La pratica adulta: Parte 1 La pratica adulta E' passato un anno da quando sono diventato l'abate di Antaiji. Fino ad allora non avevo molto di cui preoccuparmi se non della mia pratica, ma ora le mie responsabilità erano cambiate. Dall'essere un monaco che studiava con la guida di un insegnante, dovevo ora fare da guida ai praticanti e ai visitatori che partecipavano alla nostra vita, oltre a pensare alla mia stessa pratica. Quest'anno ho incontrato circa 150 persone che sono venute ad Antaiji a praticare, ho dovuto confrontarmi con i loro dubbi e rispondere alle loro domande. Credo di avere imparato più io da loro che non loro da me. Quest'anno è anche il ventesimo anno della mia pratica dello zazen. Io stesso mi sono imbattuto in molte domande in questi due decenni, e dubbi e difficoltà qualche volta mi si sono parati davanti come muri. Non so quante volte mi sono bloccato nella mia pratica, ma a partire da questo mese vorrei riflettere sulla mia esperienza e le mie sofferenze, cercando di chiarire a me stesso e agli altri in primo luogo cosa significhi praticare la via del Buddha. Quando faccio questa affermazione potrebbe sembrare che stia dicendo qualcosa di terribilmente difficile. Naturalmente, non è così. Non c'è davvero niente di più facile dello zazen o del praticare la via del Buddha. "Cos'è lo zazen, cos'è la pratica?" "Semplicemente sedere, semplicemente fare." "A che pro?" "Per niente. Semplicemente farlo. La pratica del dharma per il dharma. Non c'è nessun obiettivo da raggiungere, niente da desiderare e niente da ottenere. Semplicemente seguire la vita di questo singolo istante, proprio qui, proprio ora - la vita è quella che stai vivendo in questo istante. Sii una cosa sola con la realtà, questo è tutto." La teoria è veramente semplice. Il solo problema è che la teoria da sola non ci aiuterà a essere soddisfatti della nostra pratica. Per quanto si possa ritenere che la via del Buddha sia la cosa più facile del mondo, penso che sia un fatto che non siamo mai davvero contenti della nostra pratica. Perché? Inoltre, anche se sappiamo che non dovremmo desiderare nulla, né cercare di raggiungere un obiettivo o ottenere un risultato - non è forse vero che cominciamo la nostra pratica proprio perché VOGLIAMO conseguire un obiettivo, ottenere un risultato e così via? Se non avessimo avuto nulla da desiderare, tanto per cominciare non avremmo mai iniziato a praticare. Chi è che attraverserebbe un oceano e scalerebbe una montagna per arrivare ad Antaiji semplicemente "per sedersi". Le persone vengono perché hanno un obiettivo, e sperano che la loro pratica gli permetta di raggiungere quell'obiettivo, quindi fanno il massimo sforzo per seguire quella che ritengano che sia la via del Buddha. Questo è solo naturale, ma è sbagliato fin dal principio. Quindi è anche naturale che le persone rimangano bloccate nella loro pratica e non raggiungano i loro obiettivi nemmeno dopo anni di pratica fatta con tutto il cuore. Il problema non è rimanere bloccati - comunque, prima o poi ci si blocca. Il problema è cosa fare quando ci si blocca. Questo è quello che io chiamo il problema della "pratica adulta". Con i nostri atteggiamenti infantili non faremo nessun passo avanti. Uno dei miei primi confratelli nel dharma diceva che provare semplicemente a "sedere" senza alcun metodo o tecnica era come "un bambino del giardino d'infanzia che cerca di studiare come all'università". Questo mi ha ricordato una citazione di Yamada Mumon Roshi. Quelle che seguono non sono le sue parole alla lettera, cito a memoria: "Ci sono molti tipi di religioni. Alcuni nuovi culti sono come la scuola materna della religione, mentre quelle religioni che ci raccontano che ci sarà un bel premio per una buona azione e una punizione per un comportamento cattivo sono la scuola elementare. Il buddismo Mahayana è l'università della religione e lo zen dovrebbe essere chiamato il dottorato di ricerca." Il mio ultimo maestro, Miyaura Shinyu Roshi, andava ancora oltre e diceva: "Antaiji non è una scuola. E' un sangha adulto." Per i bambini, la scuola materna e le elementari sono necessarie. All'università non hanno niente da imparare. Bisogna essere maturi, adulti, per arrampicarsi sui muri del dubbio e delle difficoltà che si incontreranno nella pratica. Qual è esattamente la differenza tra una pratica infantile e una pratica adulta? Per dirla semplicemente, se sei capace di pulirti il sedere da solo o no. I bambini vogliono essere guidati dai "grandi". Un adulto deve camminare sulle sue gambe, far fronte alle difficoltà della sua vita, risolvere i suoi problemi. Aggiungerò qualcosa il mese prossimo. La pratica adulta: Parte 2 Che cosa "pratichi"? Lasciatemi continuare le mie riflessioni sulla "pratica adulta". Probabilmente mi ci vorranno due mesi o più per completare questa serie, ma sarò onorato se vi unite a me per un tratto. Questa volta vorrei cominciare con l'intestazione della "Guida ad Antaiji", un libretto che diamo a tutti i visitatori, e che è compresa anche in questo sito: "Perché venite qui? Antaiji è un tempio dedicato alla pratica dello Zen come espressione naturale della vita. Zazen e il lavoro non vengono considerati semplicemente come una parte della vita, ma includono tutte le 24 ore della giornata perché sono la manifestazione concreta dello Zen. Antaiji non ha altre pratiche speciali, insegnamenti, tecniche di meditazione o particolari illuminazioni spirituali da offrire. Non è nemmeno un luogo per entrare in contatto con i misteri dell'Oriente, dove poter avere esperienze occulte o piccoli assaggi delle cultura giapponese. È un posto dove basare e creare la vita praticando la Via di Buddha. Nonostante, ad Antaiji, vi venga richiesto di vivere una vita in completa armonia con gli altri praticanti, la responsabilità della vostra pratica riguarda solamente voi stessi. Non c'è nessuno che può vivere la vita al posto vostro. Nessuno che vi pulirà il sedere. Ciò che è importante non è usare la Via di Buddha per raggiungere e ottenere i vostri scopi personali, ma piuttosto dimenticare l' idea di voi stessi e abbandonarvi completamente alla pratica della Via. Per questo, dovreste avere ben chiare quali sono le basi della vostra pratica e i motivi che vi hanno portato qui. Se avete altre aspettative dalla vostra permanenza rispetto a ciò che realmente la vita ha da offrirvi in questo momento, rimarrete inevitabilbilmente delusi. Assicuratevi, dunque, di conoscere il motivo che vi ha spinto a venire qui - non prendetevi gioco di voi stessi." Ho scritto queste parole dieci anni fa, come guida per gli stranieri che vogliono praticare ad Antaiji. All'epoca avevo 25 anni e mi trovavo all'Università di Kyoto nell'ambito di uno scambio studentesco, e venivo ad Antaiji per partecipare ai sesshin mensili. Era prima di diventare monaco. L'abate, che in seguito sarebbe diventato il mio maestro, mi chiese di scrivere una piccola guida in inglese per i visitatori stranieri, richiesta cui volentieri acconsentii. In seguito, dopo essere diventato monaco ad Antaiji, l'ho tradotto in giapponese, e ancora oggi viene usato sia per i visitatori giapponesi sia per gli stranieri. Quello che scrissi è abbastanza presuntuoso per essere stato scritto da chi non è nemmeno monaco. Avevo trascorso ad Antaiji sei mesi quando avevo 22 anni, ma all'epoca ero piuttosto uno "spettatore" della vita zen, che capiva da un punto di vista intellettuale la pratica del bodhisattva, senza conoscere veramente la sofferenza di mettere in pratica quella pratica nella vita di ogni giorno, per 365 giorni all'anno - considerandola per tutta la vita. Diventato monaco ad Antaiji, fortunatamente mi è stata offerta la possibilità di fare il salto tra l'idea e la realtà quando ho dovuto mettere in pratica quello che in precedenza avevo solo scritto. A ogni modo, cosa mi aveva fatto scrivere il brano citato sopra da studente di passaggio? La ragione principale, credo, è che mi ero reso conto che nei primi dieci anni del mio zazen (a cui ero stato iniziato quando avevo 16 anni), la mia pratica era stata indirizzata in modo totalmente sbagliato. Avevo cercato qualche forma di saggezza orientale, o piuttosto qualche saggezza che trascendesse occidente e oriente e che si sottraesse alla logica corrente. La chiamano illuminazione o satori o il vero sé o il senso della vita. I cercatori di verità l'hanno cercata per secoli. Anch'io pensavo che era quello che stavo cercando, ma più cercavo di afferrarla più sembrava che si allontanasse da me. Sono dovuto andare dall'altra parte del pianeta (come sarebbe stato possibile cercare la verità assoluta in un posto come la Germania?), senza mai rendermi conto che in ogni singolo istante del presente, la vita si stava già realizzando. La verità era sempre manifesta, semplicemente non mi ero mai preoccupato di osservarla, perché guardavo da un'altra parte, perché si suppone che le cose siano lontane: Satori, saggezza, eccetera. La prima volta in cui ebbi una vaga idea che i miei sforzi si indirizzavano dalla parte sbagliata è stata nei sei mesi della mia permanenza ad Antaiji, quando avevo 22 anni. Sentii di aver trovato il posto dove diventare monaco, anche se pensavo ancora che prima di intraprendere la via del Buddha avrei dovuto finire i miei studi universitari. Ad Antaiji ho trovato un monastero in un posto praticamente perfetto, con un maestro di cui fidarmi e anche un paio di monaci anziani che meritavano rispetto. D'altra parte c'erano anche dei monaci per i quali mi chiedevo innanzi tutto per quale motivo fossero venuti ad Antaiji - perché stavano "praticando" lì? Non facevano altro che dormire, mangiare e tormentare i monaci giovani...Ripensandoci ora, si trattava probabilmente di un'altra proiezione della mia mente immatura. La pratica adulta: Parte 3 Il tuo problema Che cos'è tutta questa storia della "pratica adulta"? Innanzi tutto pratica adulta significa pulirsi il sedere da solo. Chi è che vuole praticare? Non siamo noi stessi a decidere di voler venire in un posto come Antaiji? Se è così, tocca a noi stessi arrampicarci su quella montagna di dubbi e difficoltà in cui prima o poi finiremo per imbatterci. Ovviamente abbiamo bisogno di guida per il nostro viaggio, specialmente per metterci in guardia contro le insidie del nostro ego, ma non sarebbe strano aspettarsi che il nostro maestro si prenda cura di tutti gli aspetti della nostra pratica? Il rapporto studente-insegnante è diverso da quello del bimbo che prende il latte dal seno della madre. Quello che mi ha indotto a cominciare a scrivere questa "pratica adulta" è stato una e-mail che ho ricevuto, il cui oggetto era "solo per tua conoscenza". Conteneva l'espressione del mio confratello anziano nel dharma che ho citato due mesi fa: "un bambino del giardino d'infanzia che cerca di studiare come all'università". Quello che dice della pratica qui ad Antaiji è del tutto tipica dei dubbi che tutti quanti noi avremo prima o poi, per questo voglio citarlo più dettagliatamente: "Sono stato istruito secondo la tradizione di Sawaki Kodo Roshi. Quello che mi è stato detto è stato semplicemente di stare zitto e sedere. Cose come concentrarsi sul respiro o contare i respiri qui è vietato, è per questo che i demoni del sonno mi hanno sopraffatto, o che sono stato disturbato da pensieri casuali, e anche se in certi momenti sono stato capace di calmare la mente, alla fine del sesshin tutto tornava come prima. Bene, mi sono detto, forse è proprio così..." "E' molto diverso capire il Fukanzazengi come istruzione pratica da utilizzare nella vita di ogni giorno, piuttosto che come una nobile teoria senza nessun rapporto con la pratica. Se non hai nessuno strumento particolare che ti faccia capire chiaramente questo punto, non riuscirai mai a tenere calma la mente. Sarai come un bambino del giardino d'infanzia che cerca di studiare come all'università." "Di fatto tutti i miei amici, quelli che hanno praticato insieme nello stesso periodo ad Antaiji, alla fine se ne sono andati chi al tempio H chi al tempio B, qualcuno è perfino andato in America, e alla fine non ne è rimasto nessuno. Questo non ha niente a che vedere con le persone, è perché non riuscivano ad avere una fede convinta nella pratica qui. Il mio insegnante vive ancora ad Antaiji, così ogni tanto lo vado a trovare, eppure, anche quando mi capita di discutere con i miei fratelli del dharma più anziani, ci chiediamo sempre perché non siamo riusciti ad avere una fede convinta nello zazen. Questo include anche me. Così ho cominciato a pensare a quanti anni sarebbero passati in questo modo - quanto tempo sprecato! Questo è vero anche per l'insieme della scuola Soto. Se alla tua pratica manca un punto fermo, non è possibile "semplicemente sedere". Se rimani attaccato alla forma, senza essere presente in questo momento, allora non c'è veramente nessun senso. Bene, solo ora che ho capito me stesso posso dire queste cose. La ragione per cui non riuscivo ad avere una fede convinta nello zazen, e che non sono stato capace di praticare per tanto tempo, è perché tutto questo non mi è stato indicato chiaramente - non c'era una guida!" "Il problema è che non sappiamo esattamente cosa sia semplicemente sedere (shikantaza). Ritengo che il maggiore aiuto per farcelo capire possa venire dal nostro maestro". "Sono andato al Dojo per 8 giorni e ho ricevuto l'istruzione del Roshi. Per farla breve: in una sola settimana ho potuto verificare chiaramente quello che Dogen chiama nel Fukanzanzenji "la manifestazione del vero dharma [della realtà autentica], e la fine di intontimento e dissipazione." Senza dubbio mi ero risvegliato a tutto ciò! era totalmente diverso da qualsiasi cosa avessi provato fino allora, così fresco e commovente! Così mi sono chiesto fin nel profondo: perché è così diverso, che cosa lo rende diverso dalla pratica che ho fatto finora? la risposta è stata semplice: fino ad allora non ero tutto me stesso in ogni singolo istante. Quindi penso che il mio problema fondamentale è stato che nessuno mi ha insegnato concretamente come farlo. Nessuno mi aveva parlato "proprio di questo respiro". Sono davvero contento ora che lo so! "Semplicemente", in altre parole, significa questo specifico istante, definito prima che la mente entri in gioco. Penso che sia stato davvero buono per la mia pratica e per la mia vita in generale che io lo abbia capito chiaramente. Ora il mio problema è semplicemente proseguire. Questo è quello che devo fare ora, e questo sarà il contenuto del mio zazen di ogni giorno d'ora in poi. Sarò attento a che non ci siano impurità in nessuna delle mie azioni, manterrò pulita la mia mente e "semplicemente farò" le cose. Questo è tutto, a parte questo non c'è nulla da praticare. Credo di essere arrivato alla fine, e continuerò semplicemente a praticare." Senza riflettere a quale era la sua responsabilità per la sua pratica, il mio fratello nel dharma continua a criticare il posto di cui si è curato per tanti anni e il maestro che si è preso tanta pena a cercare di aprire i suoi occhi completamente sbarrati. Pure, sono contento di sentire che ha finalmente trovato il suo giardino d'infanzia e che la sua mente è in pace. Come ho detto, non è l'unico ad avere questi dubbi - tutti li abbiamo: "Perché la mia mente non è in pace quando faccio zazen?" "Perché devo sopportare questo dolore? E quando il dolore si placa, o dormo o sogno!" "Dopo tutto questo tempo, come mai ancora non capisco cosa sia lo shikantaza? Perché qualcuno non mi da una fede certa?" "Non è che questa pratica è solo forma e rito, senza nessun significato o contenuto?" "Perché sembra che io non possa ricevere nessuno straccio di guida chiara?" "E questo cosiddetto maestro, non dorme anche lui durante lo zazen?" "Quanti anni devo passare così? Non si tratta semplicemente di una perdita di tempo?" Finché questi sono i pensieri, stiamo davvero perdendo tempo. I più veloci di noi percepiscono questi dubbi il primo giorno del sesshin e si ritrovano seduti sul primo autobus che li riporta a casa. Altri si accorgono del fatto ovvio che la pratica non ci porta dove vogliamo solo dopo sette o otto anni. Di questo incolpano gli altri, si arrabbiano e se ne vanno. Ma quelli che non se ne vanno ma restano sentiranno questi dubbi in modo ancora più intenso - continuano a lavorare e convivono con loro. Il problema diventa parte della loro pratica e imparano a trattarlo come il "loro" problema. Se ti rapporti al tuo problema in un modo maturo, come un adulto nel vero senso della parola, prima o poi sarai in grado di recepire quello che il tuo maestro ti sta davvero insegnando, di risvegliarti a quella guida che prima non vedevi. Solo un adulto può recepire l'insegnamento dei patriarchi, non come una teoria astratta, come l'insegnamento per la vita di ogni giorno. Quando non vedi che il problema stesso, "il tuo problema", è esattamente la tua pratica, sei proprio come un "bambino della scuola materna che cerca di studiare all'università". Stai sprecando il tuo tempo. I sutra ci dicono che "il tempo passa veloce come una freccia nell'aria - non passare tutta la tua vita invano - la vita e la morte sono un fatto serio, l'impermanenza è veloce - eccetera eccetera". Fin dai tempi antichi, molti di noi leggono questi sutra ad alta voce, senza aver pensato nemmeno una volta che quelle parole possono riferirsi proprio alla nostra pratica. Finiamo per cercare la soluzione della nostra pratica da qualche altra parte, non ci rendiamo mai conto che la soluzione è nella stessa nostra pratica. Ovviamente questo è vero anche per me. Sono stati troppo lunghi quegli anni di dubbi che mi hanno quasi fatto a pezzi il petto. E non intendo dire che ora finalmente vivo nella pace e nella gioia, completamente senza problemi. Se non sto attento, finirò per dirmi: "Bene, forse la pratica è proprio questo..." Non c'è bisogno di dire che la pratica non è mai "così" o "così". Non si riesce mai ad afferrarla, perché è la nostra vita, proprio in questo istante. Ora, anziché porre domande allo zazen a partire dalla mia pratica, mi rendo conto che è lo zazen stesso che mi pone delle domande ogni momento. Quando ti rendi conto che è la tua pratica a metterti in questione e non il contrario, sei stato promosso dalla tua scuola materna. Sei diventato un praticante adulto. E' per gli adulti che sono state dette parole come "lo zazen è la vera forma di te stesso" o "il vero maestro è lo zazen". Voglio continuare a esplorare il mondo adulto della pratica per un altro paio di mesi. I temi di cui mi voglio occupare comprenderanno: Qual è il vero significato della parola "adulto" che uso così spesso? Che fare con la sonnolenza o i pensieri casuali come nostro problema specifico, come parte della nostra pratica? E che dire di dolore, stordimento, noia, desideri e attaccamenti, rabbia, rimorso, illusioni di tutti i generi, emozioni e ignoranza? Come sistemare il nostro corpo, respiro e mente? Come praticare non solo lo zazen, ma anche tutti gli altri aspetti della vita? Le insidie della pratica. Guardare allo zazen dal di fuori. Criticare negli altri la nostra pratica scadente. Perché sono venuto qui e come ho vissuto le difficoltà