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Una drammaturgia
a più dimensioni
«Quartett»
di Luca Francesconi
di scena alla Scala
a cura di Leonardo Mello
Il 26 aprile Luca Francesconi, noto compositore e direttore artistico
della Biennale Musica, debutta alla Scala con Quartett, un’opera
musicale inedita ispirata all’omonimo testo di Heiner Müller e commissionata dal Teatro milanese. Gli chiediamo di raccontarci la genesi di questo lavoro.
G
all’opera di Müller,
e per la verità al principio mi ero orientato su
altri testi, in particolare su Filottete e Mauser: il
primo mi interessava per la sua forte dimensione shakespeariana, il secondo invece perché vi compare al massimo grado il motivo centrale del teatro di questo grande autore tedesco, che è quello dell’irriducibilità dell’individuo di fronte alla storia. Müller afferma – cito a memoria – che
non potrebbe mai narrare in terza persona, ma
che ha bisogno del teatro perché gli permette
di assumere delle maschere, di mettere in scena
posizioni opposte e conflittuali, differenti punti di vista sul mondo, sulla verità, sulla storia.
Porta sul palcoscenico contraddizioni insanabili e inconciliabili, e fa sì che si sbranino l’una
con l’altra: è da questo meccanismo che scaturisce il suo teatro, ed è per questo che è un grande
drammaturgo. Quartett mi faceva una paura tremenda, e non riuscivo proprio a immaginare come avrebbe potuto diventare un’opera. Però allo stesso tempo mi intrigava assai – non soltanto perché avevo amato molto Le relazioni pericolose, il film di Stephen Frears con John Malkovich
e Glenn Close – ma soprattutto perché, rispetsore, portatrici di così grandi contraddizioni, di un’equito ad altre pièce, presenta un linguaggio più omogeneo.
vocità e ambiguità perfino sessuali, perché si scambiano
Mi sembra che vi sia il tentativo di dare una forma moldi continuo i ruoli (mi ricordano in parte le pratiche sato coerente anche alla lingua, cosa che non succede quasi
domaso dei club privè, quei luoghi tristi dove si incontramai perché Müller è una specie di remixer. E qui apro una
no uomini e donne di mezz’età della piccola borghesia
parentesi più generale, partendo proprio da una dichiabrianzola, di cui abbiamo vasti esempi pubblici in querazione dello stesso Müller, dove afferma che qualsiasi tisto periodo). Per affrontare questa materia incandescenpo di sintesi creativa prevede l’inclusione e il trascendere.
te, con l’ircam di Parigi e con l’Asko Ensemble avevo iniQuando si pretende di eliminare uno dei due passaggi, o
ci si stacca dal comune sentire, e allora si diventa dei ricerziato un progetto sperimentale di alto livello tecnologicatori asettici che rischiano di finire su un binario morto
co per creare un lavoro che fosse una sfida dal punto di
(come è successo a certe parti dell’avanguardia), oppure,
vista delle trasformazioni visive ma anche audio: a testo
se si fa prevalere il passato, si diventa meramente nostalestremo, soluzione estrema, pensata non certo per un tegici, spinti magari da motivazioni poco limpide rispetatro all’italiana, in cui si era deciso di utilizzare una sola
to alla ricerca e prevalentemente orientate verso l’aspetinterprete. Questa è stata l’idea iniziale di Quartett, in cui
to economico. Qualsiasi opera nuova è una
le luci e i movimenti della performer, riletrascrizione, anzi qualsiasi autore trascrivati da sensori, avrebbero dovuto cambiave autori precedenti: Bach trascriveva Jore le dimensioni spaziali, alternando muMilano – Teatro alla Scala
hann Pachelbel e tutta la tradizione del co- 26, 28, 30 aprile; 3, 5, 7 maggio ri che scomparivano a parallelepipedi basrale protestante e insieme ciò che gli arrivasissimi e schiacciati a terra, claustrofobici.
ore 20.00
va dal contrappunto fiammingo e italiano.
