Come e perché sono un romanziere
José de Alencar
Rio de Janeiro
Tipografia di G. Leuzinger & Filhos, Rua d’Ouvidor nº 31
1893.
Come e perché sono un romanziere fa parte di una collana di
opere inedite più o meno incomplete che, in futuro, dovrebbero venire pubblicate con il titolo generale Opere postume.
Tuttavia, trattandosi di un progetto lento e complesso, ritenni doveroso non indugiare ulteriormente per portare ai
lettori certi lavori che soddisfano di per sé la curiosità
collettiva.
Anticipo ad oggi, pertanto, la comparsa di
quest’autobiografia letteraria in forma epistolare nella
quale José de Alencar espone, in modo genuino e sincero,
tutte le circostanze della sua vita che, avendolo colpito
nell’anima, destarono in lui la straordinaria e la vigorosa
vocazione di scrittore e, soprattutto, di romanziere.
Rio, aprile 1893.
Mario Alencar
I
Caro amico,
Durante il nostro colloquio giorni fa hai espresso il desiderio di saperne di più circa il mio pellegrinaggio lettera-
1
rio, quelle sottigliezze del lato più intimo della nostra
esistenza che, di solito, restano all’ombra nel seno della
famiglia o nel circolo delle amicizie.
Consapevole dei tuoi costanti sforzi per arricchire
l’illustre autore del Dizionario bibliografico con numerose
informazioni che egli difficilmente potrebbe ottenere sugli
scrittori brasiliani se non con il prezioso aiuto di un così
erudito glottologo, mi sento in dovere di soddisfare il tuo
interesse contribuendo con una piccola quota per ammortizzare questo debito della nostra ancora giovane letteratura.
Come hai ben considerato, la vita degli scrittori è segnata
da eventi quotidiani banali che, tuttavia, esercitano una
notevole influenza sul loro futuro e infondono, nelle loro
opere, un’impronta individuale. Questi fatti giornalieri,
che alla persona stessa spesso passano inosservati in mezzo
alla monotonia del presente, compongono, nella biografia del
romanziere, i fili di ordito e di trama disposti sul telaio
che diventano distinguibili al mondo dal suo insieme di colori nel ricamo finale.
Considerai di scrivere ai miei figli quest’autobiografia
letteraria nella quale sarebbero registrate tutte le avventure delle creaturine gracili con le quali, per male dei
miei peccati, riempio gli scaffali del signor Garnier. Sarebbe questo il “libro dei miei libri”. Se, in un momento di
pazienza mi disponessi a rifare il faticoso viaggio dei miei
quarantaquattr’anni già compiuti, i curiosi degli aneddoti
letterari potrebbero scoprire, oltre a tante cose intime,
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anche in quale modo l’ispirazione per O Guarani1, che scrissi a ventisette anni, scese nell’immaginazione del bambino
di nove mentre questi attraversava le foreste e i “sertões”2
durante un viaggio da Ceará a Bahia.
Finché questo progetto non diventerà un manoscritto — per
la stampa è ancora troppo presto — vorrei dedicarti la bozza
di un capitolo: quello in cui mi riferisco alle circostanze
alle quali attribuisco la predilezione del mio essere per la
forma letteraria del romanzo.
II
Nel 1840 frequentavo la scuola elementare situata in Rua do
Lavradio numero diciassette e diretta dal signor Januario
Matheus Ferreira, alla cui memoria rendo il mio più profondo
omaggio. Dopo colui che, per noi bambini, era l’incarnazione
di Dio e il nostro creatore, fu il direttore il primo uomo
ad avermi inculcato rispetto e in cui vidi rappresentato il
simbolo dell’autorità.
Quando finisco il lavoro con lo spirito finalmente libero
dai pensieri della giornata e mi capita, mentre percorro Rua
do Lavradio, di lanciare un’occhiata alla targa della scuola
tutt’ora presente sul balcone del numero diciassette — ora
con una diversa indicazione —, mi lascio trasportare al tempo in cui, indossando frac e cappellino, con i libri sotto
1
Fonte letteraria dell’opera-ballo Il Guarany di Antônio Carlos Gomes,
il cui libretto fu realizzato da Antonio Scalvini e Carlo D’Ormeville.
La prima fu presentata al Teatro della Scala di Milano il 19 marzo 1870.
