Chimera
Anno I Numero 2
All’interno
Le recensioni
di Daniele Imperi
PARA-TAN
Un racconto
selezionato da
Daniele Bonfanti
di
NEI LORO TEMPLI OSCURI
di Luigi Musolino
PETROGLIFI
PUNTO D'INCONTRO
FRA PASSATO E FUTURO
Contatti
Letture
L’editoriale
Roberto La Paglia
Gli articoli
Roberto Bommarito
Michele Proclamato
Le rubriche
Daniele Bonfanti
La narrativa di Chimera
Simone Barcelli
La storia che verrà
Il sogno continua
pag. 2
Roberto La Paglia
[email protected]
(responsabile Chimera magazine)
Petrogloifi: punto d’incontro tra passato e futuro pag. 7
Para-Tan
pag.32
Daniele Bonfanti
[email protected]
(responsabile “narrativa” di Chimera
magazine)
Daniele Imperi
[email protected]
Nei loro templi oscuri di Luigi Musolino
pag. 48
Una scrittura segreta
pag.68
(responsabile “recensioni” di Chimera
magazine)
Simone Barcelli
[email protected]
Le recensioni
Daniele Imperi
(responsabile Chimera web)
I ragni zingari
La corsa selvatica
I vermi conquistatori
Raimondo Mirabile, futurista
pag. 5
pag.30
pag.46
pag.66
2
Redazione
[email protected]
Chimera
Il sogno continua
C
himera ritorna; dopo un’estate calda e non soltanto da un punto di vista climatico, ma riscaldata
soprattutto da una forte e sana voglia di spensieratezza, il bisogno di starvi accanto con i nostri pensieri
e la nostra inesauribile voglia di comunicare non potevano farci mancare a questo secondo
appuntamento. Con il primo numero abbiamo compiuto un piccolo passo avanti, ci siamo affacciati
alle finestre di questa nuova avventura, e la calda accoglienza ricevuta è stata davvero calorosa, grazie a tutti voi. Ci
eravamo lasciati augurandoci di avere tanti amici che ci leggessero e affermando che i sogni, molto spesso, non
muoiono al mattino; sono stati in molti a scaricare la rivista, così come altrettanti sono stati coloro che ne hanno
apprezzato i contenuti e, soprattutto, la voglia di offrire uno spazio diverso, alternativo, ma non per questo privo di
spessore e interesse. Il sogno, quindi, continua, il mattino sembra prolungarsi oltre ogni nostra aspettativa e quasi
stupiti da un così inaspettato scenario, abbiamo deciso di dargli un aspetto ancora più profondo, denso di significati, ponendo la massima
attenzione ad ogni sfumatura dei colori che ravvivano il mondo. Il secondo numero di Chimera diventa quindi una lunga e seria riflessione
su quanto l’argomento mistero sia capace di far vibrare ogni intima parte della nostra essenza, senza limiti di spazio e di tempo. Lo studio
di Roberto Bommarito sui Petroglifi ben rispecchia questa particolare sensazione, e la sua indagine sulle origini delle incisioni rupestri nel
Neolitico ci porta in una dimensione sospesa, molto particolare, aprendo degli scenari che non sempre vengono presi in considerazione;
così abituati ad osservare le incisioni rupestri come semplici prodotti di una artigianale fantasia, resteremo davvero stupiti nell’apprendere la
profondità dei messaggi che nascondono. Un semplice disegno, una normalissima spirale, capaci di racchiudere un intero universo di
conoscenze, sensazioni, intuizioni; molto spesso l’infinito e la comprensione delle cose si nascondono dietro la più pura e squisita
semplicità. Quando poi scopriremo che un sottile ma robusto filo unisce le incisioni rupestri alla moderna realtà, che iniziando a leggere di
uno scenario preistorico siamo inconsapevolmente arrivati ai nostri giorni, allora inizieremo a vedere il corso degli eventi in maniera
globale, così come globale dovrebbe essere la nostra partecipazione e condivisione con l’universo che ci circonda. Un altro gradito e
Roberto
La Paglia
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illustre ospite di questo secondo numero di Chimera, ci condurrà invece nell’antica India, alla scoperta del Para-Tan. Si tratta di Michele
Proclamato, firma molto conosciuta e apprezzata da coloro che seguono questo particolare tipo di ricerche così intimamente legate a
quella sana voglia di capire e intuire una antica sapienza che, ad ogni nuova scoperta, diventa sempre meno terrena e sempre più
universale. Con Para-Tan ci addentreremo nei misteri e nei segreti di una millenaria disciplina indiana, capace di far ritrovare a ciascuno il
proprio equilibrio psicofisico e di trovare il modo per allinearsi con il divino. Uno studio estremamente interessante e di grande impatto,
che non mancherà certo di stupire il lettore e di metterlo nella condizione di porsi numerosi interrogativi; ma alla fine, anche questo è uno
degli scopi di Chimera, sollevare domande, offrire diverse prospettive, perché è proprio cercando delle risposte e osservando da diverse
prospettive che inizia il viaggio dentro noi stessi, un viaggio del quale si sente un estremo bisogno soprattutto in questo preciso momento
storico e in questo altalenante quotidiano. Da non perdere la rubrica delle recensioni di Daniele Imperi, che in questo numero ci
permetterà di gustarci uno dei capolavori della narrativa fantastica moderna, prestate quindi la massima attenzione a Brian Keene, ai suoi
“Vermi conquistatori” e alla strana storia di Teddy Garnett. Daniele Bonfanti di Edizioni XII ci presenta quindi un nuovo racconto. L’autore
scelto dal nostro infaticabile Bonfanti è Luigi Musolino, appena trentenne ma già autore di spicco nel panorama editoriale dedicato al
fantastico; il suo racconto, “Nei loro Templi Oscuri”, così vicino alle atmosfere del grande Lovecraft, sono sicuro che verrà ampiamente
apprezzato, e non soltanto dai cultori del genere. Chiude questa interessante carrellata di imperdibili e inediti spunti di riflessione una nota
arguta e pungente di Simone Barcelli, nella rubrica “La storia che verrà”, una riflessione che vi consiglio vivamente di leggere e sulla quale
si dovrebbe molto riflettere. Questo il nostro nuovo viaggio, forse molto più intimo rispetto al primo, ma sicuramente ricco di una infinità
di notizie e riferimenti che difficilmente troverete in altre pubblicazioni. D’altra parte, iniziato il cammino, ci piace considerarci come vostri
cari amici, e proprio come dei buoni amici abbiamo alternato momenti di puro svago intellettuale a riflessioni di forte valenza intima e
divulgativa. Ci auguriamo che anche questo nuovo viaggio incontri il vostro gradimento, e portandoci dentro ancora una parte di quella
spensieratezza e di quel sano rilassamento che ci auguriamo abbiano colorato le vostre vacanze, ci prepariamo alla prossima tappa,
tenendo sempre ben presente che molti passano sulla spiaggia, molti lasciano le loro orme, ma pochi si preoccupano che queste non
vengano cancellate dalla prima onda; Chimera si muove discretamente e a distanza dalla riva proprio per lasciare un segno che duri il più a
lungo possibile. Grazie a tutti voi e buona lettura.
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I ragni zingari
di Nicola Lombardi
metafora, affondando il lettore sempre più nel
mistero di una vicenda che assume pagina dopo
pagina la dimensione di un orrore troppo grande
per essere compreso.
C'è una muta convivenza di più generi letterari,
diluiti uno nell'altro. Sono tre ingredienti che
insieme formano un capolavoro di stile e di
scrittura. Nessuno può essere preso a sé stante,
ma ognuno assieme agli altri, come fili di
ragnatela, contribuisce a creare la storia, piena,
densa, cupa e tragica.
I ragni zingari come romanzo storico
All'indomani di quella tragica data dell'8
settembre 1943... Nicola Lombardi mette in
scena il caos in cui l'Italia, i suoi soldati, la sua
gente si sono ritrovati dopo l'armistizio. E lo fa
con una lucida analisi dei fatti, narrati dai suoi
protagonisti.
È qui l'orrore primo che I ragni zingari mostrano
Un libro ai
margini del
campo visivo
della letteratura,
là dove si
muovono come
ombre fugaci più
generi letterari, là
dove non esistono
confini ben
marcati, là dove
dolore e angoscia
si mescolano a
fantasia e
immaginazione.
Nicola Lombardi ha scritto un romanzo
straordinario, riuscendo a stillare dramma da
ogni parola. Ogni sua frase, ogni suo periodo è
una tagliente descrizione che si snoda fra realtà e
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oscure presenze e immaginarie creature per
spaventare i piccoli.
I ragni sono là, escono all'improvviso dal loro
mondo, zampettando sulle vite degli uomini,
muti, silenziose presenze che sfuggono alla
comprensione, quasi invisibili, se non come
fuggevoli ombre catturate dalla coda dell'occhio.
Tutto questo è I ragni zingari di Nicola
Lombardi. Una realtà amara e orribile, che ha il
suo completamento e la sua fine in quella
parallela, attraverso uno specchio in cui tutto
sembra assumere una sua logica, in cui tutto
sembra collegarsi al suo inizio. Come un
serpente che morde la sua coda. Non ha inizio né
fine, ma è solo un anello di sofferenza.
al lettore, è questo l'orrore che avvolge con la sua
ombra l'intera vicenda di Michele e della sua
famiglia e del paese in cui fa ritorno.
I ragni zingari come romanzo drammatico
Dal dramma della guerra Nicola Lombardi passa
al dramma e alla tragedia che ha colpito la
famiglia di Michele. Non c'è pausa al dolore, non
si può dare tregua alla confusione e alle ferite del
soldato che ritorna.
Un continuum che accresce nel lettore l'ansia per
qualcosa a cui ancora non può dare un nome, che
fa nascere in lui un senso di urgenza, che non
lascia spazio al riposo, come volesse costringerlo
a un'apnea di paura e angoscia.
I ragni zingari come romanzo horror
E accanto a tutto, ai margini di tutto, anzi, c'è la
leggenda, c'è la storia dei ragni zingari, c'è la
paura per il mistero, che a ritroso fa tornare
bambini, al tempo in cui gli adulti narravano di
Daniele Imperi
I ragni zingari di Nicola Lombardi
Edizioni XII
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PETROGLIFI
PUNTO D'INCONTRO
FRA PASSATO E FUTURO
Un’investigazione sull’origine delle incisioni rupestri del Neolitico
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Roberto
Bommarito
Parte I
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto
A
ll'inizio del XX secolo, l'autore di testi alchemici Fulcanelli definì le cattedrali gotiche «libri di
pietra». Attraverso decorazioni, disegni e simboli esoterici, queste meraviglie architettoniche ci
raccontano di un tempo diverso dal nostro. Ma le cattedrali gotiche potrebbero non essere i
soli «libri di pietra» in nostro possesso. L'Uomo è orfano del suo passato. Il trascorrere dei
secoli ha in gran parte cancellato le tracce di qualsiasi cultura abbia preceduto quella storica. Eppure
alcuni indizi sono riusciti a giungere fino a noi: quelli lasciati nella pietra. Se dovessimo estendere la
metafora di Fulcanelli ad altre costruzioni molto più antiche, forse potremmo scoprire che questi altri
«libri di pietra» ci raccontano non solo di una società, ma di un mondo, se non addirittura di un intero sistema solare,
molto differente da quello che conosciamo oggi. Un nuovo paradigma sta infatti emergendo: la cosmologia del plasma.
Unendo aspetti di questa nuova tesi ad alcune teorie sulla psiche umana, potremmo forse trovare la chiave per decifrare il
messaggio che gli autori del nostro passato hanno voluto comunicarci.
1. Un fuoco luminoso
Prima di tutto: cosa è il plasma? Anche se Platone conia il termine stoicheia per definire i quattro elementi - terra, acqua,
aria, fuoco - la loro origine può essere individuata già in periodo presocratico nel pensiero di Empedocle. Il filosofo,
scienziato e poeta antico li descrisse così:
«Conosci innanzitutto la quadruplice radice
Di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso,
Era madre della vita, e poi Idoneo,
Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali bevono»
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Questa percezione degli elementi potrebbe essere vista come un retaggio arcaico, oramai superato dalla scienza moderna.
Ma forse le cose non stanno proprio così. Alle «radici» o stoicheion della tradizione ellenica, infatti, potremmo fare
corrispondere quelli che la scienza moderna definisce i quattro principali stati della materia:
Terra → Solido
Acqua → Liquido
Aria → Gassoso
Fuoco → Plasma
Il «fuoco luminoso» di cui parla Empedocle sembra descrivere il plasma. Ovvero: un gas ionizzato, i cui elettroni non sono
legati agli atomi. Queste particelle, se eccitate, diventano visibili a occhio nudo. Sulla Terra la presenza del plasma è
abbastanza limitata. Lo riscontriamo in fenomeni naturali quali le aurore boreali, i fulmini e le fiamme. Nella vita di tutti i
giorni lo ritroviamo impiegato in tecnologie moderne quali i tubi al neon. Nel resto dell'universo è tutt'altra storia. Ben il
99.9% della materia conosciuta dell'Universo è costituita proprio dal plasma. Un esempio, lo sono le nebulose
interstellari. Un altro, molto più vicino a noi: il sole. Non fu un caso che Empedocle, nel descrivere in versi i quattro
elementi, identificò il «fuoco luminoso» con Zeus, divinità solare. Godfrey Higgins, nel trattato Anacalypsis, individua nel
culto solare l'origine di tutte le tradizioni religiose. Fino a che punto Higgins abbia ragione nell'identificare un'unica causa
all'origine del sentimento religioso è discutibile. In ogni caso, però, è innegabile che il disco solare abbia giocato un ruolo
fondamentale nei credo religiosi di tutto il mondo, tanto che lo scrittore mistico Manly Palmer Hall lo definì con
l'appellativo de «la divinità universale». Il sole è da sempre stato fonte di luce, calore, energia. In una parola sola: di vita.
