Imparare
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INDAGINI
E RICERCHE
Le parole di cui ci nutriamo.
L’italiano fra tradizione
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Campione gratuito fuori campo I.V.A. (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 2, comma 3, lett. D).
Il progetto iS continua online nel sito is.pearson.it
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il laboratorio Pearson per l’apprendimento
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4
1
IMPARARE SEMPRE
La forza
delle parole
N
ell’intervista che apre questo numero, la presidente della Camera
Laura Boldrini racconta il suo percorso formativo e professionale,
insistendo sul ruolo che vi ha giocato il carattere multiculturale e
multilinguistico della sua esperienza presso l’ONU. Più oltre, un fisico
e un filosofo, Giorgio Parisi e Mauro Ceruti, ci spiegano che cosa sia la “complessità”
e come essa abbia bisogno di un linguaggio che la possa descrivere e
concettualizzare.
Mentre è chiaro che l’educazione economica e finanziaria, nella quale è ormai
impossibile non riconoscere una competenza-chiave di cittadinanza, si traduce
innanzitutto nella padronanza di un lessico che è tecnico ma al tempo stesso,
nell’èra dello spread, parte del linguaggio quotidiano.
Dunque: il linguaggio e la parola come strumenti di comprensione del mondo
e di comunicazione interpersonale. Proprio qui si apre un problema, che un linguista
non certo facile ai sensazionalismi come Tullio de Mauro denuncia in preoccupante
crescita in Italia (oltre che in Europa): sempre di più sono quelli che sanno decifrare
un testo ma non capirlo. Sono, con termine tecnico, “analfabeti funzionali”.
Periodicamente, quando si pubblicano i dati delle indagini nazionali e internazionali
sulle competenze linguistiche dei giovani (INVALSI e PISA) si alzano querimonie
e lamenti: sul banco degli accusati, naturalmente, la scuola, le nuove tecnologie,
la televisione… Poi non è che succeda granché. Forse perché accrescere le
competenze linguistiche non è percepito davvero, nella pubblica opinione, come un
grande obiettivo nazionale.
Ricette non ce ne sono; ma certo non si faranno passi avanti senza creare un contesto
in cui la straordinaria importanza e ricchezza della parola - dentro la società moderna,
non contro di essa – siano comprese e diffuse. La scuola e l’educazione vi possono
e devono giocare un ruolo decisivo. Perciòabbiamo dedicato alla Lingua salvata
il dossier che fa da perno a questo numero iS.
L’editore
Imparare è un verbo ricco di significati.
Imparare vuol dire migliorarsi,
crescere, vivere senza barriere.
Non solo a scuola ma ovunque,
e a qualunque età.
Il nostro sogno?
Un mondo dove la scuola
sia di nuovo considerata maestra,
perché i buoni insegnanti
aiutano a crescere.
Un mondo dove anche chi è adulto
possa continuare a imparare
per realizzare i propri desideri.
Noi di Pearson ci crediamo.
A questo lavoriamo.
direzione
Massimo Esposti
Rivista aperiodica distribuita gratuitamente
nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A.
comitato editoriale
Marika De Acetis
Luciano Greco
Elena Grossi
Marina Loffi Randolin
Paolo Magliocco
Valentina Murelli
Si autorizza la riproduzione dell’opera purché
parziale e a uso non commerciale.
grafica
Antonella Regina
ricerca iconografica
Cecilia Lazzeri
correzione bozze
Elisa Manera
immagine di copertina
© Manuela Boldi
L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per eventuali non volute omissioni in merito
a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite
in questo numero.
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10139 Torino
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Intervista
Portfolio
Laura Boldrini,
L'inquietudine e la costanza
Una vita alla continua ricerca
del nuovo, senza perdere
di vista i propri punti fermi
di Farian Sabahi
12
Esperienze: la scuola si confronta
La scommessa economica
Il punto sull'alfabetizzazione
economico-finanziaria
nelle scuole italiane.
E l'esigenza di un progetto
unitario
di Paolo Prati
Maghi dei numeri
per un giorno.
Torino
Toccare il cielo
con un dito.
Nus, Valle d'Aosta
Osha, mikono!
Nairobi, Kenya
18
6
Dialogo
In viaggio nella complessità
Giorgio Parisi, fisico e matematico,
incontra Mauro Ceruti, filosofo della scienza
di Paolo Magliocco
25
Esperienze:
la scuola si racconta
La matematica
non convenzionale
Studenti, docenti
e ricercatori universitari
insieme per trasformare
una materia astratta
in un'avventura
di Eleonora Viganò
32
4
sommario
36
Dossier
La lingua salvata
Otto riflessioni sull'importanza di conoscere e padroneggiare la lingua italiana
ITALIANO
> pag. 39 Se 2000 parole posson bastare di Luca Serianni
Tecnologia della comunicazione > pag. 42 La miniera digitale, intervista a Gino Roncaglia
di Nicola Tramontana
Sociolinguistica > pag. 48 Gioventù creativa, intervista a Michele Cortelazzo
di Paolo Panella
LETTERATURA MIGRANTE > pag. 53
Io, venditore di italiano di Pap Khouma
ITALIANO > pag. 59
Una lingua sempre più amata di Giuseppe Patota
Linguaggio scientifico > pag. 64 Nessuna è come la madre di Maria Luisa Villa
Linguistica computazionale > pag. 69
Matematica, bit e parole di Mirko degli Esposti
ENIGMISTICA > pag. 75
Parlare è un po' giocare di Ennio Peres
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Benchmark
La difficile arte di
valutare l'istruzione
Quel buco che riempie un vuoto
Un modo nuovo di apprendere,
dalle periferie urbane dell'India
di Donato Ramani
80
La difficoltà
di preparare
prove standardizzate
valide per tutti
di Roberto Ricci
86
Che cosa significa
saper leggere
L'allarme per
l'analfabetismo funzionale
di Silvia Paris
sommario
IMPARARE SEMPRE
Cittadinanza
Esperienze: oltre la scuola
Il valore della conoscenza
96
Perché la conoscenza è diventata
il bene più prezioso e come si può
metterla a frutto
di Isabella di Nicola
101
Piccoli cittadini crescono
Educare alla cittadinanza
attiva, uno studio
comparativo in Europa
di Erica Cimò
Focus Tech
Uniti si impara
Idee per sfruttare al meglio le nuove
tecnologie nella scuola
di Filippo Bonaventura
Dalla tavoletta al tablet
Miti e realtà della tavoletta elettronica
e del modo in cui può essere usata
in classe
di Marco Meschini
107
Laboratorio Pearson
E tablet sia!
Viaggio in un liceo laboratorio che ha
deciso di mettere i tablet alla prova
di Davide Coero Borga
L'aiuto che vale
L'importanza delle tecnologie assistive
per i DSA
di Stefano Federici e Cristina Gaggioli
4C per disegnare il futuro
Quali sono i concetti chiave
per la formazione dei giovani?
di Donato Ramani
116
5
6
abcdefghilmno
PORTFOLIO
MAGHI DEI NUMERI
PER UN GIORNO
Torino
Il mondo magico della matematica
può aprire le porte all’improvviso
ai bambini delle scuole elementari
e rivelare, almeno per un giorno, i
suoi tesori e i suoi misteri.
Così è successo a Torino, grazie
alla collaborazione tra la
Fondazione Agnelli, l’associazione
culturale CentroScienza, l’Ufficio
scolastico regionale e le facoltà
di matematica e fisica
dell’Università, che hanno
organizzato il primo workshop
La matematica conta, dedicato
a 400 allievi delle scuole primarie
del Piemonte.
Nelle grandi sale del Museo
dell’auto i bambini hanno potuto
giocare con la logica, i calcoli e
la statistica aiutati dai ricercatori
universitari e dal fatto di trovarsi
in un ambiente così diverso da
quello dell’aula di una scuola.
L’obiettivo è trasmettere non
tanto conoscenze quanto, proprio
come nel libro di Hans Magnus
Enzensberger, Il mago dei numeri,
lo stupore e il fascino del contatto
quotidiano con una materia così
rigorosa da apparire fredda, ma in
grado di aiutare grandi e piccoli a
tentare di comprendere e dominare
l’incertezza del mondo. P.M.
Foto: Pasquale Juzzolino/FGA
IMPARARE SEMPRE
abcdefghilmno
7
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abcdefghilmno
PORTFOLIO
TOCCARE IL CIELO
CON UN DITO
Nus, Valle d’Aosta
Il telescopio punta dritto su Saturno,
il gigante gassoso che, con i suoi
anelli, è una delle meraviglie del
Sistema solare. All'Osservatorio
astronomico della Regione autonoma
Valle d'Aosta di Lignan, nel comune
di Nus (www.oavda.it) è una delle
tante serate dedicate alle scuole. In
questo caso una scuola superiore, ma
sulla terrazza didattica si alternano
bimbi e ragazzi di ogni età, dai 3
ai 18 anni. E anche curiosi ormai
fuori dalle aule scolastiche, che
affollano le serate divulgative. In un
incontro si imparano a riconoscere
le costellazioni, si ascoltano esperti
raccontare di pianeti, evoluzione
stellare o buchi neri e, grazie ai
7 telescopi disponibili, si possono
guardare immagini spettacolari di
solito confinate nei libri di testo.
Anelli di Saturno compresi.
Un'occasione unica perché, a
differenza di quanto accade con altre
discipline scientifiche, l'astronomia
è davvero difficile da “toccare con
mano”. All'Osservatorio ci si riesce,
anche perché qui non si fanno solo
didattica e divulgazione, ma pure
ricerca, quella vera, con progetti che
spaziano dallo studio della corona
solare a quello degli asteroidi, dalle
indagini sulle emissioni luminose delle
galassie attive a quelle sui pianeti
extrasolari. E così si può scoprire dal
vivo in che cosa consista davvero
il lavoro solitario, notturno e spesso
misterioso dell'astronomo.
V.M.
Foto: Fondazione Clément Fillietroz - ONLUS/
Osservatorio Astronomico
IMPARARE SEMPRE
abcdefghilmno
9
PORTFOLIO
OSHA MIKONO!
(lavati le mani)
Nairobi, Kenya
Ebbene sì, da qualche anno c’è
anche la giornata mondiale del
Lavarsi le mani, messa a calendario
il 15 di ottobre. Verrebbe da sorridere,
senonché in questo caso la faccenda
è di non poco rilievo e i dati sono
drammatici. Oltre due milioni di
bambini sotto i cinque anni, per
fermarsi ad un unico impressionante
esempio, muoiono ogni anno di
diarrea e polmonite, una cifra che
potrebbe drasticamente abbassarsi
se si diffondesse l’abitudine di lavarsi
le mani con il sapone. Il CDC (Center
for Diseases Control) di Atlanta, sulla
base di studi e ricerche rigorose ha
valutato che questa forma di “vaccino
fai-da-te” ridurrebbe fino al 50% la
mortalità da infezioni gastroenteriche
e dal 20 al 40% quella da gravi
affezioni polmonari.
Senza contare che queste malattie
sono massimamente responsabili
delle assenze a scuola, con quel
che ne segue di ritardi difficilmente
recuperabili.
La promozione di una simile pratica
con qualunque mezzo, per ingenuo
che sia, è dunque un imperativo
e può diventare una pietra miliare
per il miglioramento delle condizioni
di salute di moltissime persone,
non solo nei cosiddetti Paesi in via
di sviluppo.
Si tratta inoltre di una pratica molto
meno costosa di altri possibili presidi
e di relativamente facile attuazione.
M.L.R.
Foto: Xinhua/Eyevine/Contrasto
INTERVISTA
di Farian Sabahi
L’inquietudine
e la costanza
intervista
IMPARARE SEMPRE
La presidente della Camera Laura Boldrini racconta sé stessa,
tra la smania di conoscere e viaggiare e un impegno che dura
da sempre a favore delle persone svantaggiate, l’importanza
dello studio e quella dell’esperienza sul campo, la necessità
delle regole e la capacità di cambiare idea.
Una vita alla continua ricerca del nuovo senza mai perdere
di vista la necessità di trovare una sintesi. E una mediazione
S
ono cresciuta in provincia di Ancona e ho trascorso l'infanzia nella campagna di Jesi. Quell'ambiente provinciale ha stimolato la mia curiosità, il
desiderio di conoscere e andare oltre. In un certo
senso il percorso che ho intrapreso nasce da queste esperienze giovanili». Così racconta se stessa, sorridendo, Laura
Boldrini, nella penombra del suo ufficio a palazzo Montecitorio in un caldo pomeriggio estivo. Cinquantadue anni,
marchigiana, presidente della Camera dei deputati dal marzo
2013 dopo più di quattordici anni come portavoce dell'Alto commissariato dell'ONU per i rifugiati. «Tanti anni di impegno nelle agenzie delle Nazioni Unite mi stanno tornando
utili in politica. L'esperienza di mediazione maturata all’ONU,
diversa rispetto a quella di coloro che hanno una formazione di partito, è importante per chi deve essere super partes».
•Laura Boldrini sul suo seggio di Presidente della Camera:
è stata eletta il 16 marzo 2013.
Foto: Augusto Casasoli/A3/Contrasto
Presidente, nella sua storia emerge l’intreccio tra lo studio e i viaggi, i libri e l'esperienza sul campo. Che peso
dà alla formazione?
La formazione fornisce gli strumenti essenziali per interpretare la realtà ed è alla base della consapevolezza: difficilmente si è consapevoli senza una formazione adeguata. Quando la scuola forma bene, fornisce gli strumenti per
diventare buoni cittadini. Lo stesso vale per le istituzioni:
quando sono buone, suscitano rispetto e facilitano il compito di diventare buoni cittadini. In questo senso, gli insegnanti
svolgono un ruolo di fondamentale importanza perché sono
il baluardo della legalità, anche nei contesti più difficili. Un
ruolo non sempre riconosciuto. Per questo sarebbe opportuno dar loro un riconoscimento materiale e sociale, affinché
si sentano essenziali nella formazione dei giovani. Vedere gli
insegnanti lavorare con poche risorse deve far riflettere. In
tempo di crisi la scuola non andrebbe penalizzata. Al contrario, è nei periodi di maggior incertezza che la scuola e
la cultura dovrebbero essere sostenute come fanno tanti
Paesi emergenti investendo nella ricerca, nell'educazione
13
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intervista
e nell'innovazione, riuscendo così a far
decollare l'economia.
Come è stato il rapporto con i suoi
genitori, l'uno avvocato e l'altra insegnante d'arte e antiquaria? Quanto hanno contato nelle sue scelte?
Come la scuola, anche la famiglia è
fondamentale. Mio padre era severo,
poco incline alla modernità, nel tempo libero amava studiare e non era
granché disponibile a relazionarsi con
noi figli. Se da mia madre ho imparato
l’empatia con gli altri, a socializzare e
•Laura Boldrini parla con
alcuni rifugiati palestinesi
e iracheni durante una visita
come portavoce dell'UNHCR
a Riace (Reggio Calabria).
Foto: Antonio Zambardino/Contrasto
a entrare in contatto con le persone,
da mio padre ho acquisito il rigore, il
senso delle regole, il rispetto dell'impegno preso, che per me diventa un
imperativo.
Lei ha una figlia, studentessa in
un ateneo inglese. Quanto conta
dare delle regole, anche severe, ai
figli? O forse imporre dei limiti è un
modo superato di porsi?
I genitori devono saper ascoltare i figli
e avere un rapporto aperto con loro, ma
devono anche essere normativi e quin-
di dare delle regole. Talvolta può essere
pesante, ma è un atto d'amore perché
solo così i figli diventeranno adulti, facendosi carico delle loro responsabilità.
Porre dei limiti, per esempio nelle uscite, è assolutamente positivo e sotto
sotto i ragazzi lo apprezzano. Le regole
si possono anche non rispettare, ma se
questo accade bisogna sapere dare delle motivazioni ed essere all'altezza della
sfida: una sfida che rafforza i giovani.
C’è un momento in cui ricorda di
aver deciso quale sarebbe stato il
intervista
IMPARARE SEMPRE
suo futuro? Oppure il suo impegno
si è definito passo dopo passo?
Durante il mio primo viaggio in America
centrale ho capito che non avrei trattenuto la curiosità: come si fa a vivere
tutta una vita senza sapere che cosa c'è
oltre? È scattata la frenesia di conoscere altre dimensioni, culturali e religiose.
Ho capito che quello che è assoluto in
un luogo non lo è altrove, e ho relativizzato. È successo, per esempio, quando
ho notato che una religione così sentita
in un paese è invece demonizzata in
un altro. Viaggiando si ha uno sguar-
do talmente diverso che si è obbligati
a realizzare una sintesi. E nella sintesi
c'è la maturità di chi riesce a prendere
il meglio delle cose. Oggi questa conoscenza mi porta ad avere una maggiore
capacità di mediazione rispetto a chi
è cresciuto e ha vissuto con le stesse
convinzioni di sempre, le stesse idee dei
genitori e dei nonni.
zionata, da lì ho iniziato a lavorare
prima alla FAO e al World Food Programme, l'agenzia delle Nazioni Unite
per i programmi alimentari di emergenza, poi all'Alto commissariato per
i rifugiati.
Volevo dare un senso alla mia vita. Mi
piaceva scrivere e raccontare, ma non
mi bastava. Allora ho pensato che lavorare al servizio di una causa umanitaria potesse darmi più motivazione
rispetto al solo scrivere. Per questo
ho lavorato ventiquattro anni in varie
agenzie delle Nazioni Unite.
Come è cominciata la sua avventura nelle agenzie dell’ONU?
Ho fatto il concorso per JPO, Junior
Professional Officer, sono stata sele-
“Dare delle regole
talvolta può essere
pesante, ma è un
atto d'amore perché
solo così i figli
diventeranno adulti”
Laura Boldrini
15
16
intervista
Un lungo impegno nella cooperazione
Nata a Macerata nel 1961, Laura Boldrini è laureata in Giurisprudenza ed è giornalista pubblicista.
Si è sempre occupata di cooperazione e nel 1989 ha cominciato a lavorare per le Nazioni Unite.
Dal 1998 al 2003 è stata portavoce dell’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati. Su questa
sua esperienza ha scritto un libro, Tutti indietro (Rizzoli). È stata sposata e ha una figlia, Anastasia,
nata nel 1993. Nel 2013 è stata eletta alla Camera dei deputati nelle liste di Sinistra, ecologia e libertà.
Libro preferito. Negli ultimi tempi ho letto con piacere Chicago
dell'egiziano Ala al-Aswani e Il fondamentalista riluttante
di Mohsin Hamid. Tornando indietro con gli anni, sono stati
determinanti Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani,
Il diario di Anna Frank, Il barone rampante di Italo Calvino.
Film. Viva la libertà di Roberto Andò. E soprattutto Lincoln
di Steven Spielberg, una bella rappresentazione di come la
politica debba talvolta essere un po' cinica per ottenere grandi
traguardi di civiltà (e per me solo in questi casi).
Brani musicali. Tutti i cantautori e i Radiodervish, un gruppo
italiano di world music.
Un luogo in cui tornare. Vorrei tornare in tutti i Paesi in cui
sono stata per vedere come sono cambiati, ma non credo che
ci riuscirò!
“È necessario
rivoluzionare
l'immagine
femminile,
perché incide
sul rispetto
nei confronti
delle donne”
Cosa vuol dire essere dipendenti di
un organismo così complesso come
le Nazioni Unite? E come si impara a
collaborare in ambito internazionale?
È un esercizio di convivenza tra più culture: i miei superiori sono sempre stati stranieri e quindi ho lavorato in lingue diverse
dall'italiano. Quasi sempre in inglese, francese, spagnolo. Certo, in Italia si usa anche
l'italiano, ma la nostra non è una lingua
ufficiale delle Nazioni Unite. In un ambiente del genere bisogna avere la flessibilità
per confrontarsi con persone di formazione diversa, è un esercizio di convivenza.
Un esercizio a doppio senso: si impara e si
insegna.
Ci sono cose che ha imparato sul campo e che dovrebbero invece far parte
del percorso di ognuno?
La formazione scolastica, teorica, pone le
basi, ma è l'esperienza diretta a darti una
marcia in più. Solo sul campo puoi mettere
a frutto quello che hai imparato sui libri.
Lei presta grande attenzione alla comunicazione attraverso i social media,
come Facebook e Twitter, che aggiorna quotidianamente. Non crede siano
mezzi troppo frettolosi e superficiali
per affrontare certi argomenti?
I social media sono uno strumento al servizio dei diritti, lo abbiamo visto in Iran, in
Turchia e nei Paesi arabi. Di fatto la società
è sui social media, che riescono a combattere la solitudine e a colmare il divario tra
istituzioni e società civile. Per questo credo
sia giusto e opportuno che le istituzioni comunichino anche attraverso questi mezzi,
che le rendono più trasparenti e sono un
modo per arrivare a persone che altrimenti non si interesserebbero alla politica. Le
istituzioni devono fare uno sforzo di comprensione e trasparenza, e in questo i social
intervista
IMPARARE SEMPRE
media sono utili. Ora vorrei che la Camera
diventasse “la casa della buona politica” e
per questo stiamo avviando una campagna
di ascolto, sul web.
Una delle sue battaglie è sul diritto di
cittadinanza: perché è tanto importante
concedere, con lo ius soli, la cittadinanza
ai figli degli immigrati nati e cresciuti sul
territorio italiano?
Concedere la cittadinanza a questi giovani
significa da una parte dar loro un senso di
appartenenza e dall'altra ottenere maggiore
coesione sociale, e quindi una società meno
segmentata.
Non dare il diritto di cittadinanza a questi
ragazzi, che spesso non sono mai stati nel
Paese di origine dei loro genitori e non ne
parlano la lingua, significa perdere risorse.
È la contemporaneità a chiederci di coinvolgerli. Va a vantaggio del nostro Paese,
lo arricchisce senza togliere nulla agli altri.
Perché dare diritti a una categoria non vuol
dire toglierli ad altri.
Un'altra sua battaglia è quella contro i
femminicidi: che cosa resta da fare dopo
la ratifica della Convenzione di Istanbul,
sulla prevenzione della violenza sulle
donne e contro la violenza domestica?
Il Parlamento italiano ha compreso l'importanza di prevenire la violenza contro le
donne, mettendola al centro del dibattito.
Camera e Senato hanno sottoscritto la posizione secondo cui la violenza contro le donne è un fatto gravissimo e rientra nell'ambito
dei diritti umani. Adesso occorre mettere in
atto tutte le misure, anche preventive, previste dalla convenzione: la formazione delle
forze dell'ordine, i finanziamenti alle case rifugio, l'offerta di alternative alle donne che
vogliono sfuggire alla violenza.
È una battaglia culturale, a 360 gradi. Sono
tanti gli elementi da tenere in considerazione, in primis il basso tasso di occupazione
delle italiane: nel nostro Paese solo il 47%
delle donne lavora, ma senza un reddito
non si è indipendenti e non si riesce a sfuggire alla violenza. In secondo luogo dobbiamo riflettere sulla comunicazione pubblicitaria e televisiva che veicola un'immagine
di donna-corpo, muta, ridotta a presenza
fisica e quindi oggetto.
Ma di un oggetto l'uomo fa quello che vuole. Ed è breve il passo verso la violenza. È
necessario rivoluzionare l'immagine femminile, perché incide sul rispetto nei confronti
delle donne. •••
•Laura Boldrini con il
Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano.
Foto: Antonio Scattolon/A3/Contrasto
Ascolta l'audio dell'intervista
a Laura Boldrini
http://link.pearson.it/8C86BD6B
17
Esperienze:
la scuola si confronta
di Paolo Prati
la scommessa
economica
L’educazione economica e finanziaria si sta diffondendo
anno dopo anno nelle scuole. Docenti e studenti sono
contenti di affrontare argomenti che rappresentano
un ponte con la realtà quotidiana e molti pensano che sia
ora di inserire questa materia nel curriculum scolastico.
Ma un vero progetto ancora non c’è
A
ltro che scienza triste. Portata nelle aule scolastiche, messa a contatto con gli studenti di ogni livello, vissuta come
l’irruzione del mondo reale tra i muri di scuola, l’economia
si libera d’incanto della sua sinistra fama di argomento
noioso e per niente allegro, e diventa attraente e piena di risorse.
Se si guarda quello che succede nelle scuole sul tema dell'educazione economica, sono due gli aspetti che emergono. Il primo è
che il numero di scuole, di classi, di docenti e di ragazzi coinvolti
continua a crescere, anno dopo anno, senza sosta. Quaranta
scuole su cento dichiarano di aver partecipato durante gli
ultimi tre anni a qualche progetto, ancora di più nelle
regioni del Nord e nelle scuole secondarie di secondo
grado. Certo, siamo ancora al di sotto di un livello che possa far pensare che presto tutti i
ragazzi durante il loro percorso scolastico avranno l’occasione di una formazione, seppure solo sporadica,
su tali argomenti.
E, come tutti dicono, la crisi
economica sempre più profonda (arrivata in Italia al
quarto anno consecutivo) è
20
esperienze: la scuola si confronta
Foto: Falconia/Shutterstock
stata di sicuro un forte incentivo a parlare
di più, durante le ore di lezione, di quello che
succede nel mondo della finanza, del lavoro,
delle industrie, dei mercati. Il fatto che molti
ragazzi sperimentino attraverso le proprie
famiglie problemi come disoccupazione,
cassa integrazione, difficoltà a mantenere
il proprio tenore di vita ha reso inevitabile discuterne con loro. Però, e questa è la
seconda evidenza, nelle scuole il confronto
non ha mai preso un’intonazione depressiva,
non è mai stato vissuto come la necessità
di difendersi da un pericolo, incombente
e inesorabile. In qualche modo, parlare di
economia ha significato aprire la mente alla
possibilità di affrontare i problemi,
anziché subirli.
In principio, nessuno saprebbe dire quando, a portare
un po’ di scienza economica tra le mura scolastiche
furono
probabilmente
professori con l’occhio
particolarmente lungo
e attento e genitori con
qualche
competenza
in materia, per esempio perché docenti universitari. Erano incontri
dedicati a trasmettere
qualche concetto di base o
anche solo a spiegare fenomeni un po’ magici, come il valore
che tutti attribuiamo a un pezzo di
carta chiamato banconota. Poi sono
state le banche a proporre alle scuole di cominciare a spiegare concetti
come il risparmio, il tasso di interesse, l’accumulo di un capitale. Con un
reciproco vantaggio: per i docenti di
avere a disposizione qualcuno in grado di
parlare di ciò che nei programmi scolastici e nei libri di testo non c’è, per le banche
di avvicinare i ragazzi al proprio mondo. La
prima vera svolta, però, è stata nel 2004,
quando il consorzio Patti Chiari, nato l’anno prima per aumentare la trasparenza del
sistema bancario e la fiducia da parte dei
cittadini, ha dato il via al proprio programma per gli studenti. È stato il primo progetto
di livello nazionale e potenzialmente rivolto
a tutte le scuole. Semplice, immediato, ba-
sato sull’incontro di studenti ed esperti per
esplorare insieme alcuni argomenti, ha funzionato subito. Così nel giro di poco tempo
la sperimentazione è stata estesa a tutti i
livelli scolastici, dalla scuola primaria alla
secondaria superiore. «La risposta dei docenti è stata subito ottima, abbiamo portato
l’esperienza al Miur e agli Uffici scolastici
regionali e da quel momento le porte sono
state sempre più aperte», racconta Alessandro Malinverno, segretario generale di Patti
Chiari. Alessandra Franceschi, professoressa
di lettere al liceo classico D’Azeglio di Torino,
è una dei docenti che hanno cominciato per
caso a partecipare al programma, appassionandosi subito, e oggi è diventata un punto
di riferimento per i suoi colleghi: «Non pensavo che i ragazzi avessero così tanta voglia
di impegnarsi. E a me ha dato competenze
in più, stimoli nuovi». Dal 2004, il dibattito
sulla necessità di un'educazione finanziaria
nelle scuole ha cominciato a prendere piede
a tutti i livelli, anche grazie all’intervento
dell’Ocse, che nel 2005 ha emanato una
direttiva con la quale ha invitato tutti gli
Stati a promuoverla. Un passo importante.
Grazie all’Ocse per la prima volta è stato ufficialmente detto che cosa si intenda
con educazione finanziaria, che «può essere
definita come il processo attraverso il quale
consumatori e investitori possono migliorare la loro conoscenza dei prodotti finanziari
e, attraverso l’informazione, la formazione
e la consulenza indipendente, sviluppare le
competenze e la consapevolezza dei rischi e
delle opportunità in materia finanziaria, per
formulare scelte consapevoli e intraprendere
azioni efficaci per aumentare il proprio livello
di benessere finanziario».
È stata solo la prima mossa di un impegno
sempre più deciso che ha portato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico a inserire nel test Pisa del 2012
una rilevazione sistematica, estesa alla gran
parte dei Paesi che partecipano al test, delle
competenze in materia economico finanziaria. Per la prima volta è stato verificato (ma
i risultati non sono ancora disponibili) quale
sia il livello di preparazione degli studenti
di tutto il mondo su questo argomento. Ma
anche, o soprattutto, per la prima volta l’educazione finanziaria è stata trattata come
esperienze: la scuola si confronta
IMPARARE SEMPRE
Il percorso verso
la cittadinanza
economica
COLLOCANDO ARGOmENTI
SpECIfICI NELL’AmbITO DI
“CITTADINANzA E COSTITuzIONE”
COmE pERCORSO
DI INSEGNAmENTO TRASvERSALE
A DIvERSE mATERIE
49,9%
di Arrows & Letters
38,2%
11,9%
SCARSO INTERESSE
DELLE fAmIGLIE
SCARSO INTERESSE DEI
DOCENTI
SCARSO INTERESSE
DEGLI STuDENTI
DIffICOLTà LEGATA
ALL’ESTEmpORANEITà
DELLE INIzIATIvE
REALIzzATE
bASSO COINvOLGImENTO
DEL CORpO DOCENTE
DIffICOLTà DEGLI
STuDENTI NELLA
COmpRENSIONE DEI
CONTENuTI pROpOSTI
DIffICOLTà DI
COINvOLGImENTO
DEGLI STuDENTI
5. PER LE sCuOLE dOVREbbE EssERE INsEgNATA COsì
28,5%
21,2%
20,0%
9,9%
5,0%
3,8%
2,1%
EDuCAzIONE ALL’uTILIzzO
CONSApEvOLE DEL DENARO
CONOSCENzA DEL SISTEmA
bANCARIO
CONOSCENzA DEL DENARO,
DEI pREzzI E DELLA mONETA
EDuCAzIONE
ALL’ImpRENDITORIALITà
GESTIONE DEL buDGET
pRObLEm SOLvING
EDuCAzIONE AL RISChIO
CONSumO pRESENTE
E CONSumO fuTuRO
pREvENzIONE
DELL’INDEbITAmENTO
EDuCAzIONE pREvIDENzIALE
4. PRINCIPALI CRITICITà dELLE INIZIATIVE mEssE IN CAmPO
18,1%
14,6%
13,5%
10,6%
9,0%
8,1%
7,4%
6,8%
4,8%
3,6%
3. I TEmI TRATTATI NEI PROgRAmmI FORmATIVI
SCuOLA
SECONDARIA
II GRADO
62,2%
SCuOLA
SECONDARIA
I GRADO
SCuOLA
pRImARIA
30,9%
29,8%
2. sCuOLE CHE HANNO ORgANIZZATO PROgRAmmI
GENITORE
O GRuppO
CONSIGLIO
DI ISTITuTO
CONSIGLIO
DI CLASSE
SINGOLO
DOCENTE
DIRIGENTE
SCOLASTICO
GRuppO
DI DOCENTI
0,4%
1,1%
8,4%
26,3%
29,1%
34,7%
1. CHI PROPONE L’INIZIATIVA
Fonte: Fondazione Rosselli | Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica.
COmE
mATERIA
AuTONOmA
21
esperienze: la scuola si confronta
Foto: Ma Ning/Xinhua Press/Corbis
22
una componente fondamentale, al pari
delle competenze in ambito umanistico
o scientifico-matematico, della preparazione scolastica dei ragazzi. Nel
frattempo, parecchie cose sono accadute nel mondo e anche in Italia. Un
po’ ovunque i programmi scolastici, e
non solo, si sono diffusi. Proprio mentre iniziava la sperimentazione di Patti
Chiari anche la Banca d’Italia si stava
muovendo per fornire alle scuole il proprio aiuto. La banca centrale ha deciso
di partire direttamente rivolgendosi a
tutti i livelli scolastici e lo ha fatto puntando alla formazione dei docenti anziché al contatto con gli studenti: nel suo
progetto i formatori non entrano nelle
classi, ma incontrano gli insegnanti, a
loro trasmettono i concetti e presentano il materiale divulgativo, spiegando
come usarlo, così danno loro gli strumenti per tornare dai propri studenti e
affrontare argomenti mai toccati prima.
Spetta poi a maestri e professori, però,
decidere come sfruttare davvero ciò
che hanno in mano, quanto tempo dedicare, come presentare gli argomenti.
Naturalmente ci sono anche importanti
analogie tra i progetti.
Per esempio il fatto di prevedere sempre una valutazione prima e una dopo
sulle conoscenze dei ragazzi coinvolti,
in modo da poter avere una misura,
seppure non precisa, dei risultati ot-
tenuti. E poi l’idea di produrre materiale che finisca in mano agli studenti
e magari li accompagni anche a casa.
Nel caso di Patti Chiari, dalle dispense
di carta si è passati anche a cd e dvd.
