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L importanza
di essere Russia
F
1.
RA STATI UNITI E CINA DECIDERÀ LA RUSSIA. SE QUESTO SARÀ UN
altro secolo americano o se invece segnerà l’ascesa dell’Impero di Mezzo, dipenderà in buona misura dal destino della Federazione Russa. Il
maggiore erede dell’Unione Sovietica custodisce nel suo immenso territorio le risorse e le minacce capaci di deviare il corso della storia.
Le risorse sono energetiche. La Russia è il primo esportatore di gas e il
secondo di petrolio al mondo. Americani e soprattutto cinesi sono interessati alle esportazioni di energia gestite da Mosca, anche per diversificare le fonti di approvvigionamento in tempi di incertezza geopolitica. L’esito del sordo conflitto per il controllo delle majors russe e per le
vie di commercializzazione degli idrocarburi contribuirà a riclassificare le gerarchie internazionali su scala globale.
Le minacce sono atomiche. La guerra fredda è finita, pare. Ma le
forze nucleari russe ed americane restano in stato di allarme, pronte a
colpirsi reciprocamente. La Russia è il solo paese al mondo capace di
lanciare un attacco nucleare contro gli Stati Uniti. Mosca possiede ancora 18 mila testate atomiche e 631 missili balistici intercontinentali. E
annuncia una nuova generazione di supermissili in grado di perforare qualsiasi «scudo stellare» Usa. Peggio: dalle maglie fatiscenti del suo
apparato nucleare è già filtrato materiale fissile verso gruppi terroristici
e Stati proliferatori.
Estremo paradosso, la Federazione Russa risulterebbe decisiva anche se scomparisse. Le risorse energetiche e le minacce atomiche non
dipendono dall’esistenza dello Stato. Anzi, la fine della Russia come
soggetto internazionale renderebbe più selvaggia la caccia al gas e al
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greggio. E moltiplicherebbe i pericoli di proliferazione di armi di distruzione di massa. Una manna per i terroristi, che già oggi, secondo il
segretario del Consiglio di sicurezza russo, Igor’ Ivanov, potrebbero
saccheggiare depositi di armi chimiche o mettere insieme una «bomba
radiologica sporca», sufficiente a seminare distruzione e panico in una
grande città 1.
La disintegrazione della Federazione non è un’ipotesi di scuola. Fino a pochi anni fa, era una probabilità ammessa dagli stessi leader
russi: «Oggi noi siamo seriamente minacciati dal pericolo che il nostro
paese caschi a pezzi», stabiliva il primo ministro Evgenij Primakov nel
suo discorso di insediamento, il 14 settembre 1998 2. Da quando ha
preso il potere, nel gennaio 2000, Vladimir Putin ha fatto della salvezza dello Stato russo la sua priorità assoluta. Primum vivere. Giacché la
Russia non sarà più una superpotenza, forse. Ma intende partecipare
da protagonista alla ricostruzione di un nuovo equilibrio della potenza globale, distrutto dal crollo dell’Urss.
In altri termini, Putin vuole che la Russia risulti decisiva nella partita sino-americana come soggetto e non come oggetto. Come fattore di
potenza in grado di difendere i propri interessi, non come una sterminata Balcania in decomposizione. La sua politica interna ed estera è
quindi funzione della necessità di salvare lo Stato. Per questo occorre
ricostruirne la spina dorsale – la «verticale del potere» – spezzata dalle
avventure di Gorbačëv e dalla ciclotimia di El’cin.
Per questo obiettivo Putin è pronto a sacrificare tutto, comprese alcune parodie del modello liberaldemocratico occidentale che negli anni Novanta avevano portato la Russia sull’orlo dell’anarchia. Visto dal
Cremlino, lo spazio russo è troppo vasto ed eterogeneo per essere retto
secondo le regole di Westminster. Tenere insieme l’impero residuale
esclude l’importazione di meccanismi basati sul bilanciamento dei poteri e sull’alternanza di governi espressi dal popolo. O democrazia o
impero. Questa la sostanza, che non esclude affatto, anzi implica, il ricorso ai riti di passaggio del suffragio popolare, opportunamente modulato. Ma il potere è Putin.
Il presidente aveva avvertito da subito chiunque fosse disposto ad
ascoltarlo. Nel suo «autoritratto», dipinto conversando con tre giornalisti russi poco dopo essersi insediato al Cremlino, Putin stabiliva la necessità di «un più rigido potere presidenziale». E a chiarire il concetto
8
1. Cfr. I. IWANOW, «Russland und die europäische Sicherheit», Neue Zürcher Zeitung, 11/11/2004, p. 7.
2. Così Evgenij Primakov in un’intervista alla Rossijskaja Gazeta, 15/9/1998, cit. nell’editoriale «Sangue
e terra», Limes, «La Russia a pezzi», n. 4/1998, p. 7.