della pratica. L'insegnamento del mio ultimo maestro, Miyaura Shinyu Roshi. Continua il mese prossimo. La pratica adulta: parte 4 "addestramento" [training] e "pratica" Cosa intendo precisamente con l'espressione "pratica adulta"? Prima di riflettere sul significato della parola "adulta", vorrei dire qualcosa sul termine "pratica". In giapponese la parola è "shugyo" che si può scrivere in due modi diversi con caratteri diversi (che si pronunciano anche in modi leggermente diversi), e sembra che anche molti giapponesi non sappiano che differenza c'è tra le due espressioni. "Shugyo" in giapponese può significare sia la pratica religiosa (quando è scritta con il carattere che significa "andare", "fare", "azione"), che esprime la fede o la verità nell'agire della propria vita quotidiana, e allo stesso tempo "formazione" [training], come per esempio la formazione [il training] in un mestiere (in questo caso la parola si scrive con un carattere che significa "karma" o " tecnica"). Non c'è bisogno di dire che sono parole completamente diverse. La parola inglese "pratica" può anche significare qualcosa di simile a "allenamento", come per esempio "allenamento di baseball". Ma quando uso la parola come "pratica adulta", o quando parlo di "pratica zen", "praticare la via del Buddha" ecc., intendo "mettere qualcosa in pratica", "manifestare qualcosa facendolo fisicamente". Sfortunatamente molti sembrano intendere "pratica zen" come "formazione allo zen" - formazione per diventare qualcosa, allenamento per diventare bravi in qualcosa. Questo è vero anche in Giappone per i cosiddetti "monasteri di formazione zen". Lì le persone imparano a indossare bene le vesti buddiste, a fare gli inchini e le prostrazioni nel modo corretto, a recitare i sutra ecc.. Si stanno formando per diventare preti buddisti. Certamente non stanno praticando il buddismo. Per loro il buddismo è una professione, non una vocazione, ma non ci dovrebbe essere bisogno di dire che imparare a guadagnare denaro officiando servizi funebri non ha niente a che vedere con quello che Buddha ha insegnato 2500 anni fa - come vivere le nostre vite. Ad Antaiji non facciamo formazione per diventare preti buddisti. Pratichiamo il buddismo, che significa che viviamo le nostre vita quotidiane come buddha o bodhisattva. Questo non significa però, che facciamo pratica per diventare buddha o bodhisattva. Cerchiamo di manifestare i buddha e i bodhisattva - la nostra natura autentica - in tutte le azioni delle nostre vite quotidiane, qui e ora. Qualche volta si intende diversamente la pratica buddista: ora siamo esseri che vivono nell'illusione, ma praticando come bodhisattva per innumerevoli kalpa, forse arriveremo a perfezionarci e alla fine a diventare dei buddha. Un essere che vive nell'illusione fa pratica per diventare qualcosa di "migliore" - un bodhisattva. Un bodhisattva fa pratica per diventare qualcosa di ancora "migliore" - un buddha. Nello zen non chiamiamo questo tipo di formazione "pratica". Praticare per diventare migliori è in sé un'illusione. Innumerevoli kalpa di questo tipo di pratica non ci renderanno migliori, affonderemo solo sempre di più nell'illusione. Quella che noi chiamiamo pratica nello zen significa smettere di cercare di diventare qualcosa, ma piuttosto permettere a noi stessi di essere quello che siamo fin dall'origine - buddha e bodhisattva. Per questo ci dobbiamo arrendere alla forza che trascende i nostri piccoli ego umani - l'ego che dice continuamente "voglio diventare migliore, voglio diventare buddha". Perché è possibile arrendersi e praticare? E' perché già SIAMO dei buddha, non dopo che ci siamo arresi, ma proprio ora. Ma allora, perché è così difficile arrendersi e praticare? Perché non soddisfa i nostri ego umani. La pratica non ci soddisfa. Non è affatto divertente! Ma cosa ci aspettavamo? Come potrebbe la pratica del buddha dharma essere divertente per le nostre piccole menti umane? Non ci potrebbe essere niente di meno soddisfacente e divertente della pratica di qualcosa che non allarga il nostro ego. Anche quando diciamo che vogliamo diventare dei buddha o vivere come bodhisattva, non lo facciamo dal punto di vista dei nostri ego - pensando: "voglio diventare un buddha, voglio avere il satori!" Così, buddha e bodhisattva diventano solo un'estensione della nostra mente egoica. Le vite dei buddha e dei bodhisattva sono le nostre vite solo quando trascendiamo i nostri ego. Fare un enorme "sforzo dell'ego" non ci renderà dei buddha. Questo è quello che rende difficile per noi il buddismo. Eppure, il buddismo dice che per prima cosa SIAMO già dei buddha. Ma siamo anche degli esseri umani, illusi dai nostri ego. Per prima cosa dobbiamo risvegliarci e vedere chiaramente che siamo illusi dai nostri ego. Vedere questo è di per sé "grande satori". Il fatto che siamo in grado dei renderci conto che siamo illusi dal nostro ego è già una prova che siamo davvero dei buddha - altrimenti non potremmo avere questo risveglio. Ma non basta renderci semplicemente conto che viviamo nell'illusione. Dobbiamo anche andare avanti e mettere in pratica quello che è quanto mai insoddisfacente per il nostro ego. Siamo al tempo stesso illusi e buddha, ma anche se dovessimo smettere di dire "siamo semplicemente degli esseri umani", manifesteremmo solo la metà del nostro essere. E' questo "mezzo essere umano" che naviga su internet a guarda gli show alla tv, sempre alla ricerca di un sito o di un canale che lo soddisfi, che in qualche modo lo diverta. Le ultime notizie sullo "show business", la politica, lo sport, le donne - il cosiddetto "spettacolo per adulti". Crediamo che ci stiano intrattenendo, ma in realtà stiamo scappando da noi stessi - scappando dalla realtà delle nostre vite. Solo quando spegniamo la tv, spegniamo il computer, ci rendiamo conto di come siano vuote le nostre vite - vuote proprio come il monitor. E ci risvegliamo alle insoddisfazioni di quella vita. Questo è un risveglio importante. E' qui che comincia la vera pratica. Questa pratica è diversa dal cercare di dare soddisfazione alle nostre menti annoiate. E' diverso dal cercare di ottenere il "satori" o la pace mentale o qualsiasi altra cosa. Questo è il motivo per cui è così difficile per noi - finché non riusciamo a far smettere la nostra mente infantile dal piagnucolare "voglio una caramella, voglio un giocattolo, voglio il satori!". Questo è il motivo per cui chiamo questa pratica "pratica adulta". Significa smettere di andare cercando divertimento e soddisfazione proprio come un cane cerca l'osso. "Pratica adulta" significa manifestare buddha, vivere come un bodhisattva. "Praticare" significa "vivere", "manifestare", mentre un "adulto" è un buddha e bodhisattva. Ci tornerò la prossima volta. La pratica adulta: parte 5 Troppo non è abbastanza?! "Non comportarti anche tu da bambino!" Mia figlia Megumi era nata a giugno, e da allora ho sentito più volte questa osservazione da mia moglie. Quando nasce un bambino, qualche volta i fratelli maggiori cominciano a comportarsi da bambini per attrarre l'attenzione della madre, che si occupa del neonato. Questo comincia a essere un problema quando il padre, che si dovrebbe occupare anche lui del bambino, è quello che diventa infantile e fa il bambino. Questo è ancora più un problema, quando ogni mese il padre scrive di "pratica adulta" sulla carta igienica. Sta cercando di mostrarsi adulto, semplicemente per nascondere il fatto che in realtà lui stesso è un bambino? Forse è perché lui stesso è ancora un bambino che quelli che gli stanno attorno gli danno tanta retta? In ogni modo sembrerebbe che la "pratica adulta" debba cominciare riflettendo su noi stessi. Il mese scorso ho parlato di "addestramento" e "pratica" e sono arrivato alla conclusione che "pratica adulta" significa vivere come un buddha e un bodhisattva - dove "pratica" significa "vivere" e "adulto" è un "buddha e bodhisattva". In giapponese, la parola "adulto" si scrive con due caratteri cinesi che alla lettera si traducono con "persona grande". Normalmente in giapponese si pronuncia "otona", ma come termine tecnico buddista si legge "dainin". "Dainin" è di fatto la traduzione del sanscrito "mahasattva", che non significa altro che "buddha e bodhisattva". Nella maggior parte dei paesi si è considerati adulti tra i 18 e i 20/21 anni, ma quanti di noi possono affermare di essere veri adulti, che significa mahasattvas, solo perché hanno raggiunto quell'età? Anche se sosteniamo di praticare quella che chiamiamo la "via del buddha", troppo spesso siamo adulti solo in base all'età, mentre la nostra pratica è infantile come sempre. Allora, cosa significa essere un vero adulto? Nel capitolo "Otto consapevolezze dei veri adulti" dello Shobogenzo, Doghen Zenji elenca otto caratteristiche del vero adulto. Le prime due sono "desiderio piccolo" e "sapere che si ha quanto basta". Quando praticavo da monaco in un tempio Rinzai di Kyoto, un giorno sembrava proprio che non si riuscisse a racimolare denaro sufficiente nella nostra questua giornaliera, così abbiamo continuato a fare la questua finché non ci siamo resi conto che non avremmo fatto in tempo a tornare per pranzo al tempio. Nello Zen Rinzai non è ammesso arrivare tardi, quindi abbiamo dovuto usare il denaro raccolto per prendere un taxi. La prima cosa che il tassista ci ha chiesto è stata: "Avete mai sentito parlare delle prime caratteristiche di un adulto?" "Di che?", ha risposto il capo del nostro gruppo. "Intendo la verità che avrete sempre quanto basta se non desiderate di più di quello che la vita vi può offrire in questo preciso