ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
Ufficio stampa
Rassegna
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21 marzo 2008
Responsabile :
Claudio Rao (tel. 06/32.21.805 – e-mail:[email protected])
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SOMMARIO
Pag. 3 RIFORME GIUSTIZIA: Cambiare la giustizia per cambiare il Paese
di Michelina Grillo - Presidente Oua (guida al diritto – il sole 24 ore)
Pag. 5 RIFORME GIUSTIZIA: Rinnovamento di Magistratura e Avvocatura per
combattere le disfunzioni del sistema - di Oreste Dominioni - Presidente
dell’Unione delle Camere penali italiane (guida al diritto – il sole 24 ore)
Pag. 7 RIFORME GIUSTIZIA: Uffici moderni e riforma dei codici in conformità agli
standard europei - di Simone Luerti - Presidente dell’Associazione nazionale
magistrati (guida al diritto – il sole 24 ore)
Pag. 9 RIFORME GIUSTIZIA Una performance di settore poco edificante migliorabile
solo attraverso la meritocrazia - di Valter Militi - Presidente dell’Associazione
italiana giovani avvocati (guida al diritto – il sole 24 ore)
Pag.10 ELEZIONI: Giovani avvocati preoccupati per visione accusatoria e di polizia
(apcom)
Pag.11 GIUDICI DI PACE: I giudici delle multe (il corriere della sera)
Pag.13 GIUDICI DI PACE: Addio illusione della riforma a costo zero
di Luigi Ferrarella (il corriere della sera)
Pag.14 COSTI GIUSTIZIA: Giustizia, il ministro aggiusta virgole e zeri ai conti sul rito
Civile - del ministro della giustizia Luigi Scotti (italia oggi)
Pag.15 CLASS ACTION: Class action non retroattiva (il sole 24 ore)
Pag.16 CLASS ACTION: I punti critici (il sole 24 ore)
Pag.17 ANTIRICICLAGGIO: Libretti al portatore più snelli dal 30 aprile (il sole 24 ore)
Pag.18 PREVIDENZA: Per le Casse nuovo passo nella difficile autonomia
di Guglielmo Saporito (mondo professionisti)
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MONDO PROFESSIONISTI
Cambiare la giustizia per cambiare il Paese
12 mosse per cambiare la giustizia e migliorare l’Italia
di Michelina Grillo - Presidente Oua
Se c’è la volontà ”Si può fare”, come direbbe Veltroni, e se c’è la volontà è possibile “Far rialzare
l’Italia”, usando le parole di Berlusconi. Per noi avvocati, che da almeno quindici chiediamo di sottrarre
la Giustizia allo scontro tra fazioni, il clima di queste settimane è qualcosa in più di una boccata
d’ossigeno, forse è di nuovo possibile riportare la riflessione su temi essenziali allo sviluppo del nostro
Paese e per la garanzia dei diritti dei cittadini, Discutendo nel merito delle questioni le distanze si
accorciano e gli anatemi diventano fisiologiche divergenze di vedute sulle quali è certamente possibile
trovare punti di accordo. Non sottovalutando, tra l’altro, come molte proposte, seppure ancora in bozza
attendendo i programmi elettorali, appaiono assolutamente concordanti. Ottimisti, come d’obbligo per
chi si occupa di politica, e scettici come ci impone l’esperienza, abbiamo provato a dare contenuto a
questo nuovo clima sfidando tutti gli schieramenti politici su un pacchetto di proposte concrete. Si tratta
di dodici punti di buon senso, frutto dell’esperienza di chi vive sul campo quotidianamente il degrado ai
quale e giunta la nostra giurisdizione, me frutto anche di un lavoro di approfondimento e analisi avviato
ormai da oltre un decennio. L’obiettivo, l’abbiamo già detto, è quello di riportare i cittadini al centro
della Giustizia e la Giustizia al centro della Politica. Noi ci crediamo e, infatti, la prima delle 12
proposte che abbiamo avanzato è la creazione di una Costituente sulla giustizia, di cui facciano parte
parlamentari, magistrati, avvocati e rappresentanti di tutti i settori interessati al rilancio della
giurisdizione e alla tutela dei diritti dei cittadini. È l’evoluzione di una storica proposta dell’Oua, che ha
anche avuto di recente importanti risultati concreti con la Conferenza nazionale sulla Giustizia di Roma
dello scorso ottobre. Ma se ora sarà la politica, il governo e l’opposizione insieme, ad assumere la
necessità prioritaria di rilanciare un grande piano di riforme che parta dall’ascolto di chi la giustizia la
frequenta tutti i giorni e da anni è impegnato a proporre soluzioni per farla uscire da una crisi sempre
più grave, allora è possibile compiere un grande salto di qualità. Sarebbe la sede migliore nella quale
fare emergere le proposte per aprire la strada ad un dibattito parlamentare sereno e, possibilmente,
rapido. Nella Costituente per la Giustizia gli avvocati arriveranno con la forza delle loro proposte, con
la forza di anni di analisi e di confronto con tutti. Un’esperienza che oggi mettiamo al servizio di una
politica che, finalmente sembra voler ascoltare. È essenziale sfrondare la giungla del processo civile,
con la riduzione e semplificazione dei riti, individuando pochi modelli, modulabili in relazione ai
contesti specifici. Anche nel penale occorre intervenire sul processo, assicurando certezza dei tempi ed
effettività delle garanzie e delle sanzioni Ma in questo settore non si può prescindere da una consistente
e ragionata depenalizzazione. La sicurezza dei cittadini passa per la certezza del diritto, per l’effettività
delle pene unita al rispetto delle garanzie e non per la proliferazione delle figure di reato che serve solo
a fare la voce grossa e ad ingolfare i tribunali. Producendo, alla fine, l’effetto diametralmente opposto.
