A
Maurizio Matteuzzi
I neutrini, i carceri e le egìde
Cronaca di una riforma epocale
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
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via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: febbraio 
A Carlo, che, saggio, non lesse mai la .
Per la nascita del mio bambino
Ogni famiglia, quando nasce un bambino
lo vuole intelligente.
Io con l’intelligenza
ho rovinato tutta la mia vita.
Spero solo che si dimostri stupido e ignorante.
Coronerà così una vita placida
diventando ministro.
S C (poeta cinese, – circa)
Indice

Prefazione

Capitolo I
L’iter della “riforma epocale” e il mantra denigratorio
che lo ha accompagnato
.. I mali dell’accademia,  – .. Il disegno bipartisan,  –
.. Difficoltà di una valutazione oggettiva sul sapere delle
persone, .

Capitolo II
La struttura della /

Capitolo III
Una legge malfatta: la fase degli statuti
.. La riscrittura degli statuti,  – .. I processi di ristrutturazione, .

Capitolo IV
La crisi. Il governo Monti. Profumo di salvezza
.. Una breve illusione,  – .. La prima sortita del nuovo
Ministro: Profumo finalmente si manifesta, .

Capitolo V
La scuola e l’Europa
.. Una scuola europea,  – .. L’Europa fatta dall’al

Indice
to,  – .. La questione della lingua, .

Capitolo VI
Come cambia la semantica: sulla fortuna delle parole
.. Il linguaggio che cambia,  – .. Epocale,  –
.. Meritocrazia,  – .. Facoltà,  – .. Eccellente, 
– .. Moderati,  – .. Settore,  – .. Rettore,  –
.. Quel muro di Bartleby, .

Capitolo VII
Mentre scriviamo...
.. Signori in carrozza! La malattia dell’ottimismo, .

Conclusioni
Prefazione
Di fronte agli ultimi provvedimenti per l’università e la
ricerca, e mi riferisco qui prima di tutto alla famigerata
“riforma epocale”, ho avuto, devo dire per la prima volta
da quando insegno, un moto di profondo disgusto. Per
quanto molte delle norme via via introdotte negli ultimi
trent’anni apparissero discutibili, farraginose, spesso controproducenti, era ancora possibile, almeno secondo il
mio sentire, mantenere quel sereno distacco che un ricercatore deve pur avere nei confronti delle miserie umane;
distacco spesso discutibile o eccessivo, ma pur sempre necessario per potere ritagliare il tempo necessario per le
attività tipiche di fare ricerca, studiare, insegnare.
Questa volta è diverso. Per varie ragioni. Prima di tutto,
non pare che le scelte politiche siano dovute a semplice
dabbenaggine o incultura, come spesso è avvenuto per il
passato, ma vi è l’evidenza sia razionale che empirica che
esse rispondono a un vero e proprio disegno distruttivo
dell’università pubblica e della sua ricerca. Non argomento qui; penso che il lettore paziente troverà nel seguito
ampia documentazione alla bisogna. In secondo luogo, è
stata questa l’occasione per me di prendere coscienza di
alcuni tratti della categoria a cui appartengo che, pur conosciuti, non avrei mai supposto così accentuati. Avendo
passato quasi mezzo secolo all’università, conosco ovviamente molti colleghi; anche perché, in assenza di ricambio
generazionale, sono sempre gli stessi, meno la cospicua