Per cui i personaggi non erano più nemmeQuartett di Luca Francesconi
Mozart trascriveva Bach, Beethoven Mono due, ma uno solo: lei era di volta in volregia Àlex Ollé
«
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zart, Brahms Beethoven, Mahler Brahms, Wagner entrambi, per arrivare a figure come Stravinskij o Berio che
trascrivevano tutto, anche se stessi. Per cui ogni opera
è la migliore analisi possibile di qualcosa di precedente. E Müller è maestro in quest’operazione, per la quale ha avuto anche delle noie giudiziarie quando ha ridicolizzato le tre “vedove” di Bertolt Brecht riutilizzando
materiali dello stesso Brecht. Ma tutto ciò spesso presta
il fianco a interpretazioni che privilegiano l’urlo per l’urlo, lo scandalo per lo scandalo. Questo mi sembra il modo più riduttivo di considerare Müller, un’attitudine che
però resiste, si moltiplica e si sta ingigantendo più il tempo passa. Questo è uno dei motivi per cui volevo riservargli un trattamento diverso, e una delle ragioni per cui
non ho usato né la lingua né un regista tedeschi. La Fura dels Baus è un antidoto sicuro a quel tipo di interpretazione, un antidoto che mi sembrava necessario, perché
Müller è molto più moderno di quanto appaia negli spettacoli che sovente a lui si rifanno.
Tornando a Quartett, la pièce presenta un continuo gioco di specchi, una sorta di polifonia interna a tutti i personaggi. È difficile dare profondità a figure di quello spes-
iravo da tempo intorno
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ti dentro lo stesso teatro – che comprende anche coloro
che prima pensavamo di poter spiare – e che c’è qualcun
altro che ci sta guardando, realizziamo insomma che ci
troviamo dentro la nostra bomboniera di privilegiati borghesi occidentali e che c’è qualcuno fuori che ci sta osservando. E che si sono aperte delle crepe nei muri che abbiamo costruito pensando di difenderci e di proteggere
il nostro benessere e la nostra ricchezza: da queste fessure cominciano a filtrare degli spifferi che si fanno poi rumori e urla. E a un certo punto il “fuori” invade completamente questa intimità e la fa esplodere».
Hai ricavato delle suggestioni dal teatro di prosa?
In realtà non avevo grossi riferimenti. Qualche anno
fa ho assistito all’allestimento di Robert Wilson a Parigi, da cui allora ero uscito deluso. In seguito ne ho rivisti frammenti su youtube e, a posteriori, dopo aver lavorato anch’io su quel testo, l’ho rivalutato. Ma a Müller –
do senza tempo, dell’eternità, uno spazio irriducibile alla
piccola, fragile dimensione del singolo e che è rappresentata dall’orchestra e dal coro. In parole povere, la drammaturgia che mi sono inventato all’inizio fa degli spettatori dei voyeur che assistono una specie di Peep Show. In seguito nascono due coppie di cloni che si muovono in spazi diversi confondendosi con i due originali, per cui a un
certo punto non sappiamo più chi canta e chi si muove.
Questa dimensione include il palcoscenico vero e proprio, dunque chi è seduto in poltrona comincia a formarne parte e non si sente più davanti a un Peep Show ma vive un coinvolgimento più diretto. Infine c’è il terzo spazio, in cui spariscono anche i muri del teatro e si ha come
la sensazione di avvertire l’arrivo di una presenza esterna e minacciosa che guarda tutti noi spettatori. In realtà ci rendiamo progressivamente conto di trovarci tut-
dato che il suo linguaggio è molto contratto e ha un’incredibile densità – interessava tutto ciò che permettesse di dilatare e far respirare quel linguaggio. Per questo
ha accettato qualsiasi tipo di manipolazione dei suoi testi. E la musica fa proprio questo: lavorando alla mia opera ho tagliato circa il settanta, ottanta per cento del testo, cercando ovviamente di mantenere tutto l’essenziale, e mi sono reso conto che c’è una struttura di una solidità spaventosa. Ma la musica non ha bisogno di tutte quelle parole. E in più alcune cose si capiscono vedendole. Sembra che tutta la tensione trattenuta in Quartett sia fatta apposta per essere trasposta in musica. ◼
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ta la donna, la donna che fa l’uomo, la donna che fa l’uomo che fa la donna, ecc. Quando Stéphane Lissner ha saputo che stavo lavorando su queste ipotesi, mi ha subito
chiesto di realizzarla per la Scala. Allora mi sono posto il
problema di creare una drammaturgia, e ho cominciato
ad accarezzare l’idea di una nuova sfida: predisporre per
il teatro milanese una struttura stratificata, che inizia con
una sorta di piccola cellula sospesa nel vuoto e nel buio,
come un container sopra il palcoscenico, che non si capisce nemmeno come fa a stare in piedi, e dove si trovano
inseriti i protagonisti (cfr. anche l’articolo alle pp. 10-11, ndr.).