Il legame fra sole e religione non è relegato solo a tempi antichi. Secondo la mitologa D.M. Murdock, il Cristo
sarebbe infatti la personificazione del dio sole. Dalla nascita alla sua morte e risurrezione, la biografia del Cristo sembra
infatti ricalcare quella di altre divinità solari che lo hanno preceduto, in particolar modo quelle dell'Antico Egitto. Proprio
nella Bibbia, troviamo la figura del Cristo associata a quella del disco solare alato egizio:
«Ma per voi che temete il mio nome si leverà il sole della giustizia, e la guarigione sarà nelle sue ali; e voi uscirete e salterete, come vitelli di
stalla» (Malachia 4: 2)
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Ma è corretto limitare l'importanza che il plasma ha avuto nello
sviluppo della cultura umana al solo disco solare? Prima di
rispondere a questa domanda, bisogna delineare due aspetti del
gas ionizzato che lo contraddistinguono dagli altri stati della
materia. Primo: il plasma è scalabile. Questo vuol dire che
qualsiasi sia la magnitudine del fenomeno, le sue caratteristiche
rimangono le stesse. Una scarica di plasma di piccole dimensioni
generata in laboratorio si comporta così come farebbe la sua
controparte di migliaia di ordini di grandezza superiore nella
ionosfera. A conferma di ciò, Anthony L. Peratt, uno dei
maggiori ricercatori nel campo del plasma, è stato in grado di
riprodurre in laboratorio delle «micro-galassie» di gas ionizzato,
identiche alle immagini delle galassie vere e proprie rilasciate dalla
NASA (fig 1).
Secondo: il plasma, quando percorso da corrente elettrica,
assume delle forme ben precise. Il primo a investigare queste
manifestazioni fu il fisico Kristian Birkeland. Queste «correnti di
Birkeland», che fanno parte una classe di fenomeni chiamata
«effetto Z-Pinch», tendono a respingersi a distanza ravvicinata e
attrarsi a distanza maggiore. Il risultato è una spettacolare danza
luminosa. Spirali, cerchi, filamenti e innumerevoli forme Fig. 1 Galassia di Bode M81 (sopra) e interazione di due filamenti di
plasma generata in laboratorio (sotto).
geometriche che, date le giuste condizioni, potrebbero
manifestarsi nella ionosfera. L'importanza di questo fenomeno, però, potrebbe trascendere la fisica. Le forme luminose
manifestate dal plasma sembrano essere difatti identiche ai petroglifi presenti nei siti archeologici. L'arte del Paleolitico
consiste soprattutto di rappresentazioni ritualistiche. Quella del più tardo Neolitico, invece, vede le scene di caccia cedere
il passo a delle complicate rappresentazioni geometriche. Un fenomeno difficile da comprendere, anche perché questa
trasformazione avviene su scala globale. Una delle forme geometriche più comuni dell'arte neolitica sono le spirali. Nel
tempio megalitico di Tarxin, a Malta, vengono ripetute quasi in modo ossessivo (fig 2). E lo stesso tema è riproposto
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anche negli altri templi megalitici presenti nell'arcipelago
maltese. Secondo il mondo accademico, questi motivi
rappresenterebbero la continuazione della vita dopo la morte.
Ma se si trattasse solo di questo, ovvero di un simbolo
Fig. 2 Motivi a spirale. Tempio di Tarxin, Malta.
arbitrario del ciclo dell'esistenza, diverse culture
avrebbero espresso lo stesso concetto tramite simboli
diversi. Quante possibilità ci sono che la comunità
neolitica maltese, per esprimere un determinato concetto,
concepisse lo stesso simbolo di un'altra società a migliaia
di chilometri di distanza nelle Isole Canarie? Oppure in
Cina? O addirittura alle Hawaii? Non c'è angolo del
mondo dove non troviamo questo motivo inciso nella
roccia. Le spirali, in molti casi, non sono solo simili: ma
identiche. Quelle del Betanzos, in Bolivia (fig 3), sono
composte dallo stesso numero di cerchi concentrici, ossia
Fig. 3 Spirale. Betanzos, Bolivia.
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undici, di quelle in Svizzera (fig 4). L'attuale interpretazione accademica
non sembra in grado di spiegare il perché di queste corrispondenze.
Viviamo in un mondo globalizzato. Malgrado ci siano delle nette
differenze fra le culture locali, alcuni simboli religiosi e loghi
commerciali sono riscontrabili ovunque. Proprio come i petroglifi
geometrici. Che la diffusione planetaria di quest'ultimi sia quindi dovuta
a una civiltà globale scomparsa? Graham Hancock, così come altri
ricercatori non sempre in linea con l'establishment accademico, ha
raccolto indizi che sembrerebbero indicare proprio una grande civiltà
perduta, forse a causa di gravi sconvolgimenti ambientali. Hancock
avanza l'ipotesi che lo scioglimento dei ghiacci avvenuto a termine
dell'ultima era glaciale, circa 12.000 anni fa, possa averne causato il
declino. Le strutture inghiottite dall'innalzamento dei mari sarebbero
decine. Questa ipotesi troverebbe supporto anche dalle più recenti
immagini rilasciate dalla Nasa. Le riprese dell'Airborne Synthetic Aperture
Fig. 4 Spirale. Carschenna, Svizzera.
Radar (AIRSAR) a bordo dello Shuttle Endeavour sembrerebbero
indicare l'esistenza di tali strutture nei fondali del Mar Morto. Altre
immagini satellitari avrebbero individuato anomalie anche nei fondali marini di Grecia, Inghilterra, Cuba, Stati Uniti,
Giappone e India. L'evidenza a supporto di una civilizzazione globale perduta sarebbe rintracciabile anche nella matrice
culturale di alcuni antichi popoli sopravvissuti fino a oggi. Murdock, in La cospirazione di Cristo, delinea come i Pigmei, una
delle popolazioni più antiche dell'Africa equatoriale, sostengano:
«...di essere stati una cultura globale molte migliaia di anni fa. Il fatto che il mito e il rituale standardizzato si trovano in dettaglio intorno al
mondo richiede una spiegazione di almeno una tale civilizzazione globale distrutta molto tempo fa da cataclismi ma preservata sia nella storia
che nella pietra»
Le tradizioni religiose dei primi Pigmei potrebbero essere alla base di quelle di culture venute più tardi. Il loro credo
avrebbe incluso fra l'altro un Dio che viene ucciso, una madre Vergine e un Figlio salvatore che vendica l'uccisione del
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Padre. Uno schema
mitologico che, secondo lo
storico pan-africanista John
G. Jackson, sarebbe poi
stato assorbito dagli antichi
egizi, integrandolo nel mito
Osiride, Iside e Horus. Ma
torniamo ai petroglifi simili
- se non identici - fra loro
rinvenuti in tutto il mondo.
Anche nel caso in cui una
civiltà globale fosse
davvero esistita, questa
avrebbe comunque
preceduto il Neolitico, il
periodo che ha visto l'arte
preistorica mutare
radicalmente. Stando alle
datazioni ufficiali, il più
antico tempio megalitico
maltese, quello della
Ggantija, risalirebbe infatti
Fig. 5 Newgrange, Irlanda.
al 3600 a.C. Il complesso
irlandese di Newgrange, al 3200 a.C. (fig 5) Mentre quello di Tarxin, di nuovo a Malta, risalirebbe a una data ancora più
recente: il 2500 a.C. Tutti questi templi, come molti altri, sarebbero stati quindi edificati circa 9000 anni dopo l'evento
catastrofico che avrebbe spazzato via la civilizzazione globale precedente.
Va notato che, seppure le forme geometriche siano predominanti nel Neolitico, anche l'arte del Paleolitico presenta in
alcuni casi schemi simili. Quindi, in origine, il simbolismo geometrico potrebbe essere stato sviluppato da una civiltà
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globale scomparsa. Ma, se questo è il caso, come mai il cambiamento vero e proprio avviene solo dopo la scomparsa di
tale civilizzazione? Forse la spiegazione è da cercare altrove: nel cielo. Un cielo molto diverso da quello che conosciamo
oggi.
2. Mondi (e teorie) in collisione
Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer scrisse:
«...il destino, che sempre toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tanto più in
quello che più importa: alla quale verità è destinato solo un breve trionfo, fra i due
lunghi spazi di tempo in cui ella è condannata come paradossale o spregiata come
banale. E il primo destino colpisce insieme colui che l'ha trovata».
Fig. 6 Immanuil Velikovskij
Questo è il processo attraverso il quale sono passate molte delle teorie
che oggi diamo per scontate. Le istituzioni, essendo forze stabilizzanti,
legittimano il loro operato facendo appello alla propria autorità.
Secondo il filosofo Jean-François Lyotard, questa autorità è basata su
dei concetti universalistici quali progresso e verità. Ne consegue che
un'istituzione che non possiede più la verità rischia di perdere il diritto
a esercitare il proprio potere. I cambiamenti improvvisi e netti
rappresentano una minaccia per ogni istituzione, inclusa quella
accademica. Questo spiega l'ostilità nei confronti di ricercatori che
avanzano ipotesi alternative che rischiano di compromettere i
paradigmi sui quali si basa il mondo scientifico. Un tale ricercatore è
stato Immanuil Velikovskij (fig 6).
Psichiatra e sociologo di origini russe, Velikovskij fu uno studioso di
ampie vedute. Oggi le sue teorie vengono definite con l'appellativo di
«catastrofismo» - a ragione. La parola «catastrofe» deriva dal greco
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«strophe». Termine che indica una «girata», riferendosi ai passi di danza del coro
greco. Movimenti che, secondo David Talbott, ricercatore ed esponente della
cosmologia del plasma, erano a loro volta specchio di quelli degli astri. Le
cerimonie ritualistiche greche narravano le vicissitudini di eroi e dei. E gli dei,
come sappiamo, nella mitologia greca corrispondevano ai corpi celesti. La dea
Venere veniva per questo chiamata anche «Apostrophia». Inoltre, la parola
«catastrofe» condivide la stessa radice della parola «stella» o, appunto, «astro». Il
termine «catastrofe» potrebbe indicare, quindi, un accadimento nefasto di grave
portata connesso a un evento celeste. Proprio di questo cataclisma planetario si
occupò Velikovskij, nel suo libro Mondi in collisione del 1950 (fig 7).
Ancora prima che venisse pubblicato, il libro fu però oggetto di controversie. Il
mondo accademico provò a impedirne la pubblicazione. L'editore James Putman
perse il posto, mentre lo psichiatra russo venne dichiarato «persona non grata» nei
campus universitari. Malgrado tutto, però, Mondi in collisione divenne presto un best
-seller. Le controversie aumentarono a tal punto che l'American Association for the
Advancement of Science dovette intervenire, organizzando un simposio. Fra i presenti
ci fu anche Carl Sagan, astronomo e divulgatore scientifico, il quale, dopo avere
esposto la sua posizione, lasciò la scena, rifiutandosi di affrontare il dibattito con
lo psichiatra russo. Eppure, tempo dopo, lo stesso Sagan avrebbe ammesso che il
tentativo di censura nei confronti di Velikovskij fu un errore che mal si rifletteva
sull'intero mondo accademico. Molti paradigmi scientifici si fondano sull'idea di
cambiamenti graduali. Secondo il modello evoluzionistico darwiniano, le forme di
vita si evolvono lentamente nel corso di milioni di anni. Allo stesso modo, i Fig. 7 Mondi in collisione, copertina
mutamenti della Terra e dell'intero sistema solare sarebbero graduali. Molte aree di
studio, quali biologia, geologia, e astronomia, si basano per l'appunto su un modello di cambiamento lento e costante. Le
idee catastrofiste avanzate da Velikovskij metterebbero a rischio la veridicità di tale supposizione. Queste le tesi principali
avanzate da Valikovskij:
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La Terra ha subito una serie di catastrofi naturali di portata globale, sia prima che durante il corso della storia umana.
Fino a pochi millenni fa, i pianeti Saturno, Giove, Marte e Venere occupavano delle orbite diverse da quelle osservate
oggi.
Venere è un pianeta giovane.
Le forze elettromagnetiche giocano un ruolo predominante nella meccanica dei corpi celesti.
La vicinanza della Terra a questi pianeti causarono delle enormi scariche di plasma che furono testimoniate dai nostri
antenati.
Gli eventi mitologici descritti dalle culture di tutto il mondo - come il diluvio universale - sarebbero basati su eventi
realmente accaduti. Miti, leggende e immagini artistiche impresse nella roccia sarebbero una testimonianza di tali
eventi catastrofici.
Le memorie di questi eventi traumatici, tramite il processo psicoanalitico dell'«Amnesia culturale», sarebbero stati
repressi nel subconscio umano.
Oggi sappiamo che alcuni dettagli presentati da Velikovskij a supporto delle sue tesi, come i resoconti cronologici, sono
errati. Malgrado ciò, altri elementi meritano di essere presi seriamente in considerazione.