«Per noi questa è stata una bella sfida, ha voluto dire confrontarci con un
modo di raccontare le cose davvero diverso, che fosse adatto a tutti» racconta Maurizio Trifilidis, a capo del gruppo
di lavoro della Banca d’Italia, che si è
concentrata su quaderni didattici dedicati alla moneta e, per i più grandi, alle
diverse forme di pagamento. I ragazzi,
e anche i loro genitori, hanno apprezzato molto, come racconta Maria Gentile, maestra di una scuola primaria di
IMPARARE SEMPRE
esperienze: la scuola si confronta
Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi
a scegliere, che nell’ultimo anno si è articolato su dieci temi e ha prodotto anche un
quaderno di lavoro. Nel frattempo, molti altri soggetti, dalle assicurazioni alle associazioni dei consumatori a quelle dei promotori
finanziari, hanno continuato a proporre alle
scuole il proprio aiuto, con iniziative grandi
e piccole.
Che cosa potrà succedere da qui in poi non
è facile capirlo. Se si dovesse far decidere ai
docenti, la stragrande maggioranza farebbe
entrare l’educazione economica subito nei
programmi scolastici, ma come percorso di
insegnamento trasversale a diverse materie,
piuttosto che come disciplina autonoma. E
riprendendo in mano le redini del discorso
con la propria classe. La professoressa Paola Spinelli, alla secondaria di primo grado
dell’Istituto Settembrini di Roma, ha scelto di
parlare di economia partendo dalla geografia, sia perché era la materia che insegnava
a più classi, sia perché la considera davvero quella che può essere più trasversale nel
gruppo lettere. Ha aderito a un bando del
Comune, ha usato i seminari di Patti Chiari,
poi ha invitato genitori, giornalisti, commercialisti o esperti di legalità e in questo modo
ha dato vita a un progetto più articolato sulla cittadinanza attiva, che ha entusiasmato
lei per prima, ma pure i ragazzi, arrivati a
confezionare autonomamente un libretto.
Anche lei pensa che l’educazione finanziaria
debba entrare subito nel curriculum, ma non
come nuova materia.
Roma, che ha sperimentato quest’anno per
la prima volta il progetto messo a punto in
via Nazionale. «Per ora ci siamo occupati della parte storica sulla moneta, senza arrivare a
toccare concetti più difficili come per esempio l’uso di un assegno, ma certamente porterò avanti il lavoro anche l’anno prossimo».
Per l’Osservatorio Giovani-Editori puntare
in modo diretto sui temi economici è stato un passo naturale e inevitabile: chi vuole
aiutare i ragazzi a impadronirsi dei giornali
deve aiutarli a padroneggiare anche concetti
e parole che ormai sono usciti dalle pagine
dedicate all’economia per colonizzare quelle
dedicate alle cronache politiche, agli esteri
e persino a quella locale. Così all’interno del
lavoro dell’Osservatorio è nato il progetto
Le strade da esplorare sono tante. Il consorzio Patti Chiari ha creato un portale in cui
sta progressivamente allargando i contenuti
e le forme in cui vengono presentati. Adesso economi[a]scuola.it accoglie anche video
realizzati in formati che tentano di essere
accattivanti per i giovani ed è stata aperta una sezione dedicata ai genitori (il tema
del ruolo delle famiglie è certamente uno
di quelli ancora poco esplorati e destinati
a prossimi sviluppi). Inoltre, è stato creato
uno spazio per un’idea che molti docenti di
lettere hanno accarezzato: trovare l’economia nei romanzi, usando la letteratura anche per capire come funziona il mondo della
produzione o della finanza (dai Malavoglia ai
•La sede della Banca Centrale
Europea a Francoforte.
Nella pagina di apertura,
la statua del toro di Bowling
Green park, vicino alla Borsa di
New York di Wall Street,
opera di Arturo Di Modica
e simbolo dell'andamento
positivo della finanza.
Foto: Eightfish/Getty
23
24
esperienze: la scuola si confronta
Buddenbrook, da Balzac a Tolstoj, gli spunti mondo, in vere competenze? «Sappiamo che
non mancano). Da qui a cercare l’economia l’educazione economica è importante e che
anche nei film, il passo è stato breve. Poi ci nelle scuole funziona. Per compiere il passo
sono i giochi di ruolo, che restano giochi fino decisivo serve uno schema d’insieme» sostiea un certo punto: con il progetto di Patti ne Francesca Traclò, direttrice della FondaChiari i ragazzi sono spinti a realizzare un zione Rosselli, che da alcuni anni sta monivero e proprio business plan per far funzio- torando quello che succede in Italia e che
nare dal punto di vista imprenditoriale una sta portando avanti proprio l’idea di un vero
propria idea originale.
programma da proporre a tutte le scuole e
Quest’anno ben settanta piani sono appro- in tutte le classi, dalla prima elementare al
dati alla finale nazionale, mentre qualcuno diploma delle superiori. Lo sta facendo rilegdi quelli presentati negli anni scorsi rischia di gendo insieme agli autori le sperimentazioni
diventare un vero progetto industriale grazie in corso, grazie a un comitato permanente
alla collaborazione con
attivato con l’Ufficio
grandi aziende. Con il
scolastico regionale del
“Sappiamo che
gioco si può fare di tutPiemonte, coinvolgenl'educazione
economica
to: il Museo del rispardo economisti, psicomio di Torino (l’unico del
logi, matematici e altri
è importante e che nella
genere in Italia) ha reaesperti ancora. Convinta
scuola funziona.
lizzato una app che proche l’ingresso nel curPer
compiere
il
passo
pone di diventare primo
riculum sia un passo
ministro di un’isola e
indispensabile e anche
decisivo serve uno
abbastanza urgente.
impegnarsi per ridurre
schema d'insieme"
I problemi da affrontare
il debito pubblico del
sono ancora molti. Da
proprio Stato. I giocatori
simulano le decisioni finanziarie e il software quello più tecnico della messa a punto di un
restituisce i risultati che si saranno ottenuti sistema di valutazione fino a quello di realizanche a distanza di dieci o venti anni con le zare una reale cittadinanza economica, che
proprie scelte. «La vera sfida è proprio sul li- dalle scuole si propaghi rapidamente a tutta
vello della comunicazione, per trovare quella la società. Senza dimenticare il nemico da
più adeguata per ogni gruppo e per ogni tipo sempre in agguato quando le innovazioni didi messaggio» dice Malinverno. Potranno ventano obblighi istituzionali: che l’entusiatutte queste sperimentazioni dare vita a un smo dei docenti, ma soprattutto quello che
vero e proprio programma scolastico, perché mostrano i ragazzi quando hanno a che fare
l’educazione economico-finanziaria entri con qualcosa che non faccia parte del solito
nel curriculum dei ragazzi italiani? E come programma, tenda a spegnersi riportando
trasformare un bagaglio di conoscenze, l’economia ad aderire al suo stereotipo di
certamente indispensabili per orientarsi nel scienza triste.
•••
> Il portale economi[a]scuola del consorzio Patti Chiari, con i programmi scolastici, video, canali tematici per docenti e genitori. www.
economiascuola.it
> Conoscere per decidere Il progetto della Banca d’Italia, con i quaderni da scaricare in formato PDF. www.bancaditalia.it/
serv_pubblico/cultura-finanziaria/conoscere/edufin-scuola
> Il progetto dell’Osservatorio Giovani-Editori www.osservatorionline.it/page/702/cultura-finanziaria-a-scuola#content
> Le esperienze di educazione alla cittadinanza economica L’indagine della Fondazione Rosselli sulla realtà italiana e internazionale.
www.fondazionerosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/attivita_ricerche1&rice_id=522
> Il Museo del risparmio di Torino www.museodelrisparmio.it/
> Sai cos'è lo spread? Lessico economico non convenzionale, di Andrea Fumagalli, Bruno Mondadori, 2012
> L'economia buona, di Emanuele Campiglio, Bruno Mondadori, 2012
in viaggio
nella
DIALOGO
di Paolo Magliocco
complessità
Foto di Paolo Magliocco
e Steve Mezzadri
Giorgio Parisi
incontra
Mauro Ceruti
26
dialogo
G
iorgio Parisi e Mauro Ceruti sono
due tra le persone che più in Italia hanno lavorato e lavorano sul
tema della complessità. Un argomento di cui si è cominciato a parlare quasi
quarant’anni fa, un tema chiave per guardare al mondo di oggi, capire l’evoluzione del
sapere, individuare le necessità, soprattutto
quelle dei giovani, affrontare i problemi.
Fisico il primo, filosofo il secondo, Parisi e
Ceruti in tanti anni di lavoro parallelo sulla
complessità non avevano mai avuto l'occasione di parlarne faccia a faccia: hanno accettato di farlo per iS, in collegamento via
Skype tra Roma e Bergamo.
PARISI. La definizione di complessità è
sempre stata problematica. Mi ricordo che
20 o 25 anni fa, quando se ne cominciava a
parlare nell’ambito della fisica, uno dei relatori a un incontro aveva detto di aver trovato
in letteratura 65 definizioni di complessità,
molto diverse tra loro. Quasi tutte facevano una forte distinzione tra complicato e
complesso. Mi spiego: un jet è complicato,
ma non è considerato complesso, perché
ogni parte ha un suo scopo e sappiamo che
cosa succede se, per esempio, tagliamo un
filo. Un sistema complesso, invece, non è
stato costruito a tavolino, ha certamente
una sua funzione, ma spesso è il frutto di
un’evoluzione e non abbiamo idea di come
modificarlo per farlo funzionare in una maniera diversa.
CERUTI. Hai formulato in modo semplice
il problema della complessità... Perché la
complessità è un problema, che ho appreso
a formulare anche dai tuoi colleghi fisici e
matematici. Anch’essi hanno scoperto, col
tempo, che molti dei loro oggetti erano
davvero complessi e, invece, molti problemi
che credevano complessi erano semplicemente complicati. E dunque hanno dovuto
per forza approfondire la questione. Ma il
punto essenziale, per loro come per me, è
che il modello di conoscenza e razionalità elaborato in particolare dalla fisica del
diciottesimo e diciannovesimo secolo a un
certo punto non funzionava più. Non funzionava più il criterio per definire la verità
o anche l'affidabilità di una teoria scientifica. E questo criterio era la sostanziale
dialogo
IMPARARE SEMPRE
›› Giorgio Parisi e Mauro Ceruti, un fisico matematico e un filosofo da anni
impegnati a studiare la complessità, hanno discusso per noi che cosa significhi
abbandonare l’idea di un mondo che può essere compreso fino in fondo per entrare
nell’era di sistemi che cambiano e si evolvono attraverso meccanismi probabilistici.
Un nuovo paradigma che parte dalla scienza per arrivare a coinvolgere anche il
sistema educativo, la società, il nostro intero universo culturale ‹‹
sinonimia fra determinismo, previsione e
prevedibilità. L’imprevedibilità, o il fatto
che una teoria non permettesse di prevedere lo stato futuro di un sistema, faceva
pensare che ci fosse un difetto intrinseco
alla teoria, che quindi avrebbe dovuto essere cambiata in senso maggiormente predittivo. Oppure che ci fosse un difetto della
nostra capacità di osservazione. Di questa
opinione, ad esempio, era lo stesso Albert
Einstein rispetto alla teoria dei quanti. In
ogni caso questa epistemologia si fondava
sull'idea che in linea di principio, se non di
fatto, esiste comunque un punto di vista
da cui il comportamento di ogni sistema
è perfettamente prevedibile. Nel momento
in cui la teoria del caos ha rotto la sinonimia tra il determinismo e la previsione si è
posto un problema che dal punto di vista
filosofico si è rivelato estremamente interessante: viene meno l'idea che uno solo
sia il comportamento degli oggetti studiati
dalla scienza, e quindi uno solo il metodo.
Si impone il problema del pluralismo epistemologico, metodologico.
PARISI. Sono assolutamente d'accordo
sul fatto che il cambiamento della predicibilità è un punto fondamentale. Se
vogliamo applicare la vecchia idea della
predicibilità allo studio del movimento dei
singoli atomi, questo paradigma non funziona più. Se siamo interessati a sapere la
distribuzione delle velocità delle particelle
in un gas, non possiamo pensare di misurare tutte le velocità e le posizioni, sarebbe
complicatissimo e allo stesso tempo inutile.
Si passa insomma dal fare previsioni certe a
fare previsioni estremamente probabili. La
probabilità che un bicchiere d'acqua in una
stanza a temperatura ambiente ghiacci è
praticamente nulla, estremamente piccola,
possiamo tranquillamente dire che l'acqua
resta acqua. Però dobbiamo renderci conto
che non è una predizione certa, ma con una
probabilità estremamente, estremamente
alta. A livello microscopico, nei decadimenti radioattivi ci sono sostanze in cui
per esempio dieci atomi possono decadere:
prima uno, poi l'altro e poi l'altro. Il problema è che dal punto di vista concettuale, ma
anche da quello sperimentale, non possiamo
assolutamente sapere quale atomo decadrà
prima: gli atomi sono tutti uguali e hanno
tutti la stessa probabilità intrinseca di decadere. Non ci sono variabili nascoste, come
pensava Einstein, non c'è un angelo che passa e quando passa batte le ali e le ali colpiscono un atomo che allora si disintegra.
CERUTI. La complessità non è una nozione nel senso in cui lo sono tradizionalmente
i concetti della fisica o della biologia. Può
assumere una vasta gamma di significati.
Però l’etimologia del termine è significativa.
Complessità deriva dal verbo latino plectere,
che vuol dire intrecciare, unito alla preposizione cum. Potremmo dunque dire che complesso è qualcosa di intrecciato più volte.
Complessità evoca una pluralità di componenti, ma anche un'idea di unità: è quasi un
ossimoro. Anche il contrario di complesso,
cioè semplice, viene da plectere, unito però
alla particella sim, e vuol dire intrecciato una
volta sola. Questo ci porta all'idea che nella semplicità manchino le dimensioni temporali, storiche, evolutive, che invece sono
inscindibili dalla complessità.
“Complessità
significa passare
da un mondo di
previsioni certe a
uno di previsioni
basate sulla
probabilità”
Giorgio Parisi
•Giorgio Parisi insegna
Meccanica statistica
e fenomeni critici presso
il dipartimento di fisica
dell'Università la Sapienza
di Roma. è stato allievo
di Nicola Cabibbo.
27
28
dialogo
Chi è Mauro Ceruti
Mauro Ceruti, filosofo, professore di filosofia della scienza all'Università di Bergamo, è il maggior teorico
dell'epistemologia della complessità nel nostro Paese, con un lungo elenco di libri pubblicati in molte lingue
attorno a questo tema. Ha cominciato a occuparsi di complessità trent'anni fa e l'ha fatto anche insieme
a colui che è stato tra i primi a sviluppare il concetto stesso di pensiero complesso, il filosofo francese
Edgar Morin. Il volume da lui pubblicato nel 1985 con Gianluca Bocchi (La sfida della complessità,
Bruno Mondadori) è riconosciuto come un classico nel dibattito internazionale sulla complessità.
•Mauro Ceruti insegna
Filosofia della Scienza
all'Università di Bergamo,
dove è stato Preside della
Facoltà di Lettere e Filosofia
e Direttore della Scuola di
dottorato in Antropologia
ed Epistemologia della
Complessità. è stato allievo
di Ludovico Geymonat.
PARISI. Non avevo mai pensato all'etimologia della parola e mi piace molto. Mi
piace perché una delle caratteristiche da
sottolineare dei sistemi complessi è che puoi
descrivere lo stesso sistema a livelli diversi.
Prendiamo un essere umano. Lo puoi cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi
e dei singoli elettroni, ma lì non c’è molto
di interessante. Puoi descriverlo a livello di
ciò che fanno le singole proteine e il DNA,
poi a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle informazioni che le cellule si
scambiano tra loro, prima quelle più vicine
e poi quelle più lontane, per arrivare a ciò
che quest’uomo sta pensando, se è sveglio
o dorme, se è allegro o triste e così via. Ci
sono tutti questi livelli di descrizione che si
intrecciano tra di loro. In teoria è possibile capire il comportamento delle proteine
a partire da quello dei singoli atomi, quello
delle cellule a partire da quello delle proteine e così via. È possibile, non è detto che
sia fattibile. Ma quando passi al livello successivo di spiegazione devi introdurre nuovi
concetti, nuove parole, e quindi i vari livelli
di descrizione si intrecciano e si influenzano.
Un sistema semplice lo puoi invece descrivere a un solo livello. Un modo per tentare di
catturare la complessità è pensare di doverne fare una descrizione. Un testo della Divina Commedia lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli
canti, poi discutere dei vari significati. Su un
testo complesso possiamo dire moltissime
cose e quindi in qualche modo la complessità ha bisogno di un linguaggio complesso.
Bisogna passare dalla complessità dell’oggetto in sé alla complessità del linguaggio
che devi utilizzare per descriverlo. Per un
sistema semplice è sufficiente un linguaggio
semplice, per un sistema complesso è necessario un linguaggio complesso, più ricco, con
molti più concetti che interagiscono tra loro.
CERUTI. Hai sollevato alcuni problemi filosofici che appartengono alla grande
tradizione e che oggi restano assolutamente ineludibili. Innanzitutto il problema
dell'implicazione dell'osservatore nelle sue
osservazioni: la complessità sta nella realtà o nell’osservatore, sta nell’oggetto o nel
linguaggio attraverso il quale cerchiamo di
studiare l’oggetto?
PARISI. Per me è difficile dirlo, perché in
qualche modo io posso “toccare” le cose solo
con il linguaggio. Con il tipo di linguaggio e
di cervello che ho, per me certi sistemi sono
complessi. Però potrei anche immaginare
che un extraterrestre con un cervello diverso
dal mio troverebbe semplice quello che a me
appare complesso e viceversa. Quindi non mi
azzardo a dire qualcosa della realtà, preferisco limitarmi a dire che io descrivo la realtà
conoscendo il linguaggio che uso.
CERUTI. E poi c'è la questione della separabilità dei componenti di un sistema e
della loro conoscibilità in modo distinto.
Galileo Galilei, quando introdusse la sua idea
della nuova scienza, si pose il problema di
quali fossero i limiti di ciò che possiamo conoscere. Per lui, la conoscenza della natura
era come la costruzione progressiva di un
grande mosaico. Tra la conoscenza umana e
quella di dio secondo Galileo non c’è alcuna
differenza qualitativa, ma solo quantitativa:
i tasselli del mosaico che la scienza umana
dialogo
IMPARARE SEMPRE
conosce li conosce bene quanto la mente divina. Ma ne conosce pochissimi, rispetto all'onniscienza divina, che li conosce tutti. Compito
della scienza umana è aggiungere nuovi tasselli nella ricostruzione del mosaico. Qui nasce
peraltro l’idea di progresso, lineare e cumulativo. Ma questo significa anche che l’aggiunta
di conoscenze nuove non retroagisce a modificare la natura della conoscenza dei tasselli
già conosciuti. Si tratta di un’ipotesi non solo
epistemologica, ma anche ontologica. I sistemi possono essere scomposti in tasselli che
possono essere conosciuti separatamente e
la conoscenza di tasselli nuovi non cambia la
conoscenza di quelli già acquisiti. Certo, Laplace, introducendo il calcolo delle probabilità per
studiare nuovi ambiti di realtà, riconobbe che
neanche dal punto di vista qualitativo la conoscenza umana può diventare perfetta come
quella divina, perché rispetto a questi ambiti
dobbiamo “accontentarci” di una conoscenza
probabilistica. Ma aggiunse: se ipotizziamo
un demone onnisciente, che in un dato istante conosca tutte le leggi di natura e, insieme,
lo stato di ogni particella dell’universo, questo
demone saprebbe prevedere non solo il futuro
dell’universo, ma anche quello di ogni singola
particella. E saprebbe anche ricostruire tutto il
passato. Dunque, l'ipotesi è che esista un punto
di osservazione assoluto dal quale l’universo si
rivelerebbe come un meccanismo, come dicevi
tu, complicato, ma non complesso. La dimensione temporale non ne sarebbe costitutiva e
il tempo, come credeva anche Albert Einstein,
sarebbe solo un’illusione. In una visione del
mondo complicata, e non complessa, di volta
in volta cerchiamo di spiegare perché le cose
siano andate così e perché fosse inevitabile
che andassero così. In una scienza dei sistemi complessi, al contrario, rispondiamo ad
un’altra domanda: perché le cose sono
andate così, anche se non era inevitabile che andassero così e sarebbero
potute andare diversamente?
PARISI. Questo mi ricorda un
bel libro di Stephen Jay Gould,
La vita meravigliosa, in cui
si poneva proprio questa
domanda. Lui guardava a
tutte le specie che erano
presenti 530 milioni di
anni fa, tra cui c’erano
solo uno o due vertebrati, su cui nessuno
avrebbe scommesso. Se per qualche motivo
si fossero estinti, non avremmo mai avuto i
vertebrati. Quello su cui insiste molto Gould
è il tema della contingenza: non è necessario che le cose accadano in un certo modo
e sarebbero potute andare in maniera assai
diversa. Questo non vale solo per la Storia
con la esse maiuscola. Per esempio è stato
calcolato che il numero di specie presenti
su un’isola è proporzionale alla radice
quarta della superficie dell’isola stessa. Ma, detto questo, calcolato il numero di specie che possiamo aspettarci, non si può sapere di quali tipi
di specie si tratterà, se millepiedi
o pettirossi o altro. Quello che è
avvenuto su ciascuna isola
resta completamente ignoto.
Anche la fisica ha potuto fare passi avanti
accettando di fare
un passo indietro, come capita
spesso: ha dovuto rinunciare a
capire ciò che
succede
in
ogni singola
29
30
dialogo
Guarda il video dell’incontro
tra Giorgio Parisi e Mauro Ceruti
http://link.pearson.it/FB818DFD
situazione e cercare di capire la statistica dei
comportamenti in situazioni assai diverse.
Sapere che il sistema potrebbe comportarsi anche in modo diverso da quello in cui si
comporta è fondamentale.
CERUTI. In effetti un sistema complesso è
un sistema in cui le proprietà del tutto non
corrispondono alla somma delle proprietà
delle singole parti. Sono qualcosa di più, ma
anche di meno: tutto dipende dalle loro reciproche interazioni. E Stephen Jay Gould,
proprio ne La vita meravigliosa, per parlare
della complessità della storia della vita ricorre alla metafora molto efficace del film
della vita: se potessimo riavvolgere il film
della storia della vita sulla Terra, dalle origini
fino a noi, e lo proiettassimo da capo, ogni
volta avremmo un finale diverso. Non solo
per la sensibilità del sistema alle condizioni
inziali, ma anche per quella che Gould definisce contingenza. La contingenza non è
una semplice attenuazione della necessità ad
opera del caso: è
la caratteristica
ineludibile dei sistemi complessi.
La conoscenza dei
sistemi complessi
non può trascurare l’effetto del
tempo sulla loro
evoluzione.
Ciò
non significa criticare in toto la
scienza “classica”.
Significa piuttosto introdurre un
pluralismo metodologico ed epistemologico
dipendente dalla pluralità degli oggetti della
ricerca scientifica. E la sfida della complessità pone oggi anche una questione educativa: quanto i modi di organizzazione dei saperi nelle nostre scuole e università, non solo
nell’ambito di ciascuna disciplina ma anche
nelle relazioni tra le varie discipline, possano mutare per favorire il sorgere di quella
che chiamerei una sensibilità a un modo di
conoscere volto ad evitare la riduzione di
un qualunque oggetto di conoscenza a un
solo livello di descrizione, di osservazione.
Il grande successo della scienza attraverso
la proliferazione degli specialismi oggi può
avere effetti recessivi e ostacolare la produzione di nuova creatività scientifica.
PARISI. Hai toccato molti argomenti interessanti. Questo legame della complessità con l’emergenza di proprietà collettive
è estremamente importante. Le proprietà
collettive ci sono anche in sistemi non complessi: il nostro bicchier d’acqua quando
cambia la temperatura della stanza gela o
bolle, e questo è un comportamento collettivo, perché dall’esame dei singoli atomi non
è affatto chiaro come un decimo di grado
faccia diventare completamente solido ciò
che era liquido. La differenza fondamentale
è che le proprietà collettive dell’acqua sono
semplici: o è un solido o è un liquido, oppure
un gas. Nei sistemi complessi invece il numero di possibilità è estremamente più alto.
Prendiamo il DNA e la miriade di piante e
animali a cui può dare vita, il modo in cui
possono ripiegarsi le proteine...
L’altro tema, quello di mettere insieme la
specializzazione e la capacità di cogliere
cose che vengano da un settore diverso,
nelle nostre università o nella scienza in generale, è un problema molto serio e delicato. Una mia paura, che forse era più forte
in passato, è che nelle università si tenda a
selezionare persone iperspecializzate. La prima cosa che fa una commissione è verificare
quali delle pubblicazioni di una persona sono
rilevanti per il settore in cui fa domanda. È
una cosa un po’ insensata: se un fisico ha
dato contributi importanti in epistemologia,
questi lavori sono una ricchezza, anche se
concorre per fisica matematica. Per esempio,
c’è un'interdisciplinarietà molto forte tra la
fisica e la biologia, ci sono fisici che studiano
i sistemi viventi utilizzando strumenti concettuali che vengono dal mondo della fisica.
Posso capire che nell’Ottocento il mestiere
del fisico, del biologo o del matematico fossero molto lontani tra loro, ma oggi si stanno sempre più sovrapponendo.
CERUTI. Penso che le crisi che stiamo attraversando siano soprattutto crisi cognitive. Albert Einstein sosteneva che il pensiero che crea un mondo non sarà in grado di
governare il mondo che ha fatto emergere.
dialogo
IMPARARE SEMPRE
Chi è Giorgio Parisi
Giorgio Parisi, fisico e matematico, docente all'università
La Sapienza, è considerato uno degli scienziati più importanti
in Italia oggi, si è occupato di un gran numero di argomenti
diversi, dalla fisica delle particelle alla fisica statistica e alla
matematica e ha collezionato un lungo elenco dei più prestigiosi
riconoscimenti internazionali, dalla Medaglia Boltzmann
al Premio Dirac, dal Premio Galileo alla Medaglia Max Planck.
Ottenuti ogni volta per meriti diversi, i riconoscimenti hanno
sempre premiato questa sua capacità di spaziare su fronti
differenti. Inevitabile, allora, che ottenesse nel 2009 anche
il Premio Lagrange: premio che viene assegnato proprio agli
scienziati che abbiano più contribuito allo sviluppo della
scienza della complessità.
Il mondo attuale, interdipendente e globalizzato, è anche figlio del taylorismo economico e dello specialismo tecnico-scientifico.
Oggi tocchiamo con mano che ogni problema rilevante è complesso, cioè costituito da
una molteplicità irriducibile di dimensioni
interconnesse. E inoltre ogni problema o
oggetto di conoscenza è interconnesso irriducibilmente ad altri altrettanto complessi.
Eppure le intelligenze che sono chiamate a
risolverli sono per lo più intelligenze specialistiche. Così le soluzioni cercate e proposte
sono il più delle volte esse stesse parte del
problema. Il caso più eclatante è quello della scienza economica, che manifesta oggi
tutta la sua inadeguatezza, non solo a risolvere i problemi, ma soprattutto a formularli
in maniera adeguata. Le maggiori difficoltà
nell’affrontare la crisi stanno soprattutto
nel nostro “non sapere di non sapere”, e nel
modo in cui è organizzata la nostra conoscenza, fin dai primi anni della scolarizzazione: un modo che produce una sempre
maggiore frammentazione delle conoscenze,
laddove i problemi, sempre più complessi,
esigono l'intreccio di differenti dimensioni e
punti di vista. Abbiamo bisogno di attrezzarci a pensare la complessità, di attrezzarci a
pensare nella complessità non solo in senso
tecnico, ma anche cercando di elaborare una
cultura all’altezza degli specialismi scientifici
e tecnologici di cui disponiamo oggi, e quin-
di all'altezza della complessità dei problemi
che sfidano l'attuale condizione umana.
In particolare, la valorizzazione della diversità come condizione essenziale nell’evoluzione della vita, delle culture, delle lingue, va
sostenuta all’interno del continuo percorso
formativo di ciascuno di noi, fin da quando
siamo bambini. Non si tratta solo di lasciar
convivere la diversità fra gli uni e gli altri,
ma si tratta anche di valorizzare le diversità
entro noi stessi: altrimenti queste diversità
non si sapranno rapportare tra loro. E ciò
penalizzerà la creatività di ciascuno. Bisogna
che io abbia la capacità di porre domande
al professor Parisi, anche senza avere le sue
competenze, per formulare i miei problemi
epistemologici. E per saperlo ringraziare per
avermi insegnato, come oggi, a riformulare
•••
alcuni dei miei problemi. > La sfida della complessità, Bruno
Mondadori, a cura di Mauro Ceruti con
Gianluca Bocchi, 2007
> Il vincolo e la possibilità, di Mauro Ceruti,
Raffaello Cortina, 2009
> La chiave, la luce e l’ubriaco, di Giorgio
Parisi, Di Rienzo Editore, 2006
31
Esperienze:
la scuola si racconta
La matematica
non
convenzionale
Studenti, docenti e ricercatori universitari
insieme alle prese con problemi che
riscattano la materia più astratta che ci sia
e la trasformano in una grande avventura,
in cui la soluzione non è più il frutto di
quello che sta scritto sui libri ma della
fantasia e dell’ingegno di ciascuno
esperienze: la scuola si racconta
IMPARARE SEMPRE
C
Testo e foto di Eleonora Viganò
ome si fa a suscitare interesse nei
confronti della matematica? Lei
vuole una risposta che non sono
mai riuscito a dare negli ultimi
venti anni». Paolo Mora, docente del liceo
scientifico Lussana di Bergamo, è abbastanza spietato nei confronti della materia. La
matematica si presta poco, meno di altre
discipline scientifiche, alla divulgazione. In
fisica è possibile trovare agganci alla vita
reale, in matematica si può al più leggere
qualche saggio divertente, ma l’approccio
rigoroso resta tutto formule e gesso alla lavagna. Eppure anche Mora, come tanti altri
suoi colleghi, ha deciso di partecipare, con
un gruppetto di studenti, a MATh.en.JEANS,
un progetto nato in Francia nel 1989 per insegnare la matematica in modo non convenzionale, e importato nel nostro Paese quattro anni fa grazie al centro interuniversitario
Matematita per l’apprendimento informale
della matematica e a Kangourou Italia, associazione per la divulgazione della matematica, in accordo con la realtà francese.
MATh.en.JEANS è l’acronimo di Méthode
d'Apprentissage des Théories mathématiques
en Jumelant des Établissements pour une
Approche Nouvelle du Savoir che in italiano
si può tradurre come Metodo di apprendimento delle Teorie matematiche attraverso
il gemellaggio degli istituti scolastici per un
approccio nuovo al sapere. «Ogni anno è una
scoperta» ammette Paola Testi Saltini, responsabile dell’organizzazione. «Anche se le
modalità di partecipazione hanno una struttura fissa: un ricercatore, che può essere un
dottorando o uno studente di matematica,
propone a studenti di medie e superiori un
problema matematico da risolvere, lasciandoli liberi di esprimere le proprie idee, senza
conoscenze pregresse e senza aspettare che
l’insegnante faccia il primo passo». Le novità
di quest’anno sono state il coinvolgimento
della sede di Trento - insieme a Milano - per
l’organizzazione del convegno finale, quello in cui i ragazzi presentano in una sorta
di grande festa i propri risultati a tutte le
altre scuole coinvolte; la scelta di ricercatori giovani, tirocinanti del terzo anno, e infine la presenza di un ospite “straniero”: il
liceo francese Stendhal di Milano. «Non so
se vi saranno novità per le prossime edizioni, ma penso che siamo in una fase in cui il
33
primo obiettivo sia quello di diffondere il
progetto nelle altre regioni italiane, al di
là della Lombardia, che ha una presenza ben radicata», afferma Paola Testi.
La partecipazione viene gestita dalle scuole nel modo che ritengono
migliore: alcune scelgono di far
partecipare intere classi, di utilizzare le ore di lezione e di sfruttare
la comunicazione tra scuole che
condividono lo stesso problema e
lo stesso ricercatore, altre invece
preferiscono il lavoro autonomo e
il reclutamento volontario, sulla base
dell’interesse per la matematica e le sfide che suscita. «L’adesione volontaria è indispensabile perché il problema da risolvere
richiede troppo impegno, sono necessari una
forte motivazione e un minimo di capacità»,
sostiene uno studente della quinta superiore del liceo scientifico Lussana di Bergamo.
Tutti hanno a disposizione una piattaforma
online per comunicare sempre sia tra studenti dello stesso gruppo di lavoro, sia con altri
gruppi e, ovviamente, con il ricercatore, che
si presenta fisicamente in classe per tre
incontri, lasciando poi i ragazzi liberi di
cimentarsi nel ragionamento. Ma proprio
l’organizzazione,
intesa
come gestione dei tempi,
e la capacità di usufruire
della piattaforma online
per comunicare tra scuole
e classi diverse, rappresentano i problemi principali.
Il forum di condivisione in
alcuni contesti è stato utilizzato con timidezza, senza commentare le idee di
altri, e con un pizzico di pudore nell’esporre le proprie.
Alexandro Redaelli, futuro
insegnante di matematica, è ormai un veterano di
questa attività didattica:
dopo quattro anni è riuscito a coglierne
gli aspetti più complessi e a rendersi conto di quanto sia utile non solo ai ragazzi,
ma anche agli stessi ricercatori. «La scelta
del problema da sottoporre è di sicuro l’aspetto più complesso» commenta Alexandro. «È fondamentale che sia un quesito
che accenda l’interesse degli studenti, che
non sia né troppo facile, né troppo difficile, e infine che insegni qualcosa anche
a noi che lo progettiamo con l’aiuto dei
professori universitari che ci supportano».
La soluzione è rigorosamente in mano ai
ragazzi: i ricercatori non devono svelarla, i docenti delle scuole neppure saperla.
«Alcuni prof vogliono partecipare in modo
prepotente alla risoluzione, vogliono metterci il becco. Un po’ per passione, un po’ per
curiosità», svela una “ricercatrice in jeans”.
