NOTIZIARIO UNIVERSITÀ  LAVORO
Maggio 2012
Indice Notiziario
La Voce – Scelte poco strategiche
Il Sole 24 Ore – Laurearsi? C’è la crisi, non serve
ItaliaOggi – Se l'istruzione non fa sviluppo
Il Sole 24 Ore – Senza concorsi sempre più lunga la lista dei precari
Il Sole 24 Ore – Precari oltre il 35% dei giovani e salari fermi da vent'anni. La fotografia
dell'Italia secondo l'Istat
la Repubblica – Non è un Paese per donne e giovani e il Mezzogiorno è sempre più alla deriva
la Repubblica (Affari e Finanza) – Il peso degli anni sulla carenza di innovazione
la Repubblica – Tasse sul lavoro, Italia al primo posto
la Repubblica – “Catastrofe lavoro per i giovani. Daremo loro 8mld di fondi Ue”
Corriere della Sera – Figli a casa fino a 34 anni. Pochi matrimoni, più divorzi
SCELTE POCO STRATEGICHE
L'iscrizione a una facoltà universitaria avviene spesso senza guardare avanti, al futuro lavoro che si andrà a
svolgere. Ed è per questo che molti italiani rimpiangono le decisioni prese passato, perché le loro mansioni
lavorative non corrispondono alle competenze acquisite negli studi. È possibile evitare o comunque ridurre il
rischio di una scelta universitaria deludente e i successivi pentimenti? Forse, le famiglie dovrebbero iniziare
a discuterne presto, al momento di decidere quale scuola superiore far frequentare ai propri figli.
In tanti abbiamo scelto la facoltà universitaria un po’ “a casaccio”. Stendiamo un velo sugli autori, e
parliamo degli amici. Guido, un amico di Nicola, si era iscritto alla Bocconi perché vicina a casa. E suo
fratello minore lo aveva poi seguito perché, insomma, facevano tutto assieme. Daniela, un’amica di Pamela,
le ha recentemente raccontato di aver deciso per la facoltà di Sociologia aprendo a caso il libretto di guida
alle facoltà universitarie, ma riservandosi un secondo tentativo se fosse uscita Giurisprudenza o Medicina.
RIMPIANTI TRA UNIVERSITÀ E LAVORO
Sospettiamo che questi aneddoti, magari in forme meno estreme, non siano rari. E che un certo
disorientamento al momento di decidere la facoltà universitaria sia piuttosto comune. Ciò può condurre a
scelte più intuitive che ragionate. Alcuni poi per fortuna si ritrovano soddisfatti; altri purtroppo molto
meno. Sebbene sia difficile fornire una stima precisa, una percentuale significativa di laureati dichiara di
avere dei rimpianti. Ad esempio, una recente rilevazione rivela che il 23 per cento degli italiani è pentito
della facoltà universitaria seguita, e un ulteriore 7 per cento frequenterebbe di nuovo la stessa facoltà, ma
in una università diversa.1
Le conseguenze di “facoltà scelte male” si vedono sul mercato del lavoro. Oltre il 20 per cento dei lavoratori
italiani dichiarano di trovarsi in un cattivo match lavorativo: le loro mansioni lavorative non corrispondono
alle competenze acquisite negli studi.2 È quindi lecito chiedersi se, e con quale frequenza, la scelta
dell’università sia fatta guardando avanti, al mercato del lavoro. Forse non così spesso. Il sospetto sorge
anche perché sappiamo da altre fonti che, in aggregato, la scelta della facoltà universitaria in Italia è poco
allineata con le esigenze del mercato del lavoro.3
Attenzione: non vogliamo necessariamente dire che si debba o possa cambiare il modo in cui i giovani
scelgono la facoltà universitaria. È possibile, e in parte condivisibile, che la scelta venga fatta seguendo i
propri gusti e le proprie passioni più che pensando al lavoro futuro. È anche vero, però, che non pochi
laureati dichiarano di avere rimpianti e che un numero significativo è sottooccupato o disoccupato. E allora,
ci chiediamo: c’è spazio per evitare o comunque ridurre il rischio di una scelta universitaria deludente, e i
successivi rimpianti? Ciò non vuol dire scegliere pensando solo al portafoglio, ma significa pensare anche a
quello, assieme ad altre considerazioni. E, soprattutto, significa fare una scelta ragionata.