Fra gli aspetti più affascinanti della tesi proposta da Velikovskij vi è la possibilità che, fino
a solo pochi millenni fa, i pianeti del nostro sistema solare abbiano occupato delle orbite
diverse. Immaginare un cielo dominato non solo dal sole e dalla luna, ma anche da
Saturno, Giove, Marte e Venere, richiama film e romanzi di fantascienza. Eppure esiste
dell'evidenza che sembrerebbe supportare la teoria dello psichiatra russo. Velikovskij
affermava che Venere fosse un'aggiunta recente al nostro sistema solare. Il ricercatore
russo non trovò traccia del pianeta nei testi sacri più antichi. Mentre le testimonianze più
recenti descrivono Venere esibire le stesse caratteristiche di una cometa. Christian
Koeberl e Kenneth D. Macload riferiscono che gli Aztechi descrivevano Venere come
«una prominente stella che sparava frecce». Difatto, l'astro veniva spesso raffigurato con
le sembianze di un temuto guerriero (fig 8). Questa identificazione sarebbe comprensibile
in uno scenario in cui Venere (guerriero), sfiorando la Terra, avesse rilasciato delle enormi Fig. 8 Venere-guerriero. Immagine tratta
scariche di plasma (frecce), causando un disastro di proporzioni oggi inimmaginabili.
dal Codice Borgia, XV secolo
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In altre occasioni, Venere viene descritta come «stella fumante» o «stella dai lunghi capelli». Secondo Talbott, proprio per
questa ragione, il pianeta sarebbe stato identificato con l'archetipo femminile. Ma non solo. In ambito astroteologico,
Venere, la stella del mattino, equivale alla figura di Lucifero, il cui nome deriva da lux (luce) e fero (portare), ossia:
«Portatore di luce». I «lunghi capelli» (o la coda della cometa-Venere) potrebbero spiegare perché Lucifero viene
rappresentato come serpente o dragone. È curioso notare come nel libro dell'Apocalisse troviamo quella che sembra
proprio essere la narrazione di sconvolgimenti planetari:
«E vi fu battaglia in cielo: Michele e i suoi angeli combatterono col dragone, e il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero, e il
luogo loro non fu più trovato nel cielo» (Apocalisse 12: 7-8)
Velikovskij fece anche alcune predizioni scientifiche. Fra cui quella che Venere, essendo un pianeta giovane, avrebbe
dovuto presentare tracce di idrocarburi nella sua atmosfera. Predizione, questa, che si è rivelata essere corretta. Una
diversa conformazione del nostro sistema solare potrebbe spiegare le differenze dei calendari antichi con quelli moderni.
Nel I millennio a.C., i caldei neo-babilonesi usavano un calendario basato su 360 giorni. L'anno veniva suddiviso allo
stesso modo anche dagli Assiri e dai Persiani, i quali, attorno al VII secolo a.C, aggiunsero cinque giorni al proprio
calendario. Fecero la stessa cosa i cinesi, portando il proprio calendario a 365.25 giorni. Anche gli Indù, sempre attorno
al VI secolo a.C, iniziarono a usare un anno civile di 365.25 giorni, mentre quello sacro ne conta a tutt’oggi solo 360.
Questa variazione universale del calendario potrebbe indicare un cambiamento nell’orbita del nostro pianeta, forse a
causa di interazioni cataclismiche della Terra con Venere e gli altri protagonisti del sistema solare. Gli effetti degli eventi
sismici tanto sull'inclinazione dell'asse terrestre quanto sulla rotazione del pianeta sono ben documentati. Secondo
Richard Gross, geofisico presso l'Agenzia Spaziale Americana, il terribile terremoto di magnitudo 9.1 sulla scala Richter
che ha colpito il Giappone l'11 Marzo del 2011 avrebbe inclinato l'asse terrestre di circa 17 centimetri e aumentato la
velocità di rotazione della Terra, accorciando il giorno di 1,8 microsecondi. Non è perciò difficile vedere come un evento
nettamente più catastrofico, quale la mancata collisione fra la Terra e la cometa-Venere, avrebbe potuto modificare in
modo molto più significativo le dinamiche del nostro pianeta. Gli astri sono stati da sempre legati a un significato di
valenza religiosa. Nel Libro XII della Metafisica, Aristotele scrive:
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«Da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato
tramandato ai posteri sotto forme mitiche che questi corpi celesti
sono dèi e che la divinità contiene in sé l’intera natura».
Un cielo diverso da quello che conosciamo oggi, con dei
pianeti che seguivano orbite che li avrebbero portati a
sfiorare la Terra causando sciagure e cataclismi, potrebbe
spiegare perché i pianeti fossero temuti come dei.
Talbott sostiene che queste mancate collisioni avrebbero
causato delle scariche elettriche di tale violenza da
lasciare delle cicatrici indelebili sulla superficie dei
pianeti, incluso il nostro, dando forma a valli e crateri, e
addirittura al Grand Canyon in Arizona. Teoria, questa
Fig. 9 Aurora di Giove. Immagine NASA, Hubble Space Telescope
di Talbott, non del tutto supportata dall'evidenza. Uno
studio condotto da Duane Hamancher della Macquaire University di Sydney, intitolato Meteoritics and Cosmology Among the
Aboriginal Cultures of Central Australia, sembrerebbe infatti contraddire questa tesi. Analizzando diversi racconti dell'epoca
dei Sogni, Hamancher conclude che gli aborigeni, come nel caso dei Djaru dell'Australia Occidentale, conserverebbero
ancora la memoria di diversi impatti meteoritici, che nulla sembrano avere a che fare col plasma. D'altro canto, un altro
studio, Plasma-Generated Craters and Spherules di C. J. Ransom e Wallace Thornhill, dimostrerebbe invece come sia in effetti
possibile creare sfere e crateri tramite scariche di plasma. Essendo questo scalabile, gli effetti ottenuti in laboratorio
sarebbero applicabili anche su grande scala. Quindi, sebbene abbiamo la certezza che alcuni crateri siano stati causati
dalla caduta di meteoriti, altri potrebbero in effetti non esserlo. Che la vicinanza dei corpi celesti possa provocare
fenomeni di plasma è stato confermato dalle osservazioni della NASA. A partire dal ’92, le immagini del telescopio
Hubble hanno mostrato l’aurora di Giove interagire con i tre satelliti naturali Io, Ganimede ed Europa (fig 9) Eppure
l’idea che dei fenomeni simili, causati dalla vicinanza di Venere e altri pianeti alla Terra, si siano potuti verificare solo
pochi millenni fa rimane difficile da accettare. La teoria del plasma, però, non necessita che la teoria catastrofista
avanzata da Velikovskij sia valida per essere corretta. I fenomeni potrebbero infatti essere spiegati in altro modo.
18
3. Tempesta aurorale
Secondo Peratt, una «tempesta aurorale» potrebbe causare
effetti simili a quelli che si verificherebbero se due pianeti
venissero a stretto contatto fra di loro. Un tale fenomeno
potrebbe essere cagionato da un vento solare
particolarmente vivace, di intensità una o due volte
superiore a quella attuale. Come illustrato in un articolo
pubblicato sulla rivista scientifica Transactions on Plasma
Science, Peratt, analizzando circa 25,000 petroglifi al
computer, avrebbe addirittura individuato la parte del cielo
nella quale si sarebbe verificata la super-aurora. Secondo
Peratt, quelli che generalmente vengono interpretati come
forme stilizzate di uomini, sarebbero in realtà manifestazioni
dell'effetto Z-Pinch. Questo spiegherebbe alcune curiose
caratteristiche. Per esempio, i due punti ritratti ai fianchi
delle figure umano-cruciformi presenti nei petroglifi del Fig. 10 Effetto Z-pinch (sopra/sinistra) comparato con petroglifi di immagini
umano-cruciformi rinvenuti in diverse parti del globo (sopra/destra e sotto)
Nord America così come in quelli rinvenuti, all'altro capo
del mondo, in Italia (fig. 10). La memoria di questa «tempesta aurorale» sarebbe
rintracciabile anche nella tradizione rituale dei Dogon, le cui maschere cerimoniali
Kanaga sono per l'appunto una copia identica dei petroglifi umano-cruciformi (fig. 11).
Ma le similitudini fra petroglifi e fenomeni di plasma non si fermano qui. Le incisioni
rupestri rinvenute lungo il corso del fiume Columbia sembrano infatti essere la
rappresentazione di una colonna aurale di plasma. Anche le immagini che
caratterizzano alcuni reperti rinvenuti a Nazca, in Perù, sembrano raffigurare lo stesso
evento (fig. 12). L'albero della vita, uno di simboli principali della tradizione cabalistica,
è identificabile con l'effetto Z-Pinch. Così come alcuni fra i simboli più antichi
dell'umanità, quali la croce, la svastica e il Chi Rho.
Fig. 11 Maschere cerimoniali Kanaga
19
Nell'opera la Vita di
Costantino, si narra di una
croce luminosa apparsa nel
cielo che avrebbe spinto
l'imperatore romano a
convertirsi al cristianesimo.
Per quanto sia molto
probabile che si tratti di una
leggenda formulata a scopo
politico, è comunque
interessante considerare la
possibilità che Costantino
abbia in effetti assistito a un
fenomeno di plasma. Un Fig. 12 Incisioni rupestri rinvenute lungo il corso del fiume Columbia (destra); simulazione di una colonna di plasma (centro);
reperto rinvenuto a Nazca, Perù.
possibile candidato potrebbe
essere lo «spettro rosso», anche se la durata di questo fenomeno solitamente
non supera i millesimi di secondo (fig. 13).
Eppure tutti questi simboli sembrano essere stati fin dalle origini legati ad
aspetti ritualistici e religiosi. Vi è una dimensione spirituale associata a certe
immagini che, dato la loro diffusione archetipale, è impossibile ridurre a delle
mere rappresentazioni grafiche impresse nella roccia. Non solo: ma gli stessi
simboli sembrano svolgere un ruolo nel processo di maturazione della psiche
umana. L'approccio del plasma può spiegare le corrispondenze esterne
(fenomeno - rappresentazione), ma non quelle interne, o psicologiche, che
sembrano avere una funzione. Per capire l'origine dei petroglifi-simboli, quindi,
bisogna esplorare l'altra faccia della medaglia: la psiche umana.
Fig. 13 «Spettro rosso»
20
Parte II
Ciò che è in alto è come ciò che è in basso
1. Fenomeni entoptici
Fig. 14 Comparazione fra fenomeni entoptici e incisioni rupestri (Lewis-Williams & Dowson 1988, p. 206-7)
21
Così come all'inizio ci siamo
domandati cosa è il plasma, a questo
punto dobbiamo domandarci che
cosa è un simbolo. La parola
«simbolo» deriva dal greco «sym
bàllein», o «mettere insieme». Ha
quindi a che fare con l'unione di due
- o più parti - di un'unità divisa. Il
simboli possono essere frutto di
convenzioni sociali. Oppure, come
nel caso dei simboli analogici,
possono rappresentare una relazione
tra oggetto esterno e immagine
mentale. In questo caso, il simbolo
diventa un punto d'incontro fra
questi due aspetti della realtà. Se
decidiamo di considerare i petroglifi
in qualità di simboli analogici,
dobbiamo cercare in essi non solo
una corrispondenza esterna (che
potrebbe essere identificata nei
fenomeni del plasma) ma anche una
interna, o psicologica. Alla fine degli
anni ottanta, Lewis-Williams e Dowson, due archeologi sud-africani, avanzarono l'ipotesi
che i petroglifi geometrici originassero dai processi neuronali. Nel contesto dei rituali
sciamanici, che spesso includono l'uso di sostanze allucinogene, si vengono a creare delle
manifestazioni visive, chiamate fenomeni entoptici. Queste assumono spesso forme
geometriche, simili a quelle dei petroglifi (fig. 14). Tali fenomeni sono riscontrabili anche
durante la meditazione, l'autoipnosi o nella transizione a stati di sonno.
Questa tesi è però contestabile, in quanto alcuni petroglifi geometrici sono stati rinvenuti in
zone dove non si ha alcuna indicazione di pratiche sciamaniche. Per di più, la teoria dei due
archeologi non riesce a spiegare in modo esauriente perché mai gli sciamani avrebbero
dovuto imprimere sulla roccia le loro visioni. Forse bisogna scavare più a fondo, andando
oltre i meri impulsi neurologici. E cercare degli equivalenti psicologici alle forme espresse
dal plasma in una dimensione comune a tutti, ipotizzata dallo psicoanalista Carl Gustav
Jung: l'inconscio collettivo.
2. Archetipi
Per quanto sia stato il discepolo prediletto di Sigmund
Fig. 15 Carl Gustav Jung
Freud, Jung ha intrapreso una strada opposta a quella
materialista del suo maestro, navigando le acque incerte dell'irrazionalismo (fig. 15).
Dopo la rottura definitiva con Freud, Jung decise di ritirarsi per elaborare le proprie
teorie. Questa sembra essere stata una fase di profonda crisi per lo psicoanalista svizzero.
Durante questo periodo, Jung si confrontò con il proprio inconscio. Questa sua
esperienza avrebbe influenzato radicalmente il resto della sua vita così come lo studio
della psiche umana. Benché sia stato pubblicato solo nel 2009, il Liber Novus di Jung (noto
anche come il Libro Rosso) è il diretto prodotto di questo periodo tormentato che spazia
dal 1914 al 1930 (fig. 16). Il manoscritto è composto da 205 pagine di testo e illustrazioni
disegnate di suo pugno, che ritraggono quelli che lo stesso Jung definì: «Archetipi», dal
Fig. 16 Il Liber Novus o Libro Rosso di greco «tipos» (modello) e «arché» (originale). Ma, per capire esattamente cosa intendesse
C. G. Jung
22
Jung con questo termine, dobbiamo immaginare questi archetipi come aventi
un'esistenza propria. Non parte della psicologia individuale della persona, ma
originari dell'inconscio collettivo: una dimensione comune a tutta l'umanità.
