Nicholas Sparks
L’ULTIMA CANZONE
Traduzione di Alessandra Petrelli
COPERTINA: Photo Agenzia Corbis, elaborata a computer
ART DIRECTOR: Francesco Marangon
.
GRAPHIC DESIGNER: Laura De Mezza e Sebastiano Mastroeni
FRASSINELLI EDITORE
Titolo originale: The Last Song
Copyright © 2009 by Nicholas Sparks
© 2009 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. per Edizioni Frassinelli
ISBN 978-88-88320-46-5 86-1-09
www.frassinellieditore.it
www.sperling.it
L'autore
Nicholas Sparks è nato in Nebraska nel 1965 e ha studiato alla University of Notre
Dame. Ha scritto numerosi bestseller tradotti in più di quaranta lingue. Dai suoi libri
sono stati tratti film celebri come Le parole che non ti ho detto, con Kevin Costner, I
passi dell'amore, Le pagine della nostra vita e Come un uragano. Per Frassinelli ha
pubblicato anche, con il fratello Micah, Tre settimane, un mondo, un'opera
autobiografica. Vive con la moglie e i cinque figli nel North Carolina. Sempre ai
vertici delle classifiche internazionali, Sparks ha dimostrato di essere l'incontrastato
maestro dei sentimenti e i suoi libri sono amati dai lettori di tutto il mondo.
www.nicholassparks.com eNewsletter: www.hachettebookgroupusa.com
Dal 2010 sarà attivo il nuovo sito creato da Sparks per i suoi fan italiani:
www. nicholasparks.it
Dello stesso autore
Le pagine della nostra vita
Le parole che non ti ho detto
I passi dell'amore
Un cuore in silenzio
Un segreto nel cuore
Come un uragano
Quando ho aperto gli occhi
Come la prima volta
Il posto che cercavo
Tre settimane, un mondo
Ogni giorno della mia vita
Ricordati di guardare la luna
La scelta
Ho cercato il tuo nome
Ai miei amici Theresa Park e Greg Irikura
Prologo
Ronnie
Ronnie si chiese se il pastore Harris fosse già arrivato in chiesa. Mentre guardava le
onde infrangersi sulla spiaggia, dalla finestra della camera, si domandò anche se fosse
ancora in grado di notare il gioco di luce che filtrava dalla vetrata dietro l'altare. Forse
no, dopotutto era stata montata più di un mese prima, e lui era troppo occupato per
continuare a farci caso. Sperava allora che un forestiero fosse entrato in chiesa quella
mattina e avesse sperimentato la stessa meraviglia che aveva provato lei quando
aveva visto la luce inondare la navata in quel freddo giorno di dicembre. E sperava
che il visitatore si fosse soffermato abbastanza a lungo da ammirare la bellezza della
vetrata e da chiedersi chi l'avesse fatta.
Era sveglia già da un'ora, ma non era pronta ad affrontare la giornata. Quell'anno le
vacanze avevano un sapore diverso. Il giorno prima era stata con suo fratello Jonah a
passeggiare sulla spiaggia. Qua e là sulle verande delle case affacciate sul mare
c'erano alberi di Natale addobbati. In quella stagione avevano la spiaggia quasi tutta
per loro, ma Jonah non aveva mostrato alcun interesse né per le onde né per i
gabbiani che lo avevano attratto fino a qualche mese prima. Invece, era voluto andare
al capanno, e lei ce l'aveva portato, anche se poi c'era rimasto pochi minuti ed era
uscito senza dire una parola.
Sul comodino accanto a lei c'era una collezione di fotografie incorniciate provenienti
dalla casetta sulla spiaggia, insieme con altri oggetti raccolti quel mattino. Li esaminò
in silenzio, finché fu interrotta da alcuni colpi alla porta. Sua madre si affacciò sulla
soglia.
«Vuoi qualcosa da mangiare? Ho trovato dei cereali nella dispensa.»
«Non ho fame, mamma.»
«Devi sforzarti, tesoro.»
Ronnie continuò a fissare il mucchio di fotografie, senza vedere nulla.«Mi sbagliavo,
mamma. E adesso non so che cosa fare.»
«Ti riferisci a tuo padre?»
«A tutto.»
«Ne vuoi parlare?»
Poiché Ronnie non rispondeva, sua madre entrò nella stanza e andò a sedersi accanto
a lei.«A volte parlare aiuta. Negli ultimi giorni sei stata così taciturna.»
Per un attimo Ronnie fu sopraffatta da un'ondata di ricordi: l'incendio e la
ricostruzione della chiesa, la vetrata, la canzone che finalmente aveva terminato.
Pensò a Blaze, a Scott e a Marcus. Pensò a Will e all'estate, quell'estate in cui aveva
compiuto diciott'anni, era stata tradita, arrestata e si era innamorata. Non era passato
molto tempo, eppure a volte le sembrava di essere una persona completamente
diversa.
Sospirò.«Dov'è Jonah?»
»«
«È uscito. Brian lo ha portato al negozio di scarpe. I piedi gli crescono più
velocemente di tutto il resto.»
Ronnie sorrise, ma solo per un istante. Nel silenzio che seguì, la madre le raccolse i
lunghi capelli in una coda. Aveva l'abitudine di farlo da quando era piccola. La
confortava, ma lei non lo avrebbe mai ammesso.
«Sai cosa ti dico?» proseguì la madre. Andò all'armadio e posò la valigia sul
letto.«Perché non parliamo mentre prepari i bagagli?»
«Non saprei da dove cominciare.»
«Potresti partire dal principio. Se non sbaglio Jonah ha detto qualcosa a proposito
delle tartarughe.»
Ronnie incrociò le braccia, sapendo che la storia non partiva da lì.«Non proprio»,
disse.«Anche se io non c'ero quando è successo, penso che l'estate sia cominciata con
l'incendio.»
«Quale incendio?»
Ronnie prese il mucchio di fotografie sul comodino ed estrasse con cautela un ritaglio
di giornale stropicciato e ingiallito infilato tra due cornici. Lo mostrò alla madre.
«Questo incendio», rispose.«Alla chiesa.»
Incendio alla chiesa locale
forse causato da fuochi d'artificio illegali
Parroco ferito
Wrightsville Beach, North Carolina - Un incendio, scoppiato la notte di Capodanno,
ha distrutto la storica chiesa battista. Gli investigatori sospettano che sia stato causato
da fuochi d'artificio illegali.
I pompieri, avvertiti da una telefonata anonima, sono giunti sul luogo poco dopo
mezzanotte e hanno trovato l'edificio avvolto dalle fiamme scaturite dal retro, ha
riferito Tim Ryan, comandante dei Vigili del Fuoco di Wrightsville Beach. Nel punto
d'origine dell'incendio sono stati rinvenuti i resti di una bottiglia incendiaria.
Il reverendo Charlie Harris si trovava all'interno della chiesa quando si sono
propagate le fiamme e ha riportato ustioni di secondo grado alle braccia e alle mani.
Trasportato al New Hanover Regional Medical Center, si trova in terapia intensiva.
Questo è il secondo incendio verificatosi in una chiesa nel giro di due mesi, nella
contea di New Hanover. Nel novembre scorso la chiesa di Good Hope Covenant di
Wilmington è stata completamente distrutta.«Gli investigatori sospettano un'origine
dolosa, forse opera di un piromane», ha dichiarato Ryan.
Alcuni testimoni riferiscono di aver notato un lancio di bottiglie incendiarie sulla
spiaggia dietro la chiesa pochi minuti prima dell'incendio, forse per celebrare l'anno
nuovo.«Le bottiglie incendiarie sono illegali nel North Carolina e sono ancora più
pericolose date le recenti condizioni di siccità», ha spiegato Ryan.«Questo incendio
dimostra il perché. Un uomo è finito in ospedale e la chiesa è gravemente
danneggiata.»
Finito di leggere, la madre incontrò lo sguardo di Ronnie che esitò un istante; poi, con
un sospiro, cominciò a raccontare una storia che le risultava ancora del tutto
incomprensibile, nonostante il senno di poi.
1.Ronnie
Sei mesi prima
Ronnie era semisdraiata sul sedile anteriore dell'auto, chiedendosi come mai i suoi
genitori la odiassero così tanto.
Era l'unica spiegazione plausibile del perché si trovasse in viaggio per andare a far
visita a suo padre, in quel buco di posto dimenticato da Dio, anziché a spassarsela con
gli amici a casa sua, a Manhattan.
No, meglio precisare. Non si trattava di una semplice visita al padre. Una visita in
genere durava un weekend o due, al massimo una settimana. Sarebbe riuscita a
sopravvivere a una visita. Ma restare per tutto il mese di agosto, in pratica tutta
l'estate, era un esilio, e per gran parte delle nove ore occorse per arrivare laggiù si era
sentita come una carcerata trasferita in un penitenziario di massima sicurezza. Non
poteva credere che sua madre fosse veramente intenzionata a farle subire una cosa
simile.
Era così sprofondata nell'autocommiserazione, che impiegò un istante a riconoscere
la sonata numero 16 in mi maggiore di Mozart. Era uno dei brani che aveva eseguito
alla Carnegie Hall quattro anni prima e capì che sua madre l'aveva messa mentre lei
dormiva. Peccato. Ronnie si sporse per spegnerla.
«Perché?» le chiese la madre accigliata.«Mi piace sentirti suonare.»
«A me no.»
«Posso abbassare il volume.»
«Mamma, dacci un taglio, per favore! Non sono dell'umore giusto.»
Si girò a guardare fuori dal finestrino, sapendo benissimo che sua madre
disapprovava il suo comportamento. Le capitava spesso negli ultimi tempi.
«Credo di aver visto un pellicano quando abbiamo attraversato il ponte di
Wrightsville Beach», osservò la mamma con forzata allegria.
«Cavolo, eccezionale.«Forse dovresti chiamare Steve Irwin.»
«È morto», disse Jonah dal sedile posteriore, la sua voce mescolata ai suoni del Game
Boy. Quel tormento di suo fratello a dieci anni era un fanatico di quell'aggeggio.«Non
ti ricordi?» proseguì.«Io ci sono rimasto molto male.»
«Certo che mi ricordo.»
«Non mi sembrava.»
«Ti dico di sì.»
«Allora non dovevi dire quello che hai appena detto.»
Lei preferì non ribattere. Suo fratello voleva sempre avere l'ultima parola. C'era da
impazzire.
«Sei riuscita a dormire un po'?» le chiese la mamma.
«Sì, almeno finché non hai preso in pieno quella buca. A proposito, grazie: ho
sfondato il vetro con la testa.»
Sua madre tenne lo sguardo fisso sulla strada.«Noto con piacere che il pisolino ti ha
messo di buonumore.»
Ronnie fece scoppiare il pallone fatto con la gomma da masticare. Era una cosa che
sua madre detestava, proprio per questo lo aveva fatto quasi senza interruzione da
quando avevano imboccato la 1-95. Per lei, l'autostrada era il genere di strada più
noioso mai concepito. A meno di non avere un debole per i cibi unti dei fastfood, i
disgustosi bagni delle aree di servizio e i miliardi di pini che rischiavano di far
addormentare con la loro terribile, ipnotica monotonia.
Ronnie aveva detto queste esatte parole a sua madre in Delaware, Maryland e
Virginia, ma lei l'aveva regolarmente ignorata. A parte lo sforzo di mostrarsi gentile
durante il viaggio, poiché sarebbe stata l'ultima volta che si vedevano per diverso
tempo, la mamma non era molto incline a chiacchierare in macchina. Non le piaceva
guidare, cosa abbastanza naturale, dato che di solito usavano la metropolitana o il taxi
per spostarsi da una parte all'altra della città. Quando erano dentro casa però... era
tutta un'altra storia. Non si faceva problemi ad alzare la voce e per un paio di volte il
portinaio era salito da loro, negli ultimi due mesi, per pregarla di moderare i toni.
Forse era convinta che se avesse urlato più forte per i voti di Ronnie, o per le sue
amicizie, o per il fatto che infrangeva costantemente il coprifuoco, oppure per
l'incidente - soprattutto per l'incidente - sarebbe aumentata la probabilità che Ronnie
l'ascoltasse.
Sì, certo, ammetteva che non era affatto la peggiore delle madri. E nei momenti di
generosità, poteva addirittura spingersi a riconoscere che, anzi, non era niente male.
Eppure sua madre sembrava imprigionata in una bizzarra dimensione temporale in
cui i figli non crescevano mai, e per l'ennesima volta Ronnie rimpianse di essere nata
in agosto anziché in maggio. Quell'anno avrebbe compiuto diciott'anni e sua madre
non avrebbe più potuto costringerla a fare alcunché. Sarebbe stata in grado di
prendere da sola le proprie decisioni.
Ma al momento Ronnie non aveva voce in capitolo, perché aveva ancora diciassette
anni. Per colpa di quello scherzo del calendario. Perché tutto quell'accanimento? Per
quanto avesse implorato, protestato, urlato e piagnucolato a proposito dei progetti per
l'estate, non aveva ottenuto niente. Lei e Jonah avrebbero trascorso l'estate con il loro
papà. Senza se e senza ma, come aveva detto sua madre. Ronnie ormai detestava quel
modo di dire.
Appena superato il ponte, le auto si trovarono imbottigliate nel traffico estivo. Tra le
case che fiancheggiavano la strada, Ronnie scorgeva sprazzi di oceano. Che bellezza.
Come se le importasse.
«Si può sapere perché ci costringi a farlo?» sospirò contrariata.
«Ne abbiamo già parlato», rispose la mamma.«È necessario che trascorriate del
tempo con papà. Sente la vostra mancanza.»
«Ma perché tutta l'estate? Non potevano bastare un paio di settimane?»
«Avete bisogno di molto più che due settimane insieme. Non vi vedete da tre anni.»
«Non è colpa mia. È stato lui ad andarsene.»
«È vero, ma poi tu non hai risposto alle sue telefonate. E tutte le volte che è venuto a
New York a trovare te e Jonah, lo hai ignorato e hai preferito stare con gli amici.»
Ronnie fece scoppiare di nuovo la gomma. Con la coda dell'occhio vide sua madre
trasalire.
«Non voglio vederlo e non voglio parlargli», dichiarò.
«Cercherai di fare del tuo meglio e basta, d'accordo? Tuo padre è una brava persona e
ti vuole bene.»
«È per questo che ci ha lasciato?»
Invece di rispondere la mamma sbirciò nello specchietto retrovisore.
«Tu invece Jonah sei contento di questa vacanza, vero?»
«Scherzi? Sarà fortissimo!»
«Sono felice che tu abbia un atteggiamento positivo. Forse potresti insegnarlo anche a
tua sorella.»
Lui sbuffò.«Sì, certo.»
«Non vedo perché non possa trascorrere l'estate con i miei amici», piagnucolò Ronnie
tornando alla carica. Non si era ancora rassegnata. Pur sapendo di avere scarsissime
possibilità, accarezzava ancora l'illusione di poter convincere la madre a tornare
indietro.
«Vuoi dire che preferiresti passare le serate al club? Non sono nata ieri, Ronnie. So
che cosa succede in posti come quelli.»
«Non faccio niente di male, mamma.»
«E cosa mi dici dei tuoi voti? E del coprifuoco? E...»
«Possiamo cambiare argomento?» la interruppe Ronnie.«Perché è tanto importante
che passi del tempo con papà?»
La madre fece finta di niente. Del resto Ronnie sapeva bene che ne aveva tutte le
ragioni. Aveva già risposto a quella domanda un milione di volte, anche se lei non
voleva accettarlo.
Il traffico si rimise in movimento e l'auto avanzò mezzo isolato prima di bloccarsi di
nuovo. La mamma abbassò il finestrino e cercò di sbirciare oltre la fila di macchine.
«Mi chiedo che cosa sia successo», borbottò.«È tutto intasato.»
«È la spiaggia», spiegò Jonah.«C'è sempre un sacco di gente.»
«Sono le tre di una domenica pomeriggio. Non dovrebbe esserci tutta questa folla.»
Ronnie si abbracciò le ginocchia, odiando la vita. Odiando tutto quanto.
«Senti, mamma», riprese Jonah.«Papà lo sa che Ronnie è stata arrestata?»
«Sì che lo sa», rispose lei.
«Che cosa le farà?»
Questa volta fu Ronnie a rispondere.«Proprio niente. Non gli è mai importato
nient'altro che il pianoforte.»
Ronnie odiava il pianoforte con tutta se stessa e aveva giurato di non suonare più, una
decisione che persino alcuni dei suoi amici più cari trovavano bizzarra, visto che
quello strumento faceva parte della sua vita da quando la conoscevano. Il padre, ex
insegnante alla Juilliard, era stato anche il suo maestro e per molto tempo lei era stata
consumata dal desiderio non solo di suonare, bensì di comporre musica con suo
padre.
Ed era anche brava. Molto brava, in verità, e grazie alle conoscenze del padre, la
direzione e gli insegnanti della celebre scuola erano ben consapevoli delle sue
capacità. La musica classica era alla base della vita del padre di Ronnie. C'erano stati
un paio di articoli su riviste di musica classica e uno abbastanza lungo sul New York
Times, dedicato in primo luogo al rapporto padre-figlia. Il tutto era sfociato in
un'esibizione di giovani talenti alla Carnegie Hall quattro anni prima. Ronnie era
convinta che fosse l'acme della sua carriera. E si era trattato di un exploit, ma non si
faceva illusioni su ciò che aveva ottenuto. Sapeva quanto fosse rara un'occasione
simile e in seguito si era ritrovata a chiedersi se ne fosse valsa la pena. Probabilmente
nessuno, a parte i genitori, ricordava la sua esibizione. O se ne curava. Ronnie aveva
imparato che il talento musicale non significava niente se non pubblicavi un video su
YouTube oppure non ti esibivi di fronte a migliaia di spettatori.
A volte avrebbe desiderato che il padre le avesse insegnato a suonare la chitarra
elettrica. O quanto meno le avesse dato lezioni di canto. Che cosa se ne faceva di
saper suonare il pianoforte? Poteva andare a insegnare musica alla scuola locale?
Oppure suonare in qualche grande albergo? O condurre la vita grama di suo padre?
Bastava guardare dove l'aveva portato il pianoforte: aveva mollato la Juilliard per
intraprendere la carriera di pianista e si era ritrovato a suonare in locali di provincia,
scalcinati e malmessi, davanti a un pubblico che a stento riempiva le prime due file.
Stava lontano da casa quaranta settimane all'anno, abbastanza da compromettere il
matrimonio. Senza sapere come fosse accaduto, Ronnie si era ritrovata con sua madre
che alzava la voce per tutto il tempo, mentre papà si ritirava nel suo guscio come
aveva sempre fatto, finché un giorno non era tornato a casa da una tournée. Per
quanto ne sapeva lei, al momento non lavorava. Non dava neppure lezioni private.
A te come sono andate le cose, papà?
Ronnie non voleva assolutamente essere lì. Dio solo sapeva se voleva avere a che fare
con tutto ciò.
«Ehi, mamma!» esclamò Jonah sporgendosi in avanti.«Che cos'è quella? Una ruota
panoramica?»
La donna guardò nella direzione indicata da Jonah.«Credo di sì, tesoro»,
rispose.«Deve esserci il luna park in città.»
«Possiamo andarci? Dopo cena tutti insieme?»
«Dovrai chiederlo a tuo padre.»
«Come no, e poi magari andiamo in spiaggia e ci sediamo intorno a un falò ad
arrostire marshmallow», dichiarò Ronnie.«Come una bella famiglia felice.»
Questa volta entrambi la ignorarono.
«Pensi che faranno altri giri?» chiese Jonah.
«Sicuramente. E se tuo padre non vuole venire, sono certa che ci verrà tua sorella.»
«Forte!»
Ronnie si accasciò disperata sul sedile.
2.Steve
Steve Miller suonava il pianoforte in attesa dell'imminente arrivo dei figli. Era molto
nervoso.
Lo strumento era collocato in un angolo del piccolo soggiorno del bungalow che era
diventato la sua casa. Alle sue spalle c'erano gli oggetti che rappresentavano la sua
storia personale.
Non era granché. A parte il pianoforte, Kim era riuscita a riunire tutte le sue cose in
un unico scatolone e lui aveva impiegato meno di mezz'ora a metterle a posto. C'era
un'istantanea che lo ritraeva da piccolo con i genitori e un'altra foto di lui adolescente.
Erano collocate ai lati dei due diplomi ottenuti a Chapel Hill e alla Boston University,
mentre sotto faceva bella mostra un attestato della Juilliard per i suoi quindici anni di
insegnamento.
Accanto alla finestra c'erano tre manifesti incorniciati con le date delle sue tournée.
Ma quello che contava di più erano cinque o sei fotografie di Jonah e Ronnie, alcune
incollate alle pareti, altre incorniciate e sistemate sul pianoforte; tutte le volte che le
guardava si ricordava che, nonostante le migliori intenzioni, niente era andato come
si aspettava.
Il sole del tardo pomeriggio entrava di traverso dalle finestre, rendendo soffocante
l'interno del bungalow, e Steve cominciava a sudare. Per fortuna il dolore allo
stomaco era diminuito da quel mattino, ma era nervoso da giorni e sapeva che le fitte
sarebbero tornate. Era sempre stato debole di stomaco; intorno ai vent'anni aveva
sofferto di ulcera ed era stato ricoverato per diverticolosi; verso i trenta aveva subito
un'appendicectomia mentre Kim aspettava Jonah. Ingoiava antidolorifici come se
fossero caramelle, aveva preso delle compresse contro l'acidità per anni, e pur
sapendo che avrebbe potuto mangiare in maniera più sana e fare più esercizio,
dubitava che ne avrebbe tratto giovamento. I problemi di stomaco erano ereditari
nella sua famiglia.
La morte del padre sei anni prima lo aveva cambiato, e dal giorno del funerale aveva
avuto l'impressione che per lui fosse cominciato una specie di conto alla rovescia. In
un certo senso forse era proprio così. Gli avvenimenti si erano susseguiti a distanza di
poco tempo: aveva lasciato il suo lavoro alla Juilliard e scelto di tentare la fortuna
come pianista; lui e Kim avevano deciso di divorziare e un anno più tardi le date delle
tournée avevano iniziato a diminuire, fino a cessare del tutto. Solo da un anno si era
trasferito lì, nel posto dove era cresciuto, un luogo che non avrebbe mai pensato di
rivedere. Ora era in procinto di trascorrere l'estate con i suoi figli e, per quanto si
sforzasse di immaginare che cosa gli avrebbe portato l'autunno una volta che Ronnie
e Jonah fossero tornati a New York, quello che sapeva era soltanto che le foglie si
sarebbero tinte di giallo e poi di rosso, e che avrebbe fatto più fresco. Era da tempo
che aveva smesso di cercare di prevedere il futuro.
La cosa non lo disturbava. Sapeva che le previsioni erano inutili e poi, stentava già a
capire il passato. Tutto quello che poteva dire con certezza di questi tempi era che si
sentiva una persona comune in un mondo che amava ciò che era fuori del comune e
questa consapevolezza gli lasciava una vaga sensazione di delusione per la vita che
aveva condotto. Ma che cosa poteva farci?
A differenza di Kim, che era sempre stata estroversa e socievole, lui fin da ragazzo
aveva avuto l'inclinazione alla solitudine e all'anonimato. Pur avendo un certo talento
come musicista e compositore, difettava del carisma o dell'istrionismo o di quelle
caratteristiche che permettono a un artista di emergere. A volte arrivava ad ammettere
lui stesso di essere stato un osservatore del mondo piuttosto che un partecipante attivo
e, nei momenti di sofferta sincerità, credeva addirittura di avere fallito in tutte le cose
importanti. Aveva quarantotto anni. Il suo matrimonio era naufragato, la figlia lo
evitava, il figlio cresceva senza di lui. Guardando indietro capiva che la colpa era
soltanto sua, ma c'era una cosa che avrebbe voluto sapere più di qualsiasi altra: se per
una persona come lui fosse ancora possibile sperimentare la presenza di Dio.
Dieci anni prima non avrebbe neppure immaginato di porsi un interrogativo del
genere. Neppure due anni prima. Ma a volte gli capitava di pensare che la mezza età
lo aveva reso più riflessivo. Sebbene un tempo avesse creduto che la risposta si
trovasse in qualche modo nella musica che creava, ora sospettava di essersi sbagliato.
Più ci pensava, più si rendeva conto che per lui la musica era sempre stata un mezzo
per astrarsi dalla realtà, piuttosto che per viverla con maggiore intensità. Adesso
sapeva che nascondersi nella musica non aveva tanto a che fare con Dio, quanto
piuttosto con un desiderio egoistico di fuggire da tutto.
Ora era convinto che la risposta si trovasse da qualche parte nel trasporto affettivo
verso i figli, nella sofferenza che lo assaliva quando si svegliava nella casa deserta e
si rendeva conto che non erano con lui. Ma anche in quei momenti, era consapevole
che c'era dell'altro.
E per qualche motivo sperava che i figli l'avrebbero aiutato a trovarlo.
Pochi minuti più tardi, Steve si accorse della station wagon impolverata ferma fuori
casa. Lui e Kim l'avevano acquistata anni prima per i fine settimana e le gite di
famiglia. Distrattamente si chiese se si fosse ricordata di cambiare l'olio prima di
partire. Probabilmente no. Kim non era mai stata portata per certe cose, e se n'era
sempre occupato lui.
Ma quel capitolo della sua vita adesso era concluso.
Si alzò dallo sgabello e nel tempo che impiegò a uscire in veranda, Jonah era già
sceso dall'auto e gli correva incontro. Era spettinato, aveva gli occhiali storti e le
braccia e le gambe sottili come manici di scopa. Steve provò un groppo in gola,
ricordando ancora una volta quante cose si fosse perso negli ultimi tre anni.
«Papà!»
«Jonah!» lo salutò Steve attraversando lo spiazzo sabbioso di fronte alla casa.
Quando gli saltò al collo, dovette fare uno sforzo per non perdere l'equilibrio.
«Come sei cresciuto», osservò.
«Tu invece sei più piccolo!» replicò Jonah.«Sei tutto ossa.»
Steve strinse forte a sé il figlio prima di depositarlo a terra.«Sono felice che siate
arrivati.»
«Anch'io. La mamma e Ronnie non hanno fatto altro che litigare per tutto il viaggio.»
«Non è divertente.»
«Non ti preoccupare. Non ci ho badato. A parte quando le stuzzicavo.»
«Ah», fece Steve.
Jonah si sistemò gli occhiali sul naso.«Perché la mamma non ci ha lasciato venire in
aereo?»
«Glielo hai chiesto?»
«No.»
«Forse avresti dovuto farlo.»
«Non ha importanza. Era una domanda così.»
Steve sorrise. Si era dimenticato di quanto fosse ciarliero suo figlio.
«Ehi, questa è casa tua?»
«Esatto.»
«È un posto fortissimo!»
Steve si chiese se Jonah dicesse sul serio. La casa era tutt'altro che bella. Il bungalow
era probabilmente la costruzione più vecchia di tutta Wrightsville Beach e per di più
era incuneato tra due imponenti edifici sorti negli ultimi dieci anni, che gli davano
un'aria ancora più dimessa. L'intonaco si stava sbriciolando, sul tetto mancavano
parecchie tegole e la veranda era cadente; Steve non si sarebbe sorpreso se fosse stato
spazzato via dal primo intenso temporale, cosa che di sicuro avrebbe fatto la felicità
dei vicini. Da quando si era trasferito lì, nessuna delle due famiglie confinanti gli
aveva rivolto la parola.
«Lo pensi davvero?» domandò.
«Scherzi? È proprio sulla spiaggia. Cos'altro potresti desiderare?» esclamò indicando
l'oceano.«Posso andare a vedere?»
«Certo. Ma fai attenzione. E non allontanarti.»
«Okay.»
Steve lo guardò schizzare via di corsa poi si voltò e vide Kim che lo stava
raggiungendo. Anche Ronnie era scesa dall'auto ma indugiava vicino alla portiera.
«Ciao, Kim», la salutò.
«Steve.» Lo abbracciò brevemente.«Stai bene?» domandò.«Mi sembri sciupato.»
«Sto bene.»
Alle spalle di Kim, Ronnie si avvicinava. Era colpito da quanto fosse cambiata
rispetto all'ultima foto che Kim gli aveva spedito via e-mail. La ragazzina era sparita
e al suo posto c'era una giovane donna con una ciocca viola tra i lunghi capelli
castani, lo smalto nero e l'abbigliamento scuro. Si sorprese a pensare quanto
somigliava a sua madre. Questo era un bene. E comunque era incantevole come
sempre.
Si schiarì la voce.«Ciao, tesoro. Che bello rivederti.»
Di fronte al silenzio di Ronnie, Kim la fulminò con lo sguardo.«Non essere sgarbata.
Tuo padre ti sta parlando. Rispondi.»
Ronnie incrociò le braccia.«E va bene. Che ne dici di questo? Non ho intenzione di
suonare il pianoforte per te.»
«Ronnie!» Steve percepì l'esasperazione di Kim.
«Che cosa c'è?» ribatté la figlia con aria di sfida.«Pensavo fosse meglio chiarirlo
subito.»
Prima che Kim potesse rispondere, Steve la bloccò. L'ultima cosa che desiderava era
litigare.«Non importa, Kim. Lascia stare!»
«Esatto, mamma. Non importa», ripetè Ronnie imbronciata.«Ho bisogno di
sgranchirmi le gambe. Vado a fare due passi.»
Mentre si allontanava frettolosamente, Steve osservò sua moglie lottare contro
l'impulso di richiamarla. Alla fine, però, rimase zitta.
«È stato un viaggio lungo?» chiese nel tentativo di alleggerire la tensione.
«Non te lo puoi nemmeno immaginare.»
Lui sorrise, pensando che, per un attimo, era facile illudersi che fossero ancora
sposati, che facessero ancora parte della stessa squadra, che fossero ancora entrambi
innamorati.
Solo che non era così.
Dopo avere scaricato la macchina, Steve andò in cucina e mise del ghiaccio nei
bicchieri scompagnati che aveva trovato in dotazione in casa.
Udendo Kim entrare, prese una brocca di tè, lo versò nei bicchieri e gliene porse uno.
Sulla spiaggia Jonah giocava con le onde mentre i gabbiani volteggiavano sopra la
sua testa.
«Sembra che si stia divertendo», osservò.
Kim si avvicinò alla finestra.«Sono settimane che è eccitato all'idea di venire qui.»
Esitò.«Gli sei mancato.»
«Anche lui a me.»
«Lo so.» Bevve un sorso di tè prima di guardarsi intorno nella stanza.«Allora è
questo il posto, eh? È... particolare.»
«Particolare... Un modo carino per descriverlo. Presumo che tu ti sia accorta del tetto
malandato e dell'intonaco cadente.»
Kim gli rivolse un sorriso, colta in fallo.
«So che non è granché, ma è tranquillo e posso vedere il sorgere del sole.»
«E la parrocchia ti fa stare qui senza pagare l'affitto?»
Steve annuì.«Questa casa apparteneva a Carson Johnson, un artista locale. Alla sua
morte l'ha lasciata in eredità alla parrocchia. Il pastore Harris mi permette di usarla
finché non la venderanno.»
«Allora, com'è tornare a vivere dove si è nati? Voglio dire, i tuoi genitori abitavano a
tre isolati da qui, giusto?»
«Per la precisione sette, abbastanza vicini. Si sta bene.»
«C'è un sacco di gente adesso. Questo posto è cambiato moltissimo dall'ultima volta
che ci sono stata.»
«Tutto cambia», commentò lui. Si appoggiò al bancone incrociando le
gambe.«Allora, quand'è il grande giorno per te e Brian?» chiese cambiando
argomento.
«Steve... a proposito.»
«È tutto a posto», la rassicurò lui.«Sono contento che tu abbia trovato qualcuno.»
Kim lo guardò stupefatta, riflettendo se prendere quelle parole per buone, oppure
addentrarsi in un territorio più delicato.
«A gennaio», rispose alla fine.«E voglio che tu sappia che con i ragazzi... Brian non
vuole fingere di essere qualcuno che non è. Ti piacerebbe.»
«Ne sono sicuro», disse Steve bevendo un sorso di tè. Posò il bicchiere sul
bancone.«Come l'hanno presa i ragazzi?»
«Jonah sembra trovarlo simpatico, ma è nel suo carattere provare simpatia per
chiunque.»
«E Ronnie?»
«I suoi rapporti con lui sono tali e quali a quelli con te.»
Lui rise, ma poi si accorse della sua espressione preoccupata.«Come sta veramente?»
«Non lo so.» Kim sospirò.«E temo che non lo sappia neppure lei. È nella fase cupa e
ribelle. Ignora il coprifuoco e quando cerco di parlarle la metà delle volte non riesco a
ottenere da lei nient'altro che un 'come vuoi'. Cerco di convincermi che si tratta di un
tipico atteggiamento da adolescente, perché ripenso a come ero io... però...» Scosse la
testa.«Hai visto com'era vestita, no? E poi quei capelli e quell'orribile mascara?»
«Mmm.»
«Dunque?»
«Potrebbe andare peggio.»
Kim fece per ribattere, ma ci rinunciò e Steve capì di avere ragione. Qualunque fase
stesse attraversando, quali che fossero i timori di Kim, Ronnie era pur sempre
Ronnie.
«Immagino di sì», riconobbe alla fine.«So che hai ragione. È solo che è molto
difficile stare con lei ultimamente. Certe volte è carina come un tempo. Per esempio
con Jonah. Sebbene litighino come cane e gatto, lei lo porta sempre al parco nel fine
settimana. E quando ha avuto problemi in matematica lo ha aiutato tutte le sere. La
cosa è strana, perché lei prende voti pessimi. Non te l'avevo detto, ma le ho fatto fare
il test di ammissione al college a febbraio. Ha sbagliato tutte le domande. Sai che
cosa significa sbagliare tutte le domande?»
Steve scoppiò a ridere e Kim si arrabbiò.«Non è affatto divertente.»
«In un certo senso lo è.»
«Tu non hai avuto a che fare con lei negli ultimi tre anni.»
Quel velato rimprovero lo fece tornare serio.«Hai ragione. Scusa.» Prese di nuovo il
bicchiere.«Che cosa ha detto il giudice a proposito del furto?»
«Quello che ti ho riferito per telefono», rispose lei con un'espressione rassegnata.«Se
non si metterà di nuovo nei guai, sarà cancellato dalla sua fedina. Se lo rifacesse...» si
interruppe.
«Sei preoccupata che succeda ancora», dichiarò lui.
Kim distolse lo sguardo.«Non è la prima volta, è questo il problema», confessò.«Ha
ammesso di avere rubato il braccialetto l'anno scorso, ma stavolta ha raccontato che
ha comprato delle cose in profumeria e, poiché non riusciva a tenere tutto in mano, ha
infilato il rossetto in tasca. Ha pagato tutto il resto e, a vedere il video, sembra un
errore innocente, tuttavia...»
«Tu non ne sei convinta.»
Kim non rispose e Steve continuò:«Ha solo commesso un errore. In fondo è una
brava ragazza».
«Questo non significa che sta dicendo la verità.»
«Ma non significa neppure che sta mentendo.»
«Quindi tu le credi?» La sua espressione era un misto di speranza e scetticismo.
Lui vagliò le proprie emozioni circa l'accaduto, come aveva fatto dozzine di volte da
quando Kim gliene aveva parlato.«Sì», dichiarò.«Io le credo.»
«Perché?»
«Perché è una brava ragazza.»
«Come fai a saperlo?» gli domandò lei. Per la prima volta aveva un tono
irato.«Quando hai passato del tempo con lei, era alle medie.» Si voltò, incrociando le
braccia mentre guardava fuori dalla finestra. La sua voce era carica di amarezza
quando riprese a parlare.«Avresti potuto tornare, sai. Avresti potuto insegnare di
nuovo a New York. Non c'era bisogno che viaggiassi per tutto il Paese o che ti
trasferissi qui... Avresti potuto continuare a far parte della loro vita.»
Quelle parole lo ferirono perché sapeva che aveva ragione. Ma non era stato così
semplice prendere quella decisione, per motivi che entrambi capivano, sebbene
nessuno dei due volesse riconoscerlo.
Steve ruppe il silenzio schiarendosi la voce.«Volevo soltanto dire che Ronnie sa
distinguere il bene dal male. Per quanto voglia affermare la propria indipendenza,
continuo a credere che sia la stessa persona di sempre. Per le cose davvero importanti
non è cambiata.»
Prima che Kim potesse trovare il modo di replicare, Jonah piombò in casa eccitato e
con le guance arrossate.
«Mamma! Ho trovato un laboratorio fortissimo! Vieni! Te lo faccio vedere!»
Kim lo guardò stupita.
«È fuori sul retro», spiegò Steve.«Lo vuoi vedere?»
«È bellissimo, mamma!»
Lei guardò alternativamente Steve e Jonah.«No, non importa», rispose.«Mi sembra
più una cosa tra padre e figlio. E poi, devo proprio andare.»
«Di già?» chiese Jonah.
Steve sapeva quanto fosse difficile per Kim, così rispose al suo posto.«La mamma
deve fare un lungo viaggio. E poi, stasera volevo portarvi alle giostre, che ne dici?»
Steve si accorse che il figlio abbassava impercettibilmente le spalle.
«Penso che vada bene», rispose.
Ronnie non era ancora ricomparsa e, secondo Kim, era improbabile che tornasse
entro breve tempo, perciò salutò Jonah e Steve che furono liberi di raggiungere il
laboratorio, un annesso con il tetto di lamiera che faceva parte della proprietà.
Negli ultimi tre mesi Steve aveva trascorso lì gran parte dei pomeriggi, circondato da
cianfrusaglie e sottili lastre di vetro colorato che ora Jonah stava esaminando. In
mezzo al locale c'era un grosso tavolo da lavoro con una vetrata in costruzione, ma
Jonah sembrava molto più interessato ai bizzarri animali impagliati sparsi sugli
scaffali, che appartenevano al precedente proprietario. Era difficile non restare
incantati di fronte alla creatura mezzo scoiattolo e mezzo pesce, oppure alla testa di
opossum fissata su un corpo di gallina.
«Che cos'è questa roba?» chiese Jonah.
«Viene considerata arte.»
«Ma io credevo che l'arte fossero dipinti e cose simili.»
«Infatti, ma è anche altro.»
'
Jonah fece una smorfia fissando il mezzo coniglio e mezzo serpente.«A me non
sembra arte.»
Steve sorrise e Jonah indicò la vetrata sul tavolo da lavoro.«Anche questa è opera
sua?» si informò.
«No. La sto facendo io per la chiesa in fondo alla via. È bruciata l'anno scorso e la
vetrata originale è stata distrutta dal fuoco.»
«Non sapevo che fossi capace di fare vetrate.»
«Che tu ci creda o no, è stato l'artista che abitava qui a insegnarmelo.»
«Il tizio che ha fatto quegli animali?»
«Proprio lui.»
«Lo conoscevi?»
Steve raggiunse il figlio davanti al tavolo.«Da bambino mi piaceva venire qui di
nascosto quando avrei dovuto essere al catechismo. Era lui a creare le vetrate per
quasi tutte le chiese della zona. Vedi quella foto appesa al muro?» Steve indicò una
piccola fotografia di un Cristo risorto attaccata a uno degli scaffali, confusa in mezzo
al caos generale.«Spero che una volta finita sia come quella.»
«Forte», disse Jonah, e Steve sorrise.
«Mi vuoi aiutare?»
«Posso?»
«Ci contavo.» Steve gli diede un buffetto affettuoso.«Ho bisogno di un bravo
assistente.»
«È difficile?»
«Io ho cominciato alla tua età, quindi sono sicuro che ci riuscirai anche tu.»
Jonah sollevò con cautela un pezzo di vetro e lo esaminò sotto la luce, l'espressione
attenta.«Anch'io sono sicuro di potercela fare.»
Steve sorrise.«Vai sempre in chiesa?» domandò.
«Sì. Ma non la stessa che frequentavamo insieme. È quella dove va Brian. E Ronnie
non viene sempre con noi. Si chiude in camera sua e si rifiuta di uscire, ma non
appena ce ne siamo andati, va fuori con gli amici. La mamma è furibonda.»
«Succede quando i bambini diventano ragazzi. Mettono alla prova i genitori.»
Jonah posò il vetro sul tavolo.«Io non lo farò», disse.«Sarò sempre bravo. Ma la
nuova chiesa non mi piace molto. È noiosa. Potrei smettere di andarci!»
«Mi sembra giusto!» Steve fece una pausa.«La mamma mi ha detto che in autunno
non ricomincerai a giocare a calcio.»
«Non sono molto bravo.»
«E allora? È divertente, no?»
«Non molto se gli altri ragazzi ti prendono in giro.»
«E quello che succede a te?»
«Non ha importanza. Non mi dà fastidio.»
«Ah», fece Steve.
Jonah si dondolò sui piedi, chiaramente in difficoltà.«Ronnie non ha letto nessuna
delle tue lettere, papà. E non vuole più nemmeno suonare il pianoforte.»
«Lo so.»
«La mamma dice che è per colpa della SPM.»
Steve trattenne a stento una risata, ma rimase serio.«Sai almeno che cosa significa?»
Jonah si aggiustò gli occhiali sul naso.«Non sono più un bambino. Significa
Sindrome Pericolo Maschi.»
Steve rise, spettinando la chioma di Jonah.«Che ne dici di andare a cercare tua
sorella? Mi pare di averla vista dirigersi verso le giostre.»
«Possiamo andare sulla ruota panoramica?»
«Tutto quello che vuoi.»
«Forte!»
3.Ronnie
Il luna park era affollato, o meglio, si corresse Ronnie, la«Sagra del pesce» di
Wrightsville Beach lo era. Mentre prendeva un bicchiere di aranciata a uno dei
chioschi, osservò la fila di macchine parcheggiate lungo le strade che portavano al
molo.
Non capiva tutta quell'animazione dal momento che non c'era granché da vedere. Per
un attimo aveva sperato che il molo offrisse negozi e grandi magazzini come la
passeggiata di Atlantic City, e che quello fosse il genere di posto dove bazzicare
durante l'estate. Purtroppo non c'era niente di tutto questo. Il luna park era allestito
temporaneamente nel parcheggio in fondo al molo e, a parte quello, non c'erano altre
attrazioni.
Tuttavia, nessuno sembrava condividere la sua opinione. C'era un sacco di gente.
Vecchi e giovani, famiglie, frotte di ragazzi. Non importava in quale direzione
andasse, le sembrava sempre di avanzare controcorrente in quella marea di corpi.
Scorgendo un varco, si allontanò dalle giostre e si diresse verso il molo. Per fortuna la
folla continuava a diradarsi a mano a mano che procedeva oltre le bancarelle che
vendevano oggetti di artigianato. Non c'era niente che le piacesse, figurarsi se
avrebbe comperato uno gnomo realizzato interamente con conchiglie. Ma era
evidente che gli acquirenti non mancavano, altrimenti quelle bancarelle non ci
sarebbero state.
Senza prestare troppa attenzione a dove andava, finì contro un tavolo presieduto da
un'anziana signora seduta su una sedia pieghevole. Indossava una camicia con un
logo strano e aveva la chioma candida e una faccia aperta e allegra, proprio il genere
di nonna che t'immagini intenta a preparare biscotti la vigilia di Natale, pensò
Ronnie. Sul banco di fronte a lei c'erano dei volantini e un barattolo per le offerte,
insieme con un grosso scatolone di cartone. All'interno quattro cagnolini grigi
giocavano e uno si sollevò sulle zampe posteriori per guardarla oltre il bordo della
scatola.
«Ciao, piccolino», lo salutò Ronnie.
La donna le sorrise.«Vuoi prenderlo in braccio? È quello più agitato. Io lo chiamo
Seinfeld.»
Il cucciolo emise un guaito.
«No grazie, non importa.» Era carino, però. Davvero carino, anche se a suo parere
quel nome non gli si addiceva. In effetti le sarebbe piaciuto prenderlo in braccio, ma
sapeva che poi non avrebbe più voluto metterlo giù. Aveva un debole per gli animali,
in particolare per quelli abbandonati. Come quei cuccioli.«Ce la faranno, vero? Non
sarà costretta a sopprimerli?»
«Andrà tutto bene», le assicurò la donna.«È per questo che abbiamo allestito lo stand.
Per fare in modo che la gente li adotti. Lo scorso anno abbiamo trovato una casa a più
di trenta animali e questi quattro sono già stati prenotati. Sto aspettando che i loro
nuovi padroni vengano a prenderli. Ma ce ne sono altri al rifugio, se ti interessano.»
«Sono qui in vacanza», rispose Ronnie, mentre un boato esplose dalla spiaggia. Si
guardò intorno.«Che cosa succede? C'è un concerto?»
La donna fece cenno di no.«Beach volley. Giocano da ore, una specie di torneo.
Dovresti andare a vedere. Li ho sentiti schiamazzare tutto il giorno, quindi immagino
che le partite siano avvincenti.»
Ronnie ci pensò su, dicendosi, perché no? Di certo non poteva essere più noioso di
quello che succedeva lì. Depose un paio di dollari nel barattolo della beneficenza, poi
si diresse verso la scaletta.
Il sole stava tramontando e ricopriva l'oceano di una patina d'oro liquido. In spiaggia,
c'erano ancora delle famiglie che si attardavano sul bagnasciuga, accanto a qualche
castello di sabbia in procinto di essere spazzato via dall'alta marea.
Mentre si avvicinava al campo, Ronnie notò che tutte le ragazze che assistevano alla
partita avevano lo sguardo fisso sui due giocatori sulla destra. Niente di che
sorprendersi. I due - suoi coetanei? Più grandi? - appartenevano alla categoria che la
sua amica Kayla chiamava«caramelle per gli occhi». Sebbene nessuno dei due fosse
esattamente il tipo di Ronnie, era impossibile non ammirare il loro fisico slanciato e
muscoloso e il loro modo di muoversi fluidi sulla sabbia.