UN PROCESSO POCO RAGIONATO
È difficile sapere quanto, in media, sia ragionato il processo che porta alla scelta della facoltà universitaria.
Semplificando, ci sono almeno un paio di fattori che possono determinarla. Partiamo da lontano. Il tipo di
1
Tavola 56 in Kenny Peterson “Graduates from Higher Education in Europe,” Statistics Sweden, 2007. Disponibile online a
http://www.fdewb.unimaas.nl/roa/reflex/documents%20public/publications/REFLEX_Sweden.pdf
2
Figura 5.3 da Wasmer, E., P. Fredriksson, A. Lamo, J. Messina, and G. Peri. 2007. “The macroeconomics of education”. In
Education and training in Europe, ed. G. Brunello, P. Garibaldi, and E. Wasmer, 1– 140. Oxford: Oxford University Press.
3
Si veda http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002930-351.html
istruzione secondaria influisce considerevolmente sulla scelta della facoltà universitaria. Per fare un
esempio su tanti, chi studia ragioneria alle superiori poi tende a iscriversi alla facoltà di economia e
commercio.4 Ma come si decide, allora, la scuola superiore? Una recente ricerca mostra che sono i giovani
stessi spesso a guidare il processo di scelta.5 E la maggior parte dei quattordicenni non sembra proprio
conoscere l’ordine di grandezza di un salario corrispondente a un diploma e a una laurea. I genitori stessi
faticano a rispondere alla domanda. Inoltre, questa prima decisione sembra presa senza guardare troppo
avanti, alle successive scelte della facoltà universitaria o del tipo di lavoro.6
Se quindi i ragazzi intraprendono l’istruzione secondaria in maniera poco strategica, che cosa si sa della
scelta universitaria? Non molto, in realtà. La nostra sensazione, necessariamente aneddotica, è che, in molti
casi, non sia fatta sempre con grande attenzione al mercato del lavoro. E i dati riportati sopra sembrano
offrire qualche supporto a questa sensazione.
In conclusione: non pochi italiani rimpiangono la scelta della facoltà universitaria. Ci sembra plausibile che
molti rimpianti riflettano l’essersi trovati spiazzati sul mercato del lavoro, in parte per la poca “rivendibilità”
di certe lauree, scelte magari senza grande pianificazione strategica. Focalizzandoci su questo aspetto, ci
chiediamo: si può pianificare meglio il tipo di “capitale umano” che si acquisisce fra i 14 e i 25 anni? A chi
crede di sì, suggeriamo di avvicinarsi a questa scelta in maniera ragionata, già a partire dalla selezione della
scuola superiore. Spingendoci oltre il nostro seminato (siamo solo economisti, dopo tutto) ci permettiamo
di suggerire a quelle famiglie che si vogliono porre il problema del mercato del lavoro per i propri figli, di
mettere la questione sul tavolo. E, per quanto possibile, di discutere esplicitamente, strategicamente, e in
maniera informata l’acquisizione di capitale umano dei figli. In fondo, questa è una delle scelte più
importanti nella vita di una persona.
di Pamela Giustinelli e Nicola Persico
18 Maggio 2012
4
Si veda Bratti, M. e S. Staffolani (2001), ‘Performance accademica e scelta della facoltà universitaria: Aspetti teorici e evidenza
empirica’, Rivista di Politica Economica, SIPI, Vol. 91(7-8), pp. 203-244.