Gli archetipi sarebbero il risultato dell'integrazione di esperienze che hanno
caratterizzato profondamente la storia dell'evoluzione umana. Per esempio,
siccome gli esseri umani hanno da sempre avuto una figura materna, questa è
stata col tempo assorbita dall'inconscio collettivo, dando vita all'archetipo
universale della «Grande madre». Altri esempi di archetipi sono: l'«Ombra»,
personificazione degli istinti animali ereditati da forme di vita più semplici. E il
lato femminile dell'uomo e quello maschile della donna, ovvero: «l'Anima» e
«l'Animus». Il numero degli archetipi che popolano l'inconscio collettivo
sarebbe però sterminato, ognuno capace di esercitare un'influenza diretta sulla
coscienza della persona. Questi si esprimerebbero anche attraverso sogni e
mitologia. Non sempre, però, in forma antropomorfica. Durante il difficile
periodo in cui Jung scrisse il Liber Novus, lo psicoanalista fu visitato anche
dall'archetipo del serpente. Serpenti e dragoni appaiono più volte nelle
illustrazioni del manoscritto (fig. 17). I rettili, altri animali e creature ibride
sono archetipi molto comuni, riscontrabili in mitologie appartenenti alle
culture di tutto il mondo. Gli archetipi possono assumere anche forme
inanimate. Uno degli esempi proposti da Jung è quello del numero quattro,
Fig. 17 Illustrazione tratta dal Liber Novus
che può emergere in modi diversi. Come quattro colori, o quattro sedie
posizionate attorno a un tavolo, oppure le stagioni in un anno. Spesso questo
archetipo si esprime in congiunzione con quello del cerchio, come in un orologio diviso in quattro sezioni. È infatti
proprio il simbolo della «Quadratura circuli», quello espresso in questo genere di immagini oniriche. Fin dai tempi di
Platone, tale archetipo ha rappresentato la forma perfetta. Nella tradizione esoterica, il cerchio simboleggia la creazione,
essendo questa «in forma rotunda et globosa». In termini alchemici, è il chaos originale, il «rotundum», l'uovo che
contiene in sé i principi della materia: i quattro elementi. Ed è proprio questo approccio, quello alchemico, la chiave di
lettura dell'archetipo. Il cerchio, contenendo i quattro principi, è espressione del demiurgo, o Creatore, dormiente.
23
Trascendendo i quattro elementi, si ottiene Adam Kadmon, il secondo Adamo, o uomo spirituale superiore. L'archetipo
della «Quadratura circuli» ha perciò una funzione trasformativa. Funzione condivisa da tutti gli archetipi, anche se
ognuno di questi sembra occuparsi di un aspetto diverso della persona. Gli archetipi sono di fatto molto più che semplici
immagini mentali originate dall'inconscio collettivo. Affrontandoli, l'individuo può liberarsi dai complessi psicologici che
lo attanagliano. Vediamo quindi che gli archetipi:
(1) Possono esprimersi anche come forme geometriche, incluso la «Quadratura circuli», la croce, la spirale o una qualsiasi
delle altre forme che ritroviamo ritratte nei petroglifi.
(2) Avendo una funzione, quella alchemico-trasformativa, non è possibile ridurli a mere immagini mentali.
Abbiamo così una corrispondenza fra fenomeno esterno - che si potrebbe rintracciare in manifestazioni fisiche, quali
sono quelle del plasma - e fenomeno interno - gli archetipi. Sappiamo pure che quest'ultimi hanno una funzione. Cosa
che va presa in considerazione, nel domandarci in che modo questa corrispondenza fra fenomeno esterno e interno
abbia potuto risultare nei significati - qualsiasi questi fossero davvero - del simbolo-petroglifo.
3. Tempo e pensiero non-lineari
Come abbiamo visto, secondo Jung gli archetipi sarebbero stati assorbiti dall'inconscio collettivo tramite l'esperienza
ripetuta di diverse generazioni. Velikovskji propose anche una forma di amnesia collettiva in risposta a degli eventi
catastrofici che hanno traumatizzato la psiche umana. Un evento catastrofico avrebbe dato vita a un archetipo negativo.
Mentre un fenomeno spettacolare ma non distruttivo, come un'intensa aurora boreale, sarebbe stato associato a dei
significati di valenza positiva. Gli archetipi sono attivi. Interagiscono in modo trasformativo con la coscienza individuale
della persona. Ed essendo associati all'immaginario, che ha spesso connotazioni spirituali-religiose, non è difficile
postulare un'attribuzione di significato simbolico che origina nell'archetipo per culminare, come proposto dallo storico
delle religioni Mircea Eliade, nella rappresentazione petroglifica.
Archetipo → Simbolo-Petroglifo.
24
Eppure Peratt sarebbe riuscito a identificare addirittura la direzionalità dei petroglifi. Se fossero una espressione artistica
che ha esclusivamente origine nell'archetipo, le incisioni rupestri non dimostrerebbero una tale precisione raffigurativa
calcolabile matematicamente. Abbiamo quindi da una parte una plausibile corrispondenza fra archetipo e petroglifo.
Dall'altra, invece, un'altrettanto importante
corrispondenza fra quest'ultimi e dei puri fenomeni
oggettivi, quelli del plasma. La domanda a questo
punto è: l'origine del simbolo-petroglifo va
identificata nella dimensione psicologica o nella
realtà obbiettiva? Forse la risposta è: in entrambi.
Oggi, nella civilizzazione occidentale, percepiamo il
Tempo in senso lineare. Ma non fu sempre così. Il
concetto di tempo lineare e intimamente legato alla
tradizione giudeo-cristiana. Nelle battute d'apertura
della Genesi troviamo scritto:
«Nel principio Iddio creò i cieli e la terra» (Genesi 1:1)
Si presume quindi un momento in cui il Tempo
inizia. Il Tempo, secondo Agostino d'Ippona, è esso
stesso creatura di Dio. Così come un inizio, ha pure
una fine: il Giudizio Universale. Eppure, prima
dell'affermarsi dalla tradizione giudeo-cristiana, il
Tempo è stato sempre concepito in senso ciclico.
Nel pensiero pagano, troviamo il concetto della
ruota che gira su sé stessa, la Ruota del Tempo,
espressa anche dall'archetipo dell'Uroboro, il
serpente che si morde la coda (fig 18). Questo
movimento eterno è accompagnato da quello degli
Fig. 18 Rappresentazione Uroboro
25
astri. Gli astrologi babilonesi suddividevano il tempo all'interno di un cerchio. Vi è quindi una strettissima associazione
fra Tempo e Natura. Basta osservare i cicli naturali per capirne la ragione. La precessione degli equinozi, calcolata
dall'anno platonico, richiede 25.800 anni per il suo compimento. Le stagioni seguono un ordine predefinito. Le piante
nascono, maturano e muoiono, lasciando il posto alla generazione successiva. E la stessa cosa accade nella vita di ogni
essere umano. In altre parole, tutto sembra procedere in senso ciclico. Eppure oggi la maggior parte della popolazione è
concentrata in agglomerati urbani. Questo conduce a un'alienazione dai cicli naturali, che a sua volta si riflette nel
pensiero comune. L’alienazione individuale, unita alla concezione giudeo-cristiana del Tempo, ci porta a ragionare in
senso lineare. Per quanto questa sembri essere l'attitudine dominante, già dalla fine dell'Ottocento il pensiero lineare ha
iniziato a perdere terreno. Il filosofo Friedrich Nietzsche, ripescando dalla tradizione ellenica, ridiede vita al concetto
circolare dell'eterno ritorno dell'uguale. In Così parlò Zarathustra, Nietzsche scrive:
«Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto
il nome della porta: "attimo"».
Ispirati da Nietzsche, i filosofi postmoderni hanno continuato a rielaborare il concetto di non-linearità, criticando
l'approccio razionalista di causa ed effetto. L'approccio non-lineare è supportato anche dalle scoperte della fisica
quantistica. Il principio di indeterminazione di Heisenberg evidenzia come le leggi della fisica in nostro possesso non
bastino a spiegare il comportamento delle particelle, le quali sembrano disobbedire i dettami della semplice causalità. La
non-linearità sta prendendo sempre più piede anche a livello culturale. Molti film vengono narrati in modo
cronologicamente spezzettato. Lo stesso accade anche nella narrativa. Ma questa tendenza non è una nuova scoperta,
tutt'altro. È piuttosto una ri-scoperta. La tecnica d'esordio in media res, ovvero iniziando il racconto «nel mezzo delle
cose», fu adottata già da Omero. Come l'Uroboro, il serpente che si morde la coda, sembra che ci stiamo riallacciando
alle nostre origini. Se dovessimo guardare alla realtà con gli occhi dei nostri antenati, vedremmo che causa ed effetto
sono in realtà parte di un unico sistema che non ha né un principio né una fine: solo fasi diverse. Quindi, se adottiamo
uno schema di pensiero non-lineare, non ha più senso domandarci: Cosa viene prima, la dimensione psicologica o quella
obbiettiva? perché entrambe contribuiscono in egual misura. È la similitudine fra fenomeno oggettivo (manifestazione di
26
plasma) e fenomeno psicologico (archetipo) a investire di significato i simboli rappresentati dai petroglifi. I petroglifi
diventano così il punto d'incontro dove mondo interno ed esterno corrispondono, ovvero il simbolo attraverso il quale
questa interazione ciclica trova un'espressione visiva.
4. Conclusione
Finché cercheremo un'unica causa alla base dell'origine dei petroglifi, rischiamo di rimanere con una spiegazione solo
parziale di questo fenomeno che, emergendo da un passato dimenticato, vuole comunicarci qualcosa. Se rinunciassimo ai
paradigmi prestabiliti, aprendo le porte a un approccio interdisciplinare, potremmo invece riscoprire una relazione ormai
perduta sia col mondo interiore della psiche umana che con quello esteriore naturale. Eliade, osservando una cerimonia
d'iniziazione della tribù australiana Wiradjuri, nella quale una spirale viene ricavata dalla corteccia di un albero, la
descrisse come la riattivazione delle connessioni fra il mondo umano e quello divino del cielo. Rievocare un senso di
comunione fra la dimensione umana e il mondo esterno potrebbe essere la chiave alla soluzione di molti dei problemi
che caratterizzano la nostra società, dalla distruzione dell'habitat all'alienazione personale dell'individuo. I petroglifi
potrebbero rivelarsi essere non solo un punto d’incontro fra psiche e realtà esteriore, ma anche fra passato e futuro.
Chissà, l'uomo potrebbe anche riscoprire che la realtà attorno a lui è lo specchio di sé stesso. Ovvero, così come
troviamo scritto nella Tavola di Smeraldo, che:
«Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare i miracoli della cosa una».
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29
La corsa selvatica
di Riccardo Coltri
Regno Unito. Un periodo
storico in cui leggenda e
superstizione, specialmente nei
paesi sperduti di montagna, era
ancora verità, si impossessava
delle menti chiuse e semplici
della gente.
Coltri ci propone una riscrittura
dell'horror. Un misto fra
leggenda e storia in cui non
sembra esserci un vero
protagonista. Tutti sono preda
dell'incubo che ha colpito quella
parte del nord Italia, ma l'incubo
stesso è preda degli uomini che
tentano di fermarlo.
E' la storia, la leggenda che
ritorna, che si fa realtà, che
affonda le sue radici in un
passato oscuro, lontanissimo e
ormai dimenticato, a essere
Un horror che lascia il segno.
La corsa selvatica si esprime
attraverso un linguaggio dal
sapore antico, ma con uno stile
moderno. La struttura delle
frasi e dei periodi è originale e
personale, perfettamente
integrata nella tipologia di storia
che Coltri sta narrando.
Il mistero e la paura per
qualcosa che non si conosce, a
cui non si riesce a dare forma,
traspira da questo linguaggio a
ogni passo del breve romanzo.
La parola, dunque, partecipa di
questo incubo, contribuendo
all'inquietudine generale che
serpeggia fra personaggi e
luoghi.
L'ambientazione è italiana, o
meglio siamo nei primi anni del
30
protagonista indiscussa. Non una storia, anzi, ma più
storie insieme, concatenate, che si intrecciano e si
fondono l'una con l'altra.
Personaggi comuni si muovono a fianco di bizzarre e
non comuni figure, che sembrano scaturite da una
fiaba remota, eppure sono là, nella vita reale di tutti i
giorni. Eppure quello che prima era solo una leggenda,
adesso appare a tutti nella sua forma più sconvolgente.
C'è.
Per una volta possiamo leggere del nostro paese, di
leggende e voci rimaste sconosciute, ma che ci
appartengono. Il fantastico e l'horror non sono
predominio di luoghi e autori d'oltreoceano, ma
possono nascere- nascono, anzi- ovunque ci sia una
cultura.
L'Italia descritta da Coltri in questo romanzo, che
sembra fondere il fantastico, l'horror e il giallo, ha una
catalogazione storica, come già detto in precedenza,
ma è un'Italia buia, nebulosa anche, non solo per la
leggenda che si risveglia, ma per la grande varietà degli
stessi personaggi, con realtà tanto diverse l'una
dall'altra, contribuendo a rendere più marcato quel
senso di mistero che si respira sin dall'inizio.
La scelta narrativa dei luoghi non poteva essere
differente, così come la stagione. Piccoli paesi di
frontiera, boschi, neve, comunità montane che restano
isolate: tutto è perfettamente al suo posto, tutto
richiama alla mente ciò che è sempre stato presente
nell'immaginario collettivo.
Con un ritmo pacato Coltri ci introduce lentamente
nell'orrore che viene dal buio, dai boschi, da luoghi
ignoti, e a mano a mano riusciamo a sentire, dietro di
noi, la corsa selvatica che avanza veloce, che guadagna
terreno, ne veniamo a conoscenza a piccole dosi, fin
quando l'incubo, che prima era solo bisbigliato tra una
frase e l'altra, si rivela in tutta la sua mostruosità.
E da quel momento c'è soltanto una cosa da fare:
correre.
Daniele Imperi
La corsa selvatica di Riccardo Coltri
Edizioni XII
186 pagine
2009
31
PARA-TAN
H
o deciso, sì, ora ho deciso.