Da lì si apre un altro spazio che include il palcoscenico e
rappresenta la proiezione delle loro menti, dove prendono corpo le parti del testo in cui loro hanno dei momenti di cedimento all’affettività che hanno voluto bandire.
È il luogo del tempo sospeso, dei ricordi, dei sogni. E
poi un’ulteriore, terza dimensione che è quella del mon-
A fonte: Luca Francesconi (foto Mauro Fermariello);
sopra, un bozzetto per Quartett.
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La Fura dels Baus
affronta Heiner Müller
utto è nato in modo fortuito. Luca aveva già
da tempo in mente questo progetto, e intendeva svilupparlo in un paio d’anni. Invece all’improvviso la Scala ha anticipato la data del debutto, e si so-
va, sono rimasto perplesso, ma la sua proposta mi è talmente piaciuta che alla fine ho accettato. Qualche tempo prima, a Barcellona, avevo visto Quartett a teatro, e mi
aveva appassionato moltissimo, anche se mi ero reso conto già allora che si trattava di una drammaturgia estremamente complessa. Carl Weber affermava che davanti a
questa pièce tutti gli artisti provano la vertigine che provoca la libertà assoluta. E io capisco perfettamente quello che intende dire: è un testo pieno di metafore, significati e citazioni nascoste, quindi assai complicato da mettere in scena, e ancora di più se lo prendiamo in considerazione da un punto di vista operistico. Già nella prosa,
dove il tessuto verbale si comprende agevolmente, rivela
la sua grande complessità. Ma almeno, in quel contesto,
ciascuno può crearsi la propria interpretazione di quello
che sta vedendo. In un’opera musicale il testo è cantato,
e di conseguenza meno immediatamente comprensibile.
E questo di certo rende l’operazione ancora più impervia.
Allora per affrontare questa sfida sono partito proprio da
un’intervista a Heiner Muller, nella quale – oltre ad affermare che in quel suo componimento ogni singola parola era importante – diceva che si trattava di un testo vivo.
no trovati nella necessità di cercare un regista. La prima
volta che ho visto Francesconi eravamo entrambi a Barcellona per alcune giornate dedicate all’opera contemporanea, e in quell’occasione qualcuno ci ha presentato. Ricordo che abbiamo conversato a lungo, e che l’ho invitato
a vedere il nostro Le grand macabre a Roma. Non so esattamente quanto tempo dopo mi ha chiamato per chiedermi se mi sarebbe interessato allestire Quartett a Milano.
All’inizio, dato l’anno di folle lavoro che mi si prospetta-
Quest’ultima frase mi ha fatto riflettere, e mi sono detto:
“Se è un testo vivo, allora probabilmente all’autore sarebbe piaciuto che nella mia regia io ne facessi quello che volevo”. E dunque mi sono messo a cercare – forse a causa
delle mie radici mediterranee – un linguaggio che attraesse il pubblico più per la sua visceralità che per i suoi elementi razionali e intellettuali. A cominciare da una proiezione video che sta all’inizio dello spettacolo, grazie alla quale la gente capisce perfettamente l’ambientazione, si
«Inside», «outside» e «out»:
l’allestimento di Àlex Ollé
a cura di Leonardo Mello
Àlex Ollé è una delle anime della Fura dels Baus, il celebre gruppo
di Barcellona che ha al suo attivo, oltre a moltissime performance teatrali, anche un consistente numero di allestimenti lirici, nei quali
ha espresso al massimo la sua visionarietà. Al regista catalano chiediamo come è nata l’idea di mettere in scena Quartett e come è entrato in contatto con Luca Francesconi.