5
Giustinelli, P. (2011), “Group Decision Making with Uncertain Outcomes: Unpacking Child-Parent Choice of the High School
Tracks,” Human Capital and Economic Opportunity Working Paper, 2011-030. Disponibile online a
http://humcap.uchicago.edu/RePEc/hka/wpaper/Giustinelli_2011_group-decision-making.pdf I dati di questa ricerca sono limitati
ad un campione di scuole del comune di Verona, e non sono quindi rappresentativi a livello nazionale.
6
Questa evidenza è supportata anche da Bratti, M. (2001), “Oltre la scuola dell’obbligo. Un’analisi empirica della decisione di
proseguire nell’istruzione post-obbligatoria in Italia”, Moneta e Credito, n. 214, pp. 175-203, per un campione rappresentativo a
livello nazionale.
Precari oltre il 35% dei giovani e salari fermi da vent'anni.
La fotografia dell'Italia secondo l'Istat
Si vive più a lungo, ma le culle sono sempre più vuote e l'Italia non è un Paese per giovani e donne. La crisi
ha generato molte difficoltà nel lavoro: la disoccupazione ha raggiunto il 9,5%, metà dei disoccupati non ha
lavoro da più di un anno, ma si registra una leggera ripresa dell'occupazione, anche se il 35% dei giovani
sono precari. I salari sono fermi da vent'anni. L'economia è sotto ai livelli pre-crisi e le imprese italiane
rischiano il credit crunch. È in chiaroscuro la fotografia scattata dall'Istat nel suo consueto rapporto annuale
sulla situazione del Paese presentato alla Camera. Un Paese con 24 milioni di famiglie nel quale l'economia
"sommersa" é stimata nel 2008 in una forbice tra 255 e 275 miliardi di euro, pari al 16,3-17,5% del Pil. È
allarme povertà nel Sud, dove quasi una famiglia su 4 é nell'area della povertà e il 68,2% delle persone
povere vive nel Mezzogiorno.
Giovannini: attenzione alla politica fiscale
In vista degli sviluppi dei prossimi 18 mesi per l'Italia si prefigura la «necessità di mantenere elevata
l'attenzione sul fronte della politica fiscale», ha sottolineato il presidente dell'Istat, Enrico Giovannini,
presentando il rapporto annuale 2012, tenendo particolarmente conto dei temi relativi alla crescita e
all'equità».
Occupazione in aumento nel centro-nord
In Italia, l'occupazione totale é aumentata tra il 1993 e il 2011 di circa 1,7 milioni (+7,8 per cento).
L'aumento ha riguardato esclusivamente il centro-nord, mentre nel mezzogiorno l'occupazione é passata da
circa 6,4 a 6,2 milioni. Tra il 1995 e il 2011, l'occupazione nei paesi Ue15 é aumentata di 24,7 milioni di
unità (+16,6 per cento). La crescita é stata costante fino al 2008, in netta caduta nel 2009-2010 e in
modesta ripresa lo scorso anno.
Disoccupazione al 9,5% nel 2012
Il marcato incremento delle persone in cerca di occupazione e la perdita di posti di lavoro derivante dalle
difficoltà del sistema produttivo hanno conseguenze per il tasso di disoccupazione che raggiungerebbe il
livello del 9,5% nel 2012 e del 9,6% nel 2013.
Metà dei disoccupati non trova lavoro da un anno
Metà dei disoccupati italiani non trova lavoro da almeno un anno (51,3%). Un dato allarmante emerso
dall'ultimo rapporto Istat, se confrontato con il 2010 in cui la disoccupazione di lunga durata toccava il 48%
dei lavoratori mentre nel 2008 il 45%. Inoltre, emerge che continua a crescere a ritmi sostenuti il numero di
persone in cerca di una prima occupazione: un fenomeno che investe soprattutto le donne e i giovani fino
ai 29 anni. Per quest'ultimi, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 23% nel quarto trimestre 2011 (era il
21,1 nello stesso periodo del 2010).
Salari fermi da vent'anni
I salari reali sono rimasti al palo in Italia negli ultimi 20 anni. «Tra il 1993 e il 2011 - spiega l'Istat - le
retribuzioni contrattuali mostrano, in termini reali, una variazione nulla, mentre per quelle di fatto si rileva
una crescita di quattro decimi di punto l'anno».