Per un po’ ho avuto
l’intenzione di dedicare la
mia
prossima
opera
bibliografica al grande Cartesio,
seguendo il sapiente consiglio di un mio
“famoso” amico, ma poi, poi ho
cambiato idea. E come al solito è stato
l’amore che mi condotto su questa
strada, un tipo di amore che tutto
sconvolge, tutto coinvolge tutto
sbaraglia specialmente quando è fatto dal desiderio
sempre presente, di capire, carpire intuire il maggior
numero di informazioni, appartenenti a un sapere, che
con grande fatica definirei terrestre . Quindi così come
ormai da mesi sto facendo, ho esplorato un nuovo
esempio orientale di quell’Ottava che ormai da anni
rincorro senza sosta, fra mille dubbi e una sola certezza.
Mi sono infatti imbattuto nel Para-Tan che una esperta
operatrice rispondendo alla mia ovvia domanda, così
mi ha descritto:
Michele
Proclamato
32
“Caro Michele, il Para-Tan è una disciplina millenaria indiana, la quale grazie all’emissione di Mantra ben precisi sul corpo umano, in
punti altrettanto precisi, è in grado di sciogliere ogni nodo fisico- emozionale. In questo modo il Prana potrà scorrere nuovamente nei Nadi e i
Chakra avranno tutta l’energia necessaria affinché sia possibile equilibrare mente, corpo e spirito Il risultato sarà un ritrovato equilibrio
psicofisico e l’eliminazione di quelle tossine spesso emotive, vere responsabili di disturbi come stress, insonnia, stanchezza fisica, eccetera.
Insomma un modo “sonico” per curarsi, allinearsi con il divino ed evitare in ultima analisi…malattie.”
Non male mi son detto, quindi incuriosito ho chiesto a Federica, la mia interlocutrice:
“Ma materialmente tutto ciò come viene fatto?”
“Molto semplicemente, la persona che usufruirà del trattamento di Para-Tan Sound Healing, supina e vestita con abiti in fibre naturali, verrà
fatta distendere al centro di un cerchio umano. A questo punto utilizzando la geometria sacra dello SHRI- CHAKRA, il maestro
sovrapporrà, idealmente i triangoli del suddetto simbolo vedico, sul corpo della persona al centro del cerchio, e nei 3 angoli di ogni
triangolo,compreso il suo centro , emetterà 9 mantra ben precisi accompagnato dai presenti. In questo modo verranno stimolati le Nadi, la
circolazione Pranica e sciolti nodi esistenziali.”
“Ma allora Federica il maestro emetterà 36 volte un Mantra ogni qualvolta opererà tramite i triangoli dello Shri Chakra.”
“Esatto.”
“E quante volte lo fa?”
“Dipende, per un trattamento diciamo di riequilibrio e ‘pulizia’ generale si praticano i mantra su 6 triangoli che lavorano sui primi 6
chakra.”
“Ma coloro che si sottopongono a questo trattamento ti chiedono o si chiedono perché tutto ciò avviene in questo
modo?”
“No, e perché dovrebbero, funziona, e tanto gli basta”.
“E se invece in occidente potessimo spiegare ‘razionalmente’ perché un’applicazione millenaria indiana come il Para-Tan
funziona, non sarebbe bellissimo? Potremmo finalmente sdoganare a livello non solo medico, anche questa applicazione
del sapere indiano, ‘ufficialmente’ confinato, insieme a tutto il sapere orientale, all’interno di un insopportabile e stupido
atteggiamento di altezzosità conoscitiva.”
“Anche se il mio maestro non cerca il numero, ma la qualità, nell’applicazione del suo sapere, sì, potrebbe essere interessante dare spiegazioni
‘logiche-razionali’ a come funziona…”
“Allora, come ho fatto per altre ‘arti’ orientali applicherò al ‘tuo’ sapere, il mio, e penso proprio che quel ponte, che
ormai da mesi sto costruendo grazie all’OTTAVA fra Occidente e Oriente potrà aggiungere una nuova campata.
33
Un’ultima cosa, dove posso trovare il simbolo su cui si basa il lavoro del Para-Tan Sound Healing, lo SHRI CHAKRA?”
“Michele, vai sul sito dell’associazione e potrai vederlo.”
ANATOMIA VEDICA
Ora, la mole di lavoro a livello conoscitivo da mettere in campo, per me occidentale, affinché sia possibile capire
formalmente il ‘perché’ del funzionamento di una simile disciplina, vi assicuro è enorme, motivo per cui capisco perché
sia meglio accontentarsi del fatto che ‘FUNZIONI’. Ma il sottoscritto, come dire, è abituato ad affrontare cause
definite… impossibili, quindi credo sia il caso incominciare
proprio dall’anatomia vedica su cui agisce il Para-Tan. È
curioso, io, che nel mio libretto di esami ho tralasciato solo
quello di Anatomia, oggi mi occupo di codificare quella
orientale. Ancora più curioso è il fatto che a tale codifica ci
sono arrivato attraverso un semplice, se vogliamo banale,
ancorché bellissimo rosone del centro-sud Italia. Divago come
mio solito, soprattutto anticipo ciò che non devo e posticipo
ciò che dovrei, quindi tornando a noi direi: sostanzialmente
l’uomo Vedico com’è fatto? Ebbene, in questo caso specifico ci
troveremmo di fronte ad un essere costituito da ben 72000
Nadi o canali energetici nelle quali scorre l’energia vitale nelle
sue 5 forme (Prana, Apana, Samana, Udana e Vyana)(vi è anche
un interpretazione prettamente yogica che parla di sole 4
energie), che prediligeranno nel loro scorrimento, 3 Nadi
principali, chiamati Ida, Pingala e Sushumna. Mi verrebbe da
dire che potrei risparmiare una miriade di parole se solo si
osservasse con attenzione con che forma gli stessi vengono
descritti in immagini come quella che segue, ma sarebbe
ingiusto nei confronti di chi leggerà. Quindi continuerò dicendo
34
che i 3 Nadi principali confluiranno nei 7 Chakra in grado di comportarsi come veri e
propri vortici energetici correlati soprattutto, oltre al benessere psico-fisico, alla
crescita spirituale dell’essere umano. Ebbene, in occidente tutto ciò è ‘invisibile’, non
esiste. Allora verrebbe da chiedersi, seriamente, come e perché i Veda sostengano il
contrario. Per rispondere a questa domanda, quindi, essendo io simbolista e
conoscendo il valore come il potere del numero, inizierei codificando il simbolo
principe del Para-Tan.
SHRI- CHAKRA
L’immagine dello Shri Chakra ho capito essere una sintesi simbolica della macro come
della micro creazione universale. Quindi lo Shri Chakra rappresenta sia il microcosmo
Sri chakra
(l’essere umano) che il macrocosmo (l’universo). Per capire quanto questo sia vero,
come dicevo, credo sia utile usare il ‘numero’ che mai mi stancherò ricordare, come
Giordano Bruno faceva, essere, ‘LIMPIDO PRINCIPIO FISICO, METAFISICO, RAZIONALE’. Allora usiamolo
questo numero. Ciò che vedo e che tutti possono vedere, è un Quadrato caratterizzato da 4 riferimenti (dette “porte”)
posti sull’asse Nord-Sud ed Est-Ovest . A essi dovranno essere aggiunti chiaramente 4 angoli ben precisi a loro volta
posti nelle direzioni intermedie. Seguirà un Cerchio suddiviso in 6 parti, contenenti, spingendosi verso l’interno, 16
quindi 8 petali di fiore di loto. Nel cuore del cerchio s’intersecano 9 triangoli ben precisi che saranno origine di un totale
di 43 triangoli. Nel cuore di tutto ciò apparirà un semplice potentissimo puntino, detto Bindu, che a quanto ho letto, è
matrice di tutto ciò che il simbolo contiene. Per rendere la cosa più razionale direi che siamo di fronte a 8 triangoli
intrecciati ed uno singolo. Permettetemi però una piccola magia. Vorrei trasformare quegli 8 triangoli nei rispettivi 24 lati
avrei così modo di portarvi nel mio mondo, un mondo dove un OTTO, un SEDICI e un VENTIQUATTRO uniti da
un TRIANGOLO EQUILATERO possono diventare… tutto, anche Para-Tan.
LA MATRICE di TUTTE LE ANATOMIE
Ho lavorato per alcuni anni con Dario, il quale quando la folla era tale e tanta da non poterla soddisfare, caratterizzava
35
quei momenti con un’esclamazione costante: “Oh Dio me, gli svenimentiii!” Ecco, in questo caso dovrei utilizzare la
stessa affermazione, perché ho descritto così tante volte il percorso conoscitivo che mi ha portato alle TRE OTTAVE da
averne a volte la repulsione. Ma giustamente, per chi ancora non sapesse, e il popolo dei saperi orientali sono sicuro non
sa, non mi resta che una cosa da fare, la seguente:
Lista Sumera dei Re
Dopo la discesa della regalità dai cieli,
La regalità fu a Eridu,
In Eridu Alulim divenne re,
Egli regnò per 28800 anni.
Alalgar regnò per 36000 anni.
"Due" re;
Essi regnarono per 64800 anni.
Poi Eridu cadde
E la regalità fu spostata a Bad-Tibira
Divenne re a Bad-Tibira Enmenluanna;
Egli regnò per 43200 anni.
Enmengalanna regnò per 28800 anni.
Dumuzi il pastore regnò per 36000 anni.
"Tre" re essi regnarono 108000 anni.
Bad-ti-bira cadde
E la regalità fu spostata a Larak.
A Larak, Ensipadzidanna regnò 28800 anni.
"Un" re ……. Egli regnò per 28800 anni.
Larak cadde
E la regalità fu spostata a Sippar.
A Sippar Enmeduranna divenne re
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E governò per 21000 anni
Poi Sippar cadde
E la regalità fu spostata a Shuruppak.
Ubaratutu divenne re, egli governò per 18600 anni
"Un" re …….. egli governò per 18600 anni.
In "Cinque" città “Otto” re,
essi regnarono per 241200 anni,
Poi il Diluvio “travolse tutto”.
Ciò che avete letto è la traduzione da caratteri cuneiformi di
un’iscrizione millenaria rinvenuta il secolo scorso in Mesopotamia.
Il Prisma (di Blundell) in pietra che la custodisce è oggi a sua volta
custodito a Oxford. Spero che gli 8 immensi periodi regnanti vi
abbiano colpito poiché su di essi si discute da secoli senza
giungere ad una soluzione logica, vorrei comunque spostare la
vostra attenzione sulla somma di quegli immensi periodi, poiché
tutti verranno condensati in 5 città ben precise. Adesso
ipotizziamo che la Lista riporti, come lo Shri Chakra, l’incredibile
descrizione di un momento creativo nel quale gli OTTO periodi
regnanti altro non possono essere che “frequenze” ben precise.
Se così fosse, davanti a cosa ci troveremmo? Direi la narrazione
piuttosto allegorica di un evento cimatico. Ma tornando al
momento cimatico, d’uopo sarebbe accennare a cosa è la
Cimatica, quindi: “Dicasi Cimatica quella scienza semiufficiale la
quale da tempo studia come la materia sia in grado di ‘disporsi’
quando sottoposta a determinate frequenze sonore.” Famoso
37
l’esempio del professor (e inventore) Buckminster Fuller il quale spesso per dimostrare tale “potere” ai suoi studenti,
utilizzava un semplice palloncino immerso in una vernice molto densa. Lo stesso, sottoposto a frequenze ben precise,
evidenziava dei puntini immediatamente uniti da linee, il tutto destinato a diventare una composita struttura geometrica
costituita da cerchi e geometrie famose da millenni presso tutte le civiltà del mondo come i 5 Solidi Platonici. Morale, gli
anni dei RE mesopotamici potrebbero nascondere una situazione per la quale, qualcuno, non si sa quando o come, sia
stato capace di descrivere un momento, se mi permettete ‘creante’, per il quale, al primo posto evolutivo sembra potervi
essere la geometria. Ma il condizionale non è più d’obbligo quando osservando i 5 solidi è possibile evincere come gli
stessi siano sostanzialmente composti o componibili da TRIANGOLI EQUILATERI. Adesso ritornate allo SHRI
CHAKRA, e probabilmente il fatto che il suo cuore geometrico dipenda esclusivamente da una matrice triangolare potrà
essere non più una stranezza ma qualcosa di logico, se si ipotizza come lo stesso non sia altro che la rappresentazione di
un ‘momento’ cimatico, anche se prematuro dirlo, piuttosto dimensionale. Ancora di più dovreste apprezzare il motivo
per cui il Para-Tan utilizza proprio il suono per… curare, armonizzando attraverso 5 tipi energia già descritti. Ma se la
simbologia triangolare permette determinate conclusioni, che cosa si può evincere dalla sequenza numerica associata
sempre allo Shri Chakra? Intanto credo non vi sia sfuggito come la somma degli 8 periodi regnanti della Lista e
Sri Chakra condividano buona parte della loro numerica. Non mi sembra sia però esattamente chiaro per tutti, che
cosa si possa fare con essi, per cui passerei a un reperto archeologico famoso in tutto il mondo come lo Zodiaco di
Dendera in grado trasformare i numeri in questione in… materia vivente.