In particolare quello più alto, con i capelli scuri e un braccialetto al polso. Kayla di
sicuro lo avrebbe puntato -aveva un debole per quelli alti - nello stesso modo in cui lo
stava puntando la bionda in bikini dall'altro lato del campo. Ronnie aveva notato la
ragazza e la sua amica. Erano entrambe magre e carine, con denti di un bianco
accecante, e abituate a essere al centro dell'attenzione e ad avere uno stuolo di ragazzi
che sbavavano per loro. Si tenevano un po' in disparte e tifavano in maniera
composta, probabilmente per non rovinarsi l'acconciatura. Tanto valeva che si
mettessero dei cartelli con su scritto«Guardare ma non toccare». Ronnie non le
conosceva e già le detestava.
Rivolse l'attenzione al gioco proprio nel momento in cui i due ragazzi carini facevano
l'ennesimo punto. Poi un altro. E un altro ancora. Non sapeva quale fosse il
punteggio, ma era chiaro che erano la squadra migliore. E tuttavia, mentre li
guardava, in silenzio cominciò a tifare per gli altri. Non era solo perché, a priori, si
metteva sempre dalla parte del più debole, quanto per via del fatto che la coppia
vincente le ricordava gli studenti della scuola privata che a volte incrociava nei bar,
ragazzi che frequentavano scuole molto prestigiose e che si credevano migliori di
tutti gli altri semplicemente perché i loro padri facevano gli agenti di borsa. Era
pronta a scommettere qualunque cosa che quei due appartenevano all'elite locale.
I suoi sospetti furono confermati dopo il punto successivo, quando il compagno del
tizio con i capelli scuri ammiccò alla Barbie abbronzata amica della bionda mentre si
preparava al servizio. Era evidente che i ragazzi bene si conoscevano tra loro. Come
mai la cosa non la sorprendeva?
Il gioco ben presto non le interessava più, così si voltò per andarsene proprio mentre
un'altra battuta superava di slancio la rete. Udì confusamente un grido mentre la
squadra avversaria si preparava a rispondere, poi, fatti solo pochi passi, gli spettatori
intorno a lei cominciarono a spintonarsi, facendole perdere l'equilibrio per un istante.
Un istante di troppo.
Si voltò appena in tempo per vedere uno dei giocatori correre a tutta velocità verso di
lei, la testa girata per seguire la traiettoria della palla. Non ebbe il tempo di reagire e
lui le fu addosso. Sentì che l'afferrava per le spalle, nel tentativo di fermare il proprio
slancio e impedirle di cadere. L'impatto la fece piroettare su se stessa e il coperchio
del bicchiere di carta che aveva in mano schizzò in aria mentre l'aranciata le
inzuppava il viso e la maglietta.
E poi, di colpo, tutto finì. Mettendo a fuoco, vide il ragazzo con i capelli scuri che la
fissava spaventato.
«Stai bene?» ansimò.
Imbrattata di aranciata, udì una risata scoppiare tra il pubblico. In effetti, perché non
avrebbero dovuto ridere?
«Sto bene», rispose secca.
«Ne sei sicura?» chiese il giovane preoccupato. Per quel che valeva, sembrava
sinceramente pentito.«Ti ho praticamente investito.»
«Sì, e ora lasciami andare», disse a denti stretti.
Non si era accorto che le stava ancora stringendo le spalle, e subito tolse le mani.
Fece un passo indietro e si toccò il braccialetto rigirandolo imbarazzato.«Mi spiace
davvero. Volevo prendere la palla e...»
«Lo so che cosa volevi fare», ribatté lei.«Sono sopravvissuta, come vedi.»
Detto questo, si girò, desiderando allontanarsi il più presto possibile da lì. Alle sue
spalle udì qualcuno gridare:«Dai, Will! Torna a giocare!» E, mentre si faceva largo tra
la folla, era consapevole di avere lo sguardo del ragazzo addosso.
La maglietta non era rovinata, per fortuna. Vi era affezionata perché era un ricordo
del concerto dei Fall Out Boy dove era andata di nascosto l'anno prima con Rick. Sua
madre aveva dato fuori di matto quando l'aveva scoperto, e non soltanto perché Rick
aveva una ragnatela tatuata sul collo e più piercing alle orecchie persino della sua
amica Kayla, ma perché le aveva mentito ed era rincasata solo il pomeriggio
successivo, dato che dopo il concerto erano finiti a casa del fratello di Rick a
Filadelfia. La mamma le aveva vietato di rivedere Rick e anche di parlargli, divieto
che Ronnie aveva infranto il giorno dopo.
In realtà non amava quel ragazzo, anzi francamente non le piaceva granché, ma era
arrabbiata con sua madre, e in quel momento le sembrava giusto così. Tuttavia,
quando era arrivata a casa di Rick e lo aveva trovato di nuovo sballato e sbronzo,
come al concerto, si era resa conto che se avesse continuato a frequentarlo lui avrebbe
insistito per farle provare quello che prendeva, proprio come aveva fatto la sera
prima.
Non era un'ingenua a proposito di droghe. Qualche sua amica fumava, altre si
facevano di cocaina o di ecstasy, e una addirittura di metadone. Tutti bevevano nei
fine settimana, a parte lei. Nei club e alle feste le veniva regolarmente offerto di tutto.
Ronnie non voleva fare la fine di Kayla l'inverno precedente. Qualcuno, Kayla non
aveva mai scoperto chi, le aveva messo nel bicchiere del GHB, la cosiddetta droga
dello stupro, e, pur avendo solo un vago ricordo di ciò che era accaduto in seguito,
era abbastanza sicura di essere stata in una camera con tre ragazzi conosciuti per la
prima volta quella sera. Quando si era svegliata il mattino seguente, i suoi vestiti
erano sparsi in giro. Kayla non aveva più parlato della cosa, preferiva fingere che non
fosse mai successo niente, e si era pentita di essersi confidata con Ronnie, ma non era
difficile saltare alle conclusioni.
Raggiunta l'estremità del molo, posò il bicchiere mezzo vuoto per terra e si tamponò
la maglietta con un fazzolettino di carta.
Ma perché quel tizio non aveva sbattuto contro un'altra persona? Lei si trovava lì da
quanto, dieci minuti? Quante probabilità c'erano che si girasse nell'istante in cui la
palla volava dalla sua parte? E che si trovasse con un bicchiere di aranciata in mezzo
alla folla a guardare una partita di pallavolo che non le interessava, in un posto dove
non voleva stare? Una cosa del genere non sarebbe potuta accadere di nuovo neppure
in un milione di anni. Con simili probabilità avrebbe dovuto comprare un biglietto
della lotteria.
E poi c'era il tizio che l'aveva investita. Capelli e occhi scuri, carino. Visto da vicino,
in realtà era molto più che carino, soprattutto con quell'espressione preoccupata.
Nell'attimo in cui i loro sguardi si erano incontrati, lei aveva provato una strana
sensazione.
Ronnie scosse la testa, per scacciare quelle idee assurde. Doveva essersi presa
un'insolazione. Soddisfatta del risultato ottenuto con il fazzoletto, prese il bicchiere.
Voleva buttarlo via ma, come si voltò, il bicchiere finì schiacciato tra lei e qualcun
altro. Stavolta non accadde nulla al rallentatore; l'aranciata si versò all'istante sulla
maglietta.
Si bloccò, fissando incredula la sua T-shirt. È uno scherzo.
Di fronte a lei c'era una ragazza della sua età con in mano una lattina di Coca,
l'espressione stupita quanto lei. Era vestita di nero e dei riccioli scuri e scomposti le
circondavano il viso. Come Kayla, aveva almeno cinque o sei buchi per ogni
orecchio; due teschi in miniatura che le pendevano dai lobi, mentre l'ombretto e
l'eyeliner scuri le davano un aspetto quasi spettrale. Le ultime gocce di aranciata
penetravano nella maglietta di Ronnie e la ragazza con il look gotico indicò la
macchia con la lattina.
«Un bel casino», disse.
«Credi?»
«Se non altro adesso è uniforme.»
«Ah, ho capito. Volevi essere spiritosa.»
«Più che altro ironica.»
«Allora avresti dovuto dire qualcosa come: «Forse faresti meglio a usare i bicchieri
ermetici con la cannuccia incorporata».»
La ragazza scoppiò in una risata incredibilmente femminile.«Non sei di queste parti,
vero?»
«No, sono di New York. Sono venuta a trovare mio padre.»
«Per il weekend?»
«Per tutta l'estate.»
«Questo sì che è un bel casino.»
Stavolta toccò a Ronnie scoppiare a ridere.«Mi chiamo Ronnie. Sta per Veronica.»
«Io sono Blaze.»
«Blaze?»
«In realtà mi chiamo Galadriel. Come il personaggio del Signore degli Anelli. È colpa
di mia madre.»
«Meno male che non ti ha chiamata Gollum.»
«Oppure Ronnie.» Inclinando la testa, indicò una bancarella alle sue spalle.«Se vuoi
qualcosa di asciutto, lì vendono delle magliette di Nemo.»
«Nemo?»
«Sì, Nemo. Il cartone animato. Il pesce pagliaccio, quello bianco e arancione. Finisce
in un acquario e suo padre si mette a cercarlo.»
«Non voglio una maglietta di Nemo.»
«Nemo è forte.»
«Forse quando hai sei anni», ribatté Ronnie.
«Come vuoi.»
Prima che avesse il tempo di rispondere, Ronnie notò tre ragazzi che si facevano
largo tra la folla. Si notavano per i calzoncini strappati e i tatuaggi che gli coprivano
il petto nudo sotto i giubbotti di pelle. Uno aveva un piercing al sopracciglio e
reggeva un antiquato e ingombrante stereo portatile; l'altro aveva una cresta
ossigenata e le braccia coperte di tatuaggi. Il terzo, come lei, aveva lunghi capelli neri
che risaltavano sull'incarnato latteo. Ronnie si girò verso Blaze, ma rimase sorpresa
di scoprire che era sparita. Al suo posto c'era Jonah.
«Cos'è successo alla tua maglietta?» le chiese.«È bagnata e appiccicosa.»
Ronnie si guardò in giro alla ricerca di Blaze, domandandosi dove fosse finita. E
perché.«Vattene!»
«Papà ti sta cercando. Penso che voglia che torni a casa.»
«Dov'è?»
«Sarà qui a momenti.»
«Digli che non mi hai trovato.»
Jonah ci pensò su.«Cinque dollari.»
«Che cosa?»
«Dammi cinque dollari e mi scorderò di averti vista.»
«Dici sul serio?»
«Non ti resta molto tempo», ribatté lui.«Ora sono diventati dieci.»
Alle spalle di Jonah, Ronnie notò il padre che si guardava intorno tra la gente.
Istintivamente si abbassò, sapendo che non sarebbe stato facile sfuggirgli. Lanciò
un'occhiata torva al fratello. Gli voleva bene e sapeva che in un mondo perfetto
sarebbe stato dalla sua parte. «Ti odio, lo sai?» gli disse.
«Sì, anch'io ti odio. Però ti costerà lo stesso dieci dollari.»
«Non possiamo fare cinque?»
«Dovevi pensarci prima, ma il tuo segreto è al sicuro con me.»
Il padre non li aveva ancora individuati, ma si stava avvicinando.
«Va bene», sbuffò lei infilando la mano in tasca. Gli passò una banconota stropicciata
che Jonah intascò prontamente. In quel momento il padre si stava dirigendo verso di
loro, girando la testa da una parte all'altra, allora lei si nascose dietro una bancarella.
Con sorpresa, trovò Blaze che fumava una sigaretta appoggiata alla parete laterale del
chiosco.
La ragazza fece una smorfia. «Problemi con il papino?»
«Come faccio a filarmela da qui?»
«Dipende da te.» Blaze alzò le spalle. «Ma lui sa che maglietta indossi!»
Un'ora più tardi Ronnie era seduta accanto a Blaze su una panchina in fondo al molo,
ancora contrariata, ma non come prima. Blaze si era rivelata un'ottima ascoltatrice,
anche se dotata di un perverso senso dell'umorismo, e soprattutto sembrava amare
New York almeno quanto Ronnie, nonostante non ci fosse mai stata.
Le fece le domande di prammatica: su Times Square, l'Empire State Building e la
Statua della Libertà, trappole per turisti che Ronnie cercava di evitare accuratamente.
Tuttavia le rispose con garbo, prima di descriverle l'autentica New York: i club di
Chelsea, la scena musicale di Brooklyn, i venditori ambulanti di Chinatown, dov'era
possibile comprare registrazioni pirata e borse contraffatte per pochi dollari.
Parlando di queste cose, le venne un desiderio struggente di tornare a casa subito.
Avrebbe voluto andare dovunque, piuttosto che restare lì.
«Neppure io sarei voluta venire qui», concordò Blaze. «Fidati, è noioso.»
«Da quanto vivi qui?»
«Praticamente da una vita. Ma se non altro i miei vestiti sono decenti.»
Ronnie aveva comprato quella stupida maglietta di Nemo, sapendo di essere ridicola.
L'unica taglia che aveva trovato era una extralarge e le arrivava quasi alle ginocchia.
L'unico aspetto positivo era stato che, una volta indossatala, era riuscita a passare in
incognito davanti a suo padre. Blaze aveva avuto ragione su questo.
«Qualcuno mi aveva detto che Nemo era forte.»
«Mentiva.»
«Perché continuiamo a restare qui? Probabilmente mio padre se n'è andato ormai.»
Blaze si voltò a guardarla. «Perché? Vuoi forse tornare al luna park? Magari fare un
giro nella casa stregata?»
«No. Ma sicuramente ci sarà dell'altro.»
«Non ancora. Più tardi sì. Ma per adesso ci tocca aspettare.»
«Che cosa?»
Blaze non rispose. Invece si alzò e si girò verso l'acqua quasi nera. La brezza le
agitava i capelli e lei sembrava guardare la luna. «Ti ho vista, prima.»
«Quando?»
«Alla partita di beach volley.» Indicò il molo.«Io ero laggiù.»
«E ?»
«Sembravi fuori luogo.»
«Come te.»
«Ecco perché io stavo sul molo.» Con un balzo si mise a sedere sulla balaustra di
fronte a Ronnie.«So che non vorresti stare qui, ma che cosa ti ha fatto tuo padre per
detestarlo tanto?»
Ronnie si asciugò i palmi sui calzoni.«È una lunga storia.»
«Vive con la sua fidanzata?»
«Non credo che ne abbia una. Perché?»
«Puoi ritenerti fortunata.»
«Ma di che cosa stai parlando?»
«Mio padre vive con la fidanzata. È la terza da quando ha divorziato e finora è la
peggiore. Ha soltanto pochi anni più di me e si veste come una spogliarellista. A
quanto ne so lo era. Tutte le volte che devo andare lì sto male. Sembra che non sappia
come comportarsi quando ci sono io. Un attimo prima cerca di darmi consigli come
se fosse mia madre, e subito dopo vuole essere la mia migliore amica. La odio.»
«Tu stai con tua mamma?»
«Sì. Ma adesso anche lei ha un fidanzato che sta sempre a casa. Ed è una pena. Porta
un ridicolo parrucchino e continua a ripetermi che dovrei iscrivermi al college. Come
se mi importasse quello che pensa lui. È un gran casino, capisci?»
Prima che Ronnie potesse rispondere, Blaze balzò in piedi.«Andiamo. Credo che
siano pronti. È uno spettacolo che non puoi perderti.»
Ronnie la seguì verso una folla riunita intorno a una sorta di spettacolo di strada.
Sbigottita, si rese conto che gli artisti erano i tre tipi strani di prima. Due di loro
ballavano la break-dance su una musica che usciva assordante dallo stereo, mentre
quello con i capelli lunghi stava al centro e lanciava in aria quelle che sembravano
palline da golf infuocate. Di tanto in tanto si fermava e teneva una pallina in mano,
facendola ruotare tra le dita, oppure lasciandola rotolare sul dorso della mano o sulle
braccia. Per due volte chiuse il pugno intorno alla sfera infuocata fin quasi a
spegnerla, poi aprì la mano, lasciando che le fiamme fuoriuscissero tra le dita.
«Lo conosci?» chiese Ronnie.
Blaze annuì.«È Marcus.»
«Si è messo una specie di pellicola protettiva sulle mani?»
«No.»
«E non gli fa male?»
«No, basta che tieni la pallina nel modo giusto. È forte, non trovi?»
Ronnie dovette concordare. Marcus spense due palline poi le riaccese avvicinandole
alla terza. Per terra era posato un cilindro da prestigiatore rovesciato e Ronnie vide
molte persone gettarci delle monete.
«Dove prende quelle palline? Non sono palline da golf, giusto?»
«Se le fabbrica da solo. Posso mostrarti come. Non è difficile. Basta una maglietta di
cotone, ago, filo e un liquido infiammabile», rispose Blaze.
Marcus lanciò le tre palline infuocate al ragazzo con la cresta e ne accese altre due.
Cominciarono a tirarsele a vicenda, come due clown che giocano con i birilli, sempre
più veloci, sino a quando uno dei due mancò la presa.
Soltanto che non era così. Il ragazzo con il piercing al sopracciglio l'afferrò con i
piedi e cominciò a palleggiare con estrema disinvoltura. Dopo avere spento tre delle
palline, fu la volta delle ultime due, che i tre presero a lanciarsi tra di loro. Il pubblico
si mise ad applaudire e i soldi cominciarono a piovere nel cilindro, mentre la musica
raggiungeva il culmine. E poi, d'un tratto, le due palline di fuoco restanti furono
bloccate e spente contemporaneamente, mentre la canzone si avviava alla sua
tumultuosa conclusione.
Ronnie ammise di non avere mai visto niente del genere. Marcus si avvicinò a Blaze
e le dette un lungo bacio appassionato, poi fissò Ronnie, prima di spingere Blaze
lontano da sé.
«Chi è quella?» domandò indicandola.
«Si chiama Ronnie», rispose Blaze.«È di New York. L'ho appena conosciuta.»
Cresta e Sopracciglio Bucato si unirono a Marcus e Blaze nel loro penetrante esame
di Ronnie, facendola sentire decisamente a disagio.
«New York, eh?» commentò Marcus tirando fuori un accendino dalla tasca e dando
fuoco a una delle palline. Tenne la sfera infuocata immobile tra il pollice e l'indice, e
ancora una volta Ronnie si chiese come facesse a non bruciarsi.
«Ti piace il fuoco?» gridò Marcus. Poi, senza aspettare una risposta, lanciò la pallina
verso di lei. Ronnie si scostò con un balzo, troppo sbigottita per rispondere. La
pallina rimbalzò alle sue spalle, proprio mentre un poliziotto si precipitava a
spegnerla con il piede.
«Voi tre», apostrofò i ragazzi.«Fuori. Subito. Vi ho già detto prima che non potete
fare il vostro spettacolo sul molo, e la prossima volta che vi trovo qui, vi sbatto
dentro!»
Marcus alzò le mani e fece un passo indietro.«Ce ne stavamo andando.»
Raccolsero i giubbotti e s'incamminarono sul molo, diretti alle giostre. Blaze li seguì,
lasciando Ronnie da sola. Lei sentiva lo sguardo del poliziotto su di sé, ma fece finta
di niente e, dopo un breve istante di esitazione, si unì al gruppo.
4.Marcus
Sapeva che li avrebbe seguiti. Succedeva sempre., Soprattutto con le ragazze nuove
in città. Con loro era-sempre la stessa storia: peggio le trattava, più lo desideravano.
Erano stupide e basta. Prevedibili e stupide.
Si appoggiò contro la fioriera di fronte all'hotel, con Blaze avvinghiata a lui.
Ronnie era seduta di fronte a loro su una panchina; a una certa distanza, Teddy e
Lance borbottavano sottovoce cercando di attirare l'attenzione delle ragazze che
passavano. Erano già sbronzi e come al solito nessuna di loro li guardava.
Blaze gli stava mordicchiando il collo, ma lui faceva finta di niente. Era stufo di
come gli stava sempre appiccicata specialmente quando erano in pubblico. Era stufo
di lei in generale. Se non fosse stata così brava a letto, se non avesse saputo che cosa
lo eccitava sul serio, l'avrebbe già scaricata un mese fa a favore di una delle quattro o
cinque altre ragazze con cui andava regolarmente a letto. Ma in quel momento non lo
interessavano neppure loro. Invece fissava Ronnie, attratto dalla ciocca di capelli
viola e dal suo sguardo. Aveva uno stile sofisticato e disinibito, nonostante la stupida
maglietta che indossava. Gli piaceva. Gli piaceva parecchio.
Con un movimento delle anche allontanò Blaze, infastidito dalla sua presenza lì.«Vai
a prendermi delle patatine», disse.«Ho fame.»
Blaze si staccò.«Mi sono rimasti solo un paio di dollari.»
Lui colse il tono lamentoso della sua voce.«E allora? Dovrebbero bastare. E non
mangiartele tu!»
Stava dicendo sul serio. Blaze ultimamente aveva messo su un po' di pancetta, ed era
più paffuta in viso. Non c'era da sorprendersi, visto che ormai beveva almeno quanto
Teddy e Lance.
Blaze mise il broncio, ma Marcus le diede una spintarella e lei si avviò verso una
bancarella. C'erano almeno sei o sette persone in fila e, quando si mise in coda,
Marcus si avvicinò baldanzoso a Ronnie e si sedette accanto a lei. Abbastanza vicino,
ma non troppo. Blaze era un tipo geloso e non voleva che mandasse via Ronnie prima
che avesse avuto modo di conoscerla meglio.
«Come ti è sembrato?» chiese.
«Che cosa?»
«Lo spettacolo. Avevi mai visto niente del genere a New York?»
«No», ammise lei.
«Dove abiti?»
«Un po' più avanti sulla spiaggia.» Dalla sua risposta lui comprese che era a disagio,
probabilmente perché Blaze si era allontanata.
«Blaze mi ha detto che hai seminato tuo padre.»
Per tutta risposta lei alzò le spalle.
«Non ne vuoi parlare?»
«Non c'è niente da dire.»
Lui si appoggiò alla spalliera.«Forse non ti fidi di me.»
«Ma che stai dicendo?»
«Che ne parleresti con Blaze, ma non con me.»
«Non ti conosco nemmeno.»
«Non conosci neanche Blaze, se è per questo. L'hai appena incontrata.»
A Ronnie non piacevano quei discorsi, ed era convinta che la cosa non lo riguardasse.
Ma per accontentarlo, tirò fuori la stessa risposta che aveva confezionato da quando
aveva scoperto di dover passare l'estate lì.«Non volevo parlargli, va bene? E non
voglio passare l'estate qui.»
Lui si scostò i capelli dagli occhi.«Allora vattene.»
«Certo, come no. Dove dovrei andare?»
«Andiamo in Florida.»
Lei sgranò gli occhi.«Che cosa?»
«Conosco un tizio che sta appena fuori Tampa. Se vuoi ti ci porto. Possiamo fermarci
lì tutto il tempo che vogliamo. Ho la macchina da quella parte.»
Lei spalancò la bocca, più per lo choc che per il desiderio di rispondere. Non sapeva
neppure che cosa dire. L'idea stessa era ridicola... come il fatto che lui l'avesse
proposta.«Non posso venire in Florida con te. Ci... ci siamo appena conosciuti. E poi
c'è Blaze.»
«Che cosa c'entra lei?»
«Stai con lei.»
«E allora?» Lui mantenne un'espressione neutra.
«È un'assurdità.» Si alzò in piedi.«Vado a vedere che cosa sta combinando Blaze.»
Marcus infilò la mano in tasca e tirò fuori una pallina.«Stavo scherzando!»
In realtà non era così. L'aveva detto per lo stesso motivo per cui le aveva lanciato la
pallina accesa. Per vedere fino a che punto poteva spingersi con lei.
«Sì, certo! Comunque vado lo stesso da lei.»
Marcus la guardò allontanarsi a grandi passi. Aveva carattere, ma non sapeva bene
che cosa pensare di lei. Diversamente da Blaze, non fumava né mostrava interesse per
le feste e lui aveva la sensazione che ci fosse ben altro rispetto a ciò che dava a
vedere. Si chiese se fosse piena di grana. Avrebbe avuto senso, no? Appartamento a
New York, casa sulla spiaggia... La famiglia doveva essere ricca, per permettersi certe
cose. Tuttavia... non ce la vedeva proprio a frequentare la gente del posto con i soldi,
almeno quella che conosceva lui. Allora? Che cosa doveva pensare? E perché era
importante?
Perché non gli piacevano le persone con i soldi, non gli piaceva il loro modo di darsi
delle arie, e non gli piaceva il loro modo di pensare di essere superiori agli altri per
questo. Una volta, prima di mollare gli studi, aveva sentito un ragazzo ricco a scuola
che parlava della nuova barca ricevuta in regalo per il compleanno. Non si trattava di
una qualsiasi; era un Boston Whaler da sei metri con GPS e sonar, e il ragazzo
continuava a vantarsi che l'avrebbe usata tutta l'estate e l'avrebbe ormeggiata al
porticciolo del country club.
Tre giorni più tardi, Marcus aveva dato fuoco alla barca e l'aveva guardata bruciare
nascosto dietro la magnolia alla sedicesima buca.
Gli erano sempre piaciuti gli incendi. Gli piaceva lo scompiglio che provocavano, la
loro forza incontenibile e il modo in cui consumavano e distruggevano.
Non aveva rivelato a nessuno ciò che aveva fatto. Dirlo a una persona soltanto,
sarebbe stato come confessarlo ai poliziotti. Teddy e Lance ne erano un esempio:
bastava metterli in gattabuia e sarebbero crollati non appena la porta si fosse chiusa.
Era per questo che adesso li obbligava a fare tutto il lavoro sporco. Il modo migliore
per assicurarsi che non parlassero era renderli più colpevoli di lui. Perciò erano loro
che rubavano da bere, o che picchiavano il tizio calvo all'aeroporto prima di sottrargli
il portafoglio. Non che si fidasse troppo di loro, né li trovava particolarmente
simpatici, ma erano sempre d'accordo con i suoi progetti. Erano utili allo scopo.
Alle sue spalle Teddy e Lance continuavano a comportarsi da idioti quali erano, e ora
che Ronnie se n'era andata, Marcus si sentiva inquieto. Non aveva intenzione di
starsene seduto lì tutta la notte a fare niente. Avrebbe aspettato il ritorno di Blaze,
mangiato le patatine e poi sarebbe andato a fare un giro. Per vedere se saltava fuori
qualcosa. Non si poteva mai sapere che cosa avrebbe potuto succedere in un posto
come quello, in una notte come quella, in mezzo a una folla come quella. Una cosa
era sicura: dopo uno spettacolo, aveva sempre bisogno di qualcosa... di più.
Qualunque cosa significasse.
Lanciando un'occhiata al chiosco vide Blaze che pagava le patatine, con Ronnie
subito dietro. Fissò Ronnie, ordinandole mentalmente di girarsi dalla sua parte, e alla
fine lei lo fece. Soltanto una rapida occhiata, ma bastò per indurlo a chiedersi come
sarebbe stata a letto.
Probabilmente scatenata, pensò. La maggior parte di loro lo era, con il giusto
incoraggiamento.
5.Will
Qualunque cosa facesse, Will si sentiva oppresso dal peso del segreto che custodiva.
All'apparenza, sembrava tutto normale: negli ultimi sei mesi aveva frequentato le
lezioni, giocato a basket, partecipato al ballo di fine anno e si era diplomato con la
prospettiva di andare al college. Naturalmente non era stato tutto perfetto. Sei
settimane prima aveva rotto con Ashley, ma non dipendeva da quanto era accaduto
quella notte, la notte che non avrebbe mai dimenticato. Di solito riusciva a tenere i
ricordi chiusi a chiave nella memoria, ma in certi momenti, di solito quelli meno
opportuni, esplodevano travolgendolo in pieno. Le immagini non cambiavano né
sbiadivano, rimanevano sempre nitide. Come se osservasse tutto con gli occhi di
un'altra persona, vedeva se stesso correre per la spiaggia e afferrare Scott mentre
l'amico fissava l'incendio che divampava.
«Ma che diavolo hai fatto?» ricordava di avere urlato.
«Non è stata colpa mia!» aveva risposto Scott.
Solo in quel momento, Will si era reso conto che non erano soli. In lontananza notò
Marcus, Blaze, Teddy e Lance seduti sul cofano di una macchina, che li guardavano,
e capì che avevano visto quello che era successo.
Sapevano...
Non appena Will aveva fatto il gesto di prendere il cellulare, Scott l'aveva bloccato.
«Non chiamare la polizia! Ti ho detto che è stato un incidente!» Aveva l'espressione
implorante.«Dai, amico! Me lo devi!»
Nei due giorni successivi i notiziari e i giornali si erano occupati approfonditamente
della faccenda e Will aveva seguito tutti i servizi e letto tutti gli articoli con grande
angoscia. Una cosa era coprire un incendio accidentale. Forse avrebbe potuto farlo.
Ma qualcuno era rimasto ferito quella notte, e lui era assalito da un nauseante senso
di colpa tutte le volte che passava davanti al luogo dell'incidente. Non aveva
importanza che la chiesa fosse stata trasferita né che il pastore fosse stato dimesso già
da parecchio tempo; quello che contava era che lui sapeva che cosa era successo e
non aveva fatto nulla.
Me lo devi...
Erano quelle parole a tormentarlo più di ogni altra cosa. Non solo perché lui e Scott
erano amici per la pelle fin dall'asilo, ma per un'altra ragione ben più importante.
Spesso, nel cuore della notte, si svegliava odiando la verità di quelle parole e
desiderando ardentemente che esistesse un modo per cambiare le cose.
Per motivi che non capiva, questa volta era stato l'incidente durante la partita di
pallavolo di quel pomeriggio a far scattare i ricordi. O più precisamente, era stata la
ragazza con la quale si era scontrato. Non aveva mostrato alcun interesse per le sue
scuse e, a differenza della maggior parte delle ragazze del posto, non aveva neppure
cercato di mascherare la propria collera. Non aveva pianto né strillato; aveva
dimostrato una determinazione che lo aveva profondamente colpito.
Dopo averla seguita con lo sguardo mentre si allontanava a grandi passi, avevano
terminato il set e lui stesso aveva riconosciuto di aver mancato un paio di tiri che in
genere avrebbe preso senza fatica. Scott lo aveva guardato con un'espressione che,
forse per colpa del gioco di luci, era identica a quella che aveva la notte dell'incendio,
quando Will aveva tirato fuori il cellulare per chiamare la polizia. Era bastato quel
pensiero a far riaffiorare i ricordi.
Era riuscito a controllarsi finché non avevano vinto la partita, ma poi aveva avuto
bisogno di stare da solo per un po'. Così aveva gironzolato per la fiera, fermandosi a
una di quelle bancarelle per il tiro al canestro. Stava per lanciare un pallone da basket
troppo gonfio verso un canestro un po' troppo alto quando aveva sentito una voce alle
proprie spalle.
«Eccoti qua», disse Ashley.«Ci stavi evitando?»
Sì, pensò lui. Proprio così.
«No», rispose.«Non tiro da quando è finita la stagione, e volevo vedere quanto sono
arrugginito.»
Ashley sorrise. Il copricostume bianco a tubino, i sandali e gli orecchini lunghi
mettevano in risalto al massimo i suoi occhi azzurri e i capelli biondi. Si era cambiata
dopo la finale di pallavolo del torneo. Tipico: era l'unica ragazza che lui conoscesse
che portava con sé un cambio completo, anche per andare alla spiaggia. Alla festa
della scuola nel maggio precedente, si era cambiata tre volte: una per la cena, un'altra
per il ballo, e una terza per la festa che era seguita. In effetti si era presentata con una
valigia e, dopo essersi sistemata sull'abito il bouquet e avere posato per le foto, lui
aveva dovuto caricarla in macchina. La madre di lei non aveva trovato affatto strano
che partisse equipaggiata come se dovesse andare in vacanza anziché a un ballo. Ma
forse il problema in parte era proprio quello. Una volta Ashley gli aveva fatto dare
un'occhiata nell'armadio di sua madre; come minimo c'erano duecento paia di scarpe
e un migliaio di abiti. L'armadio era abbastanza grande da poter ospitare una Buick.
«Non ti trattengo. Non vorrei che ci rimettessi un dollaro per me.»
Will si voltò e, dopo aver preso la mira, lanciò la palla ad arco verso il canestro.
Rimbalzò sul bordo e sul tabellone prima di entrare nella rete. Un punto. Altri due e
avrebbe vinto un premio.
Mentre la palla tornava in posizione, l'addetto al gioco lanciò un'occhiata ad Ashley.
Lei, invece, non sembrava essersi accorta della sua presenza.
Dopo avere aspettato che la palla scivolasse nella rete, Will la raccolse e guardò
l'uomo.«Ci sono stati vincitori oggi?»
«Naturalmente. Un sacco di gente vince ogni giorno.» Mentre parlava, continuava a
fissare Ashley. Non c'era da sorprendersi. Tutti la notavano. Era come un'insegna al
neon lampeggiante per chiunque avesse un briciolo di testosterone.
Ashley fece un passo avanti, e con una giravolta si appoggiò contro la bancarella.
Rivolse un altro sorriso a Will. Ashley non era mai andata per il sottile. Dopo essere
stata incoronata reginetta della scuola, aveva portato la corona per tutta la sera.
«Hai giocato bene oggi», disse.«E la tua battuta è migliorata davvero molto.»
«Grazie», rispose Will.
«Credo che tu sia bravo quasi quanto Scott.»
«Impossibile», replicò. Scott giocava a pallavolo dall'età di sei anni; Will invece
aveva cominciato alle superiori.«Sono veloce e so saltare, ma non ho la preparazione
atletica di Scott.»
«Ti sto solo dicendo quello che ho visto.»
Fissando il canestro, Will soffiò fuori l'aria, cercando di rilassarsi prima di lanciare.
Era quello che l'allenatore gli ripeteva di fare sulla linea dei tiri liberi, anche se di
solito non serviva a migliorare le sue prestazioni. Questa volta, tuttavia, la palla
s'infilò nel canestro senza rimbalzi. Due su due.
«Che cosa ne farai del peluche se lo vinci?» si informò lei.
«Non saprei. Lo vuoi tu?»
«Soltanto se me lo vuoi dare.»
Lui capì che lei desiderava che lui glielo offrisse invece di doverglielo chiedere.
Dopo due anni insieme erano poche le cose che non sapeva di lei. Will prese la palla,
fece un altro respiro e tirò per l'ultima volta. Purtroppo ci mise troppo impeto e la
palla rimbalzò sul bordo del canestro.
«Ci sei andato vicino», disse il giostraio.«Dovresti riprovare.»
«Conosco i miei limiti.»
«Facciamo così: ti sconto un dollaro. Due dollari per tre tiri.»
«D'accordo.»
«Due dollari e farò tirare ciascuno di voi per tre volte.» Prese la palla e la offrì ad
Ashley.«Mi piacerebbe che ci provassi.»
Ashley fissò la palla, con l'espressione di chi non ha mai neppure preso in
considerazione un'idea del genere.
«Meglio di no», disse Will.«Comunque grazie per l'offerta.» Si voltò verso
Ashley.«Sai se Scott è ancora nei paraggi?»
«È seduto a un tavolo con Cassie. Almeno, li ho lasciati lì quando sono venuta a
cercarti. Credo che lei gli piaccia.»
Will andò verso di loro, seguito da Ashley.
«Stavamo facendo due chiacchiere», disse lei in tono indifferente,«e Scott e Cassie
hanno detto che sarebbe carino andare da me. I miei genitori sono a Raleigh per non
so quale incontro con il governatore, così abbiamo la casa a disposizione.»
Will se l'aspettava.«Meglio di no», rispose.
«Perché no? Tanto qui non succede niente di interessante.»
«Non penso che sia una buona idea.»
«Soltanto perché abbiamo rotto? Non voglio mica che torniamo insieme.»
Invece era proprio quello il motivo che l'aveva fatta andare al torneo, pensò lui. E per
cui si era agghindata in quel modo. Ed era andata a cercarlo. E aveva suggerito l'idea
di casa sua, dato che i genitori non c'erano.
Evitò di dire quello che pensava. Non aveva voglia di litigare né voleva peggiorare le
cose. Ashley non se lo meritava, solo che non era la ragazza giusta per lui.
«Devo andare al lavoro presto domattina, ho passato tutto il pomeriggio a giocare a
pallavolo sotto il sole», spiegò.«Voglio riposarmi.»
Lei gli afferrò un braccio, costringendolo a guardarla.«Perché non rispondi alle mie
telefonate?»
Lui non parlò. Non c'era niente da dire.
«Voglio sapere dove ho sbagliato», pretese lei.
«Non hai sbagliato niente.»
«Allora cosa c'è che non va?»
Poiché non rispondeva, gli lanciò un sorriso ammiccante.«Vieni da me, così ne
possiamo parlare, d'accordo?»
Sapeva che si meritava una risposta. L'unico problema era che la sua risposta non le
sarebbe piaciuta.
«Come ti ho detto, sono solo stanco.»
«Sei stanco», sbraitò Scott.«Le hai detto che eri stanco e che volevi andare a
dormire?»
«Qualcosa del genere.»
«Ma sei impazzito?»
Scott lo fissava torvo dall'altra parte del tavolo. Cassie e Ashley si erano allontanate
verso il molo da parecchio tempo. Di sicuro per esaminare al microscopio tutto quello
che Will aveva detto ad Ashley, accrescendo inutilmente la tragicità di una situazione
che sarebbe stato meglio mantenere privata. Ma quando c'era di mezzo Ashley, tutto
diventava tragedia. Di colpo ebbe l'impressione che l'estate sarebbe stata molto lunga.
«È vero che sono stanco», ribatté Will.«Tu no?»
«Forse non hai capito bene la sua proposta. Io e Cassie, tu e Ashley? La sua casa sulla
spiaggia?»
«Me l'ha accennato.»
«E noi siamo ancora qui perché?...»
«Te l'ho già spiegato.»
«No... non ti seguo proprio. La scusa della stanchezza la usi con i tuoi genitori
quando vogliono farti lavare la macchina, oppure ti dicono di alzarti per andare a
messa. Non quando si tratta di un'opportunità come questa.»
Will non replicò. Sebbene Scott avesse un anno meno di lui - in autunno avrebbe
frequentato l'ultimo anno della Laney High School - spesso si atteggiava a fratello
maggiore e più saggio di Will.
Tranne quella notte dietro la chiesa...
«Vedi quel tizio in piedi alla bancarella del tiro a canestro? Ecco, lui lo capisco. Se ne
sta lì tutto il giorno cercando di convincere la gente a fare qualche tiro per poter
guadagnare pochi spiccioli per comprarsi una birra e delle sigarette alla fine del
turno. Molto semplice. Senza complicazioni. Non è il mio genere di vita, ma posso
capirlo. Ma te, proprio non ti capisco. Voglio dire... hai visto Ashley stasera? È uno
schianto.»
«E allora?»
«Quello che voglio dire, è che è una strafiga.»
«Lo so. Siamo stati insieme due anni, te lo sei scordato?»
«Allora devi rimetterti con lei. Propongo di andare tutti e quattro a casa sua,
spassarcela un po', e vedere quello che succede.»
Scott si appoggiò alla spalliera della sedia.«E sai un'altra cosa? Continuo a non capire
perché l'hai mollata. È evidente che lei è ancora cotta di te e siete una coppia
perfetta.»
Will scosse la testa.«Non eravamo perfetti insieme.»
«L'hai già detto altre volte, ma cosa significa? Forse che lei... è psicopatica o
qualcosa del genere quando siete da soli? Che cosa è successo? Te la sei ritrovata
davanti con un coltello da macellaio, oppure ululava alla luna quando andavate in
spiaggia?»
«No, non dire fesserie. È solo che non funzionava, tutto qui.»
«Non funzionava», ripetè Scott.«Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?»
Di fronte alla tenace ostinazione di Will, Scott si sporse sul tavolo.«Avanti, amico.
Fallo per me allora. Vivi un pochino. Siamo in vacanza. Fallo per la squadra.»
«Adesso sì che sembri disperato.»
«Lo sono. Se tu non ti decidi a venire con Ashley stasera, Cassie non verrà con me. E
stiamo parlando di una ragazza che è pronta a 'inseguire la pietra verde'. Che vuole
'liberare Willy'.»
«Mi spiace, ma non posso aiutarti.»
«Benissimo. Rovinami la vita. Chi se ne frega, giusto?»
«Sopravviverai.» Fece una pausa.«Hai fame?»
«Un po'», brontolò Scott.
«Dai, andiamo a prenderci dei cheeseburger.»
Si alzò, ma Scott gli tenne il muso.«Hai bisogno di fare un po' di pratica con la
palla», disse riferendosi alle precedenti partite di pallavolo.«Le mandavi da tutte le
parti. Ho dovuto sudare sette camicie per farci vincere.»
«Ashley mi ha detto che sono stato bravo quanto te.»
Scott sbuffò e si alzò a sua volta.«Non sa quello che dice.»
Dopo aver fatto la fila per prendere i cheeseburger, Scott affogò il suo nel ketchup.
Quando richiuse il panino la salsa schizzò fuori dai lati.
«È disgustoso», commentò Will.
«Senti questa. C'era un tipo che si chiamava Ray Kroc e fondò una società chiamata
McDonald's. Mai sentita nominare? Comunque, nel suo hamburger originale - per
molti versi il vero hamburger americano - aggiunse il ketchup. Il che dovrebbe farti
capire quanto sia importante questa salsa per il gusto complessivo.»
«Continua a parlare. Sei affascinante. Intanto vado a prendere qualcosa da bere.»
«Per me un'acqua minerale, grazie.» Mentre Will si allontanava, qualcosa gli saettò
accanto diretto verso Scott; anche Scott lo vide e lo schivò istintivamente, e così
facendo il cheeseburger gli cadde di mano.«Che diavolo state facendo?» domandò
voltandosi di scatto. Per terra c'era una porzione di patatine fritte. Alle sue spalle
Teddy e Lance tenevano le mani nelle tasche. Marcus, in piedi tra di loro, cercava
invano di assumere un'espressione innocente.
«Non so di cosa parli», rispose.
«Di questo!» ringhiò Scott, accennando alle patatine.
Ripensandoci, Will giunse alla conclusione che era stato il suo tono a innervosire tutti
quanti. Will si sentì accapponare la pelle per la tensione quasi palpabile che fece
vibrare l'aria promettendo violenza.
Violenza che ovviamente Marcus desiderava...
Come se avesse gettato l'esca.
Will vide un uomo prendere in braccio un bambino e allontanarsi, mentre Ashley e
Cassie, di ritorno dal molo, si bloccarono paralizzate a qualche metro di distanza. Da
una parte, defilata, Will riconobbe Galadriel, che adesso si faceva chiamare Blaze,
avvicinarsi circospetta.
Scott li fissava con la mascella serrata.«Sono stufo marcio delle vostre idiozie.»
«Che cosa hai intenzione di fare?» ribatté Marcus con uno sguardo
arcigno.«Lanciarmi una bottiglia incendiaria?»
Bastò questo. Mentre Scott faceva un passo avanti, Will si fece largo tra la folla nel
tentativo di raggiungere l'amico.
Marcus non si era mosso. Brutto segno. Will sapeva che lui e i suoi amici erano
capaci di qualunque cosa... e soprattutto, sapevano quello che aveva fatto Scott...
Ma Scott, accecato dalla collera, sembrava non pensarci. Mentre Will si proiettava in
avanti, Teddy e Lance si spostarono, così che Scott si trovò fra loro. Will cercò di
raggiungerlo, ma Scott si muoveva troppo rapido e poi tutto sembrò precipitare.
Marcus fece mezzo passo indietro mentre Teddy rovesciava uno sgabello con un
calcio, costringendo Scott a fare un salto per evitarlo e andò a sbattere contro un
tavolo. Riuscì a mantenere l'equilibrio e strinse i pugni. Lance gli si avvicinò
lateralmente. Mentre Will continuava ad avanzare di slancio, distinse il pianto di un
bambino. Liberandosi dalla folla, si diresse verso Lance quando tutto a un tratto una
ragazza si mise in mezzo.
«Smettetela!» gridò allargando le braccia.«Piantatela! Tutti quanti!»
La sua voce era decisa e autoritaria, sufficiente a far fermare Will. Anche tutti gli altri
restarono paralizzati e nell'improvviso silenzio le grida del bambino risuonarono
stridule. Girando su se stessa, la ragazza fissò a turno tutti i contendenti e non appena
Will vide la ciocca viola nei capelli, ricordò perfettamente dove l'aveva vista.
Soltanto che adesso indossava una maglietta troppo grande con un pesce sul davanti.
«Basta così! La rissa è finita! Non vi siete accorti che questo bambino si è fatto
male?»
Sfidandoli a contraddirla, si fece largo tra Scott e Marcus e s'inginocchiò accanto al
piccolo che era stato spintonato durante il tafferuglio. Doveva avere tre o quattro anni
e portava una T-shirt arancione. Quando la ragazza gli parlò, la sua voce era tenera e
il suo sorriso rassicurante.
«Stai bene, tesoro? Dov'è la tua mamma? Vado a cercarla, d'accordo?»
Il bambino sembrava rapito dalla maglietta della ragazza.
«Questo è Nemo», gli spiegò lei.«Anche lui si era perso. Ti piace Nemo?»
Una donna con l'espressione stravolta dall'ansia che reggeva in braccio un neonato si
fece largo tra la folla, senza cogliere la tensione nell'aria.«Jason? Dove sei? Avete
visto un bambino biondo, con una maglietta arancione?»
Il suo volto si accese di sollievo non appena lo scorse e si precipitò verso di lui.
«Non puoi scappare via così, Jason!» esclamò.«Mi hai messo paura. Stai bene?»
«Nemo», disse lui indicando Ronnie.
La madre si voltò e si accorse della ragazza.«Grazie, l'ho perso di vista mentre
cambiavo il pannolino e...»
«È tutto a posto», la tranquillizzò la ragazza.«Non è successo niente.»
Will osservò la madre allontanarsi con i figli, poi si voltò verso la ragazza e notò il
tenero sorriso con cui guardava il bambino trotterellare via. Quando furono
abbastanza lontani, la ragazza parve rendersi conto di colpo che tutti gli occhi erano
puntati su di lei. Incrociò le braccia, sicura di sé, quando la folla si aprì per fare posto
a un poliziotto che si avvicinava con passo spedito.
Marcus mormorò qualcosa a Scott prima di tornare a confondersi tra la folla. Teddy e
Lance fecero lo stesso. Blaze si voltò per seguirli ma, con un gesto che sorprese Will,
la ragazza con la ciocca viola la bloccò afferrandola per un braccio.