T
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«
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colo ci siamo concentrati su questi tre diversi settori scenici: la realtà in cui agisce questa coppia, lo spazio mentale dove si possono sviluppare le vite che non si è stati capaci di vivere, e che invece lì prendono corpo, e poi l’out.
Questo per strutturare drammaticamente l’opera, perché
altrimenti sarebbe stato molto difficile districarsi al suo
interno, soprattutto perché si tratta di un lavoro operistico. Io voglio sempre che il pubblico sia fortemente vincolato a quello che sta vedendo. E in questo caso lo volevo scuotere non solo dal punto di vista concettuale, ma
anche sul suo lato viscerale.
Potrò contare su due cantanti che interpretano diversi ruoli, e per creare le vite parallele cui accennavo poco
sopra mi servirò di due coppie di attori che sono “cloni”:
avremo tre Merteuil e tre Valmont. Nell’inside, che come
ho detto rappresenta la realtà in cui i due sono inseriti, ci
saranno sempre due sole figure, mentre nell’outside potremo arrivare a vedere fino a due coppie in più. Il supporto
video si utilizzerà durante tutto lo spettacolo, ma caratterizzerà soprattutto i momenti out. Come dire che fuori
dallo spazio dell’isolamento di Merteuil e Valmont ce n’è
un altro, che è il mondo reale, da cui essi fuggono, una re-
sto un terzo livello, l’out, che rappresenta in qualche modo quello che rende insignificante l’uomo, ciò che è fuori
dal suo controllo, come la forza della natura, e in definitiva la vita stessa. Abbiamo quindi creato uno spazio mobile, formato da questi tre livelli, costantemente attraversati dalla musica, che si muove e include il pubblico: dalla
zona retrostante della scena arriva infatti fino agli spettatori. Quelli dell’out sono i momenti in cui le voci tacciono, e c’è soltanto suono. Nell’elaborazione dello spetta-
altà esterna a quella società del benessere in cui loro vivono immersi e che noi vediamo attraverso squarci e fessure, alle quali il pubblico può affacciarsi. Le immagini proiettate non sono necessariamente attuali, ma evocano elementi che ci portano in modo diretto al reale e a ciò che
succede nel mondo». ◼
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sorvola tutta Milano fino ad arrivare a un edificio dell’alta borghesia – o dell’aristocrazia – dove i due protagonisti, Merteuil e Valmont, sono situati dentro uno spazio che è un cubo sospeso al centro della scena, assolutamente isolato. Müller diceva che l’opera si poteva svolgere in un salone della Rivoluzione Francese o in un bunker della Terza guerra mondiale: a me è piaciuta l’idea del
bunker per mettere l’accento sull’isolamento dei due personaggi, che alla fine rappresentano due archetipi della
classe medio-alta che si incontra spesso nelle società occidentali. Si tratta di gente che vive avulsa da quella realtà che rende possibile la loro stessa esistenza. A partire
dunque da quest’idea di isolamento, lavorando con Luca
ho preso in considerazione una frase di Derek Mahon, in
cui si diceva più o meno che le vite che non possiamo vivere troveranno la loro completezza in altri tempi e in altri spazi. Questo mi ha dato lo spunto per ideare appunto un altro spazio, l’outside. Se denominiamo inside la realtà di Merteuil e Valmont, vale a dire quello che succede a
questa coppia di personaggi, per outside intendiamo il loro
spazio mentale, dove si sviluppano le loro frustrazioni, i
loro sogni e i loro incubi. A questo punto Luca ha propo-
Bozzetti per Quartett.