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confessava ridendo di ispirarsi a Napoleone Bonaparte. Poi fissava i
suoi paletti. Primo: «Da sempre in Russia il potere statale è stato estremamente centralizzato. È una caratteristica che si iscrive praticamente
nel codice genetico del paese, nella sua tradizione e nella mentalità del
suo popolo». Secondo: «La Russia ha bisogno di un forte potere statale».
Terzo: «La Russia non diventerà mai la seconda edizione degli Stati
Uniti o della Gran Bretagna». Putin anticipava persino la stretta nei
confronti dei governatori delle province – saranno nominati dal Cremlino, non più eletti dal popolo: «Possiamo mettere a punto dei sistemi
per collegarli più strettamente al potere centrale» 3.
Non è affatto scontato che l’ex spia del Kgb riesca nel compito storico che si è assegnato. Ma bisogna riconoscergli una certa coerenza. E
molto coraggio, visto che se fallirà sarà lui per primo a pagare: quanto
più il potere è identificato con una persona, tanto più ovvia la ricerca
del capro espiatorio.
2. Per rimettere in piedi il colosso russo, Putin deve curarne almeno cinque malattie degenerative, fra loro connesse: il declino demografico; la monocultura energetica, una droga da cui dipende quasi l’intera economia; la pervasività della corruzione e delle mafie; la delegittimazione della politica e delle sue istituzioni, Cremlino per ora escluso; la fragilità geopolitica interna ed esterna. Sono cinque aspetti di un
medesimo deficit strutturale: lo Stato russo non controlla vastissime
porzioni del suo territorio. Se non vi recupera almeno alcune postazioni strategiche la prognosi resta riservata.
Esaminiamo partitamente le cinque emergenze e le eventuali terapie.
A) Ogni anno, a partire dal 1999, vi sono al mondo 900 mila russi
in meno. Secondo il censimento del 2002 gli abitanti della Federazione
Russa erano 145.181.900 (l’81,5% dell’etnia eponima), oggi se ne stimano poco più di 143 milioni. Nel 2003 l’aspettativa di vita media in
Russia era di 64,9 anni (72 per le donne, 58,6 per gli uomini), contro i
70,1 dell’ancora sovietico 1987. Più che giustificato l’allarme lanciato
da Putin nel 2000: «Se l’attuale tendenza si manterrà, la sopravvivenza della nazione sarà in pericolo» 4. La tendenza continua.
Micidiale è l’alcool, cui si deve un decesso su tre, soprattutto fra gli
uomini. Il vizio della vodka e dei suoi perfidi surrogati uccide le persone e spezza le famiglie. Spesso sono le mogli a promuovere il divorzio
3. Cfr. V. PUTIN, Memorie d’oltrecortina, Roma 2001, Carocci. I riferimenti sono tratti nell’ordine dalle
pp. 159, 184, 178, 210, 208 e 175.
4. Cfr. l’articolo di V. PEREVEDENCEV in questo volume, p. 78.
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per via dell’attaccamento dei mariti alla bottiglia. La coppia produce
raramente più di un figlio. Di qui talune estrapolazioni catastrofiche –
forse eccessivamente lineari – per cui la Russia perderà 50 milioni di
abitanti in 50 anni 5.
Lo spopolamento si accentua nelle già semideserte regioni siberiane
e flagella le campagne: secondo il censimento del 2002, su 155 mila
villaggi, 13 mila risultano abbandonati e 35 mila ospitano meno di
dieci anime. E se Mosca cresce (+16,7% dal 1989 al 2002), Pietroburgo
cala (-6,4%). Di particolare rilievo geopolitico la crescita nelle regioni
caucasiche e a più forte insediamento islamico, crogiuolo di separatismi (vedi carta a colori 1). Le migrazioni dai paesi dell’ex Urss compensano in parte il crollo demografico e incentivano i collegamenti fra la
Russia e le sue antiche periferie imperiali (vedi carta a colori 2). Sintomatica l’immigrazione tra il 1989 e il 2002 di circa 6 milioni di russi
provenienti dalle repubbliche ex sovietiche, dove restano circa 19 milioni di «piedi rossi» (vedi carta a colori 3). Una diaspora russa e russofona che in alcuni paesi, specie i baltici, è considerata la quinta colonna di Mosca e trattata di conseguenza.
B) La leggendaria corruzione della burocrazia russa ha ispirato la
molto realistica fantasia di illustri scrittori. La cultura dell’illegalità – o
meglio dell’arbitrio – fertilizza il terreno per il crimine organizzato. Il
quale «controlla una notevole porzione dell’economia nazionale», come
ammette Putin 6. Secondo fonti di intelligence russa, il 40% della ricchezza e il 70-80% degli affari sarebbero in mano a circa 100 mila
mafiosi divisi in 8 mila gruppi, afferenti a loro volta a una cinquantina di «brigate» radicate sul territorio russo e dotate di penetranti ramificazioni internazionali (valga l’esempio dell’offshore cipriota, ricettacolo di conti mafiosi russi – e non solo). Principali campi di attività:
traffici di armi, di droga e di esseri umani, riciclaggio di denaro sporco, commercio parallelo di petrolio e di metano. La stessa amministrazione pubblica partecipa al banchetto, tanto che spesso è difficile scernere guardie e ladri.
