Anteprima Estratta dall' Appunto di Diritto
romano
Università : Università La Sapienza
Facoltà : Giurisprudenza
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DIRITTO DELLE PERSONE E DI FAMIGLIA
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I soggetti di diritto
I soggetti di diritto si distinguono in:
- persone fisiche: esseri umani
- persone giuridiche
Che l’essere umano sia il soggetto di diritto per eccellenza deriva già dalla considerazione che tutto
il diritto è opera dell’uomo ed è creato per regolare i rapporti tra gli uomini. Perché la persona fisica
possa essere soggetto di diritto deve esistere: l’inizio e il termine della persona fisica sono la nascita
e la morte.
La NASCITA s’identifica con il completo distacco del feto dal corpo materno e con la vita
autonoma del nuovo essere. La prova della nascita di una persona e delle modalità con cui essa è
avvenuta può essere data in qualsiasi modo. Questioni sorgevano solo per accertare se il neonato
fosse nato vivo ed avesse quindi avuto un ‘esistenza separata. Non era richiesto come requisito
autonomo la “vitalità”, cioè la capacità di sopravvivenza autonoma: solo nei casi dubbi, e
praticamente quando il neonato fosse deceduto durante od immediatamente dopo il distacco
dall’utero materno, si discuteva fra i giuristi romani sul modo in cui accertare l’effettiva vita
extrauterina del feto.
Ai fini dell’esistenza di una persona fisica e dell’integrazione delle varie fattispecie connesse con
questa esistenza rileva esclusivamente il fatto della nascita: il periodo della gravidanza non ha sotto
questo aspetto importanza per il diritto. Ciò non toglie che si tenesse conto della dottrina degli
status, della contrapposizione fra il momento del concepimento e quello della nascita. In altri casi e
soprattutto ai fini della capacità a succedere i giuristi romani anticipavano al momento del
concepimento effetti che si sarebbero dovuti produrre solo con la nascita.
Nel periodo fra il concepimento e la nascita si potevano dare effetti preliminari rispetto a quelli
prodotti dalla nascita: ad es. la nomina di un curator ventris; altrove lo stato di gravidanza rilevava
in sé considerato, ad es. nei limiti in cui fosse, a seconda delle epoche, punito dal punto di vista
criminale l’aborto.
La MORTE viene accertata con qualsiasi mezzo e senza limitazioni di prova. Un problema
particolare concernente soprattutto la successione ereditaria, è quello della determinazione della
cronologia relativa fra la morte di più persone. Ove la prova liberamente somministrata non
riuscisse a fissare il rapporto temporale fra le singole morti. La giurisprudenza classica optava per la
regola della commorienza, in base alla quale tutte le persone di cui si trattava si consideravano
morte nello stesso momento. Nella compilazione giustinianea si trovano certi passi che configurano
precise regole in base alle quali si stabiliscono presunzioni di premorienza, con i sconsueguenti
effetti successori.
Capacità giuridica, capacità di agire, teoria degli “status”
La persona fisica è, in quanto tale, fornita di capacità giuridica. Per capacità giuridica intende
l’idoneità di un soggetto ad esser titolare di diritti e doveri. Ad essa di contrappone la capacità di
agire e cioè l’idoneità a porre in essere un’attività giuridicamente rilevante, al fine di creare,
modificare od estinguere un rapporto giuridico.
Se appare naturale che la capacità giuridica sia riconosciuta agli esseri umani, non si tratta però di
una relazione biunivoca. Oggi e nell’esperienza romana esistono soggetti di diritto diversi
dall’uomo, le “persone giuridiche”. Nel mondo antico la capacità giuridica non era riconosciuta a
tutta a tutti gli esseri umani in quanto ne erano sprovvisti gli schiavi.
Nella comunità monarchica e nella prima repubblica per avere la capacità giuridica il soggetto
doveva essere non solo libero, ma anche cittadino: e per tutto il principato la capacità giuridica
continua ad esser connessa alla condizione della persona libera sia sui iuris, non soggetto cioè alla
patria potestas.
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Non v’è linguaggio giuridico romano una precisa terminologia la quale indiche una sistemazione
teorica della capacità giuridica. Il termine persona indica solo l’essere umano: molto tardi viene
usato in connessioni che coinvolgono l’attribuzione della capacità giuridica.