«Aspetta! Dove andate?» domandò.
Blaze si liberò dalla stretta e fece qualche passo all'indietro.«A Bower's Point.»
«Dov'è?»
«Basta che prosegui sulla spiaggia. Lo troverai.» Blaze si voltò e corse verso Marcus.
La ragazza sembrava titubante. Ormai la tensione si stava dissipando rapidamente.
Scott rimise in piedi lo sgabello e raggiunse Will proprio mentre la ragazza veniva
avvicinata da un uomo che doveva essere suo padre.
«Eccoti qua!» esclamò con un misto di sollievo ed esasperazione.«Ti stavo cercando.
Sei pronta?»
La ragazza, che aveva continuato a guardare Blaze, era chiaramente contrariata nel
vederlo.
«No», rispose e s'incamminò tra la folla, diretta verso la spiaggia. Un ragazzino si
avvicinò al padre.
«Scommetto che non ha fame», disse.
L'uomo posò la mano sulla spalla del ragazzo, mentre con lo sguardo seguiva la figlia
scendere la scaletta verso la spiaggia senza neppure voltarsi indietro.«Credo di no»,
affermò.
«Ti rendi conto?» lo apostrofò Scott, trascinandolo lontano dalla scena che stava
osservando tanto intensamente. Scott era ancora su di giri.«Stavo per dare una lezione
a quel balordo.»
«Eh... certo», rispose.«Solo che non sono sicuro che Teddy e Lance te l'avrebbero
permesso.»
«Non avrebbero fatto niente. Sono solo due sbruffoni.»
Will non era tanto sicuro, ma non lo disse.
Scott sospirò.«Attenzione. Arriva un poliziotto.»
L'agente si avvicinava piano, cercando di valutare la situazione.
«Che cosa succede qui?» domandò.
«Niente, agente», rispose Scott con fare dimesso.
«Ho sentito che c'è stata una rissa.»
«Nossignore.»
Il poliziotto rimase in attesa, con espressione scettica. Né Scott né Will aggiunsero
altro. Ormai la zona si stava riempiendo di gente indaffarata. Il poliziotto scrutò la
scena, accertandosi di non avere tralasciato niente, poi il suo volto si illuminò quando
riconobbe qualcuno alle spalle di Will.
«Sei tu, Steve?» gridò.
Will lo guardò incamminarsi verso il padre della ragazza.
Ashley e Cassie li raggiunsero. Cassie aveva il volto paonazzo.«Stai bene?» chiese
sollecita.
«Tutto bene», rispose Scott.
«Quello lì è un pazzo. Che cosa è successo? Non ho visto com'è cominciata.»
«Mi ha lanciato una cosa e io volevo fargliela pagare. Sono stufo marcio del suo
comportamento. Crede che tutti abbiano paura di lui e che può fare quello che vuole,
ma la prossima volta, se ne accorgerà...»
Will non ci badò. Scott era sempre pronto a parlare; faceva lo stesso anche durante le
partite di pallavolo e Will aveva imparato da tempo a ignorarlo.
Si voltò e scorse il poliziotto che chiacchierava con il papà della ragazza. Si chiese
come mai si fosse sbarazzata con tanta decisione del genitore. E perché frequentasse
uno come Marcus. Non era come loro, e per qualche motivo dubitava che si rendesse
conto di dove si stesse andando a cacciare con gente simile. Mentre Scott continuava
a blaterare, assicurando Cassie che sarebbe stato in grado di sistemarli tutti e tre senza
problemi, Will si sorprese a sforzarsi di cogliere le parole che il poliziotto scambiava
con il padre della ragazza.
«Ehi, ciao Pete», stava dicendo il padre.«Che cosa è successo?»
«Solite cose», rispose l'agente.«Faccio del mio meglio per tenere la situazione sotto
controllo. Come procede la vetrata?»
«Lentamente.»
«Mi hai detto la stessa cosa anche l'ultima volta che te l'ho chiesto.»
«Già, ma adesso ho un'arma segreta. Ti presento mio figlio, Jonah. Mi farà da
assistente durante l'estate.»
«Sul serio? Buon per te, ometto... Non doveva venire anche tua figlia, Steve?»
«Infatti è qui», rispose il padre.
«Sì, ma se n'è andata di nuovo», precisò il ragazzino.«Ce l'ha a morte con papà.»
«Mi dispiace.»
Will vide il padre indicare verso la spiaggia.«Hai idea di dove possano essere
diretti?»
Il poliziotto guardò verso l'orizzonte.«Da qualsiasi parte. Ma un paio di quei ragazzi
sono dei poco di buono. Specialmente Marcus. Fidati, faresti meglio a evitare che lei
lo frequenti.»
Scott intanto continuava a vantarsi di fronte a una rapita Cassie e ad Ashley. Will lo
ignorava e di colpo provò l'impulso di chiamare il poliziotto. Sapeva che non era affar
suo. Non conosceva la ragazza, non sapeva perché fosse scappata, in primo luogo.
Forse aveva un'ottima ragione. Ma aveva visto le rughe di preoccupazione sul volto
di suo padre, aveva notato la pazienza e la gentilezza con cui lei aveva aiutato il
bambino e le parole gli uscirono di bocca prima che potesse pensarci.
«Sono andati a Bowers' Point», annunciò.
Scott lasciò la frase a metà e Ashley si voltò accigliata verso di lui. Gli altri tre lo
osservarono perplessi.
«È sua figlia, giusto?» Quando il padre abbozzò un cenno d'assenso, Will
ripetè:«Sono andati a Bower's Point».
Il poliziotto lo fissò per un istante ancora, poi si girò verso il padre.«Quando ho finito
qui, andrò a parlarle, per vedere se riesco a convincerla a tornare a casa, va bene?»
«Non è necessario che tu lo faccia, Pete.»
Il poliziotto tornò a guardare il gruppo che si allontanava.«Credo che in questo caso
sia meglio se tento.»
Will provò un inspiegabile sollievo e molto probabilmente lo manifestò, perché
quando si voltò verso gli amici li sorprese a fissarlo stupiti.
«Si può sapere cos'è tutta questa storia?» domandò Scott.
Lui non rispose. Non poteva, perché non lo capiva neppure lui.
6.Ronnie
In circostanze normali probabilmente avrebbe apprezzato una serata come quella. A
New York le luci metropolitane rendevano impossibile vedere le stelle, ma qui era
l'esatto contrario. Nonostante il velo di nebbia marina, riconosceva la Via Lattea,
mentre a sud brillava nitida Venere. Le onde si infrangevano ritmicamente sulla
spiaggia e all'orizzonte si vedevano le luci tremolanti dei pescherecci.
Ma le circostanze erano tutt'altro che normali. In piedi sulla veranda, fissava il
poliziotto, livida di rabbia.
No, anzi, non era soltanto arrabbiata. Era fuori di sé. Quello che era accaduto era
stato così... così esagerato, che stentava a crederci. Il suo primo impulso era stato
quello di fare l'autostop fino alla stazione degli autobus e comprare un biglietto per
tornare a New York. Una volta arrivata là, avrebbe telefonato a Kayla e deciso che
cosa fare.
Ma era impossibile mettere in atto il piano. Non con l'agente Pete tra i piedi. In
questo momento era alle sue spalle, per assicurarsi che entrasse in casa.
Continuava a non crederci. Com'era possibile che suo padre avesse fatto una cosa del
genere? Era adulta ormai, non aveva fatto nulla di sbagliato e non era neppure
mezzanotte. Che problema c'era? Perché aveva dovuto ingigantire così la cosa? Oh,
certo, dapprincipio l'agente Pete l'aveva fatta sembrare una normale operazione di
sgombero di Bower's Point, una procedura che non aveva sorpreso gli altri, ma poi si
era rivolto a lei.
«Ti accompagno a casa», aveva detto come se parlasse con una bambina di otto anni.
«No grazie», aveva risposto lei.
«Allora sarò costretto ad arrestarti per vagabondaggio e a chiamare tuo padre perché
ti porti a casa.»
In quel momento le era venuto in mente che fosse stato lui a chiedere alla polizia di
riportarla a casa e ne fu mortificata.
Era vero, aveva avuto problemi con la mamma, e sì, di tanto in tanto aveva infranto il
coprifuoco. Ma mai, neanche una volta, sua madre aveva mandato la polizia a
cercarla.
Mentre stava lì sulla veranda, il poliziotto interruppe le sue riflessioni.«Avanti,
entra», la spronò, mettendo in chiaro che se non avesse aperto la porta da sola, ci
avrebbe pensato lui.
Dall'interno le giungevano le note ovattate di un pianoforte e ben presto riconobbe la
sonata di Edvard Grieg in mi minore. Fece un respiro profondo prima di aprire la
porta, poi la richiuse sbattendola.
Il padre smise di suonare e alzò la testa mentre lei lo fissava truce.«Hai mandato i
poliziotti a prendermi?»
Lui non rispose, ma il suo silenzio era più che eloquente.
«Perché hai fatto una cosa del genere?» domandò.«Come hai potuto?»
Lui continuò a tacere.
«Che cosa c'è? Non vuoi che mi diverta? Non ti fidi di me? Non hai ancora capito che
non voglio stare qui?»
Il padre intrecciò le mani in grembo.«So che non vuoi stare qui...»
Lei fece un passo avanti, furibonda.«Quindi decidi di rovinare anche la mia vita?»
«Chi è Marcus?»
«Chi se ne importa!» gridò lei.«Non è questo il punto! Non puoi controllare ogni
persona con cui parlo, quindi non provarci nemmeno!»
«Non sto cercando...»
«Detesto stare qui! Non capisci? E detesto te!»
Lo fissò con espressione di sfida. Desiderava che lui dicesse qualcosa, per poterglielo
dire un'altra volta.
Il padre però non disse niente, come sempre. Odiava questa sua debolezza. Allora
Ronnie attraversò la stanza fino alla rientranza in fondo, afferrò la sua foto al piano quella con papà accanto a lei sullo sgabello - e la scaraventò lontano. Lui ebbe un
sussulto quando il vetro s'infranse, ma per il resto rimase immobile.
«Allora? Non hai niente da dire?»
Lui si schiarì la voce.«La tua camera è la prima porta sulla destra.»
Ronnie uscì in corridoio decisa a non avere più contatti con lui.
«Buonanotte, tesoro», la salutò il padre.«Ti voglio bene.»
Per un attimo, ma solo per un attimo, si pentì di quello che gli aveva detto; ma il
rimpianto svanì fulmineo com'era arrivato. Lui si era reso perfettamente conto che lei
era arrabbiata, eppure lo sentì ricominciare a suonare dal punto in cui si era interrotto.
Una volta in camera accese la luce. Con un sospiro si tolse quella ridicola maglietta
di Nemo che si era quasi dimenticata di indossare.
Era stata la giornata peggiore della sua vita.
Sì, certo, sapeva di essere un po' troppo melodrammatica, non era stupida. Tuttavia
non era certo stata bella. In pratica l'unica cosa buona che ne era risultata era stato
conoscere Blaze, che quanto meno le dava la speranza di avere una persona con cui
passare del tempo durante l'estate.
Sempre ammesso che Blaze volesse ancora passare del tempo con lei. Dopo la trovata
del padre, c'era da dubitarne. Blaze e gli altri probabilmente ne stavano ancora
parlando. Di sicuro ci stavano ridendo sopra. Era il genere di cosa che Kayla avrebbe
rivangato per anni.
L'idea la nauseava. Gettò la maglietta di Nemo in un angolo e cominciò sfilarsi quella
del concerto.
«Prima che mi scandalizzi troppo, ti informo che sono qui.»
Ronnie trasalì, e voltandosi di scatto vide Jonah che la guardava.
«Vattene subito!» esclamò.«Che cosa ci fai qui? Questa è la mia stanza!»
«No, è la nostra stanza», precisò Jonah. Indicò con la mano.«Vedi? Due letti.»
«Non ho intenzione di dividere la stanza con te!»
Lui inclinò la testa di lato.«Vuoi dire che andrai a dormire in camera con papà?»
Lei fece per replicare, valutando l'idea di trasferirsi in salotto prima di rendersi conto
che non voleva tornare lì per niente al mondo, e uscì senza dire una parola. Andò
verso la sua valigia e l'aprì. In cima c'era Anna Karenina. Gettò il libro da parte
cercando il pigiama.
«Sono stato sulla ruota panoramica», disse Jonah che aveva voglia di raccontare.«Era
bello stare così in alto. È così che papà ti ha trovata.»
«Magnifico.»
«È stato fortissimo. Tu ci sei salita?»
«No.»
«Avresti dovuto. Si vedeva fino a New York.»
«Ne dubito.»
«Io ci riuscivo. Vedo molto lontano. Con gli occhiali, cioè. Papà dice che ho la vista
di un falco.»
«Sì, certo.»
Senza dire altro, Jonah prese l'orsetto di peluche che si era portato da casa. Era quello
che stringeva tutte le volte che era nervoso e Ronnie si rimproverò per quello che
aveva detto. A volte il suo modo di parlare lo faceva sembrare un adulto, ma ora,
mentre stringeva al petto l'orsacchiotto, era completamente indifeso. Per quanto fosse
maturo e loquace al punto da risultare a volte insopportabile, era piccolo per la sua
età; dimostrava sei o sette anni, anziché dieci. Per lui non era mai stato facile. Era
nato prematuro e soffriva di asma, era miope e non aveva una grande coordinazione
motoria. Lei sapeva quanto potessero essere crudeli i bambini alla sua età.
«Non dicevo sul serio. Con gli occhiali hai davvero una vista da falco.»
«Sì, è vero», borbottò lui, ma quando si girò verso il muro, lei provò un'altra stretta al
cuore. Era un bambino così dolce. A volte un po' rompiscatole, ma non aveva un
grammo di cattiveria dentro.
Andò a sedersi sul suo letto.«Ehi», disse.«Mi spiace. Non volevo. È solo che stasera
sono di cattivo umore.»
«Lo so», disse lui.
«Sei salito su qualche altra giostra?»
«Papà mi ha portato quasi su tutte. Sull'ottovolante ha rischiato di vomitare, ma io no.
E non ho avuto per niente paura nella casa stregata. Si vedeva benissimo che i
fantasmi erano finti.»
Lei gli dette una pacca sul fianco.«Sei sempre stato molto coraggioso.»
«Già», ribatté lui.«Come quella volta che è mancata la luce a casa. Tu hai avuto
paura, io no.»
«Mi ricordo.»
Quella risposta sembrò soddisfarlo. Ma poi si fece silenzioso e quando parlò, aveva la
voce bassissima.«Ti manca la mamma?»
Ronnie gli sistemò le lenzuola.«Sì.»
«Anche a me. E non mi piaceva stare qui da solo.»
«C'è papà nell'altra camera», osservò lei.
«Lo so. Ma sono contento che tu sia tornata.»
«Anch'io.»
Lui sorrise poi ridivenne serio.«Pensi che la mamma stia bene?»
«Certo», lo tranquillizzò lei. Poi gli rimboccò le coperte.«Ma so che le manchi.»
7.Will
Will era nella buca sotto il Ford Explorer e controllava l'olio che usciva dalla coppa
cercando di ignorare Scott, cosa più facile a dirsi che a farsi, perché lui non aveva
mai smesso di tormentarlo da quando erano arrivati al lavoro quella mattina.
«Capisci, hai preso la cosa per il verso sbagliato», proseguì Scott usando un'altra
tattica. Raccolse tre barattoli d'olio e li sistemò sullo scaffale accanto a lui.«C'è
differenza tra rimorchiare e tornare insieme.»
«Non abbiamo ancora finito con questa storia?»
«Avremmo finito, se tu avessi un briciolo di buonsenso. Ma è chiaro che avevi le idee
un po' confuse. Ashley non vuole rimettersi con te.»
«Io non ero confuso», obiettò Will. Si pulì le mani su uno straccio.«Era esattamente
ciò che voleva.»
«Non è quello che mi ha detto Cassie.»
Will afferrò la bottiglia dell'acqua. L'officina era specializzata in riparazione freni,
cambio olio, messa a punto e convergenza, e suo padre pretendeva che il locale fosse
sempre pulito alla perfezione e in ordine come se avesse appena aperto. Purtroppo
non aveva voluto installare l'aria condizionata e d'estate faceva molto caldo. Bevve
una lunga sorsata, scolando la bottiglia, prima di tentare un'altra volta di far ragionare
Scott che, in assoluto,, era la persona più testarda che avesse mai conosciuto. A volte
riusciva davvero a esasperarlo.
«Tu non conosci Ashley come la conosco io. E comunque la storia è chiusa. Non so
perché continui a parlarne.»
«Forse perché ieri sera Harry non ha incontrato Sally? Perché sono tuo amico, e ti
voglio bene. Voglio che ti godi l'estate. E io voglio godermi Cassie.»
«Se è per questo, fai pure.»
«Fosse facile! Ieri sera gliel'ho chiesto, ma Ashley era così sconvolta che Cassie non
ha voluto lasciarla sola.»
«Mi spiace davvero che non abbia funzionato.»
Scott era perplesso.«Sì, come no.»
A quel punto la coppa si era svuotata. Mentre Scott riavvitava il tappo, Will uscì dalla
buca per gettare l'olio esausto nel bidone e, intanto, lanciò un'occhiata a Scott.
«A proposito, hai visto quella ragazza che ha interrotto la rissa?» chiese.«Quella che
ha aiutato il bambino a ritrovare la mamma?»
Scott impiegò qualche istante a registrare la domanda.«Ti riferisci alla vampiressa
con la maglietta dei cartoni animati?»
«Non è una vampiressa.»
«Sì, l'ho vista. Bassina, un'orribile ciocca viola nei capelli, smalto nero. Le hai
versato addosso l'aranciata, ricordi? Ti ha trovato ripugnante.»
«Come?»
«È così», confermò Scott passandogli la bacinella.«Tu non hai notato la sua
espressione quando le sei andato addosso, ma io sì. Sembrava volersi allontanare da
te il più in fretta possibile. Evidentemente puzzavi.»
«Si è dovuta comprare una maglietta nuova.»
«E allora?»
Will svuotò il secondo contenitore.«Non so. Mi ha colpito. Non l'avevo mai vista da
queste parti prima.»
«Lo ripeto: e allora?»
In realtà Will non sapeva perché stesse pensando a quella ragazza visto che di lei non
sapeva quasi nulla. Certo, era carina, se n'era accorto subito, nonostante la ciocca
viola e lo smalto nero, ma la spiaggia era piena di ragazze carine. E non era neppure
per il modo in cui aveva messo fine alla rissa. Continuava a tornargli in mente invece
come aveva trattato il bambino che si era fatto male. Sotto la facciata ribelle aveva
colto una sorprendente tenerezza che aveva solleticato la sua curiosità.
Era completamente diversa da Ashley. Nel mondo di Ashley, ogni cosa e ogni persona
avevano il loro posto: famoso o anonimo, costoso o da poco, ricco o povero, bello o
brutto. Alla fine lui si era stancato dei suoi giudizi sommari e della sua incapacità di
accettare o apprezzare le sfumature.
Invece la ragazza con la ciocca viola...
Aveva capito istintivamente che non era così. Certo, non poteva averne la certezza
assoluta, ma era pronto a scommetterci. Non etichettava gli altri in base a categorie
precostituite, perché non collocava neppure se stessa in una di esse, e questo gli
faceva l'effetto di una boccata d'aria fresca, soprattutto a paragone delle ragazze che
aveva conosciuto alla Laney. In particolare Ashley.
Nonostante il lavoro, continuava a pensare a lei. Non sempre, ma abbastanza spesso
da capire che, qualunque fosse la ragione, desiderava conoscerla un po' meglio. Si
chiese se l'avrebbe rivista.
8.Ronnie
Blaze si avviò verso il locale che Ronnie aveva visto durante la sua passeggiata nella
zona commerciale. In effetti aveva un certo fascino, soprattutto per gli amanti degli
anni Cinquanta. C'era un bancone antiquato con una fila di alti sgabelli, il pavimento
di mattonelle bianche e nere e dei séparé con panche di vinile rosso lungo le pareti.
Dietro il bancone, il menu era scritto con il gesso su una lavagna e, a quanto poteva
giudicare Ronnie, l'unico cambiamento negli ultimi trent'anni erano stati i prezzi.
Blaze ordinò un cheeseburger, un frappé al cioccolato e delle patatine fritte, mentre
Ronnie decise di prendere soltanto una Coca. Aveva fame, ma non c'era niente che
l'attirasse. Blaze, invece, sembrava soddisfatta della sua scelta e si sistemò
comodamente sulla panca.«Che te ne pare di questo posto?» chiese.
«Carino. È diverso.»
«Io ci vengo fin da quando ero bambina. Mio papà mi portava qui tutte le domeniche
dopo la messa a prendere un frappé al cioccolato. Sono i migliori. Fanno venire il
gelato da non so quale posto minuscolo in Georgia, ma è incredibile. Dovresti
provarlo.»
«Non ho fame.»
«È una bugia», disse Blaze.«Ho sentito che ti brontolava lo stomaco. Comunque
peggio per te. In ogni caso, grazie di questo.»
«Figurati.»
Blaze sorrise.«Allora, com'è andata ieri sera? Sei forse... famosa o qualcosa del
genere?»
«Perché me lo chiedi?»
«Per via del poliziotto e di come ti ha preso di mira. Doveva esserci una ragione.»
Ronnie fece una smorfia.«Credo sia stato mio padre a dirgli di venire a cercarmi.
Sapeva persino dove abitavo.»
«Che scocciatura.»
Ronnie scoppiò a ridere e Blaze prese la saliera. Dopo averla rovesciata, sparse il sale
sul tavolo e iniziò a giocarci.
«Che cosa ne pensi di Marcus?» domandò.
«Veramente non lo so. Perché?»
Blaze scelse con cura le parole.«Io non gli sono mai piaciuta», rispose.«Da bambini,
cioè. Non posso dire che lui mi piacesse. È sempre stato un po'... cattivo, sai? E poi,
non so come, un paio di anni fa, le cose sono cambiate. E quando ho avuto davvero
bisogno di qualcuno, lui era lì per me.»
Ronnie osservò il mucchietto di sale.«E?»
«Volevo che lo sapessi.»
«Benissimo», ribatté Ronnie.«Come vuoi.»
«Anche tu.»
«Cosa vuoi dire?»
Blaze si grattò un po' di smalto dall'unghia.«Ero campionessa di ginnastica, e per
quattro o cinque anni è stata la cosa più importante della mia vita. Poi ho smesso per
colpa del mio allenatore. Era un vero duro, mi rimproverava soltanto per gli errori,
non mi faceva mai un complimento. E poi, un giorno, mentre stavo provando un
nuovo tipo di uscita dalla trave, lui è arrivato sbraitando, ripetendo le solite cose su
come dovevo atterrare e restare immobile e altre che avevo già sentito un milione di
volte. Io non ne potevo più, sai? Così gli ho detto «Come vuoi» e lui mi ha stretto
così forte il braccio da lasciarmi il livido. Poi ha replicato: «Sai che cosa significa
quando dici come vuoi? Non è altro che una parola in codice per mandare qualcuno a
farsi fottere. Alla tua età, non devi mai dirlo a nessuno. Mai.» Si appoggiò allo
schienale.«Perciò adesso, quando qualcuno mi dice così, io rispondo «Anche tu».»
In quel momento arrivò la cameriera con le ordinazioni. Quando si fu allontanata,
Ronnie prese il suo bicchiere.
«Ti ringrazio per questa storia toccante.»
«Come vuoi.»
Ronnie rise un'altra volta, apprezzando quel senso dell'umorismo.
Blaze si sporse sul tavolo.«Allora, qual è la cosa peggiore che tu abbia mai fatto?»
«Prego?»
«Dico sul serio. Faccio sempre questa domanda a tutti. La trovo molto interessante.»
«D'accordo», ribatté Ronnie.«Qual è la cosa peggiore che hai fatto tu?»
«È facile. Da piccola avevo una vicina di casa, la signora Banderson. Non era proprio
simpatica, ma non era nemmeno una strega. Voglio dire, non era di quelle che
chiudono la porta a chiave per Halloween o cose del genere. Però aveva la fissa del
suo giardino. E del suo prato. Al punto che se ci capitava di calpestarlo quando
andavamo a prendere lo scuolabus, si precipitava fuori di casa urlando che le
rovinavamo l'erba. Una primavera aveva piantato centinaia di fiori. Bellissimi.
Sull'altro lato della via abitava un bambino, Billy, che non aveva una grande simpatia
per la signora Banderson, perché una volta aveva lanciato un pallone da basket nel
suo cortile e lei non aveva voluto più restituirglielo. Così un giorno, mentre
giocavamo nel suo capanno degli attrezzi in giardino, ci capitò tra le mani uno
spruzzatore pieno di diserbante. Una sera uscimmo insieme di casa quando era buio e
lo spruzzammo su tutti quei bei fiori. Non chiedermi il perché. Credo che allora ci
sembrò una cosa divertente. Niente di grave. I fiori si ricomprano, giusto? All'inizio
non successe nulla: occorre qualche tempo prima che il diserbante cominci a fare
effetto. La signora Banderson usciva tutti i giorni a innaffiare e strappare le erbacce e
poi, all'improvviso, si accorse che i suoi bei fiori si stavano seccando. Da principio io
e Billy ridevamo della sua preoccupazione, ma in seguito notai che lei era già in
giardino la mattina quando andavo a scuola, per cercare di capire che cosa stesse
succedendo, e la ritrovavo lì quando tornavo a casa. Nel giro di una settimana tutti i
fiori erano morti.»
«Ma è terribile!» esclamò Ronnie, ridacchiando suo malgrado.
«Lo so. E quando ci ripenso ci sto ancora male. È una di quelle cose che vorrei non
aver fatto.»
«Glielo hai mai detto? Oppure ti sei offerta di ricomperarle i fiori?»
«I miei genitori mi avrebbero ucciso. Però da quella volta non ho più calpestato il suo
prato.»
«Che sforzo!»
«Ecco, questa è stata la cosa peggiore che abbia mai fatto. Ora tocca a te.»
Ronnie ci pensò su.«Non ho parlato a mio padre per tre anni.»
«Questo lo so già. E non è tanto grave. Come ti ho detto, anch'io cerco di non parlare
con il mio. E la mamma non sa quasi mai dove sono.»
Ronnie distolse lo sguardo. Sopra il juke-box era appeso un poster di Bill Haley &C
His Comets.
«Rubavo nei negozi», disse sottovoce.«Niente di prezioso. Più che altro per il gusto
di farlo.»
«Non lo fai più?»
«No. Mi hanno beccata. In realtà, mi hanno preso due volte. La denuncia è finita in
tribunale, ma le accuse sono state sospese per un anno: significa che se non mi caccio
di nuovo nei guai, cadranno da sole.»
Blaze smise di mangiare e la squadrò.«Tutto qui? È la cosa peggiore che hai fatto?»
«Non ho ucciso i fiori a nessuno, se è questo che intendi. Né commesso atti di
vandalismo.»
«Non hai mai infilato la testa di tuo fratello nel gabinetto? Né ammaccato la
macchina? Né rasato il gatto?»
Ronnie abbozzò un sorriso.«No.»
«Dovevi essere di sicuro l'adolescente più noiosa del mondo.»
Ronnie ridacchiò poi bevve un sorso della sua Coca.«Posso farti una domanda?»
«Spara.»
«Mi hai detto di non essere tornata a casa ieri notte. Perché?»
Blaze prese un pizzico di sale dal mucchietto che aveva formato sul tavolo e lo sparse
sulle patatine.«Non mi andava.»
«Non hai pensato a tua madre? Non si arrabbierà?»
«Probabilmente sì», rispose Blaze.
La porta del locale si aprì e, girandosi da quella parte, Ronnie vide entrare Marcus,
Teddy e Lance, che si diressero verso di loro. Marcus portava una maglietta con un
teschio e aveva una catena attaccata al passante dei jeans.
Blaze fece spazio sulla panca ma, stranamente, fu Teddy a sedersi accanto a lei,
mentre Marcus si strinse vicino a Ronnie e Lance prese una sedia da un altro tavolo e
ci si mise a cavalcioni. Marcus cominciò a piluccare nel piatto di Blaze. Teddy e
Lance lo imitarono.
«Ehi, quelle sono le patatine di Blaze», esclamò Ronnie cercando di fermarli.
Marcus passò lo sguardo dall'una all'altra.«Sì?»
«Non importa», rispose Blaze, spostando il piatto verso di lui.«Davvero. Tanto non
sarei riuscita a finirle.»
Marcus prese il ketchup, con un gesto compiaciuto.«Allora, di che cosa stavate
parlando? A guardarvi sembrava interessante.»
«Niente di che», rispose Blaze.
«Lasciami indovinare. Ti stava raccontando del fidanzato sexy di sua madre e dei loro
numeri acrobatici di notte, giusto?»
Blaze si agitò.«Non essere volgare.»
Marcus rivolse un'occhiata ammiccante a Ronnie.«Ti ha raccontato della notte in cui
uno dei fidanzati di sua mamma è entrato di soppiatto in camera sua?»
«Piantala. Non è divertente. E non stavamo parlando di quello.»
«Come vuoi», disse lui con una smorfia.
Blaze prese il bicchiere del frappé mentre Marcus mangiava il suo hamburger. Teddy
e Lance si avventarono sulle patatine e nel giro di pochi minuti tutti e tre divorarono
gran parte di ciò che c'era sul vassoio. Con grande disappunto di Ronnie, Blaze non
protestò.
Era evidente che non voleva contrariare Marcus, perciò gli permetteva di fare quello
che voleva. L'aveva già visto accadere in passato: Kayla, nonostante le sue pose da
dura, era uguale quando si trattava di ragazzi. E in genere, loro la trattavano come
uno zerbino.
Tuttavia sapeva che era meglio non dire niente. Sarebbe servito soltanto a peggiorare
le cose.
Blaze bevve un sorso di frappé e posò il bicchiere sul tavolo.«Allora, ragazzi, che
cosa volete fare più tardi?»
«Noi non ci siamo», brontolò Teddy.«Il vecchio ha bisogno di me e Lance oggi.»
«Sono fratelli», spiegò Blaze.
Ronnie li esaminò senza trovare alcuna somiglianza tra loro.«Sul serio?»
Marcus finì l'hamburger e spinse il piatto al centro del tavolo.«Lo so, è difficile
credere che dei genitori possano avere due figli tanto brutti, vero? In ogni caso la loro
famiglia possiede un motel malfamato appena al di là del ponte. Le tubature avranno
cent'anni e il compito di Teddy è di sturare i cessi quando si bloccano.»
Ronnie fece una smorfia, cercando di immaginare la scena.«Dici davvero?»
Marcus annuì.«Che schifo, eh? Ma non devi preoccuparti per Teddy. È bravissimo.
Un vero portento. E gli piace pure. Il nostro Lance, invece, deve cambiare le lenzuola
dopo il passaggio della folla della pausa pranzo.»
«Bleah», fece Ronnie.
«Lo so, è davvero disgustoso», confermò Blaze.«E dovresti vedere i tipi che
frequentano l'albergo a ore. Potresti prenderti una malattia solo entrando nella
camera.»
Ronnie non sapeva come reagire, così preferì rivolgersi a Marcus.«Tu che cosa fai?»
gli chiese.
«Quello che mi va», ribatté lui.
«Vale a dire?» lo incalzò Ronnie.
«Che te ne frega ?»
«Niente», rispose in tono distaccato.«Era solo una domanda.»
Teddy finì le ultime patatine rimaste nel piatto di Blaze.«Significa che sta al motel
con noi. In camera sua.»
«Tu hai una camera al motel?»
«Ci abito», precisò lui.
Ronnie aspettò che continuasse a parlare spiegando perché, ma Marcus rimase zitto.
Evidentemente voleva che fosse lei a chiederglielo. All'improvviso ebbe la sensazione
che volesse suscitare il suo interesse. Che volesse piacerle. Anche se Blaze era lì.
I suoi sospetti furono confermati quando lui prese una sigaretta e, dopo averla accesa,
soffiò il fumo contro Blaze, girandosi poi verso Ronnie.
«Che cosa fai stasera?» le chiese.
Lei cambiò posizione, a disagio. Tutti, Blaze compresa, stavano aspettando la sua
risposta.
«Perché?»
«Abbiamo organizzato una festicciola a Bower's Point. Non soltanto noi. C'è un po' di
gente. Voglio che venga anche tu. E stavolta senza poliziotti.»
Blaze teneva lo sguardo fisso sulla tovaglia, giocherellando con il mucchietto di sale.
Ronnie rimase zitta e, poco dopo, Marcus si alzò e si diresse alla porta senza voltarsi
indietro.
9.Steve
«Ehi, papà», esclamò Jonah, in piedi vicino al pianoforte mentre Steve portava in
tavola i piatti.«In questa foto sei insieme con la nonna e il nonno?»
«Esatto, quelli sono i miei genitori.»
«Non mi ricordo di questa foto. A casa, voglio dire.»
«La tenevo nel mio ufficio, a scuola.»
«Oh», fece Jonah. Si avvicinò per esaminarla meglio.«Assomigli al nonno.»
«Lo dicono tutti.»
«Ti manca?»
«Un po'.»
«A me tu mancheresti.»
A tavola, Steve si mise a riflettere sulla giornata trascorsa. Avevano passato la
mattinata in laboratorio, dove aveva insegnato a Jonah come tagliare il vetro; avevano
mangiato dei panini in veranda e nel tardo pomeriggio erano andati a raccogliere
conchiglie. Dopo cena aveva promesso a Jonah che lo avrebbe portato a fare una
passeggiata sulla spiaggia con la torcia elettrica per osservare le granceole che
entravano e uscivano a centinaia dalle tane sotto la sabbia.
Bevve un sorso di latte facendosi venire i baffi bianchi e chiese al padre:«Pensi che
Ronnie tornerà a casa presto?»
«Lo spero.»
Jonah si pulì il labbro con il dorso della mano.«A volte sta fuori fino a tardi.»
«Lo so.»
«Il poliziotto la riporterà a casa di nuovo?»
Steve guardò fuori dalla finestra; stava diventando buio e si chiese dove fosse la figlia
e che cosa stesse facendo.
«No», rispose.«Stasera no.»
Dopo la passeggiata sulla spiaggia, Jonah s'infilò a letto. Steve gli rimboccò le
coperte e lo baciò sulla guancia.
«Grazie di questa bella giornata, papà», mormorò.
«Non c'è di che. Buonanotte, Jonah. Ti voglio bene.»
«Anch'io, papà.»
Steve si avviò verso la porta.
«Papà?»
Steve si voltò.«Sì?»
«Il tuo papà ti ha mai portato a osservare i granchi sulla spiaggia?»
«No», rispose Steve.
«E perché no? È stato fortissimo.»
«Non era quel genere di papà.»
«Che tipo era?»
Steve rimase a riflettere su quella domanda.«Era complicato», rispose alla fine.
Seduto al pianoforte, Steve ripensò al pomeriggio di sei anni prima, quando per la
prima volta aveva preso nella sua la mano del padre. Gli aveva detto che sapeva che
aveva fatto del suo meglio per crescerlo, che non gli rinfacciava nulla, e, soprattutto,
che gli voleva bene.
Il padre si era girato verso di lui. Il suo sguardo era limpido, e nonostante le massicce
dosi di morfina che gli venivano somministrate, la sua mente era lucida. Fissò Steve a
lungo, prima di togliere la mano.
«Quando parli così sembri una donna», dichiarò.
Erano in una camera singola al quarto piano dell'ospedale. Suo padre era ricoverato lì
da tre giorni. Aveva delle flebo attaccate e non mangiava cibi solidi da più di un
mese. Aveva le guance incavate e la pelle lucida.
Steve si voltò verso la finestra. Fuori c'era soltanto il cielo azzurro, una brillante e
solida bolla che circondava la stanza. Niente uccelli né nuvole, né alberi. Alle sue
spalle il segnale costante del monitor cardiaco. Aveva un ritmo forte e regolare, dando
l'impressione che suo padre potesse vivere per altri vent'anni. Ma non era il cuore che
lo stava uccidendo.
«Come sta?» gli aveva chiesto più tardi, quella sera, Kim al telefono.
«Non bene», aveva risposto.«Non so quanto tempo gli resti ancora, ma...»
Si era interrotto. Immaginava Kim in piedi accanto ai fornelli, che mescolava la pasta
o affettava i pomodori, il telefono premuto tra l'orecchio e la spalla. Non riusciva a
parlare al telefono stando ferma.
«È passato qualcun altro a trovarlo?»
«No», rispose. Non le disse che secondo le infermiere il padre non aveva mai
ricevuto visite.
«Sei riuscito a parlargli?» gli chiese Kim.
«Sì, ma non a lungo. Si appisolava in continuazione.»
«Gli hai detto quello che ti avevo suggerito di dirgli?»
«Sì», rispose Steve.
«E lui che cosa ti ha risposto?» gli domandò.«Ti ha detto che ti voleva bene?»
Sapeva cosa lei si aspettava. Steve si trovava a casa del padre, a esaminare le
fotografie sulla mensola del camino: la famiglia dopo il suo battesimo, una foto delle
nozze tra lui e Kim, Ronnie e Jonah da piccoli. Le cornici erano impolverate, nessuno
le aveva più toccate da anni. Sapeva che era stata sua madre a metterle lì, e mentre le
osservava, gli venne da chiedersi che cosa pensasse suo padre quando le guardava, o
se si rendesse conto che erano lì.
«Sì», disse alla fine.«Mi ha detto che mi voleva bene.»
«Mi fa piacere.» La sua voce era sollevata e soddisfatta, come se quella risposta le
avesse confermato qualcosa sul mondo.«So quanto era importante per te.»
Steve era cresciuto in una casa bianca, stile ranch, in un quartiere di case bianche,
stile ranch, sulla parte dell'isola rivolta verso la terraferma. Era piccola, con due
camere da letto, un bagno e un garage dove erano sistemati gli attrezzi del padre e che
odorava sempre di segatura. Il giardino sul retro, ombreggiato da una quercia nodosa,
non riceveva abbastanza sole, così la madre coltivava l'orto sul davanti. A volte Steve
coglieva i discorsi a mezza voce dei vicini che si lamentavano per il calo del valore
degli immobili, ma l'orto veniva piantato ogni primavera, e nessuno aveva mai detto
neppure una parola in faccia a suo padre. Tutti sapevano, compreso lui, che non ne
sarebbe venuto niente di buono. Inoltre, provavano simpatia per la moglie, e
comunque sapevano che un giorno avrebbero avuto bisogno dei suoi servizi.
Suo padre faceva il falegname, ma aveva la capacità di aggiustare qualunque cosa.
Non aveva un diploma, ma una conoscenza intuitiva della meccanica e dei principi di
costruzione. Quando il telefono suonava la sera, era suo padre a rispondere, perché in
genere cercavano lui. Di solito restava in silenzio, ascoltando la descrizione di questa
o quell'emergenza, poi annotava l'indirizzo su pezzetti di carta strappati da vecchi
giornali. Dopo aver riattaccato, il padre andava in garage, riempiva la borsa degli
attrezzi e partiva, di solito senza dire dove fosse diretto o quando sarebbe tornato. Al
mattino c'era un assegno infilato sotto la statua di Robert E. Lee che suo padre aveva
scolpito nel legno, e sua madre gli massaggiava la schiena e prometteva di andarlo a
depositare in banca dopo colazione. Era quella l'unica manifestazione d'affetto che
Steve avesse mai colto tra i suoi. Di norma non litigavano ed evitavano i conflitti.
Sembravano apprezzare la compagnia reciproca, ma nei diciotto anni che Steve aveva
trascorso a casa, non li aveva mai visti baciarsi.
L'unica passione vera di suo padre era il poker. Le sere in cui non suonava il telefono,
andava a giocare in uno dei club. Era associato, non per la compagnia, ma per le
partite. Si sedeva al tavolo insieme con altri massoni o veterani giocando per ore a
Texas hold'em. Il gioco lo assorbiva totalmente; gli piaceva calcolare le probabilità di
ottenere una scala, o decidere di bluffare quando aveva in mano soltanto una coppia
di sei.«Il segreto è saper mentire», gli piaceva ripetere,«e capire quando gli altri ti
stanno mentendo.» Steve aveva concluso che il padre doveva sapere come mentire.
Passati i cinquanta, con le mani quasi completamente anchilosate dopo trent'anni di
falegnameria, il padre smise di installare mobili su misura nelle case davanti
all'oceano che avevano cominciato a sorgere in tutta l'isola; iniziò anche a non
rispondere più al telefono di sera.
Non giocava mai a poker il sabato o la domenica. Il sabato era riservato ai lavoretti in
casa e, a differenza del giardino, che poteva dare fastidio ai vicini, l'interno era un
gioiello. Nel corso degli anni suo padre aveva inserito modanature e pannelli
decorativi e aveva scolpito le mensole del camino da due tronchi d'acero. Aveva
costruito gli armadietti in cucina, fatto i pavimenti in legno e ristrutturato il bagno.
Tutti i sabato sera, si metteva giacca e cravatta e portava la moglie fuori a cena. La
domenica la dedicava a se stesso: dopo la messa, lavorava nel suo laboratorio, mentre
la moglie preparava torte o verdure sott'olio.
Il lunedì mattina, la routine ricominciava.
Il padre non gli aveva mai insegnato a giocare. Steve era abbastanza sveglio da capire
le regole di base da solo, e gli piaceva pensare di essere abbastanza astuto da
smascherare i bluff. Qualche volta aveva giocato con altri studenti al college e aveva
scoperto di essere un giocatore mediocre. Dopo il diploma si era trasferito a New
York e di tanto in tanto era tornato a trovare i genitori. La prima volta erano passati
due anni e quando aveva varcato la soglia di casa, la madre lo aveva abbracciato con
forza. Il padre gli aveva stretto la mano, dicendo:«La mamma ha sentito la tua
mancanza». Avevano mangiato torta di mele e bevuto caffè e dopo aver finito, il
padre si era alzato e aveva preso la giacca e le chiavi dell'auto. Era martedì sera; stava
a significare che sarebbe andato al club. La partita finiva alle dieci e lui sarebbe
rincasato quindici minuti più tardi.
«Non... non andare stasera», lo pregò la madre.«Steve è appena tornato a casa.»
Era stata l'unica volta in cui aveva mai sentito la madre chiedere al marito di non
andare al club, ma il padre non diede segno di esserne sorpreso. Si fermò sulla soglia
e si voltò, l'espressione imperscrutabile.
«Oppure portalo con te», insistette lei.
Lui si gettò la giacca sul braccio.«Vuoi venire?»
«Certo.» Steve tamburellò con le dita sul tavolo.«Perché no? Deve essere divertente.»
Dopo un istante la bocca del padre si curvò nell'ombra fugace di un sorriso. Se
fossero stati al tavolo da poker, probabilmente non ci sarebbe stato neppure quel
breve ammiccamento.
«È una bugia», dichiarò il padre.
La mamma se n'era andata all'improvviso pochi anni dopo quell'incontro, a causa di
un'emorragia cerebrale, e all'ospedale Steve stava pensando alla sua tenace dolcezza,
quando il padre si svegliò con un gemito. Girò la testa e vide il figlio. Da
quell'angolazione, con il volto in ombra, sembrava uno scheletro.
«Sei ancora qui.»
Steve incassò il colpo e avvicinò la sedia al letto.«Sì, sono ancora qui.»
«Perché?»
«Che cosa significa, perché? Perché tu sei qui.»
«Io sono all'ospedale perché sto morendo. E morirei in ogni caso, che tu ci sia oppure
no. Dovresti tornare a casa. Hai una moglie e dei figli. Non c'è niente che tu possa
fare per me.»
«Io voglio restare qui», disse Steve.«Sei mio padre. Perché non mi vuoi con te?»
«Forse non voglio che tu mi veda morire.»
«Se preferisci, vado via.»
Suo padre sbuffò.«Visto, ecco il problema. Vuoi che sia io a decidere per te. È sempre
stato il tuo problema.»
«Invece desidero solo trascorrere del tempo con te.»
«Lo desideri tu o piuttosto tua moglie?»
«Ha importanza?»
Il padre cercò di sorridere, ma fu più che altro una smorfia.«Non lo so. Ha
importanza?»
Seduto al pianoforte, Steve udì una macchina che si avvicinava. La luce dei fari
lampeggiò alla finestra e per un istante lui pensò che Ronnie si fosse fatta dare uno
strappo fino a casa. Ma subito dopo la luce svanì e Ronnie non era ancora tornata.
Era passata mezzanotte. Steve si chiedeva se dovesse andare a cercarla.
Qualche anno prima, quando non aveva ancora smesso di parlargli, lui e Kim si erano
rivolti a una consulente matrimoniale. Steve ricordava di essersi seduto accanto a
Kim su un divano di fronte a una donna sottile e spigolosa sulla trentina con un paio
di calzoni grigi che aveva il vizio di premere insieme la punta delle dita. Quando lo
fece, Steve si accorse che non portava la fede nuziale.
Lui si sentiva a disagio; l'idea della consulente era venuta a Kim che ci era già stata
da sola.
Quella era la loro prima seduta insieme e Kim aveva esordito dicendo che Steve
teneva le emozioni chiuse ermeticamente dentro se stesso e che non era colpa sua.
Disse che i suoi genitori non erano espansivi e che era cresciuto in una famiglia dove
non si parlava. Aveva cercato rifugio nella musica, proseguì, e aveva imparato a
provare qualcosa soltanto attraverso il pianoforte.
«È così?» domandò la consulente.
«I miei genitori erano brave persone», rispose lui.
«Questa non è una risposta.»
«Non so che cosa vuole che le dica.»
La psicologa sospirò.«Va bene, proviamo così. Sappiamo tutti che cosa è successo e
perché siete qui. Secondo me ciò che desidera Kim è che lei le spieghi come si
sente.»
Steve ci pensò sopra. Avrebbe voluto dire che tutti quei discorsi sulle emozioni erano
irrilevanti. Che le emozioni vanno e vengono e non possono essere controllate, quindi
non c'è ragione di preoccuparsene. Che in fin dei conti le persone dovrebbero essere
giudicate dalle loro azioni.