2
Plurale di “sertão”, regione semi-arida che copre buona parte del
nord est brasiliano.
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il braccio, aspettavo sul marciapiede il suono della campanella che annunciava l’inizio delle lezioni.
Il periodo studentesco rimase registrato nella mia anima
con colori così vivaci che sembrano ancora freschi nonostante siano passati più di trent’anni. Vedo lo sciame di bambini invadere la loggia che serviva da salone, assisto agli
intrighi per la prossima elezione del supervisore generale,
sento la calca degli alunni salire le scale e disperdersi,
ognuno alla ricerca del suo banco numerato.
Ma ciò che risalta in quello scenario è soprattutto
l’espressione grave di Januario Matheus Ferreira mentre passeggiava davanti alla classe con un libro in mano e la testa
inclinata per l’abitudine alla riflessione. Egli indossava
scarpe scricchiolanti e nessun alunno della scuola,
nell’udire quel particolare rumore nel corridoio, era in
grado di evitare un sussulto.
Januario era forse troppo ispido e severo; tuttavia, nessun
altro insegnante lo superava nello zelo e nell’entusiasmo
con cui svolgeva il suo arduo ministero: s’identificava con
il discepolo, cercava di trasmettergli le proprie emozioni,
possedeva il talento di creare nel cuore del bambino i più
nobili stimoli educando il suo spirito all’emulazione scolastica per i grandi certami dell’intelligenza.
Le modeste vittorie che tutti noi conquistiamo a scuola e
che non sono ancora accompagnate dal rancore e dall’invidia
che caratterizzano le finte ovazioni del mondo adulto e anche queste spontanee primizie letterarie le devo al mio rispettabile maestro, che depositò forse nella mia anima il
germe della fertile ambizione d’inseguire una luce che insiste a sfuggirci, illusione che fortunatamente si dissipa.
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Il direttore si divideva fra tutte le classi ancorché ognuna avesse il suo specifico insegnante; così facendo, era
sempre al corrente del rendimento degli alunni e manteneva i
suoi colleghi come discepoli sotto costante controllo. Quando, durante lo scambio di lezioni che egli appositamente improvvisava, gli capitava di trovare in ritardo una classe,
vi rimaneva per giorni, settimane, e la restituiva al suo
ufficiale insegnante soltanto dopo averla aggiornata.
A metà dell’anno scolastico, tuttavia, il direttore rivolgeva le sue migliori attenzioni soprattutto alle ultime
classi, che egli preparava agli esami con totale dedizione.
Erano quelli i giorni di festa e di gloria per la scuola,
visitata dai personaggi più illustri della politica e delle
lettere di tutta la corte.
Ero al sesto anno e avevo conquistato il ruolo di capoclasse non tanto per superiorità intellettuale, bensì per il costante impegno negli studi e il maggior desiderio
d’imparare. Il direttore esultava ad ogni mia vittoria come
se fosse lui stesso seduto al banco concorrendo per un posto
d’onore invece di porsi come insegnante alla guida dei suoi
allievi. Di rado si sedeva; trascorreva la maggior parte del
tempo camminando a passi moderati da una parte all’altra
dell’aula. Sembrava completamente disattento alla classe,
alla quale non rivolgeva neppure uno sguardo, tuttavia niente gli sfuggiva. La sua apparente distrazione metteva alla
prova la costante attenzione che egli esigeva dagli alunni e
sulla quale confidava soprattutto per tenere allenata la loro perspicacia.
Un pomeriggio, quasi alla fine delle lezioni, qualcuno fece
un errore in classe.
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«Avanti il prossimo» disse Januario senza alterare la voce
neppure alzare gli occhi dal suo libro, in attesa della risposta dell’alunno successivo. Non avendola ricevuta al termine di mezzo minuto, ripeté l’ordine, e lo fece altre sei
volte.
Dal numero di bambini calcolai che al settimo appello, dopo
essere arrivato all’ultimo della classe, Januario avrebbe
chiamato me, il primo della fila successiva. Uno dei compagni degli ultimi posti, però, era uscito per un attimo e io
non l’avevo considerato. Sorridendo, aspettai ansiosamente
la domanda del direttore e quando sentii il settimo “avanti
il prossimo” mi apprestai a rispondere: il suo sguardo congelò la mia voce fra le labbra. Compresi l’errore, tanto più
quando vidi risedersi al suo posto il bambino appena rientrato. Non riuscì a lamentarmi, ma forse sul mio viso si disegnò, con la spontaneità e il vigore dell’infanzia, il mio
stato d’animo.