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LO ZODIACO VIVENTE
State osservando una visione cosmologica
egizia, corrispondente alla nostra galassia, di
2000 anni fa. Il reperto in questione oggi è
custodito al Louvre. Se mi permettete, nella
suddetta
visione
vorrei
far
notare
immediatamente un ‘fuori’ e un ‘dentro’. Il
fuori sarà caratterizzato da 12 esseri enormi,
suddivisi in femminili e maschili, i quali
attraverso 24 braccia, come tanti atlanti,
sosterranno un dentro di cui dirò. Ebbene,
state esaminando l’interpretazione numerica
dello Shri Chakra in versione nilotica, o ciò che
la somma della Lista è capace di diventare
sempre in Egitto. Chiarisco. Non sono forse
OTTO i petali dello SRI CHAKRA a cui
seguono SEDICI ripetizioni tutte riunite a
contenere 24 lati triangolari? In questo caso
OTTO braccia femminili a cui si sommano 16
maschili saranno le 24 basi numeriche su cui
poggerà un ‘dentro’ costituito da 72, ripeto 72,
corpi celesti, costituiti da pianeti , stelle e
costellazioni. Di conseguenza i 12 esseri e le
loro 24 braccia saranno direttamente
responsabili di una situazione celeste
numericamente ben precisa. Sarà quindi
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necessario intendere il fuori Dendera attraverso una somma pari a 36 unità,
responsabile delle 72 creature stellari poste all’interno del disco zodiacale. A
questo punto se non vi sarà sfuggita la similitudine esistente fra i 72 corpi e le
72mila Nadi, potrete apprezzare il perché del ripetersi di esattamente 36
Mantra ai vertici e al centro di un triangolo sul corpo umano nella pratica del
Para-Tan Sound Healing. Semplicemente il Para-Tan simulerà tale sintesi
numerico-creativa, ben sapendo come e quanto sia possibile fare in questo
universo e fuori dello stesso attraverso i 2 riferimenti in questione. Faccio
alcuni esempi: esiste un fenomeno astronomicamente accettato, chiamato
Precessione degli Equinozi, secondo il quale l’asse terrestre si sposta in modo
ellittico, di 1° grado dei 360 celesti ogni 72 anni, a compiere un intero tragitto
sferico pari a 25920 anni. Sano sarebbe per tutti sommare ogni mese processionale di 2160 anni per capire perché il 9 è
riferimento principe anche nel Para-Tan oltre che estremamente sensato rendersi conto di come utilizzare 6 riferimenti
triangolari in questa disciplina (36x 6) numericamente rappresenterebbe un era processionale come sopra. Ma multipli e
frazioni del 72 possono essere facilmente trovati all’interno della fisiologia umana, cosa che si evince con molta
semplicità dallo specchietto seguente:
Si può quindi evincere come gli stessi numeri, che
chiaramente solo numeri non sono, rappresentino una
codifica di un tipo di energia anche sonora, che nessuno
ci vieta di chiamare Prana. È quindi il Prana responsabile
non solo della creazione della materia ma anche del
sistema fisiologico della stessa. Stiamo quindi discorrendo
di un mondo esoterico senza nessun collegamento con il
sapere occidentale? Direi di no, anzi posso dimostralo
proprio grazie ai 24 lati degli 8 triangoli posti all’interno
dello Shri Chakra.
40
LE TRE OTTAVE VEDICHE
Ma quale sarà il momento creante numericamente più importante in questo sistema in parte visibile e in parte invisibile?
Semplicemente quello costituito dalle 24 braccia, ultima testimonianza di un momento sonico destinato a diventare
materia, fisiologia e, ora posso dirlo, anima della stessa. Ebbene i 24 lati dello Sri Chakra come le 24 estremità egizie,
ormai da tempo sono diventati fulcro, per il sapere ufficiale, dell’unica speculazione in grado di teorizzare,
matematicamente, la nascita della materia. Proprio un Bramino indiano, infatti, il secolo scorso, Srinivasa, Yengar
Ramanuyan, grazie al suo immenso talento, equazionalmente teorizzò un Ottuplice dimensionalità, responsabile di 24
Stringhe bosoniche a loro volta matrici della materia nostrana. La sua immensa genialità fu la vera responsabile della
nascita della TEORIA DELLE STRINGHE e sarebbe quantomeno doveroso descrivere come la stessa avesse origine
dai suggerimenti ‘onirici’ della dea “NAMAGIRI”, fra lo stupore dei suoi colleghi, ‘solo’ terza moglie del Dio Shiva.
Faccio seguire le sue ormai leggendarie equazioni modulari a dimostrazione delle mie asserzioni.
Quindi, com’è possibile evincere, sarebbe possibile
fondere un informazione numerica, millenaria, come
quella utilizzata dal Para-Tan, proprio con la scienza.
Cosa destinata a diventare un primo gradino verso
l’accettazione della sua base simbolica nonché teorica. In
sintesi tutto sarebbe più semplice per la scienza e i saperi
del passato se si accettasse tutti seriamente che l’umanità
ebbe un tempo la straordinaria possibilità di utilizzare la
codifica di una piattaforma dimensionale causa
geometrica della nostra realtà. Da essa derivò ogni
applicazione conoscitiva orientale come occidentale.
Esempi? Troppi, ne farò solo alcuni. Sulla Terra, non
abbiamo forse frazionato le nostre giornate in 8-12-24
ore? E lo spazio sferico non è forse pari a 360°? Ci
siamo mai chiesti il perché? E il perché di un edificio
41
come Castel del Monte capace di contenere 8-16 stanze in
un Ottagono quale dovrebbe essere, se non quello di
rappresentare un inno in pietra a quella codifica creante
dalla paternità sconosciuta? E il perché la geometria
Euclidea come quella Pitagorica fosse così legata al
triangolo o ai solidi sopra citati ce lo siamo mai chiesto?
Se lo avessimo fatto non ci saremmo stupiti di fonti
battesimali ottagonali o sferiche, dei sistemi costruttivi
Vitruviani, di opere d’arte contenenti miriadi di Otto
come la Sala delle Asse di Leonardo da Vinci. (vedi
immagine sotto) Di piazze come quella di San Pietro a Roma
dove le OTTO direzioni furono sottolineate dal Bernini
grazie alla volontà papale. (vedi immagine alla pagina seguente,
in alto) Tantomeno ci saremmo meravigliati di prevedere
emozionalmente le scelte umane attraverso l’I-Ching una
volta osservata la sua sorgente simbolica, chiaramente
costituita da un Ottagono contenente 24 trigrammi a loro
volta costituiti da 24 linee spezzate e 12 unite. (vedi
immagine alla pagina seguente, in basso) Così come nessun
problema a livello ufficiale avrebbe creato l’Agopuntura
se si fosse esaminata con altri occhi la sua anatomia
derivante da 8 meridiani Curiosi,
responsabili dei 12 organi principali da cui
dipartono 48 meridiani secondari per un
totale di 72 unità. Insomma sto cercando di
dimostrare che esiste un Anatomia unica
dimensionale dalle mille applicazioni, che
potremmo umanamente definire “campo
42
morfico” come il biologo Rupert Sheldrake
fece nel 1980. Sto cercando di dire come il
Para-Tan non faccia altro che utilizzare tale
livello conoscitivo per interagire sul corpo
umano, che solo nel suo apparire rispetta
l’anatomia occidentale, ma che chiaramente è
figlia di un’anatomia dimensionale sulla quale è
possibile interagire attraverso una medicina
altrettanto dimensionale come il suono. Poco
importa se questa tecnica è millenaria, la verità
è che ancora oggi essa è immensamente più
avanzata della nostra scienza, che affannosamente cerca la verità ultima
della materia spendendo miliardi di dollari in tutti i laboratori di fisica
nucleare del mondo, con pochissimi risultati. Allora ben venga un
maestro che pone idealmente sul corpo umano una struttura triangolare,
vera matrice geometrica della nostra anatomia, per sfruttare i suoi angoli
come luoghi principe per emettere suoni dimensionali. Ben venga un
sapere che utilizza l’uomo, come un ‘microfono vibrazionale’ che si
pone come collegamento, ponte, verso quell’aldilà un tempo così chiaro
43
per i nostri antenati. A questo punto però permettetemi di mostravi come
quei triangoli sapientemente utilizzati dal maestro Shri Param Eswaran
sono, da secoli, simbolicamente rappresentati nel cuore di una basilica
parlante come quella di Collemaggio all’Aquila. (immagine a destra) Qui 6
cerchi intimamente uniti a creare TRE OTTO, braccia a Dendera, lati in
India, stringhe bosoniche per la scienza, ogni anno, aspettano al solstizio
d’estate che si consumi un evento unico. Per
il quale un rosone strutturato numericamente
in modo identico all’anatomia vedica,
(immagine a sinistra) creerà un settimo cerchio
di pura luce consegnando a noi occidentali il
sapere spirituale dei 7 Chakra. La mia verità
sarà quindi quella per la quale la fusione di 8
momenti posti dimensionalmente altrove
saranno i veri fautori di una settuplice
creazione. E questo grazie a un puntino
indefinito, un piccolo atomo in grado di
progettare la nascita di più realtà frattali unite
da un solo sentimento: l’Amore. Che altro
aggiungere se non la speranza di vedere la
nostra medicina come la scienza ufficiale
direzionarsi verso un atteggiamento più
aperto verso scienze miracolosamente
44
sfuggite all’estinzione come il Para-Tan. Dal
canto mio quel ponte di cui parlavo, sento di
essere prossimo al terminarlo e forse un
sigillo ermetico di Giordano Bruno, da lui
definito Monade o DIO, meglio di tante altre
immagini potrà essere l’ultima pietra di un
opera conoscitiva costruita per unire
occidente e oriente, passato e presente,
scienza ufficiale e non.
45
I vermi conquistatori
di Brian Keene
Se n'è parlato tanto. Brian Keene è uno
scrittore ben conosciuto per il suo genere,
l'horror, e ha pubblicato un buon numero di
romanzi. In Italia è uscito per la prima volta
quest'anno, a fine febbraio.
Il romanzo è del genere apocalittico. Il New
York Times lo definisce post-apocalittico, ma
qui siamo nel bel mezzo dell'apocalisse.
Quando tutto è cominciato. Da una pioggia
che non smette di cadere da giorni.
Narrato in prima persona – e non soltanto dal
protagonista – il romanzo riesce a catturare il
lettore grazie alla forza narrativa di Keene. In
realtà potremmo anche scrivere che non esiste
un vero protagonista, o che i veri protagonisti
sono i vermi. Qui siamo di fronte a una sorta
di lavoro di gruppo, una serie di personaggi –
tre, a essere precisi – che racconta la sua storia:
il vecchio Teddy, Kevin e Sarah.
Una storia dal sapore fantastico, più che
horror. Ma gli elementi fantastici – e
mitologici, anche – sono introdotti da Keene
quasi col contagocce. Misura perfettamente le
parole per introdurre il lettore all'incredibile
che starà per vivere.
E questo incredibile risulta più che reale, proprio
perché il lettore riesce a viverlo assieme al
protagonista. Direi che questa è la vera forza
del romanzo. Se uno scrittore riesce a far
passare qualcosa di impossibile come un
evento vero, allora è riuscito nel suo lavoro.
La storia in sé procede senza rallentare mai la
lettura. Questo è un altro pregio del romanzo.
Nonostante il cambio di ambientazione, di
scena, nella parte centrale del libro, il ritmo
non perde colpi e si continua a leggere per
sapere cosa accadrà nella pagina successiva.
C'è comunque qualcosa ne I vermi conquistatori
che mi ha lasciato confuso e non mi ha
convinto del tutto. Ed è quel cambio di scena,
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è la presenza di elementi non completamente
attinenti alla storia, è il finale che, forse, lascia
presagire un seguito.
Al di là di queste ultime considerazioni, che
amplierò in un articolo apposito sul mio blog
Penna blu, il libro appassiona, si legge
velocemente, conquista, anche. Ho controllato
anche la versione originale e ho visto che la
traduzione è fedele, molto fedele.
Un libro da leggere per chiunque ami il
fantastico in generale e le storie apocalittiche.
A me è piaciuto, fatte le riserve a cui ho
accennato sopra. Piaciuto ma non soddisfatto,
potrei dire.
Daniele Imperi
I vermi conquistatori di Brian Keene
(tit. orig. The Conqueror Worms)
Edizioni XII
312 pagine
febbraio 2011
Uno dei capolavori del
fantastico moderno, un’opera
che ha ridisegnato il modo di
intendere il romanzo
apocalittico. Teddy Garnett è
un arzillo vecchietto e non vuole
saperne di lasciare la casa in
cima agli Appalachi dove ha
vissuto per decenni con la
compianta Rose. Non gli
importa della pioggia incessante, un diluvio catastrofico che ha
messo in ginocchio l’intero pianeta, né di essere l’unico essere
umano ancora vivo nella piccola comunità di Punkin’ Center,
ormai ridotta a un isolotto in mezzo alle acque. Senza paura,
Teddy aspetta il giorno in cui si avvererà il suo unico desiderio:
riabbracciare la moglie. Ma quando riceve la visita di Carl, il
suo migliore amico creduto morto o portato in salvo dalla
Guardia Nazionale, scopre che ci sono cose peggiori della pioggia.
Cose che serpeggiano sottoterra, creature striscianti che tarlano il
sottosuolo e scavano verso la superficie per rivelarsi al mondo. E
conquistarlo.
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LA NARRATIVA DI CHIMERA
UN RACCONTO SELEZIONATO
DA DANIELE BONFANTI DI
Daniele
Bonfanti
L
uigi Musolino, nemmeno trent’anni, si è imposto “di prepotenza” nel panorama letterario
fantastico italiano nell’ultimo biennio, vincendo o piazzandosi ai primi posti nell’ambito dei più
noti premi di genere e curando la prima edizione italiana (per Dagon Press) dei racconti di un
“maestro dimenticato” del weird come Carl Jacobi.
Tra gli autori che si riallacciano alla tradizione lovecraftiana, per tematiche e poetica, Musolino spicca perché è
stato perfettamente in grado di fare sue le suggestioni del Solitario di Providence ma – al contrario di quasi tutti – senza
divenirne un mero reinterprete fossilizzato sui medesimi stilemi. Il suo linguaggio risuona dell’oscura e pesante cappa allucinata
tipica del creatore dei miti di Cthulhu, ma allo stesso tempo è moderno, spesso popolare e compone una prosa veloce e dinamica. I suoi temi
scavano nelle stesse profondità, ma si articolano e si manifestano secondo una diversa sensibilità personale. Aggiungeteci personaggi
immediatamente familiari, vicini al lettore, con i quali è impossibile non stabilire un rapporto empatico.