Dopo aver proposto il problema – dalla
teoria dei giochi, alla geometria – il ricercatore lascia che emergano idee, fantasia, soluzioni probabili e, perché no,
anche voli della mente poco praticabili.
Ogni cosa è utile affinché si inneschi una
prima discussione e i ragazzi inizino a familiarizzare con il quesito. Quando sono
soli, gli studenti si confrontano e lavorano
in gruppi per arrivare a risolverlo. «La parte
più difficile è convincere i compagni che la
tua idea è quella giusta, mentre le loro non
funzionano. Siamo tutti convinti di avere
la soluzione migliore» commenta Eleonora,
dell’Istituto di Istruzione Superiore Italo Calvino di Rozzano, Milano, che con la
sua classe si è impegnata nella teoria dei
giochi. «È molto stimolante cimentarsi su un
problema che sembra non avere nulla a che
fare con la matematica, che la renda più appealing e interessante». Il ricercatore svolge
un po’ il ruolo di un Socrate della materia:
deve indirizzare senza svelare, deve fare
domande e non dare risposte, in modo che i
ragazzi siano spinti a ragionare facendo at-
esperienze: la scuola si racconta
tenzione agli elementi giusti, ritornando sul
percorso quando fanno qualche deviazione
di troppo e giungere insieme alla meta finale.
I ragazzi delle medie, grazie a questa esperienza, iniziano ad approcciarsi alle parole
matematiche, ai ragionamenti, alle intuizioni e ai suoi metodi. Gli studenti delle superiori, un po’ più formati, affrontano invece
la fase finale della formalizzazione, e imparano a gestire un problema matematico in
modo corretto. «La discussione era accesa
e i ragazzi molto curiosi» racconta Giulia
Bernardi, studentessa laureanda all’Università di Milano Bicocca, che ha proposto la
teoria dei giochi. «Mi ha stimolato l’idea di
presentare qualcosa che si discostasse dalla
matematica classica a studenti che spesso
non la amano». Elena Panzeri è invece tornata indietro, alle sue personali esperienze:
«Vedi gli studenti ricostruire la soluzione del
problema senza avere alcuna base, ed è sorprendente. Quando studiavo all’Università
ricevevo queste conoscenze in modo rigoroso
e spesso passivo». Più il ricercatore è giovane
e più viene visto come un compagno con il
quale confrontarsi, senza paura di sbagliare,
ma con la sensazione di imparare qualcosa
di nuovo e stimolante. I professori sono soddisfatti dell’investimento di risorse e tempo:
«È un approccio concreto che risponde alla
domanda che tutti i ragazzi delle medie si
pongono: a che cosa serve la matematica?»,
commenta Cinzia del Chiaro, dell’Istituto
Comprensivo Statale di Valmadrera. Alla
scuola secondaria inferiore Santa Maria della Pace di Brescia, che si è occupata delle
figure solide, il progetto ha permesso di affrontare un argomento utile per il programma, che i ragazzi assimilano per l’anno successivo, e in più tra gli studenti si è respirato
un forte entusiasmo, perché hanno potuto
assaporare la bellezza dell’autonomia di un
lavoro interamente frutto della loro mente e
•••
delle loro idee.
•In queste pagine, alcuni dei
lavori presentati dai ragazzi
durante l'edizione 2012-2013
di MATh.en.JEANS
Foto: MATh.en.JEANS
Guarda il video del racconto di che
cos’è MATh.en.JEANS
> Il sito di MATh.en.JEANS con il racconto delle edizioni passate e le informazioni per iscriversi
il prossimo anno www.mathenjeans.it/
http://link.pearson.it/6B3E906C
35
36
abcdefghilmno
La lingua
SALVATA
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
37
Così Elias Canetti titolava la prima
parte della sua autobiografia, dedicata
all’infanzia e all’adolescenza, dove
l’amore per la lingua e per la «coscienza
delle parole» intesse a ogni passo la
narrazione.
Veicolo di scambio e di identità diverse,
strumento per rappresentare il mondo
e per capirlo, gioco, nutrimento, svago,
mezzo di espressione ed emancipazione
personale. Sono queste – e altre ancora
- le potenzialità della lingua, e la loro
salvaguardia ci tocca da vicino,
nell’Italia di oggi come nella Bulgaria
di inizi Novecento.
Le lingue sono alfabeti non solo
perché composte di lettere, ma
perché introducono alla realtà e
consentono di metterla in comune.
Non conoscerle e padroneggiarle
(i contributi che seguono ne esplorano
alcuni contorni) significherebbe
accettare una mutilazione. M.L.R.
Letteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
38
abcdefghilmno
ITALIANO
Se 2000 parole
posson
di Luca Serianni
Linguista e filologo, è docente
di Storia della lingua italiana
all'università La Sapienza di
Roma e autore di molti saggi
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
Foto: Falconia/Shutterstock
ITALIANO
I vocaboli del lessico fondamentale
della nostra lingua, quello composto dalle
parole più usate, sono poco più di 2000.
In realtà l'80% dei discorsi è fatto
di 500 termini.
Ecco come ci esprimiamo e quanto
è cambiato l'italiano dai tempi di Dante
L
e parole non sono tutte uguali.
Non solo perché divergono nei
significati e nelle funzioni, ma
per la differente frequenza con
cui le usiamo. In un'ideale piramide che
rappresenti il patrimonio del lessico virtualmente disponibile in una certa fase
linguistica (quello accolto in un vocabolario dell'uso di taglio medio) nella parte
apicale potremmo collocare le poche parole davvero "fondamentali", perché ricorrenti più e più volte in qualsiasi testo
che ci capiti di produrre oralmente o per
iscritto. Il grosso delle parole, quelle che
occuperebbero la parte più ampia della
nostra piramide, sono parole rare che
anche un parlante colto non conosce o
non usa: sono parole marcatamente letterarie (l'aggettivo impronto «che mostra
improntitudine, sfacciato») e soprattutto
proprie di un lessico specialistico, noto
solo a una minoranza: iperdulia (religione), entelechia (filosofia), anticresi (diritto), disgeusia (medicina), esterificazione
(chimica), autovalore (matematica).
Le parole fondamentali si ritrovano in
tutte le lingue, con poche differenze interne: è intuitivo che le parole usate per
indicare la neve saranno più frequenti
Letteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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abcdefghilmno
ITALIANO
nelle lingue dei paesi artici rispetto a quelle parlate nei paesi caldi.
Per l'italiano, Tullio De Mauro, che al
tema ha dedicato studi decisivi, ha fissato il numero dei vocaboli fondamentali (o di base) in 2049. A una cifra
così precisa si arriva attraverso
un campionamento bilanciato
di corpora di vari testi, parlati e
scritti, prodotti in un ventaglio
di situazioni comunicative sufficientemente ampio.
Queste duemila parole rappresentano circa il 90% delle occorrenze lessicali rinvenibili
in un testo italiano contemporaneo. Il dato ha un'evidente
importanza applicativa: sia
per i docenti che insegnano l'italiano come lingua
seconda (e da tempo la
glottodidattica è sensibile a questo aspetto) o
si rivolgono a bambini madrelingua (fin dai
primi anni della scuola
primaria tutti gli alunni
dovrebbero padroneggiare questo patrimonio); sia
per i funzionari che redigono un avviso destinato
alla massa dei cittadini (pagamento delle imposte, riscatto di una casa popolare, ecc.):
è un dovere civico ridurre il
tasso di tecnicismi giuridici
e burocratici e attingere il più
largamente possibile alle parole di uso davvero condiviso.
Ma quali sono le parole del lessico fondamentale? Vi troviamo
prima di tutto parole "vuote"
o grammaticali come articoli, pronomi, preposizioni,
congiunzioni. Poi, parole semanticamente
generiche e quindi
usate, specie nel parlato, quando il contesto
è più che sufficiente per
capire il contenuto del
messaggio («Sempre le
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
ITALIANO
stesse cose!»: cose può indicare parole, sto modo» - «Chiaramente»). Gli avverbi
comportamenti, preparazioni culina- in -mente sono pesanti come carico silrie...): cosa, roba, dare, dire, fare ecc. Ma labico: una caratteristica che non hanun nucleo consistente è rappresentato da no le parole che occupano i primi posti
parole astratte come problema o senso e quanto a frequenza. Si tratta di parole
da parole concrete, che indicano realtà immancabilmente brevi, come si ricava
che incidono nel nostro vissuto, come pensando alla più comune formula di
cane o gatto. Naturalmente il fatto che saluto confidenziale, ciao, ma anche ai
un lemma rientri nel lessico fondamen- suoi corrispettivi in altre lingue, quali
tale non implica che siano altrettan- l'angloamericano hi o lo spagnolo hola.
to centrali tutte le sue accezioni: tutti Se ciao era una parola sconosciuta a
sappiamo che cos'è un gatto, moltissimi Dante (si diffonde solo nel XIX secoconoscono il gatto dello, dal veneziano), la
le nevi, che però non
gran parte dei duerappresenta certo una
mila vocaboli che
"Ciao era una parola
nozione centrale nelcostituiscono il lesla nostra esperienza,
sico fondamentale è
sconosciuta a
come avviene, a maggià contenuta nella
Dante, ma la
gior ragione, per la linCommedia dantesca,
gran parte dei
gua di gatto "tipo di bia dimostrazione della
scotto", il gatto a nove
proverbiale stabilità
vocaboli del lessico
code "tipo di frusta"
della nostra lingua.
fondamentale è
o il gatto inteso come
Una prova a portata di
già contenuta nella
"macchina
d'assalto
mano: «Nel mezzo del
Commedia
dantesca"
usata nel Medioevo".
cammin di nostra vita
Le differenze di fre/ mi ritrovai per una
quenza tra scritto e
selva oscura / che la
parlato sono minori
diritta via era smarridi quel che si potrebbe credere. Con- ta». In questi tre versi abbiamo stampato
frontando due diversi sottouniversi, De in corsivo le parole che rientrano nelle
Mauro ha calcolato che le prime 500 2049 censite da De Mauro per l'italiano
parole coprono l'80,4% di un corpus di di oggi: cioè quasi tutte. •••
italiano parlato e il 78,1% di un corpus
di italiano scritto. Il 2,3% di differenza documenta comunque la maggiore
varietà e specificità dello scritto; ma è
significativo che, raggiunte le 2.500 parole più frequenti, le due cifre quasi si
sovrappongano: 92,54% per il corpus
di parlato e 92,45% per quello di italia> Lessico di frequenza dell'italiano
no scritto. Può cambiare però il rango
parlato, di Tullio De Mauro e altri,
all'interno dei due gruppi.
ETAS Libri, 1993
Nel parlato sono molto più frequenti
> Le parole dell'italiano.
verbi come scusare, succedere, signifi Lessico e dizionari, di C. Marello,
care, legati a tipici moduli pragmatici
Zanichelli, 1996
(«Scusami», «Che è successo?», «Che significa?»), o avverbi come praticamente,
> Grande dizionario italiano dell'uso,
di Tullio De Mauro, UTET, 1999
sicuramente, chiaramente, usati per attenuare un'affermazione («Praticamente
> Parole e numeri. Analisi quantitative
la partita si è chiusa al primo tempo»)
dei fatti di lingua, di Tullio De Mauro,
o per enfatizzare una dichiarazione di
Isabella Chiari, Aracne, 2005
assenso («Non potevo che agire in queLetteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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abcdefghilmno
TECNOLOGIA
DELLA COMUNICAZIONE
Foto: Bevis Fusha/Anzenberger/Contrasto
42
C
di Nicola Tramontana
ITALIANO
redo che la
domanda su
ciò che sappiamo
del
modo in cui si è modificata
la nostra lingua nell’incontro
con i media digitali vada formulata dividendola in base alle diverse
situazioni di uso della lingua e ai diversi strumenti utilizzati, dall’email alla
chat, ai social network, ecc.» sostiene
Gino Roncaglia, che come docente di
informatica applicata alle discipline
umanistiche all’Università della Tuscia da tempo lavora sull’incrocio tra
i nuovi strumenti di comunicazione
e i cambiamenti linguistici. «Io non
condivido l’impostazione, seguita per
esempio dal Cnr in un lavoro di qualche anno fa, che tende a considerare Internet come uno strumento unico e alla
comunicazione digitale come se fosse
tutta dello stesso tipo. Porta a trarre
delle conseguenze non necessariamente corrette. A ciascuno strumento di
comunicazione corrispondono invece
registri linguistici e comunicativi diTecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
TECNOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
La lingua ai tempi di Internet sta scoprendo un numero sempre
maggiore di modalità espressive, sostiene Gino Roncaglia,
docente di informatica applicata alle discipline umanistiche
all’Università della Tuscia. Il rischio che si corre, sostiene,
non è l’impoverimento del lessico, bensì l’abbandono di forme
complesse di ragionamento e di scrittura
versi». Naturalmente ci sono casi in nomeni più importanti, oggi secondo
cui strumenti nuovi utilizzano registri Roncaglia va in parte ridimensionata.
già collaudati, almeno in parte: «Per Perché nel giro di pochi anni sono
esempio la posta elettronica riprende cambiati gli strumenti utilizzati e dalin parte i codici della forma epistolare. la prevalenza di sms e chat, più viciPerò ci sono anche molti cambiamenti, ni alla lingua parlata, si è passati ai
dovuti a uno scambio più rapido che social network, dove convivono tante
porta a una sorta di neo-oralità». La forme diverse.
rapidità, con la spinta all’abbreviazione che porta con sé, è certamente un Creare un vero e proprio catalogo detratto comune, che però, di nuovo, si gli strumenti e delle forme di comunideclina in modo differente a seconda cazione, una sorta di matrice che dica
del contesto e del registro. «I messag- le caratteristiche di ciascuno, sarebbe
dunque possibile, ma
gi di stato dei social
non così facile, pernetwork (oggi di siché
ci sono molti incuro una delle cose
"L’abitudine alla brevità
trecci e molte forme
interessanti da stufinisce per imporre
di contaminazione.
diare) hanno un cauna costruzione più
«I tweet come lunrattere estremamente
ghezza
sono paragosintetico e frammendebole dei testi.
nabili agli sms, però
tario, però spesso un
Quello che tende a
hanno un carattere
livello di ricercatezza
ridursi è la scrittura
pubblico, mentre gli
linguistica maggiore
sms sono una comurispetto a chat, email
complessa, ragionata"
nicazione
privata.
e sms, che sono tutte
I sistemi di instant
forme di comunicamessaging possono
zione di tipo privato,
mentre i messaggi di stato hanno un essere in qualche modo tutti assimilati
carattere pubblico. Per i giovani, però, alle chat. E così via» continua Roncaquesto è meno vero, perché anche sui glia. «Ci sono le forme di comunicaziosocial network hanno la percezione di ne scritta, ma anche quelle di comuparlare all’interno della propria co- nicazione orale. Il modello di Skype è
munità». E la stessa neo-oralità, l’uso certamente quello della comunicazione
di un linguaggio sempre più simile a via telefono e probabilmente nell’uso
quello parlato anche in comunicazio- del linguaggio non ci sono particolani scritte, che è sembrata uno dei fe- ri varianti. Mentre invece se si guarLetteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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abcdefghilmno
TECNOLOGIA
DELLA COMUNICAZIONE
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
TECNOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
IMPARARE SEMPRE
da alla comunicazione tra ragazzi che
giocano insieme online, che sia scritta
o orale è comunque strettamente gergale. Poi ci sono contaminazioni: il
linguaggio dei blog ha sicuramente
influenzato il linguaggio giornalistico, favorendo la diffusione di articoli
che sono più l’espressione di opinioni
personali, mentre all’inizio era vero il
contrario, era il linguaggio giornalistico che aveva influenzato quello dei
blog, nati soprattutto come tentativo
di costruire un proprio giornale personale. Il post di un blog spesso è breve,
ma talvolta si avvicina alla lunghezza
dell’editoriale tradizionale.
Il blog è scritto in prima persona e
questo uso forte della prima persona
è una caratteristica comune a molte
forme di comunicazione attraverso la
rete».
Foto: Marta Sarlo/Contrasto
Letteratura migrante
Ma è vero che c’è una certa omologazione del linguaggio, con l’uso
diffuso di formule standard e quindi
in definitiva un impoverimento della
lingua? Secondo Roncaglia, in parte
sì, però c’è anche un grande aumento del numero di canali disponibili.
«Piuttosto che dal punto di vista del
lessico, vedo un problema nella costruzione sintattica e ancor più in
quella argomentativa. L’abitudine alla
brevità, comune a tutti questi canali
seppure in ciascuno in forme diverse,
finisce per imporre una costruzione
più debole dei testi. Quello che tende a
ridursi è la scrittura complessa, ragionata. L’idea che ci siano dei temi che
richiedano un certo tempo, un certo
spazio, per essere affrontati, tende un
po’ a perdersi rispetto alle 2 o 3000
battute del post di un blog. Questo ha
a che fare non tanto con la difficoltà
di lettura di testi lunghi sugli schermi
elettronici, in particolare sul computer
(benchè la qualità degli schermi ormai
sia molto alta e i tablet restituiscono
la possibilità di leggere muovendosi, o
in poltrona e a letto) quanto con le
caratteristiche degli strumenti digitali
e dei canali di comunicazione».
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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46
abcdefghilmno
TECNOLOGIA
DELLA COMUNICAZIONE
In sintesi, l’idea di Roncaglia è che dedicate alla scrittura di prosecuzioni
«se c’è un cambiamento determinato o versioni alternative di libri noti o di
dall’uso degli strumenti digitali, que- storie ambientate in uno specifico unisto è soprattutto la
verso narrativo, da
moltiplicazione dei
Twilight a Harry Potter o Sherlock Holcontesti comunica"Se sai creare bene
mes. La fan fiction è
tivi e delle forme di
etichette poi sai anche
piuttosto diffusa tra
comunicazione, che
cercare bene informazioni,
i giovani e sopratcontinuano ad aututto tra le ragazze
mentare nel tempo».
perché sai metterti
(quelle tra i 13 e i 18
Un arricchimento,
nella testa di chi quelle
anni rappresentano il
insomma. «Ci sono
informazioni le classifica"
70% del totale) e ha
casi in cui lo spazio
un effetto positivo di
web diventa addiritallargamento
delle
tura una nuova palestra di uso della lingua. Per esempio competenze linguistiche. Forse dovrebbe
c’è il fenomeno interessante e vivace essere seguita di più, per esempio dal
della fan fiction, fatta di comunità mondo della scuola». E ci sono anche
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
TECNOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
lo facciamo a livello universitario, ma si
potrebbe estendere tranquillamente a livello di scuola superiore».
Un altro fenomeno importante è il miscuglio delle forme di comunicazione,
l’incrocio di foto, testi, video in una
multimedialità che prima di Internet
non era possibile. Sarebbe molto interessante andare a guardare il tipo di uso
comunicativo che si fa di immagini e
video, dice Roncaglia, ma, aggiunge subito, c’è un altro fatto importante e poco
considerato che l’uso delle immagini
porta con sé: «Stiamo probabilmente affinando le nostre capacità nell’uso classificatorio e descrittivo del linguaggio.
Mi spiego: quando usiamo un tipo di informazione non verbale, come una fotografia, poi abbiamo bisogno di associare
alla foto delle etichette, che consentano
di individuarla e ricercarla, e questo è
un uso particolare della lingua, fino a
ieri riservato ad archivisti, bibliotecari o
curatori di musei. È un tipo di uso della
lingua che richiederebbe probabilmente
una formazione, che oggi manca».
Foto: Karsten Schoene/laif/Contrasto
altre opportunità. Wikipedia anziché
essere considerata solo un’enciclopedia
già scritta, usata dai ragazzi soprattutto
per fare “copia e incolla”, potrebbe diventare uno strumento per realizzare
delle esercitazioni: sul modo di scrivere una voce dell’enciclopedia stessa, sul
controllo delle informazioni, sulla verifica di quali siano le voci mancanti. «Noi
Anche perché saper usare in questo
modo il linguaggio potrebbe avere risvolti importanti, dal momento che «vuol
dire costruire un tipo particolare di competenza linguistica che progressivamente
diventa sempre più importante. Se sai
creare bene etichette poi sai anche cercare bene informazioni, perché sai metterti
nella testa di chi quelle informazioni le
classifica. E la ricerca delle informazioni
è un’altra situazione di uso della lingua
relativamente nuova: sapere come creare
una ricerca funzionale a ciò che si vuole
trovare su Google è una forma di uso della lingua non banale».
•••
> Il parlar spedito. L’italiano di chat, email, sms, di Elena Pistolesi. Esedra Editore, 2004 > La lingua italiana nell’era digitale Lo studio pubblicato dal Cnr sul rapporto tra la nostra
lingua e le tecnologie digitali, www.meta-net.eu/whitepapers/e-book/italian.pdf
Letteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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SOCIOLINGUISTICA
gioventù
CREATIVA
di Paolo Panella
Foto: icponline
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ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
SOCIOLINGUISTICA
Il lessico utilizzato dai giovani è la dimostrazione di
una capacità di giocare con la lingua che ogni generazione
utilizza soprattutto per identificarsi e distinguersi.
Ecco perché il vero linguaggio giovanile è quasi inafferrabile
e sfuma appena lascia i confini del gruppo a cui appartiene.
Come racconta Michele Cortelazzo, docente di linguistica
italiana all’Università di Padova
P
rofessor Cortelazzo, si
può davvero parlare di
linguaggio giovanile, o
magari di linguaggi, al
plurale?
C’è stato dibattito su questo, ma io credo
che una cosa sia certa: si può parlare
di un lessico giovanile. Ci sono alcune
parole che sono tipiche della comunicazione tra giovani e che non fanno parte del patrimonio comune della lingua
italiana. Di solito si cerca di spiegarsi
con degli esempi, ma la verità è che una
delle caratteristiche di questo linguaggio giovanile (chiamiamolo così, per
semplicità, anziché lessico) è proprio
di essere alternativo a quello comune.
Quindi nel momento in cui una parola
comincia a diffondersi fuori dalla cerchia dei giovani, a quel punto non è più
una parola caratteristica dei giovani
stessi. È una sorta di paradosso: se noi le
conosciamo, vuol dire che le parole del
lessico giovanile sono già fuoriuscite da
quella che è la loro funzione principale,
vale a dire di essere prima di tutto segnale di appartenenza al mondo giovanile e in genere a uno specifico mondo
giovanile. Perciò, in realtà, è più giusto
parlare di linguaggi, al plurale, dal mo-
Letteratura migrante
mento che solitamente ogni gruppo giovanile ha un suo lessico o per lo meno
alcuni elementi che lo caratterizzano.
Quando sono nati questi linguaggi giovanili?
L’esigenza dei giovani di avere un loro
linguaggio nasce probabilmente con la
nascita dei giovani stessi, intesi come
categoria. Perché ci sia un linguaggio
giovanile bisogna che ci sia un gruppo
giovanile che si caratterizza in quanto
tale. E l’idea che ci siano i giovani come
categoria viene soprattutto dall’ultimo
dopoguerra, quando si è allargata moltissimo quella fascia di persone che non
sono più bambini e non ancora adulti,
nel senso di persone che si guadagnano
da vivere o, come sarebbe meglio dire
oggi, si danno da fare per guadagnarsi
da vivere. Le prime tracce cospicue di
linguaggio giovanile le abbiamo avute
a partire dalla seconda metà degli anni
cinquanta e a Milano, proprio per il suo
carattere di metropoli più avanzata nel
suo ruolo di ristrutturazione dei ruoli
sociali, anche perché quello che prima
era sostanzialmente il linguaggio degli
studenti, e particolarmente degli studenti delle superiori, si stava dilatan-
Linguaggio scientifico
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Enigmistica
49
abcdefghilmno
SOCIOLINGUISTICA
do e si estendeva agli universitari e a
quella fascia “di attesa” che si ha dopo
l’università. Prima i linguaggi studenteschi avevano più le caratteristiche di
gergo in senso stretto, tipici di quelle
realtà chiuse, come i collegi, mentre non
ci sono forti attestazioni di lessico giovanile come lo intendiamo noi, qualcosa che sia anche libero e creativo e che
si alimenta di continuo. Al di là delle
forme in cui si realizza, è un fenomeno
comune a tutti i Paesi della cultura occidentale. Ce ne sono tracce ne Il giovane
successo. E uno dei bisogni del linguaggio giovanile è quello di rinnovarsi. Se
è un modo per distinguersi, i primi dai
quali ci si vuole distinguere sono gli altri gruppi giovani e in particolare quelli
immediatamente precedenti. Quindi c’è
il costante tentativo, che a volte riesce
e a volte no, di creare denominazioni
sempre nuove con un processo che è di
creazione inventiva, che viene condivisa. Ci sono parole straniere che vengono
adattate all’italiano, magari con altro significato; parole che già esistono e alle
Holden, come prima attestazione letteraria. Poi, per esempio, negli anni settanta
accade un fenomeno molto interessante:
il linguaggio giovanile scompare perché
coincide con il linguaggio politico.
quali viene dato un altro significato; parole che vengono deformate. Insomma,
ci sono alcuni modelli di composizione.
Ogni generazione, o meglio ogni coorte
di giovani, utilizza un lessico che in piccola parte è quello creativo suo proprio
e per la maggior parte viene dalla tradizione del linguaggio dei gruppi giovanili che l’hanno preceduta. La specificità
di un gruppo è legata a quante “variazioni sul tema” riesce a fare, quanto riesce ad aggiungere o a sostituire rispetto
al lessico tradizionale. E questo è legato anche alle altre forme comunicative,
come la gestualità o le “protesi” comunicative come sono state in alcuni periodi
Foto: Tania/A3/Contrasto
50
Da Dove nasce, da dove trae
origine il lessico dei giovani?
Nasce, io dico, come nascono le barzellette: prima che una barzelletta si imponga
ne sono nate probabilmente altre cinque,
magari prodotte dalla stessa persona,
che non hanno attecchito e delle quali
non sapremo mai nulla. Quindi il lessico
dei giovani nasce dall’inventiva culturale di un leader del gruppo che ottiene
ITALIANO
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Sociolinguistica
SOCIOLINGUISTICA
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il motorino, lo zainetto, il lettore di mp3.
Il giovane si caratterizza dal punto di
vista dei simboli e dei segnali, del modo
in cui si veste, degli oggetti da cui si fa
accompagnare, dalle passioni musicali e
dalla lingua: in genere un insieme in cui
tutto si tiene.
Oltre a questa funzione di identificazione del gruppo, quali altre funzioni assolve il linguaggio giovanile?
La prima è quella di identificazione del
gruppo e di esclusione degli altri gruppi. Quella che invece viene spesso vista
come funzione “criptica”, di non farsi capire, è una funzione secondaria. È
indubbio che ci sia, ma è piuttosto una
conseguenza. Poi c’è una funzione di
narcisimo della creatività, una funzione
ludica e di divertimento che è molto forte, perché gran parte del lessico giovanile è fatto di trasformazioni e di giochi
con le parole. E poi c’è anche una funzione espressiva, perché il lessico giovanile non si occupa dell’universo mondo,
non parla di tutto, ma sostanzialmente
di scuola, di amore e sesso (spesso dimostrando un po’ dell'insicurezza dei giovani, con l’uso ancora frequente di eufemismi per indicare gli organi sessuali,
che non si citano con il loro nome), il
mondo dello sballo, che forse attualmente è quello che più trova spazio nel linguaggio giovanile. E poi c’è tutta un’area
degli apprezzamenti e deprezzamenti.
questo linguaggio Lascia traccia, o nasce e poi scompare?
Lascia traccia perché alcuni elementi
diventano patrimonio condiviso della
lingua informale, basta pensare a parole
come figo. Ma anche il successo di ciao
è molto legato all’uso che ne è stato fatto
dai giovani. Molto, però, si perde. Basterebbe guardare il linguaggio giovanile
messo insieme da Ambrogio Casalegno
alcuni anni fa per la Utet e controllare
quante di quelle parole ciascuno conosce: pochissime. Quel che stupisce è che
c'è un'altra cosa che si perde. Il linguaggio giovanile è una ricchezza perché moLetteratura migrante
Foto: Marco Pesaresi/Contrasto
stra creatività, magari un po’ anarchica,
e capacità di manipolare la lingua. Poi
solo una piccola parte della popolazione
dirotta questo potenziale su usi più istituzionalizzati, come saper scrivere bene
un articolo o un post su un blog. È quasi
come se questa forza creativa fosse patrimonio più del gruppo che del singolo,
e il singolo da solo non la sapesse più
esprimere.
In un’epoca di globalizzazione,
tende a globalizzarsi anche il
linguaggio giovanile?
Sono stati individuati dei fenomeni di
mistilinguismo accentuato e fittizio:
giovani che proprio perché vivono in
gruppi di diverse provenienze producono testi che sono fatti di apporti di varie
lingue. Specialmente l’Erasmus, in Europa, ha favorito il contatto di giovani
di lingue diverse e il linguaggio giovanile nasce e si sviluppa soprattutto per
contatto. è chiaro che dipende dalla
globalizzazione, ma anche dal fatto che
le culture simili alla nostra hanno tutte
un linguaggio giovanile e quindi i giovani sono predisposti ad avere un loro
linguaggio.
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Foto: Salvatore Esposito/Contrasto
52
Il linguaggio ci dice qualcosa
sui giovani che lo usano?
Io credo che sia possibile capire qualcosa, ma è ancora un’ipotesi di lavoro,
soprattutto osservando di che cosa parla il linguaggio giovanile. Tra la fine
degli anni settanta e gli anni ottanta la
presenza di parole che riguardavano il
mondo della droga era più forte di adesso, mentre l’abbondanza di termini che
hanno a che fare con lo sballo più ingenuo, da ubriacatura, è tipica del perio-
do a cavallo tra la fine del secolo scorso
e l’inizio di questo. Però questa, ripeto,
è un’impressione e non viene da studi
empirici fondati. C’è un grado di dispersione degli ambiti semantici che rende
difficile questa analisi. Perché esiste poi
sempre il problema di attingere a questi
linguaggi per chi non fa parte del gruppo: ci dobbiamo basare sull'autocompiacimento di chi appartiene ai gruppi, che
magari lo porta a diffondere certi termini oltre il confine del gruppo stesso. •••
> Scrostati Gaggio. Dizionario storico dei linguaggi giovanili, di Renzo Ambrogio e Giovanni Casalegno, Utet - Università, 2004
> I linguaggi giovanili, Gli atti del ciclo di incontri tenuti da linguisti sul tema dell’italiano e i giovani, Accademia della Crusca, 2011
> Slangopedia Sul sito del Gruppo Espresso-Repubblica una raccolta aggiornata di vocaboli e notizie sullo slang giovanile,
aggiornato grazie al contributo della rete, http://temi.repubblica.it/espresso-slangopedia/
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Io, venditore
di italiano
di Pap Khouma
•Pap Abdoulaye Khouma,
giornalista e scrittore, è
nato a Dakar, in Senegal
ed è arrivato in Italia nel
1984. Nel 1990 ha scritto
con Oreste Pivetta il suo
primo libro, Io, venditore
di elefanti, sulla sua
esperienza di venditore
ambulante e immigrato
Foto:Alex Lorenzini
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letteratura
migrante
L’avventura linguistica di uno straniero arrivato in Italia come
ambulante e oggi scrittore nella nostra lingua, imparata tra
Lupo Alberto, Drive In, i cartelli stradali e le caserme della polizia
E
ravamo cinque ragazzi, quattro informazioni in italiano. Ma soprattutto
arrivati dal Senegal e uno dal toccava a me negoziare e giustificare la
Gambia, non parlavamo l’italia- nostra presenza illegale sul suolo italino, eravamo tutti clandestini in co le volte in cui venivamo controllaItalia e non avevamo un lavoro regolare. ti, fermati, arrestati, portati in caserma
Erano gli anni ottanta. Naturalmente i dalle pattuglie di polizia, carabinieri,
miei amici e io parlavamo due o tre lin- finanzieri o vigili urbani. In realtà pargue (tra il francese, l’inglese, il wolof, lavo una lingua che sembrava una mache è la lingua più diffusa in Senegal, o cedonia di parole in francese, spagnolo,
altre). Eravamo coscienti che imparare italiano, inglese, ma non aveva nulla a
in fretta l’italiano ci avrebbe permesso che vedere con l’esperanto. I miei amici
meglio di tirare avanti aspettando un’i- erano convinti che se venivamo rilapotetica regolarizzazione della nostra sciati senza troppe magagne era grazie
situazione giuridica e, dopo, trovare ma- alla mia “macedonia sciolta” che spacgari un lavoro, uno stipendio, una casa. ciavo per italiano. Poiché la conoscenza
Tanti immigrati arrivati
della lingua era una
da adulti, come noi, hanvia d’uscita indispen“In televisione sentivo
no imparato l’italiano
sabile, mi impegnai
la parola 'minchia'.
oralmente, parlando con
a migliorarla con i
Suonava bene e
la gente, ascoltando la
mezzi che avevo a diradio, guardando la telesposizione. Ascoltavo
cominciai a usarla
visione.
con più attenzione
in ogni circostanza"
Insieme avevamo comla radio della Peuprato in Francia una Peugeot rossa, leggevo
geot 504 di colore rosso. Giravamo per i giornali che qualche sconosciuto able strade di Emilia-Romagna, Marche e bandonava in giro già nel pomeriggio,
Umbria dentro la nostra macchina con la compravo fumetti usati: Lupo Alberto
targa di Parigi. Nella macchina teneva- di Silver e Sturmtruppen del fumettista
mo i nostri vestiti e i prodotti artigianali antimilitarista Franco Bonvicini alias
africani che cercavamo di vendere per Bonvi. Quindi scoprivo una nuova lincomprare benzina, mangiare e trovare gua e delle parole italiane nuove in mai soldi per poter dormire ogni tanto in niera divertente e le traducevo in franqualche pensione economica. Lo spazio cese o in wolof ai miei compagni.
era ridotto. Ero il più alto del gruppo di
cinque sventurati e avevo le gambe più Samba, il siciliano
lunghe perciò gli altri mi concedeva- Ho imparato tante parole italiane dino di sedermi a fianco del guidatore di vertenti anche davanti alla televisione,
turno. Non avevo la patente, come loro, soprattutto guardando insieme ai miei
però «parlavo meglio l’italiano» e il posto quattro amici Drive in, che andava in
davanti, che era più spazioso per allun- onda al sabato sera su un canale televigare le gambe, era anche più strategico sivo del Cavaliere Silvio Berlusconi. Era
per leggere i cartelli stradali e chiedere una serie di sketch di comici e di tante
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Foto: Guido Cozzi/Atlantide Phototravel/Corbis
ragazze bellissime, con scollature vertiginose e gonne millimetriche, che erano
chiamate conigliette, come le ragazze
della rivista Playboy. All’epoca avevamo
l’alibi di essere tutti maschi e giovani.