Accanto alla mafia «classica», che ha la sua punta di lancia nella
moscovita brigata Solncevo, al tempo di El’cin sono germinati i cartelli
cosiddetti «governativi». Alti burocrati e ufficiali dei servizi segreti non
hanno perso l’occasione di avventarsi sul patrimonio della superpotenza fallita. Nella percezione della stragrande maggioranza dei cittadini
10
5. D. GRAMMATICAS, «Life ebbs away from Russian villages», BBC, 5/11/2004.
6. Cfr. «Putin attacks crime-ridden Russia», BBC News, 11/2/2002, http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe
/1813825.stm
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russi si è stabilita la sinonimia mafioso=oligarca=riformatore democratico e filoccidentale (cui alcuni associano un altro sostantivo –
ebreo – che in certi ambiti non suona neutro). Con quali esiti sulla legittimazione della democrazia in Russia si può intuire.
Speciale rilievo hanno le mafie «nazionali», prima fra tutte quella
cecena, celebre per la sua ferocia. Forse più pericolosa è la penetrazione delle triadi cinesi a Vladivostok e nella Siberia centrorientale. Le
banche clandestine dei mafiosi cinesi hanno investito in alberghi, ristoranti, casinò e caffè del Territorio di Primorje. L’«invasione gialla»
che tanto ossessiona i russi assume i contorni della piovra.
C) Gli spettacolari tassi di crescita del prodotto interno lordo russo
negli ultimi cinque anni – nel 2003 si è toccato il 7,3% (record in ambito G8) mentre quest’anno la tendenza è a flettere verso il 6,5% – sono
dovuti essenzialmente alle esportazioni energetiche. La crescita della
produzione petrolifera (che ha toccato i 9 milioni di barili al giorno) e
il boom del prezzo del greggio hanno ulteriormente illustrato la dipendenza dell’economia russa dal settore energetico, che da solo vale il
25% del pil pur impiegando l’1% della popolazione. Una vulnerabilità
strutturale, dalle conseguenze potenzialmente devastanti se la curva
dei prezzi petroliferi dovesse picchiare verso il basso. E soprattutto se
dall’apparato produttivo russo non scaturiranno solide alternative al
puro export di idrocarburi.
Nel frattempo constatiamo il rovesciamento dei rapporti di forza
fra il complesso militar-industriale (Vpk), gioiello dell’èra sovietica, e il
settore energetico e dei combustibili (Tek), oggi dominante. In teoria
questo significherebbe una vittoria del privato sul pubblico. Affermazione che merita qualche bemolle, dato che le «privatizzazioni» russe
sono una forma di autoprivatizzazione su misura dei gruppi politicoeconomici legati al potere.
La logica della monocultura energetica poggia sulle crescenti capacità produttive e sulle enormi riserve, specialmente nel settore gasifero
(1.680 trilioni di piedi cubi). Ma in prospettiva deciderà la commercializzazione. Nel caso del gas, la Russia ha riserve sufficienti per restare
a lungo il primo esportatore mondiale. Gli investimenti sugli impianti e
sui gasdotti sono però di dimensioni tali che per massimizzarli conviene trasportare anche il gas di altri produttori. Quanto al petrolio, la
produzione russa, che si prefigge di superare i 10 milioni di barili al
giorno entro il 2010, non potrà reggere questo ritmo per decenni. Diventerà quindi vitale il trasporto e la vendita di greggio altrui, specie
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quello proveniente dai paesi già sovietici del Caspio (grazie agli investimenti delle società occidentali). Dal punto di vista del Cremlino è essenziale che il petrolio proveniente dalle sue ex marche di frontiera sia
commercializzato a partire dal territorio russo. La cui vastità in questo
caso è un vantaggio, perché mette la Russia in comunicazione diretta
con le aree di utenza, dall’Europa alla Cina, dal Giappone agli Stati
Uniti.
Quando Putin ha preso il potere, il settore energetico era nelle mani degli oligarchi afferenti alla «famiglia» di El’cin. I quali ragionavano secondo loro logiche di mercato, indifferenti all’interesse nazionale
russo. Semmai gli oligarchi erano portati a collegarsi alle grandi compagnie petrolifere americane e britanniche. Le quali, quando si tratta
di commercializzare i loro idrocarburi, interagiscono con i tutori governativi, cercando di bilanciare esigenze aziendali e interessi nazionali. Sicché in Russia la somma degli interessi di alcune grandi compagnie energetiche non produceva una strategia nazionale.