Ma non disse niente di tutto questo. Invece intrecciò insieme le dita.«Lei vuole sapere
come mi sento.».
«Sì. Ma non lo dica a me.» Indicò Kim.«Parli con sua moglie.»
Lui si girò verso di lei, intuendone l'aspettativa.
«Mi sento...»
Era in uno studio con sua moglie e una sconosciuta, impegnato in un dialogo che
andava al di là della sua immaginazione. Erano passate da poco le dieci del mattino e
lui era tornato a New York solo da pochi giorni. La tournée lo aveva portato in una
ventina di città diverse, mentre Kim ora lavorava in uno studio legale di Wall Street.
«Mi sento...» ripetè.
Quando l'orologio batté l'una, Steve uscì sulla veranda. L'oscurità della notte aveva
lasciato il posto alla luce rossastra della luna che illuminava la spiaggia. Erano sedici
ore che non vedeva la figlia ed era preoccupato. Confidava che lei fosse abbastanza
sveglia e prudente da saper badare a se stessa.
Sì, d'accordo, forse era un po' in ansia.
Suo malgrado si chiedeva se l'indomani sarebbe scomparsa ancora, come aveva fatto
quel giorno. E se la storia si sarebbe ripetuta per tutta l'estate.
Il tempo trascorso con Jonah era stato come scoprire un tesoro speciale, e lui avrebbe
voluto stare anche insieme con Ronnie. Rientrò in casa.
Mentre tornava a sedersi al pianoforte, avvertì di nuovo la stessa sensazione che
aveva detto alla consulente matrimoniale seduto sul divano nel suo studio.
Si sentiva svuotato.
10. Ronnie
C'era parecchia gente a Bower's Point, ma poi, uno dopo l'altro, se n'erano andati tutti
finché erano rimasti soltanto i soliti cinque. Erano persone a posto, c'era addirittura
una coppia abbastanza interessante, ma quando l'alcol aveva cominciato a fare effetto,
tutti, a parte Ronnie, si erano creduti molto più spiritosi di quanto fossero in realtà.
Lei era in piedi da sola in riva all'acqua. Alle sue spalle, accanto al falò, Teddy e
Lance fumavano, bevevano e di tanto in tanto si lanciavano palline di fuoco; Blaze
era appiccicata a Marcus. Si stava facendo tardi. Non secondo gli standard di New
York - lì, non entrava nei club prima di mezzanotte - ma, considerata l'ora in cui si era
svegliata, era stata una lunga giornata. Si sentiva stanca.
L'indomani avrebbe dormito almeno fino alle dieci. Tornata a casa avrebbe appeso
degli asciugamani oppure una coperta al bastone della tenda... li avrebbe inchiodati al
muro, se necessario. Non aveva nessuna intenzione di trascorrere tutta l'estate a
svegliarsi con le galline, neppure se avesse passato la giornata in spiaggia con Blaze.
Era stata proprio lei a sorprenderla con quella proposta che in effetti l'aveva allettata.
Tanto, non c'era altro da fare. Quel pomeriggio, dopo essere uscite dal pub, erano
entrate in quasi tutti i negozi del centro, compreso quello di musica, che era molto
ben fornito, e poi erano andate a casa di Blaze a guardare Breakfast Club mentre sua
madre era al lavoro. Certo, si trattava di un film degli anni Ottanta, ma a Ronnie
piaceva e lo aveva visto almeno una decina di volte; lo trovava sorprendentemente
reale. Ben più reale di quanto stava accadendo lì quella notte, soprattutto visto che
più Blaze beveva, più ignorava lei e si stringeva a Marcus.
Dal canto suo, Ronnie provava già un'istintiva antipatia per Marcus. Aveva un radar
piuttosto sensibile quando si trattava di ragazzi e intuiva che in lui c'era qualcosa di
sbagliato. Era come se nel suo sguardo mancasse... calore; quando le parlava i suoi
occhi le facevano venire i brividi. Non le piacevano neppure Teddy e Lance, ma
Marcus... Aveva la sensazione che il suo comportamento in apparenza normale fosse
soltanto una posa che usava per manipolare le persone.
E Blaze...
Le era sembrato strano andare a casa sua prima, perché era stato tutto normale. La
casa si trovava in una tranquilla strada privata, aveva le persiane azzurre e una
bandiera americana che sventolava in veranda. Le pareti erano tinteggiate di colori
allegri, sul tavolo del soggiorno c'era un vaso con dei fiori freschi. Era pulito, ma non
in maniera ossessiva. Sul tavolo in cucina c'erano dei soldi e un biglietto per Blaze.
Quando Ronnie la vide infilarsi in tasca le banconote e leggere il biglietto, Blaze le
spiegò che sua madre le lasciava sempre dei soldi. In quel modo poteva sapere che la
figlia stava bene quando non tornava a casa.
Che strano.
In realtà lei avrebbe voluto parlare con Blaze di Marcus, ma sapeva che non sarebbe
servito a niente. Marcus era pericoloso, ed era chiaro che Blaze avrebbe fatto meglio
a stargli lontano. Si chiedeva come mai non se ne rendesse conto. Forse l'indomani ne
avrebbero parlato mentre erano al mare.
«Ti stai annoiando?»
Ronnie, che stava guardando l'acqua, si voltò e vide Marcus in piedi dietro di lei.
Faceva scorrere sul dorso della mano una pallina infuocata.
«Avevo voglia di venire qui in riva al mare.»
«Vuoi che ti porti una birra?»
Da come glielo chiese, capì che conosceva già la risposta.
«Io non bevo.»
«Perché?»
Perché bere rende la gente stupida, avrebbe voluto rispondere. Ma non lo fece.
Sapeva che qualunque spiegazione avesse offerto avrebbe soltanto prolungato la
conversazione.«Non bevo e basta. Tutto qui.»
«Ne sei proprio sicura?» la stuzzicò lui.
«Sì.»
Nell'oscurità, le sue labbra erano curvate in un sorriso appena abbozzato, ma i suoi
occhi rimanevano due cavità in ombra.«Ti credi migliore di noi?»
«No.»
«Allora vieni.» Indicò il falò.«Siediti con noi.»
«Sto bene qui.»
Lui si guardò alle spalle. Vicino al falò, Ronnie vide Blaze prendere un'altra birra
dalla borsa frigo. Era l'ultima cosa che le serviva. Stentava già a mantenersi in
equilibrio sulle gambe.
Senza preavviso, lui fece un passo in avanti e le cinse la vita, stringendola a
sé.«Andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia.»
«No», ringhiò lei.«Non mi va. E toglimi le mani di dosso.»
Lui non lo fece. Era evidente che si stava divertendo.«Ti preoccupi di cosa potrebbe
pensare Blaze?»
«Non mi va e basta, capito?»
«Blaze non se la prenderà.»
Lei fece un passo indietro, allontanandosi da lui.
«Io sì», rispose.«E poi devo andare.»
Marcus continuò a fissarla.«Certo, vai pure.» Poi, dopo una pausa, aggiunse in modo
che lo sentissero anche gli altri:«No, rimarrò qui. Comunque grazie per avermelo
chiesto».
Lei rimase troppo sbigottita per reagire in qualche modo. Si avviò lungo la spiaggia,
sapendo che Blaze la guardava, e all'improvviso avrebbe voluto sparire il più in fretta
possibile.
A casa, il padre stava suonando il pianoforte e, non appena lei entrò, lanciò
un'occhiata all'orologio.
Dopo quanto era appena successo, non era dell'umore giusto per affrontarlo, così si
diresse verso il corridoio senza dire una parola. Lui però doveva aver letto qualcosa
nella sua espressione, perché la chiamò.
«Tutto bene?»
Lei esitò.«Sì, tutto bene», rispose.
«Ne sei sicura?»
«Non voglio parlarne.»
Lui la osservò in silenzio.«Va bene.»
«C'è qualcos'altro?»
«Sono quasi le due», commentò lui.
«E?»
Lui si chinò sulla tastiera.«C'è della pasta in frigorifero, nel caso avessi fame.»
Doveva ammettere che l'aveva colta di sorpresa con quell'affermazione. Niente
ramanzine, niente divieti, niente richiami all'ordine. Praticamente l'opposto di come
avrebbe reagito la mamma. Scosse il capo e andò in camera sua, chiedendosi se ci
fosse qualcosa o qualcuno di normale da quelle parti.
Si dimenticò di appendere la coperta davanti alla finestra e il sole inondò la camera
svegliandola dopo neanche sei ore di sonno.
Con un gemito si mise il cuscino sulla testa, ma poi le tornò in mente quanto era
successo alla spiaggia. Allora si drizzò a sedere, sapendo che non sarebbe più riuscita
a dormire.
Marcus le faceva decisamente venire i brividi.
Il suo primo pensiero fu che avrebbe dovuto rispondere qualcosa la sera prima,
quando lui aveva parlato a voce alta. Qualcosa del tipo: Ma che diavolo stai dicendo?
Oppure: Se pensi che voglia venire da qualche parte con te, sei pazzo! Ma non l'aveva
fatto e ora le veniva il sospetto che andarsene così fosse stata la cosa peggiore che
avrebbe potuto fare.
Doveva a tutti i costi parlare con Blaze.
Con un sospiro si alzò dal letto e andò in bagno. Fece una rapida doccia e s'infilò il
costume sotto i vestiti, poi riempì una sacca di tela con degli asciugamani e la crema
solare. Quando fu pronta, sentì il padre che già suonava il pianoforte. Di nuovo.
Quando viveva con loro non aveva mai suonato così tanto. Concentrandosi sulla
musica, si rese conto che stava suonando uno dei pezzi da lei eseguiti alla Carnegie
Hall, lo stesso del CD che sua madre aveva ascoltato in macchina.
Come se in quel momento non avesse già abbastanza problemi.
Doveva trovare Blaze per spiegarle l'accaduto. Certo, sarebbe stato un problema
riuscire a farlo senza dare del bugiardo a Marcus. Blaze sicuramente sarebbe stata
incline a credere a lui, e Ronnie non poteva sapere che cosa le aveva raccontato dopo
che se n'era andata. Ma avrebbe affrontato il problema quando si fosse presentato;
sperava che stando sdraiate al sole l'atmosfera sarebbe stata rilassata e il discorso
sarebbe venuto fuori da solo.
Si avviò lungo il corridoio proprio mentre la musica dal salotto s'interrompeva per
riprendere subito dopo con il secondo pezzo del repertorio della Carnegie Hall.
Si fermò per sistemarsi la sacca sulla spalla. La strategia di suo padre era evidente.
Aveva sentito la doccia e sapeva che era sveglia. E voleva trovare un terreno comune
con lei. Ebbene, non oggi, papà. Le spiaceva, ma aveva altre cose da fare. Non era
proprio dell'umore giusto.
Stava per raggiungere la porta d'ingresso, quando Jonah uscì di corsa dalla cucina.
«Non ti avevo detto di mangiare qualcosa di buono?» disse suo padre.
«Infatti. È un lecca-lecca.»
«Io intendevo qualcosa di più simile a dei cereali.»
«Questo contiene zucchero.» Jonah era serissimo.«Ho bisogno di energie, papà.»
Ronnie fece qualche rapido passo nel salotto, sperando di riuscire a raggiungere la
porta prima che lui le rivolgesse la parola.
Jonah sorrise.«Oh, ciao Ronnie!»
«Ciao Jonah.» Posò la mano sulla maniglia.
«Tesoro?» sentì dire dal padre che aveva smesso di suonare.«Possiamo parlare di ieri
notte?»
«Ora davvero non ho tempo», rispose.
«Volevo sapere semplicemente dove sei stata tutto il giorno.»
«Da nessuna parte. Non è importante.»
«Sì che lo è.»
«No, papà», ribatté lei con voce decisa.«Non lo è. E adesso ho da fare, va bene?»
Jonah indicò la porta con il suo lecca-lecca.«Che cosa? Dove stai andando?»
Era proprio il genere di conversazione che avrebbe voluto evitare.«Non è affar tuo.»
«Fino a quando resterai fuori?»
«Non lo so.»
«Tornerai a pranzo o a cena?»
«Non lo so», sbuffò lei.«Ora vado.»
Il padre ricominciò a suonare il pianoforte. Era il terzo pezzo della Carnegie Hall. Era
come se suonasse il CD della mamma.
«Noi andremo a far volare gli aquiloni più tardi. Io e papà.»
Lei fece finta di niente. Poi si girò di scatto verso il padre.«Vorresti smetterla, per
favore?» chiese acida.
Lui si interruppe.«Di fare che cosa?»
«Di suonare quella musica! Credi che non riconosca quei brani? So quello che vuoi
fare e ti ho già detto che non funzionerà.»
«E io ti credo.»
«Allora perché continui a volermi far cambiare idea?
Perché tutte le volte che ti vedo te ne stai seduto lì a strimpellare?»
Lui la guardò con espressione sinceramente confusa.«Tu non c'entri niente»,
spiegò.«È solo... Mi fa sentire meglio.»
«Invece a me fa stare male. Lo capisci? Odio il pianoforte. Odio essere stata costretta
a suonarlo ogni santo giorno! E odio dovermi trovare davanti agli occhi quello
stramaledetto strumento!»
Prima che il padre potesse dire qualcosa, lei si voltò, strappò di mano al fratello il
lecca-lecca e si precipitò fuori.
Impiegò un paio d'ore prima di trovare Blaze nel negozio di musica dov'erano state il
giorno precedente. La prima volta che c'era entrata, Ronnie non sapeva bene che cosa
aspettarsi, le sembrava un negozio un po' antiquato nell'era degli iPod e della musica
su Internet, ma Blaze le aveva garantito che ne sarebbe valsa la pena, e in effetti non
era rimasta delusa.
Oltre ai CD c'erano autentici dischi di vinile, a migliaia, tra cui veri articoli da
collezionisti, compresa una copia ancora sigillata di Abbey Road, e una grande
quantità di vecchi 45 giri appesi al muro con le firme di celebrità come Elvis Presley,
Bob Marley e Ritchie Valens. Ronnie rimase sorpresa che non fossero sotto chiave.
Dovevano valere parecchio, ma il gestore del negozio sembrava un reduce degli anni
Sessanta e conosceva praticamente tutti. Aveva lunghi capelli grigi legati in una coda
che gli arrivava in vita e un paio di occhialini tondi uguali a quelli di John Lennon.
Indossava sandali e una camicia hawaiana e, pur essendo abbastanza vecchio da poter
essere il nonno di Ronnie, conosceva la musica meglio di chiunque altro, compresi un
sacco di gruppi underground di cui lei non aveva mai sentito parlare. Sulla parete di
fondo c'erano delle cuffie che i clienti potevano usare per ascoltare gli album e i CD
oppure per scaricare musica sui loro iPod. Guardando dentro dalla vetrina, Ronnie
vide Blaze che si reggeva la cuffia vicino all'orecchio con una mano e con l'altra
tamburellava sul tavolo al ritmo di quello che stava ascoltando.
Non aveva affatto l'aria di essere pronta per passare una giornata in spiaggia.
Con un sospiro, Ronnie entrò. Nutriva una mezza speranza che la sera prima fosse
stata così sbronza da essersi dimenticata l'accaduto. Oppure, meglio ancora, che fosse
stata abbastanza sobria da rendersi conto che Ronnie non aveva alcun interesse per
Marcus.
Non appena avanzò nel corridoio, intuì che Blaze la stava aspettando. Abbassò il
volume delle cuffie senza tuttavia togliersele dalle orecchie e si voltò. Ronnie
riusciva a sentire la musica, qualcosa di chiassoso e arrabbiato che non conosceva.
Blaze prese dei CD.
«Credevo che fossimo amiche», esordì.
«Lo siamo», ribatté Ronnie.«Ti ho cercata dappertutto perché non volevo che ti
facessi un'idea sbagliata su quello che è successo ieri notte.»
Blaze aveva un'espressione di ghiaccio.«Ti riferisci al fatto di avere chiesto a Marcus
di fare una passeggiata con te?»
«Non è andata così», obiettò Ronnie.«Io non gli ho chiesto proprio niente. Non so
quale fosse il suo gioco...»
«Il suo gioco? Il suo gioco, dici?» Blaze posò le cuffie.«Ho visto come lo guardavi!
Ho sentito quello che hai detto!»
«Ma io non ho detto proprio niente! Non gli ho chiesto di andare da nessuna parte!»
«Hai cercato di baciarlo!»
«Ma di che cosa stai parlando? Io non ho cercato affatto di baciarlo...»
Blaze fece un passo avanti.«Me l'ha raccontato lui!»
«Allora ti ha mentito», ribatté Ronnie decisa.«Quel tizio è pericoloso.»
«Non... non... non provarci nemmeno...»
«Ti ha mentito. Io non l'avrei mai baciato. Non mi piace nemmeno. L'unico motivo
per cui ero con voi era perché tu avevi insistito che venissi.»
Blaze rimase in silenzio per un po'. Ronnie si chiedeva se finalmente avesse
cominciato a capire.
«Come vuoi», dichiarò Blaze, con un tono che non lasciava dubbi sul significato.
Con uno spintone la superò e si diresse verso la porta. Ronnie la guardò andare via,
senza sapere se si sentiva più offesa per la considerazione che Blaze aveva di lei o più
arrabbiata per come si era appena comportata. La seguì con lo sguardo attraverso la
vetrina.
Adesso non sapeva bene che cosa fare: non voleva andare al mare, ma non voleva
neppure tornare a casa. Non aveva un'auto a disposizione e non conosceva
praticamente nessuno. Il che stava a significare... che cosa? Forse avrebbe finito per
trascorrere l'estate seduta su una panchina a dare da mangiare ai piccioni, come alcuni
balordi a Central Park. Forse avrebbe finito per chiamarli per nome...
All'uscita, i suoi pensieri furono momentaneamente bloccati dall'improvviso suono
dell'allarme. Si guardò intorno, dapprima incuriosita e poi confusa rendendosi conto
di quanto stava succedendo. C'era un unico accesso per entrare e uscire dal negozio.
Subito dopo vide l'uomo con la coda di cavallo correrle incontro.
Lei non cercò di scappare, perché sapeva di non avere fatto niente di sbagliato;
quando l'uomo chiese di esaminare la sua sacca, non vide motivo di impedirglielo.
Ovviamente si trattava di un equivoco, e fu soltanto quando il negoziante tirò fuori
due CD e una mezza dozzina dei 45 giri autografati dalla sua sacca che Ronnie si rese
conto di avere avuto ragione immaginando che Blaze la stesse aspettando. I CD erano
quelli che Blaze aveva tenuto in mano, e inoltre aveva staccato i 45 giri dal muro. In
preda allo choc, capì che Blaze aveva progettato tutto.
Assalita da un capogiro, udì appena l'uomo che le annunciava l'arrivo della polizia.
11.Steve
Dopo avere comperato l'occorrente, assi e fogli di compensato, Steve e Jonah
trascorsero la mattinata a chiudere la rientranza in salotto. Non era un lavoro bello a
vedersi - suo padre sarebbe rimasto deluso - ma Steve si accontentava. Sapeva che
prima o poi il villino sarebbe stato demolito; probabilmente il terreno da solo valeva
di più. Il bungalow era fiancheggiato da graziose ville a tre piani e lui era sicuro che i
vicini considerassero la sua abitazione un obbrobrio che diminuiva il valore delle loro
proprietà.
Steve piantò un chiodo e appese la fotografia di Ronnie e Jonah che aveva tolto dalla
rientranza; poi fece un passo indietro per rimirare il lavoro.
«Cosa ne pensi?» chiese a Jonah.
Il ragazzo storse il naso.«Assomiglia a un'orribile parete di compensato con una foto
appesa sopra. E così non potrai più nemmeno suonare il piano.»
«Lo so.»
Jonah piegò la testa da una parte all'altra.«Credo anche che sia storta. Mi sembra
inclinata.»
«A me non pare.»
«Hai bisogno degli occhiali, papà. E comunque continuo a non capire perché hai
voluto costruire questa parete.»
«Ronnie ha detto che non voleva più vedere il pianoforte.»
«E allora?»
«Siccome non c'è un posto per nasconderlo, ho deciso di costruirci davanti una
parete. Così non sarà costretta a vederlo.»
«Ah», fece Jonah pensieroso.«Sai, a me non piace fare i compiti. Anzi, non mi piace
neppure vedere i quaderni ammucchiati sulla scrivania.»
«Siamo in estate. Non devi fare i compiti.»
«Sto dicendo solo che forse dovrei costruire un muro intorno alla scrivania in camera
mia.»
Steve si sforzò di non ridere.«Forse faresti meglio a parlarne con tua madre.»
«Magari potresti farlo tu.»
Steve si lasciò sfuggire una risata.«Hai fame?»
«Hai detto che andavamo a far volare l'aquilone.»
«Sì, certo. Volevo soltanto sapere se vuoi pranzare.»
«Preferirei un gelato.»
«Non penso proprio.»
«Un biscotto?» chiese speranzoso.
«Cosa ne dici invece di un panino con burro e marmellata?»
«D'accordo. Ma poi andremo a far volare l'aquilone, giusto?»
«Sì.»
«Per tutto il pomeriggio?»
«Tutto il tempo che vuoi.»
«Va bene. Mangerò un panino, ma dovrai mangiarlo anche tu.»
Steve sorrise e cinse le spalle di Jonah con un braccio.«Affare fatto.» Si diressero
insieme in cucina.
«Sai, adesso il salotto è diventato molto più piccolo», osservò Jonah.
«Lo so.»
«E la parete è storta.»
«Lo so.»
«E non si intona con le altre pareti.»
«Che cosa vorresti dire?»
Jonah era serissimo.«Volevo solo accertarmi che tu non fossi diventato pazzo.»
Il tempo era perfetto per far volare l'aquilone. Steve era seduto su una duna e lo
guardava librarsi nel cielo. Jonah, pieno di energie come al solito, correva su e giù per
la spiaggia. Steve lo osservava pieno d'orgoglio, stupito di ricordare che quando
faceva la stessa cosa da bambino, i suoi genitori non lo avevano mai accompagnato.
Non gli avevano fatto mancare nulla, è vero, ma non si poteva dire che fossero stati
molto amorevoli e disponibili nei suoi confronti. Suo padre era il tipo che si adattava
alle situazioni e sua madre non era poi tanto diversa, e forse era proprio questa la
ragione che aveva permesso loro di restare sposati per tanti anni. Lei era originaria
della Romania e aveva incontrato il marito mentre era distaccato in Germania.
Quando si erano sposati lei parlava a stento l'inglese e non aveva mai messo in
discussione la cultura dalla quale proveniva. Cucinava, puliva e faceva il bucato, e il
pomeriggio lavorava come sarta. Alla fine della propria vita aveva imparato un
inglese passabile, sufficiente a recarsi in banca e dal droghiere, ma il suo accento era
rimasto così marcato che a volte gli altri facevano fatica a capirla.
Era anche una devota cattolica, una vera rarità- a Wilmington in quegli anni. Andava
in chiesa ogni giorno e recitava il rosario tutte le sere, e sebbene anche Steve andasse
regolarmente a messa la domenica, considerava il prete un uomo freddo e arrogante,
più interessato alle regole della chiesa che al bene del suo gregge. A volte si chiedeva
come sarebbe stata la sua vita se non avesse udito la musica che proveniva dalla
Chiesa Battista quando aveva otto anni.
A quarantanni di distanza i contorni di quell'episodio erano sfumati. Ricordava di
essere entrato in chiesa un pomeriggio, e di avere sentito il pastore Harris suonare il
piano. Il reverendo doveva averlo messo a proprio agio, perché lui ci era tornato
ancora e alla fine il pastore Harris era diventato il suo primo insegnante di pianoforte.
Per molti versi la Chiesa Battista diventò la sua seconda casa e il pastore Harris il suo
secondo padre.
Ricordava che sua madre non ne era affatto contenta. Quando era arrabbiata,
borbottava in rumeno e per anni, tutte le volte che lui usciva per andare li, la sentì
pronunciare parole incomprensibili mentre si faceva il segno della croce. Secondo lei
farsi dare lezioni di pianoforte da un pastore battista era come giocare a campana con
il diavolo.
Tuttavia non aveva cercato di fermarlo, e questo era abbastanza. Lui non dava
importanza al fatto che non andasse a parlare con i suoi insegnanti, o che non gli
leggesse mai dei libri, o che nessuno invitasse la sua famiglia per le feste o le
grigliate nel vicinato. Ciò che contava era che gli avesse permesso non solo di
scoprire la propria passione, ma di coltivarla, anche se non condivideva la sua scelta.
E che in qualche modo fosse riuscita a impedire al padre, che trovava ridicola l'idea
di guadagnarsi da vivere con la musica, di bloccarlo. Per questo l'avrebbe sempre
amata.
Jonah continuava a correre avanti e indietro con l'aquilone. Il simbolo di Batman si
stagliava tra due nuvoloni scuri, di quelli che preannunciavano un temporale estivo.
Steve si alzò per richiamare Jonah e tornare a casa. Fatto qualche passo notò una serie
di linee appena abbozzate nella sabbia che si dirigevano verso la duna dietro casa sua.
Erano impronte che aveva visto molte volte da ragazzo. Sorrise.
«Ehi, Jonah!» gridò seguendo le tracce.«Vieni qui! C'è qualcosa che devi vedere!»
Il figlio lo raggiunse di corsa, l'aquilone che gli tendeva il braccio.«Che cos'è?»
Steve discese la duna fino al punto in cui si fondeva con la spiaggia. Sepolte a pochi
centimetri dalla superficie, erano visibili alcune uova.
«Che cosa sono?» chiese Jonah quando le vide.
«È il nido di una testuggine», rispose Steve.«Ma non devi avvicinarti troppo. E non
toccarle.»
Jonah fece ancora qualche passo avanti, sempre stringendo il filo dell'aquilone.
«Che cos'è una testuggine?» Ansimava, mentre lottava per trattenere l'aquilone.
Steve prese un pezzo di legno trasportato dalle onde e cominciò a tracciare un ampio
cerchio intorno al nido.«È una tartaruga di mare. Una specie a rischio di estinzione.
Vengono a riva di notte per deporre le uova.»
«Dietro casa nostra?»
«È uno dei luoghi che hanno scelto. Ma la cosa importante che dovresti sapere è che
rischiano di estinguersi. Sai che cosa significa?»
«Significa che stanno per morire», rispose Jonah.
Steve completò il cerchio e gettò da una parte il pezzo di legno. Quando si rialzò
provò una fitta di dolore, ma fece finta di niente.«Non esattamente. Significa che se
non le aiutiamo e se non stiamo attenti, la loro specie potrebbe scomparire per
sempre.»
«Come i dinosauri?»
Steve stava per rispondere, quando sentì squillare il telefono in cucina. Aveva lasciato
aperta la porta sul retro per creare un po' di corrente d'aria e raggiunse la veranda
correndo sulla sabbia. Quando rispose al telefono aveva il fiato corto.
«Papà?» udì all'altro capo del filo.
«Ronnie?»
«Devi venire a prendermi. Sono al commissariato.»
Steve rimase interdetto.«Va bene», rispose.«Arrivo subito.»
L'agente Johnson gli riferì quanto era accaduto, ma lui sapeva che Ronnie non era
ancora pronta a parlarne. Jonah, da parte sua, sembrava non rendersi conto di quanto
era successo.
«La mamma si arrabbierà da morire», osservò.
Steve vide Ronnie stringere le labbra.
«Non sono stata io», dichiarò.
«Allora chi è stato?»
«Non voglio parlarne», rispose lei. Incrociò le braccia e si appoggiò alla portiera
dell'auto.
«La mamma non sarà affatto contenta.»
«Non sono stata io!» ripetè, girandosi di scatto verso Jonah.«
E assicurò che lui capisse quanto fosse arrabbiata prima di affrontare il padre.
«Non sono stata io, papà! Giuro su Dio che non ho fatto niente. Devi credermi!»
Lui colse la disperazione nel suo tono, e non potè fare a meno di ricordare quella di
sua moglie quando avevano parlato di Ronnie. Ripensò al suo modo di comportarsi
da quando era arrivata e al genere di persone che si era scelta come amici.
Sospirò e all'improvviso si sentì svuotato delle poche energie che gli rimanevano. In
quel momento capì che ciò di cui aveva bisogno la figlia era la verità.
«Io ti credo», disse.
Arrivarono a casa che il sole era tramontato. Steve uscì a controllare il nido della
tartaruga. Era una serata splendida come spesso accadeva in Carolina, con una lieve
brezza e il cielo che sembrava una tavolozza di mille colori diversi; un banco di
delfini giocava appena oltre la risacca e passavano davanti alla casa due volte al
giorno, così Steve si ripromise di farli vedere a Jonah. Di sicuro avrebbe chiesto di
uscire al largo per cercare di toccarli; Steve faceva la stessa cosa da bambino, ma non
era mai riuscito nell'impresa.
Paventava il momento in cui avrebbe dovuto chiamare Kim e raccontarle ciò che era
accaduto a Ronnie. Per rimandare, si mise seduto sulla duna accanto al nido, a fissare
ciò che restava delle orme della tartaruga. Il vento e le tracce dei bagnanti le avevano
cancellate quasi del tutto. A parte un lieve incavo nel punto in cui la duna finiva nella
spiaggia, il nido era praticamente invisibile e le due uova che emergevano dalla
sabbia somigliavano a sassi chiari e lisci.
Si accorse che Ronnie si stava avvicinando. Camminava lentamente, le braccia
conserte, la testa china con i capelli a nasconderle gran parte del viso. Si fermò a
pochi passi di distanza.
«Ce l'hai con me?» gli chiese.
Era la prima volta da quando era arrivata che gli rivolgeva la parola senza rabbia o
risentimento nella voce.
«No», rispose lui.«Niente affatto.»
«Allora che cosa ci fai qui fuori?»
Lui indicò il nido.«Una testuggine ha deposto le uova ieri notte. Le hai mai viste?»
Ronnie disse di no e Steve proseguì.«Sono creature magnifiche. Hanno il guscio di un
marrone rossiccio e possono arrivare a pesare fino a quattrocento chili. Il North
Carolina è uno dei pochi luoghi dove nidificano. In ogni caso sono a rischio
d'estinzione. Credo che soltanto una su mille raggiunga la maturità e non voglio che i
procioni arrivino al nido prima che le uova si schiudano.»
«I procioni come fanno a sapere che qui c'è un nido?»
«Quando una femmina di testuggine depone le uova, lascia anche dell'urina. I
procioni sono attratti dall'odore e sono ghiotti di uova. Da ragazzo avevo trovato un
nido sull'altro lato del molo. Il giorno prima era tutto a posto, il giorno dopo erano
rimasti soltanto i gusci vuoti. Ho provato tanta tristezza!»
«L'altro giorno ho visto un procione sulla veranda.»
«Lo so. Fruga tra i rifiuti. Appena rientriamo lascerò un messaggio all'acquario.
Spero che domani mandino qualcuno con una gabbia speciale per circondare il nido e
tenere fuori i predatori.»
«E stanotte?»
«Temo che non ci resti altro da fare che sperare.»
Ronnie si scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.«Papà? Posso farti una
domanda?»
«Certo!»
«Perché hai detto che mi credevi?»
Guardandola di profilo, riconosceva in lei la bambina di un tempo ma vedeva anche
la donna che stava diventando.
«Perché mi fido di te.»
«È per questo che hai costruito il divisorio per nascondere il pianoforte?» Lei parlava
senza guardarlo in faccia.«Quando sono entrata l'ho visto.»
«No, l'ho fatto perché ti voglio bene.»
Ronnie gli rivolse un breve sorriso poi, dopo un attimo d'esitazione, si mise a sedere
accanto a lui. Rimasero a guardare le onde che s'infrangevano sulla riva. L'alta marea
sarebbe arrivata presto e la spiaggia era già sparita per metà.
«Che cosa mi succederà?» chiese lei.
«Pete proverà a parlare con il proprietario del negozio, ma non so come andrà a
finire. Un paio di quei dischi sono molto rari. Valgono parecchio.»
Ronnie provò una stretta allo stomaco.«Lo hai già detto alla mamma?»
«Non ancora.»
«Lo farai?»
«È probabile.»
Rimasero in silenzio per un po'. Un gruppo di surfisti passò davanti a loro, reggendo
le tavole sottobraccio. In lontananza le onde si erano leggermente ingrossate,
sollevandosi e abbassandosi senza sosta.
«Quando telefonerai all'acquario?»
«Appena torno dentro. Sono sicuro che Jonah comincia ad avere fame.»
Ronnie fissò il nido. Aveva lo stomaco troppo sottosopra per pensare di mangiare
qualcosa.«Non voglio che accada nulla alle uova di tartaruga, stanotte.»
Steve si voltò verso di lei.«Che cosa intendi fare?»
Qualche ora più tardi, dopo avere dato la buonanotte a Jonah, Steve uscì sulla
veranda per dare un'occhiata a Ronnie. Aveva lasciato un messaggio all'acquario,
dopodiché era andato all'emporio per comperarle l'occorrente: un sacco a pelo
leggero, una lampada da campeggio, un cuscino e uno spray contro gli insetti.
Non gli piaceva l'idea che Ronnie dormisse fuori, ma lei era categoricamente decisa a
farlo e lui ammirava il suo impulso protettivo per il nido di tartarughe. Aveva insistito
che sarebbe stata bene, e, per certi versi, lui ne era convinto. Come la maggior parte
delle persone cresciute a Manhattan, aveva imparato a essere prudente e aveva avuto
un'esperienza sufficiente del mondo da sapere che a volte nascondeva dei pericoli.
Inoltre il nido si trovava a meno di venti metri dalla finestra della sua camera da letto
- che lui avrebbe lasciato aperta - perciò era convinto che si sarebbe accorto nel caso
Ronnie fosse finita nei guai. Eventualità abbastanza improbabile, dato che la forma
della duna e la collocazione del nido rendeva assai difficile che qualcuno
camminando sulla spiaggia si accorgesse della sua presenza.
D'altro canto, aveva soltanto diciassette anni e lui era suo padre, e tutto questo stava a
significare che l'avrebbe controllata ogni tanto. Di sicuro non sarebbe riuscito a
dormire molto.
La luna era una falce sottile, ma il cielo era limpido e mentre lui avanzava nell'ombra,
ripensò alla loro conversazione. Si domandava che cosa provasse lei per il fatto che
lui avesse nascosto il pianoforte. L'indomani si sarebbe svegliata dello stesso umore
di quando era arrivata? Non poteva saperlo. Mentre si avvicinava quel tanto da
distinguere il sacco a pelo di Ronnie, il gioco di luci e ombre delle stelle gliela fece
apparire nel contempo più giovane e più vecchia della sua età. Pensò con malinconia
agli anni che aveva perduto e che non sarebbero più tornati.
Si soffermò abbastanza da guardare su e giù lungo la spiaggia. A quanto poteva
vedere, non c'era nessuno, così si voltò e tornò in casa. Si mise seduto sul divano e
accese il televisore, passando in rassegna vari canali, prima di spegnerlo. Alla fine
andò a letto.
Si addormentò quasi immediatamente ma si svegliò un'ora più tardi. Uscendo in
punta di piedi, tornò a controllare quella figlia che amava più della vita stessa.
12. Ronnie
Il suo primo pensiero al risveglio fu che era tutta indolenzita. Aveva la schiena
anchilosata, il collo dolorante e, quando trovò il coraggio di mettersi a sedere, fu
assalita da una fitta alla spalla.
Non riusciva proprio a capire perché qualcuno potesse scegliere di dormire all'aperto.
Alcuni dei suoi amici in passato le avevano decantato le gioie del campeggio, ma lei
li aveva sempre considerati un po' fuori di testa. Dormire per terra non era affatto
piacevole.
Per non parlare del sole. Considerato che da quando era arrivata lì si era sempre
svegliata all'alba, immaginò che quella mattina non fosse diversa. Probabilmente non
erano neppure le sette. Il sole era ancora basso sull'oceano anche se la spiaggia era
animata da gente che faceva jogging o che portava a spasso il cane. Di sicuro quella
gente aveva dormito nel proprio letto. L'idea di camminare o di correre le risultava
del tutto assurda. In quel momento faticava persino a respirare.
Facendosi coraggio si alzò lentamente e poi ricordò il motivo per cui aveva passato la
notte all'addiaccio. Controllò il nido, notando sollevata che era ancora intatto e, piano
piano, i dolori cominciarono a passarle. Si chiese come facesse Blaze a dormire sulla
spiaggia, e di colpo le tornò in mente quello che le aveva fatto.
Arrestata per furto. Furto aggravato.
Chiuse gli occhi e rivide tutto l'accaduto: lo sguardo implacabile del negoziante fino
all'arrivo della polizia, l'espressione di delusione dell'agente Pete durante il tragitto
fino al commissariato, la telefonata che aveva dovuto fare a suo padre. Mentre
rientrava a casa con lui, era stata assalita dalla nausea.
L'unico lato positivo era che suo padre non aveva dato fuori di matto. E, cosa ancora
più sorprendente, credeva che fosse innocente. E poi non aveva ancora informato la
mamma. Non appena fosse accaduto, per lei sarebbe stata la fine. Senza dubbio la
mamma avrebbe gridato e strepitato fino a convincere papà a punirla. L'altra volta la
mamma l'aveva tenuta chiusa in casa per un mese, ma quanto accaduto ora era ben
più grave.
Fu nuovamente assalita dalla nausea. Il pensiero di dover trascorrere un mese intero
in camera sua, che oltretutto doveva condividere con il fratello, in un luogo che non
le piaceva, le risultava intollerabile. Si chiedeva se le cose potessero andare peggio di
così. Mentre allungava le braccia sopra la testa, lanciò un grido soffocato per il dolore
che la trafisse alla spalla.
Nei minuti successivi trascinò le sue cose fino alla veranda. Sebbene il nido si
trovasse sul retro della casa, non voleva che i vicini sapessero che aveva dormito
fuori. A giudicare dallo sfarzo delle loro case, li identificava come quel genere di
persone che pretendevano che tutto fosse perfetto quando uscivano sulla veranda a
bere il caffè della mattina. Probabilmente l'idea che qualcuno avesse dormito
all'aperto non rientrava nel loro concetto di perfezione, e l'ultima cosa che Ronnie
voleva era un'altra visita della polizia. Data la sua fortuna, sarebbe stata arrestata per
vagabondaggio. Vagabondaggio aggravato.
Dovette fare due viaggi per prendere tutto - non aveva abbastanza energie per farlo in
una volta sola - e poi si rese conto di avere dimenticato fuori il suo libro, Anna
Karenina. Nonostante i buoni propositi, la sera prima era troppo stanca per leggerlo,
così lo aveva nascosto sotto una tavola trasportata dall'oceano, per evitare che
l'umidità lo rovinasse. Quando tornò a prenderlo, notò una persona che si dirigeva
verso la casa portando un rotolo di nastro giallo e dei paletti.
Recuperato il libro, Ronnie vide che l'uomo stava armeggiando intorno alla duna.
Andò verso di lui, chiedendosi che cosa stesse facendo, e in quel momento lui si voltò
dalla sua parte. Quando i loro sguardi s'incontrarono, rimase senza parole.
Lo riconobbe immediatamente, nonostante la tuta. Le tornò in mente l'immagine di
lui in maglietta, atletico e abbronzato, i capelli scuri, il braccialetto al polso. Era il
ragazzo che si era scontrato con lei, quello il cui amico era stato sul punto di
azzuffarsi con Marcus.
Immobile davanti a lei, neppure lui sapeva che cosa dire. La fissava in silenzio. Per
quanto l'idea le apparisse assurda, ebbe l'impressione che per qualche motivo fosse
contento di vederla. Glielo lesse in viso, nel modo in cui si illuminò riconoscendola,
anche se non aveva senso.
«Ehi, sei tu», disse lui.«Buongiorno.»
Ronnie era confusa, e perplessa per quel suo tono amichevole.
«Che cosa ci fai qui?» gli domandò.
«Sono stato chiamato dall'acquario. Ieri sera qualcuno ha telefonato per segnalare la
presenza di un nido di testuggine e mi hanno chiesto di venire a controllare.»
«Tu lavori per l'acquario?»
«Sono soltanto un volontario. Lavoro nell'autofficina di mio padre. Non è che per
caso hai visto un nido di tartarughe da queste parti, vero?»
Lei cominciò a rilassarsi e glielo indicò:«È laggiù».
«Fantastico.» Lui sorrise.«Speravo proprio che fosse vicino a una casa.»
«Perché?»
«Per via delle mareggiate. Se le onde raggiungono il nido, le uova non arriveranno
alla schiusa.»
«Ma sono tartarughe di mare.»
Lui alzò le mani.«Lo so. Anch'io non riesco a capirlo, ma la natura funziona così.
L'anno scorso abbiamo perso diversi nidi a causa di una tempesta tropicale. È stato
davvero triste. Sono una specie a rischio, sai. Soltanto una su mille raggiunge la
maturità.»
«Sì, lo so.»
«Davvero?» Lui sembrava sinceramente colpito.
«Me lo ha detto mio padre.»
«Ah», fece lui.«Presumo che tu abiti da queste parti, giusto?»
«Perché vuoi saperlo?»
«Semplice curiosità», rispose lui disinvolto.«A proposito, io sono Will.»
«Ciao, Will.»
«Interessante», disse lui dopo un breve silenzio.
«Che cosa?»
«In genere, quando qualcuno si presenta, l'altro fa lo stesso.»
«Io non sono qualcuno.» Ronnie incrociò le braccia, stando attenta a mantenersi a
distanza.
«Questo lo avevo già capito.» Le rivolse un sorriso fugace.«Mi spiace di esserti
venuto addosso l'altro giorno alla partita di pallavolo.»
«Mi avevi già chiesto scusa, ricordi?»
«Lo so. Ma mi sembrava che te la fossi presa parecchio.»
«Mi sono versata l'aranciata sulla maglietta.»
«Mi dispiace, ma avresti dovuto fare più attenzione a quello che succedeva.»
«Come?»
«È un gioco molto veloce.»
Lei si mise le mani sui fianchi.«Stai forse insinuando che è stata colpa mia?»
«Volevo solo assicurarmi che non accadesse di nuovo. Come ho detto, mi è
dispiaciuto molto.»
Questa risposta le diede l'impressione che lui stesse cercando di flirtare, ma non
capiva la ragione. Non aveva senso; lei sapeva di non essere il suo tipo e,
francamente, neppure lui lo era. Ma a quell'ora del mattino non aveva voglia di
pensarci. Indicò invece gli oggetti che lui teneva in mano, trovando più prudente
riportare l'attenzione all'argomento originario.«Sei sicuro di riuscire a tenere lontani i
procioni con quel nastro?»
«No, certo. Sono venuto soltanto per segnalare il nido. Ci metto intorno questo nastro
in modo che i tizi che porteranno la gabbia sappiano dove sistemarla.»
«Quando arriveranno?»
«Non saprei. Forse tra un paio di giorni.»
Lei ripensò alla sofferenza provata al risveglio e cominciò a scuotere la testa.«Non
credo proprio. Tu li chiami e gli dici che devono fare qualcosa per proteggere il nido
oggi stesso. Digli che ho visto un procione aggirarsi intorno alle uova ieri notte.»
«È così?»
«Tu diglielo e basta.»
«Lo farò. Te lo prometto.»
Lei lo fissò diffidente, trovando tutto troppo semplice, ma proprio in quel momento il
padre uscì sulla veranda.
«Buongiorno, tesoro», la chiamò.«Ho preparato la colazione, se hai fame.»
Will guardò prima Ronnie e poi suo padre.«Vivi qui?»
Invece di rispondere, lei fece un passo indietro.«Ricordati di avvisare quelli
dell'acquario, va bene?»
S'incamminò verso casa, ed era ormai sulla veranda quando udì la voce di Will.
«Ehi!»
Lei si voltò.
«Non mi hai detto come ti chiami.»
«No», rispose lei.«Effettivamente non te l'ho detto.»
Mentre raggiungeva la porta, sapeva che non si sarebbe dovuta voltare indietro, ma
non potè fare a meno di lanciare un'occhiata furtiva alle proprie spalle.
Vide l'espressione soddisfatta di Will e avrebbe voluto prendersi a schiaffi, ma
almeno non gli aveva detto come si chiamava.
Il padre era ai fornelli a mescolare qualcosa in una padella. Sul bancone accanto a lui
c'era una confezione di tortillas e Ronnie dovette ammettere che qualunque cosa
stesse preparando aveva un profumino invitante. Ma del resto non mangiava dal
pomeriggio precedente.
«Ciao», la salutò lui senza voltarsi.«Con chi stavi parlando?»
«Con un tizio dell'acquario. È venuto a segnalare il nido. Che cosa stai preparando?»
«Un burrito vegetariano.»
«Vuoi scherzare!»
«È ripieno di riso, fagioli e tofu. Spero che sia buono. Ho trovato la ricetta on line,
quindi non garantisco.»
«Sono sicura che andrà benissimo», disse lei. Incrociò le braccia, decidendo che tanto
valeva affrontare la questione.«Hai già parlato con la mamma?»
Lui scosse il capo.«Non ancora. Però ho parlato con Pete stamattina. Ha detto che
non è ancora riuscito a mettersi in contatto con la proprietaria del negozio. È fuori
città.»
«La proprietaria?»
'
«A quanto pare l'uomo che lavora lì è il nipote della proprietaria. Ma Pete ha detto di
conoscerla bene.»
«Oh», fece lei, chiedendosi se questo avrebbe cambiato le cose.
Il padre batté il mestolo sulla padella.«In ogni caso ho pensato che fosse meglio
aspettare a chiamare la mamma fino a quando non saprò qualcosa di più preciso.
Trovo che sia sciocco farla preoccupare inutilmente.»
«Intendi che potresti non dirle niente?»
«A meno che non lo voglia tu.»
«No, no, figurati», si affrettò a rassicurarlo lei.«Hai ragione tu. Probabilmente è
meglio aspettare.»
«Benissimo», concordò lui. Mescolò un'ultima volta poi spense il fornello.«Credo
che sia pronto. Hai fame?»
«Da morire», confessò lei.
Steve posò una tortilla su un piatto, poi ci versò su un po' del ripieno e gliela
offrì.«Basta così?»
«Sì, grazie», rispose lei.
«Vuoi del caffè? L'ho appena fatto.» Prese una tazza e gliela porse.