Quando guardavamo Drive in sentivamo
la parola minchia che veniva ripetuta
dai comici. Suonava bene alle orecchie
e mentre i miei amici usavano le parole
cioè, però, caspita, io credevo che minchia fosse un intercalare ancora più raffinato. Così iniziai a frapporla tra una
frase e l’altra e in ogni circostanza, per
dimostrare con orgoglio al mio interlocutore che avevo finalmente imparato
bene l’italiano. Qualche tempo dopo mio
fratello Samba mi raggiunse in Italia e
mi impegnai a insegnargli l’italiano. Un
giorno Samba, che è molto scaltro, mi
chiese in wolof: «Fratello, sai cosa significa la parola minchia?». Minchia… non
mi ero mai posto la domanda e non so
cosa significa, dissi tra me e me. Samba
proseguì: «Fratello mio, tu non sai il significato di questa parola!». Replicai con
una menzogna: «Certo che lo so. Parlo
l’italiano meglio di te». «Minchia è siciliano e ci sono circostanze in cui è meglio
evitare… fratello», disse Samba.
Oltre a ignorare il significato, io non sapevo neppure che fosse siciliano, ma non
lo dissi a Samba. Inoltre pensavo ingenuamente che se veniva detta in televisione era una parola come un’altra.
Samba aggiunse: «Ho un amico siciliano e lui mi detto il significato…». In quel
momento passarono nella mia mente
tutte le occasioni meno opportune in
cui ero stato orgoglioso di ostentarla:
con poliziotti o carabinieri, nei momenti
delicati, dicevo minchia per dimostrare
che dicevo loro la verità; all’impiegato
dell’ufficio postale, così per scambiare
una battuta; per dire di cuore “grazie
mille” ai preti che ci davano una mano
o al tranviere che mi aveva aspettato
quei secondi in più per farmi salire sul
mezzo; era un modo per fare colpo su
una ragazza appena incontrata, dimostrandole che parlavo bene l’italiano;
era un mio modo cordiale per dire buongiorno o arrivederci di qua e di là. Una
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migrante
gnifica la parola minchia… e tante altre
parole che usi a caso?».
Il monito di Samba era stato fondamentale, mi aveva spinto a usare il dizionario, i manuali di grammatica italiana, le
tavole dei verbi, ad ascoltare e a chiedere il senso delle parole che sentivo per
la prima volta e soprattutto a scoprire e
a leggere pian piano gli scrittori italiani, per citarne alcuni Pavese, Ungaretti,
Calvino, Moravia, De Luca, Mafai, Baricco, Benni, Bobbio, Levi, Ginzburg.
Negli anni ottanta e in parte all’inizio
degli anni novanta era difficile trova-
Berry Lewis/Inpicture/Corbis
sera avevo incontrato una signora di cui
avevo sentito parlare con deferenza da
nuovi amici. Era la prima volta che incontravo un personaggio così importante da quando ero in Italia. Era Rossana
Rossanda. La mia autostima era balzata
alle stelle. Cercavo di sedermi vicino a
lei prima e dopo cena e più di una volta avevo costellato le frasi della signora
con minchia. Il fratello Samba era presente alla cena e non gli avevo lasciato
lo spazio per dire una parola. Forse fu
quella sera, quando uscimmo, che mi
fece la domanda: «Fratello, sai cosa si-
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re un corso serale dove si insegnava la soussou e francese. Qui parliamo l’italingua italiana per stranieri. In ogni liano imparato oralmente da adulti, incaso era difficile conciliare i tempi per serendo il nostro background linguistico
mettere i documenti in regola, ricerca- culturale. Sono di madrelingua wolof,
re un lavoro o, quando andava meglio, sono cresciuto in un ambiente in cui si
affrontare i turni di lavoro e frequen- parlano altre lingue africane, sono stato
tare un corso serale di lingua italiana. educato nella lingua francese, ma scriBisognava arrangiarsi per imparare vo in italiano. Quando scrivo racconti
e parlare l’italiano. L’attore e scrittore o poesie in italiano attingo, in maniedi origine senegalese
ra cosciente o casuale,
residente da anni in
alle figure retoriche
Italia Mohamed Ba
che appartengono alle
"Parlavo una lingua
racconta di avere imtradizioni orali dell’Ache sembrava una
parato l’italiano ascolfrica Occidentale. Nei
macedonia di parole
tando tutti i giorni
miei libri in italiano ho
Radio Maria, una racolorato le descrizioni
in francese, spagnolo,
dio religiosa. I giorcon francesismi e woitaliano, inglese, ma non
nalisti di Radio Malofismi. Ho stravolto le
aveva nulla a che vedere
ria scandivano ogni
strutture logiche delle
con l’esperanto. I miei
parola come se fosse
frasi, scompigliato la
una breve preghiera
sintassi a volte senza
amici erano convinti che
e lui ripeteva parola
farlo appositamente,
se venivamo rilasciati
dopo parola.
costruito dei neoloera grazie alla mia
gismi italo-francesi,
Lingue di qui e di
italo-inglesi, inserito
macedonia sciolta che
altrove
tante parole in wospacciavo per italiano"
L’immigrato dall’Alof, peul: n’depp, rap,
frica subsahariana in
yaay, waaw, maam,
genere è abituato a
baay (n’depp è un rito
parlare più di una lingua, tra cui una accompagnato da canti, balli e tambuo due sono di origine europea. In Afri- ri per invocare gli spiriti, rap sono gli
ca si contano attualmente più di 2000 spiriti, yaay vuol dire mamma, waaw sì,
tra dialetti e lingue. Alcune sono scritte maam nonno o nonna, baay padre).
da secoli (l’amarico, il tigrinio, il tama- Conosco il wolof, perché è la mia lingua
zig, l’arabo… anche il wolof, il fulbe, lo materna, perché la parlo, ma la leggo con
haussa, lo yoruba, il somalo, il gikuyu, fatica e tanto meno la so scrivere perché
ecc.) altre sono orali. La maggior par- sono stato educato nella scuola francese.
te dei paesi dell’Africa Occidentale ha A questo proposito cito qualche esemconquistato l’indipendenza dalle poten- pio di “figure letterarie” o folcloristiche
ze europee, Francia e Inghilterra, tra il nella tradizione dei wolof e di altre etnie
1957 (Ghana) e il 1965 (Gambia). Sene- africane che sono spesso accompagnagal, Costa D’Avorio, Nigeria, sono diven- te da coristi, tamburi, musica. Il bakk,
tati Paesi sovrani nel 1960 e tutti hanno si svolge durante le cerimonie di lotta
conservato come lingua ufficiale quella sportiva. È un canto autocelebrativo per
del colonizzatore: inglese, francese, spa- intimidire l’avversario. Il bakk è come
gnolo, portoghese.
quando Mohamed Ali intimidiva i suoi
In Senegal, la gente parla almeno due avversari prima e dopo i combattimenti
lingue tra wolof, peul, serere, francese, dicendo più o meno: «I’m the greatest»
ecc. Sono appena tornato dalla Guinea «Sei finito», ecc. Oppure, più esattamenConakry e tutte le persone che ho in- te, è simile all’haka dei maori che abcontrato nella capitale parlano almeno biamo visto eseguire dalla squadra dequeste quattro lingue: peul, malinké, gli All Blacks durante le partite di rugby
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migrante
allo stadio. L’haka dei maori può essere
definito un bakk senegalese perfetto. Il
tagh è un panegirico con delle rime sincopate indirizzate ai valorosi, agli eroi
e anche ai potenti di turno. Si possono
anche dire e cantare temi provocatori, violenti, erotici, offensivi, blasfemi.
Il tassu è più legato al folclore e viene
esibito in occasione delle danze di festa
del matrimonio, del battesimo. Sono dei
versi rimati che possono essere leggeri
o spinti, che fanno allusione all’amore e
in maniera esplicita al sesso. Il khakhar
è una forma di tassu ma più provocatoria. I suoi versi, accompagnati o no dal
tamburo, cancellano i tabù nella lingua,
infrangono le regole del galateo, possono essere blasfemi e accompagnati da
una mimica pornografica. Nell’occasione del khakhar è permesso prendere di
mira una persona presente o un parente
e denigrarla, insultarla di fronte a un
pubblico di tutte le età. Di regola la persona presa di mira deve solo abbozzare.
Tutto dovrebbe finire senza rancore.
L’italiano, una lingua
“macedonia”
Questi e altri termini che sono radicati
e legati a un contesto geografico e culturale molto ben definito, risultano difficilmente traducibili per lo scrittore di
origine africana che scrive nella lingua
di Dante. Non è neppure facile tradurli
in francese. Quando scrivo in italiano
o in francese lascio questi termini nella loro versione originale (bakk, tassu,
tagh, ndepp, rap…) e dopo spiego il significato al lettore. Ancorché il francese, lingua coloniale, ha il vantaggio o
la sfortuna di avere convissuto con il
mosaico linguistico dell’Africa. Di fatto
nei secoli, espressioni, sintassi, lemmi
africani e di altrove si sono in qualche
modo inseriti nella lingua di Molière
e sono comunemente usati nelle letteratura e nelle poesie. Si possono vedere e leggere i poeti della négritude che
sono Leopold Sedar Senghor (Senegal),
Gontra Damas (Guyana), Aimé Césaire
(Martinica). Oppure Amadou Kourouma (Costa d’Avorio), Ampathé Ba (Mali),
Sembene Ousmane (Senegal), Ferdinand
Oyono (Camerun), ecc. Fino ad arrivare alla generazione attuale di scrittori
e saggisti francofoni dell’Africa subsahariana. Il professore Boubacar Boris
Diop (Senegal), che ha pubblicato tanti
romanzi in francese, in seguito ha scritto un romanzo in wolof, che è stato poi
tradotto in francese. «Quello che il francese ha vissuto per secoli (come l’inglese,
lo spagnolo, il portoghese), l’italiano lo
ha vissuto parallelamente all’interno con
i suoi dialetti», scrive la professoressa
Itala Vivan, studiosa di cultura e di letteratura postcoloniali e massima esperta
italiana di letteratura africana. In realtà, l’italiano è una delle lingue più contaminate d’Europa. L’italiano è una lingua “macedonia” con una fragranza di
latino. Oltre ai neologismi francesi, balcanici, tedeschi, turchi, russi e a quelli
più recenti ma più irruenti in inglese, la
lingua italiana è stata nei secoli contaminata da lingue extraeuropee. Qualche
esempio di parole arabe, berbere, persiane divenute italianissime? Azzurra,
carciofo, pigiama, caffé, valigia, cotone,
magazzini, camicia, ragazza, divano,
dogana, zucchero, arance, facchini, sciroppo, alcol, caraffa, garbo, meschino,
cifra, assassino, tara, tariffa, darsena,
limoni, albicocche, algebra, algoritmo,
zero, ammiraglio, aguzzino, tazza, baldacchino, zecca… •••
> El Ghibli, la rivista online di letteratura della migrazione diretta da Pap Khouma
http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/
> Noi italiani neri, di Pap Khouma, Baldini & Castoldi Dalai, 2010
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di Giuseppe Patota
Foto: Walter Zerla/Tips
Linguista, è docente di storia italiana
ed è autore di testi scientifici
e divulgativi sulla lingua italiana
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L'italiano all'estero conosce una diffusione sempre maggiore e l'interesse
per la nostra lingua è legato soprattutto alla straordinaria cultura di cui
è il veicolo. Un'occasione per riscoprire l'importanza dell'italiano all'interno
dei confini e ripensare al suo rapporto con le altre lingue del continente
A
ll’inizio del 2010 il Ministero degli Affari Esteri ha affidato a Claudio Giovanardi
e a Pietro Trifone il compito
di valutare, attraverso un’inchiesta su
scala mondiale, l’interesse che l’italiano
suscita fuori dei confini nazionali. L’obiettivo, già dichiarato nel titolo della
ricerca (Italiano 2010. Lingua e cultura
italiana all’estero), era ed è quello di aggiornare i risultati della precedente indagine Italiano 2000, a suo tempo affidata dallo stesso Ministero a un gruppo
di lavoro diretto da Tullio De Mauro e
formato da Massimo Vedovelli, Monica
Barni e Francesco Miraglia. I risultati della nuova ricerca sono
Insegnare l’italiano
ancora in corso di elaborazione, ma Giovanardi e Trifone ne
agli stranieri residenti
hanno anticipato i più significain Italia, o comunque
tivi in quattro diversi interventi.
gravitanti intorno alla
Da Italiano 2010 risulta che nel
2009-2010 gli Istituti Italiani di
nostra cultura, non è solo
Cultura hanno somministrato
un dovere civile ma anche
6.429 corsi di lingua italiana:
la premessa per una
quasi il doppio rispetto ai 3.548
registrati dalla precedente rileconvivenza più serena"
vazione. Dall’indagine è risultato
anche che la motivazione che ha
spinto gli utenti dei corsi a studiare la
nostra lingua è, ancor più che nel 2000,
quella culturale: l’italiano si studia in
quanto lingua che veicola una grande,
straordinaria cultura. Il che fa dire ai
due studiosi: «Oggi più di ieri, la crescita dell’interesse per la lingua italiana
nel mondo è in stretta relazione con la
crescita dell’interesse per la cultura itaITALIANO
liana […] si tratta di un messaggio importante, soprattutto di questi tempi, e
sarebbe auspicabile che i nostri politici
ne tenessero conto». Ho poco da aggiungere a queste considerazioni, se non tre
domande: quanta ricchezza produce la
somministrazione di corsi di lingua e
cultura italiana in Italia e all’estero?
Quanto potrebbe crescere il numero dei
turisti che vengono a visitare il nostro
paese, e quanto il successo del made in
Italy, se si investisse di più nelle istituzioni che garantiscono il prestigio e la
diffusione della nostra lingua? Quanti
studenti provenienti da altri Paesi, interessati allo studio delle lettere e delle arti, potremmo attirare nelle nostre
università arricchendo e potenziando
il sistema di insegnamento dell’italiano
agli stranieri, anche attraverso vecchi e
nuovi media? Naturalmente quella che
sto indicando non è una battaglia di retroguardia contro l’inglese, ma una battaglia d’avanguardia per l’italiano.
In una campagna elettorale di qualche anno fa fu agitato uno slogan che
proponeva una scuola scandita da tre
i: inglese, Internet, impresa. Quando ne
sentii parlare, fui felicissimo: finalmente, pensai, si comincia a pensare a una
scuola moderna, aperta al plurilinguismo, ai nuovi media e alle esigenze del
territorio. Poi ci ripensai. Purtroppo, chi
aveva coniato quello slogan non aveva
pensato a far precedere queste tre i, che
personalmente considero importantissime, da un’altra i, senza la quale non c’è
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
ITALIANO
inglese, non c’è
Internet, non c’è impresa che
tenga: la i di italiano. Senza una buona conoscenza della lingua nazionale
i nostri giovani non potranno andare
molto lontano. Personalmente credo
che le quasi quotidiane grida d'allarme
sull'analfabetismo di massa che colpisce
i nostri studenti siano da ridimensionare, ma non da sottovalutare. Senza una
buona conoscenza, senza una buona
competenza nella lingua italiana i giovani che frequentano le nostre scuole e
le nostre università non potranno mai
raggiungere un livello apprezzabile di
preparazione in nessuno degli ambiti
di studio in cui sono impegnati, né quel
buon livello di conoscenza e competenza nella lingua inglese che il presente
e il futuro richiedono: al contrario, finiranno coll’adoperare un italiano scorretto e un inglese approssimativo, o un
composto un po' indigesto dell’una e
dell’altra lingua. Invece, bisogna lavorare per una scuola in cui si insegnino
e si imparino un ottimo italiano, un ottimo inglese e anche una terza lingua
diversa dall'italiano e dall'inglese. Non
mi sento un visionario; e se mai lo fossi, sarei in buona compagnia. Nel sito
Letteratura migrante
dell'Unione europea,
infatti, si legge che la politica linguistica dell'Unione mira a tutelare la
diversità linguistica e a promuovere la
conoscenza delle lingue. L'obiettivo è
che ogni cittadino europeo conosca almeno altre due lingue oltre a quella materna. Il problema è che fra i tanti poteri
che l'Unione europea non ha c'è anche
quello relativo all'insegnamento delle
lingue seconde o terze nei vari Paesi: il
contenuto dei programmi di formazione, infatti, rimane compito esclusivo
dei singoli Stati membri. Stando così le
cose, la prima rivoluzione da fare è
di ordine culturale, e dobbiamo farla noi insegnanti, mostrando ai nostri studenti che
le tante lingue d’Europa sono sì
diverse, ma meno lontane fra loro
di quel che saremmo portati a pensare se non riflettessimo sulla loro
struttura e sulla loro storia. Qualche
esempio, tratto da un libro di Alberto
Nocentini programmaticamente dedicato all’Europa linguistica, mi aiuterà a
dimostrarlo. Prendiamo in considerazione una parola italiana come classe. Il
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ITALIANO
•Il padiglione dell'Italia alla
Borsa Internazionale del
Turismo.
Nella pagina accanto, il
manifesto del Festival del
cinema di Buenos Aires
Foto: Adriano Castelli/Shutterstock
/web (manifesto Buenos Aires)
suo corrispondente spagnolo è clase, il
corrispondente francese è classe, quello
inglese è class, quello tedesco è Klasse.
Ripetiamo l’esperimento con cultura,
immagine, persona, storia: avremo cultura, imagen, persona, historia in spagnolo, culture, image, personne, histoire in francese, culture, image, person,
history in inglese, Kultur, Bild, Person,
Geschichte in tedesco. Ciò che emerge a
prima vista è che i lessici delle tre lingue neolatine sono sovrapponibili, che
l’inglese concorda con questi e che il tedesco se ne discosta sì, ma non sempre.
Quel che unisce molte lingue d’Europa,
insomma, è più di quello che le divide.
C’è poi un altro motivo che impegna
tutti noi in direzione di un insegnamento più esteso e approfondito della nostra
lingua: è quello dell’integrazione. La
ben nota “questione della lingua”, per
secoli al centro del dibattito intellettuale italiano, non può considerarsi esaurita, ma solo mutata nei termini, nei
ITALIANO
contenuti e negli obiettivi: da questione
letteraria che fu fino all’Ottocento, essa
è andata via via spostandosi su un piano
più generale, investendo anche la società e la politica. A partire dalla seconda
metà del XIX secolo essa si è concretizzata nell’obiettivo del “fare linguisticamente gli italiani”, del tutto (o quasi del
tutto) realizzato soltanto alla fine del
secolo scorso. La sua versione di oggi,
“nuovissima questione della lingua”,
s’identifica a mio avviso nel problema
che segue: come favorire la conoscenza e la diffusione della lingua italiana,
premessa di qualunque possibile integrazione, tra i lavoratori stranieri che
contribuiscono alla crescita economica
(e anche demografica) del nostro Paese?
Il problema, come si può capire, è di ordine culturale, sociale e politico. Non a
caso se ne sono occupati a più riprese
sia il Presidente Emerito Carlo Azeglio
Ciampi sia il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «La prospettiva
di chi viene in Italia per studiare e per
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
ITALIANO
lavorare» dichiarò il primo nove anni fa
«deve poter essere il conseguimento della cittadinanza italiana. Dovrebbe essere
possibile ottenerla in un lasso di tempo
inferiore a quello richiesto oggi, ma condizionato ad alcuni fondamentali requisiti. Il primo di essi non può che essere
la conoscenza, sufficiente e certificata,
della lingua italiana». Qualche tempo
dopo il secondo ha scritto della necessità di aiutare «cittadini di altri Stati a
inserirsi nella nostra cultura, attraverso
gli atti comunicativi più semplici, quelli
che passano attraverso il buongiorno e
la buonasera, parole che aprono e chiudono una giornata di fatica quotidiana,
accompagnata, forse, anche da qualche
grazie ricevuto e dato». Alla fine del secolo scorso, in un intervento dedicato a
Identità linguistica e unità degli italiani,
Luca Serianni segnalava che quella «di
espandersi di là dal gruppo di parlanti
originari, diventando il secondo idioma
per alcune popolazioni del bacino mediterraneo […] e per gli immigrati nel
nostro Paese» era, per la nostra lingua,
«un’occasione da non perdere: insegnare l’italiano agli stranieri residenti in
Italia, o comunque gravitanti intorno
alla nostra cultura, non è solo un dovere civile ma anche la premessa per
una convivenza più serena». Il saggio
di Serianni è del 1997. A distanza di
sedici anni, le sue parole assumono un
valore profetico, e invitano a sostenere
tutte le iniziative che possano favorire
la conoscenza e lo studio dell’italiano,
nel mondo e in Italia.
•••
> Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico
De Martino, Laterza, 2012
> La questione della lingua per gli immigrati stranieri. Insegnare, valutare e certificare l'italiano, a cura di Monica Barni e
Andrea Villarini, Franco Angeli, 2001
> Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della cerimonia di consegna dei Diplomi di
certificazione della Società Dante Alighieri a studenti stranieri, Roma, Palazzo del Quirinale, 24 settembre 2004 www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/Ciampi/dinamico/discorso.asp?id=25365
> Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso fra stranieri, di Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli, Monica
Barni, Lorenzo Miraglia, 2002
> A che punto è lo studio dell’italiano fuori d’Italia?, di Claudio Giovanardi, Pietro Trifone, in Associazione per la Storia della
Lingua Italiana, Storia della lingua e storia dell’Italia Unita. L’italiano e lo Stato nazionale, Atti del IX Convegno ASLI, a cura
di Annalisa Nesi, Silvia Morgana, Nicoletta Maraschio, Cesati, 2011, pp. 353-371
> La nuova questione della lingua, Saggi raccolti da Oronzo Parlangèli, Paideia, 1971. Nicoletta Maraschio, 2011, pp. 353-371
> L’Europa linguistica: profilo storico e tipologico, di Alberto Nocentini, Le Monnier, 2002
> La diversità linguistica: riflessione teorica e sfida civile. Introduzione, in Lingue e diritti umani, a cura di Stefania Giannini
e Stefania Scaglione, Carocci, 2011, pp. 23-39
Letteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
63
abcdefghilmno SCIENTIFICO
LINGUAGGIO
di Maria Luisa Villa
Insegna Patologia generale
alla facoltà di Medicina
dell’Università di Milano
Illustrazione: Lele Corvi
64
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
LINGUAGGIO SCIENTIFICO
trasmettere rapidamente
i concetti della scienza
si può ottenere più
facilmente con l’uso
di un idioma comune
come l’inglese.
Ma questa è solo una
delle funzioni del
linguaggio: la ricchezza
di sfumature della
propria lingua madre
è indispensabile per
orientarsi all’interno
delle proprie mappe
mentali. Ecco perché
anche la scienza va
studiata in italiano, con
cui abbiamo imparato
a parlare, spiega una
docente universitaria
che da anni ha avviato
una riflessione su
questo tema con
i propri studenti
Letteratura migrante
C
ontrariamente all’opinione comune, che le vede come oggetto di studio privilegiato per
letterati e filosofi, il confronto
più serrato con le lingue naturali è stato impegnato per secoli dagli uomini di
scienza. La lingua degli scienziati
è altrettanto varia e fantasiosa
di quella ordinaria (basta pensare a un termine come quark),
ma ne differisce perché in essa le
parole diventano termini, dotati di un
valore tendenzialmente preciso.
La creazione di una terminologia è il
cuore del linguaggio scientifico ed è alla
base delle grandi classificazioni tassonomiche degli esseri viventi (a partire
da Linneo), nonché della riforma della
nomenclatura chimica,
realizzata sul finire
del XVIII secolo da
Lavoisier. I termini favoriscono una
comunicazione efficace, capace di superare agevolmente le
barriere nazionali e tendono a generare
l'illusione che il linguaggio della scienza sia indifferente alle singolarità delle
lingue storiche. In realtà sia la scienza
che la tecnologia continuano ad avere
bisogno delle lingue naturali per essere comprese dagli uomini. «Nessun matematico pensa per formule» affermò
con incisiva brevità Albert Einstein, e
Werner Heisenberg in Fisica e Filosofia, commentava: «Questa intrinseca
incertezza del significato […] ha portato
alla necessità delle definizioni[…] Ma le
definizioni possono venir date solo con
l’aiuto di altri concetti e così in definitiva è necessario appoggiarsi ad alcuni
concetti che sono presi come sono, non
analizzati e non definiti». In breve, la
scienza ha un rapporto complesso con il
linguaggio: essa esige di trasformare le
parole in termini e simboli di significato
univoco, ma per creare i termini,
per definirne e aggiornarne il
significato, dipende dalla ricchezza imprecisa delle parole
comuni. Il linguaggio scienti-
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Foto: Sebastian Kaulitzki/Shutterstock
La possibilità di
65
Enigmistica
66
abcdefghilmno SCIENTIFICO
LINGUAGGIO
•Qui sopra, una lezione
in inglese all'università:
l'inglese è utilizzato
in tutte le imprese
scientifiche internazionali,
dall'esplorazione dello
spazio (nella pagina
accanto l'astronauta
italiano Luca Parmitano)
alla fisica delle particelle
(nella pagina successiva,
il Premio Nobel Carlo
Rubbia). Foto: Babak Tafreshi, Twan/SPL/Tips
Foto: SSergey Nivens/Shutterstock
Andrea Merola/Splash News/Corbis
fico, codificato e ripetitivo, è utilissimo
nel lavoro quotidiano e nelle descrizioni
che non coinvolgono concetti nuovi e
cognitivamente impegnativi. La comunicazione non esaurisce però la funzione delle lingue, che servono anche per
elaborare le proprie idee, con un impegno tanto maggiore quanto più alta è
la ricchezza speculativa e il potenziale
innovativo delle stesse. In ogni disciplina, i momenti creativi sono contrassegnati dalla ricerca talvolta tormentosa
delle parole capaci di descrivere
cose mai immaginate prima e di
riplasmare la nostra visione del
mondo. Se ha successo, questa
ricerca arricchisce il linguaggio
e genera le metafore fondanti della
chimica, dell’evoluzione, della genetica,
che implicano una percezione intuitiva
della somiglianza nella diversità e perITALIANO
mettono di esplorare un campo di conoscenza nuovo, usando un campo noto
come mappa. La consapevolezza acuta
e quasi dolorosa della difficoltà di trovare le parole giuste per descrivere “in
modo definito” realtà non direttamente sperimentabili, risuona nelle famose
parole di Niels Bohr: «Siamo sospesi nel
linguaggio. Non sappiamo ciò che è giù e
ciò che è su. Nelle nostre lingue europee
ci sono oggetti ben definiti, rappresentati
dai nomi, che interagiscono tramite forze e campi, rappresentati dai verbi.
Questo linguaggio però rispecchia
il mondo newtoniano: non è adatto a comprendere il mondo della
fisica quantistica».
Nel terreno incerto dove nascono i
nuovi concetti, la scienza riscopre così
le singolarità delle lingue storiche e le
loro connessioni con il patrimonio cul-
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
LINGUAGGIO SCIENTIFICO
turale che le alimenta. Qui le lingue non
si equivalgono e, per ciascuno di noi,
quella materna ha una superiore capacità di dar corpo ai pensieri e trasformarli in parole chiare. Alla maniera di
una bussola, la lingua nativa orienta
le idee all'interno delle mappe mentali,
costruite per comprendere, assimilare e
trasformare la realtà.
Come il nome di una piazza richiama al
residente, con una precisione irraggiungibile per il nuovo arrivato, l’immagine
del reticolo di vie che se ne diramano,
così nella lingua nativa una parola ne
veicola altre ad essa associate, con una
ricchezza di collegamenti che una lingua
secondariamente appresa difficilmente ricrea. È suggestivo ricordare come
Einstein, secondo molte testimonianze,
commutasse spesso la lingua delle sue
esposizioni, e tornasse dall’inglese al tedesco, quando la discussione scientifica
toccava un punto interessante e difficile, come la spiegazione di alcuni aspetti
cruciali della relatività.
Le neuroscienze confermano le peculiarità della lingua madre e sottolineano
che la sua acquisizione, diversamente
dall’apprendimento successivo di nuove
lingue, avviene insieme all’assimilazione di conoscenze concettuali, sensoriali
e normative, che lasciano una traccia cerebrale documentabile. In una pregnante riflessione sui problemi di comprensione interlinguistica, il premio Nobel
per la chimica Harold Kroto ricorda che
il cane (dog) che lo impauriva da bambino era irrimediabilmente diverso dal
chien incontrato sui libri nei quali faticosamente e con dubbio successo aveva
tentato di imparare il francese. Ad ogni
livello, come studente o come studioso,
le operazioni intellettuali che richiedono l’assimilazione
di nuovi concetti
e nuovo sapere si
giovano del ruolo
strutturante della
lingua madre, che consente una padronanza cognitiva virtualmente impossibile in
una seconda lingua.
Letteratura migrante
Questa realtà sembra essere
ignorata da chi propone di
adottare l’inglese come
lingua franca esclusiva
dell’istruzione superiore.
Milita a favore dell’anglificazione la realtà della
scienza attuale, dove le nuove parole e i nuovi stili retorici
sono inglesi e dove le espressioni
in altre lingue si possono usare, entro
i confini nazionali, purché abbiano un
facile equivalente in inglese. I ricercatori finiscono per sentirsi a casa nella lingua inglese perché la lettura quotidiana
è in inglese, i metodi e i reagenti hanno
nomi inglesi, e spesso il lavoro di ricerca
è condiviso con lontani laboratori, dove
tutti parlano in qualche modo l’inglese. I
limiti del vissuto di familiarità appaiono
però evidenti quando i ricercatori non
anglofoni devono trovare le giuste parole e le frasi del mestiere per trasferire
con chiarezza il proprio pensiero da una
lingua all’altra. È nella verbalizzazione
che si svelano la povertà e l’approssimazione cognitiva nella comprensione dei
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
67
68
abcdefghilmno SCIENTIFICO
LINGUAGGIO
testi ed è qui
che si palesa
la distanza
tra la generica convinzione di
avere capito
e il reale livello di appropriazione del testo.
Pur avendo
studiato su
libri scritti
in inglese, e
pur essendo
capaci
di capire e
parlare questa lingua,
quando arrivano alla stesura del loro primo lavoro
in inglese, molti giovani ricercatori sperimentano la difficoltà di padroneggiarne i modelli mentali e di comprendere
i riferimenti e le citazioni implicite che
compaiono nelle parti meno tecniche e
più discorsive della letteratura scientifica. «Le nostre menti sono piene
di idee grezze, di pensieri subliminali e di spiegazioni parziali
[…] è nel processo di verbalizzazione richiesto per una riunione di lavoro o nella scrittura di un
testo che le nostre idee diventano reali»
afferma in un articolo di qualche anno
fa il premio Nobel per la chimica Roald
Hoffmann. L’uso esclusivo di una lingua
appresa secondariamente rischia di essere una zavorra che mortifica la possibilità di accesso alle risorse più vive della mente, perché non fornisce l’ambiente
cognitivo che esse reclamano. Fa ombra
alla riflessione sull’argomento la diffusa
convinzione che il possesso
della lingua madre sia un
bene gratuito e che essa si
possa accantonare e ritrovare ogni qualvolta occorra. In
realtà una lingua non più usata è condannata alla rapida atrofia. Gli scienziati non ne sono solo utenti, ma contribuiscono, ciascuno nel proprio dominio,
a plasmarla e a rinnovarla ogni giorno,
nel momento stesso in cui la usano. Nel
volgere di pochi anni l’italiano, espulso
dall’istruzione e dalla ricerca, perderebbe la capacità di esprimersi nel dominio
scientifico. Nessuno potrebbe allora più
ricorrervi per superare i passaggi cognitivamente difficili. Anche la narrazione
della scienza, necessaria per divulgare
in modo diffuso le nuove conoscenze,
diventa inefficace se il linguaggio non intercetta
l’universo culturale dei destinatari.
Questo è un punto
cruciale perché lo
scambio di informazioni, che fino a
pochi decenni addietro avveniva quasi esclusivamente tra i membri della comunità
scientifica, coinvolge ora a vario titolo l’intera società ed esige l’uso di una
lingua comune, adatta a comunicare in
modo pervasivo le conoscenze necessarie al funzionamento della società. Molti
temi come l’atomo, l’ambiente, il genoma, con i loro correlati etici, pongono
problemi che dominano il dibattito collettivo, trasformandosi spesso in quesiti
referendari. Gli scienziati non possono
ignorare questi problemi e sono chiamati a dedicare una rinnovata attenzione
ai problemi del linguaggio e della lingua
usata per comunicarli.
•••
> L'inglese non basta. Una lingua per la società, di Maria Luisa Villa, Bruno Mondadori, 2013
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
linguistica computazionale
69
di Mirko degli Esposti
Direttore del Dipartimento
di Matematica dell’Università
di Bologna ed esperto
di teoria dell’informazione
Che cosa hanno a che fare lo stile di un autore
e l’analisi di un testo con i programmi che
Foto: Tetra Images/Corbis
comprimono i file? Si può davvero capire chi ha
scritto un libro solo grazie a un modello statistico?