momento. Quanto più cercate di ottenere, tanto più soffrirete." - A Kyoto i tassisti normalmente ne sanno di più di buddismo di quanto ne sappiano i monaci Zen, che studiano lì per avere il certificato di "ministri Zen pienamente qualificati." "Parli troppo", è l'unica cosa che il nostro capo è stato capace di rispondere. Sembra proprio che con il tassista non ci fosse intesa. Ma in realtà, è facile dire che "hai sempre a sufficienza se non desideri di più di quello che la vita ti può offrire in questo preciso momento." Non è facile realizzarlo e viverlo, in ogni modo. Sembra che non riusciamo mai a ottenere quella soddisfazione che cerchiamo. Non riusciamo mai ad avere quello che vogliamo, ed effettivamente non riusciamo ad avere quello che ci occorre, o almeno così ci sembra. O non è la "soddisfazione" il minimo assoluto che ci aspettiamo dalla vita? Questo, di nuovo, ci mette sullo stesso livello di quel bambino cresciuto che vuole ancora "caramelle, giocattoli e satori", urliamo per avere felicità e soddisfazione, proprio come un bebé urla per il latte. Lo zazen ad Antaiji non serve a niente. Non si guadagna in spiritualità e non si guadagna nemmeno la paghetta. Si finisce per perdere - perdere idee e ideologie, e si finisce anche per spendere il proprio denaro per comprare cose per il tempio. Come unsui (monaco che pratica sotto la guida di un maestro), in verità non me ne preoccupavo. Ero convinto che la pratica Zen è più un perdere che un guadagnare, e chi si aspetterebbe di essere pagato per lo zazen? Fare la questua nell'intervallo invernale normalmente permetteva di raccogliere denaro sufficiente per pagare l'assicurazione sanitaria (circa 150 dollari l'anno) che copre il 70% dei costi ospedalieri, ma non denaro sufficiente per l'assicurazione sociale (circa 120 dollari al mese), che serve per mantenersi da vecchi. Ma la povertà non è un fatto automatico per un monaco zen, e come possiamo preoccuparci della vecchiaia, dovendo praticare come se dovessimo morire oggi? Ora, come abate di Antaiji, sono ancora senza un introito personale, ma le mie prospettive sono cambiate: ora mi devo assumere la responsabilità di una moglie e di un figlio. Come dovrei provvedere a loro? Come unsui, mi potevo prendere del tempo durante l'intervallo invernale per fare la questua, ora qualcuno si deve prendere cura del tempio - e questo praticamente non lascia tempo per la questua personale. Come unsui, uno spazzolino da denti e un minimo di biancheria personale erano sufficienti, ora un bimbo che cresce richiede spese maggiori. Che succederà quando comincerà ad andare a scuola? E il college? E che succede se muoio? Se penso alla vita in questo modo, per me sarà impossibile rendermi conto che mi basta quello che la vita mi offre in questo preciso momento. Anche se uno mi desse un milione di dollari, sarei ancora preoccupato del futuro, dell'inflazione, dei ladri...non avrei mai abbastanza. Che cosa infantile! Mi devo ricordare perché sono qui: la pratica adulta. Io ho preso questa decisione di diventare monaco e di praticare ad Antaiji, io sono stato d'accordo a diventare abate, e mi sono anche sposato e ho avuto un figlio volontariamente. Di cosa mi posso lamentare? Anche senza denaro, io e tutti ad Antaiji abbiamo aria per respirare, acqua da bere, e tutta la verdura che cresce nel giardino da mangiare. Anche se il raccolto quest'anno è povero, non ho mai sentito di nessuno che qui sia morto di fame. Dogen Zenji dice che bisogna essere poveri per praticare la via. Allora quale vita migliore di questa potrei desiderare? Naturalmente povertà non significa solo poche proprietà materiali. Innanzi tutto significa purezza mentale. Sawaki Roshi dice: "Se il bicchiere d'acqua della tua mente è completamente pieno, quando ricevi di più traboccherà. Devi vuotare quel bicchiere d'acqua - il che significa che devi gettare via le tue idee personali e gli attaccamenti del tuo ego. Solo così puoi sviluppare un attitudine che ti permette di ascoltare e accettare tutto quello che il tuo vero maestro ti offre." La pratica adulta comincia con il lasciar andare i nostri ego. Senza questo atteggiamento, non otterremo mai quello che vogliamo, dal momento che non siamo in grado di ascoltare, non possiamo accettare l'insegnamento, non vediamo le istruzioni, non sviluppiamo nessuna fede nello zazen, e dopo un paio di anni di "pratica" finalmente ci renderemo conto che stiamo sprecando il nostro tempo - prendendocela con gli altri o con lo zazen, senza vedere che sono i "bicchieri d'acqua" nelle nostre menti che stanno traboccando con idee centrate sull'ego. "Troppo" è la ragione per il nostro non avere mai abbastanza. Per avere la vera soddisfazione adulta, non abbiamo bisogno di qualcosa in più - dobbiamo perdere qualcosa d'altro, dobbiamo lasciar andare noi stessi. Forse ne avete già abbastanza, eppure vorrei continuare a esplorare un altro po' il mondo di un adulto il mese prossimo. La pratica adulta: parte 6 Manca ancora qualcosa? Il mese scorso ho parlato della "pratica adulta" usando le prime due delle "otto consapevolezze dei veri adulti", cioè " desiderio piccolo" e "sapere che si ha quanto basta". Ho detto qualcosa per spiegare che essere un adulto significa rendersi conto che quello che la vita offre in questo preciso istante è già abbastanza, e che non c'è nessun bisogno di cercare altrove qualcosa di meglio. Quanto più si desidera tanto più si sentirà la mancanza di qualcosa, e questo provocherà sofferenza. Quindi un adulto semplicemente smette di desiderare più di quello che la vita gli offre proprio qui e adesso. Ora, questo può sembrare bello, ma non pensate che si tratta solo di una vuota teoria, senza nessun rapporto con la realtà in cui di fatto viviamo? Di fatto se fosse solo una vuota teoria fareste meglio a smettere subito di leggere questa "carta igienica", e io dovrei smettere di perdere il mio tempo a scriverla. Ma naturalmente sto cercando di non parlare di mera teoria, ma piuttosto di fare un po' di luce su quella che io chiamo la "pratica adulta". "Pratica" è la vita di ogni giorno, e non è mai "teoria", anche se la "teoria" qualche volta ci può aiutare a essere più chiari a proposito della "pratica". Dobbiamo fare attenzione a non finire per teorizzare la "pratica", ma a mettere la "pratica" in pratica, realizzarla e esplicitarla nella nostra vita. Altrimenti la nostra pratica davvero non è altro che vuota teoria. Ma allora perché concetti come " desiderio piccolo" e "sapere che si ha quanto basta", "rendersi conto che si ha a sufficienza nel momento stesso in cui si smette di desiderare di più di quello che la vita ci offre proprio in questo istante" ci suonano come vuota teoria? Non è forse perché nel profondo di noi stessi sentiamo che "qualcosa manca" anche se a livello intellettuale possiamo capire che la realtà della nostra vita va bene così com'è? Penso che anche dopo anni di pratica buddista abbiamo ancora la sensazione che "qualcosa manca". Vogliamo ancora qualcosa di meglio, un po' più caramelle, felicità e illuminazione. Quindi anziché essere soddisfatti di quello che la vita ci può offrire proprio ora, se siamo sinceri con noi stessi, ci possiamo rendere conto che non abbiamo mai abbastanza di quello che abbiamo e desideriamo sempre qualcosa in più, anche se non sappiamo esattamente cosa sia che ci manca principalmente. Perché succede? Sawaki Kodo Roshi dice: "Manca qualcosa nello zazen? Cosa manca? Non è da parte dello zazen che manca qualcosa. E' solo l'uomo illuso dal suo sedere in zazen che pensa che "manca qualcosa!" "Manca qualcosa - siedi in zazen e basta. Manca qualcosa - pratica lo zazen col corpo. Manca qualcosa manifesta lo zazen col corpo." Eppure, perché c'è qualcosa che manca? Se "pratica adulta" significa davvero smettere di desiderare più di quello che la vita può offrirci proprio ora, come possiamo davvero pensare che manchi ancora qualcosa? Almeno durante lo zazen, non dovremmo sentire che davvero non manca nulla, che abbiamo tutto quello che ci occorre? Sawaki Roshi da la risposta quando dice che "E' solo l'uomo che si illude nel suo sedere in zazen che pensa che 'manca qualcosa!'" Non c'è niente di sbagliato nello zazen che pratichiamo, sono solo i nostri pensieri pieni di illusioni che accompagnano la pratica che cercano di convincerci che "manca ancora qualcosa". Così per tutti noi che siamo esseri umani illusi, c'è sempre qualcosa che manca. E' naturale. D'altro canto non dobbiamo dimenticare che mentre siamo esseri umani, siamo anche dei buddha. Essere buddha significa essere connessi con quella realtà assoluta per cui in nessun modo può mai esserci niente che manchi. Anche quando pensiamo che ci manca ancora qualcosa, una parte di noi si rende perfettamente conto che non potremmo davvero desiderare più di quello che abbiamo. Siamo contemporaneamente esseri umani pieni di illusioni e buddha, sia infantili che adulti. Penso che tutti noi abbiamo questa struttura quasi schizofrenica nelle nostre menti, e non credo sia possibile eliminare un nostro lato in favore dell'altro. Quindi il problema per un vero adulto è come questi due aspetti del proprio io si rapportino l'uno con l'altro. Volete condurre le vostre vite lasciandovi trascinare dal vostro lato infantile che reclama che manca sempre qualcosa? Un vero adulto piuttosto dovrebbe rimanere seduto stabilmente in questa realtà in cui "manca ancora qualcosa", manifestando lo zazen col suo corpo anche se i suoi pensieri desiderano "qualcosa di più". Sawaki Roshi diceva pure: "Zazen significa star seduti immobili mentre manca