Lei prese la tazza e guardò il padre.«Perché sei così premuroso con me?»
«Perché non dovrei esserlo?»
Perché io non sono stata tanto gentile con te, avrebbe potuto rispondere. Ma non lo
fece.«Grazie», borbottò, trovando che la situazione somigliava un po' a un episodio di
Ai confini della realtà, in cui il padre per qualche motivo aveva scordato
completamente gli ultimi tre anni.
Lei si riempì la tazza e si sedette a tavola. Steve la raggiunse un istante dopo con il
suo piatto e cominciò ad arrotolare il burrito.
«Com'è andata stanotte? Hai dormito bene?»
«Sì, quando ho dormito.»
«Mi è venuto in mente troppo tardi che forse avrei dovuto prenderti anche un
materassino gonfiabile.»
«Non importa. Ma dopo colazione andrò a riposare un po'. Mi sento stanca. Sono stati
due giorni faticosi.»
«Forse allora non dovresti bere il caffè.»
«Non mi farà niente. Credimi, sono cotta.»
Jonah entrò in cucina con il suo pigiama dei Trasformers e i capelli dritti sulla testa.
Ronnie non potè fare a meno di sorridere.
«Buongiorno, Jonah», lo salutò.
«Come stanno le tartarughe?»
«Benissimo.»
«Meno male», commentò avvicinandosi ai fornelli.«Che cosa c'è per colazione?»
«Burritos vegetariani», rispose il padre.
Jonah esaminò con sospetto il contenuto della padella e ciò che era posato sul
bancone.«Non dirmi che sei passato al lato oscuro, papà!»
Steve cercò di trattenere un sorriso.«È buono.»
«È tofu! Fa schifo!»
Ronnie si alzò da tavola ridendo.«Che ne dici se ti prendo dei biscotti al cioccolato?»
Lui parve valutare per un istante se si trattasse di una domanda
trabocchetto.«Cioccolato al latte?»
Ronnie riempì un bicchiere di latte per il fratello e lo posò sul tavolo. Jonah non si
mosse.«Forza, che cosa sta succedendo?»
«Che cosa intendi dire?»
«Non è normale», spiegò.«Qualcuno deve essere impazzito. Qualcuno che è sempre
di pessimo umore al mattino.»
«Parli di me?» chiese Ronnie.«Ma io sono sempre allegra.»
«Sì, certo», rispose lui con aria diffidente.«Sei sicura che le tartarughe stiano bene?
Perché voi due vi state comportando come se fossero morte.»
«Stanno benissimo, te lo garantisco», gli assicurò Ronnie.
«Voglio andare a controllare.»
«Fa' pure.»
Lui la guardò.«Dopo colazione», aggiunse.
Steve sorrise e si girò a guardare la figlia.«Allora, che cos'hai in programma per
oggi?» le chiese.«Dopo il sonnellino?»
Jonah afferrò il bicchiere di latte.«Tu non fai mai sonnellini.»
«Quando sono stanca, sì.»
«No», obiettò lui.«C'è qualcosa che non va.» Posò di nuovo il bicchiere.«Sta
succedendo qualcosa di troppo strano.»
Dopo avere fatto colazione e tranquillizzato il fratello, Ronnie andò a sdraiarsi sul
letto. Steve la seguì con alcuni asciugamani che appese al bastone della tenda, anche
se Ronnie non aveva bisogno del buio. Si addormentò quasi subito e si risvegliò
sudata nel pomeriggio. Fece una bella doccia, poi passò al laboratorio per informare il
padre e Jonah delle proprie intenzioni. Il padre non accennò neppure stavolta a
eventuali punizioni per lei.
Naturalmente era sempre possibile che la mettesse in castigo in un secondo momento,
dopo avere parlato con la polizia o con la mamma. Oppure poteva anche darsi che
davvero le aveva creduto quando lei si era dichiarata innocente.
Sarebbe stato un bel risultato, no?
In ogni caso doveva a tutti i costi parlare con Blaze e trascorse un paio d'ore a
cercarla. Controllò a casa della madre e al pub e, con il cuore in gola, sbirciò dalla
vetrina del negozio di musica stando bene attenta che il gestore le voltasse le spalle.
Blaze non era neppure lì.
Raggiunta l'estremità del molo, scrutò la spiaggia da una parte all'altra, senza esito.
Poteva darsi che fosse andata a Bower's Point: era il ritrovo preferito della banda di
Marcus. Ma non voleva andarci da sola. L'ultima cosa che desiderava era di vederlo,
e men che meno di cercare di far ragionare Blaze in sua presenza.
Era sul punto di abbandonare le ricerche e tornare a casa, quando la vide emergere tra
le dune un po' più avanti sulla spiaggia. Scese di corsa i gradini senza perderla di
vista, poi arrancò sulla sabbia. Se Blaze si era accorta di lei, non manifestò il minimo
interesse. Quando Ronnie le fu vicina, si mise seduta sulla duna a guardare l'oceano.
«Devi raccontare alla polizia quello che hai fatto», esordì Ronnie senza preamboli.
«Io non ho fatto proprio niente. E sei stata tu a essere beccata.»
A Ronnie venne voglia di picchiarla. «Sai bene che hai messo tu i dischi e i CD nella
mia sacca!»
«Non è vero.»
«I CD erano quelli che stavi ascoltando!»
«L'ultima volta che li ho visti erano ancora accanto alle cuffie.» Blaze si rifiutava di
guardarla.
Ronnie si sentì avvampare. «Non si tratta di uno scherzo, Blaze. È la mia vita.
Potrebbero arrestarmi per furto! Ti ho raccontato quello che mi è successo.»
«Oh be'.»
Ronnie si impose di non esplodere. «Perché mi stai facendo questo?»
Blaze si alzò in piedi, scrollandosi la sabbia dai jeans. «Non ti sto facendo proprio
niente», disse. Aveva la voce fredda e piatta. «Ed è proprio quello che ho detto alla
polizia stamattina.»
Incredula, Ronnie la guardò allontanarsi con l'aria di chi era convinto di ciò che
diceva.
Ronnie s'incamminò verso il molo.
Non voleva tornare a casa, perché non appena suo padre avesse parlato con l'agente
Pete, avrebbe saputo le dichiarazioni di Blaze. E se non le avesse più creduto?
E perché Blaze si comportava così? Forse Marcus l'aveva convinta a farlo perché
voleva vendicarsi del modo in cui Ronnie lo aveva respinto, oppure Blaze credeva
che Ronnie volesse rubarle il ragazzo. Al momento riteneva più probabile questa
seconda ipotesi, ma in realtà non aveva alcuna importanza. Quali che fossero le sue
motivazioni, Blaze stava mentendo ed era più che pronta a rovinare la vita di Ronnie.
Non aveva più mangiato dalla colazione, ma con lo stomaco sottosopra per l'ansia
non aveva fame. Rimase seduta sul molo fino al tramonto, a guardare l'oceano
passare dall'azzurro al grigio e infine al nero. Un'ora prima era arrivata una coppia
con dei panini e un aquilone. Ronnie aveva notato le tenere occhiate che si
scambiavano. Dovevano essere studenti del college - avranno avuto al massimo un
paio d'anni più di lei - e nel loro rapporto c'era uno spontaneo affiatamento che lei
non aveva ancora sperimentato. Certo, aveva avuto dei ragazzi, ma non si era mai
innamorata e a volte dubitava che potesse succederle davvero. Dopo il divorzio dei
suoi, aveva assunto un atteggiamento piuttosto cinico sull'amore, come la maggior
parte delle sue amiche. Quasi tutte avevano i genitori divorziati, quindi forse le due
cose erano collegate.
Quando anche gli ultimi raggi di sole scomparvero all'orizzonte, si alzò per tornare a
casa. Quella sera voleva rincasare a un'ora decente. Era il minimo che potesse fare
per dimostrare al padre quanto gli fosse riconoscente per la sua comprensione. E poi,
nonostante la dormita, era ancora stanca.
Raggiunta l'estremità del molo, decise di attraversare il centro anziché passare dalla
spiaggia. Non appena ebbe svoltato l'angolo vicino al pub, capì di avere preso la
decisione sbagliata. Una figura in ombra era appoggiata al cofano di un'auto, con in
mano una palla infuocata.
Marcus.
Ma questa volta era da solo. Lei si bloccò trattenendo il fiato.
Lui le andò incontro. Fece rotolare la palla infuocata sul dorso della mano, mentre la
guardava, poi spostò la sfera di fuoco sul palmo e strinse il pugno, spegnendola.
«Ciao, Ronnie», disse. Il suo sorriso lo rendeva ancora più inquietante.
Lei rimase dov'era, per fargli vedere che non aveva paura di lui.
«Che cosa vuoi?» domandò, odiandosi per il leggero tremito che le aveva incrinato la
voce.
«Ti ho vista arrivare e volevo salutarti.»
«Lo hai fatto», rispose lei.«Ciao.»
Cercò di superarlo, ma lui le si parò davanti.
«Ho saputo che hai qualche problema con Blaze», mormorò.
Lei indietreggiò, scossa da un brivido.«Tu che cosa ne sai?»
«La conosco abbastanza da non fidarmi di lei.»
«Non sono dell'umore giusto.»
Si avviò di nuovo, decisa ad allontanarsi, e stavolta lui la lasciò passare prima di
rivolgerle di nuovo la parola.
«Non andartene così. Ero venuto a cercarti perché volevo farti sapere che forse potrei
convincerla a cambiare atteggiamento nei tuoi confronti.»
Suo malgrado Ronnie esitò. Marcus continuava a fissarla alla fioca luce dei lampioni.
«Avrei dovuto avvisarti che è molto gelosa.»
«Allora è per questo che hai cercato di peggiorare le cose, giusto?»
«L'altra sera stavo solo scherzando. Pensavo che fosse divertente. Credi che
immaginassi quello che aveva in mente di farti?»
Lo sapevi benissimo, pensò Ronnie. Ed era esattamente quello che volevi.
«Avanti, allora», disse.«Sistema le cose. Parla con Blaze, fa' quello che devi.»
«Non hai capito. Ho detto che potrei convincerla. Se...»
«Se che cosa?»
Lui colmò la distanza che li separava. Ronnie si accorse che le strade erano deserte.
Non c'era nessuno in giro, nessuna auto all'incrocio.
«Pensavo che magari potremmo diventare... amici.»
«Che cosa?»
«Hai capito. E potrei chiarire tutto quanto.»
Lei si rese conto che Marcus le stava abbastanza vicino da poterla toccare e fece un
passo indietro.«Stai lontano da me!»
Si voltò e partì di corsa, sapendo che lui l'avrebbe seguita, consapevole che
conosceva la zona meglio di lei, e terrorizzata all'idea che potesse prenderla. Aveva il
cuore in gola, e respirava a fatica.
La casa non era lontana, ma lei non era in forma. Nonostante la paura e l'adrenalina,
sentiva le gambe sempre più pesanti. Sapeva che non ce l'avrebbe fatta e, dopo avere
svoltato un angolo, lanciò un'occhiata alle proprie spalle.
E si accorse di essere da sola: nessuno la inseguiva.
Ronnie non entrò subito in casa. In salotto la luce era accesa, ma lei voleva
ricomporsi prima di affrontare il padre. Non sapeva perché, ma non voleva farsi
vedere da lui così spaventata, perciò si sedette sui gradini della veranda.
Le stelle brillavano in cielo, la luna galleggiava appena sopra l'orizzonte. Dall'oceano
si alzava una foschia che sapeva di sale e di brina. In altre circostanze avrebbe trovato
quell'atmosfera confortante; adesso le risultava quantomai estranea.
Prima Blaze. Poi Marcus. Si chiese se in quel posto fossero tutti pazzi.
Marcus di certo lo era, anche se magari non in senso clinico: era intelligente, astuto e,
a quanto poteva giudicare, del tutto privo di sentimenti, il genere di persona che
pensa solo a se stessa.
L'autunno precedente, a scuola, aveva dovuto leggere un romanzo di un autore
contemporaneo e aveva scelto Il silenzio degli innocenti. Il libro spiegava come il
protagonista, Hannibal Lecter, non fosse uno psicopatico, bensì un sociopatico; era
stata la prima volta che si era resa conto della differenza. Sebbene Marcus non fosse
un assassino cannibale, le sembrava che tra lui e Hannibal ci fossero più analogie che
differenze, almeno per quanto riguardava il loro modo di vedere il mondo e il proprio
ruolo in esso.
Invece Blaze... lei era soltanto...
Ronnie non lo sapeva con precisione. Schiava delle proprie emozioni di sicuro.
Furiosa e gelosa, anche. Ma durante la giornata trascorsa insieme, Ronnie non aveva
mai avuto la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava in lei, a parte il suo
precario stato emotivo, un tornado di ormoni e immaturità che lasciava dietro di sé
solo distruzione.
Sospirò. Non aveva nessuna voglia di entrare. Immaginava già la conversazione che
si sarebbe svolta appena messo piede in casa.
Ciao, tesoro, com'è andata?
..}
Non troppo bene. Blaze è in balìa di un sociopatico manipolativo e stamattina ha
mentito ai poliziotti, quindi finirò in prigione. E sai una cosa? Il sociopatico non solo
ha deciso che vuole portarmi a letto, ma mi ha seguita spaventandomi a morte. E la
tua giornata?
Non erano esattamente le quattro chiacchiere da dopo cena che suo padre si augurava,
anche se era la verità.
E questo significava che lei avrebbe dovuto mentire. Con un sospiro si alzò, salì i
gradini e aprì la porta.
Suo padre era seduto sul divano con una Bibbia aperta davanti a sé, che chiuse
quando lei entrò.
«Ciao, tesoro, com'è andata?»
Appunto.
Lei si sforzò di sorridere, cercando di comportarsi con la massima disinvoltura.«Non
sono riuscita a parlarle», rispose.
Fu difficile comportarsi in maniera normale, ma in qualche modo ci riuscì. Appena
entrata in casa, il padre le chiese di seguirlo in cucina, dove aveva preparato un piatto
vegetariano. Mangiarono mentre Jonah costruiva un'astronave di Guerre Stellari con i
Lego, un regalo che gli aveva lasciato il pastore Harris quando era passato a salutarlo
nel pomeriggio.
Più tardi si erano seduti in salotto e, intuendo che lei non aveva voglia di parlare, il
padre si era messo a leggere la Bibbia mentre lei leggeva Anna Karenina, romanzo
che sua madre le aveva giurato le sarebbe piaciuto. Sebbene sembrasse interessante,
Ronnie non riusciva a concentrarsi nella lettura. Non solo a causa di Blaze e Marcus,
ma perché suo padre stava leggendo la Bibbia. A pensarci bene, non lo aveva mai
visto farlo, prima. Ma forse era lei che non ci aveva fatto caso.
Jonah terminò di costruire il suo marchingegno e annunciò che andava a letto. Lei
aspettò ancora qualche minuto, per dare il tempo al fratello di addormentarsi prima di
andare a sua volta in camera, poi posò il libro e si alzò dal divano.
«Buonanotte, tesoro», le disse il padre.«So che non è stato facile per te, ma sono
contento che tu sia qui.»
Lei esitò un istante, poi attraversò la stanza verso di lui. Si chinò e, per la prima volta
dopo tre anni, lo baciò sulla guancia.
«Buonanotte, papà.»
In camera, al buio, Ronnie si mise a sedere sul letto, affranta. Non voleva piangere lei odiava piangere - ma non riusciva a controllarsi e le uscì un singulto.
«Piangi pure», sentì Jonah bisbigliare.
Magnifico. Proprio quello che le occorreva.«Non sto piangendo», disse.
«A me sembra di sì.»
«Non è vero.»
«Non importa. A me non dà fastidio.»
Ronnie tirò su con il naso, cercando di dominarsi e infilò la mano sotto il cuscino per
prendere il pigiama. Stringendoselo al petto, andò in bagno a cambiarsi. Mentre
attraversava la stanza, lanciò un'occhiata distratta fuori dalla finestra. La luna
splendeva, inondando la sabbia della sua luce argentea, e quando lei girò lo sguardo
verso il nido di tartarughe, colse un movimento improvviso nell'ombra.
Dopo avere annusato l'aria, il procione avanzò verso il nido protetto soltanto dal
nastro di segnalazione giallo.
«Accidenti!»
Ronnie gettò per terra il pigiama e si precipitò fuori dalla stanza. Attraversando di
corsa il salotto e la cucina, percepì vagamente il padre che le gridava:«Che cosa
succede?» Ma lei era già uscita prima che avesse il tempo di rispondergli. Salita in
cima alla duna, cominciò a urlare e ad agitare le braccia.
«No! Via! Vattene!»
Il procione sollevò il muso, poi trotterellò via, scomparendo tra l'erba oltre la duna.
«Che cosa c'è? Che cosa è successo?»
Voltandosi, Ronnie vide il padre e Jonah in piedi sulla veranda.
«Non hanno ancora messo la gabbia!»
13. Will
L'autofficina era aperta solo da dieci minuti quando Will la vide precipitarsi dentro e
dirigersi verso il bancone.
Pulendosi le mani su uno straccio, le andò incontro.
«Ehi», le disse sorridendo.«Non mi aspettavo di vederti qui.»
«Grazie tante davvero!» sbottò lei.
«Di che cosa parli?»
«Ti avevo chiesto solo un semplicissimo favore! Telefonare all'acquario per far
mettere una gabbia! Ma non hai fatto nemmeno quello.»
«Aspetta un attimo. Che cosa è successo?»
«Te l'avevo detto che avevo visto un procione! Te l'avevo detto che c'era un procione
intorno al nido!»
«È successo qualcosa al nido?»
«Come se te ne importasse.»
«Voglio solo sapere se il nido è a posto.»
Lei continuava a fissarlo.«Sì. È a posto, ma non grazie a te.» Girò sui tacchi e se ne
andò.
«Aspetta!» gridò lui.«Fermati!»
Lei lo ignorò, lasciandolo allibito e senza parole a guardarla mentre a passo spedito
usciva dall'autofficina.
«Si può sapere che cosa è successo?»
Will si accorse che Scott lo fissava da dietro il ponte.
«Fammi un piacere», gli gridò Will.
«Che cosa vuoi?»
Tirò fuori dalla tasca le chiavi del furgone che aveva parcheggiato sul retro.«Coprimi.
Devo occuparmi di una faccenda.»
Scott era sbalordito.«Aspetta! Di che cosa parli?»
«Tornerò il prima possibile. Se viene mio padre, digli che arrivo subito. Puoi
cominciare tu mentre non ci sono.»
«Ma dove vai?» volle sapere Scott.
Stavolta Will non rispose e Scott andò verso di lui.
«Avanti, amico! Non voglio lavorare da solo. Abbiamo un sacco di auto da riparare.»
Will non l'ascoltò e corse al furgone sapendo ciò che doveva fare.
La trovò un'ora più tardi alla duna, in piedi accanto al nido, furibonda come quando si
era presentata all'autofficina.
Vedendolo avvicinarsi, si irrigidì.«Che cosa vuoi?»
«Non mi hai lasciato finire. Avevo telefonato.»
«Come no!»
Lui esaminò il nido.«Il nido è a posto. Si può sapere perché tutte queste storie?»
«Sì, le uova sono intatte, e il merito di sicuro non è tuo!»
Will cominciava a irritarsi.«Si può sapere che problema hai?»
«Il mio problema è che stanotte ho dovuto dormire di nuovo all'aperto perché il
procione è tornato. Lo stesso procione di cui ti avevo parlato!»
«Hai dormito fuori?»
«Ma mi ascolti quando parlo? Sì, ho dormito fuori. Due notti di fila, perché tu non hai
fatto il tuo lavoro! Se non avessi guardato fuori dalla finestra al momento giusto, il
procione sarebbe arrivato alle uova. Era a pochi passi dal nido quando l'ho scacciato.
E poi sono rimasta qui perché sapevo che avrebbe potuto tornare. Era per questo che
ti avevo detto di telefonare. E pensavo che persino un tipo da spiaggia come te
potesse ricordarsi di fare il suo lavoro!»
Lo fulminò con un'occhiata.
Lui non riuscì più a trattenersi.«Ripetimelo ancora una volta, così capisco bene: hai
visto un procione, allora mi hai chiesto di telefonare, poi hai visto di nuovo un
procione e allora hai dormito all'aperto. Giusto?»
Lei fece per ribattere, invece si voltò di scatto e si avviò verso casa.
«Verranno domattina presto!» le gridò dietro.«E tanto per tua informazione, ho
telefonato ben due volte. La prima dopo avere sistemato il nastro, e la seconda dopo
aver finito di lavorare. Quante volte devo ripetertelo per farmi ascoltare da te?»
Lei si fermò, ma non si girò a guardarlo. Lui proseguì:«E stamattina, dopo che sei
venuta all'autofficina, sono andato a parlare con il direttore dell'acquario in persona.
Mi ha assicurato che il nido sarà la loro prima incombenza domani. Avrebbero voluto
occuparsene oggi, ma ci sono altri otto nidi a Holden Beach».
Lei si voltò e lo squadrò, cercando di capire se stesse dicendo la verità.
«Questo però non aiuta le mie tartarughe stanotte, giusto?»
«Le tue tartarughe?»
«Sì», confermò lei in tono enfatico.«Casa mia, le mie tartarughe.»
Detto questo si girò e rientrò in casa.
Gli piaceva, proprio così.
Mentre tornava all'officina, non riusciva a capire perché gli piacesse, ma non gli era
mai capitato di lasciare il lavoro per inseguire Ashley. Tutte le volte che l'aveva vista,
era riuscita a sorprenderlo. Gli piaceva il modo in cui diceva quello che pensava, e gli
piaceva che fosse immune al suo fascino. Doveva ancora farle una buona
impressione. La prima volta le aveva versato addosso l'aranciata, la seconda si era
fatto vedere quasi coinvolto in una rissa, e quella mattina lo aveva preso per un idiota
o un perditempo.
Lei non era sua amica e lui non poteva dire di conoscerla ma, per qualche motivo, gli
stava a cuore la sua opinione. E non solo, per quanto sembrasse pazzesco, voleva che
lei avesse una buona opinione di lui. Perché voleva che lo trovasse simpatico.
Era un'esperienza strana, nuova, e per il resto della giornata i suoi pensieri ruotarono
intorno a lei. Intuiva che c'era qualcosa nel suo modo di parlare e di agire, qualcosa di
gentile e appassionato sotto la facciata un po' brusca. Qualcosa che gli faceva
presumere che, sebbene finora lui l'avesse soltanto delusa, con lei c'era sempre una
possibilità di redenzione.
Più tardi quella sera la trovò seduta esattamente dove aveva immaginato, su una
sdraio con un libro aperto in grembo, che leggeva alla luce di una piccola lanterna.
Lei alzò gli occhi sentendolo avvicinarsi, poi tornò a leggere, senza manifestare né
sorpresa né piacere.
«Ero certo di trovarti qui», disse lui.«La tua casa, le tue tartarughe, e tutto il resto.»
Lei rimase in silenzio e lui si guardò intorno. Non era tardi e c'erano delle ombre in
movimento dietro le tende della casetta dove lei abitava.
«Qualche segno del procione?»
Invece di rispondere lei girò una pagina del libro.
«Aspetta, lasciami indovinare. Vuoi fare la sostenuta, giusto?»
A queste parole, lei sospirò.«Non dovresti essere con i tuoi amici, a rimirarvi allo
specchio?»
Lui rise.«Buona questa. Me la ricorderò.»
«Non stavo scherzando.»
«Ah, ti riferisci al fatto che siamo così belli?»
Lei abbassò di nuovo lo sguardo sulla pagina, ma Will si rendeva conto che non stava
leggendo. Si mise a sedere accanto a lei.
«Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a
modo suo», citò indicando il libro.«È l'incipit del libro che stai leggendo. Ho sempre
trovato che questa frase contenesse molta verità. Almeno era quello che diceva il mio
professore d'inglese. Non mi ricordo bene. L'ho letto il semestre scorso.»
«Chissà come sono orgogliosi i tuoi genitori che sai leggere.»
«È vero. Mi hanno comprato un pony e altre cose quando ho scritto una relazione su
Il gatto col cappello.»
«È successo prima o dopo che ti vantassi di avere letto Tolstoj?»
«Ah, ma allora mi stai ascoltando. Volevo solo esserne sicuro.» Protese le braccia
verso l'orizzonte.«È una magnifica serata, vero? Mi sono sempre piaciute le sere
come questa. C'è qualcosa di rilassante nel mormorio delle onde nell'oscurità, non
trovi anche tu?» Aspettò che lei rispondesse.
Lei chiuse il libro.«Che fine ha fatto il tuo pressing a tutto campo?»
«Mi piacciono le persone che amano le tartarughe.»
«Allora puoi andare dalle tue amiche dell'acquario. Ah già, è vero non puoi. Perché
alcune stanno salvando le tartarughe e altre si stanno mettendo lo smalto e arricciando
i capelli, giusto?»
«È probabile. Ma in realtà sono qui perché immaginavo che desiderassi un po' di
compagnia.»
«Sto benissimo da sola», sbottò lei.«Ora vattene.»
«È una spiaggia pubblica. Mi piace stare qui.»
«Significa che non te ne andrai?»
«Credo di no.»
«Allora non ti dispiace se io rientro?»
Lui rifletté un momento sul modo migliore per trattenerla.«Non credo che sia una
buona idea. Cioè, come fai a essere sicura che starò qui tutta la notte? E con quel
procione affamato nei paraggi...»
«Che cosa vuoi da me?» domandò lei.
«Tanto per cominciare, come ti chiami?»
Lei prese un asciugamano e se lo stese sulle gambe.«Ronnie», rispose.«È il
diminutivo di Veronica.»
Lui si sistemò meglio, appoggiando le braccia dietro di sé.«Bene, Ronnie. Qual è la
tua storia?»
«Perché ti importa?»
«Senti, vuoi piantarla?» disse voltandosi a guardarla.«Ci sto provando, va bene?»
Non era sicuro di come l'avesse presa, ma la vide raccogliersi i capelli e assumere
l'aria di chi è rassegnata all'idea di non potersi facilmente liberare di una scocciatura.
«E va bene. La mia storia: abito a New York con la mamma e il mio fratellino, ma lei
ci ha spedito qui a trascorrere l'estate con nostro padre. E adesso mi ritrovo bloccata a
fare da baby-sitter a delle uova di tartaruga, mentre un giocatore di pallavolo barra
meccanico unto barra volontario dell'acquario locale cerca di fare colpo su di me.»
«Non sto cercando di fare colpo su di te», protestò lui.
«Ah no?»
'
«Credimi, te ne accorgeresti se lo stessi facendo. Non saresti capace di resistere al
mio fascino.»
Per la prima volta da quando era arrivato la sentì ridere. Lo prese come un buon
segno.
«In realtà sono venuto perché mi sentivo in colpa per la gabbia e non volevo lasciarti
qui fuori da sola. Come ho detto prima, è una spiaggia pubblica e non puoi mai
sapere chi potrebbe passare.»
«Tipi come te?»
«Non è di me che dovresti preoccuparti. Ci sono malintenzionati dappertutto. Persino
qui.»
«Lasciami indovinare. Tu mi difenderesti, giusto?»
«Se fosse necessario, non esiterei un istante.»
Lei non ribatté, ma lui ebbe la sensazione di averla colta di sorpresa. La marea stava
crescendo e insieme guardarono le onde che luccicavano argentee tutte le volte che si
infrangevano sulla spiaggia. Le tendine alla finestra si mossero come se qualcuno li
stesse osservando.
«D'accordo», disse lei alla fine interrompendo il silenzio.«Tocca a te. Qual è la tua
storia?»
«Sono un giocatore di pallavolo barra meccanico unto barra volontario dell'acquario
locale.»
Sentì di nuovo la sua risata e ne apprezzò la spontanea energia. Era contagiosa.
«Ti va bene se rimango qui con te per un po'?»
«È una spiaggia pubblica.»
Lui indicò verso la casa.«È necessario che tu dica a tuo padre che sono qui?»
«Sono sicura che lo sa già», replicò lei.«Ieri sera deve essere venuto a controllarmi in
continuazione.»
«Deve essere un buon padre.»
Lei rimase un attimo assorta.«Allora ti piace giocare a pallavolo?»
«Mi tiene in forma.»
«Non è una risposta.»
«Mi diverte. Ma non so se mi piace.»
«Però ti piace andare a sbattere contro le persone, giusto?»
«Dipende da chi. Devo ammettere che qualche giorno fa non mi è andata poi così
male.»
«Trovi che sia stato positivo che mi versassi addosso l'aranciata?»
«Se non l'avessi fatto, ora forse non sarei qui.»
«E io mi potrei godere una tranquilla serata di pace sulla spiaggia.»
«Non saprei.» Lui sorrise.«Le tranquille serate di pace sono sopravvalutate.»
«Scommetto che non avrò modo di scoprirlo stasera, giusto?»
Lui rise.«Che scuola frequenti?»
«Nessuna. Mi sono diplomata un paio di settimane fa. E tu?»
«Ho appena terminato la Laney High School. È dove ha studiato Michael Jordan.»
«Lo dicono tutti quelli della tua scuola?»
«No. Non tutti. Soltanto quelli che si sono diplomati.»
Lei sbuffò.«E va bene. E adesso, che cosa farai? Continuerai a lavorare per tuo
padre?»
«Solo per l'estate.» Raccolse una manciata di sabbia e la lasciò scorrere tra le dita.
«E poi?»
«Temo di non potertelo dire.»
«No?»
«Non ti conosco a sufficienza per confidarti un'informazione del genere.»
«Qualche indizio almeno?» lo incalzò lei.
«Che ne dici di rispondere prima tu? Che progetti hai per il futuro?»
Lei rifletté un istante.«Sto seriamente pensando a una carriera come guardiana di nidi
di tartaruga. Mi pare di esserci portata. Insomma, avresti dovuto vedermi quando ho
scacciato quel procione. Mi sentivo un po' Terminator.»
«Parli come Scott», osservò lui. Vedendo la sua espressione perplessa le spiegò:«È il
mio compagno di pallavolo ed è un vero esperto di citazioni cinematografiche. Non
riesce a completare una frase senza mettercene dentro una. Di solito insieme con
qualche allusione erotica».
«Mi sembra proprio che abbia un talento speciale.»
«Puoi ben dirlo. Se vuoi posso chiedergli di darti una dimostrazione.»
«No grazie. Non ho bisogno di allusioni erotiche.»
«Potrebbero piacerti.»
«Credo di no.»
Lui non aveva smesso un attimo di guardarla durante i loro scambi di battute e si era
reso conto che era più carina di quanto ricordasse, e anche spiritosa e pronta.
Accanto al nido l'erba ondeggiava nella brezza e il mormorio regolare delle onde li
circondava, dando ai due giovani l'impressione di essere loro stessi rinchiusi in un
guscio. Lungo la spiaggia si scorgevano le luci accese nelle case affacciate
sull'oceano.
«Posso farti una domanda?»
«Non penso di potertelo impedire.»
Lui spostò i piedi avanti e indietro nella sabbia.«Che cosa c'è tra te e Blaze?»
Lei si irrigidì.«Che cosa intendi dire?»
«Mi chiedevo il motivo per cui fossi con lei l'altra sera.»
«Ah.» Non sapeva con precisione perché, ma ebbe l'impressione che fosse
sollevata.«Ecco, ci siamo conosciute perché lei mi ha versato addosso quello che
restava dell'aranciata, dopo che lo avevi fatto tu.»
«Stai scherzando!»
«Per niente. In base alla mia esperienza, versare l'aranciata addosso alla gente è
l'equivalente di 'ciao, piacere di conoscerti', da queste parti. Francamente trovo che
forme di saluto più convenzionali funzionino meglio, ma non sono certo un'esperta.»
Fece un lungo respiro.«Comunque, mi è sembrata una persona interessante e siccome
non conoscevo nessun altro... abbiamo finito per frequentarci per un po'.»
«È rimasta qui con te ieri sera?»
«No.»
«Che cosa? Non voleva salvare le tartarughe? O quantomeno tenerti compagnia?»
«Non gliene avevo parlato.»
Lui comprese che non voleva dire altro, così lasciò perdere. Indicò la spiaggia.
«Ti va di fare una passeggiata?»
«Intendi una passeggiata romantica o una passeggiata normale?»
«Direi... una passeggiata normale.»
«Ottima scelta.» Batté le mani.«Comunque ti informo che non voglio allontanarmi
troppo, dato che i volontari dell'acquario non si sono preoccupati del procione e le
uova sono ancora in pericolo.»
«Ti assicuro che erano sinceramente preoccupati. Mi è stato assicurato che un
volontario dell'acquario sta dando una mano a sorvegliare il nido proprio adesso.»
«Certo», ribatté lei.«Ma la vera domanda è: perché?»
S'incamminarono lungo la spiaggia verso il molo, passando davanti a una serie di
villette, tutte con ampie verande e scalinate che scendevano sulla spiaggia. Poco più
in là, uno dei vicini aveva organizzato una festa; le luci erano accese e tre o quattro
coppie stavano appoggiate alla ringhiera a guardare le onde illuminate dalla luna.
Non parlarono molto, ma per qualche ragione il silenzio non li imbarazzava. Ronnie
manteneva una distanza sufficiente a impedire contatti accidentali tra di loro; a volte
guardava la sabbia, altre volte davanti a sé. In certi momenti Will aveva l'impressione
di cogliere l'ombra di un sorriso sui suoi lineamenti, come se stesse ricordando un
aneddoto divertente che non gli aveva ancora raccontato. Di tanto in tanto, si chinava
a raccogliere qualche conchiglia mezza seppellita nella sabbia, e lui notava la
concentrazione con cui le osservava al chiaro di luna, prima di buttarne via la
maggior parte. Alcune invece le infilava in tasca.
Non sapeva molto di lei. In questo era l'esatto contrario di Ashley. Quest'ultima era
trasparente e prevedibile; lui sapeva per filo e per segno che cosa avrebbe trovato in
lei, anche se non era ciò che desiderava veramente. Invece Ronnie era diversa, non
c'erano dubbi, e quando gli rivolse un sorriso spontaneo e inaspettato, lui ebbe
l'impressione che gli leggesse nel pensiero. Questa consapevolezza lo riempì di calore
e quando alla fine tornarono sui propri passi verso il nido di tartarughe, per un attimo
lui si immaginò di camminarle accanto sulla spiaggia tutte le sere della loro vita.
Arrivati a casa, Ronnie entrò a parlare con il padre, mentre Will scaricava il furgone.
Sistemò il sacco a pelo e il resto del materiale di fianco al nido, sperando che Ronnie
potesse restare con lui. Ma lei gli aveva già detto che sicuramente suo padre non
avrebbe acconsentito. Se non altro, era contento che quella notte potesse dormire nel
suo letto.
Mettendosi comodo, Will pensò che era un inizio. Ora sarebbe potuta accadere
qualsiasi cosa.
E quando lei si voltò, sorridendo e rivolgendogli un ultimo cenno di saluto dalla
veranda, provò un tuffo al cuore alla prospettiva che forse anche lei stesse pensando
che si trattava del principio di qualcosa.
«Chi è quel tipo?»
«Nessuno. Soltanto un amico. Vattene.»
Mentre quelle parole si facevano largo nei meandri della sua mente, Will si sforzava
di ricordare dove si trovasse. Sbattendo le palpebre accecato dal sole, si rese conto di
essere a faccia a faccia con un ragazzino.
«Ehi, ciao», borbottò.
Il ragazzino si strofinò il naso.«Che cosa ci fai qui?»
«Mi sto svegliando.»
«Questo lo vedo. Ma che cosa ci facevi qui stanotte?»
Will sorrise. Il bambino era mortalmente serio, il che sembrava strano a paragone
della sua età e della sua statura.«Dormivo.»
«Uh-hu.»
Will si spostò all'indietro, per potersi mettere seduto, e si accorse di Ronnie in piedi a
poca distanza. Portava una maglietta nera e un paio di vecchi jeans e aveva la stessa
espressione divertita della sera precedente.
«Mi chiamo Will», si presentò.«Tu chi sei?»
Il ragazzino fece un cenno verso Ronnie.«Il suo compagno di stanza», rispose.«Ci
conosciamo da un sacco di tempo.»
Will si grattò la testa, sorridendo.«Capisco.»
Ronnie si avvicinò, i capelli ancora umidi dopo la doccia.«Lui è il mio fratellino
ficcanaso, Jonah.»
«Ah sì?» chiese Will.
«Esatto», confermò Jonah.«Tranne la parte del ficcanaso.»
«Buono a sapersi.»
Jonah continuava a fissarlo.«Credo di conoscerti.»
«Non penso. Immagino che me ne ricorderei se ti avessi già incontrato.»
«No, ora ricordo», disse Jonah cominciando a sorridere.«Sei il tizio che ha detto
all'agente di polizia che Ronnie era andata a Bower's Point.»
Il ricordo di quell'episodio gli tornò in mente fulmineo e Will si voltò verso Ronnie,
guardando con sgomento la sua espressione cambiare dalla curiosità alla perplessità e
infine alla comprensione.
Oh, no!
Jonah intanto continuava a parlare.«Sì, l'agente Pete l'ha riportata a casa, e poi il
mattino dopo lei e papà hanno fatto una tremenda litigata...»
Will vide Ronnie stringere i pugni. Borbottando la ragazza si girò e rientrò in casa
precipitosamente.
Jonah si bloccò a metà frase, chiedendosi che cosa avesse detto di male.
«Grazie mille», ringhiò Will, poi balzò in piedi e corse dietro a Ronnie.
«Ronnie! Aspetta! Dai. Mi spiace! Non volevo metterti nei guai.»
Quando la raggiunse e le sfiorò la maglietta lei si voltò di scatto.
«Vattene!»
«Ascoltami per un istante!»
«Io e te non abbiamo niente da spartire!» esclamò lei.«Capito?»
«E allora che mi dici di ieri sera?»
Ronnie avvampò.«Lasciami. In. Pace.»
«La tua commedia non funziona con me», disse. Per qualche motivo, queste parole la
zittirono quel tanto da permettere a Will di proseguire.«Hai evitato che scoppiasse la
rissa, mentre gli altri volevano sangue. Sei stata l'unica ad accorgerti del bambino che
aveva cominciato a piangere, e ho visto come sorridevi quando è andato via con la
sua mamma. Leggi Tolstoj nel tempo libero. E ti piacciono le testuggini.»
Lei alzò il mento con gesto arrogante, ma lui capì di aver colto nel segno.«E allora?»
«Allora voglio mostrarti qualcosa.» Smise di parlare sollevato per non avere
incassato un immediato rifiuto. Tuttavia Ronnie non aveva detto neppure di sì, e
prima che potesse scegliere, lui fece un timido passo avanti.
«Ti piacerà», disse.«Te lo prometto.»
Will si fermò nel parcheggio dell'acquario. Ronnie era seduta accanto a lui, ma non
aveva parlato molto durante il tragitto. Una volta scesi, mentre la precedeva verso
l'ingresso del personale, si rese conto che, pur avendo accettato di seguirlo, non aveva
ancora deciso se perdonarlo o no.
Le tenne aperta la porta e fu investito da una ventata fresca che si mescolò con l'aria
calda e umida dell'esterno. La guidò per un lungo corridoio, poi superò un'altra porta
che dava direttamente nell'acquario.
C'erano già alcune persone al lavoro nell'ufficio, anche se l'acquario avrebbe aperto al
pubblico solo un'ora più tardi. A Will piaceva andarci prima dell'apertura; le luci
attenuate e l'assenza di suoni lo facevano somigliare a un nascondiglio segreto. Era
affascinato dai pesci che nuotavano nelle vasche, sfiorando il vetro, e si chiedeva se
fossero consapevoli che il loro habitat si era rimpicciolito e se si rendessero conto
della sua presenza.
Ronnie gli camminava accanto osservando l'attività. A suo agio nel silenzio, passò
accanto a un'enorme vasca oceanica, che ospitava un modello in miniatura di un
sottomarino tedesco affondato nella Seconda Guerra Mondiale. Raggiunta la vasca
delle meduse che fluttuavano pigre, si fermò e toccò il vetro ammaliata.
«Aurelia aurita», spiegò Will.«Conosciuta anche come medusa quadrifoglio.»
Lei fece un cenno d'assenso, fissando la vasca ipnotizzata dai loro movimenti al
rallentatore.«Sono così delicate», disse.«È difficile credere che la loro puntura possa
essere tanto dolorosa.»
«Non me ne parlare. Penso di essere stato punto almeno una volta all'anno da quando
ero bambino.»
«Dovresti cercare di evitarle.»
«Ci provo. Ma mi trovano sempre. Credo che siano attratte da me.»
Lei abbozzò un sorriso, poi lo guardò dritto negli occhi.«Che cosa ci facciamo qui?»
«Ho detto che volevo mostrarti qualcosa, no?»
«Sono già stata all'acquario!»
«Lo so. Ma questo posto è speciale.»
«Perché non c'è nessun altro?»
«No», rispose lui.«Perché stai per vedere qualcosa che non è accessibile al pubblico.»
«E cioè? Io e te da soli davanti a una vasca?»
Lui sogghignò.«Molto meglio. Vieni.»
In circostanze normali non avrebbe avuto esitazioni a prendere per mano una ragazza,
ma non osava spingersi a tanto con lei. La precedette lungo un corridoio fino a una
porta sul fondo.
«Non dirmi che ti hanno dato un ufficio», lo canzonò lei.
«No», rispose lui, aprendola.«Io non lavoro qui, ricordi? Sono un semplice
volontario.»
Entrarono in un vasto ambiente in cemento, attraversato da tubi di aerazione e decine
di condutture scoperte. Lampade al neon ronzavano sopra di loro, ma il rumore era
soffocato dai giganteschi filtri dell'acqua allineati lungo la parete. Un'enorme vasca
aperta, riempita fino all'orlo d'acqua di mare, diffondeva nell'aria un aroma salmastro.
Will la precedette fino a una piattaforma costituita da una griglia d'acciaio che girava
intorno al serbatoio e scese una scaletta. Sull'altro lato della vasca c'era una finestra in
plexiglas. Le luci sul soffitto erano abbastanza forti da rendere riconoscibile la
creatura che si muoveva lentamente al suo interno.
«È una tartaruga marina?»
«Una testuggine, per la precisione. Si chiama Mabel.»
Mentre la creatura scivolava accanto alla finestra, Ronnie notò le cicatrici sul guscio
e anche la mancanza di una pinna.
«Che cosa le è successo?»
«È stata colpita dall'elica di una barca. L'hanno trovata circa un mese fa, moribonda.
È stato necessario amputarle una parte della pinna anteriore.»
Nella vasca, incapace di mantenersi perfettamente orizzontale, Mabel nuotava un po'
inclinata, sino a urtare la parete posteriore, per poi ricominciare daccapo.
«Ce la farà?»
«È un miracolo che non sia morta, e spero che possa farcela. Adesso è più forte di
prima, ma nessuno può dire se riuscirà a sopravvivere nell'oceano.»
Ronnie la guardò andare a sbattere di nuovo contro la parete, prima di correggere la
rotta, poi si voltò verso Will.
«Perché mi hai portato qui a vederla?»
«Perché pensavo che ti sarebbe piaciuta come piace a me», rispose.«Comprese le
cicatrici.»
Ronnie parve riflettere sulla sua risposta, ma non disse niente. Tornò a osservare
Mabel in silenzio. Quando la tartaruga scomparve alla loro vista, Will sentì Ronnie
sospirare.
«Non dovresti essere al lavoro?» gli chiese.
«È la mia giornata libera.»
«Lavorare per papà ha i suoi vantaggi, vero?»
«Puoi ben dirlo.»
Lei tamburellò sul vetro, cercando di attirare l'attenzione di Mabel. Dopo un po' si
voltò di nuovo verso di lui.«Dimmi, che cosa fai di solito nella tua giornata libera?»
«Sei un semplice ragazzo del Sud, eh? Vai a pescare, guardi le nuvole. Secondo me
dovresti pure cominciare a masticare tabacco.»
Avevano passato un'altra mezz'ora all'acquario dove Ronnie aveva potuto osservare
anche le lontre, poi Will l'aveva portata in un negozio di esche a comperare dei
gamberetti surgelati. Da lì si erano recati in una zona con poche costruzioni, dove lui
aveva tirato fuori l'attrezzatura da pesca che teneva nel baule del furgone. Quindi si
erano seduti su un piccolo pontile, i piedi penzoloni a pochi centimetri dall'acqua.
«Non essere così snob», la rimproverò lui.«Che tu ci creda o no, il Sud è fantastico.
Abbiamo l'acqua corrente in casa e tutto il resto. E nei weekend andiamo a
infangarci.»
«A infangarvi?»
«Guidiamo i nostri furgoni nel fango.»
Ronnie assunse un'espressione sognante.«Deve essere così... intellettuale.»
Lui le diede una gomitata divertita.«Sì, certo, prendimi pure in giro. Ma è divertente.
Il fango che schizza sul parabrezza, restare bloccati e far girare le ruote a vuoto per
spruzzare il tizio che sta dietro.»
«Ti assicuro che il solo pensiero mi esalta», disse Ronnie impassibile.
«Presumo che non sia il modo in cui trascorri di solito i fine settimana in città.»
Lei fece segno di no.«Ecco... non proprio.»
«Scommetto che non vai mai fuori città, vero?»
«Certo che lo faccio. Adesso sono qui, no?»
«Sai benissimo che cosa intendo. Nei fine settimana.»
«E perché dovrei?»
«Forse per restare da sola di tanto in tanto?»
«Posso stare da sola in camera mia.»
«E se volessi metterti a leggere un libro sotto un albero, dove andresti?»
«A Central Park», rispose lei senza esitazioni.«C'è un enorme poggio dietro al locale
sul Green. E mi basta girare l'angolo per trovare un bar.»
Lui si finse scoraggiato.«Sei proprio una ragazza di città. Sai almeno come si pesca?»
«Non è difficile. Infili l'esca, getti la lenza, poi tieni la canna. Come sto andando?»
«Niente male, se si trattasse solo di questo. Ma devi sapere dove lanciare l'amo ed
essere abbastanza brava da raggiungere il punto esatto che desideri. Devi sapere quali
esche usare e questo dipende dal tipo di pesce, dalle condizioni climatiche, persino
dalla limpidezza dell'acqua. E poi, ovviamente, devi agganciare l'amo. Se lo fai
troppo presto o troppo tardi, il pesce non abboccherà.»