In entrambi i settori va rilanciato il ruolo della difesa, fulcro di ogni idea di giurisdizione e non, come
purtroppo spesso è stata dipinta, come zavorra. Una difesa che deve avere spazio e legittimità anche nei
sistemi alternativi. Fuori dai processi, occorre avere un quadro aggiornate e attendibile della realtà. Per
questo, anche qui continuando una storica battaglia dell’Oua, proponiamo la creazione di un
Osservatorio sui dati. Trasparente e cogestito, con la partecipazione attiva dell’avvocatura. Se la
politica sta abbattendo molti tabù, altrettanto devono fare avvocati e magistrati. È bene, se si vuole
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essere onesti, ridurre gli sprechi — se ci sono — ma soprattutto stanziare finalmente più risorse per un
settore da troppi anni sull’orlo della bancarotta. L’efficienza nella gestione non è più un optional e
sarebbe bene iniziare a scegliere i dirigenti degli uffici anche per le capacità organizzative. Chi non è
capace di gestire non può guidare un ufficio. Una sfida, quella dell’efficienza, che impone di far partire
finalmente su tutto il territorio nazionale il processo civile telematico e, più in generale, investire in
modo massiccio sull’uso delle tecnologie. Penso, tra l’altro, a forme moderne di registrazione delle
udienze, alla creazione di fascicoli elettronici di tutti i procedimenti completi e consultabili a distanza
dagli aventi diritto g via cori, utilizzando tutte le possibilità offerte dalla tecnologia. È anche importante
riprendere il discorso sulla magistratura onoraria e sui sistemi alternativi. Due temi troppo spesso
analizzati con un approccio esclusivamente deflattivo che, sebbene non trascurabile, rischia di risultare
controproducente. Infine, ma solo per cortesia istituzionale, parliamo anche di noi: gli avvocati, i
professionisti, Oggi il Pil italiano, ma in generale in tutti i Passi industrializzati e sempre più
concentrato sui servizi e sempre meno nell’industria. Un processo inarrestabile, destinato a crescere in
futuro. È ora che la politica ne prenda atto, mutando consoli- date prassi istituzionale e coinvolgendo a
pieno titolo tra le parti sociali anche i rappresentanti delle professioni che dello sviluppo dei servizi
sono un tassello essenziale. Noi siamo disponibili a fare la nostra parte, e non da oggi, per riformare la
nostra professione. Vogliamo regole rigorose per garantire che i nuovi avvocati siano preparati e
rimangano tali per tutta la carriera. Gli avvocati si candidano ad essere un interlocutore credibile e serio
anche garantendo il principio della rappresentanza democratica della professione. Se riusciremo ad
imporre questi temi al centro dell’agenda politica potremo festeggiare un grande successo.
Rivendicando per l’avvocatura il merito e la primogenitura di un grande processo riformatore avremo la
credibilità per chiedere anche, finalmente, un’attenzione diversa. Anche qui, con atti concreti, come la
deducibilità integrale degli oneri sostenuti per le attività di formazione ed aggiornamento professionale,
strumenti essenziali per garantire un’avvocatura di qualità per la difesa dei diritti dei cittadini.
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GUIDA AL DIRITTO – IL SOLE 24 ORE
Rinnovamento di Magistratura e Avvocatura per combattere le disfunzioni del
sistema
di Oreste Dominioni - Presidente dell’Unione delle Camere penali italiane
Pressoché da sempre la giustizia è dichiarata in crisi. Oggi peraltro si delinea una situazione di gravi
preoccupazioni, da fronteggiare cori un metodo nuovo: abbandonare spinte emergenziali, culture
giustizialiste di vario segno politico, leggi-annuncio di nessuna efficacia, e invece analizzare con
concretezza i problemi e loro reali cause. Sono in gioco le disfunzioni dei apparati giudiziari e la
dequalificazione della giurisdizione, che richiedono interventi specifici, ma anche riforme di ampio
respiro. Il primo impegno è il rinnovamento della magistratura. Oltre alla questione generale
dell’ordinamento giudiziario posta dalla separazione delle carriere (la consapevolezza della sua
necessità sta diffondendosi significativamente) si deve pensare alla riforma del Csm, che lo faccia
uscire da una prassi di autogoverno, cosa diversa dal governo autonomo della magistratura dai poteri
politici e dalla stessa magistratura. E inoltre indispensabile rivedere la disciplina dei magistrati «fuori
ruolo». L’attuale consente che su vasta scala i magistrati occupino posti nella politica, diventando
partecipi e anzi protagonisti primari delle scelte politiche. Una simile promiscuità fra magistratura e
politica compromette gravemente l’indipendenza della magistratura e riduce la politica a un ruolo
subalterno. Non più rinviabile è il rinnovamento dell’avvocatura che, fuori da fraintese visuali di
liberalizzazione, realizzi un accesso alla professione forense che assicuri la qualità della selezione e
delle prestazioni professionali; introduca le specializzazioni forensi; preveda l’aggiornamento
permanente dell’avvocato; istituisca un controllo reale della deontologia. Si riafferma la necessità di un
nuovo codice penale. Va arrestata la tendenza alla decodificazione, riportando il codice al centro del
sistema; in particolare, rifondando il sistema della sanzioni con l’abbandono dell’odierno modello
carcero-centrico e con un rilevante spazio per sanzioni alternative alla pena detentiva. Sempre più
attuale è l’abolizione dell’ergastolo. Il processo penale va restituito a una organicità pratica, razionale e
funzionale. Non si deve però immaginare un nuovo codice di procedura penale che, rinnegando il
codice di stampo accusatorio del 1988, faccia retrocedere la giustizia penale a modelli autoritari di
ispirazione inquisitoria. Va abbandonata la strada delle leggi improvvisate, sono da progettare interventi
organici e sistematici sul codice del 1988 per recuperare la sua genuina struttura di processo di parti
che, con il metodo dialettico, assicuri la migliore decisione, superare incongruenze, renderlo efficiente,
liberandolo da pastoie formalistiche. La legge 60/2001 sulla difesa d’ufficio ha rivelato deficienze e ha
consentito deviazioni, Sono pertanto necessarie incisive modifiche. L’irragionevole durata del processo
è causata dalle inefficienze di impiego delle risorse e dalla loro inadeguatezza, È su questo piano che
occorre intervenire programmando le risorse e prevedendo competenze per la loro gestione: gli organi
giudiziari vanno integrati con professionalità manageriali. In campo comunitario, la recente
approvazione del Trattato di Lisbona fa temere conseguenze negative per l’ordinamento italiano, in
ragione della mancanza di criteri di tipizzazione delle cosiddette norme minime, per la definizione dei
reati e delle sanzioni in ambito transnazionale, per le garanzie processuali e l’ammissibilità della prova.
