo marginale e culturalmente disprezzato, come
erano i cattolici nell’Inghilterra di allora.
Ed anche presso i suoi nuovi fratelli “cattolici”, per decenni, egli avrebbe incontrato soltanto
mancanza di fiducia e tanti meschini sospetti. In Vaticano, nella stretta cerchia di Pio IX, c’era un
prelato inglese che avvertiva: “Newman è l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”. […]
Di sé egli poteva scrivere: «Dal giorno in cui divenni cattolico, non ho avuto alcuna inquietudine
nello spirito. Mi sono trovato nella più perfetta pace e tranquillità; non ho mai avuto alcun dubbio»
(Apologia, p. 378).
Si recò quindi a Roma assieme a un amico (Ambrose St. John) che s’era convertito pochi giorni
prima di lui e che resterà per sempre fratello della sua anima e il suo più fidato collaboratore.
Volle approfondire la teologia cattolica (ma trovò anche il tempo di scrivere due romanzi) per
prepararsi a ricevere l’ordinazione sacerdotale. Papa Pio IX gli concesse anche il titolo di Dottore in
Teologia, honoris causa.
Scelse anche di aggregarsi agli Oratoriani di San Filippo Neri da cui era affascinato. […]
Perciò chiese direttamente al Papa il permesso di fondare in Inghilterra la prima casa oratoriana. E
nell’oratorio di Birmingham, edificato con gli amici che l’avevano seguito nella conversione, egli
vivrà per più di trent’anni “nella pace e nella felicità”.
Quando tornò in patria, si appuntarono su di lui le speranze dei cattolici inglesi che cercavano di
risollevarsi dall’emarginazione in cui erano confinati.
Ma le situazioni erano complesse o addirittura aggrovigliate e Newman dovette subire, senza sua
colpa, una serie di fallimenti.
Dapprima gli chiesero di fondare una Università Cattolica in Irlanda.
Newman scrisse allora uno dei suoi più bei libri sull’Idea di Università, basato sulla persuasione
che “tutto il sapere deve formare un insieme armonico” in modo che gli studenti possano cogliere i
nessi tra tutte le scienze umane e religiose, imparando non solo dai libri, ma da Maestri che
incarnino signorilmente le verità che comunicano.
Si trattava, a suo parere, di preparare “una élite generosa e pienamente aperta ai problemi del
tempo”. Lo nominarono ufficialmente Rettore dell’erigenda Università, ma i Vescovi non si
accordarono, anche per i sospetti che gli irlandesi cattolici nutrivano verso un inglese appena
convertito. […]
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Gli chiesero allora di curare una nuova traduzione inglese della Bibbia, ma poi non gli diedero i
mezzi economici per avviare l’impresa.
Gli affidarono la direzione di una Rivista (The Rambler) animata da un gruppo di laici in difficoltà
con i propri Vescovi, ma riuscì a firmare un solo numero, perché non piacquero le idee da lui
espresse circa la collaborazione che l’episcopato doveva intrattenere con i laici quando si trattava di
questioni che li riguardavano.
Ci fu anzi chi comunicò a Roma le sue perplessità su quel convertito, dalle idee troppo moderne.
[…].
Con lo stile che lo distingueva, Newman non si difese dai mille, piccoli attacchi meschini, sempre
legati all’interpretazione di episodi frammentari. Lasciava la sua difesa a Dio: “Dio lavora per
coloro che non lavorano per se stessi”, diceva.
E tuttavia scrisse (pubblicandola in fascicoli settimanali) un’Apologia pro vita sua per dimostrare la
linearità e la sincerità del suo itinerario di conversione. Questo lo doveva ai suoi amici e ai suoi
accusatori, perché il fascino della verità non doveva essere sporcato e umiliato. […]
Altri studi che lo appassionavano riguardavano il tema della “ragionevolezza della fede” e compose
un trattato per dimostrare che l’assenso della fede (il fatto che un credente possa dire di sì con piena
ragionevolezza) non si fonda sull’avere soltanto evidenze razionali su ogni singola verità, ma su una
forma di certezza a cui la persona giunge con tutta se stessa e a cui dice di sì con tutta se stessa. Un
lavorìo integrale, in cui il cuore non è d’impedimento, ma di guida.