Ronnie parve riflettere sulla spiegazione.«Allora dimmi, perché hai scelto i
gamberetti?»
«Perché erano in offerta», rispose lui.»
Lei ridacchiò e gli dette un colpo con il braccio.«Ottima risposta», disse.«Immagino
che me la meritassi.»
Lui sentiva ancora il calore di lei sulla spalla.«Ti meriteresti di peggio»,
disse.«Credimi, da queste parti la pesca è una religione per molte persone.»
«Compreso te?»
«No. La pesca è... contemplativa. Mi dà modo di pensare senza interruzioni. E poi, mi
piace guardare le nuvole mentre mastico tabacco.»
Lei fece una smorfia.«Non mastichi tabacco per davvero, giusto?»
«No, non ho intenzione di farmi venire un cancro alla bocca.»
«Bene», disse lei dondolando i piedi avanti e indietro.«Non uscirei mai con qualcuno
che mastica tabacco.»
«Vuoi dire che il nostro è un appuntamento?»
«No, proprio no. Questa è pesca.»
«Hai così tante cose da imparare. Voglio dire, questa... questa è l'essenza della vita.»
Lei giocherellò con un pezzetto di legno.«Parli come la pubblicità di una birra.»
Un falco pescatore planò sopra di loro, proprio mentre la lenza dava uno strattone e
poi un altro. Will alzò la canna mentre il filo si tendeva. Si alzò in piedi e cominciò a
riavvolgerlo, la canna già piegata. Accadde tutto così in fretta che Ronnie ebbe giusto
il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo.
«L'hai preso?» chiese alzandosi di scatto.
«Avvicinati», le ordinò lui continuando a riavvolgere il mulinello. Le porse la
canna.«Tieni!» gridò.«Prendila tu!»
«Non posso!» strillò lei facendo un passo indietro.
«Non è difficile. Prendila e continua a girare la manovella.»
«Non so cosa fare!»
«Te l'ho appena detto», ribatté lui. Ronnie si fece avanti esitante, e lui le mise la
canna da pesca tra le mani.«E adesso continua a girare il mulinello.»
La canna si inclinò verso il basso mentre lei cominciava a girare.
«Tienila su! Tieni la lenza tesa!»
«Ci sto provando!»
«Stai andando benissimo.»
Il pesce balzò in superficie e Ronnie lanciò un grido. Will scoppiò a ridere e lei lo
imitò, saltellando su un piede solo. Quando il pesce fece un altro balzo, lei lanciò un
secondo grido, saltando ancora più in alto, ma stavolta con un'espressione di feroce
determinazione.
Era una delle cose più buffe che lui avesse visto da molto tempo.
«Continua così», la incoraggiò.«Fallo avvicinare al pontile e poi ci penserò io.» Si
sdraiò a pancia in giù reggendo il retino, e protese il braccio sull'acqua mentre Ronnie
continuava a riavvolgere la lenza. Con un rapido movimento catturò il pesce con il
retino, poi si alzò. Rovesciò la rete e il pesce cadde sul pontile con un tonfo. Ronnie
continuava a tenere la canna, danzando intorno al pesce, mentre Will afferrava la
lenza.
«Che cosa stai facendo?» esclamò lei con voce stridula.«Devi ributtarlo in acqua!»
«Andrà tutto bene.»
«Sta morendo!»
Lui si accovacciò e afferrò il pesce, bloccandolo sul pontile.«Niente affatto.»
«Devi togliere l'amo!» strillò lei.
Lui afferrò l'amo e cercò di sfilarlo.«Ci sto provando! Dammi un secondo!»
«Guarda, sanguina! L'hai ferito!» Continuava a saltellargli intorno.
Senza badare a lei, Will cominciò a muovere l'amo. Sentiva il pesce agitare la coda
avanti e indietro, contro il dorso della sua mano. Era di taglia piccola, al massimo un
chilo, ma sorprendentemente forte.
«Ci stai mettendo troppo!» protestò Ronnie.
Lui liberò con cautela l'amo ma tenne il pesce fermo sulle assi.«Sei sicura di non
volerlo portare a casa per cena?»
Lei aprì la bocca, poi la richiuse incredula, ma prima che potesse dire qualcosa, Will
gettò nell'acqua il pesce che scomparve con uno spruzzo. Poi prese un fazzoletto di
carta e si pulì le mani.
Ronnie continuava a fissarlo con espressione accusatoria, le guance rosse per
l'emozione.«Tu lo avresti mangiato, vero, se non ci fossi stata io?»
«L'avrei ributtato in acqua.»
«Non so perché, ma non ti credo.»
«Forse hai ragione.» Le sorrise prima di riprendere la canna da pesca.«Allora, vuoi
infilare tu la prossima esca nell'amo, o lo faccio io?»
«Mia madre è molto indaffarata a organizzare il matrimonio di mia sorella in modo
che tutto sia perfetto», raccontò Will.«Così, di questi tempi a casa l'atmosfera è un
po'... tesa.»
«Quando sarà il matrimonio?»
«Il 9 d'agosto. Di sicuro il fatto che mia sorella voglia celebrarlo a casa nostra non
facilita le cose. La mamma è ancora più stressata.»
Ronnie sorrise.«Che tipo è tua sorella?»
«Una ragazza sveglia. Abita a New York. Uno spirito libero. Abbastanza simile a
un'altra sorella maggiore di mia conoscenza.»
Questo parve lusingarla. Stavano camminando sulla spiaggia, al tramonto, e Will si
rendeva conto che Ronnie era più rilassata. Avevano finito per catturare e liberare
altri tre pesci prima che lui la portasse in centro a Wilmington, dove avevano
pranzato su una terrazza affacciata sul fiume Cape Fear. Guardando verso la riva
opposta, lui le aveva indicato la USS North Carolina, una nave da battaglia in
disarmo della Seconda Guerra Mondiale. Osservando Ronnie mentre la studiava, Will
rimase stupefatto da quanto fosse facile stare insieme con lei. A differenza delle altre
ragazze che conosceva, diceva quello che pensava e non faceva stupidi giochetti.
Aveva uno spiccato senso dell'umorismo, che trovava divertente anche quando
prendeva di mira lui. Praticamente gli piaceva tutto di lei.
Mentre si avvicinavano a casa di Ronnie, lei corse avanti per controllare il nido di
tartarughe alla base della duna. Si fermò a osservare la gabbia di rete metallica fissata
alla sabbia da lunghi paletti e quando lui la raggiunse, si voltò con espressione
perplessa.
«Questa basterà a tenere lontano il procione?»
«Così dicono.»
Lei la esaminò meglio.«Come faranno a uscire le tartarughe? Non possono passare tra
le maglie della rete, giusto?»
Will scosse la testa.«I volontari dell'acquario toglieranno la gabbia prima che le uova
si schiudano.»
«E come fanno a sapere quando accadrà?»
«Seguono tabelle scientifiche molto precise. Le uova impiegano all'incirca sessanta
giorni per schiudersi, ma questo tempo può subire qualche variazione in base al
clima. Più l'estate è calda, più in fretta maturano. E tieni presente che questo non è
l'unico nido sulla spiaggia. Una volta che le prime uova si schiudono, le altre in
genere lo fanno nel giro di una settimana.»
«Hai mai visto la schiusa delle uova?»
Lui annuì.«Quattro volte.»
«E com'è?»
«Strano. Quando il momento si avvicina, togliamo le gabbie e scaviamo una specie di
fossato dal nido fino all'acqua, il più liscio possibile, ma abbastanza alto sui lati in
modo che le tartarughe possano avanzare in una direzione soltanto. E poi è curioso,
perché inizialmente si muove solo un uovo o due, ma è come se il loro movimento
mettesse in azione il nido intero e in brevissimo tempo diventa come un alveare. Le
tartarughine salgono l'una sull'altra per uscire dalla buca e quando toccano la sabbia
corrono verso l'acqua come un piccolo corteo formicolante. È stupefacente.»
Mentre lo descriveva, si rese conto che Ronnie cercava di immaginarsi la scena. Poi
lei notò il padre che scendeva i gradini della veranda e lo salutò con la mano.
Will indicò verso la casa.«Presumo che sia tuo padre...»
«Esatto.»
«Non vuoi presentarmelo?»
«No.»
«Ti prometto che mi comporterò bene.»
«Sarebbe ottimo.»
«Allora perché non mi presenti?»
«Perché tu non mi hai ancora presentato i tuoi genitori.»
«E perché vorresti conoscerli?»
«Appunto.»
«Temo di non seguirti», disse lui.
«Allora si può sapere come hai fatto a capire Tolstoj?»
Se prima era perplesso, adesso era decisamente confuso. Lei si incamminò sulla
sabbia e lui si affrettò a seguirla.
«Certo che non è facile seguire i tuoi ragionamenti.»
«Quindi?»
«Quindi niente. Era solo una constatazione.»
Lei sorrise tra sé, lo sguardo rivolto verso l'orizzonte. In lontananza un peschereccio
stava tornando al porto.«Voglio essere qui quando succederà», disse.
«Quando succederà cosa?»
«Quando nasceranno le tartarughe. Perché, di che cosa pensavi che stessi parlando?»
«Ah! Bene, dunque, quando ripartirai per New York?»
«A fine agosto.»
«Non c'è tanto tempo. Devi solo sperare che l'estate sia molto calda.»
«Direi che per adesso promette bene. Sto bollendo.»
«Perché indossi i jeans e sei vestita di nero.»
«Non sapevo che avrei trascorso gran parte della giornata all'aperto.»
«Altrimenti ti saresti messa il bikini, giusto?»
«Non credo.»
«Non ti piacciono i bikini?»
«Certo che sì.»
«Però non quando sei con me.»
Lei inclinò la testa.«Non oggi.»
«E se ti prometto di portarti di nuovo a pescare?»
«Non ti stai facendo un favore.»
«Allora a caccia di anatre?»
Questo la bloccò. Quando ritrovò di nuovo la voce, il suo tono era pieno di
disapprovazione.«Dimmi che non uccidi per davvero le anatre.»
Will rimase in silenzio e allora Ronnie proseguì.«Quelle tenere e graziose creature
alate, che svolazzano sopra gli stagni, senza dare fastidio a nessuno? E tu gli spari?»
Will ci pensò un po' su.«Soltanto d'inverno.»
«Da piccola, il mio peluche preferito era un'anatra. Avevo la carta da parati con le
paperelle. Io amo le anatre.»
«Anch'io», ribatté lui.
Lei non fece nulla per nascondere il proprio scetticismo. Will le rispose contando
sulle dita mentre elencava:«Mi piacciono fritte, arrosto, stufate, in salsa agrodolce...»
Lei gli diede uno spintone, facendogli perdere l'equilibrio.«Ma è orribile!»
«È divertente!»
«Sei una persona malvagia.»
«A volte», riconobbe lui.«Allora, se non vuoi tornare a casa adesso, ti andrebbe di
venire con me?»
«Perché? Hai forse intenzione di mostrarmi o descrivermi un altro metodo per
uccidere gli animali?»
«Ho una partita di pallavolo tra poco e vorrei che ci fossi anche tu.»
«Vuoi versarmi ancora addosso dell'aranciata?»
Lui le diede una gomitata scherzosa e lei lo ricambiò.
«Credo che tu abbia qualche problema», gli disse.
«Per esempio?»
«Tanto per cominciare, sei un malvagio assassino di anatre.»
Lui scoppiò a ridere, poi la guardò negli occhi. Lei abbassò la testa, poi la rialzò per
guardare la spiaggia, infine lo fissò di nuovo senza riuscire a trattenere un sorriso,
come se fosse meravigliata da ciò che stava accadendo tra di loro e ne gustasse ogni
singolo momento.
14
Ronnie
Se lui non fosse stato così carino, non sarebbe successo niente di tutto questo.
Mentre guardava Will e Scott correre per il campo, si soffermò a pensare alla serie di
eventi che l'avevano condotta lì. Era davvero andata a pesca quel giorno? E aveva
guardato una tartaruga ferita nuotare in una vasca dell'acquario alle otto del mattino?
Si concentrò sulla partita cercando di non fissare lo sguardo sul corpo atletico di Will
e sui suoi muscoli che guizzavano mentre rincorreva la palla nella sabbia. Difficile da
ignorare, dal momento che era a torso nudo. Forse in fin dei conti il resto dell'estate
non sarebbe stato così terribile.
In effetti, però, aveva pensato la stessa cosa dopo avere conosciuto Blaze, con le
conseguenze che sapeva.
In realtà lui non era il suo tipo, ma guardandolo giocare le venne da chiedersi se fosse
proprio vero. Finora non aveva avuto molta fortuna in fatto di ragazzi, a partire da
Rick. Will era molto più sveglio di tutti quelli con cui era uscita e, soprattutto,
sembrava avere progetti concreti per la propria vita. Lavorava, faceva il volontario,
era un atleta; andava persino d'accordo con la famiglia. E sebbene gli piacesse
affrontare le cose in maniera piuttosto sbrigativa, non era un sempliciotto. Tutte le
volte che lo aveva messo alla prova, lui si era sempre dimostrato all'altezza, e doveva
ammettere che questo le piaceva.
Ma perché era attratto da lei? Lei era diversa dalle ragazze che Will frequentava e, in
tutta sincerità, dubitava che avrebbe voluto rivederla dopo quella giornata. Lo osservò
tornare sulla linea di battuta, lanciandole un'occhiata che diceva quanto fosse
lusingato della sua presenza lì. Si muoveva con disinvoltura e mentre si preparava a
battere, fece un segnale a Scott, che sembrava giocare come se ne andasse della sua
stessa vita. Non appena Scott si girò nuovamente verso la rete, Will alzò gli occhi al
cielo, facendole capire che trovava l'atteggiamento appassionato dell'amico un po'
esagerato. È soltanto un gioco, sembrava voler dire, e questo la confortava. Poi, dopo
aver battuto una palla molto forte, corse sul lato del campo per prepararsi a
rispondere. Quando lo vide tuffarsi per prendere la palla sollevando una nuvola di
sabbia, si chiese se ciò che aveva visto un momento prima fosse stata solo
un'illusione, ma dopo che il suo tiro andò fuori e Scott fece un gesto esasperato con
espressione furibonda, Will fece finta di niente. Ammiccò verso di lei e si preparò per
il tiro successivo.
«Tu e Will, eh?»
Tutta concentrata sul gioco, Ronnie non si era resa conto che qualcuno si era seduto
accanto a lei. Voltandosi riconobbe la bionda che era in compagnia di Will e Scott la
sera della sagra.
«Come dici, scusa?»
La bionda si passò una mano tra i capelli.«Tu e Will. Vi ho visto arrivare insieme.»
«Oh», fece Ronnie. L'istinto le suggeriva di non sbilanciarsi troppo.
La bionda non diede segno di avere notato la reazione cauta di Ronnie e con un
movimento studiato della testa sorrise. Doveva essere una vera ammaliatrice, si
disse.«Io sono Ashley. E tu...»
«Ronnie.»
Ashley continuò a fissarla.«Sei qui in vacanza?» Ronnie la guardò a sua volta e lei
sorrise di nuovo.«Se abitassi qui l'avrei saputo. Conosco Will da quando eravamo
bambini.»
«Uh-hu», fece Ronnie, cercando di mantenere un tono neutro.
«Scommetto che vi siete conosciuti quando lui ti ha fatto versare l'aranciata, giusto?
Conoscendolo, probabilmente lo ha fatto di proposito.»
Ronnie sgranò gli occhi.«Come?»
«Non è la prima volta che si comporta così. Lasciami indovinare. Ti ha anche portato
a pescare, giusto? Su quel piccolo pontile sull'altro lato dell'isola?»
Questa volta Ronnie non riuscì a nascondere la sorpresa.
«È quello che fa sempre quando comincia a frequentare una ragazza. Quello, oppure
la porta all'acquario.»
Mentre Ashley parlava, Ronnie la fissava incredula, con l'impressione che il mondo
intorno a lei si stesse sbriciolando.
Ashley si prese le ginocchia tra le braccia.«Ragazza nuova, nuova conquista! Non
prendertela con lui», disse disinvolta.«È fatto così. Non può farci niente.»
Ronnie si sentì impallidire. Si impose di non ascoltare, di non credere che Will fosse
quel tipo di ragazzo. Ma le parole di Ashley continuavano a riecheggiarle nella
mente.
Lasciami indovinare. Ti ha anche portato a pescare, giusto?
Oppure la porta all'acquario...
Possibile che si fosse sbagliata così tanto su di lui? A quanto pareva non le riusciva di
azzeccare neanche un giudizio sulle persone che aveva incontrato lì. Fece un
profondo respiro e si accorse che Ashley la stava esaminando.
«Ti senti bene?» le chiese, con un'espressione preoccupata.«Ho detto qualcosa che ti
ha turbata?»
«Sì, sto bene.»
«Sai, mi sembrava che stessi per vomitare.»
«Ho detto che sto bene», ripetè Ronnie.
Ashley aspettò un attimo, poi continuò con voce melliflua.«Oh no. Non dirmi che ti
sei presa una cotta.»
Ragazza nuova, nuova conquista! È fatto così...
Quelle parole continuavano a risuonarle in testa. Ronnie non riusciva a parlare.
Ashley allora proseguì con voce carica di comprensione.«Guarda, non devi starci
troppo male, perché è davvero il ragazzo più affascinante del mondo quando ci si
mette. Fidati, io lo so perché anch'io ci sono passata.» Indicò verso la folla.«Come la
metà delle ragazze che vedi qui intorno.»
Ronnie scrutò istintivamente la folla, notando una decina di bellezze in bikini, tutte
con lo sguardo fisso su Will. Incapace di spiccicare parola, ascoltò Ashley che andava
avanti imperterrita.
«Immaginavo che saresti riuscita a capirlo... cioè, mi sembri un po' più scaltra delle
altre ragazze qui intorno. Forse ho pensato...»
«Ora devo andare», annunciò Ronnie, il tono più saldo dei suoi nervi. Si alzò con le
gambe che le tremavano leggermente. Sul campo, Will doveva averla vista muoversi,
perché si voltò verso di lei con un sorriso...
Da ragazzo più affascinante del mondo...
Si girò di scatto, furibonda con lui, ma ancora di più con se stessa per essere stata
tanto stupida. Non desiderava altro che andarsene da quello schifo di posto.
Rientrata in camera sua, gettò la valigia sul letto e cominciò a riempirla. La porta si
aprì alle sue spalle e con la coda dell'occhio lei vide il padre fermo sulla soglia. Dopo
una brevissima esitazione, lei si avvicinò al comò e si mise a svuotare i cassetti.
«Giornata dura?» le chiese il padre. Aveva la voce tenera, ma non attese una
risposta.«Ero nel laboratorio con Jonah, quando ti ho vista arrivare dalla spiaggia.
Avevi l'aria piuttosto infuriata.»
«Non voglio parlarne.»
Il padre rimase dov'era senza cercare di avvicinarsi.«Vuoi andare da qualche parte?»
Lei fece un sospiro mentre continuava a riempire la valigia.«Me ne vado da qui.
Chiamo la mamma e mi faccio venire a prendere.»
«Siamo a questo punto?»
Lei si voltò a guardarlo.«Ti prego, non costringermi a restare. Non mi piace stare qui.
Non mi piace la gente che ci abita. Non sono fatta per questo posto. Non fa per me.
Voglio tornare a casa.»
Il padre non rispose, ma lei colse la sua espressione delusa.
«Mi spiace», aggiunse allora.«Non dipende da te, sai? Se telefonerai, ti risponderò. E
potrai venire a trovarmi a New York e passeremo del tempo insieme, d'accordo?»
«Non sono sicuro di poterti permettere di andare.»
Lei l'aveva previsto e si irrigidì.«Papà...»
Lui sollevò le mani.«Non è per il motivo che credi tu. Se potessi, ti lascerei andare
volentieri. Chiamerei tua madre anche subito. Ma dopo quello che è successo al
negozio di dischi l'altro giorno...»
La rabbia le aveva fatto dimenticare la storia del furto.
Ovvio! Lei non aveva rubato proprio niente! Svuotata all'improvviso di tutte le
energie, si lasciò cadere sul letto. Non era giusto. Non era affatto giusto!
Il padre era sempre fermo sulla soglia.
«Posso provare a parlare con l'agente Johnson e vedere se è possibile che tu parta.
Però non credo di poterlo fare fino a domani, e non voglio che ti cacci in altri guai.
Ma se lui dice che va bene, e se tu vuoi sempre andartene, non ti tratterrò.»
,
«Lo prometti?»
«Sì», rispose lui.«Te lo prometto, anche se preferirei che tu restassi.»
Lei annuì, stringendo le labbra.«Verrai a trovarmi a New York?»
«Se mi sarà possibile.»
«Che cosa significa?»
Prima che lui potesse rispondere, udirono qualcuno che bussava con insistenza alla
porta.«Credo sia il ragazzo con cui eri oggi.» Lei si domandò come facesse a saperlo
e, quasi leggendole nel pensiero, lui spiegò.«L'ho visto venire da questa parte mentre
rientravo in casa poco fa. Vuoi che ci pensi io?»
Non prendertela con lui. È fatto così. Non può farci niente.
«No», rispose.«Ci penso io.»
Il padre sorrise, e per un attimo ebbe l'impressione che fosse più vecchio del giorno
prima. Come se la sua richiesta lo avesse fatto invecchiare all'improvviso.
In ogni caso, quello non era il posto per lei. Apparteneva al padre.
La persona che era fuori ricominciò a bussare.
«Ehi, papà?»
«Sì?»
«Grazie», disse lei.«So che vorresti che restassi, ma non posso.»
«Non importa, tesoro.» Nonostante sorridesse, le sue parole esprimevano
sofferenza.«Ti capisco.»
Lei si alzò dal letto, sentì la mano del padre sulla schiena e si fermò. Poi, facendosi
forza, andò alla porta e l'aprì. Davanti a lei c'era Will, con l'aria quasi sorpresa di
vederla.
Lei lo guardò, chiedendosi come avesse fatto a essere tanto stupida da credergli.
Avrebbe dovuto fidarsi del proprio istinto.
«Ehi, ciao...» disse lui.«Sei qui. Per un secondo...»
Lei gli sbatté la porta in faccia e lui ricominciò a bussare e a chiamarla con voce
implorante.
«Dai, Ronnie! Apri! Voglio soltanto sapere che cosa è successo! Perché te ne sei
andata?»
«Vattene!» gli gridò lei.
«Che cosa ti ho fatto?»
Lei spalancò di nuovo la porta.«Non ho intenzione di stare al tuo gioco!»
«Ma quale gioco? Di che cosa parli?»
«Non sono una stupida. E non ho niente da dirti.»
Richiuse la porta, ma Will ricominciò a bussare.
«Non me ne andrò finché non mi avrai parlato!»
Il padre fece un cenno verso la porta.«Guai in paradiso?»
«Non è il paradiso.»
«Così pare», osservò lui.«Vuoi che me ne occupi io?» si offrì nuovamente.
Da fuori Will ricominciò a percuotere la porta.
«Non durerà a lungo. Meglio fare finta di niente.»
Dopo un istante il padre parve convincersi e cambiò discorso.«Hai fame?»
«No», rispose lei d'istinto. Poi portandosi le mani sul ventre, cambiò idea.«Forse un
po'.»
«Ho trovato un'altra ricetta on line. Stavolta con cipolle, funghi e pomodori rosolati
in olio d'oliva e messi sulla pasta con del parmigiano grattugiato. Cosa ne dici?»
«Non credo che a Jonah piacerà.»
«Lui voleva un hot dog.»
«Sai che novità.»
,
Il padre le sorrise, mentre i colpi alla porta riprendevano. Lui doveva averle letto
qualcosa in viso, perché spalancò le braccia.
Senza pensarci, Ronnie gli andò incontro e si sentì stringere da lui. C'era qualcosa di
gentile ed empatico nel suo abbraccio, qualcosa che le era mancato per anni. Con un
grande sforzo di volontà si impedì di piangere, poi si staccò.
«Ti va se ti do una mano a preparare la cena?»
Tentò per l'ennesima volta di assorbire il contenuto della pagina che aveva appena
letto. Il sole era tramontato da un'ora e, dopo avere fatto un po' di zapping aveva
spento la TV e aveva aperto il libro. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a
procedere nella lettura, perché Jonah era rimasto in piedi accanto alla finestra per
quasi un'ora... e questo la costringeva a pensare a quello che c'era fuori dalla finestra,
o meglio a chi c'era là fuori.
Will. Erano passate quattro ore e non se ne era ancora andato. Aveva smesso di
bussare da parecchio tempo, e si era seduto in cima alla duna, con le spalle rivolte
alla casa. Tecnicamente era sul suolo pubblico, così né lei né suo padre potevano fare
altro se non ignorarlo. Ed era proprio ciò che lei e suo padre - che stranamente si era
rimesso a leggere la Bibbia - stavano cercando di fare.
Jonah, dal canto suo, non ci riusciva. Sembrava affascinato dalla veglia di Will, come
se fosse un UFO atterrato sul molo, o un Bigfoot che arrancava sulla sabbia.
Indossava già il suo pigiama dei Transformers e, sebbene l'ora di andare a letto fosse
passata da un pezzo, aveva implorato il padre di permettergli di rimanere alzato
ancora un po', perché, con parole sue,«se vado a dormire troppo presto, potrei
bagnare il letto».
Come no.
Era da quando era piccolissimo che non faceva più la pipì a letto, e Ronnie sapeva
che suo padre non aveva creduto neppure a una parola. La sua condiscendenza di
certo era dettata dal fatto che era la prima serata che trascorrevano tutti insieme dal
loro arrivo e - a seconda di ciò che avrebbe detto loro l'agente Johnson l'indomani
-poteva essere anche l'ultima.
Era comprensibile che lui avrebbe voluto che non finisse mai, e questo la faceva
sentire in colpa per il suo desiderio di andare via. Preparare la cena con lui era stato
più divertente di quanto avrebbe mai creduto, dal momento che lui non aveva
infarcito le sue domande di insinuazioni come ultimamente tendeva a fare la mamma.
Tuttavia, lei non aveva intenzione di fermarsi più a lungo del necessario, per quanto
potesse fare soffrire il padre. Quindi, il minimo che gli doveva, era di rendergli questa
serata piacevole.
Il che, però, era impossibile.
«Secondo voi per quanto tempo se ne starà seduto là fuori?» borbottò Jonah. Secondo
i suoi calcoli, il fratello aveva ripetuto la stessa domanda almeno cinque volte negli
ultimi venti minuti, sebbene non avesse mai ottenuto risposta né da lei né dal padre.
Stavolta, tuttavia, il padre posò la Bibbia.
«Perché non esci a chiederglielo direttamente?» gli suggerì.
«Certo, figuriamoci», sbuffò Jonah.«Non è mica il mio ragazzo.»
«E non è neanche il mio», precisò Ronnie.
«Però si comporta come se lo fosse.»
«Ma non lo è, va bene?» Lei girò una pagina del libro.
«Allora perché sta seduto lì fuori?» insistette Jonah, cercando di risolvere
quell'enigma.«Non trovi che sia un po' strano? Stare seduto là fuori per ore, in attesa
che tu gli parli. Voglio dire, stiamo parlando di mia sorella. Mia sorella, ripeto.»
«Ti ho sentito», disse Ronnie. Negli ultimi venti minuti le sembrava di avere letto lo
stesso paragrafo almeno sei volte.
«Sto solo dicendo che è strano», ripetè Jonah assorto, con l'aria di uno scienziato
perplesso.«Perché se ne sta là fuori ad aspettare mia sorella?»
Ronnie alzò gli occhi e vide il padre tentare invano di trattenere un sorriso.
Abbassò di nuovo lo sguardo sul libro e lesse lo stesso paragrafo con rinnovata
determinazione, e per un paio di minuti nella stanza regnò il silenzio più assoluto. A
parte i rumori di Jonah che si agitava e borbottava alla finestra.
Lei cercava di ignorarlo. Per un minuto circa riuscì a escludere tutto ciò che le stava
intorno ed era sul punto di rientrare nella vicenda narrata, quando udì per l'ennesima
volta la vocina di Jonah.
«Secondo voi per quanto tempo se ne starà seduto là fuori?»
Lei chiuse il libro con un tonfo.«Va bene!» esclamò, pensando per l'ennesima volta
che il fratello sapeva esattamente quali tasti pigiare per farla uscire di senno.«Vado!
Vado!»
Si era alzato un forte vento che portava con sé l'odore di sale e di resina quando
Ronnie uscì in veranda e si diresse verso Will. Lui non diede segno di aver sentito il
rumore della porta che si chiudeva; continuava a lanciare piccole conchiglie ai
granchi che si rifugiavano nelle loro tane.
Le stelle erano nascoste da un alone di foschia e la notte sembrava più fredda e più
scura di prima. Ronnie incrociò le braccia per reprimere un brivido. Notò che Will
indossava gli stessi calzoncini e la stessa maglietta che portava quel giorno. Si
domandò se avesse freddo, poi scacciò il pensiero. Non aveva nessuna importanza, si
disse, mentre lui si voltava a guardarla. Al buio non riusciva a leggere la sua
espressione ma, fissandolo, si rese conto di non essere arrabbiata con lui, quanto
esasperata dalla sua tenacia.
«Hai trasformato mio fratello in un tormento», dichiarò con un tono che sperava
risultasse autoritario.«Dovresti andartene via.»
«Che ore sono?»
«Le dieci passate.»
«Ce ne hai messo di tempo a uscire.»
«Non sarei dovuta uscire affatto. Ti avevo detto di andare via già prima.» Lo guardò
gelida.
Lui non si fece intimorire.«Voglio sapere che cosa è successo», dichiarò.
«Non è successo niente.»
«Allora dimmi che cosa ti ha raccontato Ashley.»
«Non ha detto niente.»
«Vi ho viste parlare», l'accusò lui.
Era proprio per questa ragione che lei non era voluta uscire sino a quel momento; era
proprio ciò che aveva voluto evitare.«Will...»
«Perché sei scappata via dopo avere parlato con lei? E perché ha impiegato quattro
ore per deciderti a uscire e a parlare con me?»
Lei si guardò intorno, decisa a negare quanto si sentisse amareggiata.«Non ha
importanza.»
<
«Ti ha detto qualcosa, vero? Che cosa? Che stavamo ancora insieme? Non è vero. Tra
noi è finita.»
Ronnie impiegò qualche istante a comprendere il significato di quelle parole.«Era la
tua ragazza?»
«Sì», confermò lui.«Per due anni.»
Vedendo che non diceva niente, lui si alzò e fece un passo verso di lei.«Che cosa ti ha
raccontato?»
Lei lo udiva a stento. La sua mente era assorbita dal ricordo della prima volta che
aveva visto Ashley e Will. Ashley, con il corpo perfetto messo ancora più in risalto
dal bikini, che fissava Will...
La sua voce le giunse da lontano.«Ti decidi? Mi fai stare seduto fuori per ore e non
mi degni neppure di una semplice risposta?»
A Ronnie tornò in mente l'atteggiamento di Ashley quel giorno a bordo campo.
Perfettamente in posa, ad applaudire... con l'intenzione di farsi notare da Will?
Perché? Perché Ashley voleva cercare di riconquistarlo? E vedeva in Ronnie una
rivale?
A questo punto tutti i particolari cominciarono ad andare al loro posto. Ma prima che
potesse formulare una risposta, Will disse sconsolato:«Pensavo che fossi diversa.
Pensavo...» La guardò, sul viso un misto di rabbia e delusione, poi si voltò di scatto e
si incamminò verso la spiaggia.«Accidenti, non so che cosa pensavo», disse senza
voltarsi.
Lei fece un passo avanti e stava per chiamarlo, quando notò una scia di luce sulla
spiaggia vicino al bagnasciuga. La luce saliva e scendeva, come se qualcuno stesse
lanciando...
Una pallina incendiaria, si disse.
Trattenne il respiro, sapendo che lì c'era Marcus, e si bloccò. All'improvviso lo
immaginò che si avvicinava furtivamente al nido delle tartarughe mentre lei dormiva
fuori. Si domandò quanto si fosse avvicinato. Perché non la lasciava in pace? Perché
la tormentava?
Aveva sentito di storie simili, e per quanto le piacesse pensare di essere in grado di
agire e di difendersi in qualsiasi situazione, stavolta era diverso. Perché Marcus era
diverso.
Perché Marcus la spaventava.
Will si era già allontanato un po' lungo la spiaggia. Per un attimo pensò di richiamarlo
e di raccontargli tutto, ma l'ultima cosa che desiderava era stare fuori più del
necessario. Né voleva che Marcus la mettesse in relazione con Will, perché non c'era
nessun rapporto tra lei e Will. Di sicuro non più. Ora c'era lei soltanto.
E Marcus.
Assalita dal panico, fece un passo indietro, poi si impose di fermarsi. Se lui avesse
capito che aveva paura, avrebbe potuto approfittarne. Allora si costrinse a entrare nel
fascio di luce della veranda e si voltò a fissare deliberatamente Marcus.
Non riusciva a vederlo, distingueva soltanto il lampo di luce che andava su e giù.
Sapeva che Marcus voleva spaventarla, e questo fece scattare qualcosa dentro di lei.
Continuando a guardarlo, si portò le mani sui fianchi e alzò il mento sprezzante verso
di lui. Il cuore le batteva forte, ma mantenne la sua posizione, finché vide la palla
infuocata fermarsi. Un attimo dopo la luce si spense e lei comprese che Marcus aveva
chiuso il pugno, annunciando il proprio arrivo.
Lei però rimase dov'era. Non sapeva bene come avrebbe reagito se lui fosse
comparso all'improvviso a pochi metri di distanza, ma con il passare dei minuti,
comprese che aveva ritenuto più saggio stare alla larga. Stanca di aspettare e contenta
di avere trasmesso il messaggio, rincasò.
Quando si appoggiò alla porta dopo averla richiusa, si rese conto che le tremavano le
mani.
15. Marcus
«Voglio andare a prendere qualcosa da mangiare al pub prima che chiuda»,
piagnucolò Blaze.
«Allora vacci», rispose Marcus.«Io non ho fame.»
Blaze e Marcus erano a Bower's Point con Teddy e Lance, che avevano rimorchiato
due ragazze e ce la stavano mettendo tutta per farle ubriacare.
Marcus era rimasto contrariato fin dall'inizio di trovarli lì, poi ci si era messa Blaze
che lo aveva tormentato chiedendogli dove fosse stato tutto il giorno.
Aveva l'impressione che sospettasse che ci fosse di mezzo Ronnie, perché non era
stupida.
Aveva capito fin da principio che Marcus era rimasto colpito dalla nuova arrivata, il
che spiegava come mai le avesse infilato nella sacca quei CD. Era la soluzione
perfetta per fare in modo che Ronnie stesse alla larga... e questo significava che
neppure Marcus avrebbe avuto l'occasione di vederla. Una vera scocciatura.
Poi se l'era trovata lì, che si lamentava di avere fame, e gli stava addosso e lo sfiniva
con mille domande...
«Non voglio andarci da sola», piagnucolò di nuovo.
«Non mi hai sentito?» ringhiò lui.«Ti capita mai di ascoltare quello che dico? Ho
detto che non ho fame.»
«Non sto dicendo che devi mangiare per forza qualcosa...» borbottò Blaze.
«Vuoi chiudere la bocca, una volta per tutte?»
Questo la bloccò. Almeno per un paio di minuti. La vide mettere il broncio e capì che
aspettava che lui si scusasse. Ebbene, si sbagliava di grosso.
Girandosi verso l'oceano, accese la pallina di fuoco, irritato dal fatto che Blaze fosse
ancora lì. Irritato che ci fossero anche Teddy e Lance, quando avrebbe voluto un po'
di pace e tranquillità. Irritato dal fatto che Blaze aveva scacciato Ronnie e molto
irritato dal fatto di essersi arrabbiato per questo. Non era da lui, e detestava le
sensazioni che provava. Avrebbe voluto colpire qualcosa o qualcuno, e quando vide
Blaze con il muso, pensò che non avrebbe resistito. Aveva l'unico desiderio di bersi in
pace la birra, alzare il volume della musica e starsene un po' da solo a pensare. Senza
tutte quelle persone intorno.
E poi, in realtà, non ce l'aveva sul serio con Blaze. Accidenti, quando aveva saputo
ciò che aveva fatto, ne era rimasto quasi soddisfatto, pensando che potesse essere un
modo per spianare la strada tra lui e Ronnie. Tu fai un favore a me, io ne faccio uno a
te, una cosa del genere. Ma quando l'aveva accennato a Ronnie, lei aveva reagito
come se lui avesse chissà quale malattia, come se preferisse morire piuttosto che
andargli vicino. Lui però non era tipo da scoraggiarsi, e immaginava che alla fine lei
si sarebbe resa conto che lui rappresentava la sua unica possibilità di uscire da quel
casino. Per questo era andato a casa sua a farle una visitina, sperando di avere modo
di parlarle. Aveva deciso di agire d'astuzia, e ascoltare comprensivo mentre lei si
sfogava per l'orribile torto che le aveva fatto Blaze. Magari avrebbero potuto fare una
passeggiata e magari sarebbero finiti sotto il molo, e poi chissà. Giusto?
Ma quando era giunto lì, aveva visto Will. Di tutte le persone, proprio Will, seduto su
quella duna, in attesa di parlare con lei. E alla fine Ronnie era uscita a parlargli. Per la
verità gli era sembrato che litigassero, ma da come si comportavano, era chiaro che
tra loro c'era qualcosa, e questo lo aveva irritato più che mai. Perché significava che
si conoscevano e forse che stavano insieme.
E ciò significava che l'aveva completamente fraintesa.
E poi? Poi era venuta la vera chicca. Dopo che Will se n'era andato, Ronnie si era resa
conto di avere avuto due visitatori e non uno soltanto. Quando si era accorta che la
stava osservando, immaginava che avrebbe potuto reagire in due modi. Poteva
raggiungerlo e parlargli nella speranza che convincesse Blaze a dire la verità, oppure
poteva mostrarsi spaventata come era accaduto in precedenza e correre in casa. Gli
piaceva l'idea di spaventarla. Poteva tornare a suo vantaggio.
Lei invece non aveva fatto nessuna delle due cose. Era rimasta a guardarlo come a
dire, provaci. In piedi sulla veranda, aveva assunto un atteggiamento di rabbioso
disprezzo, poi era rincasata.
Nessuno si comportava in quel modo con lui. In particolare le ragazze. Ma chi
diavolo si credeva di essere? Bel corpicino o meno, non gli andava affatto giù.
Blaze interruppe le sue riflessioni.«Sei sicuro di non voler venire?»
Marcus si voltò verso di lei, assalito dall'improvviso bisogno di svuotare la mente, di
calmarsi. Sapeva esattamente che cosa gli ci voleva e chi gliel'avrebbe dato.
«Vieni qui», disse sorridendo.«Siediti accanto a me. Non voglio che tu vada proprio
adesso.»
16. Steve
Steve osservò la figlia rientrare in casa. Per quanto cercasse di sorridergli, per dargli
l'impressione che fosse tutto a posto, lui notò la sua espressione quando afferrò il
libro e si diresse in camera sua.
C'era qualcosa che non andava.
Non sapeva bene che cosa fosse. Non sapeva dire se fosse triste, arrabbiata, oppure
spaventata, e mentre si chiedeva se fosse il caso di parlarle, si convinceva che, di
qualunque cosa si trattasse, voleva affrontarlo da sola. Probabilmente era normale.
Forse negli ultimi tempi non aveva trascorso molto tempo insieme con lei, ma aveva
insegnato per anni agli adolescenti, e sapeva che era quando i ragazzi volevano
parlarti, quando avevano qualcosa di importante da dirti, che dovevi cominciare a
preoccuparti sul serio.
«Ehi, papà», lo chiamò Jonah.
Per tutto il tempo che Ronnie era rimasta fuori, lui aveva proibito a Jonah di guardare
dalla finestra. Gli era sembrata la cosa giusta da fare e Jonah aveva intuito che era
meglio non obiettare e si era messo a guardare un cartone.
«Sì ?»
Jonah si alzò, l'espressione seria.«Che cos'è che ha un occhio solo, parla francese e
adora i biscotti prima di andare a letto?»
Steve ci pensò su.«Non ne ho idea.»
Jonah si coprì un occhio con la mano.«Moi.»
Steve rise e si alzò dal divano, posando la Bibbia.«Vieni. Ho dei biscotti in cucina.»
Si diressero da quella parte.
«Credo che Ronnie e Will abbiano litigato», disse Jonah, tirandosi su i calzoni del
pigiama.
«Si chiama così?»
«Non ti preoccupare. L'ho tenuto d'occhio.»
«Ah», fece Steve.«Perché credi che abbiano litigato?»
«Li ho sentiti. Will sembrava molto arrabbiato.»
Steve lo guardò accigliato.«Credevo che stessi guardando i cartoni.»
«Infatti. Però li ho sentiti lo stesso», spiegò.
«Non dovresti ascoltare le conversazioni altrui», lo rimproverò Steve.
«Però a volte sono interessanti.»
«In ogni caso è sbagliato.»
«La mamma cerca sempre di ascoltare Ronnie quando è al telefono. E poi le ruba il
cellulare quando lei è sotto la doccia e legge gli SMS.»
«Davvero?» Steve cercò di non mostrarsi troppo sorpreso.
«Certo. Altrimenti come potrebbe tenerla d'occhio?»
«Non so... magari potrebbe parlarle», suggerì.
«Certo, come no», sbuffò Jonah.«Neppure Will riesce a parlarle senza arrabbiarsi. Lei
è impossibile.»
All'età di dodici anni, Steve aveva pochi amici. Tra la scuola e le lezioni di piano, gli
restava poco tempo libero, e la persona con cui si ritrovava a parlare più spesso era il
pastore Harris.
Il pianoforte ormai era diventato una vera ossessione per lui, e spesso si esercitava
quattro o persino sei ore al giorno, immerso nel proprio mondo di accordi e
composizione. Aveva già vinto numerose competizioni. Sua madre aveva assistito
soltanto alla prima, e il padre non l'aveva mai accompagnato. Di solito invece si
trovava sul sedile del passeggero insieme con il pastore Harris, mentre erano diretti a
Raleigh, Charlotte, Atlanta o Washington. Trascorrevano lunghe ore a parlare e
sebbene il pastore fosse un sacerdote e infilasse Dio in quasi tutte le conversazioni,
riusciva a farlo sembrare naturale come un abitante di Chicago che commenta i
tentativi dei Cubs di vincere lo scudetto.
Il pastore Harris era una persona mite che aveva avuto una vita difficile. Prendeva sul
serio la sua vocazione e trascorreva le serate a occuparsi del proprio gregge,
all'ospedale, oppure a qualche veglia funebre o a casa di membri della congregazione
che erano diventati amici suoi. Celebrava matrimoni e battesimi, organizzava un
gruppo d'ascolto, e si occupava del coro. Ma tutte le sere, nell'ora prima del tramonto,
e con qualsiasi tempo, camminava per un'ora da solo sulla spiaggia. Al ritorno, spesso
a Steve capitava di pensare che quell'ora di solitudine fosse proprio ciò di cui aveva
bisogno il pastore. Sul suo viso c'era un'espressione pacata e serena tutte le volte che
tornava da quelle passeggiate. Aveva sempre immaginato che fosse il modo in cui il
religioso reclamava un po' di tempo per se stesso, fino al giorno in cui gli aveva
chiesto spiegazioni.
«No», aveva risposto il pastore Harris.«Non cammino sulla spiaggia per stare da solo,
perché non è possibile. Cammino e parlo con Dio.»
«Vuol dire che prega?»
«No», ribatté il pastore.«Voglio dire che parlo. Non devi mai dimenticare che Dio è
tuo amico. E come tutti gli amici, vuole sapere che cosa succede nella tua vita. Le
cose belle e quelle brutte, i dolori o la rabbia, persino quando ti chiedi perché
accadano delle cose terribili. Così parlo con Lui.»
«Che cosa gli dice?»
«Tu che cosa dici agli amici?»
«Io non ho amici.» Steve fece un sorriso tirato.«Perlomeno nessuno con il quale io
possa parlare.»
Il pastore Harris gli posò una mano sulla spalla per tranquillizzarlo.«Tu hai me.»
Vedendo che il ragazzino non rispondeva, il pastore gli disse:«Con Lui parlo
esattamente come facciamo io e te».
«E Lui le risponde?» Steve era alquanto scettico.
«Sempre.»
«E lei Lo sente?»
«Sì, ma non con le orecchie.» Si posò una mano sul cuore.«È qui che sento le Sue
risposte. È qui che sento la Sua presenza.»
Dopo avere dato il bacio della buonanotte a Jonah, Steve si fermò sulla soglia della
camera a guardare la figlia. Con sorpresa l'aveva trovata addormentata e con
un'espressione rilassata, le braccia piegate vicino al petto. Per un attimo pensò di dare
anche a lei il bacio della buonanotte, ma alla fine decise di lasciar perdere,
permettendo ai suoi sogni di fluire senza interruzioni.
Tuttavia indugiò ancora un istante, incapace di allontanarsi. C'era qualcosa di
rasserenante nell'immagine dei suoi due figli addormentati, e mentre Jonah si girava
su un fianco, voltando le spalle alla luce del corridoio, Steve si chiese quanto tempo
fosse passato dall'ultima volta che aveva dato il bacio della buonanotte a Ronnie. Nel
periodo precedente alla sua separazione da Kim, Ronnie aveva raggiunto quell'età in
cui certe cose risultavano imbarazzanti. Lui ricordava ancora distintamente la prima
volta che, avvicinatosi a lei per darle la buonanotte, lei si era ritratta. Kim gli aveva
rivolto un'occhiata di innegabile sofferenza: sapeva che Ronnie stava crescendo, ma
nonostante questa consapevolezza, la fine dell'infanzia le lasciava un vuoto nel cuore.