Lo smantellamento in corso del gigante petrolifero Jukos per via politico-giudiziaria esemplifica il tentativo di Putin di ricostruire una
strategia energetica nazionale che faccia della Russia il perno del commercio di idrocarburi su scala eurasiatica. Un disegno ambizioso che
poggia sulla conquista delle grandi compagnie energetiche ad opera di
fiduciari del presidente. Ai nuovi oligarchi spetta anche il compito di
attrarre investimenti occidentali per allargare la base produttiva, sfruttando le risorse della Siberia orientale e dell’Oceano Artico.
Allo stesso tempo, la liquidazione dell’impero di Mikhail Khodorkovskij segnala la decisione del Cremlino di rimettere ordine nella
selva fiscale. Scavando nei conti Jukos, la giustizia russa ha «scoperto»
l’allegro regime di elusione imperniato sulle regioni dotate di tassazione agevolata (come il Circondario autonomo degli Evenki e la Repubblica di Calmucchia), che avrebbero dovuto favorire lo scambio fra
esenzione fiscale e investimenti delle majors energetiche, promessi ma
non concretizzati 7. Ancora più interessante il caso degli offshore interni, cioè delle ex città atomiche sovietiche, centri chiusi e segreti dove
si produceva il plutonio fissile o si progettavano ed assemblavano le testate nucleari. Fra gli stratagemmi escogitati da Mosca per limitare la
fuga dei cervelli (e del plutonio), anche il tentativo di attrarre le corporations petrolifere verso le cittadelle dell’atomo grazie a congrui sgravi
12
7. Cfr. WORLD TRADE EXECUTIVES, «Political and business intelligence for investors in the FSU», 1/11/2004,
http://www.wtexec.com/RPIStateOffensive.html
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fiscali. Sicché ad Arzamas-16, prima città atomica russa sorta nel
1946 sullo storico sito del monastero di Sarov, dopo il crollo dell’Urss
restano attivi solo gli scienziati riconvertiti alla ricerca per le compagnie petrolifere e gasifere. Le città dell’atomo sono ormai, nella migliore delle ipotesi, centri corporate affidati ai colossi dell’energia.
D) La questione fiscale si lega alle recenti riforme politico-istituzionali promosse dal Cremlino e alla lotta contro la corruzione. In tutti i
casi lo scopo ultimo è stringere i bulloni molto allentati del controllo
statale sul territorio.
La tragedia di Beslan ha spinto Putin a marcare una svolta. La
Russia è in guerra, ha stabilito il presidente il 4 settembre: «Alcuni vogliono strapparci una “succulenta fetta di torta”. E altri li aiutano nella convinzione che la Russia – in quanto una delle maggiori potenze
nucleari al mondo – costituisca tuttora una minaccia. Questa minaccia va rimossa» 8. Poco dopo, il vice capo dell’amministrazione del
Cremlino, Vladislav Surkov, ha fornito l’interpretazione autentica delle
parole di Putin. La Russia è minacciata da «decisori in America, Europa e all’Est». Una cospirazione internazionale che punta a liquidare
ciò che resta della potenza eurasiatica. E «il terrorismo è solo un ulteriore strumento del loro disegno». Come in ogni complotto che si rispetti, c’è una «quinta colonna» di «estremisti di sinistra e di destra», colpevole di intelligenza col nemico. Nella fiorita metafora di Surkov, «i limoni (riferimento ai nazional-bolscevichi di Eduard Limonov) e le mele (“Mela” è il nome del partito filo-occidentale di Grigorij Javlinskij)
crescono sullo stesso ramo». Insomma «il nemico è alle porte, e la linea
del fronte passa dentro ogni città, lungo ogni strada, attraverso ogni
casa» 9.
Questa versione aggiornata della teoria dell’accerchiamento con
cui i poteri russi e sovietici hanno sempre motivato i giri di vite contro i
nemici interni vorrebbe legittimare la ricostruzione della «verticale del
potere». Ecco allora la proposta presidenziale di riforma del sistema
elettorale in senso totalmente proporzionalistico, con quota di sbarramento al 7%. Dovrebbe scaturirne un peculiare bipartitismo in salsa
russa. All’attuale partito del presidente – Unità della Russia – già dominante nella Duma, si affiancherebbe un secondo partito più o meno
cremlinista, formato da schegge di ciò che resta del Partito comunista,
8. V. PUTIN, discorso al Cremlino del 4 settembre 2004, in President of Russia, Official Web Portal,
http://president.kremlin.ru/eng/text/speeches/2004/09/041958_76332.shtml
9. Cfr. CH. GURIN, «The Kremlin Details Its Enemies List», The Jameson Foundation, 1/10/2004; M.
GLIKIN, «Il nemico alle porte», Nezavisimaja Gazeta, 4/10/2004.