qualcosa". C'è un famoso koan Zen, generalmente citato in Giappone come il "koan del carattere Mu". Parla di un monaco che chiede al maestro: "Che dici di questo cane. Ha natura di buddha o no (mu)?" Il maestro risponde: "Mu (no)!" Il termine koan alla lettera significa "avviso pubblico", normalmente è uno scambio tra un maestro e uno studente o qualche altro detto o atto di un maestro zen, utilizzato in seguito come modello per svelare la verità. In epoca moderna, la parola "koan" ha cominciato a essere usata per indicare uno specifico quesito che gli studenti zen devono risolvere per "progredire" nel loro corso di studi condotto da un maestro di koan. Lo studente dovrà entrare nella "stanza del dokusan" per un incontro faccia a faccia con l'insegnante. Se l'insegnante accetta la sua comprensione del koan sarà "ammesso" al "prossimo koan". Lo studente prima proclamerà il koan, poi il maestro gli chiederà qual è la sua risposta. Lo studente avrà già preparato qualche spiegazione o qualche azione per esprimere la sua comprensione. Se il maestro approva questa comprensione, lo studente "passerà" al "koan successivo", se il maestro non la approva lo studente ci dovrà "provare di nuovo" la prossima volta. Nel caso del "koan del carattere Mu", lo studente avrà buone probabilità di essere "promosso" se semplicemente grida "Muuuuuuuuuuuuh!" con voce profonda proveniente dalla profondità del suo hara, per dimostrare che è diventato "uno con Mu". Vale la pena osservare che questo koan in Giappone è chiamato il "koan del carattere Mu", e non il "koan Mu". Si tratta di diventare il carattere "Mu", non di diventare un qualche "nulla assoluto" o "vuoto dell'estremo oriente" che qualche filosofo pensava il "Mu" volesse indicare. Come koan moderno "Mu" non significa nient'altro che "Muuuuuuuuuuuh!" Altri koan chiedono che lo studente dia uno schiaffo all'insegnante o faccia il gesto di pisciargli addosso. Di fatto le risposte ai koan possono essere innocenti e divertenti come i giochi dei bambini nei giardini d'infanzia. Non proprio quello che chiamereste "pratica adulta", ma i koan in alcune tradizioni zen sono usati come mezzi per un fine, non come un fine in sé. Come strumento per un fine, penso che i koan svolgano un buon servizio per liberarci dai troppi pensieri che si affollano nelle nostre menti. Eppure questa liberazione dai pensieri si verifica mediante un infantilizzazione artificiosa di noi stessi, un tornare a essere come bambini - nello zen questo si chiama "diventare un idiota totale". In alcune tradizioni, "diventare un idiota totale" è considerato il primo gradino della pratica zen. Ma ora non voglio continuare la discussione sui punti di forza e di debolezza dei "koan zen". Vorrei piuttosto concentrarmi su alcuni aspetti più profondi del "koan del carattere Mu". Quando il monaco chiede: "Che dici di questo cane. Ha natura di buddha o no?" non sta parlando semplicemente di un cane a caso. Quando dice "cane", sta riflettendo su quel lato di lui stesso che può essere indicato in modo più preciso come "cane". Il buddismo insegna che siamo tutti buddha, ma si può davvero chiamare questo cane di un io un buddha? La risposta del maestro non è stata "Muuuuuuh!" ma un semplice "no!" C'è una differenza evidente tra un essere umano che vive nell'illusione e un buddha. Come esseri umani che vivono nell'illusione siamo ben lontani dall'essere "buddha così come siamo". Il koan continua con la domanda del monaco: "Se, come insegna il buddismo, tutto ha la natura del buddha, come può essere che solo questo cane, cioè io, non l'abbia?" Il maestro risponde: "Per la sua natura karmica". Come buddha, abbiamo la natura del buddha, ma come esseri umani che vivono nell'illusione la nostra natura è il "karma", e vivere le nostre vite spinti da ogni parte dal karma è diverso dal vivere come un buddha. E' interessante che in un altro momento lo stesso maestro ha risposto alla stessa domanda in modo opposto . Il monaco chiede, "Che dici di questo cane. Ha natura di buddha o no?", e il maestro risponde "Sì ce l'ha!". Anche per un cane come te o come me non c'è modo di sfuggire alla realtà assoluta che si chiama "natura del buddha". Un uomo che vive nell'illusione non è la stessa cosa di un buddha, eppure non possono essere distinti. Un buddha trascende l'essere umano, ma al tempo stesso comprende e abbraccia l'essere umano. Il monaco ha continuato: "Dici che questo cane ha la natura del buddha, ma allora perché la pura natura del buddha si manifesta in un livello così brutto dell'esistenza?" Quando guardo a me stesso onestamente, posso vedere solo desideri, odio, illusione - come fa una qualsiasi "natura del buddha" a manifestarsi qui? E' famosa la risposta del maestro: "E' fatto deliberatamente!" Un essere che vive nell'illusione non è niente più di un essere che vive nell'illusione. Un buddha non è niente meno di un buddha. Un uomo che vive nell'illusione e un buddha non sono la stessa cosa, ma quando un uomo che vive nell'illusione, nel bel mezzo del karma e dell'illusione, prende rifugio nei voti e vive una vita di pratica, l'essere di natura karmica diventa un essere con la natura di chi ha fatto i voti, e un buddha, un bodhisattva, un vero adulto si manifesta deliberatamente. Un bodhisattva o un adulto è un essere che vive nell'illusione che vive seguendo i voti. Il buddha e l'uomo non possono mai essere separati, anche se al tempo stesso non sono uno. Vivere seguendo i voti, vivere come un adulto responsabile, e vivere nel karma, come un bambino cresciuto, sono due modi completamente diversi di vivere la nostra vita. Un adulto sceglie "deliberatamente" di usare la sua esistenza karmica per dedicare la vita alla via del buddha. Sono un uomo che vive nell'illusione, e sono un buddha, sono un bambino cresciuto, e sono un vero adulto al tempo stesso. La domanda è come fanno questi due "me stesso" a rapportarsi l'uno con l'altro. Proprio come una madre amorevole tira per la mano il figlio in lacrime, il me adulto guida il me infantile lasciandolo abbandonare alla forza di gravità dello zazen. Non serve a nulla cercare nevroticamente di "educare" me per mezzo di me stesso, come potrebbe cercare di fare qualche giovane madre quando il suo bambino non smette di piangere. Quando un genitore ama naturalmente il figlio e il figlio segue naturalmente il genitore, diventa evidente come l'essere che vive nell'illusione karmica, il "me cane", è al tempo stesso connesso con il buddha e il bodhisattva adulto, che vive seguendo i voti. "Zazen significa star seduti immobili mentre manca qualcosa". "Essere guardati negli occhi dallo zazen, essere rimproverati dallo zazen, essere ostacolati dallo zazen, essere trascinati da una parte e dall'altra dallo zazen, sempre piangendo - non è questo il modo di vivere più felice che uno possa pensare?" Solo con la decisione stabile e risoluta di un adulto possiamo provare il gusto di questa "felicità". Purtroppo, non esiste per chi ha la mentalità di un bimbo di tre anni. In me, l'adulto stabile e risoluto, e il bimbo di tre anni per il quale c'è sempre qualcosa che manca, esistono in parallelo. Ma questa duplice struttura non è una forma di schizofrenia o di auto-contraddizione. Se pratichiamo in modo maturo, possiamo trarre dalla nostra pratica una grande forza proprio grazie a questa nostra struttura interiore. Nel Genjokoan, Dogen Zenji dice: "Quando il dharma non riempie ancora il corpo-spirito, ritieni che ci sia già abbastanza dharma. Quando il dharma riempie i corpo-spirito, allora ti rendi conto che c'è ancora un aspetto che manca." Quando si pratica il dharma, pensare che se ne ha già abbastanza è bambinesco. Qui è l'adulto che si rende conto che "c'è ancora qualcosa che manca". Quando siamo soddisfatti del nostro zazen, è segno inequivocabile che nel nostro zazen c'è qualcosa che non va. Al contrario è proprio quando pratichiamo veramente lo zazen che ci rendiamo che c'è un lato che ancora manca. Naturalmente non manca nulla dalla parte dello zazen. Ma come esseri umani, abbiamo ancora i nostri difetti, i nostri lati infantili, e quanto più la nostra pratica diventa matura, tanto più diventa chiara la consapevolezza dell'infantilismo e delle illusioni che sono in noi. Proprio per questa consapevolezza continuiamo a praticare e a impegnarci nella via, osservandoci da diversi punti di vista. Ma quando cominciamo a essere soddisfatti della nostra pratica, e ci rallegriamo con noi stessi per i risultati conseguiti, siamo di fatto regrediti allo stato in cui pensiamo di avere a sufficienza di quello di cui non sarà mai possibile avere a sufficienza: il Dharma. Ed è solo una questione di tempo per cominciare a lagnarci e a reclamare: "C'è ancora qualcosa che manca". L'unica cosa che manca è un approccio maturo, responsabile alla nostra pratica. Dopo " desiderio piccolo" e "sapere che si ha quanto basta", ci sono altre sei consapevolezze per un vero adulto: "Apprezzare la quiete (non preoccuparsi di fatti irrilevanti)", "Sforzarsi di praticare (assumersi la responsabilità della propria vita)", "Non dimenticare la propria scelta (perché pratico?)", "Praticare il samadhi (manifestare lo zazen con il corpo)", "Praticare la saggezza (mettere la "pratica adulta" realmente in pratica)", "Non dire cose superflue (che derivano dalle vuote teorie)". Anziché spiegare il resto di queste consapevolezze, vorrei parlare di come sono arrivato a Antaiji la prima volta, e di cosa ho provato. Continua. La pratica adulta: parte 7 Il mio percorso per Antaiji La prima volta che sono arrivato ad Antaiji avevo 22 anni. Per