L’Europa rappresenta un valore universalmente riconosciuto, ma occorre una riflessione più attenta
anche sui pericoli in materia di libertà fondamentali. È necessario pensare a una revisione costituzionale
che escluda il ricorso al decreto legislativo e al decreto legge per l’emanazione dileggi penali
sostanziali e dileggi penali processuali attuative di direttive comunitarie, salvaguardando la riserva di
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stretta legalità e la sovranità popolare espressa dal Parlamento nell’adozione di misure limitative della
libertà delle persone. La sicurezza dei cittadini non può realizzarsi con la demagogia della «faccia
feroce». Uno stato autorevole salvaguarda la sicurezza senza violare la Costituzione. Si devono adottare
tutte le misure efficaci a contrastare i fenomeni delinquenziali con una presenza forte delle istituzioni,
degli organi di polizia investigativa e di prevenzione, con l’uso intelligente delle strutture organizzative
del territorio. L’indulto è stato un provvedimento indispensabile per eliminare il sovraffollamento delle
carceri, che era giunto a un livello tale da costringere i detenuti a condizioni di vita disumane. Tuttavia
occorreva mettere mano immediatamente alla rimozione delle sue cause, come le leggi che hanno
introdotto forti limitazioni alla possibilità di sospendere l’ordine di carcerazione e di accedere alle
misure alternative al carcere o che hanno incrementato gli arresti per detenzione di sostanza
stupefacente leggera.
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GUIDA AL DIRITTO – IL SOLE 24 ORE
Uffici moderni e riforma dei codici in conformità agli standard europei
di Simone Luerti - Presidente dell’Associazione nazionale magistrati
A ogni svolta politica del Paese si affollano speranze e timori, mentre una positiva attesa di
cambiamento combatte contro il cinismo incalzante. I sentimenti e le aspettative dì tutti come si
specificano nel mondo della giustizia e in particolare nella mag1stratura Cosa temono e cosa chiedono i
magistrati. Alla prima domanda è facile rispondere sinteticamente: i magistrati temono che venga
ulteriormente perseguito il disegno di riassetto dei rapporti tra i poteri dello Stato a scapito
dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura fino a ledere la terzietà reale del giudice
attraverso l’eccessiva invadenza dell’esecutivo. Si tratta di un percorso avviato da tempo a livello
culturale e politico e che ha trovato qualche principio di attuazione nella recente riforma
dell’ordinamento giudiziario, nonostante l’apprezzabile intervento della legge 111/2007 promossa
dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Poiché tale affermazione può sembrare solo
allarmistica, è ancora più necessario evidenziare i punti spesso occulti o apparentemente innocui su cui
si radicano tali timori. La formazione iniziale e permanente dei magistrati è già gestita dalla scuola
della magistratura, il cui direttivo vede una importante presenza di componenti dì nomina ministeriale e
quindi di uno schieramento politico. Molti parlano di «manager» per l’organizzazione degli uffici
giudiziari e le Camere penali specificano «non togati». Le funzioni giudicanti e requirenti sono già
rigorosamente separate nei fatti, mentre si torna a parlare non solo di separazione delle carriere, ma quel
che è peggio di revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Infine, si ripropone il tema della
presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari anche con funzioni di valutazione della professionalità
dei magistrati e l’istituzione di Commissioni disciplinari esterne o fortemente integrate da non togati
per il giudizio disciplinare dei magistrati. Formazione e cultura giuridica, organizzazione, separazione
del pubblico ministero e discrezionalità dell’azione penale, valutazioni di professionalità e disciplina:
dietro valori apparentemente positivi o innocui, basterà muovere poche leve per mutare l’assetto
costituzionale della magistratura. Ma invece cosa chiedono i magistrati alla politica che verrà?
Sembrerà strano, ma chiedono quello dicui tutti - dai cittadini alle imprese, dalle aree depresse a quelle
avanzate, dalle realtà locali all’Europa - hanno urgente bisogno: una giustizia che funzioni bene e
celermente. Occorre innanzitutto modernizzare l’apparato a tutti i livelli, completando
l’informatizzazione degli Uffici giudiziari, ma anche delle procedure (dal processo telematico alle
notifiche a mezzo posta elettronica certificata); mettendo mano alle anacronistiche e dispersive
circoscrizioni giudiziarie; assumendo una nuova mentalità della spesa, del recupero delle pene
pecuniarie e della destinazione dei beni confiscati; istituendo un vero ufficio del giudice, che non
costringa il magistrato a funzioni suppletive delle carenze dell’apparato a discapito della funzione
giurisdizionale; formando e utilizzando in modo adeguato e dignitoso la magistratura onoraria. Inoltre,
la radicale e seria riforma dei codici di procedura non può più attendere. I processi civile e penale, dopo
mille rimaneggiamenti spesso suggeriti da urgenze e umori del momento, — sono ormai dei
meccanismi senza volto che non possono funzionare. Il processo civile deve ritrovare l’unità perduta,
salvo pochi settori specializzati, oltre a forme semplificate e in linea con la legislazione europea, con
riduzione dei termini processuali, estensione delle decisioni in forma abbreviata, razionalizzazione delle
impugnazioni anche attraverso il vaglio di inammissibilità. Anche il processo penale è ormai il frutto di
interventi stratificati nel tempo sopra una riforma che già nel 1989 si presentava incompleta. Forme e
garanzie tipiche del sistema inquisitorio convivono con quelle tipicamente accusatorie, contribuendo 7
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insieme alle disfunzioni del sistema - a rallentare i processi. Contemporaneamente, la prescrizione del
reato continua a decorrere anche dopo l’esercizio dell’azione penale e quindi in assenza di vera e
propria inerzia. In tale contesto, lo strumento cautelare assume di fatto una centralità che non gli
appartiene con le distorsioni che sono sotto gli occhi di tutti. Mentre deve essere punita la
pubblicazione indebita cli intercettazioni telefoniche sui media, che vipla i diritti delle persone e reca
discredito a uno strumento che continua a essere indispensabile. Infine, il sistema delle impugnazioni
deve essere snellito e conformato al sistema accusatorio. Oggi la magistratura chiede solo una giustizia
moderna e adeguata agli standard europei, che risponda alle esigenze di giustizia dei cittadini e che non
costituisca un facile alibi per (quei pochi) magistrati e avvocati poco professionali.
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GUIDA AL DIRITTO – IL SOLE 24 ORE
Una performance di settore poco edificante migliorabile solo attraverso la
meritocrazia
di Valter Militi - Presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati
Il grado di civiltà di un paese si misura attraverso l’efficienza di alcuni servizi pubblici essenziali: istruzione,
sanità e giustizia. Le nostre performances in questi settori sono scoraggianti, lontane dagli standard minimi e,
segnatamente, da quelle degli altri paesi europei. I dati comparativi non lasciano spazio ad alibi di sorta: non è
questione di spendere poco, la maggior parte delle volte si spende male, soprattutto nella giustizia. Non si
spiegherebbe, altrimenti, il desolante quadro tracciato dal Primo Presidente della Corte di cassazione nella
relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008: i tribunali italiani, che pure, al netto della scarsa chiarezza
dei dati disponibili, usufruiscono degli stessi investimenti di altri paesi, sono, mediamente, molto meno efficienti.