Meno occupati under 30
Nel 2011 sono diminuiti gli occupati appartenenti alle classi d'età più giovani: 93 mila in meno tra i 15 e i 29
anni e 66 mila in meno tra i 30 e i 49 anni. Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale 2012, aggiungendo che,
invece, sono cresciuti gli occupati con almeno 50 anni (+254 mila persone), un tendenza che, spiega
l'Istituto di statistica, «può essere ricondotta alla modifica dei requisiti, sempre più stringenti, per accedere
alla pensione».
Leggera ripresa dell'occupazione
Leggera ripresa dell'occupazione nel 2011. «Sulla base delle stime di contabilità nazionale, l'occupazione, in
termini di unità di lavoro standard, è cresciuta dello 0,1 per cento nel 2011 (23 mila unità di lavoro in più
rispetto al 2010) - si legge nel Rapporto annuale Istat 2012-. L'incremento del volume di lavoro è derivato
dalla contrazione dello 0,7 per cento della componente indipendente, mentre quella alle dipendenze ha
segnato una crescita dello 0,4 per cento».
Mamme penalizzate nell'accesso al mondo del lavoro
Le mamme sono molto più penalizzate dei papà nell'accesso al mondo del lavoro: la probabilità di trovare
lavoro per le madri rispetto ai padri è infatti 9 volte inferiore nel Nord, 10 nel Centro e ben 14 nel
Mezzogiorno. Il rapporto Istat 2012 evidenzia come «le minori opportunità di occupazione e i guadagni più
bassi delle donne, insieme alla instabilità del lavoro, sono fra le principali cause di disuguaglianza in Italia».
E soprattutto tra i giovani che rischiano di essere «a lungo» atipici.
Donne discriminate in famiglia
Si rileva nel Paese ancora una forte discriminazione in famiglia. Solo in una coppia su venti, sia il lavoro
familiare sia il contributo ai redditi sono equamente distribuiti fra partner. In una coppia su tre la donna
non lavora e si occupa da sola della famiglia, spesso senza avere accesso al conto corrente e senza
condividere le decisioni importanti con il partner. In una coppia su quattro la donna guadagna meno del
partner, ma lavora molto di più per la famiglia. L'Italia - si legge nel Rapporto - è in fondo alla classifica
europea per il contributo della donna ai redditi della coppia: il 33,7% delle donne tra i 25 e i 54 anni non
percepisce redditi (il 19,8% nella media Ue27). Nei paesi scandinavi le coppie in cui la donna non guadagna
sono meno del quattro per cento, in Francia il 10,9 per cento e in Spagna il 22,8 per cento.
Solo in una coppia su 20 contributo equo fra i coniugi
Dall'indagine dell'Istat emerge inoltre che in una coppia ogni cinque, anche guadagnando come il partner,
la donna svolge la maggior parte del lavoro domestico e di cura. Solo in una coppia su venti, sia il lavoro
familiare sia il contributo ai redditi sono equamente distribuiti fra partner. Nelle coppie in cui la donna non
lavora (30% del totale), è più alta la frequenza dei casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1%
contro il 28,6% degli uomini); non è libera di spendere per sé stessa (28,3%), non condivide le decisioni
importanti con il partner (circa il 20%); non è titolare dell'abitazione di proprietà (più del 50%).
Economia sotto il livello pre-crisi
Il Pil italiano in volume ha segnato nel 2011 una crescita dello 0,4%. Lo ricorda l'Istat nel Rapporto annuale
2012, sottolineando che «l'attività economica non ha ancora recuperato il livello precedente alla crisi del
2008-2009». Il sistema delle imprese italiane, «che non aveva ancora recuperato le perdite subite con la
crisi del 2008-2009, ha sperimentato nel 2011 una nuova fase di difficoltà derivante dal sovrapporsi di una
contrazione della domanda interna e di un indebolimento di quella estera», spiega l'Istat. «Il recupero
ciclico dell'attività produttiva dai minimi del 2009 è proseguito fino alla prima metà del 2011, per poi
segnare - evidenzia - una netta inversione di tendenza nella seconda parte dell'anno».