Immediatamente dopo me veniva il mio rivale, che più tardi
diventò mio amico e compagno di classe a San Paolo. Era
Aguiarsinho (dottor Antonio Nunes de Aguiar), figlio
dell’omonimo distinto generale, brillante intelligenza e nobile cuore falciati ancora in fiore quando il mondo si preparava a spalancargli le sue porte di oro e porfido.
Aguiarsinho aspettava con ansia un’occasione per rivalersi
di una partita in cui lo avevo sconfitto dopo un’acerrima
sfida. La risposta, tuttavia, non gli venne immediatamente
ed egli non perse il proprio turno soltanto perché il direttore gli concesse più tempo rispetto agli altri, soprattutto
a me, per un maggiore sforzo mentale. Finalmente Aguiarsinho
rispose e io, con il cuore stretto, pensai di dover cedere
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al vincitore il posto d’onore che avevo conquistato con tanta tenacia e che ero riuscito a mantenere per più di due mesi.
Nei trent’anni vissuti da quell’accaduto altre volte la mediocrità imbellettata mi derubò del frutto del mio lavoro.
In tutte quelle occasioni non provai altro sentimento se non
il disprezzo che meritano gli scherzi della fortuna, dispettosa contro coloro che non sono disposti ad adularla. In
quello specifico episodio, comunque, considerando perduto il
premio per l’applicazione negli studi più per un imprevisto
che non per incompetenza, fu costretto a bloccare, in silenzio, le lacrime che insistevano nel voler raggiungere gli
occhi, in modo da non abbattermi davanti alle avversità.
La nostra classe studiava in un patio al pianterreno, circondato dagli alberi del cortile. Quando, poco prima
dell’Ave Maria, la campanella annunciava la fine delle lezioni, Januario chiudeva il libro e, con tono breve, disponeva una specie di manovra che gli alunni dovevano eseguire
con esattezza militare.
Data la vicinanza del patio la sesta classe entrava, a passi di marcia, soltanto quando tutta la scuola era già riunita nel grande salone e i bambini, seduti ai posti numerati.
Il capofila ero io, il più piccolo e il più gracile di un
gruppo in media avvantaggiato nell’altezza, il che mi faceva
sentire un piccolo punto.
La costanza con cui mi ero mantenuto al comando della classe in mezzo alle alterazioni giornaliere che caratterizzavano le altre causava curiosità fra gli studenti, che scommettevano matite e penne per vedere se il piccolo testardo
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Alencar 2º (era il mio soprannome a scuola) avrebbe finalmente ceduto l’incarico di primo della classe.
Un generale sconfitto, il cui destino gli riservava
l’umiliazione di assistere alla festa della vittoria sul
carro trionfale del nemico, forse non avrebbe provato il dolore che provai io all’idea di entrare nel salone ribassato
dal mio titolo e retrocesso al secondo posto. Se almeno il
fatto fosse accaduto nelle prime ore avrei potuto tentare di
recuperare la mia posizione, ma, colmo dell’infelicità, tutto avvenne giustamente negli ultimi minuti.
Fu in mezzo a quelle riflessioni che la campanella annunciò
la fine delle lezioni e il suo trillo riecheggiò dentro alla
mia anima come una campana a morto.
Januario, che per disciplina era di una puntualità militaresca, stranamente non ci badò e fece un’ulteriore domanda
percorrendo velocemente la classe. Così, pochi attimi dopo,
avevo già riconquistato il mio posto e mi alzai tremolante
per prendere il comando della fila.
La felicità che invase la fisionomia sempre tesa del direttore nemmeno io riuscii a manifestarla, ancora scosso dallo
spavento. Egli non riuscì a trattenersi e mi abbracciò davanti a tutta la classe. La domanda, la cui risposta mi diede la vittoria, era piuttosto difficile, e per questo Januario mi attribuì un merito che forse non fu altro che fortuna, per non dire semplice frutto del caso.
Entrai nel salone come capofila della classe e conservai il
posto fino all’esame.