Le conseguenze di questo cronico disservizio sono gravi: compromettono la tenuta del sistema; non favoriscono
l’affermazione della cultura della legalità; scoraggiano gli investimenti diretti esteri e minano le basi della civile
convivenza.
In altri termini, un paese in cui il sistema giudiziario non funziona, è destinato a un sicuro declino socioeconomico. Eppure, queste prime battute della campagna elettorale sembrano denotare una certa disattenzione
verso la questione, tanto dei partiti, quanto dei mezzi di informazione. Poco spazio, a eccezione degli organi di
stampa specialistici, è riservato ai temi della Giustizia e gli stessi programmi elettorali se ne occupano in maniera
disorganica, per slogan e non con progetti condivisi dagli addetti ai lavori. Anzi, la sensazione è di un deciso
passo indietro rispetto alle elezioni politiche del 2006, quando, per il “trauma”, o la “novità”, in chiusura di
legislatura, della riforma dell’ordinamento giudiziario, il dibattito era divenuto rovente e i temi sulla giustizia
sembravano appassionare i leader politici. Oggi, invece, l’attenzione si focalizza, in maniera bipartisan, su alcune
proposte estemporanee, il cui impatto mediatico è inversamente proporzionale a quello effettivo: c’è chi pensa di
introdurre la giuria popolare, chi vorrebbe bonus fiscali per la rottamazione delle cause civili, chi immagina dì
istituire il manager dell’ufficio giudiziario reclutandolo tra magistrati appositamente formati per questi compiti
senza neppure porsi il quesito se l’organizzazione degli uffici debba essere affidata alla magistratura. Al di là del
merito, quello che sorprende è una certa superficialìtà nell’affrontare un problema la cui soluzione è strategica
per gli interessi dell’intero paese. Invece di rincorrere l’idea sensazionale ovvero riproporre vecchi dogmi, fonte
di laceranti contrapposizioni, la politica dovrebbe sforzarsi di immaginare una riforma della Giustizia ricostruita
sulla pietra angolare del merito, non a caso valore primario in altri ordinamenti. Ogni giorno viene denunciato il
deficit dì meritocrazia che affligge il Paese ma, tra tutti gli ambiti per i quali si auspica maggior competitività,
non vi è l’amministrazione giudiziaria. Eppure, il funzionamento dei tribunali si gioverebbe senz’altro di riforme
idonee a sviluppare le capacità di coloro i quali, a diverso titolo, contribuiscono all’amministrazione della
giustizia: il legislatore dovrebbe preoccuparsi di introdurre meccanismi effettivamente premiali per i magistrati
pìù laboriosi ed equilibrati e penalizzanti per chi sbaglia o è scarsamente produttivo. Invece di indugiare
sull’astratta distinzione tra ordini e associazioni, la riforma delle professioni - e segnatamente la riforma
dell’ordinamento forense - dovrebbe esaltare il merito nella formazione, precondizione dell’accesso e della
permanenza negli albi nonché caratterizzarsi per la previsione di rimedi deontologici che sanzionino in modo
rigoroso la colpa professionale. Inoltre, piuttosto che disincentivare l’accesso al servizio giustizia con l’aumento
dei costi, sarebbe più utile impiegare in modo razionale le risorse, soprattutto umane, incoraggiando la
produttività del personale amministrativo. Naturalmente appare chiaro che questi interventi, da soli, non
sarebbero sufficienti ma rappresenterebbero, nella situazione attuale, una rivoluzione in senso meritocratico
basata sulla consapevolezza di tutti i soggetti della giurisdizione di svolgere un servizio essenziale con
conseguente assunzione di responsabilità: nel bene e nel male.
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APCOM
Giovani avvocati preoccupati per visione accusatoria e di polizia
Roma, 20 mar. (Apcom) - Valter Militi, presidente dei giovani avvocati italiani, non nasconde la
propria preoccupazione per i progetti di riforma della giustizia a costo zero lanciati da Antonio Di
Pietro. "L'Aiga apprende dalle agenzie di stampa che l'onorevole Di Pietro è intenzionato a risolvere i
problemi della giustizia con una serie di proposte a costo zero, dove il costo è, forse, zero per l'erario,
ma enorme per i cittadini. Ancora una volta, anziché affrontare il problema dei mancato funzionamento
della giustizia dopo un'attenta analisi, si pensa di risolvere i problemi comprimendo il diritto alla difesa
e garantendo ai giudici la massima discrezionalità nel gestire i processi penali senza troppi rischi".
"In attesa di conoscere il grado di giudizio da sopprimere - prosegue Militi - i giovani avvocati non
nascondono le loro preoccupazioni per una visione della giustizia in un'ottica esclusivamente
accusatoria e di polizia, concentrata sul solo processo penale e sulla repressione dei crimini, prevedendo
la compressione del diritto al giusto processo, la limitazione della difesa e la possibilità per il giudice di
primo grado di determinare effetti anticipati del giudicato penale".
Il problema del cattivo funzionamento del sistema giustizia - prosegue la nota - è certamente caro
all'Aiga, che da anni ha posto all'attenzione dell'opinione pubblica la necessità di un rilancio di tutto il
servizio puntando sulla qualità dei magistrati e sull'efficienza del sistema, anche attraverso una corretta
allocazione delle risorse: "Non possiamo non assistere preoccupati a questo gioco al rilancio nel
promettere assunzioni nel settore della Giustizia, senza chiarire per quali scopi: - osserva Francesco
Capecci della giunta nazionale - l'onorevole Di Pietro ne promette 10.000; a parte che risulta misterioso
come si possano assumere diecimila cancellieri a costo zero, va detto che troppi politici sembrano
muovere le loro proposte in un'ottica di puro spot elettorale, senza affrontare seriamente e
organicamente i problemi e senza minimamente coinvolgere l'avvocatura".