Prefazione
quota dei pensionati e dei fuggitivi. Bene, quello che mi ha
stupito è che, a parte una pur non trascurabile di colleghi
che condividevano e spero continuino a condividere la
mia indignazione, tutti gli altri hanno ingoiato la pillola,
rifugiandosi in quel distacco a cui accennavo sopra. Di
più, e peggio: a fronte della domanda “ma come giudichi
la /?”, la risposta decisamente più frequente era del
tipo: “c’è del bene e c’è del male”. Cioè, la solita seccatura
che ci propina il Ministero, a scadenza biennale, ma anche
annuale quando s’impegna. E dire che il paradigma sotteso
dalla legge, e i guasti irreparabili conseguenti, dovrebbero
essere alla portata della comprensione di qualsiasi persona
di normale intelligenza e di media cultura (requisiti, questi, che escludono automaticamente la nutritissima schiera
dei politici mandati a sostenerla nelle aule parlamentari e
nei talk show).
E dato che una delle conseguenze di cui sopra è proprio
quella di cambiare radicalmente l’attività prevalente dei
docenti, facendola passare dallo studio e la ricerca, dalla
lettura di testi scientifici, alla lettura di decreti (circa cinquanta), di regolamenti (centinaia), di statuti, di verbali, et
similia, così, a distanza di tre anni dalla mitica e folcloristica
approvazione, guardando a ritroso e facendo un bilancio
della mia attività, mi sono reso conto che, in questo periodo, avevo sì pubblicato un paio di libri e qualche saggio
scientifico, ma tale produzione era decisamente inferiore
al numero di interventi critici, tesi a mettere in evidenza
la disgrazia che ci sta piovendo addosso, nella colpevole
acquiescenza dei più. Poiché tenevo in una cartella del
mio  gli scritti di questa natura, un giorno mi è venuta
in evidenza la loro dimensione, quasi due megabyte. Da
questa constatazione nasce questo libretto, che ambisce a
mettere un po’ d’ordine, e a rendere organico qualcosa che
Prefazione

organico di per sé non è: come ho già detto, il disgusto.
Ho scritto ex novo i capitoli esplicativi dei difetti, delle
incongruenze, delle scelte verticistiche a tutto vantaggio
delle baronie passate presenti e future; ma ogni capitolo è
corredato dalla proposta di “letture”, tutte, ad eccezione
dei documenti ufficiali, e di una in comproprietà con due
colleghi del CoNPAss, scritte da me e pubblicate, in carta
o online, in precedenza. Dove? Ecco, questo è un guaio,
perché non sono una persona ordinata, e non ho tenuto
storia né copia delle edizioni in carta. Principalmente su
«Rivista della scuola», Educationduepuntozero , “Il Manifesto”, «Inchiesta», “La Repubblica”, ecc. Dove mi ricordavo,
ho indicato la fonte. Ma questo non è avvenuto sempre.
Naturalmente quanto propongo è una selezione, abbastanza ristretta, perché ho cercato di non opprimere il lettore
infliggendogli la lettura di una gran quantità di questioni
di carattere locale, o di stretta “tecnica” accademica.
Servirà a qualcosa, lettore curioso, questa lettura che
ti propongo? Probabilmente no; se non a diffondere un
po’ del mio disgusto, che forse diventerà anche il tuo. Ma,
direbbe un filosofo della storia, come un fiume carsico,
le idee giuste riaffiorano prima o poi là dove meno te lo
aspetti. Come dice il Poeta, “giorno verrà, presago il cor
mel dice”...
Maurizio Matteuzzi
. http://www.educationduepuntozero.it/.
Capitolo I
L’iter della “riforma epocale”
e il mantra denigratorio
che lo ha accompagnato
.. I mali dell’accademia
, Italia. Qualcosa nell’università italiana non funziona. Anzi, parecchie cose non funzionano. Ma poiché non
funziona quasi niente, non si capisce perché proprio l’università dovrebbe funzionare bene. Anche perché ha subito
le visioni, le genialità, le pensate di parecchi ministri, di
orientamento opposto, ciascuno dei quali non ha voluto
lasciare la poltrona del  prima di avere assunto qualche provvedimento sconvolgente; tanto che non si riesce
a portarne a compimento uno senza che nel frattempo
non ne venga adottato uno diverso, e spesso antitetico.
L’analisi di quanto fatto e disfatto dai vari ministri precedenti esula dalla presente analisi, ma vale almeno la pena
di ricordare la rivoluzione dei così detto “+”, Ministro
Luigi Berlinguer (governi: Prodi I, D’Alema I, D’Alema
II,  maggio – aprile ), e i vari decreti, prevalentemente rimasti sulla carta, se non nei loro aspetti
deteriori, dal Ministro Letizia Moratti (governi: Berlusconi
II, Berlusconi III,  giugno – maggio ). Infine,
a completamento, va detto che il ministero (della sola università, non della scuola) fu retto da Fabio Mussi (governo