Diversamente da Kim, Steve non rinfacciava alla figlia il fatto che stesse diventando
adulta. Ripensando alla propria vita alla stessa età, ricordava di avere preso le proprie
decisioni. Ricordava di essersi formato le proprie idee sul mondo, e gli anni di
insegnamento avevano rinforzato l'idea che il cambiamento non era soltanto
inevitabile, ma spesso positivo. A volte gli capitava di ritrovarsi in una classe con uno
studente che gli raccontava dei suoi litigi con i genitori, di come sua madre cercasse
di essere sua amica, oppure di come suo padre tentasse di controllarlo. I colleghi
sembravano convinti che lui avesse un talento naturale per stabilire un rapporto con
gli studenti e, a volte, restava sorpreso di scoprire che molti ragazzi la pensavano allo
stesso modo. Non sapeva esattamente il motivo. Di solito ascoltava in silenzio,
oppure riformulava le loro domande, costringendoli a darsi delle risposte e
convincendoli che in molte circostanze avevano ragione loro.
Erano riflessioni normali di un uomo qualunque, ma gli studenti lo ascoltavano con
attenzione e voglia di mettersi alla prova. A volte riceveva la telefonata dei genitori,
che lo ringraziavano per avere parlato con il loro figlio e affermavano di essersi
accorti che negli ultimi tempi il loro rapporto era migliorato. Quando riattaccava,
Steve cercava di ricordare ciò che aveva detto, nella speranza di essere stato più
sensibile di quanto pensasse, ma restava sempre deluso.
Nel silenzio della camera, Steve udì il respiro di Jonah che cominciava a rallentare.
Sapeva che il figlio si era già addormentato; il sole e l'aria aperta lo stancavano più di
quanto accadesse a Manhattan. Per quanto riguardava Ronnie, era grato che il sonno
avesse cancellato la tensione di quegli ultimi giorni. Aveva il viso sereno, e per
qualche motivo gli ricordava la faccia del pastore Harris dopo le sue passeggiate sulla
spiaggia. La guardò, anelando ancora una volta a ricevere un segno della presenza
divina. Il giorno dopo forse Ronnie sarebbe partita, e di fronte a quella prospettiva
fece un passo esitante verso di lei. La luce della luna entrava dalla finestra e oltre il
vetro riecheggiava, distante, il fragore delle onde. La fioca luce di stelle lontane
brillava come un'affermazione celeste, quasi che Dio volesse annunciare la Sua
presenza da qualche altra parte. Di colpo si sentì stanco. Era solo, pensò; sarebbe
sempre stato solo. Si chinò a baciare dolcemente Ronnie sulla guancia, e fu invaso
ancora una volta dall'impeto del suo amore per lei, una gioia intensa quanto un
dolore.
Poco prima dell'alba, si destò con il pensiero - in realtà più che altro una sensazione che gli mancava il pianoforte. Facendo una smorfia per la prevedibile fitta di dolore
allo stomaco, provò l'impulso di correre in salotto e perdersi nella musica.
Si chiese quando avrebbe avuto di nuovo l'occasione di suonare. Ora rimpiangeva di
non avere fatto conoscenze in città; in alcuni momenti, da quando aveva sigillato il
pianoforte, fantasticava sull'idea di avvicinarsi a un amico con la richiesta di poter
suonare il pianoforte che teneva in salotto, quello che l'amico immaginario
considerava solo un pezzo d'arredamento. Vedeva se stesso mentre prendeva posto
sullo sgabello impolverato e, all'improvviso, cominciava a suonare qualcosa che lo
avrebbe fatto commuovere fino alle lacrime, qualcosa che non era mai riuscito a
ottenere durante le lunghe tournée.
Sapeva che si trattava di una fantasia ridicola, ma senza musica si sentiva alla deriva.
Il pastore Harris gli aveva detto che sarebbe arrivato un nuovo pianoforte per la
chiesa, regalo di un parrocchiano, e che Steve era il benvenuto a suonarlo quando
voleva. Ma sarebbe successo soltanto verso la fine di luglio, e lui non era sicuro di
poter resistere fino ad allora.
Si sedette al tavolo di cucina e ci posò le mani sopra. Con un po' di concentrazione
sarebbe riuscito a sentire la musica nella propria mente. Beethoven aveva composto
l'Eroica quando era quasi completamente sordo, no? Forse anche lui sarebbe riuscito
a sentire tutto nella propria mente, come aveva fatto Beethoven. Scelse il concerto
che Ronnie aveva suonato alla Carnegie Hall, e chiuse gli occhi. Gli accordi erano
appena accennati quando cominciò a muovere le dita. A poco a poco, tuttavia, le note
diventarono più chiare e più distinte nella sua mente e, sebbene non gli desse la stessa
soddisfazione che suonare per davvero, era comunque una bella sensazione.
Mentre le battute finali del concerto gli riecheggiavano nella testa, aprì gli occhi e si
ritrovò seduto nella cucina ancora buia. Il sole avrebbe fatto capolino sopra
l'orizzonte nel giro di pochi minuti, e per qualche motivo lui sentiva il suono di una
singola nota, un si bemolle, risuonargli con insistenza nella testa, quasi chiamandolo.
Sapeva che era soltanto la sua immaginazione, ma la nota persisteva e lui si sorprese
a cercare carta e penna.
Tracciò frettolosamente un pentagramma e scrisse qualche nota prima di premere di
nuovo il dito sul tavolo. Risuonò di nuovo, ma questa volta fu seguita da altre note,
che lui si affrettò a trascrivere.
Aveva passato gran parte della vita a scrivere musica, ma aveva sempre considerato
quelle melodie come semplici figurine, paragonate alle statue che in genere preferiva
suonare. Anche questa forse non era granché, ma la prospettiva di una sfida lo
esaltava. E se fosse riuscito a comporre qualcosa di... ispirato? Qualcosa che sarebbe
stato ricordato a lungo dopo di lui?
Quella fantasia non durò molto tempo. Aveva già provato e fallito in passato, e senza
dubbio avrebbe fallito anche stavolta. Ciononostante era soddisfatto del risultato.
C'era un che di esaltante nell'atto di creare qualcosa dal nulla. Sebbene non avesse
ancora ottenuto granché -dopo molto lavoro era tornato alle prime note che aveva
scritto e aveva deciso di ricominciare daccapo - provava una certa soddisfazione.
Mentre il sole spuntava dietro le dune, Steve ripensò alla sera precedente e decise di
andare a fare una passeggiata sulla spiaggia. In particolare, voleva tornare a casa con
la stessa espressione serena che aveva visto tante volte sul volto del pastore Harris.
Però, mentre avanzava nella sabbia, non poteva fare a meno di sentirsi un dilettante,
qualcuno che cercava le verità divine come un bambino cerca conchiglie.
Sarebbe stato bello individuare un segno evidente della Sua presenza, perciò cercò di
concentrarsi sul mondo che lo circondava: il sole sorto dall'acqua, il cinguettio degli
uccelli, il velo di foschia sull'oceano. Anelava ad assorbire la bellezza
spontaneamente, cercava di percepire la sabbia sotto i piedi e la brezza che gli
accarezzava la guancia. Nonostante gli sforzi non sapeva se si fosse avvicinato alla
risposta che cercava.
Che cosa era, si chiese per la centesima volta, che permetteva al pastore Harris di
percepire le risposte nel proprio cuore? Che cosa voleva dire quando sosteneva di
sentire la presenza di Dio? Avrebbe potuto chiederglielo di persona, ma dubitava che
sarebbe servito. Come era possibile spiegare una cosa del genere? Sarebbe stato come
cercare di descrivere i colori a un cieco dalla nascita: le parole potevano essere
comprese, ma il concetto sarebbe rimasto misterioso e inaccessibile.
Era strano per lui pensare certe cose. Fino a poco tempo prima non era mai stato
tormentato da simili interrogativi, ma probabilmente la vita lo aveva sempre tenuto
abbastanza occupato da evitargli di rifletterci, almeno finché non aveva fatto ritorno a
Wrightsville Beach. Qui, il tempo era rallentato insieme con il ritmo della sua
esistenza. Mentre camminava sulla spiaggia, ripensò alla fatidica decisione di tentare
la fortuna come pianista. Certo, si era sempre chiesto se avrebbe potuto farcela, e sì,
aveva avuto l'impressione che il tempo stesse per finire. Ma com'era possibile che
quei pensieri avessero acquisito tanta urgenza all'epoca? Perché si era sentito così
pronto a lasciare la famiglia per mesi e mesi? Come aveva potuto essere tanto
egoista? A posteriori non si era rivelata una decisione saggia per nessuno di loro. Una
volta aveva creduto che fosse stata la passione per la musica a indurlo a fare quella
scelta, ma ora sospettava che in realtà si fosse trattato di un modo per cercare di
riempire il vuoto che sentiva dentro di sé.
Mentre camminava, cominciò a chiedersi se in fondo la risposta che cercava non si
trovasse in questa nuova consapevolezza.
17. Ronnie
Al risveglio, Ronnie guardò l'orologio e constatò sollevata che, per la prima volta dal
suo arrivo, era riuscita a dormire sino a un'ora decente. Non era tardi, ma quando si
alzò, si sentiva ben riposata. Dal salotto le giungevano i suoni della televisione e,
uscita dalla camera da letto, vide immediatamente Jonah. Era sdraiato sul divano, a
pancia in su, la testa penzoloni dai cuscini, intento a fissare lo schermo.
Non voleva chiederlo. Sapeva che la risposta sarebbe stata senza senso, ma non riuscì
a farne a meno.
«Che cosa stai facendo?»
«Sto guardando la televisione al contrario», rispose. Guardava uno di quei cartoni
giapponesi con i personaggi dagli occhi sgranati che lei trovava irritanti.
«Perché?»
«Perché mi va.»
«E perché?»
«Non so.»
Sapeva che non avrebbe dovuto fare domande. Allora guardò verso la cucina.«Papà
dov'è?»
«Non lo so.»
«Non sai dov'è papà?»
«Non sono mica il suo baby-sitter», rispose Jonah.
«Quando è uscito?»
«Non lo so.»
«Era qui quando ti sei alzato?»
«Uh-hu.» Il suo sguardo non si staccava mai dallo schermo.«Abbiamo parlato della
vetrata.»
«E poi...»
«Non so.»
«Vuoi dire che è scomparso nel nulla?»
«No. Sto dicendo che poi è passato il pastore Harris e sono usciti fuori a parlare.» Lo
disse come se fosse un'ovvietà.
«Allora perché non me l'hai detto subito?» ribatté Ronnie esasperata.
«Perché sto cercando di guardare i cartoni al contrario. Non è facile parlare con il
sangue che ti va alla testa.»
Si era preparato per tutta una serie di battute acide, ma la sorella non si lasciò tentare.
Perché era di umore migliore. Perché aveva dormito abbastanza. E soprattutto, perché
nella sua testa c'era una vocina che mormorava: Forse oggi potrai tornare a casa.
Basta Blaze, basta Marcus o Ashley, basta levatacce.
Però basta anche Will...
Quel pensiero la fece riflettere. Tutto sommato non era stato così male. Anzi, il giorno
prima si era proprio divertita con lui, almeno fino alla partita. Avrebbe fatto meglio a
raccontargli ciò che le aveva detto Ashley; avrebbe dovuto dargli qualche
spiegazione. Ma con l'arrivo di Marcus...
Desiderava davvero andare il più lontano possibile da quel posto.
Scostò la tenda e guardò fuori dalla finestra. Suo padre e il pastore Harris erano nel
vialetto, e lei si rese conto che non vedeva il reverendo da quando era bambina. Non
era molto cambiato da allora; sebbene fosse un po' invecchiato e si appoggiasse a un
bastone, i folti capelli bianchi e le sopracciglia cespugliose erano memorabili.
Sorrise, rammentando la sua cortesia al funerale del nonno. Sapeva perché il padre gli
fosse tanto affezionato; c'era qualcosa di infinitamente gentile in lui, e lei ricordava
ancora come, al termine della cerimonia, le avesse offerto un bicchiere di limonata
fresca più dolce di qualsiasi bibita. Stavano parlando con qualcun altro nel vialetto,
qualcuno che lei non riusciva a vedere. Andò alla porta e uscì. Impiegò soltanto un
istante a riconoscere l'auto di servizio. L'agente Pete Johnson era appena salito a
bordo e si apprestava ad andarsene.
Mentre scendeva i gradini della veranda, sentì il rumore del motore in folle e vide suo
padre rivolgerle un cenno di saluto impacciato. Pete chiuse la portiera, lasciando
Ronnie con una spiacevole sensazione.
Quando raggiunse il padre e il pastore, l'agente Pete stava già facendo retromarcia, e
questo servì soltanto a confermare il suo brutto presentimento.
«Ti sei svegliata», disse il padre.«Ero venuto a controllare poco fa e dormivi come un
sasso. Ti ricordi del pastore Harris?»
Ronnie gli porse la mano.«Certo. Salve. Mi fa piacere rivederla.»
Quando il pastore Harris le strinse la mano, lei notò le cicatrici che gli coprivano le
mani e le braccia.«Non posso credere che questa sia la stessa signorina che ho avuto
la fortuna di conoscere tanto tempo fa. Sei molto cresciuta.» Sorrise.«Somigli a tua
madre.»
Se lo era sentita ripetere spesso ultimamente, ma non sapeva bene come interpretare
la cosa. Significava forse che sembrava vecchia? Oppure che sua madre sembrava
giovane? Difficile a dirsi, ma di sicuro voleva essere un complimento.«Grazie. Come
sta la signora Harris?»
Lui sistemò il bastone.«Mi tiene in riga, come sempre. E sono sicuro che le farebbe
molto piacere rivederti. Se trovi il tempo di passare a casa nostra, farò in modo che ti
prepari una brocca di limonata.»
«Potrei prenderla in parola.»
«Lo spero.» Si girò verso Steve.«Grazie ancora di esserti offerto di fare la vetrata. Sta
venendo davvero molto bella.»
Il padre si schermì.«Non deve ringraziarmi...»
«Certo che sì. Ma adesso devo proprio andare. Ho incaricato le sorelle Towson di
guidare il gruppo di studio stamattina, e se le conoscessi, sapresti perché è vitale che
non le lasci da sole. Sono due persone piuttosto focose. Hanno una vera passione per
Daniele e l'Apocalisse, e si dimenticano sempre che anche la Seconda Lettera ai
Corinzi è un ottimo capitolo del Sacro Testo.» Si girò verso Ronnie.«È stato un vero
piacere rivederti, signorina. Spero che tuo padre non ti dia troppi problemi. Sai come
possono essere a volte i genitori.»
Lei sorrise.«È bravissimo.»
«Bene. Ma se dovesse farti arrabbiare, vieni a parlare con me, e io lo rimetterò in
riga. A volte è un ragazzo davvero birichino, e posso solo immaginare quanto ti
tormenti.»
«Non sono stato birichino», protestò il padre.«Mi sono limitato a suonare il
pianoforte.»
«Ricordami di raccontarti la volta in cui mise del colorante rosso nel fonte
battesimale.»
Steve lo guardò mortificato.«Ma non l'ho mai fatto!»
Il pastore Harris sembrava divertito.«Forse no, ma è lo stesso. In qualunque modo si
presenti, il tuo papà non era perfetto.»
Detto questo, si voltò e si incamminò lungo il vialetto. Ronnie lo guardò allontanarsi,
sorridendo. Chiunque riuscisse a mettere in imbarazzo il padre, era decisamente una
persona che valeva la pena di conoscere meglio. Soprattutto se aveva da raccontare
degli aneddoti divertenti.
Mentre il pastore Harris andava via, il padre aveva un'espressione imperscrutabile.
Quando si girò, tuttavia, era tornato quello di sempre, e a lei venne in mente che
l'agente Pete era stato lì pochi minuti prima.
«Che cosa ti ha detto?» chiese Ronnie.«Mi riferisco all'agente Pete.»
«Perché non entriamo a fare colazione? Sono sicuro che stai morendo di fame. Di
fatto non hai cenato.»
Lei lo afferrò per le braccia.«Dimmelo, papà.»
Il padre esitò, alla ricerca delle parole giuste, ma non c'era modo di indorare la
pillola. Sospirò.«Non potrai tornare a New York, almeno finché non sarai chiamata in
giudizio la prossima settimana. La proprietaria del negozio intende sporgere
denuncia.»
Ronnie era seduta sulla duna, più spaventata che arrabbiata al pensiero di quanto
stava succedendo dentro casa. Era passata un'ora da quando il padre le aveva riferito
ciò che aveva detto il suo amico poliziotto, e lei era rimasta là fuori da allora. Sapeva
che il padre stava telefonando alla mamma, e poteva solo immaginare la sua reazione.
Quello era l'unico motivo per cui valeva la pena trovarsi lì.
Quello e Will...
Ronnie si chiese perché mai continuasse a pensare a lui. Tra di loro era già finita,
ammesso che fosse mai cominciata. Che cosa aveva trovato di interessante in lei? Era
stato con Ashley a lungo, e questo significava che gli piacevano i tipi come lei. Se
c'era una cosa che Ronnie aveva imparato, era che le persone non cambiano. I loro
gusti restano sempre gli stessi. E lei era completamente diversa da Ashley.
Ma non era questa la fonte dei suoi crucci. Quello che la preoccupava era la mamma.
Di certo era venuta a sapere dell'arresto, dato che il padre era al telefono con lei
proprio in quel momento. Quell'idea le faceva accapponare la pelle. La mamma
sicuramente stava dando in escandescenze. Non appena avesse finito di parlare con
papà, probabilmente avrebbe telefonato alla sorella o alla madre, spargendo in giro la
notizia dell'ultima orribile azione commessa da Ronnie. Di sicuro lo faceva
rivangando ogni genere di faccende personali, di solito con sufficiente enfasi da
rendere Ronnie più colpevole che mai. La madre non aveva nessuna sensibilità per le
sfumature. E in questo caso la sfumatura più importante era che lei non aveva fatto
proprio niente! Ma aveva importanza? Certo che no. Percepiva la rabbia della madre,
e questo le faceva venire la nausea. Forse dopotutto era meglio se non andava a casa
quel giorno.
Alle sue spalle sentì i passi del padre che la raggiungeva. Si girò a guardarlo e lui si
fermò. Sapeva che stava cercando di capire se lei volesse rimanere da sola prima di
sedersi impacciato accanto a lei. Non parlò subito. Il suo sguardo fissava un
peschereccio lontano.
«Si è arrabbiata?»
Conosceva già la risposta, ma non era riuscita a trattenersi.
«Un po'», ammise lui.
«Solo un po'?»
«Sono sicuro che ha devastato la cucina mentre eravamo al telefono.»
Ronnie chiuse gli occhi immaginando la scena.«Le hai detto quello che è successo
veramente?»
«Sì. E le ho anche detto che sono certo della tua innocenza.» Le cinse le spalle con un
braccio e la strinse a sé.«Si calmerà, vedrai. Come sempre.»
Ronnie annuì. Nel silenzio sentì lo sguardo del padre su di sé.
«Mi spiace che tu non possa tornare a casa oggi», le disse. La sua voce aveva una
nota tenera e dispiaciuta.«So quanto detesti stare qui.»
«Non è vero», rispose lei automaticamente. Con stupore si rese conto che, per quanto
avesse cercato di convincersi del contrario, stava dicendo la verità.«È solo che non
faccio parte di questo posto.»
Lui le rivolse un sorriso malinconico.«Se ti può consolare, da ragazzo avevo anch'io
la stessa sensazione. Sognavo di andare a New York. Ma è strano, perché quando alla
fine scappai da qui, finii per rimpiangere questo posto più di quanto pensassi. C'è
qualcosa nell'oceano che mi è sempre rimasto nel cuore.»
Lei si girò a guardarlo.«Che cosa mi succederà? L'agente Pete ti ha detto
qualcos'altro?»
«No. Soltanto che la proprietaria sente l'obbligo di sporgere denuncia perché si
trattava di articoli di valore e ultimamente ha avuto molti problemi con i furti.» ',
«Ma non sono stata io!» esclamò Ronnie.
«Lo so», disse lui,«e lo dimostreremo. Troveremo un buon avvocato e partiremo da
lì.»
«Gli avvocati costano?»
«Quelli bravi sì», rispose il padre.
«E tu puoi permettertene uno?»
«Non ti preoccupare. Me la caverò.» Fece una pausa.«Posso farti una domanda? Che
cosa hai fatto per provocare così la collera di Blaze? Non me lo hai detto.»
Se fosse stata sua madre a chiederglielo, non avrebbe risposto. Né lo avrebbe fatto
con suo padre, fino a un paio di giorni prima. Ora, per qualche ragione, non vedeva
perché non farlo.«Il suo ragazzo è un tipo strano, pericoloso, e lei crede che io voglia
rubarglielo. O qualcosa del genere.»
«Che cosa intendi per strano e pericoloso?»
Lei ci pensò su. Sul bagnasciuga stavano arrivando le prime famiglie, cariche di
asciugamani e giochi da spiaggia.«L'ho visto ieri sera», rispose a voce bassa. Indicò
verso la spiaggia.«Era laggiù mentre parlavo con Will.»
Il padre non fece nulla per mascherare la propria ansia.«Però non s'è avvicinato.»
Lei fece segno di no.«No. Ma c'è qualcosa... di inquietante in lui. Marcus...»
«Forse faresti meglio a stare alla larga da quei due. Intendo Blaze e Marcus.»
«Stai tranquillo. Non ho intenzione di avere più niente a che fare con loro.»
«Vuoi che telefoni a Pete? So che non ti sta simpatico...»
«Non ancora. Che tu ci creda o no, non ce l'ho affatto con lui. Stava solo facendo il
suo lavoro, e in realtà si è dimostrato molto comprensivo riguardo a tutta la faccenda.
Credo di avergli fatto pena.»
«Mi ha detto che ti credeva. Per questo ha parlato con la proprietaria.»
Lei sorrise timidamente, trovando che era molto bello parlare con il padre in quel
modo. Per un attimo si domandò come sarebbe stata diversa la sua vita se lui non se
ne fosse andato. Esitò, raccolse una manciata di sabbia e la lasciò cadere tra le dita.
«Perché ci hai lasciato, papà?» domandò.«Sono abbastanza grande da poter sapere la
verità, no?»
Lui allungò le gambe, cercando di guadagnare tempo. Sembrava che stesse cercando
le parole.«Dopo avere smesso di insegnare alla Juilliard, ho fatto tutti i concerti che
potevo. Era il mio sogno, sai? Diventare un pianista famoso. Tuttavia... forse avrei
dovuto riflettere meglio sulla realtà, prima di prendere quella decisione. Ma non lo
feci. Non mi resi conto di quanto sarebbe stata dura per tua madre.» La guardò con
espressione seria.«Alla fine ci allontanammo senza rendercene conto.»
Lei lo osservava mentre parlava, cercando di leggere tra le righe.
«C'era un altro, vero?» domandò con voce priva di emozione.
Il padre non rispose e distolse lo sguardo. Ronnie sentì qualcosa precipitare dentro di
lei.
Quando alla fine lui parlò, aveva la voce stanca.«So che avrei dovuto fare di più per
cercare di salvare il matrimonio, e mi dispiace. Mi dispiace più di quanto tu possa
immaginare. Ma voglio che tu sappia una cosa: non ho mai smesso di credere in tua
madre, non ho mai smesso di credere nella forza del nostro amore. Anche se alla fine
non è stato come avremmo voluto io e te, quando vedo te e Jonah, mi rendo conto di
quanto sono fortunato ad avervi come figli. In una vita di errori, voi due siete le cose
più belle che mi siano capitate.»
Quando tacque, lei raccolse un'altra manciata di sabbia e la lasciò filtrare tra le dita,
di nuovo spossata.«Che cosa devo fare?»
«Vuoi dire oggi?»
«Voglio dire in genere.»
Lui le accarezzò la schiena.«Forse il tuo primo passo potrebbe essere andare a
parlarci.»
«Con chi?»
«Con Will», rispose lui.«Ricordi quando siete passati davanti a casa ieri pomeriggio?
Io ero in veranda. Vi stavo guardando, e trovavo che eravate molto affiatati.»
«Ma non lo conosci nemmeno», protestò Ronnie, la voce un misto di meraviglia e
incredulità.
«No», ammise lui. Sorrise teneramente.«Però conosco te. E ieri eri felice.»
«E se lui non volesse parlarmi?» si angustiò lei.
«Lo farà.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché vi stavo guardando, e anche lui era felice.»
Mentre aspettava davanti all'autofficina, il suo unico pensiero era di non volerlo fare.
Non voleva affrontarlo, però ne sentiva anche il bisogno e sapeva di non avere scelta.
Sapeva di non essere stata giusta con lui, e il minimo che si meritasse era di sapere
quello che Ashley le aveva detto. Aveva aspettato per ore fuori da casa sua, giusto?
Inoltre doveva ammettere che suo padre aveva ragione. Si era divertita molto con
Will, o quantomeno si era divertita il massimo possibile in un posto come quello. E
c'era qualcosa in lui che lo rendeva diverso da tutti gli altri ragazzi che aveva
conosciuto. Non era il fatto che giocasse a pallavolo e avesse un fisico da atleta, e
neppure che fosse più intelligente di quanto lasciasse vedere. Non aveva paura di lei.
Troppi ragazzi si limitavano a mostrarsi condiscendenti, pensando che l'unica cosa
importante fosse essere carini. In effetti era importante, ma non se si riducevano a
uno zerbino. Apprezzava il fatto che lui l'avesse portata a pesca, anche se la cosa non
l'aveva entusiasmata. Era stato il suo modo di dirle, io sono fatto così, queste sono le
cose che mi piacciono e voglio condividerle con te. Troppo spesso capitava che,
quando un ragazzo le chiedeva di uscire, andasse a prenderla senza avere la minima
idea di dove portarla o che cosa fare, costringendo poi lei a prendere una decisione.
C'era qualcosa di superficiale e inconcludente in tutto questo. Will era tutt'altro che
inconcludente e ciò lo rendeva ancora più interessante.
Perciò doveva sistemare le cose tra di loro. Preparandosi mentalmente nel caso lui
fosse ancora arrabbiato, entrò nell'autofficina. Will e Scott lavoravano sotto il ponte.
Scott disse qualcosa all'amico, che si girò e la vide, ma non le sorrise. Si pulì le mani
e s'incamminò verso di lei.
Si fermò a qualche passo di distanza. La sua espressione era imperscrutabile.«Che
cosa vuoi?»
Non proprio l'esordio che si era augurata, ma nemmeno del tutto inaspettato.
«Avevi ragione tu», disse.«Ieri me ne sono andata perché Ashley mi aveva detto che
ero la tua ultima conquista. Ha lasciato intendere anche che non ero la prima, che la
nostra giornata insieme - tutte le cose che abbiamo fatto e i luoghi dove mi hai
portato - fossero trucchi che usavi con ogni nuova ragazza.»
Will continuava a guardarla.«Ti ha mentito.»
«Lo so.»
«Allora perché mi hai lasciato fuori ad aspettare per ore? E perché non mi hai detto
niente ieri?»
Lei si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, invasa da un profondo senso di
colpa che cercò di nascondere.«Ero arrabbiata e confusa. Stavo per dirtelo, ma tu te
ne sei andato prima che potessi farlo.»
«Stai dicendo che è stata colpa mia?»
«No, niente affatto. Stanno succedendo un sacco di cose che non hanno niente a che
fare con te. Gli ultimi giorni sono stati piuttosto difficili per me.» Si passò una mano
tra i capelli in un gesto nervoso.
Will impiegò qualche tempo a riflettere su ciò che lei aveva detto.«Perché le hai
creduto? Non la conoscevi neppure.»
Lei chiuse gli occhi. Perché? Si domandò. Perché sono un'idiota. Perché mi sarei
dovuta fidare del mio istinto su di lei. Ma non lo disse. Si limitò a scuotere la
testa.«Non lo so.»
Vedendo che non avrebbe aggiunto altro, lui si infilò le mani nelle tasche.«Sei venuta
qui solo per questo? Devo tornare al lavoro.»
«Volevo anche scusarmi», proseguì lei a voce bassa.«Mi spiace. Ho esagerato.»
«Proprio così», ribatté Will asciutto.«Ti sei comportata in modo del tutto irrazionale.
Qualcos'altro?»
«Volevo anche dirti che ieri mi sono divertita molto. Ecco, almeno fino alla partita.»
«Okay.»
Lei non sapeva bene che cosa stesse a significare quella risposta, ma quando lo vide
sorridere cominciò a rilassarsi.
«Okay?» Tutto qui? È tutto quello che hai da dire dopo che sono venuta fin qui per
scusarmi?»
Invece di rispondere, Will fece un passo verso di lei, e poi tutto accadde troppo in
fretta per capirci qualcosa. Un attimo prima era a un metro da lei, e quello dopo le
aveva posato la mano su un fianco e la stava abbracciando. Poi, chinò la testa e la
baciò. Le sue labbra erano morbide. Forse fu per il fatto che l'aveva colta di sorpresa,
ma ricambiò il bacio e si rese conto che era esattamente ciò che aveva desiderato che
facesse.
Quando la lasciò andare, Ronnie si sentì arrossire. Lui aveva un'espressione gentile
ma seria.
«La prossima volta che ti arrabbierai con me, parliamone», disse.«Non escludermi.
Non mi piacciono i giochetti. E, a proposito, anch'io sono stato molto bene con te.»
Era ancora un po' stordita quando tornò a casa. Continuava a ripensare a quel bacio.
Però le era piaciuto. Le era piaciuto un sacco. E questo la portava a chiedersi perché
poi se ne fosse andata. Sarebbe stato più logico fare progetti per rivederlo, ma con
Scott a poca distanza che li guardava stupefatto, le era sembrato meglio dargli un
altro bacio fugace e lasciarlo tornare al lavoro. Comunque era sicura che si sarebbero
rivisti.
Lui era attratto da lei. Ronnie non sapeva perché o come fosse successo, ma era così.
Era un pensiero sconcertante, e avrebbe voluto che Kayla fosse lì con lei per poterne
parlare. Forse avrebbe potuto telefonarle, ma non sarebbe stata la stessa cosa.
Mentre si avvicinava alla porta Jonah uscì dal laboratorio diretto verso casa.
«Ehi, ciao Jonah!» lo salutò.
«Ciao, Ronnie!» Lui le corse incontro. Quando le fu vicino, si fermò a
esaminarla.«Posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Vuoi un biscotto?»
«Che cosa?»
«Un biscotto. Lo vuoi?»
Non aveva idea di cosa stesse parlando il fratello, per il semplice motivo che il suo
cervello funzionava su binari diversi da quelli di lui. Preferì dargli una risposta
prudente.«No.»
«Come è possibile che tu non voglia un biscotto?»
«È così.»
«Va bene», disse lui con un gesto della mano.«Mettiamo che tu voglia un biscotto.
Mettiamo che tu muori dalla voglia di mangiare un biscotto, e che la credenza sia
piena di biscotti. Che cosa faresti?»
«Mangerei un biscotto?» azzardò lei.
Jonah schioccò le dita.«Esatto. È quello che sto dicendo.»
«Che cosa stai dicendo?»
«Che quando una persona vuole dei biscotti, dovrebbe andare a prenderli. È quello
che si fa normalmente.»
Aha, pensò lei. Adesso ha senso.«Lasciami indovinare. Papà non vuole che mangi un
biscotto.»
«No. Anche se sto morendo di fame, non ne vuole sapere. Dice che prima devo
mangiare un panino.»
«E tu non lo trovi giusto.»
«Tu hai appena detto che prenderesti un biscotto se lo volessi. Allora perché io non
posso? Non sono un bambino piccolo. Posso decidere da solo.» La guardò serio.
Lei si portò un dito al mento.«Hmmm. Adesso capisco che cosa ti angustia tanto.»
«Non è giusto. Se lui vuole un biscotto, se lo prende. Se tu vuoi un biscotto, te lo
prendi. Ma se io voglio un biscotto, le regole non valgono. Quindi non è giusto.»
«Allora che cosa hai intenzione di fare?»
«Mi mangerò un panino. Perché devo. Perché il mondo non è giusto con i ragazzi di
dieci anni.»
Si allontanò e lei lo guardò sorridendo. Forse, più tardi, l'avrebbe portato a prendere
un gelato. Per un istante pensò di seguirlo in casa, poi cambiò idea e si diresse verso
il laboratorio. Si disse che era giunto il momento di vedere la vetrata di cui aveva
sentito tanto parlare.
Dalla porta vide il padre che stava saldando qualcosa.
«Ciao, tesoro. Vieni.»
Ronnie entrò, osservando attentamente il laboratorio per la prima volta. Fece una
smorfia alla vista dei bizzarri animali sugli scaffali e poi si avvicinò al banco di
lavoro dove si trovava la vetrata. A quanto poteva giudicare, c'era ancora molto da
fare; per il momento ne era stato completato meno di un quarto e, dando un'occhiata
al disegno, mancavano ancora centinaia di tessere da inserire.
Terminata la saldatura, il padre si raddrizzò e si sgranchì le spalle.«Questo tavolo è
un po' troppo basso per me. Dopo un po' devo alzarmi. Sai, sto invecchiando.»
Lei sorrise poi si allontanò dal tavolo. Attaccato al muro, accanto a un ritaglio di
giornale che parlava dell'incendio, c'era una fotografia della vetrata. Lei si avvicinò
per guardarla meglio, poi si voltò verso il padre.«Gli ho parlato», disse.«Sono andata
all'autofficina dove lavora.»
«E?»
«Gli piaccio.»
Il padre si illuminò.«Lo credo bene. Sei uno schianto.»
Ronnie provò un impeto di gratitudine. Si domandò, senza riuscire a ricordare, se
fosse sempre stato così gentile con lei.«Perché stai realizzando la vetrata per la
chiesa? Perché il pastore Harris ti lascia vivere qui?»
«No. L'avrei fatta comunque...» tacque. Ronnie lo guardò piena d'aspettativa.«È una
lunga storia. Sei sicura di volerla ascoltare?»
Lei annuì.
«Avrò avuto all'incirca sei o sette anni la prima volta che entrai nella chiesa del
pastore Harris. Ci ero entrato per ripararmi, perché stava diluviando ed ero bagnato
fradicio. Quando lo udii suonare il piano, pensai che mi avrebbe mandato via. Invece
mi portò una coperta e un piatto di zuppa e chiamò la nonna perché venisse a
prendermi. Ma prima che lei arrivasse, mi lasciò suonare il pianoforte. Io battevo sui
tasti a caso, ma tornai da lui anche il giorno dopo e alla fine diventò il mio primo
insegnante di pianoforte. Era animato da un grande amore per la musica e mi ripeteva
sovente che la bella musica era simile al canto degli angeli. Andavo in chiesa tutti i
giorni e suonavo per ore sotto la vetrata inondato da quella luce celestiale. È
l'immagine che mi torna in mente ogni volta che penso alle ore trascorse lì.
Quell'incantevole cascata di luce. È quando scoppiò l'incendio...»
Indicò l'articolo appeso alla parete.«Il pastore Harris rischiò di morire quella notte. Si
era trattenuto per apportare le ultime correzioni al suo sermone e fece appena in
tempo a uscire. La chiesa si incendiò in pochi minuti e fu distrutta fino alle
fondamenta. Il pastore Harris rimase in ospedale per un mese e da allora ha celebrato
la messa in un vecchio magazzino in disuso. È buio e umido, ma credevo si trattasse
di una sistemazione temporanea, finché mi spiegò che l'assicurazione copriva soltanto
la metà dei danni e che non avrebbero mai potuto permettersi di comprare una nuova
vetrata. Mi sembrava inconcepibile. La chiesa non sarebbe più stata il luogo che
ricordavo e non era giusto. Così mi sono offerto di farla io.» Si schiarì la
voce.«Perciò devo assolutamente finirla.»
Mentre parlava, Ronnie cercò di immaginarlo al pianoforte della chiesa, e lasciò
vagare lo sguardo tra la fotografia e la vetrata in costruzione sul tavolo.
«Stai facendo un buon lavoro.»
«Sì, certo... vedremo come sarà una volta terminata. Mi sembra che a Jonah piaccia
lavorare con me.»
«Senti, a proposito di Jonah. È parecchio amareggiato perché non gli hai permesso di
mangiare un biscotto.»
«Non prima di pranzo.»
Lei fece una smorfia.«La mia non è una critica. L'ho solo trovato buffo.»
«Ti ha detto che oggi ha già mangiato due biscotti?»
«Temo che l'abbia dimenticato.»
«Me lo immaginavo.» Posò i guanti da lavoro sul tavolo.«Vuoi pranzare con noi?»
Lei annuì.«Sì, volentieri.»
Si diressero insieme verso la porta.«A proposito», disse lui cercando di mantenere un
tono disinvolto,«esiste la possibilità che possa conoscere il giovanotto a cui piace mia
figlia?»
Lei gli passò davanti e uscì alla luce del sole.«È probabile.»
«Che ne dici di invitarlo a cena? E magari dopo, potremmo... ecco, fare come un
tempo», propose Steve con una certa esitazione.
Ronnie ci pensò su.«Non saprei, papà. La situazione può diventare incandescente.»
«D'accordo, lascio decidere a te, va bene?»
18. Will
«Avanti, amico. Devi restare concentrato sul gioco. Se lo farai, batteremo Landry e
Tyson al torneo.»
Will si passava la palla da una mano all'altra mentre lui e Scott erano sulla spiaggia,
ancora sudati dopo gli ultimi tiri. Era tardo pomeriggio. Avevano finito di lavorare
all'autofficina alle tre ed erano corsi là per un'amichevole contro un paio di squadre
della Georgia in vacanza. Tutti si stavano preparando al torneo che si sarebbe svolto
in agosto a Wrightsville Beach.
«Non hanno mai perso quest'anno. E hanno appena vinto il campionato nazionale
juniores», obiettò Will.
«E allora? Noi non abbiamo partecipato. Hanno battuto un branco di pivellini.»
Secondo Will, il campionato nazionale juniores non era roba da pivellini. Nel mondo
di Scott, tuttavia, chiunque perdesse era un pivellino.
«L'anno scorso ci hanno battuti.»
«Sì, ma l'anno scorso tu eri molto peggio di adesso. Toccava a me giocare per due.»
«Grazie tante.»
«Era solo per dire. Sei incostante. Prendiamo ieri, per esempio. Dopo che quella tipa
è andata via, hai giocato il resto della partita come se fossi cieco.»
«Non è una tipa. Si chiama Ronnie.»
«Come vuoi. Sai qual è il tuo problema?»
Sì, Scott, per favore dimmi il mio problema, pensò Will. Muoio dalla voglia di sentire
la tua opinione. Scott proseguì, ignaro dei pensieri dell'amico.
«Il tuo problema è che non sei concentrato. Basta che accada una cosa da nulla, e ti
perdi in un bicchier d'acqua. Oh, ho versato l'aranciata addosso a Elvira, allora
sbaglierò i prossimi cinque tuffi. No, Vampira si è arrabbiata con Ashley, sarà meglio
sbagliare le prossime due battute...»
«La vuoi smettere?» lo interruppe Will.
Scott sembrava confuso.«Smettere che cosa?»
«Di darle dei nomignoli.»
«Vedi! È proprio quello che sto dicendo io! Non sto parlando di lei. Mi riferisco a te e
alla tua mancanza di concentrazione. La tua incapacità di concentrarti sul gioco.»
«Abbiamo vinto due set e loro hanno fatto soltanto sette punti! Li abbiamo
stracciati», protestò Will.
«Sì, ma non avrebbero dovuto farne neppure cinque, di punti. Avremmo dovuto
lasciarli a bocca asciutta.»
«Dici sul serio?»
«Certo. Non sono molto bravi.»
«Comunque abbiamo vinto! Non basta?»
«No, se si possono fare più punti. Avremmo potuto annientarli, così all'incontro del
torneo, avrebbero rinunciato prima ancora dell'inizio della partita. Si chiama
psicologia.»
«Io credo che si chiami segnare più punti del necessario.»
«Solo perché non riesci a pensare lucidamente, altrimenti non saresti finito
invischiato con Crudelia De Mon.»
Elvira, Vampira, e ora Crudelia. Almeno, pensò Will, Scott non era ripetitivo.
«Secondo me sei geloso», disse Will.
«No. Credo che dovresti uscire con Ashley, in modo che io possa stare con Cassie.»
«Stai ancora pensando a quella storia?»
«Pronto? Ci sei? E a chi dovrei pensare? Avresti dovuto vederla in bikini ieri.»
«Allora chiedile di uscire.»
«Non vuole.» Scott si accigliò costernato.«È come una specie di scambio a scatola
chiusa. Non riesco a capire.»
«Forse ti trova brutto.»
Scott lo fissò con aria torva, prima di rivolgergli un sorriso beffardo.«Ah-ha! Molto
divertente. Davvero molto divertente.» Il suo sguardo rimase a lungo inchiodato su
Will.
«Era tanto per dire.»
«Be' non farlo più, okay? E si può sapere che cosa c'è tra te e...»
«Ronnie?»
«Sì. Cos'è questa storia? Ieri hai passato tutta la giornata con lei, poi stamattina
piomba qui e tu la baci? Fai... sul serio, o cosa?»
Will rimase in silenzio.
Scott gli puntò addosso un dito, per dare più enfasi alle proprie parole.«Ecco, è
proprio questo il punto. L'ultima cosa che ti serve è di fare sul serio con una ragazza.
Devi concentrarti su quello che è davvero importante. Hai un lavoro a tempo pieno,
fai il volontario per cercare di salvare i delfini o le balene o le tartarughe o che so io,
e sai quanto dobbiamo allenarci in vista del torneo. Non hai abbastanza tempo, ecco!»
Will non replicò, ma si accorse che Scott si stava facendo prendere dal panico.
«Dai, amico! Non farmi questo. Che cosa diavolo ci vedi in lei?»
Will continuò a tacere.
«No, no, no», ripetè Scott come un mantra.«Sapevo che sarebbe successo. Ecco
perché ti avevo detto di uscire con Ashley! Così non avresti fatto di nuovo sul serio.
Sai che cosa succederà. Ti trasformerai in un eremita. Trascurerai gli amici per poter
stare con lei. Fidati, l'ultima cosa che ti serve è di fare sul serio con...»
«Ronnie», completò Will.
«Sì, va bene», sbottò Scott.«Comunque non hai capito.»
Will sorrise.«Ti sei mai reso conto di avere più opinioni sulla mia vita che sulla tua?»
«Forse è perché io non faccio casini come te.»
Will si irrigidì, assalito dal ricordo fulmineo della notte dell'incendio, e si chiese se
Scott fosse davvero così ingenuo.
«Non voglio parlarne», disse Will, ma poi si rese conto che l'amico non lo ascoltava.
Teneva lo sguardo fisso oltre la sua spalla, verso un punto sulla spiaggia.
«Deve essere uno scherzo», borbottò Scott.
Will si girò e vide Ronnie che si stava avvicinando. Con i jeans e la maglietta scura,
sembrava del tutto fuori luogo. Sul suo viso si allargò un sorriso compiaciuto.
S'incamminò verso di lei, fissandola intensamente, chiedendosi che cosa stesse
pensando.
«Ciao», le disse.
Lei si fermò fuori dalla sua portata. Aveva l'espressione seria.«Non mi baciare.
Ascoltami e basta, d'accordo ?»
Seduta accanto a lui sul furgone, Ronnie era silenziosa. Guardava fuori dal finestrino
con un vago sorriso stampato sulla faccia. Dopo qualche minuto, si mise le mani in
grembo e si voltò verso di lui.«Voglio che tu sappia che a mio padre non interessa
come sei vestito.»
«Ci vorrà solo un minuto.»
«Ma è una cena informale.»
«Sono accaldato e sudato. Non ho intenzione di venire a casa tua in queste
condizioni.»
«Ma ti ho appena detto che lui non ci baderà.» ,
«Io però sì. A differenza di altre persone, mi piace fare buona impressione.»
Ronnie si adombrò.«Vuoi dire che a me non interessa?»
«Certo che no. Per esempio, tutte le persone che conosco amano incontrare gente con
i capelli viola.»
Pur sapendo che lui diceva per scherzo, Ronnie non potè evitare di ribattere.«Non mi
sembra che per te sia un problema.»
«Certo, ma io sono speciale.»
Lei incrociò le braccia e lo fissò.«Ti comporterai così per tutta la sera?»
«Così come?»
«Come chi non ha la minima intenzione di baciarmi di nuovo?»
Lui rise e le lanciò un'occhiata.«Ti chiedo scusa. Non dicevo sul serio. In realtà mi
piacciono le ciocche viola. Fanno parte di... quello che sei.»
«Sì, ma la prossima volta dovrai imparare a fare più attenzione a quello che dici.»
Mentre parlava, aprì il cassettino del cruscotto e cominciò a frugarci dentro.
«Che cosa stai facendo?»
«Do un'occhiata. Perché? Tieni nascosto qualcosa?»
«Fai pure. E già che ci sei, magari potresti mettere un po' d'ordine.»
Lei tirò fuori una cartuccia e la tenne in modo che anche lui potesse
vederla.«Suppongo che questa la usi per uccidere le anatre, giusto?»
«No, quella è per i cervi. È troppo grande per un'anatra. Se le sparassi con quella la
ridurrei in mille pezzi.»
«Hai dei seri problemi, sai.»
«Sì, me l'hanno detto.»
Lei ridacchiò poi tornò silenziosa. Erano dal lato dell'isola verso la terraferma e il
sole faceva capolino sull'acqua tra la schiera infinita di case. Ronnie richiuse il
cassettino e abbassò il parasole. Notando la fotografia di una ragazza bionda molto
carina, la prese per esaminarla.
«È carina», commentò.
«Sì.»
«Scommetto dieci dollari che l'hai messa sulla tua pagina di Facebook.»
«Hai perso. È mia sorella.»
Lui la vide spostare lo sguardo dalla foto al suo polso dove c'era il braccialetto.
«Come mai avete braccialetti uguali?» gli chiese.
«Li abbiamo fatti io e mia sorella.»
«Senza dubbio per sostenere una degna causa.»
«No», rispose lui, senza aggiungere altro. Lo colpì il fatto che lei sembrò intuire il
suo desiderio di non rivelare altro. Rimise a posto la foto e sollevò il parasole.
«Abiti lontano?» chiese Ronnie.
«Ci siamo quasi», le assicurò Will.
«Se avessi saputo che era così distante, sarei tornata a casa.»
«Ma se l'avessi fatto ti saresti persa la mia brillante conversazione.»
«È così che la definisci?»