La dottrina moderna imposta il problema della capacità in diritto romano nel senso che per avere
tale capacità la persona umana deve godere dei tre status: libertatis, civitatis, familiae e deve essere
quindi libero cittadino e sui iuris. I romani non hanno però formulato in alcun modo la teoria degli
status, ne usano le espressioni suddette; il termine status è adoperato solo in modo assoluto per
indicare una qualsiasi condizione della persona. E’ in relazione alla capitis deminutio che si
riscontra un’impostazione che considera complessivamente i tre status. Per capitis deminutio i
romani intendono un cambiamento di uno degli status della persona umana:
1) la capitis deminutio maxima (perdita della libertas)
2) la capitis deminutio media (perdita della civitas)
3) la capitis deminutio minima (mutamento dello status familiae)
La definizione di Gaio della capitis deminutio come prioris status mutatio (cambiamento del
precedente status) è troppo generica, perché non ogni cambiamento di status costituisce secondo i
romani una capitis deminutio. E’ essenziale affinché si abbia questa figura che la status mutatio
coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi a cui si accompagna l’estinzione di rapporti giuridici
attivi o passici, facenti eventualmente capo alla persona che la subisce. Non integra quindi una
capitis deminutio l’acquisto della libertas e della civitas né sono capite minuti i filii familias che
divengono sui iuris al momento della morte del loro paterfamilias.
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Lo “status libertatis”: le caratteristiche della schiavitù romana
L’esperienza giuridica romana è caratterizzata dalla circostanza che lo schema del potere del
padrone sullo schiavo coincide con la figura in genere della proprietà, salvo alcune regole che
riguardano gli acquisti del proprietario attraverso lo schiavo e talune attenuazioni dei poteri del
proprietario stesso che vengono introdotte a partire dal principato. Ciò comporta che non esitano in
Roma tipi di schiavitù diversificati sul piano giuridico.
Ciò non significa che il mondo romano non conosca sul piano socio-economico forme di schiavitù
che si diversificano in base all’epoca considerata od alle mansioni svolte.
Alle origini e fin verso la fine del III sec.a.C. si ha la schiavitù patriarcale. Sul piano del diritto
privato la differenza fra liberi e schiavi si esauriva nell’ambito delle persone sottoposte al
paterfamilias, nel fatto che alla morte del pater i figli divenivano sui iuris ed acquistavano la
capacità giuridica, gli schiavi rimanevano tali. Tale differenza era sul piano sociale: le condizioni in
cui si sviluppava la produzione non erano idonee a indurre un’incisiva separazione tra liberi e
schiavi perché era lo stesso proprietario ad attendere al lavoro agricolo aiutato da i suoi sottoposti,
fra i quali non v’era netta distinzione fra schiavi e figli.
La situazione muta nel corso del III sec.a.C.: dal punto di vista degli sviluppi socio-economici la
schiavitù svolge un ruolo essenziale e all’interno della condizione servile si creano modificazioni. Il
fenomeno più imponente è l’impiego massiccio della forza-lavoro servile nello sfruttamento di
grandi proprietà fondiarie che si stavano formando.
Per 4-5 secoli la produzione agricola nelle proprietà della classe dominante avviene attraverso la
mano d’opera servile. Le condizioni di vita e di lavoro di questi schiavi erano pessime e potevano
divenir terrificanti.
Contemporaneamente si venivano sviluppando forme socialmente differenziate di schiavitù.
- Mano d’opera servile era impiegata in industre artigianali: le condizioni dello schiavo
dipendevano dalla specializzazione professionale e dal conseguente valore d’ammortamento
dello schiavo stesso.
- Diversa era la condizione degli schiavi che lavoravano insieme al proprietario in imprese
artigianali di piccole dimensioni dove si riscontravano tratti della schiavitù patriarcale e
dove la specializzazione poteva raggiungere livelli molto elevati (es. schiavo orafo o
gioielliere)
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Vi erano poi forme di schiavitù domestica. Le famiglie agiate e le grandi famiglie
dell’aristocrazia economica romana possedevano in numero molto elevato schiavi destinati
al servizio domestico. La situazione poteva essere differenziata a seconda del valore
economico dei servi, ma anche dall’apprezzamento dei loro servizi e della consuetudine di
vita del proprietario. Le condizioni di vita di questi schiavi privilegiati erano superiori a
quelle degli appartenenti agli strati più bassi della plebe urbana e soprattutto al ceto dei
coltivatori diretti.