I neutrini, i carceri e le egìde
Prodi II) nel periodo seguente, il quale a sua volta non si
astenne dal “provvedere”, ad arrivare al fatidico  maggio
, data di investitura di Maria Stella Gelmini (governo
Berlusconi IV,  maggio – novembre ).
Bene, appunto, Italia , maggio per la cronaca; che,
come si evince da quanto sopra, è un mese che non porta
bene alla nostra accademia.
Che cosa non va nell’università italiana? Tanto, ci vorrebbe un libro a parte. Ma una sintesi estrema va pur tentata. Primo: il meccanismo di reclutamento degli insegnanti.
Farraginoso e incerto il primo ingresso; assolutamente
demenziali e poco etici i meccanismi di promozione. Per
oltre un decennio, il meccanismo dei concorsi è basato sul
fatto che un Ateneo bandisca un posto, per un qualche più
o meno valido candidato locale (anonimo, s’intende, fa
parte del bizantinismo italico), si forma una commissione, con un membro interno che solitamente è lo sponsor
del “locale”, e ha il compito di tutelare lo jus loci, e due
“esterni”, ossia di altri atenei. Il giudizio è comparativo, ma
l’idoneità viene data ad altri due, oltre che al vincitore, in
un primo tempo, e successivamente soltanto ad un altro.
Come funziona di fatto il meccanismo? Si rispetta chi ha
“chiamato”, cioè si è impegnato nel budget, e si spartiscono
i posti rimanenti: perché tanto gli “idonei” possono poi
essere “chiamati” dai relativi atenei. Fa gioco accettare la
vittoria dell’interno, magari emerito imbecille, a patto di
potere idoneare il proprio, che poi così diverrà prof. altrove.
Il meccanismo sembra ideato da una mente perversa: ogni
potentato ha il suo tornaconto, pazienza se entra qualche
cretino in più, si sa che in Italia ogni quattordici persone c’è
un cretino, perché dovremmo eludere questo assiomatico
dato statistico? L’effetto è che i giudizi, dichiarati come
“comparativi”, in modo che si possa dire che “tutti sono
. L’iter della “riforma epocale”

bravissimi, ma, comparativamente...”, non sono comparativi per nulla, ma rispondono alle logiche spartitorie dei
gruppi di potere. Il sistema è talmente marcio che fa rimpiangere le antiche baronie, o mafie accademiche; che in
fondo si rispettavano, e avevano un’etica, ancorché spesso
discutibile. Un effetto conseguente, poco considerato, è
che il danno non è affatto circoscritto: i miracolati di turno,
mediocri o addirittura inadatti, a loro volta figlieranno,
appena assunto il potere; perché, come si sa, la madre dei
cretini è sempre incinta.
Da questo orrendo meccanismo si è voluto argomentare che l’università aveva troppa autonomia, e ne faceva
cattivo uso; dunque, nasceva nella mente di vari politici l’idea che fosse impellente limitare tale autonomia. In realtà,
sarebbe stato molto più logico, semplicemente, modificare
il meccanismo concorsuale, che peraltro è sempre stato
deciso dai politici stessi, e non dagli accademici. E qui, en
passant, voglio fare notare una cosa, che a me sembra del
tutto banale: tutte le volte che si stabilisce un tetto prefissato di “vincitori”, o “idonei”, li si chiami come si vuole,
non si può non scatenare la logica spartitoria tra i gruppi
di potere: uno a me questa volta, la prossima uno a te. Con
tanti saluti all’effettivo valore delle persone. Negli oltre
quarant’anni di mlitanza accademica, io ho trovato “pulito” un solo momento concorsuale: quello della idoneità ad
associato derivante dalla /: una commissione nazionale, che doveva decidere una cosa: Tizio è idoneo a fare
il professore, Sì/No; senza tetti e senza giri di telefonate
del tipo “se tu aiuti Caio qui poi io promuovo Sempronio là”. Non a caso, parecchi ora importanti colleghi sono
stati sonoramente bocciati in quel concorso, da associato,
e sono a stretto giro diventati direttamente ordinari, con
il concorso successivo. Come dire, tu non sei idoneo ad