sei anni avevo praticato lo zazen in diversi dojo, e quando non andavo in un dojo, sedevo quotidianamente da solo. Eppure, sedere per un'ora o due tutti i giorni per me non era abbastanza, e la pratica in un dojo mi sembrava più un hobby che un modo di vivere. Avevo 16 anni quando mi sono imbattuto nello zazen, e a 17 anni ero già certo che questo era quello che volevo fare nella mia vita. Sembrava che fosse la cosa che avevo sempre cercato, senza neppure sapere in quale posto nello spazio avrei potuto trovarlo. In ogni modo, il mio piano originario era di andare in Giappone appena finita la scuola superiore. Perché andare all'Università a studiare qualcosa che comunque sembrava noioso? Fino ad allora avevo subito il fascino di matematica e fisica, ma come si rapportano queste due materie con la mia vita? Se doveva essere qualcosa che avesse un senso, doveva essere lo Zen. Tutti hanno cercato di dissuadermi, ma nessuno è riuscito a convincermi finché l'insegnante che per primo mi ha introdotto alla pratica dello zazen si è raccomandato che aspettassi un po', studiassi il giapponese, e ottenessi un titolo di studio che mi permettesse di guadagnarmi la vita una volta tornato in Germania. Non avevo mai davvero pensato a guadagnarmi la vita fino ad allora, ma fui messo sull'avviso che c'erano stati molti casi di persone che avevano finito per vivere in monasteri Zen tutta la vita, solo perché non avevano altra scelta. Non potevano tornare alla vita sociale, perché lì non erano in grado di guadagnarsi da vivere. Non riuscivo a immaginare come fosse possibile una cosa del genere: quei monaci Zen non erano dei super-uomini che capivano tutto? Niente avrebbe dovuto essere impossibile per chi padroneggiava lo Zen - quindi perché preoccuparsi di trovare un lavoro? In ogni modo, decisi di studiare il giapponese prima di diventare un monaco in Giappone. Dal momento che all'epoca era di moda pensare che le particelle elementari così come le galassie e l'universo nel suo complesso obbedivano alle stesse leggi insegnate da Shakyamuni o da Lao-Tse, decisi anche di studiare fisica e filosofia all'Università. Alla fine, pensavo, non solo sarei diventato un maestro Zen, ma avrei anche vinto il premio Nobel. Però dopo due anni e mezzo, mi sono reso conto che lo studio delle particelle elementari di per sé è la vocazione di una vita. Quindi ho smesso. In Germania non c'è la laurea breve, quindi non ti puoi laureare finché non prendi il dottorato di ricerca. A 22 anni non potevo più aspettare per avvicinarmi a quello che pensavo fosse il "vero Zen", e decisi di fare un anno di studio all'Università di Kyoto. Per i primi tre mesi, ho partecipato agli incontri settimanali di Zazen al Centro del Soto Zen di Kyoto, e ai sesshin mensili di Sonobe, fuori Kyoto. La vita universitaria in Giappone si dimostrò noiosa quanto quella in Germania, e lo Zen non era una realtà nella vita quotidiana di Kyoto. Esisteva per i turisti, ma non c'erano nemmeno dei dojo che funzionassero tutti i giorni. I preti dello Zen erano uomini d'affari senza nessun interesse per la pratica, e i templi venivano utilizzati solo come cimiteri, non come dojo per la pratica. Solo dopo qualche mese all'Università ho scoperto che il mio professore era un prete del Soto Zen - certo non sembrava che lo fosse, e all'Università insegnava Kant. Il Centro del Soto Zen era il mio unico rifugio, e d'estate ho deciso di passare qualche mese a Shorinji, il tempio dei sesshin a Sonube. In questi due mesi di luglio e agosto ho avuto un primo assaggio della "pratica adulta". Avevo pensato che le persone del tempio mi avrebbero preso per mano e mi avrebbero insegnato tutto. E' cominciato quando il primo giorno mi hanno messo in cucina, come assistente del cuoco. Nella prima settimana avrei dovuto imparare il mestiere dal cuoco principale, in modo da poter fare il lavoro da solo e fare il cuoco la seconda settimana. Non avevo mai cucinato niente di più raffinato delle uova strapazzate, per cui non ero affatto sicuro che una settimana di assistente al cuoco sarebbe bastata per imparare il lavoro, soprattutto dopo che il "cuoco principale" mi disse che lui stesso era arrivato dalla Svezia una settimana prima ed era il primo giorno in cui era il solo responsabile della cucina. Dopo tre giorni decise che per lui il clima era troppo caldo e umido e se ne andò. Così sono diventato il "cuoco principale" per i restanti dieci giorni, dopo solo tre giorni di "training" da parte di uno svedese stressato. Chiesi al prete residente come si poteva aspettare che fossi in grado di cucinare per il sangha, non sapendo davvero nulla in materia. Non doveva esserci prima qualcuno del mestiere che mi insegnasse? La sua risposta è stata: "questo è quello che Dogen Zenji chiama 'il samadhi che si auto-realizza'. Devi leggere lo Shobogenzo!" Ho avuto altre lezioni di "samadhi che si auto-realizza" nel mese di agosto, quando tutti i templi buddisti in Giappone sono molto impegnati nelle cerimonie per gli antenati dei parrocchiani. Anche il prete residente era molto impegnato ad aiutare un grande tempio di Kyoto, e per due settimane arrivava la sera tardi per dormire a Shorinji, solo per ripartire presto per Kyoto la mattina dopo. Tutti gli altri se ne erano andati per le vacanze estive, così mi sono ritrovato da solo a seguire il programma. Andare di corsa per tutto il tempio la mattina alle 5 con la campana della sveglia, anche se non c'era nessuno da svegliare. Sedere due ore in zazen, preparare la colazione, lavarsi, fare il samu, scaldare l'acqua per il bagno e dopo cena due ore di zazen da solo. Per uno che era andato in un tempio Zen per ricevere un insegnamento nello "Zen", davvero un'ottima scuola. "Samadhi che si auto-realizza", o come la chiamo io ora: Pratica adulta. E' stato all'inizio della mia permanenza a Shorinji che ho sentito parlare di Antaiji da un praticante che si chiamava George. George ci aveva passato due settimane a primavera, e benché non riuscisse a comunicare con i monaci totalmente giapponesi, diceva che le 24 ore della vita quotidiana erano vissute "in un profondo samadhi". Venne fuori che anche il prete residente di Shorinji proveniva in origine da Antaiji, mi piaceva l'idea della possibilità di essere presentato ad Antaiji e vederlo con i miei occhi. Tutto quello che sentivo su Antaiji, sembrava proprio "il vero Zen" di cui stavo sognando: autosufficienza, cucina senza far uso del gas, nessun riscaldamento d'inverno a eccezione di quello che si otteneva con la stufa a legna, due sesshin al mese. E, soprattutto, solo monaci giapponesi! Ne avevo abbastanza di tutti questi finti praticanti occidentali. Avevo bisogno di praticare con qualche vero giapponese. Finalmente avrei avuto una vero insegnamento dello "Zen"! A ripensarci ora, mi chiedo com'è possibile che non mi ero mai risvegliato da tutte queste falsità? In ogni modo ho avuto il mio accesso ad Antaiji, e ho deciso di interrompere i miei studi all'Università di Kyoto per praticare sei mesi ad Antaiji. Ci sono arrivato il 30 settembre del 1990, due settimane dopo che un tifone aveva spazzato via quattro chilometri di strada che portavano al tempio. Alcuni monaci sembravano ancora sotto shoc, ma non capivo il perché: non è naturale che un "vero monastero Zen" stia isolato sulle montagne, inaccessibile alla gente normale, anche senza un servizio postale? Rimasi piuttosto sorpreso nell'apprendere che c'erano elettricità e telefono- dei veri monaci Zen non dovrebbero essere in grado di farne a meno? Vi lascio immaginare quale fu la mia sorpresa quando cominciò il sesshin il giorno seguente. Avevo sentito che ad Antaiji si praticava il "puro Zen" nella tradizione di Dogen Zenji, shikantaza senza condimenti, sesshin senza giocattoli. Cosa ho scoperto? La sala di meditazione vibrava di monaci che russavano, qualcuno che cadeva riverso sul cuscino, altri che sbattevano la testa contro il muro! Continua La pratica adulta: parte 8 Sei tu a creare Antaiji Ricordo ancora la mia prima notte ad Antaiji: benché il tempio sia isolato sulle montagne, ho sentito ininterrottamente della musica che risuonava dall'altra parte della valle. Perfino la città non era mai stata così rumorosa. Ricordo di aver sentito tutta la notte musica gospel e voci che urlavano "alleluja". Può darsi che ci sia una cappella in cima alla montagna, ho pensato. Tutto quel rumore può essere stata una delle ragioni per cui nello zazen del giorno dopo dormivano tutti. O forse non erano proprio tutti a dormire tutto il tempo, ma almeno tre o quattro dei cinque monaci giapponesi hanno dormito sempre. Per me è stata una grande delusione, dal momento che ero venuto fin dalla Germania per far esperienza qui del "vero Zen". Come si può dormire durante lo zazen? In Europa è normale che a un sesshin partecipino da due a trecento persone, ma è davvero difficile trovare qualcuno che dorma. Allora era stato un errore venire ad Antaiji? Sarebbe forse stato meglio se avessi continuato la mia pratica in qualche dojo in Germania? Con questi pensieri, avevo già dimenticato l'insegnamento ricevuto la sera prima da quello che sarebbe stato il mio insegnante, l'abate che mi ha preceduto Miyaura Shinyu Roshi. E' risultato poi uno degli insegnamenti più importanti che mi abbia dato in tutta la sua vita: "Sei tu a creare Antaiji! Non è che Antaiji già esiste e tu semplicemente ti ci aggreghi. Antaiji non è né più né meno del posto che tu ne fai." Penso che questa sia la prima cosa che dicesse a tutti quelli che arrivavano ad Antaiji. Sei tu a fare Antaiji. E io mi stavo già lamentando di