- Una situazione particolare assumono gli schiavi che esercitano in modo indipendente
un’attività economica, i profitti della quale vanno a vantaggio del dominus e che vivono una
vita separata dalla casa dominicale. Le condizioni di vita dipendono dalla loro abilità e dal
lavoro.
Il quadro sin qui delineato si riferisce alle condizioni socio-economiche dell’Italia: nelle province la
situazione poteva essere diversa per quel che concerne l’impiego della mano d’opera servile
nell’agricoltura. La produzione agricola si basava su forma di affittanza e eventualmente su corvées.
Nel tardo-antico, dopo la grande crisi economica, militare e politica della metà del III sec.d.C., la
schiavitù perde d’importanza; prevale la schiavitù familiare ed al livello del lavoro domestico.
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La posizione giuridica dello schiavo
- Sul piano del diritto privato il servus è equiparato ad una cosa, ciò avviene per disciplinare i
vantaggi che il proprietario può trarre da tale fatto, soprattutto per gli acquisti dello schiavo stesso.
Il problema è se sussistono limiti ai poteri del dominus. Fino a tutto il periodo repubblicano non
esistevano limiti sul piano del diritto: come per qualsiasi altra cosa di sua proprietà, il dominus di
uno schiavo ne aveva la disponibilità giuridica e materiale e poteva trattarlo nel modo che ritenesse
più opportuno sino ad ucciderlo.
Per quanto riguarda la schiavitù patriarcale, il controllo dell’opinione pubblica sul modo in cui il
padrone esercitava i poteri sullo schiavo poteva essere molto penetrante. Quando, col mutare delle
condizioni socio-economiche nella media e nella tarda repubblica, questo controllo andò
allentandosi, esso venne sostituito dal regimen morum dei censori, ossia da quella generale
sorveglianza che questa magistratura esercitava sul comportamento individuale soprattutto degli
appartenenti ai ceti più elevati.
E’ solo col principato che si rinvengono interventi della giustizia imperiale, nelle forme della
cognitio extra ordine, prima limitati e sporadici e poi di carattere regolare. Sanzioni penali
colpiscono nella cognitio il proprietario che abbia messo a morte lo schiavo senza ragione; nel caso
di maltrattamenti ingiustificati ed eccessivi il dominus poteva essere costretto ad alienare il servo.
Questa tendenza si accentua nel tardo-antico, dove l’uccisione dello schiavo è sempre punita, a
meno che essa sia morto, al di là delle intenzioni del dominus, a seguito delle punizioni corporali
che quest’ultimo aveva il potere di infliggergli.
Il trattamento dello schiavo come res comportava la totale incapacità dello stesso ad essere soggetto
di diritti e di obblighi sul piano del diritto privato. Ciò valeva sia per i diritti di natura patrimoniale,
ma anche per i rapporti di carattere personale e familiare. La relazione sessuale continua fra schiavi,
il conturbenium, ha rilevanza solo di fatto e dura sin quando il padrone lo voglia. La cognatio
naturalis, la parentela fra schiavi è giuridicamente irrilevante in linea di massima anche dopo
l’affrancazione, se non ai fini della capacità matrimoniale ed eventualmente a quelli penali.
- Sul piano del diritto pubblico, l’irrilevanza dello schiavo è completa. Egli non poteva esser titolare
né di diritti né di poteri pubblici: la sua incapacità era totale anche sul piano processuale sia nel
sistema delle legis actiones che nell’ordo iudiciorum privatorum.
Ciò influiva sulle forme del processo in cui si discuteva dello stato di libero o di schiavo di una
persona. Nel periodo più antico tale controversia si svolgeva nelle forme della legis actio
sacramenti in rem fra chi si affermava proprietario dello schiavo ed un terzo, l’adsertor in
libertatem, che sosteneva che la persona controversa era libera. Vi erano due regole particolari: la
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summa sacramenti era fissata nella misura minima di 50 assi; la persona che si pretendeva essere
uno schiavo rimaneva in libertà di fatto.