Era la sua persuasione più profonda: si ragiona non con una “logica cartacea”, ma “con tutto se
stessi”. E allo stesso modo si crede.
Compiva così un percorso intellettuale e spirituale di rara profondità. Oggi possiamo dire che la
vicenda di Newman non apparteneva soltanto a lui. Senza saperlo né prevederlo, egli ebbe la
vocazione di aprire una strada inesplorata.
Tante problematiche, che egli intuì e cominciò ad affrontare, sarebbero emerse in tutta la loro
gravità soltanto nel secolo che lo lega ai nostri giorni e ai nostri drammi. Al punto che già Paolo VI,
parlando del suo itinerario, ha potuto dire: «Fu un percorso, il più penoso, ma anche il più grande, il
più significativo, il più decisivo che il pensiero umano abbia mai condotto… nell’età moderna».
Le sofferenze certo non mancavano. Quando Newman predicava sulla Croce di Cristo – col suo
solito stile inimitabile e intenso – c’era tra gli ascoltatori chi pensava istintivamente: “Povero
Padre, Lui sa bene come si parla della Croce!”.
A non essere sorpreso delle croci era proprio lui. Diceva: “Per tutta la mia vita, ho predicato che è
necessario soffrire per la verità; ora è il mio turno”.
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Intanto a Roma si vivevano avvenimenti epocali: cadde lo Stato Pontificio e Newman non se ne
dispiacque eccessivamente, al punto che qualcuno lo accusò d’essere “complice di Garibaldi”.
Si chiuse il Concilio Vaticano e Newman si augurò (e pregò) che la definizione dell’infallibilità del
Papa non assumesse toni trionfalistici e aggressivi, ma si mantenesse dentro l’umile e gioiosa
percezione dei doni fatti da Cristo alla sua Chiesa.
In Inghilterra si diceva che, dopo quella proclamazione, era impossibile essere contemporaneamente
buon cattolico e buon inglese e Newman rispose con una battuta che sarebbe diventata celebre.
Nella sua famosa Lettera al Duca di Norfolk scrisse: «Certamente, se io fossi costretto a
coinvolgere la religione in un brindisi al termine di un pranzo (cosa che in realtà non è proprio il
caso di fare), brinderò al Papa – se vi fa piacere – ma, brinderò prima alla coscienza e poi al Papa».
Anche questa frase gli sarebbe stata rimproverata più volte, ma la sua intenzione era stata ben
lontana dal voler far contrastare l’obbedienza dovuta al Papa con quella prioritaria dovuta alla
propria coscienza. Per lui appellarsi alla coscienza non significava appellarsi alla propria
soggettività individuale (come poi è diventato di moda), ma ascoltare la voce che la Verità oggettiva
fa risuonare dentro di noi. La coscienza “è la voce di una Persona che ci parla nel cuore”.
Con la squisita sensibilità che lo caratterizzava e contro certi massimalismi aggressivi del tempo,
Newman voleva far osservare che Papa e coscienza si dovevano legare assieme, ed è l’unico
attaccamento alla stessa Verità che deve tenere assieme, ordinatamente, i due brindisi.
Così, il primo trentennio dopo la conversione fu per lui un susseguirsi di gioie e di pene, di pace
profonda nell’animo, nonostante gli toccasse esperimentare malevolenze e ostilità da chi non aveva
accettato il suo passaggio al cattolicesimo e diffidenza da parte di chi non riusciva a crederlo
veramente “cattolico”: agli uni e agli altri Newman sembra troppo intelligente per essere sincero,
troppo “in ricerca” per accontentarsi o per accontentare coloro che avevano su di lui qualche
progetto. […]
Le nebbie si diradarono quando Papa Leone XIII gli conferì la dignità cardinalizia, vincendo non
poche resistenze e tentativi di impedire la nomina: Newman aveva già 78 anni.