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IL CORRIERE DELLA SERA
Il cambio. Le “toghe di pace” sono state introdotte nel 1995 con il compito di alleggerire il lavoro dei
Tribunali. Dal 2002 si occupano anche di penale
Il lavoro. Sono più di tremila e dedicano gran parte del loro lavoro ai ricorsi contro le sanzioni di vigili
urbani e polizia stradale. A Brescia il record: 86 per cento
I giudici delle multe
Il cottimo dei magistrati di pace. Sugli automobilisti due sentenze su tre
Roma,, uffici del giudice di pace di via Teulada. Entra un signore di mezza età con una bustona di carta
in mano. Si aggira spaesato per i corridoi, legge i nomi sulle targhe delle porte. Ma non sembra trovare
quello che cerca. Poi prende coraggio e ferma un usciere: «Scusi, mi hanno tolto i punti dalla patente
perché sono passato col rosso. Devo fare ricorso. Dov’è la stanza del giudice della strada?». Sì, dice
proprio così: giudice della strada.. Un lapsus. Ma alla verità quel signore ci è andato molto vicino.
Ormai gli oltre tremila giudici di pace italiani dedicano il loro lavoro quasi esclusivamente agli
automobilisti. Anzi, proprio ai ricorsi contro le multe fatte da vigili urbani e polizia. Nel 2006 su un
totale di quasi 700 mila sentenze circa 450 mila erano proprio per «opposizione a sanzioni
amministrative». Due su tre. Il 65 per cento secondo i dati ufficiali della direzione di statistica del
ministero della Giustizia. Rispetto agli anni precedenti l’aumento è costante e marcato: erano il 59 per
cento nel 2005, il 48 per cento l’anno prima ancora. Per il 2007 mancano ancora le cifre ufficiali ma le
stime dicono che potremmo superare il 70 per cento. Giudici di pace sempre più giudici della strada,
appunto. Con punte incredibili in alcune zone del Paese. Nel distretto giudiziario di Brescia, che copre
metà della Lombardia, le multe assorbono l’86 per cento del totale delle sentenze. Nel distretto di
Bologna, cioè in tutta l’Emilia Romagna, siamo all’85 per cento, e poi abbiamo Firenze all’80 per
cento, Roma al 78, Milano al 66. Ma la cosa che colpisce di più è un’altra. Perché secondo le stime
degli stessi giudici di pace, il dato non viene rilevato dal ministero, 4 volte su 5 ad averla vinta è
l’automobilista. Va bene così, oppure c’è qualcosa che non funziona? I giudici di pace sono arrivati nel
nostro ordinamento nel maggio 1995. L’intenzione era quella di alleggerire il lavoro dei tribunali e da
questo punto di vista la riforma ha funzionato, tanto che nel 2002 la loro competenza è stata estesa
anche al campo penale. L’esplosione del numero di sentenze sulle multe è arrivata nel 2003 con la
patente a punti. Prima chi veniva pizzicato a passare con il rosso o al di sopra dei limiti di velocità
spesso pagava la sanzione e amen. Ma il taglio dei punti, con il rischio di arrivare a zero e non poter più
guidare, ha fatto aumentare i ricorsi. Il Parlamento, in realtà, aveva pensato a questo rischio: la legge
sulla patente a punti prevedeva sì la possibilità di impugnare le multe davanti al giudice di pace. Ma
solo dopo aver pagato metà della sanzione. E durata poco più di un anno. Quattro giudici di pace hanno
portato il caso davanti alla Corte costituzionale: se c’è un diritto (quello di fare ricorso) non può essere
a pagamento, altrimenti che diritto è? Ragionamento che non fa una grinza e che infatti la Corte ha
condiviso, annullando quel pagamento parziale che serviva da argine alla valanga dei ricorsi. In realtà il
ricorso può essere presentato anche al prefetto, ma sono pochissimi quelli che preferiscono questa
alternativa. «E’ la dimostrazione che il cittadino si fida di noi perché ci considèra indipendenti»,
commenta soddisfatto Francesco Cersosimo, presidente dell’Associazione nazionale dei giudici di pace.
Che però, in prospettiva, qualche problemino lo vede: «Siamo abbondantemente sotto organico. Su una
pianta teorica di 4.700 persone, in servizio siamo poco più di 3.100. Specie nelle grandi città non si
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riesce a star dietro al lavoro. E infatti i tempi si stanno allungando: dagli 8 mesi del 2003, anno di arrivo
della patente a punti,adesso la durata media di una causa di questo tipo supera l’anno. Anche se a far
spazio sui tavoli dei giudici di pace è arrivata, pochi mesi fa, un’altra riforma: il risarcimento diretto
delle compagnie assicurative per gli incidenti stradali. Prima per ottenere quei soldi in caso di
contestazione si passava attraverso i loro uffici. Adesso la competenza ha preso altre strade, e non tutti
hanno visto di buon occhio questa novità. Senza pensione e con un mandato massimo di 12 anni, i
«cococo della giustizia», come amano definirsi, sono pagati a cottimo: un tot per ogni atto. Per la
precisione: 36 euro e.15 centesimi per ogni udienza, 56,81 per sentenza, 10,33 per decreto ingiuntivo,
più un’indennità fissa mensile di 258,23 euro. Meno lavoro, meno guadagno. Un meccanismo che
premia la produttività, intesa come quantità. Ma il sistema ha fatto balenare qualche sospetto, arrivato
fino in Parlamento. Pochi mesi fa era stato l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella a
diffondere le tabelle sul compenso medio dei giudici di pace: al primo posto quelli del distretto di
Napoli con 50 mila euro lordi l’anno, poi Salerno con 38 mila. Molto più avanti di Roma (30 mila) e
Milano (24 mila). Si lavora di più, sulle multe e non solo, perché si guadagna di più? Un sistema
corretto due anni fa con l’introduzione di un tetto massimo di 70 mila euro lordi l’anno. Per impedire
che qualche giudice di pace fosse preso dall’irresistibile tentazione di scrivere sentenze su sentenze.