I neutrini, i carceri e le egìde
essere capitano, ma ti nomino direttamente colonnello, e
buonanotte.
Altra questione che si affacciava alle illuminate menti
dei nostri politici, in quel maggio fiorito del , e ne
costituiva turbamento, era la proliferazione di sedi universitarie in luoghi improbabili, e di scarsa o nulla tradizione
accademica. Nel sentire comune si stava facendo strada
l’idea che “in Italia le università sono troppe”. E che quindi
c’erano università di serie B. Discorso difficile. Ma cominciamo dalla matematica (è pur sempre un bel modo). Noi
abbiamo  università pubbliche, e  milioni di abitanti.
Che le università italiane siano troppe è una pia balla, semplicemente. Basta confrontare i dati con quelli analoghi di
qualsiasi Paese civile, diciamo quelli dell’, tanto per
dare un riferimento preciso, e l’affermazione si rivela subito risibile. E non vogliamo istituire il paragone con gli
USA, perché cadremmo nel ridicolo.
Vero è, d’altro canto, che alcune sedi sono state scelte
in modo discutibile, ed essenzialmente dai politici, e per
ragioni tutt’altro che accademiche. Vero anche che ci sono
università di serie B, lo sanno tutti, un classico della carriera accademica è consistito per lungo tempo nell’andare in
trasferta per farsi promuovere, per poi far rientro al paesello. Ma che fare, allora? L’idea geniale dei nostri governanti
è stata, al solito, quella di scimiottare gli Stati Uniti, di cui
molti ambiscono ad essere colonia, ancor più di quanto sia
nelle cose: dobbiamo distinguere, come in America, tra
“research Universities” e “teaching Universities”, tra sedi
eccellenti, dove si fa ricerca, e sedi dove semplicemente si
coprono esigenze didattiche, una specie di liceo avanzato
per sedi disagiate. Molti teorici bocconiani, al soldo della
stampa mainstream, si sono riempiti la bocca di questi termini angloesotici dal sapore perentorio. Qui vorrei essere
. L’iter della “riforma epocale”

Figura .. Fonte dei dati: “Malata e denigrata: l’università italiana a
confronto con l’Europa” (a cura di M. Regini, Roma, Donzelli ).
Nel dato italiano sono incluse le università telematiche.
sintetico veramente: chiunque pensi a una università dove
non si fa ricerca è semplicemente un povero di mente e
di spirito, e tanto basti. Confrontare poi la situazione di
un Paese come gli USA, con la sua estensione geografica,
e con i suoi modelli di vita e di apprendimento, con l’Italia, con la pretesa di importarne dei pezzi, presi un po’ a
vanvera e prescindendo dal sistema complessivo, è attività
interessante da un mero punto di vista psichiatrico.
Infine, il terzo male dell’accademia: il nepotismo. Anche
qui, come sempre nelle cose umane, c’è del vero e c’è del
falso. Cominciamo come al solito con un’analisi numerica: i numeri sono freddi, ma non mentono, vanno solo

I neutrini, i carceri e le egìde
capiti. Il nepotismo accademico c’è, e c’è sempre stato. E,
aggiungo, c’è in tutti i paesi del mondo. Ho a disposizione
un’ampia rassegna di casi americani, visto che là si guarda,
per i curiosi. Qualsiasi lobby, qualsiasi gruppo di potere, tende a prolungare la sua sopravvivenza, e a replicare se stesso.
Non è una gran scoperta. Ora, il nepotismo accademico
non è certo più incisivo di quello di tutte le categorie della
borghesia medio alta. Vogliamo parlare di notai, avvocati,
farmacisti, ecc.? Forse il confronto stupirebbe qualcuno.
D’altra parte, abbiamo i casi eclatanti, come quello di Frati,
il Rettore della Sapienza, la più grande università italiana,
che è riuscito a collocare una pletora di fraticelli nel suo
Ateneo, al punto che si potrebbe tranquillamente farne
un convento separato. Sono casi noti, ne potrei citare altri. Ma con regole di reclutamento oneste questo sarebbe
possibile? Il problema ritorna quindi su se stesso, alla sua
origine. Infine, che senso ha, come ha concepito qualcuno
(guardacaso la principale protagonista della nostra storia, o
almeno la legge di cui è eponima) vietare una certa carriera
a un meritevole semplicemente perché suo padre insegna
nello stesso luogo? Ecco il primo dei miei esperimenti mentali; ne farò tanti in questo libro, preparatevi. Supponiamo
che il padre di Einstein insegnasse fisica a Princeton. Tanto per dire. Sarebbe un motivo sufficiente per cacciare da
Princeton il buon Albert, che qualche buona ideuzza sulla
fisica l’aveva? È persino contro la costituzione, ma questo
in Italia conta ben poco: ti escludo per “meriti di famiglia”.
L’idea geniale insita nella  si basa poi sull’identità di
cognomi. Idea strampalata. Chiunque abbia un minimo
di esperienza di vita accademica sa che il vero nepotismo,
quello malsano, non quello di scuola, si basa su relazioni di
alcova e non di parentela. E di solito, quando si va a letto,
non si pone come vincolo di avere lo stesso cognome.
. L’iter della “riforma epocale”