In tutto questo, l’autore piemontese ricorda da vicino l’americano Brian Keene – e non è un caso che il capolavoro “lovecraftiano” di Keene, I
vermi conquistatori, sia stato appunto tradotto in italiano da Musolino.
Nella “vita reale”, Gigi è persona bonaria e ridanciana, come spesso accade tra coloro che indagano con intelligenza i più oscuri recessi della
Paura.
Il recente racconto inedito che presento di seguito – senza svelarvi nulla – è una perfetta sintesi di quanto detto sopra, e senza dubbio è un
piatto succulento per chi ama i temi trattati da Chimera.
Daniele Bonfanti
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NEI LORO TEMPLI OSCURI
di Luigi Musolino
“La strada per Memphi e Tebe passa da Torino”.
Jean-François Champollion
Francesco Gamba sonnecchiava in equilibrio precario sulla sua piccola sedia di legno, il cappello da
guardiano calato sugli occhi e la torcia Mag-Lite poggiata sulle cosce. Un sogno di cascate di birra gelata
che si gettavano in un laghetto aureo, popolato di fanciulle dalle poppe giunoniche, faceva guizzare le
sue grinzose palpebre da settantenne.
Era quasi mezzanotte, ed era uno dei pochi fortunati che riuscivano a dormire nonostante la calura
disumana che opprimeva la città; all’interno del museo egizio di Torino un moderno impianto di
condizionamento pompato al massimo smorzava misericordiosamente la temperatura di qualche grado.
Negli appartamenti della metropoli, invece, un’umanità accaldata si agitava alla frenetica ricerca di un
alito di vento, un istante di tregua dalla canicola che da mesi regnava sui tetti come un sudario
marcescente. Ventilatori e docce gelate erano rimedi temporanei, ingannevoli. Le colonnine di mercurio
dei termometri segnavano quaranta gradi.
49
A dicembre.
Da mesi, per qualche assurdo e insondabile capriccio degli agenti atmosferici, la città di Torino era
all’asciutto. Nemmeno una goccia di pioggia. Ma il vero problema era che faceva caldo. Un clima secco
incendiava l’asfalto e le piazze, disegnando strambe macchie liquide lungo i viali. Studiosi e meteorologi
si arrovellavano per trovare una spiegazione al fenomeno che aveva colpito esclusivamente il capoluogo
piemontese.
Spiegazione non c’era.
Gli anziani morivano soffocati nei loro letti, i pronto soccorso erano al collasso e un agosto desertico
aveva preso il posto del mutare delle stagioni.
Su Torino danzava beffarda un’atmosfera grave, di tragedia imminente. Il numero degli omicidi e dei
suicidi aveva conosciuto picchi mai registrati in precedenza, e orde di mentecatti e predicatori
arrancavano per le vie della città annunciando la Fine.
Una goccia di sudore solcò la fronte rugosa di Gamba, scivolò lungo il suo naso aquilino e andò a
infrangersi sul pavimento, evaporando in un baleno. Statue di divinità sorvegliavano il vecchio, giganti di
pietra congelati nella loro millenaria immobilità.
Poi un rumore, proveniente da una delle sale più interne dell’enorme struttura di Via Accademia delle
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Scienze, echeggiò nei corridoi deserti. Francesco Gamba sussultò, per poco non cadde dalla sedia e
sbarrò gli occhi nelle ombre.
«Porco faus!»
Accese la torcia, il cuore che gli percuoteva il petto come un martello pneumatico. Passandosi una mano
sul collo sudato, si alzò e puntò il fascio di luce verso la corsia alla sua sinistra. L’ovale lattescente della
torcia elettrica illuminò il volto caprino di Seth, dio del Caos della teogonia memphita, file di simulacri
zoomorfi e vetrine tirate a lucido.
Strizzò gli occhi cercando di vedere meglio. Oltre alle statue e alle teche non c’era nient’altro. Sollevato,
si diresse cauto verso il padiglione centrale del museo, centro gravitazionale dell’esposizione.
Un altro rumore.
Non era la prima volta che si verificavano episodi simili.
Lavorava al museo da quasi quarant’anni, ed era abituato agli scricchiolii notturni dei vecchi sarcofaghi,
alle assi di legno che si assestavano, ai canopi che collassavano sotto il peso dei secoli nel magazzino dei
reperti in restauro. Ma i suoni che negli ultimi tempi interrompevano la quiete notturna della galleria
non erano i soliti.
A volte sembrava che un raspare incontrollato, frenetico, strisciasse attraverso le sale per solleticargli i
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timpani; altre notti, deboli respiri e sussurri scivolavano negli immensi atri desolati, rimbombando tra i
reperti di legno e basalto provenienti da una terra mitica.
L’Antico Egitto, già. La passione di Francesco Gamba sin da ragazzino, quando per puro caso aveva
sfogliato un volume su Tutankhamon a casa di un’amica. Figlio di operai, non potendo permettersi gli
studi era riuscito a farsi assumere al museo egizio in qualità di custode. Il servizio militare nell’arma dei
Carabinieri gli era stato d’aiuto per ottenere il posto. Aveva cominciato a prestare servizio al museo nel
settantadue, se non ricordava male. Aveva trent’anni, allora, e la testa piena di sogni.
Il suo amore per l’Antico Egitto era intimo, inspiegabile, e giorno dopo giorno, a casa o durante i turni
di guardia, aveva coltivato quella passione leggendo volumi sulle dinastie con lo zelo di un archeologo
d’altri tempi, bersagliando di domande restauratori e professoroni che bazzicavano il museo e
dissipando i suoi modesti guadagni in brevi soggiorni nella terra dei faraoni. La prima volta che era
stato nella Valle dei Re aveva pianto.
Pur estraneo agli ambienti accademici, la sua straordinaria cultura in materia egizia gli era valsa il
soprannome Aton – affibbiatogli dal direttore del museo –, divinità portatrice di luce e conoscenza.
Qualche volta, nei weekend, gli avevano addirittura chiesto di fare da cicerone alle orde di visitatori che
assediavano l’esposizione.
52
Ma negli ultimi mesi – mesi caldi, roventi – un nuovo sentimento s’era impossessato di lui durante le
interminabili nottate di sorveglianza.
Paura.
La testa di sciacallo di Anubi, Colui Che Presiede l’Imbalsamazione, assumeva connotati sinistri nella
penombra, la sala ospitante i papiri del Libro dei Morti di Kha non esercitava più il magico fascino di
un tempo, e con sempre maggior frequenza incubi allucinanti, visioni di pianori sabbiosi abitati da
indistinte figure titaniche, interrompevano le sue pennichelle.
Francesco Gamba lasciò vagare il fascio di luce sulle sculture, sui muri, sul soffitto.
«Chi è là?» urlò.
Un fruscio. Appena percepibile.
«C-c’è qualcuno?»
Nulla.
Non voleva ammetterlo a se stesso, ma sapeva sin troppo bene da dove provenivano quei suoni.
Dalla sala delle mummie.
E dal laboratorio dei restauri, la camera sotterranea dov’era conservato quel maledetto bovino
rinsecchito.
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Da giorni un tarlo aveva preso a rodergli l’anima, come un grasso scarabeo affamato. Era sicuro che
fosse cominciato tutto – la siccità, gli episodi di violenza, i rumori – dopo il ritrovamento del toro
mummificato nelle viscere della città, durante gli scavi per la nuova linea della metropolitana.
Sei mesi prima, cantiere sotterraneo della Edi Scavi
La talpa Caterina avanzava nel sottosuolo di Corso Francia un centimetro dopo l’altro, lentamente,
fagocitando terra, pietre e lombrichi. Brunello Rizzi, supervisore agli scavi del nuovo tratto di
metropolitana, osservava il mostro d’acciaio a debita distanza, valutandone l’operato.
Andava bene. Ancora pochi centimetri e poteva levarsi dai coglioni, andarsene a casa, farsi una doccia e
mangiare un bel piatto di pasta.
«Ci siamo quasi», urlò al di sopra del rombo del macchinario uno degli operai alle sue spalle. Brunello
annuì, soddisfatto.
Caterina era un TBM (Tunnel Boring Machine) di ultima generazione – Rizzi non ricordava chi gli
avesse appioppato il nomignolo –, una belva di ottanta metri di lunghezza e otto di altezza, capace di
mangiarsi dieci metri di detriti al giorno, un vero e proprio cantiere mobile.
Gli scavi per il nuovo budello sotterraneo erano ormai agli sgoccioli. La parte difficile era terminata, e
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Brunello non vedeva l’ora di dedicarsi alla più semplice e appagante realizzazione delle pareti di
contenimento del tunnel.
Si stava sollazzando al pensiero di un bicchiere di vino e magari di una chiavata con sua moglie, quando
il TBM emise una vibrazione troppo simile a un peto, poi tacque. Se le circostanze non fossero state
drammatiche, Brunello avrebbe tirato una battuta e gli operai si sarebbero tenuti la pancia per il gran
ridere.
Ma non c’era proprio un cazzo da ridere.
Quell’affare costava svariati milioni di euro e se si era inchiodato o, peggio ancora, guastato, il
soprintendente l’avrebbe appeso per il prepuzio alla Mole Antonelliana.
Rizzi si voltò di scatto, sfilandosi gli occhiali antinfortunistici.
«Che capita, porco Giuda?» chiese al suo vice, un piccoletto rinsecchito che di cognome faceva Troìa.
Con l’accento sulla I, ci teneva a precisare.
«Non ho idea, capo», bofonchiò l’uomo, controllando il monitor su cui lampeggiavano le impostazioni
del macchinario. «Sembra tutto a posto».
Brunello accese il faretto del copricapo di sicurezza, controllò a sua volta il display e cominciò a sudare.
Era vero, sembrava proprio tutto in ordine.
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«Ma che minchia succede, qua?» domandò, a tutti e a nessuno.
Camminò a passo spedito verso le frese anteriori di Caterina, immobili come le fauci di una bestia
fantascientifica addormentata. Troìa lo seguì, stropicciandosi le mani.
Arrivati in prossimità delle lame frontali della talpa di metallo, s’arrestarono. Dal punto in cui il colosso
affondava nel ventre molle di Torino, filtrava un tenue lucore. Troìa guardò da sopra la spalla di
Brunello, la bocca spalancata in una O di sorpresa.
«Ma cos’è?»
«N-non ne ho idea», balbettò Rizzi. Altri operai sciamarono nel tunnel alle loro spalle, cercando di
vedere. Brunello si spinse in avanti, i suoi movimenti sottolineati dal mormorio dei lavoratori, e puntò la
lampadina dell’elmetto nella voragine.
Lì, dove avrebbero dovuto esserci nient’altro che terra e roccia, s’apriva una stanza. All’interno, un
animale a quattro zampe circondato da mucchi di monili e gruppi scultorei dorati ricambiò lo sguardo
di Rizzi. Il supervisore agli scavi pensò di riconoscere un luccichio in quegli occhi morti. Ma non era
possibile.
Il corpo della bestia, un imponente toro dalle corna bianche come neve, era ricoperto da strisce e strisce
di bendaggi lisi.
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Era mummificato.
«O Gesù», biascicò Brunello. «Chiamate il soprintendente. Ora».
Gli scavi vennero interrotti.
Brunello Rizzi e Armando Troìa morirono in un paio di settimane, il fisico devastato da un morbo
sconosciuto che divorò loro le ossa. Tutti gli altri operai presenti quel giorno li seguirono poco dopo.
Strane voci superarono la barriera di riserbo imposta dalle autorità: si mormorava che alcuni dei
lavoratori, prima di passare a miglior vita, avessero cominciato a parlare una lingua incomprensibile, e
che Troìa avesse tentato di piantarsi una forchetta nel naso per “infilzare l’ibis-cadavere che gli
becchettava il cervello”.
Giacobbo e il suo seguito di sensazionalisti ipotizzarono una “nuova maledizione egizia come quella di
Tutankhamon”.
Proprio così, perché nel turbine di dubbi e inquietudini suscitato dalla scoperta, solo una cosa era certa:
la camera sotterranea scovata dalla talpa Caterina era da attribuirsi alla defunta civiltà del Nilo.
“Il toro della metro”, come lo soprannominarono i giornalisti, venne impacchettato da un’equipe
d’archeologi insieme agli altri reperti, e inviato al museo egizio per essere sottoposto ad analisi e
congetture.
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Poi cominciò il caldo. La siccità. La follia.
La storia del “toro della metro” passò in secondo piano.
Ma non per quelli che, come l’anziano Francesco Gamba, avevano sentito parlare dell’improbabile
leggenda sull’origine di Torino.
Il custode attraversò stanze scure e vestiboli silenziosi asciugandosi la fronte col fazzoletto. La sua
divisa era intrisa di sudore, un sudore acidulo e nauseante. Puzzolente di paura.
Sono vecchio per farmi spaventare da qualche cigolio, pensò, ritrovandosi nel corridoio che conduceva alla sala
delle mummie. I finestroni ad arco lasciavano filtrare all’interno la luce purulenta di una luna troppo
grande e tarlata. Un cartellone plastificato alla sua sinistra illustrava con dovizia di particolari tutti i passi
del macabro processo d’imbalsamazione.
Rabbrividì, poi guardò il suo orologio da polso. Mezzanotte. Il suono di campane distanti, attutito dalla
calura e dall’immobilità dell’aria, confermò.
Francesco si appoggiò al muro per riprendere fiato e gli parve di avvertire tremolare l’intonaco contro la
schiena. Si allontanò dalla parete, le sopracciglia arcuate per la sorpresa.
La vibrazione aumentava.
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Ancora.
Ancora.