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dal Partito della patria di Dmitrij Rogozin e dai seguaci del pittoresco
leader nazionalista Vladimir Žirinovskij.
Così stabiliti i rapporti di forza al centro, resta da raddrizzare la
periferia. Qui «verticale del potere» significa fissare tutti gli anelli della
catena di comando territoriale al Cremlino. Un primo passo Putin lo
ha compiuto nominando sette super-prefetti (vedi carta 1), suoi suffraganei in altrettante macroregioni. Il prossimo sarà la nomina presidenziale dei governatori provinciali. Il terzo, ancora in pectore, estenderebbe tale criterio ai sindaci delle capitali provinciali, che altrimenti
potrebbero far valere nei confronti dei governatori la loro legittimazione popolare.
In Occidente – più che in Russia – diverse voci si sono levate a denunciare l’«involuzione autoritaria». Zbigniew Brzezinski ha paragonato Putin a Mussolini. Non stupisce che a denunciare la presunta deriva fascista del Cremlino sia colui che ha teorizzato la necessità di
spartire la Federazione Russa, non contento del suicidio sovietico. È
perfettamente coerente anelare a una Russia liberaldemocratica e proporsi di spaccarla. La storia insegna che a tenere insieme l’impero è il
«sistema russo»: uno specifico modo di governo (non rintracciabile nei
manuali di politologia) che secondo Lilija Ševcova, analista del Carnegie Endowment, miscela «paternalismo, dominio dello Stato sull’individuo, isolamento dal mondo esterno e ambizione di essere una grande
potenza». Su tutto, «un leader potente, sopra la legge, anzi incarnazione della legge» 10.
Né si pensi che le riforme putiniane incontrino aspre resistenze nell’opinione pubblica russa – categoria piuttosto astratta, stante il controllo del Cremlino su quasi tutti i media. Il tasso di approvazione del
presidente dal 2000 a oggi supera quasi costantemente il 70%. Come
osserva Jurij Džibladze, direttore del Centro per lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani, la maggioranza dei russi considera le libertà civili «un’astrazione che non ha nulla a che vedere con la vita
quotidiana» ed è pronta a «sacrificarle» 11.
E) Per la stabilità della Russia decisivo è l’insieme delle frontiere,
un immenso continuum di oltre 70 mila km, dal Grande Nord artico
(vedi carta a colori 4) al Mar Nero, dalle steppe asiatiche al Mar del
Giappone. Nelle aree più instabili del limes russo si incrociano spinte e
controspinte esterne ed interne, che simultaneamente o in successione
10. L. SHEVTSOVA, Putin’s Russia, Washington 2003, Carnegie Endowment for International Peace, p. 16.
11. Cfr. WPS MONITORING AGENCY, «Political forecasts», 3/11/2004.
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possono produrre la disintegrazione della Federazione (oltre 17 milioni di chilometri quadrati). Alle fragilità domestiche di origine etnica,
economica o sociale si sommano quelle prodotte dalla vetusta, esile rete
di trasporti. Sicché qualsiasi zona di debolezza può trasformarsi in isola esposta alle tempeste. Allo stesso tempo, alcune aree di frizione tra
Russia e mondo esterno possono volgersi in opportunità se il sistema
russo riesce a connettervi interessi propri ed altrui. Analizziamo qui sei
macroaree di primario rilievo geopolitico (vedi carta a colori 5).
Frontiera artica occidentale. Quest’area riveste una notevole importanza strategica. Ai tempi della guerra fredda la direttrice Svalbard-Kirkenes (Norvegia nordorientale) era l’estensione settentrionale
della cortina di ferro, pattugliata dai sottomarini atlantici e sovietici.
Ancora oggi è una zona strettamente sorvegliata, ma i rapporti di forza aeronavali volgono nettamente a favore degli Usa e dei loro alleati.
I rischi sembrano comunque minori delle opportunità. L’area dei
mari di Barents e di Kara poggia su un territorio russo stabile, che anche grazie ai mutamenti climatici può valorizzare gli idrocarburi siberiani e offshore convogliandoli verso i mercati occidentali. Il terminale
di Murmansk è destinato a diventare il perno delle esportazioni del
greggio proveniente dai bacini di Timan-Pečora e della Siberia occidentale, in direzione soprattutto degli Usa.
Baltico. Scendendo verso sud-ovest incontriamo un’area molto più
contestata, quella baltica. Putin sta trasformando la sua San Pietroburgo nella vetrina dell’impero. Ma qui la Russia si confronta con alcuni Stati russofobi – Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia – oltre alla
Svezia, formalmente neutrale ma geostrategicamente antirussa. Tanto
che il progettato gasdotto baltico che dal porto di Vyborg presso San
Pietroburgo dovrebbe trasportare metano russo verso la Germania e il
resto d’Europa è in gran parte sottomarino, per non confrontarsi con
eventuali problemi di transito sollevati da paesi ostili. Una condotta ad
alto contenuto geopolitico, destinata a fondere interessi russi ed europei: «Il giorno in cui i rifornimenti di gas britannico e norvegese saranno esauriti non è poi così lontano. Dopo di che noi diventeremo l’unico
fornitore di gas all’Europa», spiega Putin 12.