Storia e promesse della linguistica computazionale
Letteratura migrante
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
70
abcdefghilmno computazionale
linguistica
I
linguaggi sono sistemi estremamente complessi, tutt'altro che
statici o immobili nel tempo. I
linguaggi nascono, si evolvono, si
mescolano tra di loro, si trasformano
e a volte muoiono, scomparendo. I linguaggi sono fatti da parole e anche le
parole hanno una loro vita che segue e
si adegua agli eventi sociali, storici e di
opinione. Linguisti, semiotici, filologi,
neuroscienziati e linguisti computazionali, solo per citarne alcuni, si sono dedicati allo studio del linguaggio, di come
si apprende, di come si evolve e di come si
trasforma. Ma da qualche tempo, e sempre più spesso, anche i matematici si sono
avvicinati a tali questioni, per cercare di
comprenderle, per crearne dei modelli e
per misurarne quantitativamente i fenomeni e i processi coinvolti. Un testo, per
esempio un libro o un romanzo, è (almeno per un matematico, ma non solo)
una stringa/sequenza unidimensionale
di caratteri, presi da un alfabeto fatto
di lettere, numeri e caratteri particolari
(lo spazio incluso). Ovviamente la sequenza è ben lungi dall’essere aleatoria,
le lettere si mettono insieme per motivi
fonetici, le sillabe si uniscono per vincoli
sintattici e grammaticali, le parole sono
legate (correlate, in termini più rigorosi) grazie alla semantica, all’argomento,
alla storia che si sta raccontando. Il tutto
condizionato dalla scelta dell’autore che
seleziona le parole e il loro ordine anche
ITALIANO
in funzione dello stile e del suo animo.
Interpretare e comprendere automaticamente il linguaggio scritto, estrarne i
contenuti e catalogarne l’informazione
contenuta è l’obiettivo principale della linguistica computazionale e degli
esperti di Natural Language Processing
(NLP). Questo lavoro è fortemente dettato e condizionato da naturali esigenze
pratiche dettate dal recente “boom digitale”. Ma vi sono altre questioni, forse
più fondamentali, che ricercatori provenienti da diverse aree si stanno ponendo
e investigando. Per esempio se sia possibile misurare lo stile di un autore. Se
sia possibile che, al di là dell’argomento
e della storia che sta raccontando, ciascun autore lasci una traccia, una sua
impronta digitale che sia possibile misurare e che ci permetta di riconoscerlo.
Insomma, possiamo capire chi sia l’autore di un testo semplicemente misurando delle quantità contenute nel testo? E
possiamo studiare, anche matematicamente, lo stesso processo creativo che
porta a un testo scritto? Possiamo capire
come si è evoluto un testo classico, un
testo sottoposto a diverse versioni dal
suo autore, tramandato nei secoli attraverso operazioni di copiatura (si pensi
agli amanuensi), spesso non prive di interventi e di modifiche, a volte casuali,
a volte volute?
Non è del tutto assurdo che certi argomenti vengano affrontati con occhi puramente (o quasi) matematici. Creatività
significa generazione di nuove strutture, originali e coerenti, ottenute combinando elementi essenziali (le parole ad
esempio) attraverso regole. Ma la generazione di strutture è esattamente quello
che un matematico studia e fa quotidianamente (più o meno, diciamo) e alcuni
di noi ritengono che certi aspetti legati
alla creatività, allo “stile” (qualunque
cosa significhi) e a concetti simili possano essere tradotti in modelli, quantificati e misurati. Ovviamente dire che
ogni autore possiede uno stile unico e
riconoscibile, misurabile precisamente
in ogni sua opera, non è solo una dichiarazione scientificamente scarsa, ma pro-
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
linguistica computazionale
71
Foto: Richard Ransier/Corbis
IMPARARE SEMPRE
babilmente anche del tutto errata. Però
non si può negare che in ogni processo
creativo nulla viene veramente generato
dal nulla e ogni processo di creazione di
un qualche contenuto (come un testo) è
il risultato di una complessa interazione
tra l’esperienza e le capacità dell’autore
sviluppate nel tempo, tra ciò che l’autore
ha creato fino a quel momento e l’argomento di cui sta parlando, il suo desiderio di essere originale e certamente
anche molti altri elementi.
Proprio per questo non è del tutto folle
immaginare che esistono certi pattern
che caratterizzano lo stile dell’autore,
celati all’interno di ogni sua opera. Quasi certamente questo non sarà sufficiente
per individuare e discriminare l’autore
rispetto al resto dell’universo, ma probabilmente (ed è quello che accade in realtà) questi pattern sono sufficienti per
identificare e distinguere l’autore all’inLetteratura migrante
terno di un numero finito e coerente di
possibili autori. Più precisamente, noi
pensiamo che certe quantità astratte, un
poco più generali delle usuali strutture
semantiche o sintattiche (ad esempio, le
parole), contengano in effetti quella informazione necessaria per discriminare
un autore da altri. Questo è essenzialmente l’obiettivo della cosiddetta Authorship Attribution, un'area di ricerca
piuttosto antica, oggi all’intersezione tra
filologia, informatica e, per noi, matematica e fisica. Uno dei passi cruciali
nella storia, ormai piuttosto lunga, di
questa disciplina risale al lavoro del fisico americano Thomas Corwin Mendenhall (1841-1924), che nel suo articolo
The characteristic curves of composition
del 1887 fu attratto dalla similarità tra
le distribuzioni statistiche delle lunghezze delle parole (quante parole ci
sono lunghe 1, 2, 3 caratteri, e così via)
e gli spettri generati da quella che era
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
72
abcdefghilmno computazionale
linguistica
•Platone, Antonio Gramsci
e William Shakespeare sono
tre casi di autori ai quali è
stata applicata la linguistica
computazionale per definire
l'attribuzione delle opere o,
nel caso del filosofo greco,
definire la loro cronologia.
Foto: Platone e Shakespeare/Photos.com;
Gramsci/Contrasto
una tecnica innovativa e molto discussa
nel XIX secolo, l’analisi spettroscopica.
Ora si è capito che se si vogliono affrontare problemi quale il riconoscimento
dell’autore o l'analisi dei suoi sentimenti
o del suo stato d’animo è utile abbandonare la parola quale elemento fondamentale del testo e rivolgere l'attenzione alle sequenze arbitrarie di caratteri.
Assumere che un testo è “solamente”
una sequenza di simboli significa non
tenere in considerazione il contenuto
del testo o i suoi aspetti grammaticali:
lettere dell’alfabeto, segni di interpunzione, spazi tra le parole sono soltanto
simboli astratti, senza una gerarchia.
Questo approccio trova le sue radici nella Teoria dell’Informazione e ha aperto
significative promettenti prospettive.
La Teoria dell’Informazione, nata nel
Quanti bit fanno una lettera?
L’unita di misura dell’informazione è il bit; la misura dell’informazione quando si sceglie tra due
elementi alternativi: on/off, aperto/chiuso, giusto/sbagliato, vero/falso, 0/1 (che sono i due simboli
matematici del sistema binario). Con un bit possiamo esprimere due diverse affermazioni; con due
bit, possiamo “esprimere” quattro lettere (nel sistema binario: 00, 01, 10, 11); con tre bit possiamo
descrivere otto lettere, e cosi via. Il contenuto informativo rappresentato da otto bit e detto byte; con
un byte è possibile rappresentate 28 =256 lettere differenti e con 256 possibilità tutto l’intero alfabeto
di un linguaggio occidentale può essere codificato; infatti le lettere (incluse le maiuscole, le lettere
accentate, i numeri e i simboli) sono sempre meno di 256. è possibile immaginare le codifiche più
strane, ad esempio per la sequenza TTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTTT
(50 volte T) , il contenuto di informazione è di 400 bits se codifichiamo il messaggio usando l’alfabeto
latino (50 lettere per 8 bit per ogni lettera), mentre è solo di pochi bit se la codifichiamo con un
linguaggio di programmazione che dice “scrivi T 50 volte”. La domanda è quindi: qual è il vero
contenuto informativo della sequenza?
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
linguistica computazionale
IMPARARE SEMPRE
Le biblioteche digitali
Siamo sommersi da un diluvio digitale: ogni giorno milioni di persone scrivono email, chattano,
taggano, bloggano, producendo un’enorme quantità di dati digitali, spesso sotto forma di
informazione testuale. Informazione che narra storie, esprime opinioni, riporta dati, scatena
accesi dibattiti, ecc. D’altra parte, esiste un enorme patrimonio digitale di testi classici e letterari,
disponibili ed accessibili a tutti. Per esempio Progetto Gutenberg (http://www.gutenberg.org):
un progetto iniziato nel lontano 1971 con l’obiettivo di creare un'enorme biblioteca digitale,
liberamente accessibile. Attualmente raccoglie migliaia e migliaia di testi scritti, non solo in inglese,
e rappresenta uno dei patrimoni digitali sulla letteratura (contemporanea e non) più importanti.
Liber Liber (http://www.liberliber.it) è un progetto di biblioteca digitale interamente italiano, avviato
nel 1994. Attualmente contiene diverse migliaia di testi, prevalentemente classici della letteratura
italiana ma anche - con l'autorizzazione dei detentori dei diritti - alcune opere contemporanee.
Thesaurus Linguae Graecae (TLG, http://www.tlg.uci.edu) è il più importante corpus digitale di testi
greci antichi. Progetto iniziato nel 1972 dalla Università californiana di Irvine. Infine, Perseus
Digital Library (http://www.perseus.tufts.edu) è una libreria digitale: iniziata nel 1985, contiene
un importante patrimonio di testi in greco ed in latino ed è dotata di numerosi strumenti per la
navigazione e l'esplorazione dei documenti.
1948, è quella teoria che risolve il problema di definire matematicamente il
contenuto di informazione di un messaggio, per esempio un testo o più generalmente una sequenza arbitraria di
simboli. Nel 1948 Claude E. Shannon
determinò esattamente il contenuto di
informazione di un messaggio come il
numero minimo di bit necessari per trasmetterlo completamente e introdusse
il concetto di entropia di un messaggio
come il numero minimo di bit per caratteri necessari per trasmettere tale informazione.
Può sembrare un po’ esotico, ma in effetti tutti noi usiamo quotidianamente
dei programmi, degli algoritmi, che automaticamente cercano di determinare il
numero di bit minimo necessario: sono
i cosiddetti compressori o zippatori (ad
esempio Winzip, Gzip o Bzip2). L’evoluzione di queste idee ha portato allo sviluppo di algoritmi per l’attribuzione di
un testo a un autore basati proprio sull’idea di comprimere l’informazione di un
Letteratura migrante
testo usando (in poche parole) le informazioni dei possibili autori che si conoscono. Più precisamente, sviluppando le
idee di Shannon è possibile ottenere degli strumenti efficienti per affrontare il
problema dell’Autorship Attibution. Per
esempio il concetto di entropia relativa.
Ma a questo punto, almeno dal punto di
vista matematico, la vicenda diventa un
po’ complicata ed è forse più utile soffermarsi su qualche esempio concreto. I
casi famosi di attribuzione d’autore che
coinvolgono testi e autori classici sono
numerosi, ma tra tutti emblematico è
forse il caso di Platone che ha rappresentato, per secoli, stimolo allo sviluppo
di diversi approcci all’attribuzione. Fu
proprio lo studio dell’ordine cronologico dei Dialoghi di Platone che nel 1897
portò il filologo Wincenty Lutoslawski
a introdurre il termine e il concetto di
stilometria, misurando e studiando numerose costruzioni linguistiche riscontrabili all’interno dei testi del filosofo.
Linguaggio scientifico
Linguistica computazionale
Enigmistica
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74
abcdefghilmno computazionale
linguistica
L’algoritmo che racconta i cambiamenti
Giorno dopo giorno si diffondono sofisticati strumenti per l’analisi dei testi digitalizzati
e per lo studio dell’evoluzione dei linguaggi. Primo fra tutti il recente Google Ngram Viewer
(http://books.google.com/ngrams): un simpatico strumento grafico che permette di seguire
l’evoluzione nel tempo dell’uso di parole, combinazioni di parole o intere frasi (ngrams).
In continua crescita, con un database iniziale di 5,2 milioni di libri digitali (prevalentemente in
lingua inglese), originariamente pubblicati tra il 1500 e oggi, Google Ngram Viewer permette di
riportare su dei grafici la frequenza di uso di una o più parole date, e di svelare così sia fenomeni
di evoluzione del linguaggio sia fenomeni legati al diverso uso delle parole, anche in relazione a
eventi sociali o storici. Immagino possa essere un interessante strumento per curiosi esperimenti
anche in una classe.
Fu ancora il problema della cronologia
degli scritti di Platone che portò David Roxbee Cox e Leonard Brandwood
nel 1959 a caratterizzare lo stile essenzialmente attraverso la statistica delle
cinque ultime sillabe di ciascuna frase, evidenziando differenze quantitative ad esempio tra La Repubblica e le
Leggi”. Ma forse il salto
più significativo av“Creatività significa generazione
venne nel 1989 quando
Gerard Ledger, ignodi nuove strutture,
rando completamente la
originali e coerenti, ottenute
sintattica e la semantica
combinando elementi elementari
delle parole, pubblicò Reattraverso regole"
counting Plato: A computer Analysis of Plato’s
Style, dove introdusse
metodi e criteri specifici per l’analisi
del testo attraverso strumenti informatici. È proprio a cavallo dell'inizio del
nuovo secolo che l’analisi quantitativa
si consolidò, anche con la convinzione
che i testi contengano all’interno delle strutture matematiche che possono
essere (matematicamente) descritte. Un
Guarda due brevi lezioni del
professor Giacomo Ferrari sulla
esempio più recente è quello del ricolinguistica computazionale
noscimento di articoli anonimi, probabilmente scritti da Antonio Gramsci.
Su iniziativa della Fondazione Istituto
Gramsci qualche anno fa si formò un
gruppo di ricercatori per affrontare,
http://link.pearson.it/1C39A0FA
con tecniche matematiche e quantitatiITALIANO
ve, il problema di riconoscere scritti di
Gramsci all’interno di un corpus di articoli anonimi pubblicati tra il 1913 e il
1926 su quotidiani con i quali Gramsci
collaborava (Il Grido del Popolo, Avanti!, La Città Futura e altri) per offrire
agli studiosi altro materiale (presumibilmente) gramsciano.
Partendo da un corpus di testi certamente scritti da Gramsci è stato così
sviluppato un metodo legato alle frequenze di sequenze di caratteri e alla
teoria degli algoritmi di compressione
che ha permesso di definire una serie di
strumenti di calcolo in grado di misurare e quantificare la similarità di stile
esistente tra i testi. Questo metodo, insieme a una serie di test controllati, ha
portato alla creazione di un algoritmo
per la misurazione della “gramscianità”
di un testo di notevole efficacia, che è
stato poi applicato all’analisi di centinaia di articoli anonimi e che ha permesso di svelare un numero cospicuo di
articoli riconosciuti come gramsciani e
offerti all’analisi degli studiosi. È ancora ben lontano dall'essere un metodo
universale, però ha permesso anche di
affrontare una lunga disputa su scritti
contesi tra due padri fondatori della cristianità del IV secolo, Gregorio di Nissa
e suo fratello San Basilio Magno.
•••
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
Enigmistica
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Foto: Mauricio Santana/Corbis
PARLARe è un po'
di Ennio Peres
Matematico, divulgatore
scientifico ed enigmista,
preferisce definirsi "giocologo".
È autore di molti libri sui
giochi linguistici e matematici
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Enigmistica
76
abcdefghilmno
Enigmistica
I modi per divertirsi con la lingua sono moltissimi, anche se tutti
i giochi possono essere raggruppati in poche, semplici categorie.
Ciascun tipo di gioco, poi, può essere declinato in infiniti livelli
di difficoltà. Compreso il classico cruciverba, che può diventare
un percorso a enigmi
Foto: Jane Sterrett/Images.com/Corbis
L
e parole costituiscono un insuperabile strumento ludico, non
solo per il vastissimo assortimento con cui è possibile reperirle, ma anche per le loro caratteristiche
peculiari. Una parola, analogamente a
ogni altro simbolo di comunicazione, è
contraddistinta dall’unione di due principali elementi: il significante (la forma
ortografica che assume la parola); il significato (il contenuto semantico trasmesso dalla parola). L’associazione tra
significato e significante non è legata ad
alcuna legge naturale, come dimostra
la grande varietà di idiomi parlati sulla
Terra. Di conseguenza, soprattutto nelle
lingue basate su un alfabeto, è possibile
ITALIANO
che più significanti corrispondano a uno
stesso significato. Per esempio, ragionare
– meditare – ponderare – riflettere – considerare hanno tutti il medesimo significato di pensare; abitazione – alloggio
– dimora – domicilio – residenza hanno
il medesimo significato di casa. È anche
possibile, però, che a uno stesso significante corrisponda potenzialmente più di
un significato, come nel caso di aria, che
significa espressione apparente – miscuglio gassoso, inodore e insapore – motivo
musicale oppure capitale, che significa
molto importante – somma di denaro –
città principale di uno Stato. In linea
di massima, i giochi linguistici possono
essere suddivisi in due principali categorie: giochi di parole, che richiedono
di agire sul significato o sul significante
delle parole (indovinelli, crittografie, rebus, anagrammi, metagrammi, Scrabble,
Paroliamo, Ruzzle, e così via); giochi con
le parole, che vengono effettuati, manipolando degli insiemi di parole, senza
modificarne il significato o il significante (acrostici, lipogrammi, tautogrammi,
crucipuzzle, cruciverba, Abaco–zuzzerellone, Blablabla, Taboo, e così via). La
categoria dei giochi di parole può essere suddivisa, a sua volta, in tre gruppi:
giochi sui significati, che sfruttano essenzialmente i potenziali significati attribuibili alle parole, indipendentemente
da come devono essere scritte; giochi
sui significanti, che richiedono di agire
sulla struttura ortografica delle parole,
senza entrare nel merito dei loro possibili significati; giochi misti, che ricorrono,
in misura variabile, a entrambi i mecca•••
nismi precedenti.
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
Enigmistica
Esempio di gioco sui significatI (Perdere i sensi)
Cercate di collegare ciascuna delle seguenti cinque coppie di sostantivi, mediante una catena di sinonimi, più corta possibile (ad esempio, è possibile passare da gioco a soluzione, utilizzando due soli sinonimi
intermedi, nel seguente modo: gioco – mossa – risoluzione – soluzione).
1. aula – requisito
2. cuscino – grasso
3. lento – trasmesso
4. ramo – contrasto
5. strada – correzione
Esempio di gioco sui significanti
(Boggle)
Cercate di estrarre dal seguente schema,
almeno dodici parole, composte da non
meno di otto lettere, rispettando le seguenti regole:
– ogni parola deve essere formata da
una concatenazione di lettere poste in
caselle confinanti (in qualsiasi direzione: orizzontale, verticale, o diagonale);
– ciascuna concatenazione non può
passare per una stessa casella più di
una volta.
Soluzione
Esempio di gioco misto (Detti ristretti)
Da ognuna delle seguenti successioni di consonanti, cercate di risalire all’enunciato di un popolare
proverbio, inserendo delle opportune vocali, oltre a eventuali apostrofi, accenti e virgole. Ad esempio:
RDBNCHRDLTM → RIDE BENE CHI RIDE ULTIMO
1. NNCDSNZTR
2. CHFDSFPRTR
3. SNNZPPPNBGNT
4. CHDRMNNPGLPSC
5. LCCZNCNFRMLRGL
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Soluzioni
Linguistica computazionale
Enigmistica
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78
abcdefghilmno
Enigmistica
Foto: icponline
ITALIANO
Tecnologia della comunicazione
Sociolinguistica
Enigmistica
IMPARARE SEMPRE
Le potenzialità del Cruciverba
Il gioco con le parole più praticato e conosciuto nel mondo occidentale, in base a sondaggi attendibili, risulta essere il cruciverba. Gli enigmisti più intransigenti, però, non lo amano molto in quanto, a loro parere, il
procedimento risolutivo non richiede alcun tipo di ragionamento, ma solo uno sforzo mnemonico. A parte
il fatto che la memoria è una componente fondamentale dell’intelligenza, in genere è necessario elaborare
delle considerazioni logiche per riuscire a completare lo schema di un cruciverba non banale. In assoluto,
comunque, è sempre possibile trasformare una qualsiasi potenziale definizione in un piccolo enigma da
risolvere. Se un’impostazione del genere viene esasperata, la soluzione del gioco diventa piuttosto ardua,
come nel seguente esempio, dove ogni definizione è costruita su un doppio senso, più o meno criptico.
Orizzontali: 1. Uno a zero – 7. Dolce romanzo – 13. Scopone scientifico – 15.
Sapere antico – 16. Esercizio di spirito –
17. Comportano tempi lunghi – 18. Bella,
questa! – 19. Principio di snobismo – 20.
Parità sanitaria – 21. Agili note – 22. Andato, tempo fa – 23. Tesi senza pari – 24.
Versi di tono elevato – 25. Responsabile di
geniali trasmissioni – 26. Rombo significante – 28. Tema di concetto – 30. Affettati di alta classe – 32. Periodo vissuto in
Inghilterra – 33. Scrittura automatica.
Verticali: 1. Capo estremo – 2. Piccola
stanza dei bottoni – 3. Giro di boa – 4.
Spinta non comune – 5. Grazie tante – 6.
Tettoia senza tetti – 7. Baca il baco – 8.
Non finisce qui – 9. Legato a grappoli –
10. È comune nei Pirenei – 11. Fissò, per
primo, il Sole e le stelle – 12. Rinomato
luogo di ritrovo – 14. Passa tutti i giorni
per Washington – 18. Lo stato dei castori –
20. Atlante dell'antica Roma – 21. Calcolo
operato – 22. Umanità eschimese – 24. Facoltà di passaggio – 25. Assegnati di fatto – 27. Tanto è lo stesso – 28. Cuscinetto
inglese – 29. Aria francese – 31. Fine del
piacere...
> L'ultimo libro di Ennio Peres, È l'Enigmistica, bellezza! Lettere e cifre per allenare la mente, Ponte alle Grazie, 2012. > Il cruciverba più difficile del mondo e altri giochi enigmistici online di Ennio Peres, www.parole.tv/xw/cruciperes.asp.
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79
eppur si muove
Un semplice computer messo a disposizione
di bambini e ragazzi là dove ogni forma di
istruzione manca può diventare il punto di partenza
di un modo nuovo di apprendere e trasmettere
conoscenza. È l’avventura di Hole in the Wall,
IMPARARE SEMPRE
eppur si muove
81
di Donato Ramani
Foto: Arco Digital Images / Consigli
che dalle periferie urbane dell’India
ha raggiunto altre aree del mondo
in cui l’istruzione fatica ad aprirsi
un varco. E adesso vuole proporsi
come vero progetto educativo
82
eppur si muove
I
•In queste pagine alcune
immagini dell'esperienza di
Hole in the wall in India.
Nella pagina a destra, Sugata
Mitra in mezzo ai bambini
davanti a una postazione.
Foto: Sugata Mitra, NIIT Limited,
India and Newcastle University, UK
l primo esperimento si svolse nello slum
di Kalkaji, Delhi. Correva l’anno 1999
e Sugata Mitra, da Calcutta, fisico di
formazione e uomo assai curioso, allora impiegato presso la NIIT Ldt, compagnia
pubblica dedicata alle tecnologie dell’informazione, assieme ad alcuni colleghi volle
mettere alla prova lì, in un contesto dei più
disagiati, un’idea coraggiosa. Verificare cioè
le potenzialità di un approccio pedagogico
innovativo, oggi battezzato Educazione minimamente invasiva, basato su dinamiche
del tutto diverse da quelle universalmente
adottate. I concetti fondanti che caratterizzavano quella prima impresa erano pochi ma
sconvolgenti: bambini protagonisti e indipendenti, niente adulti in giro, nessuna valutazione, nessuna costrizione ma, anzi, libertà
assoluta di azione. Oltre a uno strumento del
tutto fuori contesto: un computer inserito in
una cabina posizionata in uno spazio pubblico e costruita per permetterne l’uso solo
ai più piccoli: «I bambini dello slum di Kalkaji
non avevano mai visto un computer, non conoscevano Internet, non parlavano l’inglese,
a malapena andavano a scuola. Ciò che scoprimmo allora e in tutti gli esperimenti che
si sono succeduti negli anni è che, semplicemente, i bambini imparano ciò che vogliono
imparare, ovvero ciò che gli interessa» ha
spiegato Sugata Mitra. Le immagini di un
breve video tratto da quel primo test valgono
più di mille spiegazioni: mostrano un bambino di otto anni che, nelle parole di Mitra
«insegna alla sua studentessa di sei come si fa
a navigare in rete». Senza tutor, senza istruzioni, ma con la semplice curiosità e la collaborazione reciproca i bambini di Kalkaji
erano diventati in poco tempo dei
navigatori provetti. Con buona sintesi
l’iniziativa fu denominata Hole-in-theWall che significa, letteralmente, buco
nel muro. Un buco che da quel primo
test, Mitra e l’organizzazione HiWEL
(Hole-in-the-Wall-Education-Limited), nata
nel 2001, hanno saputo riempire negli anni
di ricerche e risultati raccolti negli angoli più
remoti dell’India, dagli slum delle grandi metropoli alle zone rurali del Sud Africa o della
Cambogia. Verificando ogni volta che i ragazzi, in gruppo, indipendentemente da chi
fossero e dove si trovassero, imparavano a
utilizzare il computer da soli, in pochissimo
tempo, capendone le potenzialità, ricavando
le informazioni per loro interessanti e utilizzando le funzionalità. Un esempio? Dopo
sole quattro ore un gruppo di ragazzi di un
villaggio del Rajasthan era stato in grado di
registrare la propria musica e di riascoltarla tutti insieme. Fu su questa base che partì
un progetto decisamente più ambizioso, che
affonda le radici in un’osservazione dello
stesso Sugata Mitra: «In ogni Paese ci sono
luoghi in cui non esistono buone scuole e in
cui i buoni insegnanti non vogliono andare.
Eppure è proprio lì che una buona educazione
è davvero necessaria». È ancor più vero nei
Paesi in via di sviluppo. Il contesto indiano,
dove l’iniziativa è nata, rappresenta in questo
senso un ottimo esempio. In una popolazione
che supera abbondantemente il miliardo, gli
sforzi che il governo ha messo in campo per
assicurare un’educazione elementare a tutti i
bambini dai 6 ai 14 anni sono stati imponenti ma purtroppo ancora inefficaci. «Un sogno
eppur si muove
IMPARARE SEMPRE
ancora lontano» lo definiscono Ritu Dangwal
e Suman Gope dell’organizzazione HiWEL in
un loro articolo apparso sulla rivista IJEDICT
(International Journal of Education and Development using Information and Communication Technology). Povertà e pregiudizi ancora
presenti, 600.000 villaggi in cui strutture e
personale docente sono totalmente inadeguati favoriscono il precoce abbandono della
scuola da parte dei ragazzi. Secondo le ricerche, nel 2005 erano 40 milioni i bambini
di età compresa tra i 6 e i 14 anni che non
andavano a scuola, un quinto del totale. Si
tratta soprattutto di bambine, di ragazzi lavoratori, disabili o cresciuti in contesti disagiati, di giovanissimi appartenenti alle classi
più basse della popolazione, spesso ancora
emarginate per ragioni culturali.
Un network di bambini che imparano
Le nuove tecnologie o, per meglio dire, i sistemi educativi basati sull’ICT vengono visti da tempo come un’alternativa possibile,
funzionale, efficace ed economicamente sostenibile contro l’analfabetismo. L’approccio
di HiWEL e di Sugata Mitra, nel frattempo
diventato professore di Tecnologie dell’Educazione all’Università di Newcastle, si è
mossa proprio su questa strada, percorrendola però con mezzi e approcci che rivedono radicalmente l’intero processo didattico.
«Una nuova pedagogia», così è stato descritto il nuovo modello. Negli anni, le strade, i
luoghi pubblici, i cortili delle scuole dell’Asia
e dell’Africa hanno visto il fiorire di centinaia di Hole-in-the-Wall-Education-Limited
Learning Station, postazioni con una serie di
computer equipaggiati con materiale didattico di ogni tipo a coprire un vasto spettro
di discipline: dalla matematica all’inglese alle
scienze sociali all’alfabetizzazione informatica. Ad utilizzarli, dicono le ricerche, sono
soprattutto i ragazzi delle classi più indigenti che, scrivono Dangwal e Gope, «non
solo imparano a chattare, mandare e-mail,
giocare. Ma acquisiscono anche un’istruzione
di carattere formale». Il tutto in un contesto
collaborativo, da pari a pari. Perché ognuno impara dall’altro, ogni bambino costruisce «un network di persone creato apposta
per ottenere informazioni e acquisire nuove
competenze di carattere educativo, sociale,
informativo ed emotivo».
Attorno alle Hole-in-the-Wall-EducationLimited Learning Station si sviluppa, in sostanza, un ambiente in cui ogni bambino è
Guarda il video della TED
conference 2013 di Sugata Mitra
http://link.pearson.it/B5E5C920
83
84
eppur si muove
“I ragazzi delle classi
più indigenti non
solo imparano a
chattare, mandare
e-mail, giocare. Ma
acquisiscono anche
un’istruzione di
carattere formale”
un attivo “produttore di significati”, fluido e
informale, in cui l’adulto è estromesso dalla
stessa architettura della stazione perché un
coperchio costruito all’altezza giusta impedisce a chi è troppo cresciuto di approcciarsi
ai PC. L’«Educazione minimamente invasiva»
teorizzata da Mitra, insomma, costruisce
un’isola a misura di bambino, donandogli uno
spazio proprio che non solo aumenta la sua
istruzione colmando le lacune lì dove il sistema non riesce adeguatamente ad arrivare.
Ma agisce sull’elemento più prezioso e raro,
quello che il contesto scolastico, culturale,
sociale non è in grado di trasmettere, causando ulteriore emarginazione: la motivazione a imparare. Un processo che permette di
sviluppare anche un altro fattore: la cosiddetta self-regulation, intesa come la capacità di pianificare, monitorare e modificare il
sapere, di gestire e controllare i propri sforzi
per raggiungere l’obiettivo e infine di imparare, ricordare e capire. Un’abitudine all’autogestione che avrà influenze positive non
solo sulle performance didattiche ma anche
sul comportamento come individui inseriti in
un tessuto sociale nel presente e nel futuro.
Che poi i ragazzi lasciati a loro stessi con le
Learning Station siano stati capaci di raggiungere obiettivi insperati, imparando concetti anche di grande complessità, ci sono
una quantità di esperimenti a dimostrarlo.
Grazie ai risultati raggiunti, l’esperienza di
HiWEL ha superato altri confini - nel 2011 è
sbarcata in Bhutan e ha raggiunto anche la
Repubblica Centrafricana e lo Zimbabwe - e
si è arricchita di nuove collaborazioni. Come
quella con Stichting Child Tuition, organizzazione olandese per la lotta all’analfabetismo
con cui sono state condotte con successo
delle sperimentazioni per l’insegnamento
dell’inglese attraverso software appositamente costruiti nello slum di Delhi così come
nel villaggio tribale di Hemalkasa. Mentre
altri progetti stanno portando l’esperienza
acquisita con Hole-in-the-Wall all’interno
delle pareti della scuola, come supporto alla
didattica ma anche come un modo davvero
nuovo di interpretarla. È questa la strada che
lo stesso Sugara Mitra sta perseguendo oggi,
testandolo nelle scuole di tutto il mondo.
Organizzazione in gruppi, ognuno con un
computer a disposizione, e alcune grandi domande a cui trovare risposta: questo
l’approccio. Una variazione del modello
Hole-in-the-Wall che, negli esperimenti
dello studioso, hanno dato frutti importanti
nell’apprendimento a breve e a lungo termine.
Protagonisti della propria educazione
Curiosità, motivazione, collaborazione, approccio peer-to-peer, assieme alle potenzialità di Internet, nella visione di Mitra sono gli
ingredienti di un mondo nuovo, di un’istruzione nuova, in cui l’educazione è un sistema
che si auto-organizza, in cui l’adulto ha la
funzione di guida supportiva e incoraggiante, e non più minacciosa, nell’aiutare il ragazzo a indagare delle domande intriganti e
a trovare, da solo, le risposte. E un sistema
in cui l’apprendimento è un fenomeno emergente, come una semplice e naturale conseguenza. È il Self-Organized Learning Environment (SOLE), un’evoluzione del modello
educativo sperimentato per le strade della
periferia del mondo, sviluppato dal vulcanico
Mitra e pronto a scuotere dalle fondamenta
eppur si muove
IMPARARE SEMPRE
La nuova sfida: provarci tutti, ovunque
> Si chiama SOLE, Self-Organized Learning Environment, ed è la nuova idea di Sugata Mitra.
Per capire cos’è, forse, è più semplice dire come funziona: «Un SOLE nasce ogni qualvolta docenti e
genitori incoraggiano i ragazzi a lavorare in gruppo per rispondere alle loro impellenti domande usando
Internet». In questo modo, secondo i suoi creatori, la caccia alla risposta si trasformerà in un vero viaggio
intellettuale, molto più utile e formativo del semplice apprendimento mnemonico.
SOLE, in realtà, è molto più di questo. Un laboratorio globale, così viene descritto, e anche un test su
vastissima scala, con cui tutti, ovunque, possono mettersi alla prova per poi spedire il proprio feedback
a Sugata Mitra e agli altri studiosi. L’invito, in effetti, è più che esplicito: «la parte più importante di questo
esperimento è il feedback che riceveremo da chi metterà in pratica questo approccio». Per questo, online
(www.ted.com/pages/sole_toolkit) è a disposizione un kit apposito da scaricare, con tutte le istruzioni per
testare questo nuovo modello didattico, vedere come funziona, raccogliere esperienze, risultati e riflessioni.