Per l’occasione egli scelse per il suo stemma cardinalizio il motto: “Cor ad cor loquitur” - “Il
cuore parla al cuore”. E i cuori disegnati sullo stemma erano tre: a indicare che il dialogo vero
accade tra il cuore di Dio, il proprio cuore e il cuore dell’altro, con un movimento circolare sempre
più intenso. […]
Nel discorso di ringraziamento – che si era scritto su un biglietto – Newman volle subito precisare,
nella maniera più chiara e decisa possibile, il senso di tutta la sua opera: una lotta senza quartiere e
senza alcun cedimento contro l’aggressione più grave che la fede cristiana stava subendo in quegli
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anni:
«Fin dall’inizio mi sono opposto a una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho
cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa
Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimè!, si
tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra (…)».
Spiegava: «Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui (…) un credo vale l’altro, e
questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque
riconoscimento di una religione come vera. [Questo “liberalismo religioso”] insegna che tutte le
religioni devono essere tollerate, perché si tratta di una questione di opinioni. Insegna che la
religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto
oggettivo o miracoloso; e che è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la
sua fantasia. [Insegna che] la devozione non si fonda necessariamente sulla fede; che si possono
frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non
appartenere a nessuna. [Insegna che] si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in
comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché
dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si sostiene che
deve essere assolutamente ignorata nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione
ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno
indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è
affatto un collante della società… Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può
permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né
infastidirli praticandola lui stesso».
Era questa, secondo Newman, “la grande apostasia” che consisteva nel prender dal pensiero
liberale “un bell’elenco di principi” (i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo,
benevolenza), ma con l’intento di “mettere da parte e cancellare completamente la religione”. Si
voleva così ottenere “il completo rigetto del cristianesimo”, attraverso “un’educazione totalmente
secolarizzata”.
“Invero – concludeva Newman – non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato
e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi,
attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga
esperienza, e giovani di belle speranze”.
Queste cose spiegava al Papa e agli altri cardinali, il vecchissimo cardinale inglese convertito, nel
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suo “Biglietto-Speech” che fu subito ripreso dall’Osservatore Romano e dal Times.
Un secolo fa egli già descriveva la “trappola mortale” che chiamava “liberalismo religioso” e che
oggi Papa Benedetto XVI chiama “dittatura del relativismo” (“che non riconosce nulla come
definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”), con la dolorosa
coscienza e preoccupazione che quella trappola già funziona da più di cento anni, e si è ramificata a
dismisura.
Ed è anche per questo che il Papa ha voluto andare in Inghilterra a proclamare Newman Beato. […]
Nel suo tempo, e fino ai nostri giorni, Newman ha esercitato un’eroica resistenza e adempiuto una
splendida missione. […]. Lo imitarono nella conversione centinaia di intellettuali e ci sono “almeno
diecimila testimonianze di conversioni al cattolicesimo avvenute grazie a Newman” . […]
Fu pensando a lui che Chesterton scrisse splendidamente: «La Chiesa Cattolica è il luogo in cui
tutte le verità si danno appuntamento».
Ma Newman non è un santo buono solo per gli intellettuali e per i teologi.
Certo egli non avrebbe potuto diventar santo (era questo il proposito fatto fin dagli anni giovanili)
senza impregnare di verità e di carità l’intelligenza che Dio gli aveva donato, ma alla gente
semplice che lo interrogava sul modo di farsi santi rispondeva: “Se voi mi domandate cosa dovete
fare per essere perfetti, io vi rispondo: non rimanete a letto dopo l’ora fissata; rivolgete i vostri
primi pensieri a Dio; fate una breve visita a Gesù Eucaristia; recitate devotamente l’Angelus;
mangiate e bevete per la gloria di Dio; recitate bene la vostra corona del rosario; siate raccolti;
cacciate i cattivi pensieri; fate con devozione la vostra meditazione della sera; esaminate ogni
giorno la vostra coscienza; giunta l’ora, coricatevi e sarete già perfetti” (Meditazioni e preghiere).
Newman riuscì a celebrare la sua ultima Messa nel Natale del 1889. Poi le forze lo abbandonarono e
per altri otto mesi visse nel suo letto, tutto affidato a Dio, immerso nella preghiera e aggrappato alla
corona del Rosario che gli era diventata carissima.
Aveva scritto: “La grande forza del Rosario sta in questo: esso trasforma il Credo in preghiera”.
Morì contento di passare finalmente “dalle ombre e dalle immagini alla Verità”, e sono queste le
parole che volle incise sulla sua tomba.
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Beato JOHN HENRY NEWMAN