Ma le buone intenzioni russe e di alcuni paesi europei, Germania
in testa, potrebbero essere frustrate dalla tensione relativa al futuro dell’exclave russa di Kaliningrad (Königsberg), che lituani e polacchi vogliono isolare dalla madrepatria. C’è chi sogna una «quarta repubblica
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12. «President Putin: Baltic Pipeline is Answer to Europe’s Energy Shortage», Rosbalt, 30/6/2003.
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baltica». Per Putin la difesa dei diritti russi su Kaliningrad non è solo
un interesse nazionale ma un imperativo di quiete familiare, poiché lì
è nata sua moglie.
Ucraina. In Europa centrorientale, la pressione esterna si concentra
sull’Ucraina. I nemici di Mosca puntano sulla totale occidentalizzazione di Kiev come garanzia che la Russia non si configurerà mai più come impero proteso verso il cuore dell’Europa. La stessa questione della
Transnistria, il territorio moldavo conquistato dalla mafia russa, è solo
un’appendice della partita ucraina. Per Mosca quella striscia di terra
serve a rafforzare la sua influenza su Kiev e a stringere i collegamenti
con la zona più russofila dell’Ucraina, quella meridional-orientale.
Mar Nero-Caucaso-Caspio. Una nuova area di pressione americana, vestita da Nato, mira al sistema Mar Nero-Caucaso-Caspio. Nel
Mar Nero si incrociano obiettivi geostrategici ed energetici. I primi vertono sul controllo del litorale di Soči, ultimo avamposto russo sui «mari
caldi». I secondi derivano dagli sbocchi sul tratto russo del Mar Nero
delle condotte di export gasifero e petrolifero controllato da Mosca.
Sul sistema Caucaso-Caspio la spinta esterna occidentale si è concretizzata acquisendo il controllo indiretto della Georgia. Il nuovo presidente filoamericano Saakashvili (talmente proteso verso Washington
da imbarazzare l’amministrazione Bush, che gradirebbe un profilo
basso) vuole sottrarre definitivamente il suo paese, spaccato ed esausto,
all’influenza del Cremlino. Intanto a Krtsanisi, presso Tbilisi, gli Usa
hanno impiantato una loro base.
Mosca teme che la pressione americana in Transcaucasia ecciti i
secessionismi che investono il Caucaso russo e che potrebbero estendersi più a nord, verso i soggetti federali a più alta densità islamica. Lo
stesso Putin spiegava nel suo libretto autobiografico del 2000 che la
Russia non avrebbe mai concesso l’indipendenza alla Cecenia per evitare un deflagrante effetto domino. Infatti i guerriglieri islamici attivi
in Cecenia «volevano annettere il Daghestan e sarebbe stato l’inizio
della fine. Tutto il Caucaso sarebbe caduto: il Daghestan, l’Inguscezia
e poi, risalendo il corso del Volga, il Baškortostan (Baschiria) e il Tatarstan, una penetrazione in profondità nel cuore del paese» 13.
Rovesciando la prospettiva, l’intera area caspica e del Kazakistan
occidentale potrebbe però offrire a Mosca l’opportunità di creare un sistema integrato di scambi energetici, moltiplicandone le possibilità di
esportazione verso ovest via Mar Nero, verso sud via Golfo di Oman e
13. V. PUTIN, Memorie d’oltrecortina, cit., p. 139.
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G
Mare Arabico, verso nord attra2 - IL PETROLIO GIALLO
verso la rete continentale russa.
E IL GIALLO DEL PETROLIO
Siberia. Sul fronte siberiaFEDERAZIONE
no si esercita una pressione ciRUSSA
nese, determinata dal dislivello
economico e soprattutto demografico fra le province settentrionali della Cina e quelle meAngarsk
Nakhodka
Ulan-Bator
Daqing
ridionali della Siberia: cento
Tokyo
MONGOLIA
CINA
milioni di cinesi contro sette
milioni di russi. I quali temono
Progetti di oleodotti
russi per la Cina e/o Pechino
«l’invasione gialla» in un’area
il Giappone
inospitale, ma ricchissima di risorse naturali (minerali, legname, energia). Le direttrici di penetrazione cinese toccano ad ovest l’asse Novosibirsk-Krasnojarsk-Irkutsk. Al centro, la Mongolia è nella sfera
d’influenza cinese. Ad est, i flussi migratori dalla Manciuria puntano
su Vladivostok e sul Territorio di Primorje.