Magari con poca cura e solo per guadagnare qualche euro in più. Lorenzo Salvia
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IL CORRIERE DELLA SERA
Addio illusione della riforma a costo zero
di Luigi Ferrarella
Nella sconfortante contabilità della giustizia italiana, gli uffici dei giudici di pace (magistrati non di
professione ma onorari) erano quelli che andavano meglio, rendendo in tempi più brevi dei Tribunali
ordinari la parte di giustizia loro subappaltata a cottimo, e accumulando minore arretrato. In
proporzione resta ancora vero, ma sempre meno. Anno dopo anno - ne sono passati 13 dall’istituzione
di questa magistratura onoraria che lo Stato manda a pronunciare sentenze in proprio nome anche se a
questi suoi «lavoratori» non riconosce copertura previdenziale e sanitaria—, l’illusionismo giudiziario
delle riforme a costo zero ha mostrato anche in questo settore i suoi limiti: in due anni 25% in più di
arretrato e due mesi in più di durata media della causa. Per responsabilità che, in scala minore, ricalcano
quelle del collasso della giustizia togata. Hanno iniziato i vari governi, lasciando che l’organico teorico
dei giudici di pace restasse scoperto di 1500 unità e in balia della mancanza di personale amministrativo
che è cruciale per il funzionamento degli uffici e la tenuta delle udienze. Ha proseguito il legislatore,
continuando ad ampliare sempre più le materie di competenza dei giudici di pace, che invece alla
nascita erano stati pensati solo come dei «conciliatori». Non è mancato il ruolo di una parte
dell’avvocatura, in molti distretti protagonista di quella massa di cause seriali (diverse negli attori ma
assolutamente identiche nello schema) intentate di fronte ai giudici di pace per valori talmente modesti
da essere in molti casi risibili: cause per pochi euro, palesemente fatte per solleticare una tacita e
ambigua coincidenza di interessi tra l’avvocato (a caccia di microfondi-spese) e il giudice di pace
tentato con una sola vera decisione di moltiplicare i suoi compensi tante volte quante sono le medesime
cause seriali. La mazzata finale è arrivata dai cittadini stessi. Non quelli che legittimamente avanzano
un diritto da far valere, ma quelli che usano il tribunale (quindi anche l’ufficio del giudice di pace)
come scudo strumentale per ripararsi da un obbligo. Le opposizioni alle sanzioni amministrative, come
le multe stradali, sono esplose dalle 284 mila del 2004 alle 580 mila del giugno 2007. Improbabile che a
promuoverle siano tutte vittime dei semafori-trappola installati dai Comuni-dracula. Più plausibile che
si tratti di una folla di furbi che cerca solo di evitare di pagare la multa e perdere i punti della patente,
sperando o di incappare in qualche giudice di pace (creativo» o di guadagnare un po’ di tempo fino
(pure qui) alla prescrizione. Di certo c’è che l’assetto dei giudici di pace ormai non è più adeguato al
contesto nel quale erano nati. La riforma che l’ex ministro Mastella aveva messo in cantiere (tutti i
magistrati onorari inquadrati all’interno di un unico Tribunale ordinario di primo grado, al lavoro a
fianco dei giudici togati, salvo che in alcune materie di esclusiva competenza dei togati) non piace ai
giudici di pace, e nella nuova legislatura se ne ridiscuterà. A partire da due consapevolezze. Che avanti
(così) neanche i giudici di pace possono più andare. Ma anche che, passando dai giudici di pace ormai
circa un terzo della giustizia civile di primo grado, indietro (senza di loro) non si torna più. Perché non
si può più tornare.
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ITALIA OGGI
Lettera
Giustizia, il ministro aggiusta virgole e zeri ai conti sul rito civile
del ministro della giustizia Luigi Scotti
Egregio direttore, ho letto con attenzione l'articolo pubblicato su Italia Oggi, dal titolo «Un processo
civile costa 600 mila euro» e mi trovo costretto a intervenire per precisare. Innanzitutto non mi risulta
che i dati utilizzati nel testo siano stati direttamente richiesti al dicastero che avrebbe, sicuramente,
potuto fornire indicazioni più precise, né mi sembra che l'interpretazione delle cifre riportate
corrisponda a quanto accade nella realtà.
Inoltre, il costo di un procedimento civile, indicato nell'articolo in 600 mila euro, non solo è stato
determinato con parametri errati, ma è frutto di un errore di calcolo. Basta infatti dividere le somme in
tabella del 2006 per il numero di procedimenti definiti nel corso dello stesso anno per vedere come,
sulla base delle cifre da voi stessi utilizzate, l'importo ammonterebbe, infatti, a 647 euro circa e non
certo a 647 mila.
Quanto al merito, è necessario mettere in evidenza come i dati indicati siano conseguenza di una
valutazione delle spese del settore civile non proprio esatta. Se è vero, infatti, che solo il 30% dei
magistrati in servizio svolge funzioni penali requirenti presso le procure della repubblica, non si può
tralasciare il fatto che nel penale opera circa la metà dei magistrati con funzione giudicante e che, di
conseguenza, svolge le sue attività nel settore civile meno del 40% del personale della magistratura nel
suo complesso. Sul fronte, poi, del personale amministrativo è ancora più complesso determinare quale
sia la percentuale che opera nel settore civile. Bisogna, infatti, considerare la quantità di servizi comuni
anche al penale che vengono assicurati all'interno dello stesso ufficio giudiziario. Tale percentuale non
è comunque tale da superare il 40% di tutto il personale in servizio.
Ma ancora più complicata diventa l'impresa di calcolare i costi di gestione. Non è infatti possibile
operare un distinguo netto, fra settore civile e settore penale, che riguardi i costi di manutenzione degli
uffici e quelli, ad esempio, legati all'erogazione dell'energia elettrica o all'uso del telefono. Per
concludere, mi consenta ancora una riflessione. Credo fermamente che la giustizia, con le sue luci e le
sue ombre, abbia bisogno dell'attenzione di tutti senza temere osservazioni, critiche, suggerimenti.
Ritengo però non solo opportuno, ma necessario che alla giustizia ci si accosti in modo da fornire un
quadro che corrisponda alla realtà. Solo così si potranno affrontare realmente i problemi e trovare le
soluzioni opportune.
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IL SOLE 24 ORE
Diritto dell’economia. Circolare di Confindustria interpreta la disciplina in vigore da fine giugno
Class action non retroattiva
Dubbi sull’estensione dell’azione per le truffe agli azionisti
Class action da escludere nei rapporti tra società e azionisti. E anche per disastri ambientali provocati da attività
d’impresa. Ma proponibile invece nei confronti di imprese pubbliche e della pubblica amministrazione. Il 29
giugno si avvicina e, visto che da quel giorno l’azione collettiva diventerà operativa, Confindustria fornisce la
sua interpretazione della normativa inserita nell’ultima Finanziaria.