Da condividere poi collegandosi all’indirizzo www.ted.com/solefeedback e compilando le apposite sezioni.
Tra tutti coloro che parteciperanno inviando le loro opinioni saranno selezionati fino a tre vincitori che
si guadagneranno ciascuno un viaggio per due persone (un educatore o un genitore più un bambino) per
assistere al TEDYouth 2013 che si terrà il 16 novembre 2013 a New York.
l’istituto scolastico. Del resto, parole sue, «è
molto di moda dire che il sistema educativo
come lo conosciamo è a pezzi. Non è a pezzi,
anzi: è costruito meravigliosamente. È solo
che non ne abbiamo più bisogno. È superato».
È tutto? Nemmeno per sogno. Un’altra idea
ancora più azzardata, con cui Mitra ha conquistato il TED Prize 2013 e l’ammontare di
un milione di dollari, è già bell’e pronta: «Ciò
che voglio fare ora è contribuire a disegnare
il futuro dell’apprendimento supportando
i ragazzi di tutto il mondo a immergersi nel
loro innato senso di meraviglia e lavorare insieme». E per far questo vuole cominciare da
un primo passo: la costruzione di una School
in the Cloud, «un laboratorio dell’imparare,
dove, in India, i ragazzi possano imbarcarsi in
imprese intellettuali facendosi coinvolgere e
connettendosi con le informazioni e gli educatori online». Una scuola virtuale, insomma,
dove i bambini, ovunque si trovino, ricchi o
poveri, possano farsi protagonisti della loro
educazione, lavorando in gruppo e indipendentemente, trovando nella rete e con un
mentore in remoto la soluzione alle proprie
domande. Sarà questa la strada per un’educazione più egualitaria e più moderna, a portata di tutti? È presto per dirlo. Quel che è
certo è che quest’avventura, iniziata 14 anni
fa, lì dove la società sembrava essersi arresa,
forse ha trovato un nuovo inizio, dalle potenzialità davvero rivoluzionarie. •••
> Il sito di Hole-in-the-Wall www.hole-in-the-wall.com
> La pagina Facebook di Hole-in-the-Wall http://on.fb.me/RlfXi5
> Pagina dedicata alla SOLE challenge http://www.ted.com/pages/sole_challenge#download
> Pagina da cui scaricare il SOLE toolkit http://www.ted.com/pages/sole_toolkit
> Descrizione del progetto School in the Cloud http://www.ted.com/pages/prizewinner_sugata_mitra
> Servizio della CNN su Hole-in-the-Wall http://edition.cnn.com/video/#/video/world/2009/02/22/sidner.india.slumdog.inspiration.cnn?iref=videosearch
> Lista delle pubblicazioni su Hole-in-the-Wall http://www.hole-in-the-wall.com/Publications.html
85
N
Valutare la qualità dell’istruzione è un
tema molto complesso e richiede la considerazione di aspetti diversi e di natura dif-
Foto: Keith Morris/age fotostock/Marka
egli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni si
sono susseguiti profondi cambiamenti sociali ed economici, molti dei quali sono ancora in corso e
hanno esiti molto difficili da prevedere e
da interpretare. La crisi finanziaria degli
ultimi anni ha considerevolmente modificato le prospettive di crescita e di sviluppo
delle società avanzate, ponendo al centro
dell’attenzione la qualità del capitale sociale di ciascun Paese. È ormai evidente ai più
che l’aggravamento della crisi economicosociale degli ultimi anni richieda paradigmi
nuovi per trovare possibili soluzioni, salvaguardando i traguardi fondamentali che le
moderne economie avanzate hanno raggiunto nel secolo appena concluso.
ferente. Tuttavia, è opinione diffusa, specie a livello
internazionale, che qualsiasi valutazione non possa prescindere da una solida misurazione degli esiti di apprendimento degli
studenti, siano essi giovani studenti o adulti in formazione, di qualsiasi tipo essa sia.
Tale istanza è divenuta ancora più rilevante
nel momento in cui l’Italia, come molti altri
Paesi, ha adottato provvedimenti normativi volti alla riorganizzazione del sistema
scolastico nazionale basandolo sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche.
In questo contesto, già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si sono affermate ricerche comparative internazionali.
Le più importanti e le più conosciute sono
quelle promosse dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational
Achievement) e dall’OCSE (Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), finalizzate alla misurazione dei livelli
di competenza degli studenti della scuola
primaria e secondaria in alcuni ambiti di disciplinari, ossia le cosiddette competenze di
base fondamentali per l’esercizio dei diritti
di cittadinanza attiva, principalmente riconducibili alla comprensione della lettura della
lingua scritta, alla matematica e, talvolta,
alle scienze naturali.
88
benchmark
La partecipazione dell’Italia a queste
ricerche è sempre stata assidua, anche se le effettive ricadute sul sistema
sono state modeste, se non addirittura
irrilevanti. Negli ultimi anni si è assistito a un’inversione di tendenza con la
pubblicazione di rapporti periodici e
l’organizzazione di attività di formazione sui contenuti specifici delle ricerche
stesse. Nelle rilevazioni internazionali
spesso l’Italia si colloca sotto le medie
internazionali e tali divari paiono aumentare quando si passa dalla scuola
primaria a quella secondaria. Gli esiti
delle rilevazioni della IEA e dell’OCSE
mettono in luce un quadro con molte
ombre e poche luci, specie negli ambiti
scientifici, ma non solo.
Emerge con tutta evidenza che in un
contesto comparativo internazionale
il sistema scolastico italiano fatica a
produrre buoni livelli di competenza,
dimostrando quindi la necessità di disporre di misurazioni comparativamente solide per comprendere gli esiti
effettivamente prodotti dalla scuola
italiana. A partire dagli ultimi anni del
decennio appena trascorso l’Italia si
è dotata di un servizio nazionale per
la rilevazione degli apprendimenti di
base mediante prove standardizzate.
Esso mette a disposizione di ogni
scuola, oltre che dell’intero sistema
scolastico nazionale, anche nelle sue
articolazioni regionali, dati comparativamente solidi e dettagliati. Inoltre, a partire
dall’anno
scolastico
2012-13 l’INVALSI restituisce a ciascuna
scuola gli esiti delle
prove nazionali anche
in una prospettiva di
valore aggiunto, ossia
al netto dell’effetto
del contesto socioeconomico-culturale
in cui opera ogni istituzione scolastica.
In questo modo le scuole possono
valutare in modo più appropriato l’esito del proprio operato, focalizzando
la propria attenzione prevalentemente
su fattori sui quali esse possono agire
e che non costituiscono, invece, variabili esogene e pertanto praticamente
immodificabili. La realizzazione di un
sistema nazionale per la rilevazione
degli apprendimenti ha rappresentato nel panorama italiano un elemento
di forte innovazione, certamente ancora incompleto e con alcuni aspetti
che hanno bisogno di ulteriori aggiustamenti, in grado di fornire al Paese un’infrastruttura immateriale per
promuovere l’innalzamento dei livelli
di competenza degli studenti italiani.
La costruzione del sistema nazionale di valutazione ha rappresentato e
rappresenta una sfida sotto diversi
punti di vista, non da ultimo quello
metodologico-statistico. Per la prima
volta su scala nazionale sono sta-
te costruite prove secondo standard
tecnico-scientifici adottati in ambito
internazionale, basati su rigorose metodologie psicometriche e statistiche.
Esse sono costruite all’interno della
cornice definita da quadri di riferimenti
pubblici e oggetto di continue riflessioni e revisioni. Tali documenti sono
fondamentali per la comprensione del
portato informativo delle prove proposte dall’INVALSI, valutandone potenzialità e limiti, anche in confronto
con quanto previsto dalle Indicazioni
nazionali. Nonostante le rilevazioni
realizzate dall’INVALSI siano oggetto
di un acceso dibattito all’interno del
sistema scolastico, raramente esso arriva a toccare realmente il contenuto
delle prove e i criteri secondo i quali esse sono costruite. La costruzione
di prove oggettive standardizzate è il
frutto di un lungo e delicato processo,
sovente non completamente conosciuto anche da molti degli utilizzatori delle
prove stesse e dai diversi soggetti che
operano nel mondo della scuola e della
formazione in generale.
Pochi realmente sanno che la formulazione di una prova standardizzata
rivolta potenzialmente a centinaia di
migliaia di studenti è l’esito di un lavoro profondamente e realmente interdisciplinare che coinvolge esperti con
formazione ed esperienze specifiche e
molto differenti tra di loro. Non sempre
è noto che la costruzione di una prova
IMPARARE SEMPRE
standardizzata richiede grandi sforzi e tempi e convincenti risposte. Per limitare l’attenpiuttosto lunghi, mai inferiori ai 15-18 mesi, zione alla rilevazione degli apprendimenti,
e il rispetto di una procedura molto articola- l’INVALSI sta realizzando, anche con la colta. Per favorire l’allargamento del dibattito a laborazione del mondo accademico, l’antutti gli aspetti connessi alle prove e al loro coraggio diacronico delle prove nazionali e
utilizzo l’INVALSI ha iniziato a promuovere l’ancoraggio tra le prove nazionali e quelle
eventi, trasmessi anche via web, per am- internazionali. Ciò renderà possibile nel giro
pliare l’accesso alla discussione, anche cri- di un paio d’anni, e già a partire dal 2014, di
tica, su temi così importanti e cruciali per valutare gli esiti degli apprendimenti degli
studenti non soltanto in
lo sviluppo del sistema
una prospettiva sezionascolastico nazionale. I
“Già a partire dal
le, ogni anno separatasistemi nazionali di vamente, ma anche longilutazione sono, per defi2014, sarà possibile
tudinale, potendo quindi
nizione, strutture molto
valutare gli esiti degli
cogliere linee evolutive
complesse e di non facile
apprendimenti
e di sviluppo. In questo
gestione. Essi richiedono
modo sarà pienamente
continui aggiustamenti e
degli studenti non
a disposizione del Paese
potenziamenti per fornire
soltanto ogni anno
una vera infrastruttura
al sistema scolastico, in
separatamente, ma
sulla quale basare, anche
tutte le sue articolazioni,
anche
potendo
se ovviamente non in via
informazioni solide e utili
esclusiva, linee d’intere, soprattutto, in grado di
cogliere linee evolutive
vento, fondate su un sorispondere a istanze che
e di sviluppo"
lido riscontro empirico,
cambiano rapidamente
volte all’innalzamento
lungo diverse direttrici.
dei livelli di competenza
Come qualsiasi sistema
di misurazione, anche il sistema nazionale di dei giovani italiani, favorendo quindi la crevalutazione deve essere costantemente mo- scita economica e sociale collettiva. Già da
nitorato per verificare che esso non produca tempo l’istituto sta inoltre sperimentando
delle distorsioni ed eventualmente correg- la costruzione di nuove prove per la migerle. L’approvazione del regolamento isti- surazione entro breve degli apprendimenti
tutivo del Sistema Nazionale di Valutazio- nell’ultimo anno della scuola secondaria di
ne, finalizzato alla valutazione complessiva secondo grado e di altri ambiti disciplinari
delle scuole e non solo degli apprendimenti, (ad esempio l’inglese e le scienze naturarappresenta un notevole impulso per l’in- li) rispetto a quelli rilevati finora, ossia la
tero processo di valutazione delle scuole, comprensione della lingua scritta e della
al quale l’INVALSI dovrà fornire adeguate matematica. •••
> Leggi online il testo integrale di Roberto Ricci http://link.pearson.it/70C6FBCFù
> Un primo esperimento sullo studio diacronico dei risultati della prova nazionale INVALSI
al termine del primo ciclo di istruzione in Italia, di Patrizia Falzetti e Roberto Ricci, Induzioni, 21-34, 43, 2011
> La misurazione del valore aggiunto nella scuola, di Roberto Ricci, Collana Workingpaper
della Fondazione G. Agnelli, 2008
> Il senso delle prove, di Roberto Ricci, Paolo Sestito, La voce.info, http://www.lavoce.info/
articoli/pagina1003164.html
> Le prove standardizzate, di Roberto Ricci, L’Indice della scuola, 12, III, 21-23, 2011
> The global achievement gap, di Tony Wagner, Basic Books, 2008
benchmark
89
di Silvia Paris
L’
esperienza insegna quanto la capacità di leggere - che presuppone,
ma non coincide, con quella di decifrare un testo - sia decisiva per
orientarsi nel mondo e partecipare in modo attivo alla vita sociale.
Eppure il traguardo di una adeguata e diffusa competenza alfabetica
funzionale, definita dall’Ocse come la «capacità di capire e usare l’informazione presente in testi stampati nelle attività quotidiane, a
casa, sul lavoro e nella vita sociale, per raggiungere i propri
obiettivi e sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità», è ancora da raggiungere, anche nei paesi
avanzati. A fare il punto sui livelli di literacy
in Europa e proporre misure d’intervento è
il recente Rapporto finale sul letteratismo, elaborato da un gruppo di esperti
di alto livello nominato della Commissione Europea. Nel Rapporto il
neologismo “letteratismo”, che
traduce il termine inglese literacy utilizzato nei test Pisa,
designa la competenza alfabetica funzionale così come
descritta dall’Ocse. Il documento prende le mosse
da un’evidenza allarmante
e inattesa: un europeo su
cinque non sa leggere e
scrivere adeguatamente,
risulta cioè incapace di interpretare e gestire in modo
competente e critico le informazioni.
L’importanza della comunicazione scritta nell’era digitale
I dati commentati nel Rapporto che muovono dai risultati dei test
Pisa 2009 - raccontano di una crisi
sociale nascosta, prima ancora che di
benchmark
IMPARARE SEMPRE
Una crisi nascosta e allarmante investe l’Europa e l’Italia: l’analfabetismo
funzionale, quello di chi decifra un testo ma non sa comprenderlo davvero.
In Italia tre persone su quattro rischiano di finire in questa situazione.
Ma ci sono molti modi per intervenire, a cominciare dalla scuola
un’emergenza educativa. Perché la padronanza alfabetica, lungi dal costituire una
semplice tecnica o abilità acquisita una volta per tutte a scuola, è una risorsa che accompagna le persone durante l’intero arco
della vita, definendo l’identità e la ricchezza
dei suoi scambi cognitivi, psichici, sociali,
politici e relazionali con il mondo esterno. A
questo proposito, il documento ribadisce più
volte che la «capacità di leggere il mondo»
costituisce un presupposto irrinunciabile del
benessere individuale e collettivo, e l’alfabetizzazione per tutti un obiettivo minimo da
raggiungere per un paese avanzato. Questo
traguardo è ancor più urgente nell’attuale società dell’informazione, poiché da un
lato la digitalizzazione comporta un utilizzo sempre più capillare della parola scritta
nell’interazione sociale, civica ed economica,
dall’altro l’aumento della mobilità e i feno-
91
Foto: racorn/shutterstock
92
benchmark
meni migratori producono un’evoluzione
verso una società multilinguistica che richiede capacità sempre più solide di combinare
un’ampia gamma di background culturali e
linguistici. Ne consegue un paradosso non
più a lungo sostenibile tra il livello sempre
più alto di competenze alfabetiche e digitali
richieste e quello inadeguato di competenze
realmente possedute, minacciate per di più
dal trend demografico di invecchiamento
della popolazione - che favorisce l’obsolescenza dei saperi - e dall’aumento della povertà in tempi di crisi, che alimenta ed è a
sua volta alimentata dall’analfabetismo.
Da qui l’invito ad agire subito per contrastare questo allarmante fenomeno, la cui
fisionomia, dal punto di vista sociale, appare
contrassegnata da diversi tipi di gap.
Divario socio-economico. I bambini poveri
infatti sono generalmente caratterizzati da
livelli inferiori di alfabetizzazione rispetto
agli altri.
Divario dell’immigrazione. Molti immigrati
presentano livelli di alfabetizzazione inferiori nella lingua del paese di arrivo.
Divario di genere. I livelli di alfabetizzazione
•Uno scrivano pubblico al
servizio degli analfabeti
a Napoli, attorno al 1870.
Nella pagina successiva, uno
scrivano pubblico a Reggio
Calabria nel 1957.
Foto: Archivio Contrasto
dei maschi adolescenti sono inferiori e in diminuzione rispetto a quelli delle coetanee, a
causa di una minore motivazione e impegno.
Divario digitale. I meno abbienti utilizzano
meno Internet e, quando lo fanno, più per
fini di intrattenimento che di apprendimento.
Inoltre molti studenti vivono uno scarto tra
la pratica a scuola, caratterizzata per lo più
dall’uso di materiali stampati, e l’esperienza
di lettura e scrittura digitale vissuta in casa.
Analfabetismi e perdita culturale
in Italia
Per agire opportunamente bisogna anzitutto
conoscere la specifica situazione del contesto in cui si opera. Il linguista Tullio De Mauro, in occasione della conferenza Livelli e dislivelli linguistici e culturali oggi in Italia, che
si è svolta presso l’Accademia dei Lincei, ha
tracciato un quadro chiaro del contesto italiano, a partire dai dati del 2000 e del 2005
dalle rilevazioni Ocse Ials-Sials, la ricerca
internazionale che fa il punto sulle competenze della popolazione d’età compresa tra
i 16 e i 64 anni di età. L’indagine identifica cinque livelli di competenza: analfabe-
benchmark
IMPARARE SEMPRE
L’analfabetismo
funzionale
in Europa
qu
a
reg
no u
nit
o
svezia
hio?
risc
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P
finla
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i
09
irland
a
danimarca
st d
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ter
ac
litu
ani
a
finlandia
8,1%
estonia
13,3%
lettonia
17,6%
lituania
24,3%
svezia
17,4%
danimarca
15,2%
regno unito
irlanda
18,4%
paesi bassi
17,2%
polonia
14,3% germania
15%
18,5%
belgio
Percentuali di quindicenni
rep. ceca
17,7%
con punteggio inferiore al
rep.
slovacca
23,1%
lussemburgo
livello 2 nei test di literacy
22,3%
26% austria
del Pisa 2009
ungheria
romania
francia
27,5%
40,4%
19,8%
slovenia17,6%
21,2%
bulgaria
italia
41%
spagna
portogallo
21%
19,6%
17,6%
grecia
21,3%
ia
polon
ia
gar
ul
cia
gre
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slove
gio
b
malta
36,3%
rom
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paesi bassi
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studenti benest
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italia
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s
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urg
o
Livelli linguistici e culturali in Italia
Il recupero del nostro Paese
Forme di analfabetismo
nel nostro Paese
15
Competenze alfanumeriche
nella popolazione
di 16-65 anni
italia
paesi avanzati
10
OcSE; IALS-SIALS, 2000 e 2005
5
La partecipazione
alle forme di cultura
A New Data Set of Educational Attainment in the World, 1950-2010,
Robert Barro e Jong-Wha Lee
2010
2000
1990
1980
1970
o
1960
paesi in via di sviluppo
1950
media anni scolastici a testa
andamento dell’indice di scolarità tra il 1950
e il 2010 in italia rispetto agli altri Paesi.
Persone tra 15 e 65 anni
che partecipano a differenti
attività culturali
IStAt, tavole multiscopo 2006
5%
analfabeti integrali
33% analfabeti funzionali
33% a rischio di analfabetismo funzionale
10% alfabeti con deficit di problem solving
19% alfabeti capaci di problem solving
1,9% partecipazione bassa
14,2% partecipazione medio bassa
30,8% partecipazione media
37,9% partecipazione medio alta
15,2% partecipazione alta
93
94
benchmark
Foto: Archivio GBB/Contrasto; Tci
tismo integrale; analfabetismo funzionale;
situazione a rischio di analfabetismo funzionale; alfabetismo con deficit di problem
solving; alfabetismo con piena capacità di
problem solving. E mostra che il 71% della
popolazione totale è o rischia di diventare
analfabeta totale o funzionale. Ciò significa
che tre italiani su cinque non possiedono
competenze di lettura sufficienti. Aggiungendo poi a questa percentuale il 10% di
pieni alfabeti con difficoltà nel problem
solving si arriva alla conclusione che quattro italiani su cinque risultano «incapaci di
orientarsi nella vita di una società contemporanea». Il dato, prendendo a riferimento
le competenze alfanumeriche della popolazione adulta, non può essere direttamente
comparato con quello europeo citato nel
Rapporto sul letteratismo. Tuttavia segnala uno specifico problema italiano, e cioè
l’ampia incidenza dell’analfabetismo di ritorno: la perdita delle competenze di lettura e
scrittura da parte degli adulti scolarizzati.
Nella ricostruzione di De Mauro, questa situazione si lega a un fenomeno di indebolimento culturale più generale, che investe
non solo le competenze alte, ma anche i
«saperi strumentali e operativi propri della
cultura della sopravvivenza e delle tecniche
elementari». Lo mostra l’indagine multiscopo
dell’Istat del 2006 sul tempo libero, che - a
partire da una nozione larga di cultura intesa come la capacità latina di còlere, ossia
di coltivare mente ed animo e migliorare le
produzioni e arti materiali - ha censito il livello di competenze degli italiani su 42 attività, raggruppabili in sei tipologie di abilità e
abitudini, ossia: fruizione di corsi di istruzione o formazione formali o non formali; abilità linguistiche comprendenti la propensione
a parlare italiano o dialetto con estranei e
il livello di conoscenza di almeno una lingua straniera; attività di lettura nel tempo
libero o per motivi professionali; fruizione
delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione; abilità pratiche, come il cucinare, fare lavori di manutenzione in casa,
restaurare mobili o oggetti della casa, curare
i propri mezzi di trasporto, l'orto o le piante,
praticare uno sport; propensione a svolgere attività artistiche o amatoriali come fare
foto, video, scrivere, dipingere, suonare o
ballare.
benchmark
IMPARARE SEMPRE
Dall’indagine emerge che meno del
2% della popolazione ha un alto livello di partecipazione culturale: svolge
cioè tra le 25 e le 42 attività indicate.
Per intervenire su una perdita di così
vasta portata e trasversale è necessario identificare e lavorare sulle cause.
E qui il discorso di De Mauro si rivolge
contro chi punta il dito sulla «tanto vituperata» scuola italiana. Guardando
all'andamento dell'indice di scolarità a
livello mondiale, emerge che negli anni
cinquanta, nei Paesi in via di sviluppo,
il percorso di studi durava 2-3 anni,
mentre in quelli sviluppati circa 6. Nel
2010, i Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto 6 anni di studio a testa,
quelli sviluppati 11-12 anni. L'Italia,
che negli anni cinquanta mostrava un
indice di scolarità di poco superiore a
quello dei Paesi in via di sviluppo, ha
oggi quasi raggiunto il livello degli altri
Paesi avanzati. Ciò significa che, grazie al sistema d'istruzione, negli ultimi
sessant'anni il nostro Paese, dal punto di vista educativo, ha compiuto un
notevole progresso verso il pieno sviluppo. Il problema, conclude De Mauro, è che la scuola italiana è rimasta
sostanzialmente isolata - affiancata,
solo in parte, dalla televisione - nel
promuovere la crescita culturale della
popolazione. La mancanza di una rete
di spazi, modi e interventi accessibili
e diffusi di fruizione e partecipazione
culturale e formativa e la trasformazione sociale e demografica che ha
portato alla scomparsa della “bottega
familiare” hanno favorito la perdita di
saperi. Questo vale anche per le competenze acquisite a scuola che, per es-
sere preservate, devono invece essere
continuamente allenate nel corso della
vita, tenuto conto della “regola del -5”
secondo cui si regredisce mediamente
di 5 anni rispetto al livello massimo di
una competenza acquisita a scuola, se
la capacità non viene esercitata.
Come intervenire, fuori e dentro la scuola
La necessità di promuovere la capacità di leggere attraverso un’azione trasversale e sinergica è alla base anche
del Rapporto sul letteratismo, che si
rivolge a tutti i cittadini e in particolare ad alcune categorie - dai politici
ai genitori, dalle istituzioni culturali
agli operatori sanitari, dagli editori
ai volontari - cui indirizza specifiche
raccomandazioni. Una particolare attenzione è poi riservata al mondo della
scuola, agli insegnanti e ai formatori.
In termini generali, il documento suggerisce ai soggetti coinvolti di adottare strategie di promozione della lettura diversificate per fasce di età. Per
la prima infanzia si tratta di stimolare
e sostenere la famiglia, per esempio
mettendo in atto programmi di alfabetizzazione dei genitori, assicurare
l’accesso gratuito all’educazione dei
bimbi, garantire uno screening precoce dei problemi di alfabetizzazione
emergenti, adottare una prospettiva
incentrata sul bambino che coinvolga le istituzioni dedicate, i genitori, i
servizi sanitari, le biblioteche, e infine
sostenere la creazione e la diffusione
di programmi di scambio di libri.
Per promuovere l’alfabetismo presso i
bambini della scuola primaria si racco-
manda di intervenire tempestivamente, per esempio sostenendo le scuole
i cui studenti presentano i livelli di
competenza più bassi, e favorire un
approccio alla dislessia che si concentri più sul sostegno pedagogico che su
quello medico. Agli insegnanti poi si
suggerisce di sviluppare strategie didattiche in linea con gli specifici stili di
apprendimento e fornire supporto individuale agli studenti, coinvolgendoli
attraverso letture di qualità e accessibili, di usare la valutazione formativa
per identificare i bisogni educativi sin
dall’inizio del percorso scolastico e di
integrare la tecnologia nella didattica.
Per intervenire sull’adolescenza si sottolinea la necessità che tutti i docenti, non solo quelli di lettere o lingue,
diventino “insegnanti alfabetizzanti”,
che ai ragazzi vengano proposte letture affini ai loro gusti e varie, dai
fumetti ai classici, e infine che venga
stimolata la cooperazione tra scuola e imprese, in modo da chiarire ai
giovani il ruolo decisivo giocato dalle
competenze alfabetiche nel loro futuro sviluppo personale e professionale.
In quest’ottica è particolarmente importante che gli insegnanti mettano
gli studenti in condizione di affrontare
testi di qualsiasi tipo e materia, lavorino sulla motivazione oltre che sulle
competenze, utilizzando materiali attraenti e risorse digitali, lascino agli
studenti tempo libero per leggere e
scegliere da soli le proprie letture e infine usino la valutazione formativa per
diagnosticare punti di forza e debolezze individuali e ottimizzare le strategie
didattiche.
•••
> Rapporto finale sul letteratismo 2012, Sintesi http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/high-level-group/documents/
executive-summary_it.pdf
> Final report on literacy 2012, Full http://ec.europa.eu/education/literacy/what-eu/high-level-group/documents/literacy-finalreport_en.pdf
> Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia, di De Mauro - Morrone, http://mondodigitale.org/files/Livelli_di_partecipazione_alla_vita_della_cultura_in_Italia.pdf
95
di Isabella di Nicola
il valore della
conoscenza
oltre la scuola
IMPARARE SEMPRE
P
rofessor Rullani, lei si occupa
di economia della conoscenza,
una materia che mette la conoscenza al centro dei processi
produttivi del nostro mondo. Ma come
si può definire?
L’economia della conoscenza è in genere intesa come una sezione dell’economia: quella
che si occupa di cose che hanno a che fare
con gli investimenti in conoscenza (ricerca,
formazione del capitale umano, istruzione,
università, trasferimento tecnologico, consulenza, ecc.), concependola come una sorta
di economia “nobile”, ad alto contenuto intellettuale. Ma oggi tutti i lavori, tutti gli oggetti e
tutti i servizi sono ad alto contenuto di conoscenza, nel senso che utilizzano principalmente lavoro
cognitivo e solo eccezionalmente lavoro energeticomuscolare. Il lavoro energetico, che una volta era la regola
(nel mondo pre-moderno) è diventato ormai una eccezione o
una parte minore di tutti i lavori prestati nel sistema di produzione moderna. Tenendo conto che macchine, tecnologia ed energia artificiale
sono a loro volta prodotti ottenuti con un forte impiego di conoscenze, è
facile arrivare a una conclusione: tutto il lavoro moderno, salvo poche eccezioni, è lavoro cognitivo, compreso il lavoro dell’operaio che sorveglia o
istruisce la macchina utensile e quello dell’autista che guida il camion.
Dunque, l’economia della conoscenza è un metodo, un modo di guardare e
di far funzionare l’economia complessiva, mettendo in movimento non solo
le idee, ma l’insieme delle risorse impiegate, comprese quelle materiali. Possiamo dire che essa consiste nello studio dei processi economici che portano
alla generazione di valore economico attraverso l’uso di conoscenze, nelle
varie forme che queste possono assumere.
Foto: Bloomberg/Collaboratore/Gettyimages
C’è differenza tra la situazione attuale e quella del passato?
Il clou dell’economia classica è allocare il lavoro (risorsa scarsa, insieme al
capitale fisico e alla terra-natura) agli usi in cui è in grado di creare il massimo valore. Il mercato e il calcolo economico servono appunto a spostare le
risorse scarse dagli usi che hanno minore utilità (valore) a quelli che ne hanno di più, fino a raggiungere l’ottimo. Questo schema, però, salta se il valore
non viene più prodotto dal lavoro (con conoscenza incorporata) bensì dalla
conoscenza, separabile dal lavoro. La conoscenza codificata, proprio perché
è dis-embodied (scorporata) dalle persone e dai contesti, è infatti una risorsa molto sui generis: una risorsa che non si consuma con l’uso e che, se ben
codificata, può essere riprodotta a costo zero. Dunque, essa non è scarsa, ma
moltiplicabile. Per creare valore attraverso la conoscenza, bisogna dunque
organizzarne la moltiplicazione, allargando quanto più possibile il bacino di
riuso. Non serve cercare di allocarla “meglio”, togliendola ad alcuni per passarla ad altri. Non bisogna scegliere tra gli usi possibili, ma bisogna invece
cercare di servirli tutti, aumentando al massimo il bacino del possibile impiego. Già questo porta a dire che le “leggi” della generazione del valore valide
nell’economia della conoscenza (scorporabile) non sono quelle contenute nei
manuali di economia che si studiano a scuola. Si aggiunga poi il fatto che
la conoscenza è una risorsa che, al contrario dei fattori materiali classici,
97
98
oltre la scuola
che forniscono tali qualità. Ma in questo,
cessa di essere puro mezzo, e diventa una
forza orientata alla creazione di valore tramite worldmaking.
•Nella foto di apertura, le sedie
dell'architetto e designer
danese Arne Jacobsen.
Qui sopra, le saliere della
Alessi. Due esempi di
conoscenza generativa
incorporata in prodotti
industriali.
Nella pagina accanto, un
artigiano del vetro a Murano:
in questo caso la conoscenza
è ancora incorporata nel
lavoro manuale.
Foto: Anna Clopet/Corbis
“Le risorse generative
che consentono
di utilizzare con
vantaggio la rete di
inter-connessione
globale riguardano
capacità di innovare,
inventare, convincere,
progettare, assumere
rischi e responsabilità
nella costruzione del
futuro, individuale
e collettivo”
non è riducibile a ruolo di “puro mezzo”, ma
influenza fortemente i fini dei soggetti che
le impiegano, perché dà luogo a esperienze condivise (legami) e creative (senso). La
conoscenza, insomma, non si limita a fornire un mezzo efficiente per raggiungere fini
dati, ma fa molto di più: essa “crea mondi”,
dando luogo a modi di vivere, di lavorare e di
pensare diversi da quelli pre-esistenti.
L’economia del worldmaking (creazione di
mondi) è oggi molto più importante dell’economia della fabbrica, dove viene stressata
soprattutto l’efficienza dei mezzi. E questa
tendenza è oggi sempre più forte, appoggiandosi ai mass media e a Internet. Se si
va a comprare un paio di jeans di marca, in
negozio si pagano 150 euro, diciamo. Quei
jeans escono dalla fabbrica finiti, con tutti
gli strappetti al posto giusto, ad un costo di
15 euro. I 135 euro che si aggiungono nella
filiera che li porta al consumo finale sono
frutto del processo di worldmaking che ha
ideato il modello, ne ha organizzato la produzione in filiera, lo ha messo in vista nelle
catene dello shopping, lo ha reso riconoscibile (col marchio), lo ha dotato di significato
(con la comunicazione), lo ha trasformato in
mezzo identitario (con le communities e le
“tribù” giovanili che organizzano il consumo). Questo vale per la moda, ma vale anche – in misura diversa – un po’ per tutti i
prodotti del consumo attuale, che tende ad
andare oltre il consumo di massa di prodotti
standard, e chiede invece personalizzazione,
significati, servizi, garanzie. La conoscenza
generativa crea valore mettendo a punto
modelli replicabili (e dunque moltiplicabili)
Perché parla di conoscenza generativa? Quante forme di conoscenza
esistono?
Per produrre valore economico, occorre
mettere insieme tipologie di sapere molto
differenti, e spesso complementari: il sapere
teorico, astratto e impersonale contenuto
in una teoria scientifica, in una macchina
utensile, in una lattina di Coca Cola o in una
procedura organizzativa collaudata (come
spedire un pacco postale, ad esempio), col
sapere pratico – spesso più concreto e personalizzato – che mira a ottenere un certo
risultato, qui e ora, in un contesto ben preciso del mondo reale. Il primo è un sapere
codificato, costruito in modo da poter essere
utilizzato da chiunque e in contesti diversi,
purchè si seguano le astratte “istruzioni per
l’uso” che sono fornite dal codice. La sua
caratteristica di fondo (e ciò che lo rende
prezioso per l’economia) è che si tratta di un
sapere replicabile, nel senso che può essere
riprodotto e ri-usato a costo zero un numero infinito di volte, purchè le prescrizioni del
codice vengano rispettate. Pensiamo a una
teoria scientifica, a una formula chimica, a
un trapano elettrico, a un CD, a una foto.