Demografia e geopolitica spiegano anche la partita a tre sulle future condotte energetiche dalla Siberia alla Cina e/o al Giappone. Pechino è assetata di petrolio siberiano e ha inutilmente tentato di convincere Putin a privilegiare il progetto di pipeline da Angarsk verso Daqing,
nel Nord-Est cinese, rispetto alla condotta verso il porto russo di
Nakhodka, sul mar del Giappone, che interessa invece Tōkyō (vedi carta 2). Il presidente russo è stato chiaro con il collega Hu Jintao: «Prima
di tutto dobbiamo difendere i nostri interessi nazionali: sviluppare i
territori russi dell’Estremo Oriente» 14. Malgrado il contenzioso sulle Curili, Mosca pare disposta a privilegiare il rapporto energetico col Giappone per costruire insieme un contrappeso alla spinta della Cina nel
Nord-Est asiatico.
Bering. C’è un confine dimenticato fra Russia e America. Trentasette chilometri di mare separano via Stretto di Bering il Circondario
autonomo dei Čukči (737.700 kmq con 53.600 abitanti) e lo Stato Usa
dell’Alaska (1.530.700 kmq per 650 mila anime). Al di là delle basi e
degli osservatori militari, quest’area ha acquistato rilievo per la recente
scoperta di giacimenti di gas e di petrolio che attendono di essere pienamente sfruttati. Se dovessero concretizzarsi i progetti di ferrovia russo-americana da Jakutsk (Siberia) a Fairbanks (Alaska) via tunnel,
P P ONE
I A
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14. R. M C G REGOR , «Putin treads carefully on China energy demands», FT.com, 3/11/2004,
http://www.ft.com/cms/s/685d8fbc-1d9b-11d9-abbf-00000e2511c8.html
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questa frontiera potrebbe assurgere a simbolo di una concreta connessione fra i due ex arcinemici.
3. La teoria del complotto di Putin-Surkov è volutamente enfatizzata a fini interni. Ma per qualcuno in Occidente la guerra fredda non è
finita. Dal punto di vista di una parte dell’élite americana le dimensioni della Russia restano eccessive. Qualche «succulenta fetta di torta» da
sottrarre all’ex impero del Male può consolidare il primato mondiale
degli Stati Uniti e irrobustirli rispetto alla concorrenza cinese. Sul piano energetico, la Russia ideale per Washington è un paese ripiegato sulle sue esclusive risorse. Un territorio a debole statuto geopolitico, in cui
investire come se fosse il Kazakistan. Purché i russi continuino a produrre molto petrolio per contenerne le quotazioni al mercato.
Quanto alla minaccia delle armi e della proliferazione nucleare,
logica e istinto di conservazione vorrebbero che Washington non favorisse la disintegrazione della Russia. In un’architettura così friabile anche una crepa minore può provocare il collasso del sistema. Meglio non
pensare alle ripercussioni di un tale schianto sul destino delle armi di
distruzione di massa più o meno custodite da Mosca. Specie nel contesto della guerra al terrorismo islamico, che dispone in Russia di agguerrite filiere deputate a destabilizzare pezzi di territorio per impiantarvi propri capisaldi e mettere le mani sugli arsenali nucleari.
Washington vorrebbe insomma una Russia abbastanza debole per
farvi i propri interessi energetici e per scoraggiarne le velleità neoimperiali, ma sufficientemente stabile per evitare sia un’avanzata jihadista
nel cuore dell’Eurasia sia il saccheggio delle sue armi non convenzionali. La quadratura del cerchio. Non sorprende che l’approccio dell’America alla Russia oscilli fra due necessità contraddittorie. Forse con
Bush 2 le agenzie del potere americano matureranno una visione unitaria almeno su questo dossier. Specie ora che alla segreteria di Stato
c’è Condoleezza Rice, una donna che accoppia esperienze energetiche
(Chevron) e formazione sovietologica. Per misurare le tendenze della
Casa Bianca converrà tener d’occhio la maggiore o minore enfasi posta su diritti umani, libertà e democrazia. La retorica è spesso un eccellente rivelatore geopolitico.
Quanto alla Cina, malgrado il fair play diplomatico e la brama di
energia che può essere soddisfatta soprattutto dalla Russia, è fisiologicamente avversa a Mosca. Vista da Pechino, la Siberia è una naturale
zona di espansione demografica ed economica. L’interpretazione della
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guerra al terrorismo cara a Putin e Hu Jintao – ognuno ha mano libera con i suoi nemici islamici, i russi in Cecenia e i cinesi nel Xinjiang
– non basta a configurare un’alleanza. Il «triangolo strategico» RussiaCina-India sognato da Primakov per bilanciare la superpotenza Usa
resta una geometria virtuale.