Il quadro d’insieme. La circolare 19033 dell’Area Fiscalità, Finanza e Diritto d’impresa, parte da una
ricognizione dell’ambito soggettivo dell’azione collettiva. E ricorda che la collocazione nel Codice del consumo
ha come conseguenza quella di permettere un utilizzo della class action solo come strumento utile per tutelare
consumatori e utenti. Ricomprendendo queste ultime due categorie nell’accezione data dal Codice stesso. Così, il
procedimento per ottenere il risarcimento non potrà essere utilizzato per i rapporti professionali (per esempio tra i
professionisti, tra le imprese). Inoltre l’azione collettiva non sarà utilizzabile quando una pluralità di imprese,
organizzate in forma non individuale, sono state danneggiate da una medesima condotta illecita Semaforo rosso,
poi, anche nel caso in cui più imprenditori individuali siano stati danneggiati nello svolgimento della loro
caratteristica attività d’impresa (è il caso dei rapporti con i fornitori). L’azione collettiva potrà invece essere
utilizzata tutte le volte che, nell’ambito di un rapporto di acquisto e consumo, è stata danneggiata una pluralità di
consumatori e utenti.
Inclusi ed esclusi. È per questo che, secondo le tesi più restrittive citate dalla circolare dovrebbe essere esclusa
dall’area di applicabilità tutta una serie di rapporti tra imprese e consumatori. E’ il caso, per esempio, del
risarcimento danni per disastri ambientali o ecologici provocati dall’attività d’impresa, estranei a un rapporto di
acquisto o consumo. Come pure la class action non dovrebbe essere impiegata nei rapporti tra le società emittenti
e gli investitori. «Tali rapporti — avverte la circolare — già adeguatamente regolamentati dal l disposizioni in
materia di diritto societario e del Tuf, non presentano attinenze con la tutela di consumatori e utenti, quantomeno
nelle ipotesi in cui non si formalizzino mediante la sottoscrizione di condizioni generali di contratto inclusi in
moduli o formulari ex articolo1342 Codice civile. L’investimento in strumenti finanziari si caratterizza, infatti,
per la varietà dei tipi di investitori e di scelte di investimento e sfugge, pertanto, al citato requisito della serialità
del danno, presupposto dell’azione collettiva risarcitoria». Tra i bersagli della class action dovrebbero esserci
anche le imprese pubbliche e gli altri soggetti di diritto pubblico che svolgono attività d’impresa. Ma la stessa
pubblica amministrazione dovrebbe rientrare nel perimetro dei soggetti colpiti, in tutti i casi in cui opera come
soggetto che fornisce beni e servizi.
Punti critici. Tra gli elementi di debolezza dell’impianto normativo, Confindustria mette l’accento, tra l’altro,
sulla possibilità che vengano presentate, da diversi soggetti abilitati, più azioni collettive per lo stesso fatto
illecito. In questo modo si apre la strada a comportamenti opportunistici come quello, possibile se non
prevedibile, di un’associazione di consumatori che potrebbe attendere l’esito di una prima azione per poi
avviarne un’altra subito dopo. Opportunismo che si ripropone anche per il meccanismo di adesione del singolo
consumatore che, possibile sino al verdetto di appello, potrebbe provocare un effetto valanga in caso di primo
successo dell’azione collettiva. Quanto al nodo della retroattività, Confìndustria sposa la tesi dell’attribuzione di
un nuovo diritto alle associazioni: l’azione collettiva sarebbe svincolata dalle singole pretese individuali e
costituirebbe uno strumento a difesa dell’interesse generale alla correttezza dell’attività d’impresa. La
conseguenza sarebbe così la proponibilità dell’azione solo per fatti successivi all’entrata in vigore della
disciplina. Giovanni Negri
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IL SOLE 24 ORE
I punti critici
Proponibilità limitata. L’azione collettiva non è praticabile; per i conflitti tra società che emettono
titoli e risparmiatori; peri disastri ambientali provocati dall’attività d’impresa; in generale, per tutti i
rapporti che non rientrano nell’ambito del consumo o dell’acquisto
Coinvolte le aziende pubbliche. La class action può essere fatta valere anche nei confronti delle
imprese a partecipazione pubbliche e, in generale, nei confronti della pubblica amministrazione in
tutele circostanze in cui opera come un soggetto fornitore di beni e servizi
Nessuna retroattività. Dall’azione collettiva vengono attribuiti diritti inediti alle associazioni abilitate
ad agire davanti all’autorità giudiziaria, mentre le stesse associazioni non sarebbero titolari dei diritti
dei singoli: in questo modo la class action scatterebbe solo per fatti successivi al 29 giugno
Adesione a valanga. Permettere l’ingresso dei consumatori sino alla pronuncia del verdetto di appello
può aprire la strada a un effetto moltiplicatore quando l’azione collettiva ha avuto successo in primo
grado, aggravando in questo modo i costi a carico delle imprese
Nessun limite all’azione. Non è stato introdotto un limite alla proponibilità dell’azione collettiva in
conseguenza della stessa condotta che si ritiene illecita: ogni soggetto abilitato può così proporre una
singola azione, rendendo l’impresa oggetto di una pluralità di cause per il medesimo fatto
Pretese strumentali. La valutazione dell’autorità giudiziaria dovrà affrontare anche lo scoglio del
conflitto d’interessi, o meglio di quelle azioni collettive proposte con il solo obiettivo di mettere
l’azienda con le spalle al muro e obbligarla a transigere per non vedere danneggiata l’immagine
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IL SOLE 24 ORE
Antiriciclaggio. I nuovi titoli dovranno avere un saldo inferiore a 5 mila euro – per ridurre quelli già in
circolazione c’è tempo fino al giugno 2009
Libretti al portatore più snelli dal 30 aprile
Per incassare i vecchi depositi basta autocertificare all’intermediario il nome e la data del cedente
I libretti al portatore dovranno presto fare i conti con nuovi limiti alla circolazione. Il decreto legislativo
231/07, che riscrive le norme antiriciclaggio, impone infatti di ridurre il saldo sotto i 5mila euro e
introduce un monitoraggio sui trasferimenti. Il libretto al portatore è uno strumento duttile, che può
circolare di mano in mano tra soggetti diversi, in modo rapido ed economico: chiunque ne risulti
legittimo possessore può effettuare operazioni presso la banca semplicemente facendosi identificare.