Il secondo, invece, è legato alle persone e
ai contesti pratici in cui quel sapere (tacito, e spesso posseduto inconsapevolmente)
ha avuto origine: può essere riprodotto,
trasferito altrove e riusato, da persone e in
contesti diversi da quello di origine, solo con
difficoltà, richiedendo adattamenti e sperimentazioni che costano, richiedono tempo
e hanno esiti non scontati. Tuttavia, questa
forma di sapere non può essere esclusa dal
processo di produzione del valore economico perché essa ha capacità generative, ossia
riesce a produrre nuove conoscenze, o ad
adattare le conoscenze esistenti a problemi
nuovi. Solo le persone (in carne ed ossa),
non le macchine o i modelli matematici,
hanno capacità generative.
Le conoscenze replicative (codificate) ogni
volta che vengono riusate producono un
valore addizionale a cui non corrispondono
costi. Ma il problema è che esse perdono ra-
oltre la scuola
IMPARARE SEMPRE
pidamente valore, man mano che va avanti
il processo di riuso. Dunque, per compensare
la perdita di valore vanno rigenerate (rinnovate, cambiate, adattate, portate in nuovi
campi di applicazione, riproposte a pubblici diversi e con significati differenti). Tutte
cose che solo la conoscenza di tipo generativo, legata a persone e contesti reali, può
fare. Ecco la ragione della complementarità.
Se pensiamo in termini di una economia della conoscenza, come cambia
l’approccio dei ragazzi allo studio?
L’apprendimento che si chiamava un tempo
“istruttivo” (da cui il termine istruzione) insegnava ai ragazzi a risolvere problemi codificati seguendo delle “istruzioni per l’uso” con
un approccio esecutivo. Oggi questo metodo
di apprendimento non paga più, né all’interno della scuola, né, tanto meno, sul mercato
del lavoro in cui serve una dose crescente
di conoscenza generativa e di capacità di
connessione con le filiere cognitive presenti
nel mondo. Le risorse connettive che servono al collegamento con queste filiere sono
Internet, l’inglese, i linguaggi formali che si
imparano a scuola (ingegneria, informatica,
matematica, contabilità, management, diritto ecc.), le capacità dialogiche che creano e
mantengono i contatti (ibridazione tra culture, persone che si spostano da un luogo
all’altro, esperienze condivise tra attori di
origine diversa ecc.), le piattaforme fisiche
che realizzano il collegamento (ADSL, TAV,
aerei, metropolitane ecc.). Le risorse generative che consentono di utilizzare con vantaggio questa rete di interconnessione glo-
Foto: Olivier Morin/staff/Getty
In che rapporto stanno queste due
forme di conoscenza, generativa e
replicativa, con il fenomeno della
globalizzazione?
Oggi, in presenza di mercati globali che
danno accesso a luoghi molto differenti, le
conoscenze generative, che sono legate ai
loro luoghi di origine, organizzano il ri-uso
dei modelli replicabili che da esse vengono
ricavati in filiere estese, che trasferiscono le
attività di riuso delle conoscenze codificate
in un insieme di luoghi diversi e distanti tra
loro, collocati nel mercato globale. Questa
è la ragione per cui, anche in Italia, tutta
una serie di lavori (replicativi) perde valore,
mentre un’altra serie di lavori (generativi) lo
aumenta, diventando nucleo attivo di filiere
globali sempre più ampie. Ovviamente la crisi ha messo in difficoltà tutte e due queste
specie di lavori, ma certo, tra poco, ci accorgeremo che molti dei lavori replicativi,
presenti in precedenza nelle grandi imprese
fordiste e nei distretti industriali, sono stati
trasferiti altrove, o non ci sono più. E, se ci
sono ancora, rendono sempre meno.
È un grande cambiamento a cui dobbiamo
abituarci, puntando tutte le carte che ancora
abbiamo sullo sviluppo di un nucleo forte di
conoscenze generative sul nostro territorio
e di connessioni forti tra questo nucleo e le
filiere globali che da esso possono irradiare.
99
bale riguardano invece capacità di innovare,
inventare, convincere, progettare, assumere
rischi e responsabilità nella costruzione del
futuro, individuale e collettivo (della famiglia, dell’impresa, del territorio, delle comunità di senso a cui si è scelto di aderire).
L’apprendimento, di conseguenza, dovrebbe
diventare non più istruttivo, ma evolutivo
oltre la scuola
educativo. Per il resto si dovrebbe lasciare
che ciascuno decida l’investimento da fare
(in sapere istruttivo, evolutivo e creativo), i
rischi da prendere (rispetto ai vari possibili
settori di uso, assunti come riferimento), i
significati da costruire nella comunità interna e da propagare all’esterno. Va da sé
che questa ripartenza dal basso – interamente post-fordista – metterebbe in linea il
modo di ragionare delle imprese (ma anche
dei territori e delle comunità di senso) con
quello delle scuole, ambedue interessate ad
accumulare conoscenza generativa da usare in modo replicativo nelle filiere globali.
è in questo modo che la sempre invocata
collaborazione scuola-lavoro potrebbe trovare una realizzazione pratica, in forza di
interessi e logiche comuni.
Foto: Nasa
100
“Oggi tutti i lavori,
tutti gli oggetti e
tutti i servizi sono
ad alto contenuto
di conoscenza, nel
senso che utilizzano
principalmente
lavoro cognitivo e
solo eccezionalmente
lavoro energeticomuscolare”
(attraverso la sperimentazione pratica delle
idee in contesti di volta in volta differenti) e
creativo (attraverso l’esercizio del worldmaking, ossia della creazione di mondi intorno
ad alcune idee motrici che riguardano la
qualità del vivere e del lavorare).
In senso ancora più ampio, dovrebbe
cambiare anche il sistema dell’istruzione?
Il punto essenziale è che la scuola, per liberarsi del suo confinamento storico all’apprendimento istruttivo, dovrebbe ribaltare
la logica burocratica e verticistica che quel
tipo di apprendimento presidia e impone, a
sua immagine e somiglianza.
La scuola dell’apprendimento evolutivo e
creativo dovrebbe tornare nelle mani degli
utilizzatori del servizio educativo (le persone, le imprese, i territori) facendo saltare la
gabbia delle regole burocratiche, da sostituire con una serie di standard comuni (interfacce, linguaggi e misurazioni condivise)
che consentano facili e sicuri collegamenti
tra le diverse tessere del nuovo mosaico
È possibile pensare a come scegliere
il proprio futuro in termini di economia della conoscenza?
Il mercato del lavoro (futuro) chiederà sempre di più conoscenze generative che hanno
imparato a tradursi in moduli replicabili, da
propagare in reti connettive globali che si
sanno padroneggiare senza incertezza.
Se le scuole continuano ad avere un focus sull’apprendimento istruttivo saranno
guai per i ragazzi, salvo le poche eccezioni di quelle persone che faranno da sole
quanto richiesto, in aggiunta all’istruzione ricevuta nei percorsi scolastici. Ma se
le scuole cambieranno nel senso detto,
non ci saranno eccessive difficoltà a trovare una nuova convergenza sui requisiti
importanti del sapere futuro. Certo, bisogna trovare le forme organizzative adatte
all’apprendimento evolutivo e a quello creativo, e alla loro messa in rete col mondo
esterno. Esperienze a cavallo tra il lavoro e
la scuola in questo quadro non sarebbero
più “fuori norma”, ma sarebbero invece la
norma. Speriamo che si possa fare presto,
e che questo nuovo sentiero possa ospitare molte persone, invece che poche. •••
> Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, di Enzo Rullani,
Carocci,2004
CITTADINANZA
di Erica Cimò
Foto: Dann Tardif/LWA/Corbis
Erica Cimò fa parte
dell’Unità italiana
di Eurydice,
Agenzia Nazionale
LLP- Indire
Piccoli
cittadini
crescono
Che cosa significa educare alla cittadinanza attiva in Europa? Uno studio
comparativo mette a confronto i sistemi scolastici dei Paesi del nostro continente.
E scopre che esistono molte differenze, dall’anno in cui si inizia a parlarne tra i banchi
al numero di ore dedicate e alla scelta di farne una materia autonoma oppure no
102
cittadinanza
•Le manifestazioni di giovani
polacchi per festeggiare
l'ingresso del loro Paese
nell'Unione europea nel 2004.
Foto: Jens Koehler/staff/Getty
I
l 2013 è l’anno europeo dei cittadini e
anche il ventesimo anniversario dall’istituzione della cittadinanza europea con
il Trattato di Maastricht: due ottime ragioni per riflettere sul tema della cittadinanza attiva. Lo studio comparativo L’educazione
alla cittadinanza in Europa, realizzato dalla
rete Eurydice, offre decisamente tanti spunti
di riflessione. Lo studio spazia dal modo in
cui i sistemi educativi europei inseriscono
la trasmissione dei saperi di educazione alla
cittadinanza nei curricula scolastici alla partecipazione di studenti e genitori alla governance scolastica, dalla “cultura della scuola”
all’aspetto complesso della valutazione, per
concludere con uno sguardo all’offerta di
formazione per insegnanti e capi di istituto.
Negli ultimi anni, le politiche europee in ambito educativo hanno posto un’attenzione
sempre maggiore alla necessità di acquisire
competenze civiche e sociali e hanno sottolineato il ruolo primario dell’istruzione nella
promozione della cittadinanza attiva. Il documento che ha dato origine a questa spinta
è la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, che nel 2006 ha individuato
e definito per la prima volta a livello europeo
le competenze chiave che i cittadini devono
possedere per la propria realizzazione personale, per l’inclusione sociale, la cittadinanza
attiva e l’occupabilità nella società della
conoscenza. Le competenze sociali e civiche rientrano tra le otto competenze chiave, che «includono competenze personali,
interpersonali e interculturali e riguardano
tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo
efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa […]. La competenza civica dota le
persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza
dei concetti e delle strutture socio-politici
e all’impegno a una partecipazione attiva e
democratica».
Altri documenti di cooperazione europea
interessanti da citare, perché si inscrivono
nelle ragioni dello studio di Eurydice sono
la Carta del Consiglio d’Europa sull’educazione per la cittadinanza democratica e
l’educazione ai diritti umani del 2010, che
intende sensibilizzare tutti i cittadini a temi
come i diritti umani, la democrazia, lo stato
di diritto, e che, in particolare, raccomanda fortemente la promozione di tali valori
attraverso tutti gli attori del processo educativo, e la terza indagine sull’educazione
civica e alla cittadinanza promossa dalla
International Association for the Evaluation of Educational Achievement - IEA, nata
nel 1958 con lo scopo di condurre ricerche
comparative internazionali nel campo della valutazione. L’attenzione dedicata dalla
cittadinanza
IMPARARE SEMPRE
IEA alla civic education risale ai primi anni
settanta, e dimostra, a distanza di decenni,
l’importanza crescente che i sistemi educativi internazionali attribuiscono all’educazione dei giovani alla cittadinanza in società che presentano rapidi cambiamenti nel
loro tessuto culturale, economico, politico e
sociale.Lo studio comparativo L’educazione
alla cittadinanza in Europa nasce da un concetto di cittadinanza evoluto che travalica
il semplice rapporto tra Stato e individuo.
Questo concetto più ampio di cittadinanza
coniuga l’insegnamento e l’apprendimento
in classe, quale veicolo delle conoscenze
teoriche da acquisire, all’esperienza pratica in ambito scolastico ed extrascolastico,
quale palestra per sperimentare sul campo
tali conoscenze: una perfetta sintesi del
learning by doing. Prenderò in esame due
aspetti trattati dallo studio: gli approcci e
l’organizzazione curricolare dell’educazione
alla cittadinanza e la formazione dei docenti. Tre sono gli approcci curricolari diffusi nei sistemi educativi europei, come è
stato evidenziato dallo studio, che vengono
utilizzati spesso combinati tra loro: il primo
è l’insegnamento di educazione alla cittadinanza come materia separata, il secondo
è l’insegnamento come argomento integra-
to in altre discipline o aree disciplinari, il
terzo come tematica trasversale a tutte le
discipline del curriculum. Le informazioni si
basano sui curricula nazionali dei Paesi: regolamenti, raccomandazioni, linee guida e
ogni documento ufficiale.
Numerosi Paesi dedicano all’educazione
alla cittadinanza una materia obbligatoria a sé stante, a volte a partire dal livello
primario di istruzione, più di frequente dal
livello secondario inferiore e/o superiore. La
durata che ogni Paese dedica all’educazione alla cittadinanza nell’arco del percorso
di istruzione varia dai dodici anni del sistema educativo francese (gli alunni francesi
alla scuola primaria iniziano con lo studio
di civique et morale, proseguono a livello
secondario inferiore con éducation civique,
e a livello secondario superiore studiano
éducation civique, juridique et sociale) al
singolo anno della Turchia. Le conoscenze
trasmesse in classe ai futuri “cittadini del
mondo” sviluppano temi come il sistema
socio-politico del Paese, i diritti umani, i
valori democratici, l’identità nazionale e il
senso di appartenenza al Paese, la diversità
culturale, lo sviluppo sostenibile e l’identità
europea, tanto per citare solo alcune delle
tematiche trattate più comunemente.
“La cittadinanza
formale è importante
e tuttavia è la
cittadinanza
sostanziale
che misura la forza
della propria voce
nella società: diritti
politici, certo, ma
anche diritti sociali
e civili"
Per quante ore viene insegnata
25
25
20
20
15
15
10
10
5
5
0
istruzione primaria superiore
istruzione secondaria inferiore
istruzione secondaria superiore
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
30
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
35
30
bulgaria
estonia
irlanda
grecia
spagna
francia
cipro
lituania
lussemburgo
austria
polonia
portogallo
romania
slovenia
slovacchia
norvegia
croazia
turchia
35
0
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
le raccomandazioni relative alle ore di insegnamento sono previste nei Paesi in cui l’educazione alla cittadinanza viene insegnata come materia
separata e variano da un paese all’altro. Quella indicata nel grafico è la media del numero minimo di ore di insegnamento destinate all’educazione
alla cittadinanza come materia a sé stante in un anno teorico, in base alle raccomandazioni per l’istruzione primaria e secondaria generale
(inferiore e superiore).
103
104
cittadinanza
le parole della cittadinanza
Belgio (olandese)
Burgerschap
Spagna
Ciudadania
Essere aperto alla vita politica,
economica, sociale e culturale della
società di cui fa parte l’individuo e
alla quale vuole prendere parte.
La cittadinanza pertanto comprende
i quattro aspetti summenzionati così
come le regole elementari che formano
la base del nostro ordine legale
o del nostro sistema democratico.
Repubblica Ceca
Obc˘anství
Esprime la posizione giuridica del
cittadino rispetto allo Stato.
Questa posizione implica che i cittadini
possiedono allo stesso tempo diritti
e doveri.
Germania
Staatsbürgerschaft o
Staatsangehörigkeit
L’articolo 33 I della Grundgesetz
(legge fondamentale) stabilisce:
“Tutti i Tedeschi hanno, in ogni Land,
gli stessi diritti e doveri civici”.
L’articolo 33 II stabilisce:
“Tutti i Tedeschi hanno un uguale diritto
di accesso a tutte le cariche pubbliche
secondo le loro attitudini, le loro
qualifiche e le loro capacità professionali”.
Slovenia
Drz˘avljanstvo
Affiliazione giuridica a uno Stato
particolare.
Paese
Status legale e politico che conferisce ai
cittadini certi diritti civili, politici e sociali in
quanto individui e certi doveri nei confronti
di un gruppo politico.
Malta
Hajja civika ou tkun
cittadin responsabbli
La cittadinanza è intesa come uno status
in termini di ruoli e funzioni civiche.
Ungheria
Állampolgárság
In base alla legge sulla cittadinanza
ungherese (1933/LV), “La cittadinanza
come istituto giuridico rappresenta il legame giuridico primario di una persona fisica
a un particolare Stato ma non senza alcuni
elementi emozionali”. Lo status
della cittadinanza conferisce all’individuo
l’insieme dei diritti e doveri garantiti dalla
Costituzione e dalle altre fonti legislative.
Grecia
Idiotita tou Politi
Status legale e politico attraverso cui il
cittadino acquisisce certi diritti in quanto
individuo (civile, politico e sociale) e certi
doveri nei confronti di un gruppo politico.
La cittadinanza è basata su un attributo
riconosciuto o conferito ai cittadini dallo
Stato e che si basa sulla supposizione che
i cittadini condividano certi valori e regole
di comportamento che permettano loro di
convivere e conferiscano loro un’identità
collettiva specifica.
Italia
Cittadinanza
L’articolo 2 della Costituzione italiana stabilisce:
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale”. L’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. (…)”.
Regno Unito
(Galles, Irlanda del Nord)
Citizenship
Il Regno Unito non ha una costituzione nazionale scritta che definisca i principi fondamentali
da cui derivano i diritti e i doveri dei cittadini.
Tuttavia, la Legge sui diritti umani (1998)
incorpora tutti i diritti contenuti nella
Convenzione europea sui diritti umani e
fornisce ai cittadini una definizione giuridica
dei loro diritti elementari e delle loro libertà
fondamentali.
Regno Unito (Scozia)
Citizenship
Implica il godimento di diritti e l’esercizio di
doveri e una partecipazione politica da parte
dei membri di uno Stato democratico. Comprende anche il concetto più generale secondo
cui la cittadinanza copre un ventaglio di attività
partecipative, non apertamente politiche, che
interessano il benessere sociale delle comunità.
Termine nella lingua nazionale
In Austria e Spagna, ad esempio, tra i temi
raccomandati dai curricula è presente la
parità dei sessi, mentre in Portogallo e
Lituania si tratta anche il tema della sicurezza stradale. Gli insegnanti hanno un
ruolo chiave nella trasmissione delle conoscenze civiche e sociali e nelle competenze
che ne derivano, tuttavia dallo studio della rete Eurydice emerge chiaramente che
insegnanti specialisti in educazione alla
cittadinanza sono rari, solo in Inghilterra è
possibile una formazione specifica in educazione alla cittadinanza. Numerosi istituti
di istruzione superiore inglesi offrono corsi
post-diploma della durata di un anno, che
combinano la conoscenza teorica della
materia con l’esperienza pratica di insegnamento. In generale, però, nei sistemi educativi europei si è osservata la necessità
di rafforzare le qualifiche degli insegnanti,
e questa considerazione è avvalorata dal
fatto che all’introduzione di riforme nei
curricula di educazione alla cittadinanza di
numerosi Paesi non corrispondono spesso
riforme nel settore della formazione iniziale
e in servizio per docenti e capi di istituto.
Il caso dell’Austria risulta interessante:
nell’anno scolastico 2008/2009 è stata
introdotta nelle scuole la nuova disciplina
storia, studi sociali e educazione alla cittadinanza all’ottavo anno di istruzione (livello
secondario superiore); la risposta a que-
cittadinanza
IMPARARE SEMPRE
malta
liechtenstein
belgio fiammingo
Che l’educazione alla
cittadinanza sia una materia
autonoma o no, tutti i Paesi
le assegnano una dimensione
interdisciplinare, specialmente
dopo lo slancio dato dall’uscita
della raccomandazione sulle
competenze chiave del 2006.
lussemburgo
dove la CittadiNaNza è uNa materia a sé staNte
legenda
materia a sé stante
a livello secondario
materia a sé stante a livello
primario e secondario
materia non a sé stante a livello
primario o secondario
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
legenda
in temi trasversali/competenze chiave/
aree di contenuti educativi
soltanto come obiettivi generali del
sistema educativo
Fonte: Eurydice, a.s. 2010/2011
malta
liechtenstein
belgio fiammingo
Nella maggior parte dei Paesi,
che venga insegnata o meno
anche come materia a sé stante
obbligatoria, l’educazione alla
cittadinanza è integrata in
altre materie o aree tematiche:
scienze, storia, geografia,
lingue, scienze sociali, religione/
etica, sono le materie più
frequentemente abbinate ma
troviamo anche psicologia, legge
o, nel caso di Cipro, greco.
lussemburgo
l’aPProCCio trasversale all’eduCazioNe alla CittadiNaNza
105
106
cittadinanza
Una rete per far crescere una scuola europea
> Eurydice è la rete di informazione sull’istruzione in Europa che fornisce informazioni e analisi sui
sistemi educativi europei e sulle relative politiche. Istituita dalla Commissione europea nel 1980,
è composta da 40 unità nazionali con sede nei 36 paesi che aderiscono al programma dell’Unione europea
nel campo dell’apprendimento permanente (Lifelong Learning Programme; i Paesi sono i 27 Stati membri
dell’Unione europea più Norvegia, Liechtenstein, Islanda, Svizzera, Croazia, Turchia, Serbia e, dal 2013,
Montenegro ed ex repubblica Jugoslava di Macedonia) ed è coordinata dall’Agenzia esecutiva per
l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura (EACEA) con sede a Bruxelles. L’unità centrale opera in assoluta
sinergia con le unità nazionali, coordina le attività della rete e redige e diffonde la maggior parte delle
pubblicazioni, mentre le unità nazionali raccolgono i dati, contribuiscono alla loro analisi e promuovono
a livello nazionale le descrizioni di 40 sistemi educativi europei, gli studi comparativi tematici, indicatori
e statistiche, rapporti. L’obiettivo primario della rete è quello di facilitare la cooperazione nel campo
dell’istruzione e della formazione affinando la conoscenza dei sistemi e delle politiche educative
e supportando in tal modo i responsabili politici nelle loro decisioni.
sta novità da parte della politica austriaca
del settore educativo è stata l’inclusione di
educazione alla cittadinanza come materia
obbligatoria di studio nelle Pädagogische Hochschulen frequentate dai futuri insegnanti.
L’offerta di formazione in servizio per insegnanti incentrata sull’educazione alla cittadinanza varia a seconda del Paese, e prevede
la partecipazione di associazioni, centri accreditati di formazione, ONG, oltre a quella
delle autorità educative. In Francia, le autorità educative regionali organizzano sessioni di
formazione della durata di tre giorni su temi
di educazione civica e alla cittadinanza, rivolte a insegnanti di storia e geografia della
scuola primaria e secondaria inferiore e a insegnanti di altre discipline che “ospitano” l’insegnamento della cittadinanza nelle materie
di loro competenza. In Spagna, la Fundación
Cives promuove da oltre dieci anni l’educazione civica e alla cittadinanza con l’intento
di contribuire alla realizzazione di uno stato
sociale democratico dove ogni cittadino ha
pieni diritti. Tra le sue attività primarie, la
fondazione prevede corsi di formazione per
insegnanti, workshop, conferenze e seminari
su temi di educazione etica e civica, oltre ad
offrire materiali e risorse sull’educazione alla
cittadinanza. Il rafforzamento delle competenze degli insegnanti nell’area dell’educazione alla cittadinanza rimane, tuttavia, un
tema caldo, che necessita di ulteriori sviluppi e ricerche. Comprendere l’importanza
della cultura della scuola, intesa come un
sistema di comportamenti, valori, norme,
convinzioni, pratiche quotidiane, principi,
regole, metodi di insegnamento e modalità
organizzative, costituisce un punto di partenza per diventare a tutti gli effetti cittadini attivi e responsabili. E questa è soltanto
una delle numerose riflessioni che emergono dallo studio della rete Eurydice •••
> L’educazione alla cittadinanza in Europa, I Quaderni di Eurydice n. 28, Indire – Unità italiana di Eurydice, 2011 www.indire.it/
lucabas/lkmw_file/eurydice/Quaderno_28_cittadinanza.pdf
> Citizenship education in Europe, EACEA/Eurydice, 2012, Il Mulino, 2003 www.indire.it/lucabas/lkmw_file/eurydice/
Citizenship_2012_EN.pdf
> Eurypedia Enciclopedia online sui sistemi educativi europei https://webgate.ec.europa.eu/fpfis/mwikis/eurydice/index.php
> Sito dell’Unità italiana di Eurydice www.indire.it/eurydice/index.php
FOCUS TECH
di Filippo Bonaventura
UNITI si
IMPARA
La domanda che tutti si pongono, non solo all’interno
del sistema scolastico, è come vadano sfruttate davvero le possibilità
offerte dalle nuove tecnologie. Una ricerca basata sullo studio di
alcuni casi pratici suggerisce che inseguire non serve: meglio partire
da principi adeguati alla realtà dei giovani e del mondo digitale.
A partire dalla collaborazione
108
focus tech
S
tudiare il mondo dell’apprendimento
da dentro, sbirciando le buone e cattive pratiche direttamente negli ambienti (scolastici e non) frequentati
dai ragazzi: questa è l’idea di base che sta
dietro al lavoro di ricerca del gruppo americano Digital Media and Learning Hub, che
è culminato, all’inizio di quest’anno, con una
pubblicazione che si è imposta all’attenzione
del mondo accademico e non solo.
•In questa pagina e nella pagina
precedente, alcune delle attività
indagate dal Digital Media and
Learning Hub.
Nella pagina accanto, il gruppo
di ricerca mentre presenta i
risultati del proprio lavoro.
Foto: Digital Media and Learning/flickr
Esplorare sul campo
Colorato, amichevole, giovanile, il sito web
del Digital Media and Learning Hub (http://
dmlhub.net) non sembrerebbe, a una prima
occhiata, quello di un prestigioso gruppo di
ricercatori che ha sede all’Humanities Research Institute della University of California.
La parola d’ordine è senza dubbio informalità, in puro stile americano.
Il gruppo, come suggerisce il nome stesso,
svolge attività di ricerca sullo sfaccettato rapporto tra due ecosistemi complessi:
quello dei media digitali e quello dell’apprendimento. L’interrogativo alla base del loro
lavoro è: come si può impostare un nuovo e
più moderno approccio all’apprendimento, e
all’educazione, che tenga conto dell’enorme
diffusione dei social media e dei nuovi comportamenti da essi indotti?
«Abbiamo deciso di esplorare queste domande immergendoci nelle scuole superiori per
un anno» spiega S. Craig Watkins, uno dei
membri che hanno preso parte alla ricerca,
pubblicata a gennaio. Il team californiano
ha analizzato nove casi di studio significativi, dai quali emerge un modello vincente di
apprendimento che è stato battezzato collective learning.
Produrre in libertà
Forse è più semplice intuire che cosa significhi collective learning proprio osservandolo
“in azione” attraverso i casi di studio proposti dai ricercatori del Digital Media and
Learning Hub.
Quest to Learn (http://q2l.org) è una scuola
attiva a New York dal 2009, che mira all’eccellenza educativa attraverso il gioco e le
pratiche collaborative. Il report ci racconta
focus tech
IMPARARE SEMPRE
strettamente scolastico: un insieme di spazi
organizzati (biblioteche, musei e quant’altro,
corredati da un corrispettivo social network
online) in cui gli adolescenti possono aggregarsi e produrre insieme, liberamente, materiale multimediale o non, usando i media
digitali messi a disposizione dal network.
Secondo la filosofia di YOUmedia, queste
pratiche costituiscono una forma di apprendimento propria dell’epoca contemporanea e
che non può più essere ignorata.
come la scuola in questione, alla fine di ogni
trimestre, organizzi una sorta di concorso, chiamato Boss Level, in cui gli studenti,
suddivisi in squadre, competono in attività
a carattere fortemente partecipativo (costruzione di macchine, realizzazione di opere
teatrali, ecc.).
YOUmedia (http://www.youmedia.org) è un
esempio di esperienze di apprendimento non
Guidati dalla passione
Che cosa hanno in comune queste situazioni apparentemente così diverse?
Secondo il gruppo di ricerca d’oltreoceano
non c’è dubbio: un efficace connubio tra capacità acquisite a scuola e capacità apprese nella vita quotidiana. «Esiste una forma
di expertise orizzontale» sostiene Kris Gutierres, del Digital Media and Learning Hub
«che si sviluppa quando le persone coltivano
quotidianamente i propri interessi. L’apprendimento è efficace quando l’expertise quotidiana e quella accademica si compenetrano
e crescono come un tutt’uno».
Questa è l’anima del connective learning:
acquisire competenze di tipo scolastico
esercitandosi nelle proprie passioni, collettivamente, distribuendo responsabilità
e ruoli all’insegna di uno scopo comune. È
un approccio chiaramente pensato per le
tecnologie digitali, che sono caratterizzate
da possibilità di collaborazione orizzontale
e scambio inimmaginabili anche solo una
generazione fa. L’analisi dei ricercatori americani ha messo in luce il fatto che il col-
109
110
focus tech
• Qui sopra, a sinistra, la
professoressa Mizuko Ito,
leader del gruppo di ricerca.
lective learning, così definito, è efficace in
quanto caratterizzato da tre proprietà cardine dell’apprendimento moderno.
1. Il supporto dei peers, ovvero dei pari, dei
simili: in questo caso gli altri ragazzi. Già dal
nome, il collective learning rappresenta un’idea di apprendimento di gruppo e non individuale, in cui non è necessario che ognuno
sappia tutto o sappia fare tutto, ma è importante che il singolo sappia interagire con
gli altri in modo che il gruppo sappia (fare)
tutto.
2. L’interesse come motore. L’apprendimento è più efficace quando è motivato dalle
passioni: imparare a scrivere correttamente,
per esempio, riesce meglio se lo si fa in un
contesto di fan fiction piuttosto che come
compito imposto e che non si sente come
proprio.
3. La finalizzazione accademica. L’apprendimento va formalizzato. Le conoscenze, le
abilità e le competenze acquisite durante
il gioco e la collaborazione devono essere riconosciute in ambito scolastico, altrimenti viene a mancare l’aspetto educativo
dell’apprendimento.
Per come la questione è posta dai ricercatori americani, il collective learning è utile
per risolvere i tre maggiori problemi del sistema educativo occidentale: lo scarto tra
l’apprendimento scolastico e quello extrascolastico; l’inefficacia della competizione e
valutazione individuale in una cultura sociale “di rete” e più che mai interconnessa; il
crescente divario causato dal learning divide.
«Ciò che rende il collective learning unico nel
panorama delle possibilità» spiega Mizuko
Ito, leader del gruppo di ricerca «è che non riguarda una particolare piattaforma, tecnica
o tecnologia, ma è un approccio che permette di comprendere come opera l’apprendimento». Questo approccio all’apprendimento
non è quindi definito dalla tecnologia ma
da un sistema di valori adeguato a quello
della cultura
digitale in cui
sono immersi
gli studenti di
oggi. •••
FOCUS TECH
Dalla Tavoletta
di Marco Meschini
Che cos’è, come si può usare in classe e con quali programmi la tavoletta
elettronica, uno strumento dalle grandi possibilità, uno spazio dove
convivono scrittura, immagini statiche e dinamiche, suoni.
E che richiede anche qualche conoscenza e un po’ di buona volontà
prima di poter entrare nella vita quotidiana delle scuole
Foto: Johannes Laurentius/Foto Scala, Firenze/BPK
Storico medievista,
insegna Storia presso
l’Everest Academy di Lugano,
dove è responsabile per
l’innovazione
tecnico-didattica
112
focus tech
P
rendiamo una celebre ceramica
conservata a Berlino: vi è raffigurato un uomo seduto, di profilo,
con un trittico sorretto dalla mano
sinistra (gomito e parte dell’avambraccio
sembrano poggiare o almeno aderire
al fianco), intento a scrivere sulla tavoletta centrale; nella destra regge uno stilo, sospeso
a mezz’aria: sta osservando
quanto ha tracciato sulla cera?
O sta pensando a cosa aggiungere ai segni già incisi? Oppure è
semplicemente colto in un momento
di “stacco” tra un segno e l’altro? O sta correggendo i compiti dell’allievo che gli si para
davanti, e che non vede ciò che accade al di
là dello “schermo” di legno e cera? Il sorriso
che li accomuna suggerisce comunque una
buona relazione.
Tra il 500 a.C. circa (epoca del manufatto firmato dal greco Douris) e il 2010 d.C. - anno
di lancio dell’iPad, che oggi è un po’ il tablet
di riferimento - molte cose sono cambiate e
alcune paiono tornare: non è forse una tavoletta (tablet, in inglese) il nuovo medium
che spinge per entrare nelle nostre aule?
Ma prima di tutto: cos’è un tablet? È un
computer mobile minimalista.
Le componenti hardware sono
“fuse insieme”: il processore, la
“Uno dei vantaggi del tablet
memoria e la principale perifeè poter avere più immagini
rica di output (il video) stanno
dello stesso soggetto.
tutte in una mano, e la principale periferica di input è l’altra
Mettere a confronto
mano dell’uomo: per interagire
tra loro più scatti consente
con un tablet si usano infatti
allo studente di 'avere
principalmente le dita della
mano in una serie di gestutra le mani', quasi di
re – gesti a un dito o più dita
'toccare' il reperto, con un
insieme – che attivano diverse
dettaglio e una dinamicità
funzioni: aprire un programma,
chiuderlo, cambiare schermaimpossibili su carta"
ta o pagina, spostare oggetti
digitali… Per scrivere, oltre ai
segni tracciabili con il dito, si
usa anche e soprattutto una variante digitale della tastiera fisica, che compare sullo
schermo del tablet solo quando è necessario, anche se, volendo, se ne può aggiungere
una esterna – operazione che tende però
a snaturare il tablet, aumentando la complessità dell’insieme, mentre la sua forza è
appunto l’estrema semplicità. Taluni modelli
sostituiscono all’interazione con le dita o,
più spesso, integrano uno stilo particolare,
ma si tratta a mio parere di elementi fuorvianti, perché il vantaggio dei tablet rispetto
ai computer tradizionali è proprio il
fatto di abbattere ulteriormente la distanza fra la macchina
e l’uomo e, ancor di più, tra
l’uomo e lo spazio cibernetico,
ovvero il mondo digitale, di cui
la regina è Internet. Se il codice
antico e medievale era una tecnologia che immetteva nello spazio
astratto e pulito della dimedialità (scrittura
e immagine statica), il tablet è il ponte di
ingresso per il mondo digitale, ovvero uno
spazio dove convivono scrittura, immagini statiche e immagini dinamiche, suoni,
il tutto nelle dimensioni della rappresentazione (sino a qui era arrivato anche il
codice), ri-creazione (dall’avvento della
fotografia in poi) e creazione della realtà
(cinema, grafica computerizzata e mondi
virtuali). Insomma il tablet non si limita ad
“estendere” ancora di più lo spazio dimediale del codice (e del libro a stampa), ma ci
introduce nello spazio digitale, rendendolo
parte di noi – e noi parte di quello. Tanto
più che, ben oltre la scrittura e l’immagine, vi convivono un’infinità di possibilità
informative, comunicazionali, economiche,
ludiche, ecc.