Economia sommersa stimata fra i 255 e i 275 miliardi
L'economia "sommersa" é stimata nel 2008 in una forbice tra 255 e 275 miliardi di euro, pari al 16,3-17,5%
del pil. L'Istat ricorda che il contrasto alle attività sommerse «costituisce un'importante opportunità» per il
riposizionamento competitivo dell'economia italiana. L'Istat segnala che l'economia sommersa ha
progressivamente ridotto la sua incidenza, nel 2000 era tra il 18,2% e il 19,1 per cento. «L'effetto della crisi,
tuttavia, a parità di altre condizioni ha verosimilmente allargato l'area dell'economia sommersa». Già nel
2008 l'area del sommerso era leggermente aumentata rispetto al 2007 mentre per il periodo più recente
indicazioni in questa direzione si ricavano dall'andamento del lavoro non regolare, che contribuisce per una
percentuale del 35.40% al valore aggiunto del sommerso. Nel 2008 il tasso di irregolarità nell'impiego a
tempo pieno era pari all'11,8% dell'occupazione totale, cioé 2,94 milioni su 24,9 milioni. Le stime realizzate
per il 2010 indicano una stabilità nelle posizioni di lavoro irregolari pari a 2,95 milioni.
Le imprese italiane rischiano il credit crunch
Le imprese italiane rischiano il credit cruch, spiega il Rapporto Istat. «La modesta attività di investimento è
stata accompagnata da crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. L'indagine sulla fiducia delle
imprese manifatturiere segnala come, nella seconda metà del 2011, la percezione delle imprese sulle
condizioni di credito sia peggiorata bruscamente: la percentuale di imprese che avverte un inasprimento
delle condizioni di finanziamento, in crescita pressoché continua dalla metà del 2010, sul finire del 2011 si è
attestata in tutti i settori su livelli compresi tra il 35 e il 45 per cento, valori molto elevati e paragonabili a
quelli osservati nelle fasi più severe della crisi dell'autunno 2008». Al deterioramento delle condizioni
creditizie - si legge ancora - «si è associato, con qualche ritardo, un aumento della quota di imprese che si
ritiene effettivamente razionata, soprattutto di quelle che si sono viste rifiutare dalla banca il
finanziamento richiesto». Rispetto alle condizioni prevalenti nel marzo 2008, nei comparti della manifattura
e dei servizi «sembrano emergere indizi di credit crunch tra la fine del 2011 e il primo trimestre 2012 spiega il Rapporto Istat. Dall'analisi svolta, risulta che, la solidità» dell'impresa ha un ruolo significativo in sé
nel ridurre la probabilità di rifiuto del credito richiesto a prescindere dalla dimensione dell'impresa, ma la
penalizzazione dovuta alla dimensione non è pienamente compensata dall'essere in buone condizioni
economiche».
Allarme povertà al Sud
È allarme povertà nel Mezzogiorno: quasi una famiglia su 4 é nell'area della povertà e il 68,2% delle persone
povere vive nel Mezzogiorno. La povertà relativa si mantiene stabile al 10-11% negli ultimi 15 anni grazie
alla continua erosione della propensione al risparmio ma preoccupa l'elevato divario tra Nord e Sud. Al
nord solo il 4,9% dei nuclei familiari é sotto la soglia della povertà (per una famiglia di due componenti una
spesa di 992 euro mensili nel 2010) contro il 23% del Sud. Ma nel Mezzogiorno c'é anche una maggiore
gravità del disagio. L'intensità della povertà raggiunge il 21,5% contro il 18,4% osservato al Nord (la spesa
media equivalente tra le famiglie povere del sud é pari a 779 euro contro gli 810 e i 793 euro rilevati tra le
famiglie del Nord e del centro). Particolarmente grave risulta la condizione delle famiglie in Basilicata, Sicilia
e Calabria.