Per questo le norme antiriciclaggio (il decreto legislativo 231/07, come la precedente legge ‘97/91)
sono intervenuti sui libretti al portatore, per contrastare il rischio che possano veicolare in modo
anonimo i capitali e costituire fondi neri. In particolare, il decreto 231 ha fissato a mila euro il tetto del
saldo dei libretti, al posto dell’attuale soglia di 12.500 euro. C’è però tempo fino al 30 giugno 2009 per
regolarizzare, riducendo il saldo o estinguendo il libretto (o frazionando in più titoli di saldo inferiore), i
titoli che al 29 dicembre 2007 (data di entrata in vigore delle nuove regole antiriciclaggio) fossero fuori
limite. Il decreto ha poi limitato il trasferimento dei libretti quando, insieme con altri titoli al portatore
come il contante, vadano a costituire un’operazione, anche frazionata, da 5 mila euro in su. Inoltre, per
monitorare i passaggi, il decreto 231 ha obbligato chi trasferisce il titolo a comunicare entro 30 giorni
alla banca o alle Poste che lo hanno emesso la data del trasferimento e i dati identificativi del
cessionario. Il ministero dell’Economia, con la circolare di ieri, ha ora chiarito alcuni dubbi
interpretativi. E stato infatti precisato che la data del 30 giugno 2009 è fissata per regolarizzare tutti i
titoli di importo superiore a mila euro emessi prima del 30 aprile 2008, data di entrata in vigore dei
nuovi limiti all’uso del contante e dei titoli al portatore. Di conseguenza, i libretti emessi dal prossimo
30 aprile in poi non possono avere un saldo sopra i mila euro; e, se superano la soglia con l’accredito da
parte della banca degli interessi, devono essere ridotti (o estinti) contestualmente alla scritturazione
degli interessi. La circolare chiarisce inoltre che, se per i libretti al portatore emessi prima del 30 aprile
e presentati successivamente all’incasso manca alla banca o alle Poste la comunicazione dell’avvenuta
cessione, non c’è infrazione né obbligo di segnalazione se il cessionario rilascia un’autocertificazione
circa la data del trasferimento e il nome del cedente. In alternativa a questa autocertificazione, il
cedente, nei 30 giorni successivi alla presentazione all’incasso, deve far arriva/e all’intermediario la
dichiarazione dell’avvenuta cessione del libretto. Se mancano sia l’autocertificazione sia la
comunicazione, banca e Poste devono comunicarlo al ministero dell’Economia. L’operatività bancaria
ha comunque il suo corso, perché il decreto non ha inteso incidere sulla natura del titolo.
Chi sfora il limite fissato per il saldo è punito con una sanzione pecuniaria dal 20 al 40% del saldo
stesso; mentre per la mancata comunicazione del trasferimento da parte del cedente o per la mancata
regolarizzazione entro il 30 giugno 2009,si applica la sanzione dal 10% al 20%, del saldo. Giampaolo
Conforti
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MONDO PROFESSIONISTI
Per le Casse nuovo passo nella difficile autonomia
di Guglielmo Saporito
La libertà dal tetto degli impegni economici che il Tar Lazio ha restituito alle Casse di previdenza dei
professionisti - sentenza n. 10612 - è uno dei tasselli del complesso rapporto tra questi enti e le leggi
finanziarie. Scontri e confronti avvengono su più linee su contenimento e razionalizzazione della spesa
pubblica (anche il decreto legge Bersani è intervenuto su questo fronte). Se unico è l'obiettivo, cioè la
stabilità della finanza pubblica, i tentativi di fuga dal conto consolidato sono frequenti. In un quadro
generale di frequente utilizzo di modelli privatistici, con sostituzione di enti pubblici con soggetti
privati, una delle categorie logiche utilizzate è stata quella della produzione di beni e servizi non
destinabili alla vendita (no market). Oggi vi si aggiunge anche quello della produzione di servizi a
circuito chiuso, che non gravano sul bilancio pubblico. Le conseguenze della sentenza del Tar Lazio
potrebbero avere impatto non solo sui tetti di spesa delle Casse, ma anche sullo status dei dipendenti, su
reclutamento, contabilità e contratti oltre che sul controllo della Corte di conti. Le Casse acquistano una
maggiore capacità di disporre di se stesse, anche se perdono alcuni privilegi, quali la sottrazione dei
beni all'applicazione delle procedure di esecuzione forzata. Restano (per il decreto legislativo
509/1994) sottoposte a ingerenza (vigilanza dei ministeri del Lavoro e dell'Economia), ma riangono
soggetti privati nella forma e nella sostanza: ciò deriva, secondo il Tar Lazio, dall'assenza di
finanziamenti pubblici e dall'operare delle Casse senza incidere né sul livello della spesa pubblica né
sul patto di stabilita' che vincola il nostro Stato a norma dell'articolo 104 del Trattato Ue. Segnali
contrastanti vengono, tuttavia, da altre aule giudiziarie: la Cassa dei dottori commercialisti sono reduci
da un'etichetta di «organismi di diritto pubblico» assegnata dalla Corte di cassazione a Sezioni unite.
Dopo aver esaminato i limiti dell'autonomia organizzativa e contabile, la vigilanza e l'influenza
pubblica, la Corte ha ritenuto applicabili alla Cassa le norme sulle gare di appalto pubbliche (sentenza
13398/2007). Stesso ragionamento ha subito Inarcassa, la Cassa di ingegneri e architetti (ordinanza
11088/2006). La sentenza del Tar del Lazio genera un solco tra le Casse e i numerosi soggetti che
hanno organizzazione e attività regolata da forme e schemi privatistici: Anas Spa, Patrimonio dello
Stato, il Quadrilatero Umbria Marche, Veneto strade, Poste italiane, Trenitalia, e via via fino alle
società in house, sono tutti enti sottomessi a parametri di interesse pubblico. Parametri confermati, per
le società in house, dalla decisone del Consiglio di Stato 1 del 3 marzo 2008 che mette anche in guardia
da interpretazioni ardite sull'autonomia dei soggetti privati di derivazione pubblica, potenzialmente
confliggenti con la normativa europea in tema di gare. Un eguale timore verso gli obblighi comunitari
non è presente nella sentenza del Tar del Lazio, che nega all'Istat il potere di individuare attraverso
elenchi i soggetti sottoposti a taglio di spese. Pochi mesi fa è fallito il tentativo di fuga dagli elenchi del
bilancio consolidato dello Stato da parte di Coni servizi (Spa che ha come cliente principale il Coni): la
sentenza del Tar Lazio 4826/2007 esclude che basti l'adozione di modelli privatistici per sottrarsi al
bilancio pubblico consolidato. La società del Coni è quindi rimasta sottoposta ai tetti di spesa, mentre le
Casse di previdenza si sottraggono ai limiti della finanza pubblica perché - a quanto sembra - i loro
bilanci non incidono sull'erario pubblico.
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Rassegna stampa - Ordine degli Avvocati di Trani