Per queste ragioni – al di là delle pur significative differenze tecniche – il tablet è
cosa affatto diversa dall’e-reader (letteralmente “lettore elettronico”): quest’ultimo è
un apparato dedicato alla fruizione (non la
scrittura!) di ebook (i cosiddetti “libri digitali”, anche se l’espressione è per me totalmente fuorviante (come ho spiegato sul
mio blog). L’e-reader introduce a un “mondo” di testi digitali, tendenzialmente dimediali (e per lo più in scala di grigi) e con
funzioni sostanzialmente “chiuse”, mentre
il tablet apre alla multimedialità più spinta dove il “codice” della scrittura vive nella
concorrenza dei codici fotografico, cinematografico, ipertestuale, ecc., e di molte
altre cose ancora. Dunque la prima cosa da
sapere è questa: se volete arricchimento e
competizione multimediale, insieme all’immissione nel ciberspazio, il tablet è rela-
focus tech
IMPARARE SEMPRE
App(licazioni) utilizzabili
Partendo dal presupposto dell’arricchimento multimediale, vediamo allora quali sono
alcune delle app(licazioni) utilizzabili con
il tablet, con uno sguardo preferenziale al
mondo Apple, per il semplice fatto che la
scuola dove lavoro ha adottato gli iPad e
dunque li conosco meglio di altre soluzioni.
LeggerE
Distinguiamo due tipologie fondamentali
di file: gli ebook e i pdf, questi ultimi generabili praticamente da tutti senza particolari problemi (è sufficiente esportare o
“stampare” in pdf un qualunque file). Per i
pdf l’app migliore è oggi il Reader di Adobe
(inventrice del formato), che consente di
archiviare i pdf in cartelle, sottolineare, evidenziare, scrivere a mano libera, riempire i
campi vuoti (funzione importante per chi
crea esercizi e test proprio su pdf) ecc. Altra
buona app è GoodReader, con altre funzioni.
Per gli ebook bisogna ribaltare la prospettiva: qui dipende da quali testi (non quali
funzioni) vi servono. Ovvero, se avete bisogno di un testo della tal casa editrice (o
distributore, nel caso di Apple e di Amazon
e della sua famiglia Kindle: e-reader, tablet, store e app), dovrete necessariamente
adottare il metodo di lettura/fruizione imposto dalla stessa, con i relativi vantaggi
e svantaggi. Se invece pensate di usare
degli ebook in formato pubblico .epub (ma
l’offerta di testi scolastici in questo campo è al momento molto limitata, almeno in
italiano), allora potete scegliere tra varie
possibilità, da Stanza a iBooks (quest’ultimo solo per Apple). Esistono infine molti
ebook concepiti come app a sé stanti. Purtroppo spesso le funzioni interattive rivolte
allo studio (sottolineatura, note a margine
ecc.) sono assenti oppure ridotte e poco
funzionali. Una conseguenza che si sarà
già intuita: il tablet promette di “avere tutto a portata di mano”, anzi di dita, però il
dato di fatto è che bisogna sapere in quale
app si utilizza il tal testo, perché i file sono
appunto conservati “dentro” le app, in un
approccio che è radicalmente differente da
quello classico del pc. Naturalmente, esiste
anche una funzione di ricerca sul contenuto del tablet.
Foto: Nicolas Tavernier/Rea/Contrasto
tivamente perfetto; se invece preferite la
grande tradizione dimediale, è al contrario
controproducente.
113
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focus tech
Scrivere
(prendere appunti, redigere un testo, ecc.)
Word non c’è. Microsoft, il gigante creato
da Bill Gates e proprietario del più famoso
e diffuso word processor del mondo, non ne
ha ancora creata una versione per tablet.
Esistono però moltissime app che fanno
“grosso modo” lo stesso, tenuto conto del
fatto che servono solo alcune funzioni di
base: inserire testo, immagini e poco altro.
Per impaginare dignitosamente il tutto è
preferibile trasferire il file su pc, dove lo
spazio video è maggiore.
Dunque si può andare da un semplice blocco note (ne esistono infinità) al (molto diffuso) Documents To Go, che solitamente
gestisce bene anche i file di Office.
Apple propone la versione ridotta di Pages
(il suo concorrente di Word), che è buona
anche per gli appunti. Alcuni studenti preferiscono Keynote (alias PowerPoint o similare), app concepita per realizzare presentazioni ma impiegabile anche per altri usi,
come prendere appunti e generare schemi
di studio.
Dimenticatevi infine di “scrivere a mano”
sul tablet: molti conoscenti ci hanno provato, tutti hanno rinunciato – almeno per
ora. E dunque un piccolo consiglio: prevedete un micro-corso di digitazione a 10
dita: se dovete interagire per tutto l’anno
con una tastiera (fisica o virtuale che sia),
è meglio saperlo fare al meglio…
•Il monumento ai Tetrarchi di
piazza San Marco, a Venezia,
un esempio di come il tablet
permetta di esplorare i
particolari meglio della carta.
Metodi sperimentabili
Condividere. Per condividere i file – sia
da parte del docente, che degli e tra gli
studenti – sono necessari servizi digitali (e gratuiti, almeno a livello base) come
DropBox, oppure Google Apps (tra cui Calendar, Drive per i file, e Sites), ovvero i
servizi di creazione e condivisione di file e
risorse che Google mette a disposizione –
gratuitamente – per i singoli e le istituzioni
educative. Naturalmente può essere che la
vostra scuola abbia già sviluppato un proprio sito in questa direzione: sarà allora da
valutare attentamente l’integrazione con i
tablet che si intendono adottare, per evitare di ritrovarsi a spedire centinaia di email
con allegati: un sistema praticabile ma
scomodo, soprattutto quanti più studenti e
materiali avete.
Immagini e video. Uno dei vantaggi del
tablet è poter avere più immagini dello
stesso soggetto. Mettere a confronto tra
loro più scatti, per esempio, della scultura dei tetrarchi di Venezia (di fronte, lato
sinistro e destro, dettagli vari) consente
allo studente di “avere tra le mani”, qua-
focus tech
IMPARARE SEMPRE
Linguaggio e concetti. Come far assimilare agli studenti il linguaggio proprio di ciascuna materia? Un suggerimento è quello
di “far giocare” lo studente con le parole
per stabilire, nella ripetizione rapida e costante, il rapporto concetto-definizione
attraverso una serie di risorse digitali, tra
cui spicca Quizlet (http://quizlet.com). Si
tratta di un portale online di quiz e giochi con le parole (e le immagini, grazie
all’estensione a pagamento), in cui ogni
docente può creare le proprie “classi virtuali” e far accedere gli studenti per lo
studio personale. A questo link trovate un
mio “set” dedicato a Le parole della Storia
(http://quizlet.com/_eace9), con cui sperimentare il sistema prima di “tuffarsi” a
creare i propri set.
Per non concludere
L’accesso alle “meraviglie” digitali spalanca possibilità e suggerisce di ripensare modalità e tempi dell’insegnamento
e dell’apprendimento. Solo se il docente
saprà portarsi avanti lungo il cammino
potrà suggerire le vie per non perdersi e,
al contrario, arricchirsi. Senza dimenticare
che nessun ritrovato potrà mai sostituire
il docente che, seduto o in piedi che sia,
sorride al suo allievo. •••
Foto: Frederick Florin/AFP/Getty
si di “toccare” il reperto, con un dettaglio
e una dinamicità impossibili su carta – a
meno, ovviamente, di disporre d’una monografia sul tema. La scultura, in questo
caso, si presta bene, essendo naturaliter
tridimensionale, ma la stessa dinamica si
attiva anche con immagini bidimensionali. Una rapida ricerca online aprirà molte
piste per trovare i materiali di partenza,
ma non si può non citare la Web Gallery
of Art (http://www.wga.hu), una miniera vastissima, oppure progetti specifici,
come la visita virtuale delle grotte di Lascaux (http://www.lascaux.culture.fr/#/
fr/00.xml) o della Sistina (http://www.
vatican.va/various/cappelle/index_sistina_it.htm).
E poi, ovviamente, ci sono i video. Personalmente trovo efficaci video brevi (da 3
a 10 minuti al massimo), per evitare l’effetto soporifero che la tele-visione porta
con sé e, soprattutto, perché vi sia subito
dopo l’attivazione didattica in vista del
processo di astrazione e concettualizzazione. Un buon esempio è il documentario
sulla Seconda guerra mondiale Apocalypse
(in francese, ma esistono localizzazioni in
molte lingue, tra cui l’italiano), disponibile
anche su YouTube. Il docente potrà proporre un percorso attraverso alcuni dei
contributi video della serie, per far emergere i momenti chiave che più riterrà idonei per inquadrare la grande tragedia del
1939-1945. Si ricordi che lo studente può
mettere in pausa il video e tornare indietro, in “riletture” del flusso audiovideo che
sono fondamentali per l’apprendimento.
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> Il blog del professor Meschini www.marcomeschini.me
> Aula 1.0 una serie di articoli dell’autore su iS dedicati alla sua esperienza in aula con le nuove tecnologie, http://is.pearson.it/espresso/
aula-1-0-una-voce-dalla-prima-linea-prima-parte-gli-strumenti/
Laboratorio Pearson
Testo e foto di Davide Coero Borga
Viaggio in un liceo-laboratorio
che, a Milano, ha deciso
di mettere i tablet alla prova.
A sorpresa, il vero problema è
la mancanza di banda larga
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
di Riccardo Oldani
Il progetto The Learning Curve realizzato da Pearson studia per la
prima volta le relazioni tra i sistemi educativi dei Paesi, l'economia,
la società e il benessere. E stila la classifica delle nazioni più
virtuose. Per capire punti di forza e debolezza di ciascun Paese
e offrire un aiuto concreto per migliorare
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laboratorio Pearson
T
ablet vuol dire un’applicazione che ti consente di leggere in
pdf un libro di testo, un registro
personale e di classe, non più di
carta, ma anche gestione di parti del programma didattico all’interno di un’applicazione divisa in testi, video, immagini,
audio, schemi. Tablet è condivisione di file
attraverso piattaforme dedicate… È un
ambiente completamente nuovo. Io tento
di spingerlo al massimo delle sue potenzialità, compatibilmente con la collaborazione degli alunni», racconta Andrea
Maricelli, docente di italiano e latino all’Istituto De Amicis di Milano.
Gli istituti De Amicis sono un’isola felice, dove l’85% delle classi può fare affidamento su una bella LIM, la lavagna
interattiva multimediale che a macchia di
leopardo ha sostituito le vecchie lastre di
ardesia appese alle pareti delle classi d’Italia. Qui il 60% dei cinquecento studenti
è armata di tablet, come gli ottanta insegnanti del corpo docente. L’inserimento
di questi nuovi strumenti a scuola è frutto di un progetto voluto dalla direzione
dell’istituto che, nella sede distaccata di
Gorgonzola ha già rifornito di tavolette
elettroniche quasi tutti i duecento ragazzi e i trenta docenti. Una scelta fatta
per avvicinarsi al modo di comunicare degli studenti, ma anche per concretizzare
un desiderio d’innovazione nel percorso
scolastico e declinare i contenuti dei programmi in modo alternativo, nuovo, garantendo a chi è seduto dietro un banco
che la scuola è comunque ancorata a un
mondo che cambia.
L’obiettivo finale è avere studenti che
imparano meglio. «È falso pensare che i
ragazzi studino meno attraverso un supporto come il tablet e le nuove tecnologie
in generale» sostiene Angelo Dalessandri,
coordinatore del progetto. «Chi vuole raccogliere la sfida dello studio continua a
farlo con lo stesso impegno di sempre». Il
punto è che probabilmente sta cambiando il modo in cui si studia, con un moltiplicarsi delle fonti di informazione e la
possibilità di affrontare i temi complessi
in maniera trasversale. Lo studente impara a gestire la complessità, una expertise
sempre più richiesta, anche nel mondo del
lavoro. Il progetto, battezzato Lemmings,
come un celebre videogioco, nasce due
anni fa e coinvolge inizialmente un gruppo
di venti docenti, suddivisi in maniera equa
tra gli istituti di Milano e Gorgonzola e
di tutte le discipline: linguistiche, umanistiche e scientifiche. La sperimentazione
si è posta come obiettivo quello di capire
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
quali sono le potenzialità nell’utilizzo del
tablet all’interno di una didattica realmente innovativa, tentando di motivare
gli insegnanti (ed è un punto che probabilmente distingue questa esperienza da
molte altre) a inventare e sperimentare le
potenzialità dello strumento tablet a livello disciplinare, utilizzando le classi come
laboratorio e tenendo fermi una serie di
obiettivi minimi che i partecipanti al progetto devono raggiungere.
L’idea è che nessuno al di fuori degli
insegnanti può davvero capire quali prospettive apra l’inserimento di uno strumento così sofisticato all’interno di un
sistema scolastico che certo è in evoluzione, ma conserva meccanismi consolidati e
riconosciuti. La prima fase del progetto è
stata interamente dedicata a individuare
una serie di app, di programmi applicativi,
fondamentali, grazie alle quali aprire un
canale di interazione con gli studenti, in
classe durante le lezioni e a casa durante
le esercitazioni e le sessioni di studio. La
ricerca ha privilegiato l’immediatezza, la
facilità di uso e la gratuità, per non gravare ulteriormente sulle tasche di studenti e
insegnanti. La scelta è caduta su app specifiche, dedicate a singoli aspetti e materie, come le scienze o la storia, e altre decisamente trasversali come gli elaboratori
di testo, o i programmi per creare mappe
concettuali. Ma è con l’utilizzo creativo
del tablet che i docenti hanno raggiunto
i risultati più significativi. Le app a disposizione, utili in ambito formativo, solleticano la fantasia dell’insegnante. Immaginate una simulazione virtuale dove, come
in un gioco di ruolo, la classe può partecipare a un evento storico, come la crisi dei
missili di Cuba, nei panni dell’entourage
del presidente Kennedy e “vivere” le difficoltà, i rischi, gli azzardi di una decisione
epocale. Esiste la possibilità concreta di
cambiare i registri narrativi di una materia scolastica. È necessario però un grosso
investimento da parte del professore, che
deve cercare gli strumenti in rete, imparare a conoscerli, testarli in autonomia per
poi poterli riproporre in classe in maniera
efficace. Un vantaggio c’è, e sta nella replicabilità di questi moduli. La app si può
utilizzare più volte e in diversi contesti,
senza parlare della possibilità intrigante
di creare prodotti didattici ex novo, proprio partendo da uno schema di gioco che
si è visto funzionare bene. Dalessandri
definisce Lemmings come un
progetto di successo, «perché
oltre a regalare nuovi e potenti
“Da quando anche
strumenti a quegli insegnanti
i ragazzi hanno il tablet
già inclini a sfruttare la tecin classe, il cambiamento
nologia, l’utilizzo del tablet a
è stato consistente perché
scuola ha saputo coinvolgere
ed entusiasmare anche quella
si possono utilizzare delle
popolazione insegnante meno
risorse internet, si possono
esperta. Questi docenti, pur
assegnare compiti prima
partendo da zero hanno ragimpensabili, le ricerche
giunto un buon livello, tanto
possono diventare
che alcuni oggi utilizzano il
piccoli cortometraggi”
tablet in classe quotidianamente». Ciò dimostra che non
è tanto importante quanto le
nuove tecnologie siano conosciute dagli insegnanti, ma la motivazione
che li spinge a utilizzarle, il desiderio di
mettersi in gioco e la possibilità di rivoluzionare la vita della classe.
Il tablet offre vantaggi piuttosto evidenti. Anzitutto il peso dell’oggetto, che
elimina l’annosa questione della pila di libri che i ragazzi devono trascinarsi dentro
zaini da sherpa: un’unica tavoletta elettronica contiene in un centimetro di spessore le migliaia di pagine dei volumi che accompagnano gli
studenti nell’arco della loro
carriera scolastica. Una libreria imponente, sempre
a disposizione, consultabile in ogni momento. C’è
la possibilità di utilizzare
liberamente immagini
e video senza bisogno
di un’aula multimediale.
•In queste pagine, alcune
immagini dei ragazzi
e i professori dell'Istituto
De Amicis di Milano.
Foto: Coero Borga
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laboratorio Pearson
Guarda il video dell'esperienza
dell'Istituto De Amicis
http://link.pearson.it/C2E2F9B6
E dopo un iniziale senso di smarrimento,
privati del supporto fisico dei libri, i ragazzi hanno saputo adattarsi velocemente
alla scuola 2.0. «Io direi che l’utilizzo di una
tecnologia che appartiene più ai ragazzi che
agli insegnanti non ci mette in svantaggio,
ma in discussione» riflette Fabrizio Di Pietro,
docente di storia e filosofia al De Amicis. «E
questo, se vogliamo, è l’aspetto più bello del
lavoro che facciamo. È una fonte di stimolo e rinnovamento, essenziale per chi deve
rivoluzionare quotidianamente la relazione
con la propria materia e i ragazzi che gli
stanno seduti davanti». Le possibilità offerte dall’impiego delle nuove tecnologie, già
nella scuola di oggi, sono notevoli. Certo,
in realtà pubbliche debilitate dalla cronica
mancanza di risorse, il prezzo per l’acquisto
di un tablet a ogni studente rappresenta un
ostacolo serio. C’è bisogno di tecnologia a
basso costo. Ci hanno pensato in India, dove
un tablet da 30 dollari è nato precisamente
come strumento didattico.
L’UTILIZZO del tablet a scuola sembra la
naturale evoluzione di una didattica che,
per molti, già da qualche anno andava in
quella direzione, con pc e proiettore spes-
so portati in aula. Certo, da quando anche
i ragazzi hanno il tablet in classe, il cambiamento è stato consistente perché si è
capito che la didattica multimediale non è
semplicemente passare dalla carta al pdf o
aggiungere qualche video, bensì qualcosa
di sostanziale: si possono utilizzare delle
risorse Internet che aumentano le competenze degli studenti nelle singole discipline,
si possono assegnare compiti prima impensabili, le ricerche possono diventare piccoli
cortometraggi girati nel luogo dove i ragazzi vengono spediti virtualmente (uno scavo
archeologico, la galleria di un pittore). C’è
chi, fra gli insegnanti, sa trasformare le sue
competenze e con questi nuovi strumenti
ottiene una maggiore potenza di fuoco fra
le trincee dei banchi di formica. Altri non ne
vogliono sapere, ancorati a una narrazione
della materia più tradizionale. Come vuole
la più classica delle definizioni, la tecnologia
spacca insomma i docenti tra apocalittici
e integrati. Anche se, molto spesso, la vera
sfida diventa poi l’accesso garantito a una
banda larga di qualità per studenti e professori, in classe come a casa. Altrimenti si
rischia di passare la lezione nell’attesa che il
video si carichi. •••
Laboratorio Pearson
L'aiuto che VALE
di Stefano Federici e Cristina Gaggioli
laboratorio Pearson
Le tecnologie assistive e gli strumenti compensativi per gli studenti
con DSA non sono un pretesto per non imparare, ma un modo
per dar loro la possibilità di concentrarsi sul ragionamento
e l’attività logica: meglio conoscerli e cominciare a usarli
C
hi di noi non conosce il proverbio tutto italiano "chi non legge
la sua scrittura è un asino di natura?" E se ciò che è capitato a
molti di noi una volta non fosse un intoppo imprevisto? Se ogni volta che si provasse a leggere un proprio manoscritto lo
si trovasse incomprensibile? Avrete notato
che il proverbio non lascia intendere che
l'asino sia un analfabeta o uno che non sa
scrivere, ma una persona che ci si aspetterebbe che non sbagliasse a leggere la propria scrittura, essendo stato alfabetizzato.
Il proverbio esprime con chiarezza un pregiudizio diffuso tra coloro che con facilità
e naturalezza hanno appreso i meccanismi
di decodifica grafema-fonema, nel caso
della lettura, dell’esecuzione del tratto
grafico, nel caso della scrittura, degli automatismi di base del calcolo: è stato così
facile farli propri e automatizzarli che solo
un asino, un testardo, uno stupido potrebbe non riuscirci.
Foto: A Araujo/Shutterstock
122
Ma non è così per un bambino con un
disturbo specifico dell’apprendimento
(DSA). E non perché svogliato, disattento e
non motivato, ma in quanto i meccanismi
neurobiologici che sottostanno ai processi
di apprendimento della letto-scrittura e
del calcolo gli si sono inceppati o funzionano diversamente. Se un bambino dislessico "asino lo è", lo è proprio nel senso più
positivo del termine: è un testardo nell’apprendere nonostante le sue difficoltà, un
testardo nel continuare a leggere un manoscritto che, se lui fosse anche disgrafico,
non scriverà con un tratto grafico corretto, che non smetterà di servirsi delle dita
laboratorio Pearson
per far di calcolo, nonostante abbia capito, forse molto meglio di altri, le regole e
la logica matematica. Non è uno stupido
e per questo soffre dei propri insuccessi
scolastici. Ce l’ha messa tutta e per questo
è mortificato del disprezzo dei compagni.
Se dopo aver ripetuto un certo numero di
volte la tabellina del sei, nove bambini su
dieci sono in grado di ricordarsela, uno,
invece, è completamente impermeabile a
queste informazioni e, se non potesse far
uso di uno strumento compensativo, fosse
anche una tavola pitagorica, nonostante
anni di tentativi per apprendere la stessa
tabellina, sarà costretto a ricorrere a dispendiose strategie alternative, come contare sulle dita.
Foto: Bikeriderlondon/Shutterstock
IMPARARE SEMPRE
Tuttavia, questa difficoltà nel conteggio
e nell’automatizzazione del calcolo non
comporta di per sé una carenza logicomatematica. Il suo senso logico, la sua
Un aggiornamento continuo sul web
per sapere come intervenire
> Il tema dei DSA è ormai entrato pienamente nel mondo della scuola, ma c’è un continuo bisogno
di aggiornamento delle conoscenze, da molti punti di vista. Da un lato, infatti, proseguono in tutto
il mondo gli studi scientifici su dislessia, discalculia e gli altri disturbi dell'apprendimento per mettere
in luce le cause di questi problemi e così aiutare a individuare sempre meglio gli strumenti adatti
a fronteggiarli. Contemporaneamente diventa sempre più ricco il dibattito sugli interventi didattici
e sul confronto delle diverse esperienze, anche internazionali. E poi ci sono le esperienze personali,
di genitori e di docenti, che meritano di essere condivise come piccole o grandi testimonianze delle
difficoltà incontrate e dei risultati ottenuti. Infine, è necessario approfondire le novità dal punto di
vista normativo.
All’interno del sito di iS è stato perciò creato uno spazio specificamente dedicato ai DSA (http://
is.pearson.it/dsa/) dove ogni mese vengono pubblicati interventi di esperti e materiali che è anche
possibile scaricare (http://www.pearson.it/dsa-materiali) e attraverso il quale si possono conoscere tutte
le iniziative per la formazione messe in campo da Pearson (http://www.pearson.it/formazione-eventi).
> Gli esperti che collaborano a questa sezione del sito sono Paola Eleonora Fantoni, docente di inglese
e formatrice sui DSA, Ugo Avalle, pedagogista e formatore, esperto in DSA e BES, Leonardo Romei,
docente di semiotica, Antonella Zauli Sajani, pedagogista, consulente grafologa e rieducatrice
della scrittura, docente.
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124
laboratorio Pearson
intelligenza logico-matematica non sono pensativi sono strumenti didattici e teccompromessi dal suo DSA e potrà ottene- nologici che sostituiscono o facilitano la
re degli ottimi risultaprestazione richiesta
ti scolastici qualora si
nell’abilità deficitaria.
“L'uso di uno strumento
faccia leva sulle sue
Molti credono ancora
compensativo non
capacità logico-mache permettere a uno
tematiche e si comstudente di usare uno
significa che lo studente
pensino le sue carenstrumento compensarinuncia a fare qualcosa
ze attraverso semplici
tivo significhi rinunbensì che non esaurisce
strategie alternative e
ciare per sempre alla
ausili per il calcopossibilità di recupelì le sue risorse"
lo, come la calcolatrice
rare le abilità carenti
parlante, che aiuterebe fornire allo studente
be a superare la difficoltà nel distinguere un pretesto valido per non fare qualcosa:
il 5 dal 2 o il 9 dal 6. Gli strumenti com- far leggere un asino. In realtà, l’introdu-
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
caso vengono chiamati tecnologie assistive. Una soluzione compensativa è spesso
il risultato della combinazione di un comune computer portatile o da tavolo con
cui sono stati installati alcuni applicativi
che in parte si avvalgono di funzioni software già esistenti nel computer, come i
programmi di videoscrittura (Word o Open
Office), e dall’altra aggiungono opzioni specifiche per studenti con DSA come
FacilitOffice (www.facilitoffice.org). Per
esempio, uno strumento come la sintesi
vocale, che trasforma un file di testo in
voce, solleva lo studente con dislessia dal
faticoso compito della lettura, permettendogli di concentrarsi sul contenuto del testo. Qualora un libro non fosse disponibile
in formato digitale si può ricorrere o a un
ausilio come lo scanner a penna che legge
- che oltre a catturare il testo lo pronuncia
e lo definisce parola per parola - oppure al
progetto LibroAID (www.libroaid.it), promosso dall’Associazione Italiana Dislessia,
che fornisce a studenti dislessici o ai loro
genitori una copia digitale dei libri scolastici adottati nelle classi di ogni ordine e
grado.
Ma senza la collaborazione di specialisti
che seguono l’alunno con DSA su un piano
clinico, non è sempre facile per un insegnante capire quando è il caso di allentare
con la lettura autonoma e introdurre strumenti compensativi o quando smettere di
correggere gli errori ortografici e focalizzarsi solo sulla sintassi e il contenuto. •••
zione dello strumento compensativo solleva l’alunno con DSA da una prestazione
resa difficoltosa o impossibile dal disturbo, facendo in modo che le sue risorse
attentive non si esauriscano nell’esecuzione dei meccanismi di base della lettoscrittura o del calcolo, ma si rivolgano ai
contenuti del testo scritto, ai problemi
logico-matematici, al ragionamento e
alla produzione di idee.
Quando parliamo di strumenti compensativi intendiamo strumenti hardware e
software sia di uso comune sia creati per
un uso speciale, che in questo secondo
> Asino chi non legge? Riconoscere
e gestire i disturbi specifici di
apprendimento, di Stefano Federici,
Valerio Corsi e Marina Locatelli,
Pearson, 2014
> Manuale di valutazione delle tecnologie
assistive, di Stefano Federici e Marcia
J. Scherer, Pearson, 30,00 euro, 2013
125
126
Laboratorio Pearson
per disegnare il
di Donato Ramani
futuro
È nato e sta crescendo un movimento trasversale fatto di docenti,
educatori e genitori che mettono al centro quattro concetti chiave per
la formazione dei giovani del futuro: pensiero critico, comunicazione,
collaborazione e creatività. Le loro esperienze, raccontate in una serie
di video, possono diventare un esempio e uno stimolo per molti
IMPARARE SEMPRE
I
n un mondo che sta ridisegnando i
propri connotati con una velocità senza precedenti, la scuola è chiamata a
tenere il passo e a prepararsi a quello
che, da molti punti di vista, rappresenta un
cambiamento epocale. Del resto, tra i banchi
e la cattedra, c’è grande urgenza di sostituire modelli improvvisamente invecchiati con
approcci nuovi e diversi. Ma quali possono
essere questi approcci? Nessuno ancora
lo sa con certezza. Una proposta mette al
centro “Critical thinking, communication,
collaboration, and creativity”. Pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività: quattro “C” per quattro concetti tanto
semplici quanto importanti che indicano la
direzione verso cui dirigersi nella formazione nel ventunesimo secolo. In molti istituti
statunitensi, dalla costa Ovest della California a quella Est della Virginia, questa teoria
è già diventata pratica. A dimostrarlo, tre
video prodotti da Pearson Foundation assieme a EdLeader21, un «network di dirigenti di
scuole e distretti scolastici impegnati nell’integrare le 4C nell’educazione», che raccontano un mondo dell’istruzione che, da quelle
parti, si è già rimboccato le maniche e che
può certamente rappresentare un modello a
cui ispirarsi. Ma che sono anche la testimonianza di un fermento e di un fenomeno inedito, la cui spinta arriva dal basso, da chi, a
livello locale, sta cambiando radicalmente la
didattica in un processo spontaneo sempre
più esteso e comunitario che affianca e influenza i programmi governativi. Attenzione,
però: chi pensa che i concetti trasmessi e le
opinioni espresse riguardino esclusivamente la realtà statunitense si sbaglia. Ciò che
questi tre video dimostrano, infatti, ha un
laboratorio Pearson
sapore universale e, come tale, da prendere
in considerazione anche da chi è immerso
in un contesto culturale ed educativo
di stampo diverso. Del resto anche il
PISA, il Programma per la valutazione
internazionale della formazione scolastica,
nel suo prossimo test (previsto per il 2015)
terrà conto di queste nuove competenze
per le sue valutazioni degli allievi di tutto il
mondo, inserendo ad esempio il collaborative problem solving, la risoluzione collaborativa dei problemi. «Nel decennio passato si
è molto parlato dell’approccio didattico più
opportuno per la formazione degli studenti
del nuovo secolo. Ma ci si è concentrati poco
su che cosa le scuole o i distretti scolastici
devono fare per trasformare tutto questo
in realtà. Ora però esistono esempi concreti
di scuole, dirigenti ed educatori che si sono
impegnati su questo fronte raccogliendo
brillanti risultati» ha dichiarato Ken Kay, amministratore delegato di EdLeader21. Torri
Bryant, Elizabeth Blevins,
Julie Sherill, Andrew Wild,
Critical thinking,
sono soltanto alcuni nomi
dei docenti, dirigenti scocommunication, collaboration,
lastici ma anche genitori e
and creativity. Pensiero critico,
studenti che il cambiamencomunicazione, collaborazione
to lo stanno sperimentando nella loro quotidianità.
e creatività: quattro “C”
Sono loro, con le loro teper quattro concetti tanto
stimonianze raccolte nei
semplici quanto importanti
video, a farci entrare in un
diverso mondo possibile di
cui sono fautori
e promotori, raccontando «i modi
in cui le nuove
strategie educative possono essere integrate e implementate nella scuola e nelle comunità locali» come
ha affermato Mark Nieker, amministratore
delegato e presidente della Pearson Foundation. Passo dopo passo, i tre filmati analizzano ogni singolo aspetto di un processo
complesso ma dalle molte potenzialità. The
Role of Leaders in 21st Century Education, il
primo dei tre video, si concentra sul difficile compito di chi, come dirigente scolastico,
deve pianificare un nuovo modello di formazione forgiato per fornire ai ragazzi gli strumenti, e non solo le nozioni, utili per renderli
protagonisti attivi nella società che verrà.
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laboratorio Pearson
•Alcuni studenti della Catalina
Foothills School District di
Tucson, in Arizona, che hanno
raccontato la propria esperienza
nei video della Fondazione
Pearson.
Nel secondo filmato, The Four C’s: Making
21st Century Education Happen, le testimonianze raccolte forniscono una panoramica
degli approcci adottati in ogni angolo degli
Stati Uniti e delle esperienze già compiute,
affermando il valore della collaborazione e
dello scambio tra docenti, del lavoro in team,
del coinvolgimento attivo degli studenti nel
processo educativo. Soffermandosi anche
sulle difficoltà che questi cambiamenti pongono in essere: per esempio quelle legate al
monitoraggio della nuova didattica e alla valutazione delle inedite prove con cui docenti
e ragazzi sono chiamati a misurarsi. Tema,
questo, approfondito nel terzo filmato intitolato Assessing the Four C's: The Power of Rubrics in cui vengono mostrati gli sforzi fatti
dai diversi distretti scolastici per mettere a
punto protocolli trasparenti ed efficaci per
inserire le 4C nel processo formativo e valutare i progressi degli studenti. Quella che ne
emerge è una scuola sempre più sensibile alla
realtà e alle sue esigenze presenti e future,
capace di mettersi in discussione sostenendo
la circolazione delle idee e favorendo una visione olistica e non più frammentaria dell’educazione. Una scuola che, grazie ai suoi
protagonisti, sa farsi promotrice di un movimento che parte dalla base, denso di idee e di
novità e per questo in grado di dare una vera
svolta alla didattica. Come fare per alimentare questo processo? Elisabeth Celania-Fagen, sovrintendente scolastico della Douglas
County Schools, Colorado, in uno dei video
suggerisce di «pensare in grande partendo dal
piccolo». Un invito, il suo, a mettersi in moto
con coraggio e indipendenza, individuando
quell’eccellenza che, anche a livello locale,
sa fiammeggiare di energia. Incentivare le
proposte del singolo individuo o della singola
realtà che hanno il sapore della novità: per
Celania-Fagen il giusto approccio è questo.
E infatti descrive così la sua ricetta verso il
cambiamento: «Diamo a questi innovatori
sostegno e risorse: le nostre aspettative non
saranno disattese. Le buone idee, poi, si propagheranno da sole e divamperanno rapide.
•••
Come se fossero fuoco». > I video della Fondazione Pearson
http://www.youtube.com/playlist?list=PLD731F512D3D9FEDD
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il labora per l`ap