quello che avevo trovato. Ma quello che ho trovato è proprio l'Antaiji che mi sono creato - o piuttosto il rovescio di tutte quelle nobili idee che avevo nella testa: Un insegnante eccezionalmente illuminato e monaci esperti che mi avrebbero aiutato nella mia pratica e a risolvere i miei problemi della vita. Mi ci è voluto un bel po' di tempo per vedere che sono io che creo tutti questi problemi, che creo Antaiji sia quando va bene sia quando va male, che creo tutto l'amore e tutto l'odio, tutta la guerra e la pace nel mondo. Il problema non era come faceva il mio vicino a dormire durante lo zazen, ma piuttosto come mi potevo permettere io di esserne infastidito. Non era invece il caso che mi preoccupassi innanzi tutto della mia pratica? Dopo la fine del sesshin ho scoperto da dove proveniva di notte tutto quel rumore (di giorno la calma era incredibile): il riso era appena stato mietuto e si stava asciugando sull'altro lato di quello che era stato un campo di baseball, che i monaci avevano costruito quando erano in numero sufficiente per organizzare delle partite. Dei cinghiali selvatici scendevano tutte le notti dalla montagna per servirsi del riso appena raccolto, e si pensava che una radio accesa a tutto volume piazzata lì li avrebbe spaventati. In realtà la radio non riusciva proprio a spaventarli, ma in ogni modo contribuiva a tenerci svegli tutta la notte. Mi sono poi reso conto che c'erano altre ragioni per cui i monaci erano stanchi durante lo zazen. I due sesshin mensili consistevano rispettivamente in tre e cinque giorni di zazen che cominciava alle quattro di mattina e continuava fino alle nove di sera, senza interruzioni salvo che per i pasti. Naturalmente, avevo pensato, questi due sesshin sono la parte centrale della pratica ad Antaiji. Cosa ci poteva essere di più duro di questi sesshin maratona? Lo dovevo imparare subito dopo la fine del sesshin. Anche dopo il passaggio del tifone che aveva spazzato via la strada, quell'anno ha continuato a piovere forte per quattro settimane. Furono spazzate vie non solo la strada ma anche quattro acri di terra dove era piantato il riso, sradicati centinaia di alberi e la diga, da cui Antaiji trae l'acqua potabile, si riempì di fango, pietre e alberi. L'acqua del rubinetto a Kyoto non ha un buon sapore - come nella maggior parte delle città giapponesi. Rimasi quindi sorpreso, arrivando ad Antaiji, che qui l'acqua aveva un sapore ancora più sgradevole, e che usciva dal rubinetto piuttosto densa. Soprattutto era marrone. Quando ho visto la diga dopo il sesshin ho capito la ragione: quella che pensavo fosse acqua era il fango che era finito nella diga. Il nostro lavoro nei tre giorni successivi è stato di togliere tutto il fango, la sporcizia, le pietre e gli alberi dalla diga. I monaci erano ansiosi di avere di nuovo acqua pulita che uscisse dai rubinetti, e benché stesse ancora piovendo forte, il samu continuava a tutta forza ben dopo che si era fatto buio. Il sesshin era stato doloroso per le gambe, ma questo era l'inferno. Dopo tre giorni di samu abbiamo avuto un "giorno libero". Credo che si chiamassero "giorni liberi" perché in quei giorni non si faceva zazen, invece dovevamo farci quattro chilometri a piedi per quella che prima era la strada, poi andare in bicicletta per quindici chilometri fino alla città di Hamasaka per ritirare la posta, comprare la salsa di soia e l'olio per la cucina, e il gasolio per il camion, il trattore e le macchine da cucire. Tutto questo doveva essere riportato indietro in taniche di 20 litri, ognuno di noi ne doveva portare due sulle spalle. Dopo il "giorno libero" continuava il samu: gli alberi caduti dovevano essere tagliati e portati nella legnaia, dove sarebbero stati tagliati per alimentare il fuoco della cucina e riscaldare l'acqua del bagno. Si doveva poi ricostruire un sentiero provvisorio per scendere dalla montagna. Il riso doveva essere trebbiato. Il lavoro nell'orto era considerato un passatempo. Anche nei giorni di pioggia più battente il lavoro all'interno era ignorato. Di fatto i sesshin erano le nostre solo vacanze. La pratica adulta: parte 9 Non m'importa di morire La vita che ho trovato ad aspettarmi ad Antaiji era del tutto diversa dalla "pratica Zen" che avevo immaginato fino ad allora. Il mese scorso ho scritto di come mi ero meravigliato nello scoprire che i monaci dormivano durante lo Zazen, e anche di come fosse duro per me il lavoro, e dell'atteggiamento rispetto alla pratica del tutto diverso rispetto a come lo avevo pensato prima: "Sei tu a fare Antaiji!" Voglio riflettere ancora un po' su queste mie prime impressioni ad Antaiji. Si dice che il lavoro ad Antaiji è fisicamente impegnativo, ed effettivamente è così che l'ho trovato. E questo non perché il lavoro fa parte della pratica e quindi deve essere più pesante possibile, per spingere ognuno al proprio limite. No, facciamo semplicemente quello che è necessario fare per sostenere lì le nostre vie, e questo era molto più di quanto potessi immaginare quando sentivo che Antaiji era "autosufficiente". Specialmente nell'autunno in cui sono arrivato, a causa del tifone che aveva spazzato via la strada e i campi di riso e aveva sradicato centinaia di alberi. A 22 anni non avevo sollevato mai niente di più pesante dello "Shobogenzo", e nell'orto non sapevo nemmeno distinguere un ortaggio da un'erbaccia. Tre giorni a portare pietre e alberi caduti sotto una pioggia autunnale battente mi avevano già portato al mio limite. In un intervallo il capo monaco mi chiese: "Voi praticanti tedeschi siete sempre così pigri?" In verità non mi considero affatto pigro. Stavo cercando di dare il meglio di me stesso, ma non era molto - certo non abbastanza! A scuola ero sempre stato tra i migliori - ora ero soltanto un peso per tutti gli altri. Questa è stata un'esperienza dura per me, ma sono sicuro che è stato ancora più faticoso per i monaci che hanno dovuto caricarsi sulle spalle tutto il peso che devo essere stato per loro. Non ero rimasto sorpreso solo dalla quantità di lavoro che veniva fatto, ma anche dalla scarsa efficienza con cui veniva fatto. Naturalmente nessuno si aspetta che uno studentello appena arrivato e che rappresenta solo un peso si metta a commentare come le cose vanno fatte o come potrebbero essere fatte con maggiore efficienza. Il mio ultimo maestro, Miyaura Shinyu Roshi all'epoca partecipava alla maggior parte del lavoro, ma cercando di dare anche ai monaci con meno esperienza la possibilità di essere più creativi e di sviluppare un po' di senso di responsabilità, non assumeva il ruolo del leader neanche quando era evidente che veniva sciupato tempo ed energia in lavori non necessari. Nello Zen è abbastanza usuale dire cose come, "muovi il corpo, non il cervello!" - che finiva per tenerci occupati dei giorni a fare dei lavori che si sarebbero potuti fare in poche ore. In questi casi non era sempre facile per me seguire gli altri monaci in silenzio - come ci si aspettava che facessi. Quello che stavamo facendo sembrava talmente stupido! Eppure, ripensandoci oggi, è chiaro che la pratica più "in-efficiente" a cui si possa pensare è lo Zazen stesso. Ero venuto per praticare lo Zazen, quindi come potevo lamentarmi di un lavoro che prendeva più tempo del necessario (parzialmente motivato anche dal fatto che non mi facevo carico del mio peso)? Se vuoi praticare lo Zazen devi essere pronto a sciupare "per nulla" sia il tuo corpo sia la tua mente. In questo senso, il lavoro inefficiente cui ho preso parte ad Antaiji è stato una buona pratica, "del tutto inutile". La trebbiatura del riso mi ha provocato una febbre del fieno allergica con una tosse che mi è durata fino all'inverno. Tossivo mentre lavoravo, durante lo Zazen e anche di notte. Ancora una volta, dura per me, ma ancora più fastidiosa per i monaci che mi stavano vicini, che probabilmente non si sarebbero dispiaciuti se mi avessero visto andare via. La mia mente non andava d'accordo con quello che facevo, il mio corpo doleva, e i miei polmoni respiravano a stento - perché non me ne andavo? L'unico periodo in cui mi sentivo a posto ad Antaiji era durante le ore di Zazen, ma ci sono altri posti dove si può praticare lo zazen, e per uno studente di 22 anni dovrebbe essere più divertente passare il tempo fuori nel mondo anziché trasportare pietre e alberi sotto la pioggia. Credo che il motivo per cui sono rimasto sia che avevo una visone decisamente negativa della vita. "Non m'importa se muoio in questo modo", pensavo. Un giorno un monaco mi disse, "Sei del tutto privo di emozioni!" Al tempo non capivo nemmeno di cosa stesse parlando, ma penso che si riferisse al mio totale disinteresse per la vita. Talvolta delle persone dicono che il Buddhismo ha una visione negativa della vita, per il fatto che enfatizza che la vita stessa è sofferenza. Non credo che sia così. E' vero il contrario. Credo di avere scoperto il mio interesse per la vita grazie alla mia prima esperienza ad Antaiji, che mi ha condotto in seguito a scoprire la gioia di essere vivo proprio ora, in questo specifico istante. Ma a 22 anni questo non sembrava possibile. La vita era una tale noia. Ogni giorno era solo altre 24 ore di noia. Come sfuggire da questa prigione? Se non avessi avuto in testa l'idea che se non riuscivo a sopportare le fatiche della vita ad Antaiji "potevo pure morire", sono sicuro che sarei tornato all'istante all'Università di Kyoto. Ma idee come "godersi la vita" o "prendersi cura del proprio corpo e della propria mente e vivere una lunga vita sana" mi erano del tutto aliene. Se non mi dovesse funzionare lo