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«A me interessa
lavorare con
l’energia pura»:
su Luca Francesconi
una esperienza ricca che coinvolge anche la nostra mente, oltre il primo livello di fascino sensoriale: è proprio in una danza profonda tra istinto e ragione, alla ricerca continua di un equilibrio, che si consuma la nostra esperienza percettiva più vera».
complesso come quello del linguaggio musicale contemporaneo, un «plot», un filo narrativo, «la ricomposizione
di una unità interiore che riesca a parlare con altri individui», una trama di natura puramente musicale. La riflessione sulla trasparenza di una «trama» oppure sui meccanismi della memoria ricorre più volte nell’opera di Francesconi, nel cui catalogo quattro pezzi per organici diversi sono definiti «studi sulla memoria», da Richiami (1989)
ad A fuoco (1995).
«A me interessa lavorare con l’energia pura, se mi riesce.
E per esperienza diretta posso dire che quando il pezzo
– in termini di slancio formale, o altro – riesce a esprimere questa energia, il linguaggio utilizzato in un certo senso passa in secondo piano», ha dichiarato Francesconi in
una intervista del 2000. Non si può quindi riassumere in
termini schematici la ricca molteplicità di prospettive riconoscibile nelle sue opere, anche in un singolo pezzo,
come il Terzo Quartetto (Mirrors) (1993), dove la fanta-
Queste parole sono tratte dalla premessa alla partitura
di Plot in Fiction per oboe (e corno inglese) solista e 11 esecutori (1986), uno dei pezzi più rappresentativi e riusciti
del giovane Francesconi (Milano 1956), della cui formazione basterà ricordare qui gli studi con Azio Corghi e la
collaborazione con Luciano Berio a vari progetti dal 1981
al 1984. Di Berio Francesconi scrisse: «L’ho amato profondamente più di ogni altro musicista»; ma nel suo percorso di ricerca è importante anche la riflessione su compositori meno vicini alla sua poetica, ad esempio Helmut Lachenmann. Senza rifiutare nulla della ricchezza di
esperienze della nuova musica negli ultimi decenni, Francesconi va risolutamente oltre la purezza di un astratto
radicalismo. La complessità è intesa da lui come pluralità di codici, come capacità di aprirsi a una molteplicità di
mondi e di interessi, ferma restando la rigorosa coerenza
dei procedimenti di elaborazione del materiale: con esiti densi di energia e tensione, aperti in direzioni diverse.
Nel già citato Plot in fiction il titolo rivela l’esigenza di ritrovare, nella «fiction» linguistica, in un contesto astratto e
sia si scatena in percorsi imprevedibili e labirintici intrecci attraverso situazioni molto diverse, con intensa energia: i salti stilistici creano sorpresa, possono ricordare la
rarefazione e i quarti di tono della ricerca dell’ultimo Nono, possono evocare un sapore etnico, o approdare, alla
fine, ad aggregati armonici che fanno pensare alla Ciaccona di Bach; ma si ricollegano sempre alla generazione
all’interno di un processo, e non sono citazioni, ma stati della materia che nascono dall’interno, sempre sotto il
segno di una ininterrotta tensione.
L’approdo al teatro musicale è una possibilità implicita nella poetica di Francesconi. In attesa di Quartett vorrei accennare alle opere finora rappresentate; ma prima
vorrei almeno citare alcuni lavori di particolare rilievo,
fra loro diversissimi. In Etymo (1995) per soprano, electronics e ensemble, l’impegnativo titolo mette in gioco la
ricerca del senso originario. Il testo, costituito da diversi frammenti di Baudelaire (in gran parte da Le Voyage),
torna più volte sulla domanda «Dites, qu’avez vous vu?»,
che può essere considerata nucleo generatore del pezzo.
L
a musica è seduzione. Deve essere sempre però
focus on
«
di Paolo Petazzi
focus on — 13
è un tenore acutissimo, quasi una macabra deformazione del Capitano del Wozzeck di Berg) e appartiene a Vitain-Morte (un soprano drammatico dalla parte molto virtuosistica), personaggio che Francesconi considera il più
complesso ed enigmatico di Coleridge, «mostruosa e salvatrice, e insieme sesso e conoscenza, crudeltà e gioia»,
una specie di forza primaria, di pura energia. Nella sospesa conclusione la Luna e il canto delle Sirene evocano un
abbandono alla natura e al mondo femminile, dopo un
tormentato percorso di ricerca che sembra una metafora
della vita stessa e che non ammette chiavi di lettura univoche. Di estrema varietà la scrittura vocale, che con riconoscibile funzionalità drammaturgica spazia da Monteverdi a Berio alle tradizioni popolari.