Di lì a poco si ritrovò sballottato dal cataclisma. Un grosso pezzo d’intonaco si staccò dal soffitto,
colpendolo in testa. Cadde di peso sul fianco, un fantoccio di tela riempito di sabbia, e sentì qualcosa
cedere dentro il suo corpo. Lo scricchiolio delle sue vecchia ossa osteoporotiche fu l’ultima cosa che
udì.
Poi solo dolore. Sangue. Tenebre.
Si riebbe in un mondo deturpato dal grido delle sirene. Qualcuno, in strada, bestemmiava come se
volesse garantirsi la dannazione eterna. Lo imitò, urlando tutta la sua disperazione per la fitta che gli
attraversava il bacino. Come una pugnalata.
L’anca, porca puttana, mi son rotto l’anca…
«Aiuto!» sbraitò. «Sono caduto, aiutatemi!»
Alle sue suppliche rispose il silenzio raccapricciante che aleggiava nel museo, uno di quei silenzi che
seguono sconvolgimenti epocali.
Recuperò la torcia e si trascinò accanto a una vetrina rovesciatasi al suolo. Tra i vetri rotti trovò uno
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scettro Uas, il compasso degli déi, e adoperandolo come stampella, imprecando per il male e lo sgomento,
riuscì a tirarsi ritto sulla gamba sana. Il bastone reggeva, i restauratori avevano fatto un buon lavoro.
Inquadrò le statue crollate, i vetri delle teche esplosi, e gli venne da piangere. Le cinque mummie
d’inestimabile valore conservate nella sala giacevano in un letto di cristalli infranti, le labbra arricciate in
un ghigno sui denti giallicci.
Un terremoto. Dev’esserci stato un terremoto.
Sangue caldo e denso gli scorreva sulle guance dalla ferita alla testa. Barcollando, cadendo e implorando
raggiunse il gabbiotto delle guardie. Il piccolo quadrante digitale di una sveglia segnava le tre di notte.
Era rimasto svenuto per ore.
Sollevò la cornetta del telefono e digitò il 118 con mani tremanti.
Spiacenti. Tutti i nostri operatori sono momentaneamente occupati… cantilenò una voce metallica preregistrata.
«No!»
Riprovò col 113, il 112 e persino con la Guardia di Finanza.
Spiacenti. Tutti i nostri operatori…
Si lasciò cadere sulla poltrona girevole dell’ufficio, chiedendosi se i soccorsi stessero già arrivando,
avvisati dal direttore.
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Allungò una mano verso il telefono per ritentare, ma fu interrotto dal muggito. Proveniva da sottoterra,
dal laboratorio di restauro.
Poi, uno scricchiolio di passi su vetro e quindi una detonazione tremenda, all’esterno, che lo costrinse a
tapparsi le orecchie con le mani. Francesco tentò di alzarsi per uscire dall’edificio, ma il dolore era
troppo forte e l’idea di affrontare la rampa di scale era follia.
In un gesto automatico, accese il minuscolo televisore sistemato sulla scrivania, un vetusto Grundig
quattordici pollici. Quando le immagini di Rai Uno si stabilizzarono sullo schermo, inorridì, lasciandosi
scappare un gemito.
Torino bruciava.
Il capoluogo piemontese, immortalato dalle riprese effettuate da un elicottero, era nel caos. Centinaia di
persone, formiche smarrite in un dedalo di automobili accartocciate e macerie, correvano per le strade
cercando scampo dalla distruzione.
Nel cielo fluttuavano forme discoidali lucide come marmo nero che oscuravano le stelle, scagliando
dardi violetti sulla città. Nei punti in cui i fasci di luce impattavano al suolo, dissolvendosi in un guizzare
di energia, strutture impossibili eruttavano dal terreno spazzando via le abitazioni degli uomini. Erano
templi incrostati di terra, su cui spiccavano intarsi e geroglifici.
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Francesco Gamba si piantò le nocche tra i denti e morse, chiudendo gli occhi. Non poté evitare di
riudire nella mente le misteriose righe decifrate da un papiro egizio del 1500 a.C., parte degli annali di
Thutmose III:
Nell'anno 22, del 30° mese dell’inverno, sesta ora del giorno, gli scribi della Casa della Vita videro una barca nera che
arrivava dal cielo, e approntarono cerimonie per i Vecchi Déi. Sottoterra, Nei Loro Templi Oscuri.
Riportò l’attenzione sul televisore, cambiò canale, e fu testimone del crollo in diretta della Mole e della
chiesa della Gran Madre, rimpiazzate da basiliche dalle geometrie empie vomitate dalle profondità di
Torino. I condotti del gas distrutti vomitavano fiammate verso la notte livida, rischiarando le grottesche
sagome che popolavano il cielo.
Una giornalista sbraitò che era la fine del mondo, porcocazzoèlafinedelmondo, furono le sue testuali e
affannate parole, prima di essere incenerita da un’immensa lingua di fuoco.
Solo allora, Gamba si ricordò di che giorno era. Lanciò un’occhiata al calendario
21-12-2012.
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e gli apparì chiara ogni cosa.
Una vecchia storia che aveva sempre relegato al mondo dei cialtroni, diffusasi durante il regno della
dinastia sabauda, sosteneva che la città di Torino era stata fondata dal dio dell’oltretomba Osiride,
fratello di Iside, e dedicata al dio-toro Api. Il ritrovamento della tomba ospitante il “toro della metro”
pareva confermarlo.
Stando ad altre voci sussurrate da esoteristi e stregoni, un colossale tempio eretto in onore di Iside era
sprofondato nel sottosuolo in tempi remoti, e la Gran Madre costruita secoli dopo proprio sopra quel
perimetro. Adesso il tempio era sorto di nuovo, e la chiesa non era più…
E le ridicole teorie extraterresti sull’origine della civiltà egizia? Ora non gli sembravano più sciocchezze.
Non erano più sciocchezze.
Francesco Gamba osservò sullo schermo gli oggetti che solcavano il firmamento
navicelle? Ufo?
e scoppiò a ridere. Chiunque pilotasse quei maledetti affari, era tornato a riprendersi la sua città
tumulata, il suo impero nascosto.
Direi che i Maya avevano ragione…
Tutti gli avvenimenti degli ultimi mesi erano stati segnali. Il ritrovamento del toro mummificato, la follia
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strisciante, e le condizioni atmosferiche, soprattutto… Se quelle cose che volteggiavano in cielo erano in
grado di far sorgere da sottoterra un’intera megalopoli rimasta sepolta per millenni, allora erano anche
capaci di preparare il clima per i suoi abitanti, le cose morte che ora brulicavano sulle soglie delle nuove
basiliche di Torino, mummie deformi e monche che sciamavano per le strade reclamando la supremazia.
Immaginò scene simili in Egitto e in altre parti del mondo.
Lo raggiunse un rumore di legno spezzato, e passi veloci rimbombarono all’interno del museo. Un altro
muggito lacerò l’aria, squassandogli i timpani. Francesco Gamba si accasciò per terra e si rannicchiò
dietro la scrivania, gemendo.
Ombre bislunghe di sagome vagamente umane si stagliarono poco dopo sui muri dell’ufficio; dalla sua
posizione, accucciato sul pavimento, Francesco Gamba vide, e sentì il cuore perdere il battito.
Le cinque mummie del museo egizio se ne stavano in piedi sulla soglia, i volti come prugne secche
deformati da un odio che valicava le ere. Una di loro carezzava la testa al toro della metro, un obbrobrio
di pelle secca e bendaggi consunti dal tempo.
Non poté trattenere l’urlo.
Mani rinsecchite lo afferrarono e una bocca piena di polvere, odorosa di morte ed eternità, gli soffiò in
faccia parole indecifrabili.
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Cercando di divincolarsi, scalciò e tirò pugni con le poche energie rimaste. Notò che una delle mummie
teneva in una mano un lungo uncino rugginoso, e nell’altra un piccolo uccello impagliato, ma vivo.
L’ibis-cadavere…
Unghie affilate gli scavarono nella carne, grattandogli le ossa. Capì che lottare non sarebbe servito.
A volte, opponendo resistenza si peggiorano le cose.
Rimase immobile, rassegnato, osservando i cadaveri viventi approntare la cerimonia.
Quando presero a estrargli il cervello dal naso con l’uncino e a darlo in pasto al volatile, Francesco
Gamba svenne quasi subito. Ma capì che in qualche modo – nella mummificazione viviamo ancora, recitava il
Libro dei Morti di Kha – la sua coscienza sarebbe sopravvissuta.
Obnubilata, destinata alla schiavitù eterna in un regno di morti, ma presente.
Con gli ultimi barlumi di consapevolezza pregò che non fosse così, supplicò che gli fosse risparmiata la
discesa Nei Loro Templi Oscuri, e la visione delle meschine divinità a cui aveva dedicato la sua intera vita.
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Raimondo Mirabile, futurista
di Graziano Versace
Qualcuno ha scritto che non è facile recensire un romanzo come
Raimondo Mirabile, futurista. E ha ragione. In primo luogo perché, forse,
non è facile nemmeno inserirlo in un preciso genere narrativo.
Il titolo è appositamente fuorviante e il perché si capirà soltanto alla
fine della storia. Ma non sbirciate le ultime pagine, godetevi il romanzo
dall'inizio alla fine, anche perché, se leggerete subito le ultime pagine,
non capirete assolutamente nulla del libro.
A quale genere narrativo, dunque, associarlo? Si è parlato di
fantascienza, ma per essere fantascienza propriamente detta il romanzo
deve essere ambientato nel futuro, mentre qui siamo nel 1911.
È quindi un romanzo storico? No, perché la storia, nel nostro caso, è
stata in parte modificata, alterata, contiene qualcosa che in realtà non si
è verificato- ma ne siamo davvero sicuri?
Dunque siamo nel pieno della storia alternativa, o come viene chiamata
più spesso oggi ucronia. Raimondo Mirabile, futurista potrebbe essere un
romanzo ucronico. E, mi sbilancio a dire, condito anche di un pizzico
di steampunk. Ma giusto un po', per insaporirlo.
Il risvolto di copertina recita: Milano, 1911, sul promontorio estremo dei
secoli. Ebbene, Raimondo Mirabile, futurista è forse un romanzo sul
promontorio estremo dei generi narrativi. Una storia che lascia spazio ad altre
storie. Un'avventura a colpi di astuzia e intelligenza. Ma soprattutto di
volontà.
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Un secolo e più prima, Vittorio Alfieri avrebbe detto
“Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”. Forse il
nostro Raimondo aveva letto la sua lettera a Ranieri de'
Calsabigi. Chissà.
Adesso che lo abbiamo collocato in un genere letterario,
o almeno adesso che ci abbiamo provato, passiamo allo
stile di scrittura. Il romanzo è narrato in prima persona.
A parlare è un maggiordomo, di quelli vecchio stampo. Il
suo personaggio è ben caratterizzato, sembra quasi di
vederlo.
Non è semplice caratterizzare un personaggio, quando
questi è il narratore stesso. Ma dal suo linguaggio, dalle
sue idee, dai suoi comportamenti, Gregorio Valli è una
persona in carne e ossa nella storia. E si nota una
profonda documentazione dietro le quinte.
Ma la documentazione fa sentire la sua presenza in ogni
pagina del libro. Il linguaggio usato è molto curato, e
tenendo conto che i dialoghi svolgono una parte quasi
predominante nel romanzo, il lavoro è stato notevole.
Non pensate di leggere una storia di astronavi e alieni
verdi. Qui è tutto più sottile e pericoloso. Invadente, forse,
è il termine più adatto. E per il verde dei marziani non c'è
posto. Ma per il giallo sì, quel colore scorrerà, eccome.
Tornando al linguaggio, il romanzo è ben scritto, anche
la frase “ben scritto” non significa davvero nulla. È
scorrevole, è avvincente. C'è sorpresa e non solo
suspense. L'autore sa scrivere e lo dimostra.
La trama potrebbe essere accostata a Visitors, anche se se
ne discosta per particolari che non posso rivelare. Così
come i due principali protagonisti, Raimondo Mirabile e
il suo maggiordomo, mi hanno ricordato, non proprio
nell'aspetto e nel comportamento, Sherlock Holmes e il
suo fedele Watson.
È senza dubbio un romanzo che sorprende. E, come ho
accennato all'inizio, già dal titolo. Il futurismo c'entra, la
storia è ambientata proprio in quel periodo. Si parla di
Marinetti, di D'Annunzio. È tutto storicamente vero.
Tutto tranne la minaccia che piove dal buio stellare.
Ma ho già detto troppo.
Daniele Imperi
Raimondo Mirabile, futurista di Graziano Versace
Edizioni XII
284 pagine
2010
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LA STORIA CHE VERRA’
Una scrittura ‘segreta’
Simone
Barcelli
F
ino al XIX secolo, cioè nemmeno
duecento anni fa, i filologi che
studiavano le tavolette di argilla con
caratteri in cuneiforme rinvenute in
Mesopotamia, negavano l’esistenza di un
popolo riconducibile ai Sumeri. D’altronde nessuno storico
del passato ne aveva mai parlato. Quindi non potevano
esistere. Il fatto di aver decifrato non senza fatica la
scrittura cuneiforme degli Assiri e dei Babilonesi, di per sé
costituiva per quegli studiosi un fatto eccezionale e un
sicuro punto d’arrivo. Eppure gli indizi c’erano e prima o
poi si doveva prenderli in seria considerazione. In una di
queste tavolette, tra le migliaia rinvenute, un re babilonese,
un certo Assurbanipal, citava gli “oscuri testi del sumerico” e la
parola “Sumer” faceva capolino per la prima volta sugli
appunti degli studiosi. Una delle prime giustificazioni al
riguardo fu quella di considerare il sumerico una scrittura
segreta inventata dagli Assiri e dai Babilonesi. Incredibile
ma vero, per il momento il problema era così risolto.
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N° 2 - Tracce d`Eternità