Al periodo delle legis actiones risale già un diverso tipo di processo, quello mediante sponsio
praeiudicialis che continuò anche ad esser praticata la lex Iulia del 17 a.C. quando si poteva usare
per le cause liberali, la formula petitoria che portava al semplice accertamento della libertà o della
schiavitù del soggetto. Nel corso del principato si viene ad affermare, per il favor libertatis, il
principio che non si forma giudicato sulla sentenza che nega la libertà della persona, onde il relativo
giudizio è sempre riproponibile: ciò è reso possibile dalla circostanza che, cambiando l’adsertor in
libertatem, il processo non si svolgeva più tra gli stessi soggetti, condizione questa necessaria per
aversi la preclusione processuale.
La necessità dell’adsertor per i processi di libertà sembra permanere anche nell’ambito della
cognitio Nel caso di azione per far valere una libertas fideicommissaria, il servo acquista
eccezionalmente piena capacità processuale. La figura dell’adsertor caduta poi in disuso verrà
abolita da Giustiniano. Connessa con questa riforma è l’altra, contraria al favor libertatis, per cui
viene eliminata la regola classica per cui le sentenze pro servitute non passavano mai in giudicato.
Per quanto riguarda la posizione del servo sul piano della repressione degli atti illeciti, bisogna
distinguere i delicta del diritto privato dai crimina del diritto pubblico. In ordine a questi ultimi lo
schiavo non ha capacità nell’ambito del processo criminale e non può quindi venir accusato né nel
processo comiziale né nell’ordo iudiciorum publicorum , dinanzi ad una quaestio (interrogatorio
sotto tortura. Ciò significa che per lo schiavo l’esercizio della coercitio del magistrato, la potestà
punitiva compresa nell’imperium, non incontrava in questo caso limiti di carattere costituzionale
(come non li incontrava nei confronti dello straniero). A pari gravità del crimine commesso, lo
schiavo era punito con pene più severe; le forme procedurali in cui avveniva l’accertamento della
colpevolezza dello schiavo, non erano fissate nell’interesse di quest’ultimo, ma a garanzia del
proprietario, il cui diritto poteva astrattamente configgere con la pretesa punitiva pubblica.
Fin qui si è rimasti sul piano del ius humanum: per quanto concerne il ius sacrum è difficile non
riconoscere una generica capacità agli schiavi, partecipi di riti e di feste religiose. Quando le
qualifiche del ius sacrum rilevano sul piano del ius humanum, la qualità di persona umana del servo
viene a trovare una rilevanza mediata anche su quest’ultimo piano. Ciò accade ad es. nel caso del
luogo dov’è sepolto il servo che diventa religiosus come quello in cui è sepolto un libero.
L’attività giuridicamente rilevante dello schiavo e le “actiones adiecticiae qualitatis”
L’incapacità dello schiavo sul piano patrimoniale è totale. Si tratta però di un essere umano che può
essere coinvolto in fattispecie di carattere patrimoniale che, verificandosi in testa ad una persona
libera, comporterebbero l’acquisto o la perdita di diritti e l’assunzione di obbligazioni: e soprattutto
può partecipare ad atti di carattere negoziale.
Si trattava di salvaguardare da una parte gli interessi del proprietario dello schiavo e dall’altra di
contemperare tale salvaguardia con una certa tutela dei terzi. Questa trova attuazione mediante il
sistema della nossalità per quel che riguarda la responsabilità per i delicta, gli illeciti penali del
diritto privato, mentre per l’attività negoziale il diritto civile era ispirato al principio che il servo
poteva render migliore la posizione del dominus, non deteriorarla. Egli acquistava quindi per il
proprietario diritti reali e diritti di obbligazione, mentre non poteva alienare cose del proprietario o
estinguere diritti di cui quest’ultimo era titolare, né proprietario rimaneva obbligato, nell’ambito del
ius civile, per gli atti negoziali compiuti dallo schiavo.
A questo principio il ius civile rimase attaccato perché esso si venne configurando in maniera
particolarmente vantaggiosa per il proprietario quando dal medesimo atto compiuto dallo schiavo
potessero sorgere effetti favorevoli e sfavorevoli per il proprietario stesso, si procedeva ad una
valutazione differenziata e gli effetti favorevoli si verificavano, quelli sfavorevoli no. Si aveva così
una particolare applicazione della figura del negozio claudicante che produce i suoi effetti per una
parte e non per l’altra.
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