Di natura completamente diversa è Gesualdo Considered as a Murderer (2004), definito in partitura «opera for
the concert hall», perché, ha dichiarato Francesconi «è
il tentativo di fare una fotografia della nascita dell’ope-
focus on
Rest, concerto per violoncello e orchestra, Luciano Berio in memoriam (2004), prende le mosse dalla quinta
discendente si- mi ricavata dalle prime lettere del nome
(BE: seguono re, si bemolle, sol). Francesconi ripensa qui
il violoncello per scoprirne da un lato la natura «materica e ctonia […] una “grana” tellurica e ruvida, gravissima» e all’estremo opposto una natura «scintillante, leggera e féerique»; ma in Rest si ritrova anche la voce «storica» dello strumento, in percorsi di imprevedibile ricchezza. E bisognerebbe soffermarsi su Cobalt Scarlet per orchestra (2000) o su Hard pace, concerto per tromba e orchestra (2007), di arroventata densità. O su Wanderer (199899) che nasce dalla riflessione su materiali della prima
esperienza di teatro musicale di Francesconi giunta sulle
scene, Ballata, composta tra il 1996 e il 1999, liberamente ispirata a The Rime of the Ancient Mariner (1798) di Coleridge e rappresentata nel 2002 alla Monnaie di Bruxelles, dove era memorabile anche l’allestimento di Achim
Freyer. Francesconi, con la collaborazione di Umberto Fiori,
autore del libretto, ha lavorato a
lungo su uno dei testi più affascinanti del Romanticismo inglese, attirato da una vastità di
implicazioni che va molto oltre
l’apparente semplicità della storia. Nel corso di un misterioso
viaggio, su una nave che sembra
non avere né guida né meta nella sua folle corsa, un marinaio
uccide con capricciosa e gratuita crudeltà un albatros (che era
apparso come un angelo o come un segno divino): in seguito
a ciò vedrà morire tutti i compagni; ma continuerà a vivere una
«vita in morte», costretto a raccontare la propria atroce esperienza. Coleridge sembra concedere al suo protagonista una
redenzione religiosa, Francesconi e Fiori lo fanno addormentare cullato dalla Luna, in
un ritrovato contatto con la natura, nella conclusione sospesa del secondo atto, che assai più del primo si discosta dal poeta inglese. In Ballata il
Marinaio si sdoppia e nel primo atto si alternano due piani narrativi, quello del Vecchio Marinaio (un cantante-attore) che con la irresistibile forza degli occhi impedisce a
un invitato di recarsi a una festa di nozze per raccontargli
la propria storia, e quello in cui vediamo, come in un flashback, il Giovane Marinaio (un baritono acuto, il protagonista più impegnato) sulla nave insieme con la ciurma (il coro maschile; mentre il coro femminile, disposto
intorno al pubblico, lo avvolge con esiti molto suggestivi
e dà voce alle Sirene, che sono una invenzione degli autori di Ballata). Così il primo atto, usando alcuni versi di
Coleridge nell’originale, in traduzione o in libere parafrasi, giunge fino all’uccisione dell’albatros. Nel secondo atto al tempo lineare del precedente si sostituisce un tempo «senza direzione, circolare»: in circa settanta minuti
si succedono cinque grandi scene (mentre nel primo atto, un poco più breve, sono quindici). Il Marinaio si trova di fronte alla Morte (che prende i suoi compagni, e che
ra […]. In un’epoca di transizione tra Rinascimento e Barocco, in cui si arriva al teatro musicale, Gesualdo ha portato all’estremo la polifonia, senza che possa prendere
corpo come teatro. Immagino il fatto atroce della sua
biografia, l’uccisione della moglie insieme con l’amante
di lei, come la prima scena di un teatro che non è ancora stato inventato, una scena infatti cui noi non assistiamo». Il testo di Vittorio Sermonti evoca la tragedia
dell’assassinio della bellissima moglie del Principe di Venosa e dell’amante di lei nel 1590 senza raccontarlo in
modo lineare, e la musica traccia un percorso dagli oscuri suoni elettronici iniziali alle citazioni di due madrigali di Gesualdo, all’emergere di ricordi e personaggi, finché, come scrive l’autore, «una sorta di spirale di forze
genera un’accelerazione esponenziale, che in un flusso inesorabile conduce alla scena conclusiva». Ma questa non viene mostrata: ci si ferma un attimo prima. ◼
Gesualdo Considered as a Murderer di Luca Francesconi,
scene di Matteo Martini (foto mito SettembreMusica / Lelli & Masotti).