Ma per Putin la delusione maggiore viene dall’Europa. Il leader
pietroburghese ha idee forti sull’identità russa: «Facciamo parte della
cultura europea occidentale. Non importa dove la gente del nostro paese viva, nelle estreme zone orientali o nel Sud: siamo comunque europei» 15. Attenzione, però: «La Nato e l’Europa non sono la medesima cosa. E ho già detto che la Russia è un paese di cultura europea e non di
cultura Nato» 16. La sua abile decisione di affiancare subito Washington nella guerra al terrorismo era dettata più dall’assenza di alternative che da un’irrefrenabile passione per l’America. Il suo obiettivo strategico era e resta ancorare una volta per tutte la Russia all’Europa. O
meglio, l’Europa alla Russia.
Ma dal maggio 2004 l’Unione Europea è cambiata. Ha spinto le
sue frontiere a ridosso della Federazione Russa grazie all’integrazione
di nazioni culturalmente e geopoliticamente russofobe, già accolte dalla Nato. Si è così saldato un fronte euroatlantico dell’Est basato su ex
satelliti moscoviti o addirittura ex repubbliche sovietiche – Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, mentre le neoatlantiche Romania e Bulgaria dovrebbero accedere all’Ue
nel 2007 – che si lascia alle spalle la vecchia Europa russofila, incardinata su Francia, Germania e Italia.
La crisi nelle relazioni euro-russe sta degenerando. Il sorprendente
attacco a Putin del ministro degli Esteri olandese Bernard Bot (dietro
pressione baltica) sulla gestione della tragedia di Beslan è solo la punta
dell’iceberg. Il progetto di partnership strategica Ue-Russia è in stallo.
Come gesto dimostrativo, Mosca ha rinviato di un paio di settimane il
vertice euro-russo in programma l’11 novembre. La Russia teme che
l’Unione Europea abbia ereditato dagli americani la tentazione di giocare la carta dei diritti umani per interferire nei suoi affari interni. Di
più, vede nell’Europa comunitaria una prevalenza del pensiero atlantico, che ne condiziona l’approccio alla Russia.
In questo contesto, qual è l’interesse italiano? Come può Roma incidere sull’approccio dell’Unione Europea alla Federazione Russa? All’I-
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15. V. PUTIN, Memorie d’oltrecortina, cit., p. 162.
16. Ivi, p. 171.
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Particolare di un dipinto parodistico di Sergej Kalinin e Farid Bogdalov. Al centro
Vladimir Putin con alcuni fra i principali dirigenti civili e religiosi della Russia.
talia conviene che Putin riesca a stabilizzare la Russia. Abbiamo consolidato buoni rapporti energetici e diplomatici con Mosca, ai quali si è
aggiunta negli ultimi anni l’esibita e si spera non gratuita amicizia fra
Berlusconi e Putin. L’Eni è interessata ad acquisizioni che ne rafforzino ulteriormente il rango sul mercato russo, anche pescando nella
smembranda Jukos.
Non è solo economia. Italia e Russia sono i due paesi più danneggiati dall’allargamento dell’Ue in chiave Nato. Noi restiamo l’unico
grande paese europeo con un’ampia frontiera extracomunitaria, estesa
dal Nordafrica ai Balcani e alla Svizzera. Siamo perciò totalmente
esposti sia alle ricorrenti turbolenze balcaniche sia ai flussi di traffici
criminali provenienti dall’Asia centrale via mafie russe (cecene),
ucraine e turche. È probabile che il presidente russo, nella sua battaglia per la salvezza dello Stato, usi alcune mafie per combatterne altre
che egli considera più pericolose. L’importante è che Putin non diventi
strumento di suoi poco presentabili strumenti. Se la Russia prende sul
serio la guerra alla criminalità organizzata e al terrorismo, abbiamo
tutto l’interesse ad appoggiarla e a patrocinarne la causa in sede comunitaria.
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Nel suo drammatico discorso del 4 settembre, Putin ha suonato
qualche nota di nostalgia per la casa in cui era nato e per la quale
aveva spiato, la «vasta e grande» Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. E ha ammesso di aver sottostimato i pericoli che minacciano
«il nucleo di quanto ne resta», la Federazione Russa. Per questo cerca
di consolidare i fianchi del torso imperiale. In prospettiva, Putin intende reintegrare alcuni Stati già affratellati nell’Urss, dalla Bielorussia
all’Ucraina e forse al Kazakistan. Una visione imperiale, in continuità
con le dottrine geopolitiche comuni agli zar e ai segretari generali del
Pcus.
Può essere già tardi. Energia e bombe atomiche contano molto. Ma
ogni impero degno del nome emana una sua aura – un suo soft
power, glossano gli americani. L’Urss l’aveva: il comunismo, utopia occidentale teorizzata dal russofobo Marx e «realizzata» in Russia. Oggi,
la Federazione Russa non ha irradiamento. Non conquista «i cuori e le
menti» altrui. Nel suo futuro difficilmente ci sarà un nuovo impero a
tutto tondo. Sarà, forse, il grande Stato dei russi, pomposamente vestito
da Terza Roma. O non sarà.
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