Zen, almeno che mi uccida...ero un ragazzo piuttosto depresso all'epoca, e ancora oggi sono grato ai monaci che lo stesso hanno condiviso con me le loro vite. Stranamente, sembrava che i monaci considerassero i periodi di Zazen, che per me rappresentavano i soli momenti in cui potevo essere me stesso, come il "momento di dormire". Il mese scorso ho scritto che uno dei motivi era la quantità di lavoro e la dedizione totale con cui i monaci si sacrificavano per salvaguardare il tempio. Ma questa non era l'unica ragione. Un'altra ragione, anche più importante mi sembra che fosse la mancanza di motivazioni per fare Zazen. Quando i principianti sentono dire che "lo Zazen non serve a niente", in un primo momento possono rimanere sorpresi, ma in qualche modo sembra anche bello. Se pratichi questo "Zazen che non serve a niente" tutte le mattine e tutte le sere, con due Sesshin al mese, su un periodo di, diciamo, 5 o 6 anni, il punto di vista cambia: "Innanzi tutto che ci sto a fare qui? Mi hanno detto che non serve a niente - ho paura che sia proprio così!" "La pratica adulta" comincia proprio allora. Sfortunatamente sono pochi i praticanti che se ne rendono conto. La maggior parte si aspetta che "l'insegnante" o qualche altra persona dotata d'esperienza gli possa dare una mano. E se non trovano questo aiuto, o se arriva in modo diverso da come se lo aspettavano, perdono la loro motivazione iniziale per praticare lo Zazen. Finché coltiviamo la speranza che grazie alla nostra pratica possiamo "arrivare da qualche parte", cerchiamo di fare del nostro meglio, ma quando ci rendiamo conto che questa pratica davvero non ci porta "da nessuna parte", che letteralmente non serve a niente, allora andiamo nella sala dello Zazen solo perché lo dobbiamo fare - e ci addormentiamo! La cosa pericolosa quando si comincia a dormire durante lo Zazen è che una volta presa l'abitudine, non ci rendiamo più conto che stiamo proprio dormendo. Anche se il maestro cerca di svegliarci dicendo "smettete di dormire!", pensiamo "A chi sta parlando? a me? No. Io non sto dormendo, sto praticando lo Zazen proprio come tutti gli altri...Non è di questo che è fatto lo 'Zazen che non serve a niente'?" Una volta caduti così a fondo, diventiamo incapaci di prenderci cura della nostra pratica da adulti. E anche quando il maestro cerca, dopo tutto, di aiutarci, non lo sentiamo nemmeno più. Siamo perduti. La pratica adulta: parte 10 Ideale e realtà Respira il respiro di tutta la tua vita, ogni singolo respiro, ogni singolo istante. Negli ultimi tre mesi ho riflettuto sulle mie impressioni ad Antaiji. Ho descritto come l'immagine dello "Zen" che mi ero fatto da studente universitario fosse assai diversa da quella che ho trovato nel monastero Zen. E come ho già scritto, rimasi particolarmente sorpreso nello scoprire che i monaci durate lo zazen per lo più dormivano. La realtà contraddiceva drasticamente con l'idea romantica che avevo della pratica dello Zen. Mi rendo conto che sono abbastanza bravo a scoprire gli errori degli altri, ma non sono altrettanto bravo a vedere i miei errori. Ho anche la tendenza a cercare il mio ideale da qualche parte "lì fuori", e quando nella realtà non lo trovo, do la colpa alle cose che mi circondano e alle persone che mi stanno intorno. Ma non sono forse io stesso che devo realizzare l'ideale nella realtà, anziché aspettare che l'ideale salti fuori dalla realtà come un pupazzo dalla scatola? Credo che fosse semplicemente a questo che Miyaura Roshi voleva ci risvegliassimo io e gli altri discepoli quando ci diceva che "siete voi che create Antaiji". Ma dal momento che non capiamo questa cosa semplice, restiamo delusi dalla realtà che troviamo e cominciamo a odiare ciò che ci circonda, o arriviamo all'estremo opposto e gettiamo il nostro ideale nella spazzatura, prendendoci in giro da soli col pensare che questo è quello che si chiama "accettare le cose come sono". Non c'è bisogno di dire che entrambi questi modi di reagire alla realtà non hanno niente a che vedere con quella che io chiamo la "pratica adulta". Quando affrontiamo il problema del sonno durante lo zazen, la pratica adulta deve cominciare con due constatazioni: Primo, ci dobbiamo rendere conto che stiamo davvero dormendo. Secondo, ci dobbiamo rendere conto che siamo proprio noi che stiamo dormendo. Entrambe le cose sembrano banali, ma in realtà sono più difficili di quanto si creda. Il mese scorso ho fatto riferimento a un episodio che è successo un giorno quando il russare durante lo zazen della mattina era stato particolarmente rumoroso. Durante l'incontro all'ora del tè, il nostro maestro Miyaura Roshi, ha osservato: "Zazen e dormire non sono la stessa cosa. Non prendetevi in giro da soli!" Dopo l'incontro, il monaco che aveva russato ha chiesto: "Di chi stava parlando? Non ho visto nessuno che dormiva!" Uno dei suoi fratelli nel dharma gli ha risposto: "Certo che no, eri tu che dormivi!" E questa è stata la risposta: "Oh davvero, beh, può darsi che sia proprio così. Non ci posso fare niente..." Quando siamo davvero profondamente addormentati, è semplicemente normale che non ci rendiamo conto che stiamo dormendo. Il problema comincia quando qualcuno ci apre gli occhi alla realtà. Ci rendiamo conto che solo noi ci possiamo assumere la responsabilità del nostro zazen, e che se ci vogliamo svegliare, siamo noi che ci dobbiamo svegliare? In seguito, il monaco che russava se ne è andato da Antaiji, e sono rimasto sorpreso di trovare queste sue parole su internet: "Ho ricevuto l'insegnamento nella tradizione di Sawaki Kodo Roshi. Mi è stato detto solo di stare zitto e sedere. Cose come concentrarsi sul respiro o contare i respiri lì sono vietate, questo è il motivo per cui i demoni del sonno mi hanno sopraffatto, o sono stato travolto da pensieri casuali." "Il problema è che non sappiamo cosa sia semplicemente sedere (shikantaza). Credo che il maggiore aiuto ce lo possa dare il nostro maestro." "E' molto diverso capire il Fukanzazengi di Dogen Zenji come istruzione pratica da usare nella vita reale di ogni giorno, anziché una nobile teoria senza nessun rapporto con la pratica. Se non hai degli strumenti particolari per capire chiaramente questo punto, non riuscirai mai a controllare la tua mente. Sarai come un bambino del giardino d'infanzia che cerca di studiare all'Università." Quando si leggono queste citazioni, si deve vedere chiaramente la differenza tra un atteggiamento infantile e la pratica adulta. Altrimenti si rischia di cadere nello stesso buco. Innanzi tutto, per quanto riguarda l'osservazione che nella tradizione di Sawaki è vietata la concentrazione sul respiro o sul contare i respiri: Certamente non è vero (e il mio confratello lo sapeva molto bene). Nelle sue "Istruzioni per lo Zazen", che purtroppo non ho ancora tradotto in inglese, Sawaki Roshi cita lo "Zazenyojinki" di Keizan Zenji, quando discute il problema di dove mettere la mente durante lo zazen. Sawaki Roshi dice: "Se la mente è distratta portatela sulla punta del naso, o nella zona del basso ventre (tanden). Oppure potete contare i respiri." Uchiyama Roshi, il discepolo di Sawaki Roshi, dice in un articolo: "Respira il respiro di tutta la tua vita, ogni singolo respiro, ogni singolo istante. Vivere significa fare questo respiro proprio ora, e quindi vivere la vostra vita "fresca/naturale" naturalmente non significa pensarci con la mente. Significa accettare la vita come vita - come "naturale, fresca e viva" - e sviluppare un atteggiamento di vita. Quando fate così, questo è esattamente (quello che Dogen Zenji chiama nel "Bendowa") "tutta la materia di una intera vita di studio che giunge a una conclusione". E' anche l'inizio della vera pratica dello shikantaza ("semplicemente sedere"). Non è del tutto ovvio che parole come queste NON possono essere intese come "una nobile teoria senza nessun rapporto con la propria pratica"? Cos'altro possono essere se non un'"istruzione pratica da usarsi nella vita reale di ogni giorno"? Allora come ci si può lamentare del fatto che perché nessuno ci ha insegnato cosa sia in realtà shikantaza, "i demoni del sonno mi hanno sopraffatto, o sono stato travolto da pensieri casuali"?! Lo ripeto io stesso, ma devo dirlo di nuovo. Quando dormiamo durante lo zazen, NOI dormiamo durante lo zazen. Nessun altro ne è responsabile. E' un errore grave prendersela con "i demoni del sonno" o le mancate istruzioni del maestro. Per prima cosa, quelle istruzioni davvero non ci sono state, o siamo stati noi a non sentirle, perché non erano gradite alle nostre orecchie? Sto continuando a criticare il mio fratello nel Dharma, ma era davvero così stupido da non capire una cosa così evidente? No, certamente non lo era. Nella sua testa aveva capito perfettamente. Sfortunatamente non lo praticava col suo corpo. Sebbene i monaci in quel periodo dormissero molto durante lo zazen, la questione che discutevano con maggiore entusiasmo era: "Cosa diavolo E' shikantaza ("semplicemente sedere") "Cosa significa davvero praticare la via del Buddha?" Proprio questo mio fratello nel Dharma non smetteva di porre queste domande a se stesso e agli altri. Tutti i suoi articoli nei vecchi "Antaiji Yearbooks" per esempio sono dedicati a questi problemi. Voglio dargli uno sguardo nei prossimi mesi, prima di andare avanti con le mie esperienze e i miei problemi. Spero anche di offrire qualche suggerimento su come leggere "Istruzioni per lo Zazen" e similari, e come affrontare le difficoltà che sorgono durante lo zazen e la pratica nel suo complesso. Fino ad allora devo chiedervi di avere molta pazienza.