14 — focus on
Alcune note
su «Quartett»
di Heiner Müller
Un salotto e un bunker. Due spazi chiusi. Nei salotti
prima della rivoluzione l’aria si è rarefatta. Trionfa l’artificio. Battute di spirito. Il gioco. La noia. Un’aristocrazia, una classe dirigente, che vive solo per il potere e trova nel suo esercizio sempre più raffinato il suo divertimento. Il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil.
Una volta amanti. Ora complici in un gioco affascinante, mortale. Cervelli superraffinati desiderosi di superare i limiti dell’umano. L’amore per loro è un sentimendi Peter Kammerer
to volgare riducibile a muscoli e mucose. Roba per
domestici. Quel che conta è andare oltre. Usaeiner Müller , uno dei drammaturre l’amore come strumento del proprio poteghi più rappresentativi della GerQuest’articolo nasce dalla
re. Condurre sperimentazioni scientifiche.
mania contemporanea, ha scritto
rielaborazione dell’intervento
L’inquisizione psicologica. Che cosa acQuartett nel 1981, ispirato al romanzo Le
relazioni pericolose di Choderlos de Laclos tenuto da Peter Kammerer il 27 cade a una donna sensibile, timida, pas(1782), che aveva a sua volta rielabora- settembre scorso all’Olimpico sionale e devota alle leggi della religioto il testo delle Passioni dell’anima di di Vicenza, in occasione della ne se incontra Valmont il libertino? SaCartesio. Per la sua messa in scena Mül- « Gior n at a Hei ner Mü l ler » rebbe troppo banale conquistarla. L’arler precisa: «Periodo di tempo: Un salot- promossa dal Teatro Stabile del te più alta non sta nella seduzione, ma
Veneto e coordinata da Franco
nel far conoscere alla vittima il sentimento prima della rivoluzione francese. Un
Quadri (cfr. VMeD n. 36,
to vero dell’amore per poterlo dissacrare
bunker dopo la terza guerra mondiale».
p. 67).
con un calcio al momento di massima feliTra i due luoghi si compie la parabola delcità. Valmont riesce nell’impresa e la vittima si
la crisi dell’illuminismo, della notte dei lumi.
suicida senza che lui muova un dito. DimostrazioLa scuola di Francoforte l’ha analizzata e indagata.
ne grandiosa dell’insufficienza umana. L’uomo è bestia e
Noi la viviamo tutt’ora. Tutta la scrittura di Müller gira il
focus on
H
coltello nella ferita. Egli confessa: «Le illusioni vanno distrutte. Il mio impulso principale come autore di teatro è
quello di distruggere. Rompere agli altri i giocattoli. Credo alla necessità di valorizzare gli impulsi negativi». L’illuminismo, quell’impresa enorme dell’umanità che Kant
aveva chiamato «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità
che egli deve imputare a se stesso» è fallita. Siamo entrati nell’era di Auschwitz e della bomba atomica. Su questo
il teatro di Müller non intende chiudere gli occhi. Ecco il
suo lato positivo. Più che un cinico Müller è uno stoico.