III
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Quando la ragione, come il frutto, spuntò dopo il fiore
della giovinezza, tante altre volte riflettei su quella vicenda dell’infanzia che lasciò in me un vago dubbio riguardo
al carattere di Januario. Il suo eccessivo rigore, che spesso mi sembrava ingiusto, assunse, con l’accaduto, un reale
significato; incominciai a paragonarlo al colpo rude ma necessario che dà forma all’acciaio. Forse aveva notato in me
la sicurezza che avrebbe potuto nuocere alle mie capacità e
dalla quale proveniva la mia distrazione.
Quel ricordo scolastico mi assalì mentre raccoglievo il filo delle reminiscenze e risultò comunque in un’utile riflessione sul profitto che dovevano ottenere gli studenti da simili metodologie: sapevamo poco, ma di quel poco, sapevamo
tutto.
A undici anni non conoscevo nemmeno una parola straniera
né avevo ancora imparato altro che le cosiddette prime lettere. Tanti bambini, però, che a quell’età chiacchieravano
in parecchie lingue e traballavano già nelle scienze non
erano in grado di recitare né una pagina di fra Francisco de
São Luiz3 né un’ode di prete Caldas4 con la correttezza, la
nobiltà, l’eloquenza e il sentimento che il direttore Januario sapeva trasmettere ai suoi allievi.
Il dono che l’educazione mi concesse per poco dopo riprendermelo mi valse, a casa mia, l’onorevole incarico di lettore del quale ero così fiero come mai più lo sono stato nel
magistero o nel parlamento. Leggevo alla mia buona madre non
3
Francisco Manuel Justiniano Saraiva o semplicemente cardinale Saraiva, religioso, politico e intellettuale portoghese del XVIII secolo.
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Domingo Caldas Barbosa, sacerdote, poeta e musicista brasiliano del
XVIII secolo.
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soltanto lettere e giornali, ma anche i volumi di una ridotta collezione romantica raccolta secondo il gusto del tempo.
Abitavamo allora in Rua do Conde numero cinquantacinque. In
quella casa si preparò la grande rivoluzione parlamentare
che consegnò a don Pedro II l’esercizio anticipato delle sue
prerogative costituzionali. A proposito di quell’evento storico consentimi, in queste confidenze puramente letterarie,
un passaggio che mi occorre e che, se ora mi sfugge, forse
non tornerà mai più.
Una sera a settimana entravano misteriosamente nella nostra
abitazione gli esponenti affiliati al “Club Maiorista”5, del
quale era presidente il consigliere Antonio Carlos e segretario il senatore Alencar.
Le serate si svolgevano in una stanza in fondo alla casa,
che restava chiusa alle visite abituali affinché né quelle
né i curiosi sulla strada potessero sospettare del piano politico accorgendosi del soggiorno illuminato.
Mentre i membri del club deliberavano, la mia buona madre
coordinava la preparazione della cioccolata e delle frittelle che venivano offerte agli invitati verso le nove, e io,
gironzolandole intorno con le impertinenze di caro figliolo,
insistevo nel voler sapere che cosa venisse a fare a casa
nostra tutta quella gente. A seconda del suo umore ella si
5
Società inizialmente segreta di matrice liberale che condusse la campagna a favore dell’anticipo della maggiore età di Pedro II, figlio
dell’imperatore don Pedro I, affinché potesse assumere il trono a quattordici anni. La pressione di questo gruppo sul Senato risultò nel cosiddetto “colpo della maggiore età”, che mise fine al periodo delle reggenze (fra il 1830, anno in cui don Pedro I abdicò al trono, e il 1840,
anno in cui lo occupò suo figlio), segnato da conflitti e disordini sociali.
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divertiva a ingannare con storielle la mia curiosità infantile o semplicemente mi lasciava parlando con i muri senza
distrarsi dalle sue faccende domestiche.
Finalmente arrivava l’ora della cioccolata. Nel notare il
vassoio carico di golosità all’uscita della cucina e completamente vuoto al suo rientro, io, che consideravo gli invitati tutti rispettabili cittadini preoccupati con le più serie questioni, restavo indignato davanti a quella devastazione e concludevo con la più profonda convinzione:
“Ciò che vengono a fare a casa mia questi uomini è riempirsi di cioccolata.”
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1 Come e perché sono un romanziere José de