Si vive più a lungo
Si vive sempre più a lungo, gli uomini in media 79,4 anni e le donne 84,5. In Europa soltanto gli uomini
svedesi hanno una speranza di vita (79,6 anni) superiore a quella degli italiani, mentre solo in Francia e in
Spagna le donne sono più longeve delle italiane (85,3 anni in entrambi i paesi). Dal 1992 a oggi gli uomini
hanno guadagnato 5,4 anni di vita media e le donne 3,9 anni, soprattutto grazie alla riduzione della
mortalità nelle età adulte e senili. Alla riduzione della mortalità per malattie del sistema circolatorio si deve
un guadagno di 2,1 anni in entrambi i sessi, mentre la riduzione della mortalità per tumori maligni ha
contribuito per 1,2 anni all'incremento della vita media degli uomini e per 0,6 anni a quello delle donne.
22 maggio 2012
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RAPPORTO ISTAT 2012
Non è un Paese per donne e giovani e il Mezzogiorno è
sempre più alla deriva
L'Istituto di Statistica mette a fuoco tutte le disuguaglianze che allontanano sempre di più l'Italia dagli
standard europei. L'esclusione comincia dai banchi di scuola, e prosegue con il lavoro atipico. Il 33,7% delle
donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce alcun reddito. E nei servizi sociali c'è un baratro tra Nord e Sud
ROMA - Il Paese dove appena il 20,3% dei figli degli operai è arrivato all'università, contro il 61,9% dei figli
delle classi agiate, della generazione nata negli anni '80. Dove il 30% dei figli degli operai abbandona le
scuole superiori contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. Perché in Italia
la selezione comincia dai banchi di scuola, e non si tratta di una selezione naturale: l'ascensore sociale è
bloccato da lungo tempo, dagli anni '60, rileva il Rapporto Annuale Istat.
Ma è soprattutto ora, con la crisi, che le disuguaglianze si sono ampliate a livelli insopportabili per un Paese
civile. Un Paese civile le colma attraverso la scuola e i servizi sociali. In Italia la scuola prende atto della
disuguaglianza appena si conclude il ciclo obbligatorio, e i servizi sociali aumentano a dismisura le disparità
tra Nord e Sud, uomini e donne, garantiti e atipici, giovani e anziani.
Classi sociali ghetto. Che l'ascensore sociale si fosse bloccato da oltre 50 anni non ce ne siamo accorti
inizialmente per via dei cambiamenti nella struttura dell'occupazione che, a partire dal dopoguerra, ricorda
l'Istat, hanno interessato in misura massiccia il settore agricolo, che si è via via ridimensionato a favore
degli altri settori produttivi. E così "si sono spostati 9 figli di operai agricoli e poco meno di nove figli dei
coltivatori diretti e piccoli proprietari terrieri su 10", e "la quota degli operai agricoli sul totale degli
occupati si è ridotta considerevolmente, passando dal 7,7 per cento all'1,6 per cento".
Però, al netto di questo movimento, "la classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato
finale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte agli individui: al netto degli effetti
strutturali, tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a trattenere al
loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti di classe sono tanto meno frequenti quanto più
grande è la distanza che le separa".
Il contributo del fisco alla disuguaglianza. Il fisco, rileva l'Istat, dovrebbe avere un effetto redistributivo. E
in effetti le detrazioni Irpef pari a 1.230 euro in media per i contribuenti a basso reddito si riducono a 720
euro per chi ha un reddito tra i 28.000 e i 55.000 euro per poi annullarsi, e anche le detrazioni per i familiari
a carico vanno a vantaggio dei redditi più bassi. Però "gli abbattimenti e le deduzioni dell'imponibile,
invece, favoriscono particolarmente le famiglie ad alto reddito e riducono la progressitività". Infatti sono
massime (circa 5.700 euro) per i contribuenti che dichiarano più di 75.000 euro e minime (880 euro) per chi
dichiara meno di 15.000 euro. Per gli incapienti (coloro che non arrivano al reddito minimo tassabile) non è
previsto alcun beneficio. Inoltre le detrazioni favoriscono le famiglie con due o più percettori di reddito,
contro quelle in cui a lavorare è solo uno.