Guarda il mondo e la morte con lo spirito di un Seneca.
macchina, cerca il suo spazio tra questi due poli, incapace
di godere sia la beatitudine animalesca sia la perfezione di
un’orologeria cerebrale. Quando e come si celebreranno
le nozze tra l’uomo e la macchina? La marchesa di Merteuil si spinge più avanti di Valmont. È lei che dirige il
gioco, la ricerca. Lei, tutta volontà e razionalità, nella sua
esplorazione del disumano cade però su un residuo sentimentale, su un minuto frammento di cuore, su una traccia di gelosia. Inesorabile ne trae le conseguenze. Choderlos de Laclos fa cadere i suoi eroi criminali in un certo modo, diverso da quello scelto da Müller. Laclos riven-
focus on — 15
umano. Smettono di essere il legame fondamentale
con la natura e tra gli stessi uomini. Diventano campi di battaglia. Un gioco al
massacro. Müller riassume
Quartett in una estrema sintesi: «Quando la politica
diventa impossibile, inizia
lo sbranamento dei corpi».
Può darsi che tutto il culto della bellezza e del benessere scoppiato negli ultimi anni non sia altro che
il mascheramento cosmetico della tragedia dei corpi. Mascheramento che ha
anche dei lati comici e si
sa che Müller ha insistito
sempre sul fatto che Quartett a tratti potrebbe anche
ricordare un capolavoro
buffo come La zia di Carlo.
E il terrorismo? Si tratta
di energie cacciate in un vicolo cieco dal quale l’attentato e magari l’autobomba
si presentano come unica
focus on
dica la punizione dei colpevoli e ricostituisce l’immagine della virtù. Una soluzione sospetta già per i suoi
contemporanei che subivano con brividi il fascino del
male descritto con tanta
maestria. In Müller invece la storia va a finire in un
bunker dopo la terza guerra mondiale. L’umanità ce
l’ha fatta ad arrivare al suicidio della specie. La Merteuil dopo aver avvelenato un Valmont conscio del
proprio sacrificio nel bunker rimane sola. «Siamo
soli, cancro, amore mio»
sono le sue ultime parole.
Nozze col cancro. Con la
perdita dell’amore per l’altro il genere umano ha perso anche la capacità di procrearsi cedendo il posto ad
un’incontrollata riproduzione di cellule che non rispondono più ai meccanismi fisiologici per i danni subiti nel proprio patrimonio genetico. Il bunker,
grembo cementificato della terra, è l’ultima stazione
di un potere fine a se stesso
e ridotto a se stesso.
Laclos descrive la fine di
una civiltà asserragliata nei
suoi castelli e salotti, dove l’ipertrofia del cervello
devasta il cuore. Müller allarga il campo. Come sempre il suo testo è accompagnato da un sottotesto non
scritto che riguarda la violenza. Quella dell’uomo
che stupra la natura, che
domina il rapporto tra i generi e tra gli individui stessi. Una violenza autodistruttiva, una implosione,
se non trova altro sbocco,
altra canalizzazione delle energie. Nella sua splendida autobiografia appena
tradotta in Italia (Guerra senza battaglia, Zandonai Editore, Rovereto) Müller confessa: «Quartetto è una reazione
al problema del terrorismo a partire da un tema e da materiali che, almeno in superficie, non hanno nulla a che
fare con esso» (pag. 248). Per cogliere appena questa indicazione facciamo ancora un passo indietro. Assistiamo
in Quartett a una lotta tra i generi, tra i sessi nella sua ultima fase. Non esiste più né eros, né politica. La gioia di un
corpo, la sua bellezza, diventano puri strumenti di potere, giacimenti da sfruttare. I sensi umani appaiono drogati. Si sviluppano, ma non si caricano di un significato
via di uscita. È stata lunga la strada che porta dalla ferma
euforia di Kant alle tragedie dell’oggi. L’ultimo ostacolo prima del nulla è costituito dai corpi, da quelli vivi. Il
teatro li evoca, dà loro asilo, li presenta. È la sua funzione più nobile: creare lo spazio salvifico della tragedia. ◼
A fronte: Heiner Müller (foto di Anita Schiffer-Fuchs – freelens.com).
Quartett di Heiner Müller secondo Robert Wilson, uno spettacolo
realizzato nel 2007 dal parigino Théâtre de l’Odéon con protagonisti
Isabelle Huppert e Ariel García Valds (foto di Pascal Victor).
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