Il punto fondamentale che vorrei comunque qui mettere in chiaro è che il dovere di fare scuola è tutt’altro che un
elemento negativo dell’accademia. Anzi, dovrebbe essere
un dovere di un professore, quello di non lasciare dietro di
sé il vuoto pneumatico. Ma ne parlerò più oltre.
Questi, dunque, i mali principali dell’università, come
erano percepiti dai nostri parlamentari e politici vari, dei
quali, varrà la pena ricordarlo, poco più della metà laureati; cioè, per buona parte dei tutto estranei al mondo
accademico, e di cultura, ad essere generosi, medio bassa.
.. Il disegno bipartisan
L’opportunità di un riassetto dell’accademia cominciò a
farsi strada nelle illuminate menti dei nostri politici, di
ambo le parti. Un primo segnale, forse trascurabile nella
quantità, ma certo preoccupante come precedente, fu quello del governo Prodi, che taglieggiava gli scatti di anzianità
a due categorie individuate come privilegiate: i professori universitari e i magistrati. Ecco un punto interessante.
Questo apparentamento ha radici storiche che affondano
nell’anteguerra. Ma tale teorica assimilazione ha perso nel
corso degli anni ogni significato. Infatti per ogni provvedimento positivo relativamente alla dirigenza dello Stato,
venivano sistematicamente esclusi gli accademici; fino a
che il divario, in primis stipendiale, ha raggiunto livelli
di incomparabilità. Prodi, da ex professore (a Bologna),
avrebbe dovuto saperne qualcosa, ma evidentemente il
suo stipendio da presidente dell’IRI gli impediva di rendersi conto di una questione per lui evidentemente di
pochi spiccioli. Sta di fatto che, per la riduzione degli scatti, vennero equiparate due categorie dagli emolumenti

I neutrini, i carceri e le egìde
assolutamente incomparabili: lo stipendio medio di un
magistrato era all’epoca di poco superiore ai . Euro/anno, quello di un professore non raggiungeva la metà.
Ma tant’è, equipariamo pure gli imbianchini ai farmacisti,
se c’è convenienza.
Si formò peraltro una convinzione, ripeto, condivisa,
che si basava su alcuni assunti.
a) La meritocrazia (torneremo più volte su questa fatidica parola); cioè, non più finanziamenti a pioggia
agli atenei, e non più avanzamenti basati sulla sola
anzianità di servizio agli insegnanti, ma rigorosa distinzione in base a criteri valutativi. Questa ipotesi di
lavoro presupponeva la costituzione di un apparato
valutativo. Cosa non banale, ovviamente. Le prime
mosse in quel senso furono fatte dal Ministro Mussi, e dall’allora responsabile per l’università del PD
(userò sempre e solo questa sigla ad indicare i vari
nomi assunti nel tempo dal , dopo la così detta
“svolta della Bolognina”; per semplicità), Luciano
Modica, sottosegretario all’università e ricerca del
II governo Prodi. Fu così istituita l’ANVUR, agenzia
nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca (DL  ottobre , n. ), decreto collegato alla finanziaria per il  del II governo Prodi.
Con il cambio di governo, da Prodi a Berlusconi, divenne Ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini,
la quale chiese ed ottenne una serie di modifiche
dell’ANVUR stessa. Il nuovo Ministro determinò
un nuovo regolamento, attraverso la solita “commissione di esperti”, e, con il decreto presidenziale
del  febbraio , e conseguente pubblicazione
in G.U. ( maggio), l’agenzia è diventata operativa,
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