Le donne, sempre più escluse. Nei Paesi scandinavi le coppie in cui la donna non percepisce un reddito da
lavoro sono meno del 4%, in Francia il 10,9%, in Spagna il 22,8%, nella Ue27 il 19,8%. In Italia il 33,7% delle
donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce alcun reddito, dato che ci fa precipitare in fondo alla classifica
europea per il contributo della donna ai redditi della donna. Come vivono queste donne a carico dei mariti?
L'Istat ce ne riporta un ritratto di sapore medievale, che vale la pena di riportare per intero.
L'angelo del focolare. "Nelle coppie in cui la donna non lavora (30% del totale) è più alta la frequenza dei
casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1% contro il 28,6% degli uomini); non è libera di
spendere per sé stessa (28,3%), non condivide le decisioni importanti con il partner (circa il 20%); non è
titolare dell'abitazione di proprietà". Inoltre le moglie separate o divorziate sono più esposte al rischio di
povertà a fronte dei mariti nella stessa situazione: 24% contro 15,3%.
Gli atipici, i paria del mondo del lavoro. I dati Istat sulle disuguaglianze a sfavore dei lavoratori atipici
dovrebbero far riflettere chi esalta i pregi della flessibilità. Il peso degli occupati atipici (cioè dipendenti a
tempo determinato, collaboratori o prestatori d'opera occasionali) sul totale degli occupati è in aumento,
tanto che è entrato nel mondo del lavoro da atipico il 31,1% dei nati negli anni '70, ma il 44,6% dei nati
dagli anni '80 in poi. Non sempre quest'ingresso dà l'accesso a un'occupazione stabile. Anche qui, la classe
sociale di provenienza gioca pesantemente il suo ruolo: "Il passaggio a lavori standard è più facile per gli
appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro atipico, dopo dieci
anni, nel 29,7% dei casi è ancora precario e nell'11,6% ha perso il lavoro".
Mezzogiorno: la débâcle dei servizi sociali. Nel Mezzogiorno va peggio per tutti: per gli operai, per i
giovani, per le donne. Ma quello che colpisce è il viaggio che l'Istat ha compiuto nei servizi sociali. I servizi
sociali, proprio come la scuola, dovrebbero attuare il secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione:
mettere i cittadini svantaggiati nelle medesime condizioni di partenza di quelli privilegiati.
E invece là dove l'economia è depressa, e dove è più importante il ruolo dei servizi sociali pubblici, si
spende meno e male. Qualche dato: nel 2010 il Servizio sanitario nazionale ha speso 1833 euro pro capite,
che vanno dai 2.191 della provincia di Bolzano ai 1.690 della Sicilia. Le strutture residenziali per anziani
offrono in media 37 posti letto ogni 1000 anziani residenti nel Nord, e appena 10 al Sud. I livelli più alti di
soddisfazione per i servizi ospedalieri si riscontrano in Piemonte, Valle d'Aosta, Trento, Veneto, Emilia
Romagna e Toscana, i più bassi in Campania e Sicilia.
La spesa sociale nel 2009 in seguito alla crisi è diminuita dell'1,5% nel Mezzogiorno, ma è aumentata del 6%
nel Nord-Est, del 4,2% nel Nord-Ovest e del 5% al Centro. Per i servizi sociali i comuni calabresi spendono 26
euro a persona, quelli della Provincia Autonoma di Trento 280 euro. Per i disabili i comuni del Sud
spendono otto volte meno di quelli del Nord. I nidi pubblici sono presenti nel 78% dei Comuni del Nord-Est
ma nel 21% di quelli del Sud.
Di ROSARIA AMATO
22 maggio 2012
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