«Hai intenzione di insultarmi di nuovo?» Lui la guardò.«Dimmelo, in modo che io
sappia se alzare il volume della musica per non doverti più sentire.»
«Sai che non avresti dovuto baciarmi, prima. Non è stato propriamente romantico»,
sbottò Ronnie.
«Io l'ho trovato molto romantico.»
«Eravamo in un'autofficina, avevi le mani sporche di grasso e il tuo amico era lì che
ci guardava.»
«Uno scenario perfetto», commentò lui.
Lui rallentò e abbassò il parasole. Poi, imboccò una via laterale e si fermò, azionando
un telecomando. Un cancello di ferro battuto si aprì lentamente e il furgone si mosse
di nuovo. Esaltato all'idea di cenare con la famiglia di Ronnie quella sera, Will non si
era reso conto che lei era diventata taciturna.
19.Ronnie
D'accordo, pensò, era ridicolo. Non solo il giardino con i roseti accuratamente potati,
le siepi e le statue di marmo; né la sontuosa dimora georgiana con il colonnato, e
neppure le costosissime automobili straniere lucidate a mano, bensì tutto l'insieme.
Non era soltanto ridicolo. Era assurdo.
Sì, certo, sapeva che esistevano persone ricche a New York con appartamenti di
ventitré stanze su Park Avenue e ville negli Hamptons, ma lei non aveva mai
frequentato quelle persone e non era mai stata invitata in quelle case. Il massimo che
le era capitato era stato di vedere posti simili nelle riviste, e comunque, nella maggior
parte dei casi, si era trattato di foto rubate dai paparazzi.
E adesso eccola lì, con una T-shirt e un paio di jeans stracciati. Almeno avrebbe
potuto avvisarla.
Continuava a fissare la casa, mentre il furgone risaliva il vialetto e si fermava davanti
al portone d'ingresso. Si voltò verso Will e stava per chiedergli se lui abitasse per
davvero lì, quando si rese conto che era una domanda sciocca. Era ovvio che abitava
lì. Lui intanto era già sceso.
Aprì la portiera e scese anche lei. I due uomini che stavano lavando le automobili le
lanciarono un'occhiata di sfuggita e poi tornarono al lavoro.
«Vado a darmi una rinfrescata. Non ci metterò molto.»
«Bene», rispose lei. Non le venne in mente nient'altro da dire. Era l'abitazione più
grande che avesse mai visto in vita sua.
Lo seguì su per i gradini che conducevano alla veranda e si fermò davanti alla porta,
giusto il tempo per notare una placca d'ottone con scritto blakelee.
Come l'autofficina Blakelee. Come la catena di autofficine nazionali. Evidentemente
il padre di Will non era il proprietario di una semplice attività in franchising, ma
aveva avviato l'intera attività.
Lei stava ancora cercando di elaborare queste semplici informazioni, quando Will
aprì la porta e la fece entrare in un imponente ingresso dominato da una massiccia
scalinata. Una biblioteca rivestita di legno scuro si apriva invitante sulla destra,
mentre a sinistra si trovava una specie di stanza da musica. Di fronte c'era un vasto
locale inondato di sole, oltre il quale si intravedevano le acque scintillanti
dell'Intracoastal Waterway.
«Non mi avevi detto che il tuo cognome era Blakelee», borbottò Ronnie.
«Tu non me lo hai chiesto», ribatté con aria indifferente.«Entra.»
La condusse oltre lo scalone verso la grande stanza. Sul retro della casa lei vide una
enorme veranda coperta; in riva all'acqua scorse quello che poteva essere descritto
come uno yacht di medie dimensioni ormeggiato al pontile.
D'accordo, lo ammetteva. Si sentiva fuori luogo e il fatto che accadesse la stessa cosa
a chiunque entrasse lì la prima volta non le era di nessuna consolazione. Era come se
fosse finita su Marte.
«Vuoi bere qualcosa mentre mi preparo?»
«Hmm, no, sto bene così, grazie», rispose lei cercando di assumere un'aria disinvolta.
«Vuoi che ti faccia vedere la casa prima?»
«Non importa.»
Da qualche parte sentì risuonare una voce.
«Will? Sei tu?»
Ronnie si voltò e vide una donna attraente sulla cinquantina con un costoso completo
di lino che aveva in mano una rivista.
«Ciao, mamma», disse lui. Gettò le chiavi del furgone in una ciotola collocata sul
tavolino d'ingresso, proprio accanto al vaso di lillà.«Ho portato un'amica. Lei è
Ronnie. E questa è mia madre, Susan.»
«Oh. Ciao, Ronnie», disse Susan con freddezza.
Per quanto cercasse di mascherarlo, Ronnie si rese conto che la donna non era affatto
contenta di essere stata colta di sorpresa dall'inaspettata ospite di Will. Un'ospite
come lei, poi.
Ma se Ronnie percepì la tensione, Will evidentemente non ci badò. Forse, pensò
Ronnie, era una caratteristica femminile riuscire a captare cose del genere, perché
Will continuò a chiacchierare con la massima naturalezza.
«Papà è in casa?» domandò.
«Credo che sia nello studio.»
«Prima di uscire, ho bisogno di parlargli.»
Susan spostò la rivista da una mano all'altra.«Esci?»
«Vado a cena a casa di Ronnie stasera.»
«Oh, meraviglioso», ribatté lei.
«Questo ti piacerà. Ronnie è vegetariana.»
«Oh», ripetè Susan, girandosi a esaminare Ronnie.«È vero?»
Ronnie si sentiva piccola piccola.«Sì.»
«Interessante», commentò Susan. Invece Ronnie si rese conto che la cosa era tutt'altro
che interessante.
«Bene, allora salgo un attimo di sopra a cambiarmi. Tornerò subito», comunicò Will.
Ronnie provò l'impulso di dirgli di sbrigarsi, ma non lo fece.«Va bene», rispose
invece.
Will scomparve su per le scale, lasciando le due donne l'una di fronte all'altra. Nel
silenzio che seguì, Ronnie ebbe la certezza che, per quanto avessero poche cose in
comune, in quel momento erano unite dall'infelicità di trovarsi insieme da sole.
«Bene», esordì Susan con un sorriso forzato.«Tu sei quella con il nido di tartarughe
dietro casa?»
«Esatto.»
Susan annuì. Non aveva più argomenti a disposizione, così Ronnie cercò
disperatamente di riempire il silenzio.«Ha una casa bellissima.»
«Grazie.»
Detto questo, anche Ronnie rimase a corto di argomenti e, per i minuti successivi,
rimasero a guardarsi imbarazzate. Non aveva idea di che cosa sarebbe accaduto se
quella situazione si fosse protratta. Ma per fortuna furono raggiunte da un uomo sulla
sessantina, vestito in maniera casual con scarpe da vela e una polo.
«Mi era sembrato di sentire entrare qualcuno», disse avvicinandosi con un
atteggiamento cordiale.«Sono Tom, alias il papà di Will, e tu sei Ronnie, giusto?»
«Sì, sono io», rispose lei.
«Mi fa piacere poter finalmente conoscere la ragazza di cui ci ha parlato.»
Susan si schiarì la voce.«Will andrà a cena a casa di Ronnie stasera.»
Tom si voltò verso Ronnie.«Bene, quel ragazzo vive di pizza e hamburger.»
«Ronnie è vegetariana», aggiunse Susan. Ronnie non potè fare a meno di notare che
aveva pronunciato quella parola nello stesso modo in cui un'altra persona avrebbe
potuto dire che lei era una terrorista. O forse no. Non era tanto sicura. Rimpiangeva
sempre di più che Will non l'avesse avvertita di che cosa aspettarsi, così almeno si
sarebbe preparata. Ma Tom, come Will, non parve farci caso.
«Sul serio? Fantastico. Almeno mangerà qualcosa di sano per una volta.» Tacque per
un istante.«Mentre aspetti Will, vorrei mostrarti una cosa.»
«Sono sicura che il tuo aeroplano non le interessa, Tom», protestò Susan.
«Non so. Forse sì», ribatté lui. Si voltò verso Ronnie e le chiese:«Ti piacciono gli
aeroplani?»
Naturale, pensò, com'era possibile che la famiglia non possedesse anche un
aeroplano?«Sì», rispose.«Certo che mi piacciono.»
Ronnie si era fatta una vaga immagine mentale di un piccolo hangar in un angolo
della proprietà, ma si trattava di un'immagine confusa, dal momento che non aveva
mai visto dal vero degli aerei privati. In ogni caso, quello a cui assistette non era per
nulla simile a ciò che si aspettava: un uomo più vecchio di suo padre, tutto
concentrato sui comandi, che faceva volare un aeroplanino giocattolo.
Ronzando, l'aeroplano sfiorò la cima degli alberi, poi si abbassò sulle acque del
canale.
«Avevo sempre desiderato avere uno di questi giocattoli, e alla fine me lo sono
comprato. In realtà è il secondo. Il primo è finito nell'acqua.»
«Peccato», commentò Ronnie partecipe.
«Sì, ma ho imparato che la prossima volta farò meglio a leggere il libretto delle
istruzioni.»
«È stato un incidente?»
«No, era finito il carburante.» Lui la guardò.«Vuoi provare?»
«Meglio di no», si schermì Ronnie.«Non sono brava in queste cose.»
«Non è difficile», le assicurò Tom.«Questo è uno dei modelli per principianti.
Dovrebbe essere a prova di cretino. Naturalmente, anche quello precedente lo era, e
questo che cosa ti dice?»
«Che forse avrebbe dovuto leggere le istruzioni.»
«Esatto», rispose lui. Qualcosa nel suo modo di parlare le ricordava Will.
«Tu e Susan avete parlato del matrimonio?» domandò lui.
Ronnie fece di no con il capo.«Però Will mi ha accennato qualcosa.»
«Oggi ho dovuto passare due ore dal fioraio a guardare composizioni floreali. A te è
mai capitato di passare due ore a guardare composizioni floreali?»
«No.»
«Ritieniti fortunata.»
Ronnie rise, sollevata di trovarsi lì. In quel momento Will uscì di casa, fresco di
doccia, con una polo e un paio di bermuda.
«Ti prego di scusare mio padre. A volte si dimentica di essere un adulto», dichiarò.
«Almeno sono sincero. E tu non ti sei certo precipitato ad aiutarmi.»
«Avevo una partita di pallavolo.»
«Sì, come no. A proposito, devo dirtelo, Ronnie è molto più carina di quanto ci avessi
detto.»
Ronnie sorrise compiaciuta, ma Will trasalì.«Papà...»
«È vero», confermò Tom.«Non devi sentirti in imbarazzo.» Dopo essersi accertato
che l'aeroplano volasse senza intoppi, lanciò un'occhiata alla ragazza.«Si imbarazza
facilmente. Da piccolo era il bambino più timido del mondo. Non riusciva a stare
seduto vicino a una bambina senza diventare rosso.»
Will, intanto, scuoteva la testa sconcertato.«Non posso credere che stai dicendo
queste cose, papà. E proprio di fronte a lei.»
«Che problema c'è?» Tom guardò Ronnie.«La cosa ti mette a disagio?»
«Niente affatto.»
«Visto?» Batté con il dito sul petto di Will, per affermare il proprio punto di
vista.«Lei non se la prende.»
«Grazie tante.» Will fece una smorfia.
«A che cosa servono i padri, altrimenti? Ehi, vuoi fare un giro con quest'affare?»
«Non posso. Stiamo andando a casa di Ronnie per cenare con i suoi.»
«Stammi a sentire, voglio che tu mangi quello che hai nel piatto senza fare storie», lo
ammonì Tom.
«Probabilmente ci sarà della pasta», disse Ronnie sorridendo.
«Davvero?» Tom sembrava deluso.«Allora la mangerà.»
«Che cosa c'è? Non vuoi che mangi?»
«Ma no, certo che no. Com'è andata oggi al garage?»
«Era proprio quello di cui volevo parlarti. Jay ha detto che c'è un problema con il
computer o il software, vengono sempre stampate due copie di tutto.»
«Soltanto il foglio dell'intestazione o tutto quanto?»
«Questo non lo so.»
Tom sospirò. «Sarà meglio che vada a dare un'occhiata, allora. Ammesso che riesca a
fare atterrare questo aggeggio. Voi due divertitevi!»
Più tardi, sul furgone, Will fece tintinnare le chiavi prima di accendere il motore.
«Ti chiedo scusa. A volte mio padre è un po' invadente.»
«Non preoccuparti. È simpatico.»
«E comunque non sono sempre stato timido. E non sono mai arrossito tanto.»
«Certo, ti credo.»
«Dico sul serio. Ero solo un tipo tranquillo.»
«Ne sono sicura», disse lei, accarezzandogli un ginocchio. «Ora ascolta, però. È per
stasera. Nella mia famiglia c'è una bizzarra tradizione.»
«Menti!» esclamò Will. «Hai mentito tutta la sera e io sono stufo marcio.»
«Non provarci nemmeno!» esclamò Ronnie di rimando. «Sei tu quello che mente.»
La tavola era stata sparecchiata da tempo - Steve aveva preparato spaghetti con sugo
alla marinara, come previsto, e Will aveva svuotato il piatto - e ora erano seduti in
cucina tenendo delle carte da gioco appoggiate alla fronte in una partita di poker
bugiardo. Will aveva un otto di cuori, Steve un tre di cuori e Jonah un nove di picche.
Davanti a ciascuno c'era un mucchietto di monete e il piatto nel mezzo era strapieno
di nichelini e centesimi.
«State mentendo tutti e due», dichiarò Jonah.«Nessuno di voi sa come dire la verità.»
Will mostrò a Jonah la sua carta e posò la mano sul suo mucchio di
monete.«Scommetto un quarto di dollaro che non sai quello che dici.»
Steve scosse la testa.«Pessima mossa, giovanotto. È finita. Dovrò rilanciare di
cinquanta centesimi.»
«lo vedo!» esclamò Ronnie. Jonah e "Will la imitarono
prontamente.
Rimasero tutti in silenzio, guardandosi sospettosi, prima di buttare le carte sul tavolo.
Ronnie, constatato di avere avuto un otto, concluse che avevano tutti perso in favore
di Jonah. Di nuovo.
«Siete dei bugiardi!» disse. Ronnie vide che la vincita del fratello ammontava al
doppio di tutti gli altri, e mentre lo osservava avvicinare a sé il mucchietto di monete,
si disse che sino a quel punto la serata era andata piuttosto bene. Non aveva saputo
che cosa aspettarsi quando aveva portato Will a casa, dato che era la prima volta che
portava un ragazzo a conoscere suo padre. Lui avrebbe cercato di dare loro spazio
nascondendosi in cucina? Oppure si sarebbe sforzato di fare amicizia con Will?
Avrebbe fatto o detto qualcosa di imbarazzante per lei? Durante il tragitto verso casa,
aveva iniziato ad architettare un piano di fuga da mettere in atto non appena terminata
la cena.
Però, appena varcata la soglia, aveva avuto una bella sensazione. Tanto per
cominciare, la casa era in ordine, Jonah evidentemente era stato dissuaso dal saltare
addosso a Will o tormentarlo con domande come un giudice, e il padre lo aveva
accolto con una semplice stretta di mano e un disinvolto«piacere di conoscerti». Will
aveva dato il meglio di sé, rispondendo alle domande con«sissignore» e «no signore»,
cosa che l'aveva colpita enormemente. La conversazione durante la cena era stata
tranquilla: il padre aveva fatto qualche domanda sul lavoro di Will al garage e
all'acquario, e Jonah si era spinto al punto di mettersi il tovagliolo sulle ginocchia.
Soprattutto, suo padre non aveva detto nulla di imbarazzante, e sebbene avesse
accennato al fatto di avere insegnato alla Juilliard, non aveva detto di averle
insegnato a suonare né che una volta lei si era esibita alla Carnegie Hall, né che
avevano scritto delle canzoni insieme. Non aveva neppure tirato fuori il fatto che fino
a pochi giorni prima lui e Ronnie erano due perfetti estranei. Quando Jonah aveva
chiesto dei biscotti a fine pasto, Ronnie e il padre erano scoppiati a ridere, spingendo
Will a chiedersi che cosa ci fosse di tanto divertente. Poi, tutti e quattro insieme
avevano sparecchiato, e quando Jonah aveva proposto di giocare a poker bugiardo,
Will aveva accettato con entusiasmo.
Per quanto riguardava Will, era esattamente il tipo di ragazzo che sua madre avrebbe
desiderato per lei: educato, rispettoso, intelligente e, soprattutto, senza tatuaggi...
Sarebbe stato bello se la mamma fosse stata lì, se non altro per convincerla che sua
figlia non era del tutto irrecuperabile. D'altro canto con ogni probabilità sarebbe stata
così esaltata da tutta la faccenda che avrebbe cercato di adottare Will, oppure ripetuto
a Ronnie per un milione di volte, dopo che lui fosse andato via, che era proprio un
bravo ragazzo, e questo le avrebbe fatto desiderare di troncare la cosa prima che sua
madre si lasciasse coinvolgere troppo. Il padre non fece nessuna di queste cose,
sembrava fidarsi del giudizio di Ronnie ed era contento di lasciarla decidere senza
influenzarla.
E questo era davvero strano, dal momento che si era appena riavvicinato a lei, e nello
stesso tempo anche un po' triste, perché lei cominciava a pensare di avere commesso
un grandissimo errore evitandolo negli ultimi tre anni. Sarebbe stato bello poter
parlare con lui quando la mamma la faceva arrabbiare.
Tutto sommato era contenta di avere invitato Will. Di certo per lui conoscere il padre
era stato più facile che per Ronnie incontrare Susan. Quella donna la terrorizzava.
Be', forse era esagerata, ma di certo si sentiva intimidita da lei. Susan le aveva fatto
capire in maniera più che evidente di non provare simpatia per lei né per il fatto che il
figlio fosse attratto da lei.
In genere non le sarebbe importato dell'opinione che il genitore di qualcuno aveva di
lei, e non si sarebbe fatta il minimo problema per il proprio abbigliamento.
Dopotutto, era fatta così. Questa era la prima volta in cui non si era sentita all'altezza
e la cosa l'aveva turbata più di quanto avrebbe immaginato.
Mentre scendeva la sera e il gioco si avviava alla fine, avvertì lo sguardo di Will su di
sé e lo ricambiò con un
sorriso.
«Sono quasi a secco», annunciò lui indicando il suo
gruzzolo.
«Lo so. Anch'io.»
Lui si girò verso la finestra.«Ti andrebbe di fare una
passeggiata?»
Stavolta ebbe la certezza che glielo chiedeva perché voleva passare del tempo da solo
con lei, perché stava bene con lei, anche se non era sicuro di essere ricambiato.
Lo guardò dritto negli occhi.«Mi piacerebbe molto.»
20. Will
La spiaggia si estendeva per chilometri e chilometri, separata da Wilmington dal
ponte sull'Intracoastal Waterway. Naturalmente era cambiata da quando Will era
bambino. D'estate era più affollata, i piccoli bungalow come quello dove abitava
Ronnie erano stati sostituiti da ville imponenti, ma lui continuava ad amare l'oceano
di notte. Da ragazzino gli piaceva andare in bicicletta sulla spiaggia, nella speranza di
vedere qualcosa di interessante, e non restava quasi mai deluso. Aveva visto grandi
squali spiaggiati, castelli di sabbia così arzigogolati da poter vincere una gara
nazionale, e una volta aveva scorto una balena, a meno di cinquanta metri dalla riva,
che nuotava sul pelo dell'acqua.
Quella notte la spiaggia era deserta e mentre lui e Ronnie camminavano a piedi nudi
sulla battigia, fu colpito dal pensiero che lei era la ragazza con cui avrebbe voluto
fare progetti per il futuro.
Sapeva di essere ancora troppo giovane per simili pensieri, e non si faceva illusioni di
poter pensare al matrimonio, ma per qualche motivo aveva la sensazione che se
avesse incontrato Ronnie dieci anni dopo, lei avrebbe potuto essere quella giusta.
Sapeva che Scott non era in grado di afferrare un concetto del genere - l'amico non
sembrava in grado di proiettarsi nel futuro oltre il weekend successivo - ma del resto
era molto simile alla maggior parte dei suoi coetanei. Era come se la loro mente
viaggiasse su binari separati: lui non era interessato alle storie fugaci, non gli
importava vedere quante conquiste poteva collezionare, non gli andava di mostrarsi
affascinante solo per ottenere quello che voleva e poi abbandonare la conquista per
inseguirne una più attraente. Non era affatto così. Non sarebbe mai stato così. Quando
conosceva una ragazza, la prima domanda che faceva a se stesso non era se valesse la
pena uscirci qualche volta; era se lei fosse il genere di ragazza che poteva
immaginare di frequentare per un lungo periodo.
Probabilmente dipendeva molto dai suoi genitori. Erano sposati da trent'anni,
avevano cominciato tra mille difficoltà, come tante altre coppie, e nel corso degli anni
avevano avviato l'attività e cresciuto una famiglia. Per tutto il tempo si erano amati,
festeggiando insieme i successi e dandosi sostegno per affrontare le tragedie. Nessuno
di loro era perfetto, ma lui era cresciuto con la certezza che fossero una squadra, e
aveva interiorizzato il loro esempio.
Era facile pensare che avesse passato due anni con Ashley perché lei era bella e ricca,
e pur ammettendo che la bellezza aveva avuto il suo peso, sapeva che era meno
importante di ciò che lui pensava di vedere in lei. Ma con il passare del tempo si era
sentito sempre più deluso da lei, soprattutto quando aveva ammesso tra le lacrime di
averlo tradito con un ragazzo del college durante una festa. Da quel momento le cose
non erano più state le stesse. Non perché lui temesse che lei potesse ripetere una cosa
del genere - tutti commettevano degli errori, e comunque si era trattato solo di un
bacio - ma per qualche motivo quell'incidente lo aveva aiutato a fare chiarezza su ciò
che voleva dalle persone che gli erano care. Cominciò a notare il modo in cui lei
trattava gli altri, e non era sicuro che gli piacesse. La sua mania di fare pettegolezzi che nei primi tempi aveva ritenuto innocua - iniziava a irritarlo, come le lunghe attese
cui lo sottoponeva mentre si preparava per uscire la sera. Si era sentito in colpa
quando alla fine l'aveva lasciata, ma si era consolato dicendosi che si era messo con
lei quando aveva soltanto quindici anni e lei era stata la sua prima ragazza. Gli era
sembrato di non avere altra scelta. Ritenne più saggio mettere fine alla relazione
prima che le cose peggiorassero.
Sua sorella Megan in questo era simile a lui. Bella e intelligente, aveva intimidito la
maggior parte dei ragazzi con cui usciva. Per lungo tempo era passata dall'uno
all'altro, ma non per vanità o capriccio. Quando lui le aveva chiesto come mai non
riuscisse a trovare un rapporto stabile, lei gli aveva risposto senza esitazioni:«Ci sono
ragazzi che crescono convinti che in un lontano futuro si sistemeranno, e quelli che
sono pronti a sposarsi non appena incontrano la persona giusta. I primi mi annoiano,
soprattutto perché sono patetici; e i secondi, francamente, sono difficili da trovare.
Ma a me interessano quelli seri, e ci vuole del tempo per trovare un ragazzo del
genere che mi interessi. In fondo, se una relazione non può sopravvivere al tempo,
che senso ha sprecarvi tempo ed energie a breve?»
Megan. Sorrise pensando a lei. Viveva in base alle sue regole. Questo atteggiamento
aveva fatto impazzire la mamma negli ultimi sei anni, dal momento che lei aveva
eliminato rapidamente la gran parte dei ragazzi che appartenevano al genere di
famiglia che godeva dell'approvazione materna. Ma lui doveva ammettere che Megan
aveva fatto la scelta giusta ed era riuscita a conoscere un ragazzo di New York che
aveva tutte le caratteristiche da lei richieste.
Stranamente Ronnie gli ricordava Megan. Era una fuoriclasse, una libera pensatrice,
tenace e indipendente. In apparenza non aveva nulla che potesse attrarlo, ma... il suo
papà era fantastico, il fratello un portento e lei era intelligente e generosa più di
chiunque altra avesse mai conosciuto. Chi si sarebbe spinto a dormire all'addiaccio
per proteggere un nido di tartarughe? O avrebbe fermato una rissa per aiutare un
bambino? E leggeva Tolstoj nel tempo libero?
E chi altri, quantomeno in quella città, si sarebbe sentita attratta da Will prima di
conoscere la sua famiglia?
Doveva ammettere che per lui era importante, sebbene avesse preferito il contrario.
Voleva bene al padre ed era fiero dell'attività creata da lui. Apprezzava i privilegi che
la vita gli concedeva, ma desiderava anche essere indipendente. Voleva che le persone
per prima cosa lo conoscessero come Will, non Will Blakelee, e di questo non poteva
parlare con nessuno al mondo tranne sua sorella. In un posto come quello non era
facile; tutti conoscevano tutti, e crescendo, lui era diventato un po' più cauto nelle
amicizie. Era pronto a parlare con chiunque, ma aveva imparato a erigere un muro
invisibile finché non aveva la certezza che la sua famiglia non c'entrasse niente con
una nuova conoscenza né fosse il motivo dell'interesse mostrato da una ragazza. E se
non fosse stato certo che Ronnie non sapeva niente della sua famiglia, se ne sarebbe
convinto quando si era fermato davanti a casa sua.
«A che cosa stai pensando?» gli aveva chiesto lei. Una lieve brezza le scompigliava i
capelli che cercava invano di riunire in una coda.«Sei stato molto taciturno.»
«Stavo pensando che sono stato molto bene qui da te.»
«Nella nostra modesta casetta? Certo è molto diversa da ciò a cui sei abituato.»
«Casa tua è fantastica», insistette lui.«Come tuo padre e Jonah, anche se mi ha battuto
a poker bugiardo.»
«Vince sempre lui, ma non chiedermi perché. Voglio dire, fin da piccolo. Credo che
bari, ma non ho ancora capito come fa.»
.
«Forse dovresti imparare a mentire meglio.»
«Per esempio come hai fatto tu dicendomi che lavori per tuo padre?»
«Io lavoro per mio padre», confermò Will.
«Sai benissimo che cosa intendo.»
«Come ti ho detto, non lo ritenevo importante.» Si fermò e si voltò a guardarla.«Forse
lo è?»
Lei scelse con cura le parole.«È interessante e serve a spiegare qualche cosa di te, ma
se io ti dicessi che mia mamma lavora in uno studio legale a Wall Street, la tua
opinione su di me cambierebbe?»
Lui sapeva di poter rispondere con assoluta certezza a questa domanda.«No. Però è
diverso.»
«Perché?» chiese lei.«Perché la tua famiglia è ricca? Un'affermazione del genere ha
senso soltanto per qualcuno che ritiene i soldi la cosa più importante.»
«Non volevo dire questo.»
«Allora che cosa?» chiese Ronnie in tono di sfida.«Senti, mettiamo subito in chiaro
una cosa. Non m'interessa se tuo padre è il sultano del Brunei. Ti è capitato di nascere
in una famiglia privilegiata. Ciò che vuoi fare di questa verità, è affar tuo. Io sono qui
perché voglio stare con te. Ma se non mi andasse, neppure tutti i soldi del mondo
avrebbero cambiato i miei sentimenti per te.»
Mentre parlava, lui la vide animarsi sempre di più.«Perché ho l'impressione che tu
abbia già fatto questo discorso in passato?»
«Perché è vero. Se vieni a New York capirai perché ho imparato a dire quello che
penso. In certi club incontri solo snob che sono così pieni della loro famiglia o di
quello che fa la loro famiglia da essere... noiosi. Me ne sto lì e tutto quello che vorrei
dire è: è magnifico che altri nella tua famiglia abbiano fatto qualcosa, ma tu che cosa
hai fatto? Di solito non lo dico, perché tanto non capirebbero. Credono di essere gli
eletti. Non vale la pena neppure arrabbiarsi con loro, perché è un'idea del tutto
ridicola. Ma se pensi che io ti abbia invitato per via della tua famiglia...»
«Non lo penso», la interruppe lui.«Non l'ho pensato neppure per un istante.»
Nel buio, lui si rese conto che lei stava valutando se le stesse dicendo la verità o
piuttosto ciò che voleva sentirsi dire. Sperando di dare un taglio alla discussione, si
voltò e indicò una costruzione alle loro spalle.
«Che cos'è quello?» domandò.
Lei non rispose subito, chiaramente occupata a decidere se credergli o meno.
«Fa parte della casa», disse alla fine.«Mio padre e Jonah ci stanno realizzando una
vetrata per la chiesa.»
«Tuo papà fa vetrate?»
«Ora sì.»
«È sempre stato il suo lavoro?»
«No», rispose lei.«Come ti ha spiegato a cena, un tempo era insegnante di
pianoforte.» Poi cambiò argomento.«Che cosa hai in mente di fare dopo l'estate?
Continuerai a lavorare per tuo padre?»
Lui deglutì, reprimendo l'impulso di baciarla di nuovo.«Soltanto sino alla fine di
agosto. Poi in autunno andrò alla Vanderbilt.»
Da una delle case più in là lungo la spiaggia proveniva un flebile suono di musica;
guardando da quella parte, Will vide un gruppo di persone sulla veranda. Riconobbe
vagamente un motivo degli anni Ottanta che però non fu in grado di identificare.
«Dovrebbe essere divertente.»
«
«Già.»
«Non mi sembri troppo entusiasta.»
Will la prese per mano e ricominciarono a passeggiare.«È una famosa università e il
campus è bellissimo», recitò un po' impacciato.
Lei lo scrutò.«Però non ci vuoi andare.»
Ronnie sembrava possedere l'abilità di leggere ogni sua sensazione e ogni suo
pensiero, e questo da una parte gli risultava sconcertante e dall'altra era fonte di
sollievo. Se non altro a lei poteva dire la verità.
«Volevo andare altrove, ed ero stato accettato in un'università che ha un incredibile
programma di scienze ambientali, ma la mamma voleva a tutti i costi che frequentassi
la Vanderbilt.» Sentiva la sabbia scorrergli tra le dita dei piedi mentre camminava.
«Tu fai sempre quello che dice tua madre?»
«Tu non puoi capire», replicò lui.«È una tradizione di famiglia. Ci sono andati i miei
nonni, i miei genitori, mia sorella. La mamma fa parte del consiglio
d'amministrazione e... lei...»
S'interruppe, cercando le parole giuste. Sentiva lo sguardo di Ronnie su di sé, ma non
riusciva a guardarla.
«So che può dare l'impressione di... superiorità la prima volta che le persone la
incontrano. Ma quando la conosci meglio, è la persona più leale del mondo. Farebbe
qualunque cosa, intendo proprio tutto, per me. Ma gli ultimi anni sono stati davvero
difficili per lei.»
Si chinò a raccogliere una conchiglia. Dopo averla guardata, la lanciò tra le
onde.«Ricordi quando mi hai chiesto del braccialetto?»
Ronnie annuì, aspettando che lui proseguisse.
«Io e mia sorella lo portiamo in ricordo del nostro fratellino. Si chiamava Mike ed era
un bambino fantastico. Aveva una risata contagiosa e non riuscivi a non ridere quando
eri con lui.» Si fermò e guardò verso l'oceano.«Quattro anni fa, io e Scott avevamo
una partita di basket e doveva accompagnarci la mamma così, come sempre, Mike
venne con noi. Aveva piovuto tutto il giorno e le strade erano scivolose. Avrei dovuto
comportarmi meglio, ma io e Scott cominciammo a giocare a pietà sul sedile
posteriore. Conosci il gioco? Cerchi di piegare il polso dell'altro dalla parte sbagliata,
finché uno dei due non chiede pietà.»
Esitò, come se volesse raccogliere le forze per proseguire il racconto.
«Ce la mettevamo tutta, ci agitavamo e scherzavamo come pazzi, e la mamma
continuava a ripeterci di smetterla, ma noi non la stavamo a sentire. Alla fine riuscii
ad avere la meglio su Scott e gli piegai il braccio con tutta la forza che avevo fino a
farlo urlare. La mamma si voltò per vedere che cosa fosse successo, e allora accadde.
Perse il controllo dell'auto. E...» Deglutì, soffocato dall'emozione.«Insomma, Mike
non ce la fece. Accidenti, se non ci fosse stato Scott, probabilmente non ce l'avremmo
fatta nemmeno la mamma e io. Sfondammo il guardrail e finimmo nell'acqua. Il fatto
è che Scott è un nuotatore bravissimo, cresciuto sulla spiaggia, e riuscì a tirarci fuori
tutti e tre, anche se all'epoca aveva soltanto dodici anni. Mikey però...» Will tirò su
con il naso.«Mikey morì nell'impatto. Non aveva neppure terminato il primo anno di
scuola materna.»
Ronnie gli strinse la mano.«Mi dispiace tanto.»«Anche a me.» Sbatté le palpebre per
ricacciare le lacrime che gli salivano agli occhi tutte le volte che pensava a quel
giorno.
«Sai che si trattò di un incidente, vero?»«Sì, lo so. E anche la mamma. Però si ritiene
lo stesso responsabile di avere perso il controllo dell'auto, e io so che una parte di lei
ritiene responsabile anche me.» Sospirò.«In ogni caso, dopo la tragedia, ha sempre
sentito il bisogno di avere il controllo di tutto. Me compreso. So che sta solo cercando
di proteggermi, d'impedire che mi accadano cose brutte, e penso che una parte di me
ne sia convinta. Insomma, pensa a quello che è successo. La mamma era fuori di sé al
funerale, e io mi sono odiato per averle fatto questo. Mi sentivo colpevole. E mi sono
ripromesso che avrei cercato di rimediare in qualche modo. Pur sapendo che non
sarebbe stato possibile.»
Mentre parlava, cominciò a rigirare il braccialetto.«Che cosa significano quelle
lettere? PSNMP?»
«Per sempre nei miei pensieri.» Fu un'idea di mia sorella, un modo per ricordarlo. Me
ne parlò subito dopo il funerale, ma io l'ascoltai a stento. Era stato terribile ritrovarsi
in chiesa quel giorno. Con la mamma che singhiozzava e il mio fratellino nella bara, e
papà e mia sorella che piangevano... Giurai che non sarei più andato a nessun altro
funerale.»
Per una volta Ronnie rimase senza parole. Will si raddrizzò, sapendo che era una
verità difficile da digerire e chiedendosi perché gliel'avesse raccontata.«Ti chiedo
scusa. Non avrei dovuto dirti niente.»
«No», si affrettò a dire lei stringendogli la mano.«Sono contenta che tu l'abbia fatto.»
«Forse non è la vita perfetta che immaginavi.»
«Non ho mai pensato che la tua vita fosse perfetta.»
Lui rimase in silenzio e istintivamente Ronnie lo baciò su una guancia.«Vorrei che
non avessi dovuto vivere un'esperienza del genere.»
Lui fece un lungo respiro e ricominciò a camminare sulla spiaggia.«Comunque per la
mamma è importante che io vada alla Vanderbilt. Così è quello che farò.»
«Sono sicura che ti troverai benissimo. Ho sentito dire che è un'ottima scuola.»
Lui intrecciò le dita a quelle di lei, trovandole morbidissime e calde.«Ora tocca a te.
Che cosa c'è che non so di te?»
«Niente di paragonabile a quanto mi hai appena raccontato», disse lei.«Neanche
lontanamente.»
«Non deve essere per forza qualcosa d'importante. Basta che spieghi un po' chi sei.»
Lei si girò a guardare verso la casa. «Ecco... non ho parlato con mio padre per tre
anni. A dire la verità, ho ricominciato a parlargli solo da un paio di giorni. Dopo che
lui e la mamma si separarono, io ero... arrabbiata con lui. Avrei voluto non vederlo
mai più, e l'ultima cosa che desideravo era passare l'estate quaggiù.»
«E adesso?» Lui vide la luce della luna riflettersi nei suoi occhi. «Sei contenta di
essere venuta?»
«Può darsi», rispose lei.
Lui rise e le diede una spinta per gioco. «Che tipo eri da bambina?»
«Noiosa», rispose lei. «Non facevo altro che suonare il pianoforte.»
«Mi piacerebbe sentirti suonare.»
«Non suono più», ribatté lei, con una nota ostinata nella voce.
«Mai?»
Fece segno di no con la testa e lui intuì che c'era dell'altro, anche se era chiaro che
non voleva parlarne. L'ascoltò invece che descriveva gli amici di New York e i suoi
passatempi del fine settimana, ridendo degli aneddoti su Jonah. Gli risultava così
naturale stare con lei, così facile e spontaneo. Le raccontò cose di cui non aveva
parlato neppure con Ashley. Forse desiderava farle sapere chi era veramente, e per
qualche motivo confidava che lei avrebbe saputo come reagire.
Era diversa da chiunque avesse incontrato prima. Non avrebbe mai più voluto
lasciarle la mano; loro due sembravano fatti per stare insieme, si completavano alla
perfezione.
A parte gli invitati alla festa nella casa lì vicino, erano soli. Le note della musica
giungevano alle loro orecchie smorzate e lontane, e alzando gli occhi, lui colse la scia
di una stella cadente. Quando si voltò verso Ronnie, capì che l'aveva vista anche lei.
«Quale desiderio hai espresso?» mormorò lei sottovoce. Ma lui non riuscì a
rispondere. Le alzò la mano e fece scivolare l'altro braccio intorno alla sua schiena.
La guardò, con la certezza assoluta di essersi innamorato. La strinse a sé e la baciò
sotto il manto di stelle, chiedendosi come fosse mai stato possibile avere avuto la
fortuna di trovarla.
21.Ronnie
D'accordo, lo ammetteva, si sarebbe potuta abituare a vivere così: sdraiata sul
trampolino della piscina, un bicchiere di tè freddo accanto a lei, un vassoio di frutta
sotto la tettoia, servito dallo chef insieme con vera argenteria e una fantasiosa
decorazione di menta.
Tuttavia continuava a non immaginare come fosse stato per Will crescere in un
mondo del genere. Ma del resto, non avendo conosciuto mai niente di diverso,
probabilmente lui non ci faceva caso. Mentre si abbronzava sul trampolino, lo
guardava in piedi sopra la tettoia che si preparava a saltare. Ci si era arrampicato
come un acrobata, e anche da lontano lei vedeva il suo corpo muscoloso.
«Ehi», le gridò lui.«Guarda la mia capriola.»
«Una capriola? Tutto qui? Ti sei arrampicato fin lassù per fare una capriola soltanto?»
«Che cosa c'è di male in una capriola?» ribatté lui.
«Sto solo dicendo che chiunque saprebbe farla», lo provocò lei.«Perfino io.»
«Mi piacerebbe proprio vederti.» Lui sembrava scettico.
«Non ho voglia di bagnarmi.»
«Ma ti ho invitato qui per fare il bagno!»
«Le ragazze come me lo fanno così. Un bagno di sole.»
Lui rise.«In effetti penso che sia una buona idea, dato che non credo ci sia tanto sole a
New York, giusto?»
«Stai forse dicendo che sono pallida?»
«No, certo che no», rispose lui scuotendo la testa.«Non userei quella parola. Credo
che 'mozzarella' sia una definizione più appropriata.»
«Accidenti, che seduttore. Mi viene da chiedermi che cosa abbia visto in te un
tempo.»
«Un tempo?»
«Già, e devo dire che se continui a usare parole come mozzarella per descrivermi,
dubito che ci sia un futuro per noi.»
Lui la scrutò con aria assorta.«E se facessi due capriole? Mi perdoneresti?»
«Soltanto se le concludessi con un perfetto tuffo di testa. Ma se tutto quello che riesci
a fare sono due capriole e un'entrata goffa in acqua, fingerò di restare stupefatta, a
patto che non mi schizzi.»
Lui fece due passi indietro, quindi si diede lo slancio, balzò in aria. Si rannicchiò su
se stesso, fece due giri ed entrò in acqua con le braccia, il corpo dritto, senza alzare
neppure uno spruzzo.
Un numero davvero impressionante, pensò lei, anche se non completamente
inaspettato, vista la grazia con cui si muoveva sul campo di gioco. Quando riaffiorò
vicino all'estremità del trampolino, lei capì che era soddisfatto del risultato.
«Andava bene», disse lei.
«Soltanto bene?»
«Ti darei un quattro virgola sei.»
«Su una scala da uno a cinque?»
«No, da uno a dieci», lo corresse lei.
«Era almeno un otto!»
«È naturale che tu lo pensi. Per questo sono io il giudice.»
«Come faccio a ricorrere in appello?» chiese lui, sollevandosi con le braccia strette
intorno al trampolino.
«Non puoi. È definitivo.»
«E se non fossi contento?»
«Allora forse la prossima volta ci penseresti meglio prima di chiamarmi mozzarella.»
Lui rise e cominciò a tirarsi su. Ronnie si aggrappò al trampolino.
«Ehi... smettila... non farlo...» lo ammonì.
«Intendi... questo?» chiese lui, facendo inclinare ancora di più la tavola.
«Ho detto che non voglio bagnarmi!» strillò lei.
«E io voglio che tu venga a nuotare con me!» Senza preavviso, lui le afferrò un
braccio e tirò. Lanciando un grido lei finì in acqua. Non appena riemerse ansimando,
lui cercò di baciarla, ma lei si allontanò.
«No!» esclamò ridendo, gustando la piacevole sensazione dell'acqua fredda e della
pelle di lui contro la propria.«Non ti perdono!»
Mentre giocavano tra gli spruzzi, Ronnie notò che Susan li guardava dalla veranda. A
giudicare dalla sua espressione, non era affatto felice.
Più tardi, quel pomeriggio, mentre erano diretti verso la spiaggia per controllare
un'altra volta il nido di tartarughe, si fermarono a comperare un gelato.
Ronnie.camminava accanto a Will, leccando il cono che si squagliava, pensando che
era incredibile che si fossero baciati per la prima volta soltanto il giorno prima. Se la
serata appena trascorsa era stata quasi perfetta, quella giornata era stata persino
meglio. Le piaceva la disinvoltura con cui passavano dalle cose serie alle battute
spiritose e poi si sentiva davvero a suo agio con lui.
Poiché lui l'aveva spinta in piscina, doveva vendicarsi, approfittando del primo
momento buono. Non appena lo vide portarsi il cono alle labbra, glielo spinse con
decisione, spiaccicandogli il gelato sulla faccia. Ridendo, si allontanò di corsa e
svoltato l'angolo... finì direttamente tra le braccia di Marcus.
Con lui c'erano Blaze e gli immancabili Teddy e Lance.
«Ma che bella sorpresa», disse Marcus stringendola a sé.
«Lasciami andare!» esclamò lei con una nota di panico nella voce.
«Lasciala», ripetè Will alle sue spalle. La sua voce era decisa. Serissima.«Subito!»
Marcus sembrava quasi divertito.«Dovresti guardare meglio dove cammini, Ronnie.»
«Subito!» ordinò Will furioso, piazzandosi di fronte a lui.
«Datti una calmata, Mr. Dollaro. È stata lei a venirmi addosso, io l'ho solo sorretta
per evitare che cadesse. A proposito, come sta Scott? Ultimamente ha giocato di
nuovo con qualche bottiglia incendiaria?»
Con grande sorpresa di Ronnie, Will rimase paralizzato. Facendo una smorfia,
Marcus tornò a guardarla. Le strinse con forza le braccia, poi la lasciò. Mentre
Ronnie faceva un passo indietro, Blaze accese una pallina di fuoco, l'espressione
indifferente.
«Sono contento di averti evitato una caduta», disse Marcus.«Che figura avresti fatto
piena di lividi quando ti presenterai in tribunale... martedì, giusto? Non vorrai che il
giudice ti ritenga una persona violenta, oltre che una ladra.»
Ronnie lo guardò allibita finché Marcus si allontanò. Mentre camminavano, Blaze gli
lanciò la palla di fuoco, che lui afferrò con disinvoltura e le rilanciò.
Seduti sulla duna fuori casa, Will ascoltò in silenzio mentre lei gli raccontava tutti gli
avvenimenti accaduti dal suo arrivo, compreso l'incidente al negozio di musica.
Quando finì di parlare, rimase a torcersi le mani in grembo.
«Questo è tutto. Per quanto riguarda i furti a New York, non so dire perché avessi
preso quella roba. Non mi serviva. Era solo qualcosa che facevo perché i miei amici
la facevano. Quando andai in tribunale, ammisi tutto quanto, perché sapevo di avere
sbagliato e che non l'avrei fatto mai più. E infatti così è stato, né là né qui. Ma se le
accuse non verranno ritirate e, se Blaze non ammetterà la propria responsabilità,
finirò nei guai non soltanto qui, ma anche a casa. So che sembra pazzesco e sono
sicura che tu non mi creda, ma giuro che sto dicendo la verità.»
Lui posò le mani sopra le sue.«Ti credo», dichiarò.«E puoi stare tranquilla, non c'è
niente che mi sorprenda quando c'è di mezzo Marcus. È stato così fin da bambino.
Era in classe con mia sorella e lei mi ha raccontato che una volta la maestra trovò un
topo morto nel suo cassetto. Tutti sapevano chi era stato, persino il preside, ma non
potevano dimostrare niente. Lui continua a fare i suoi soliti giochetti, ma ora ha
anche Teddy e Lance a spalleggiarlo. Ho saputo alcune storie agghiaccianti su di lui.
Ma Galadriel... un tempo era una ragazza davvero simpatica. La conosco fin da
piccola, e non so che cosa le sia successo ultimamente. So che i suoi genitori hanno
divorziato, e ho sentito dire che lei l'ha presa davvero male. Non so che cosa ci trovi
in Marcus, però, né perché sia così intenzionata a rovinarsi la vita. Un tempo provavo
compassione per lei, ma quello che ti ha fatto è decisamente sbagliato.»
Ronnie fu assalita da un'improvvisa stanchezza.«Devo presentarmi in tribunale la
settimana prossima.»
«Vuoi che ti accompagni?»
«No. Non voglio che tu mi veda di fronte al giudice.»
«Non ha importanza...»
«Ne avrà, se tua madre lo scopre. Sono sicura di non piacerle.»
«Perché dici così?»
Perché ho visto come mi guardava quando eravamo in piscina, avrebbe potuto
rispondere.«È una sensazione.»
«Tutti la pensano così la prima volta che l'incontrano», le assicurò lui.«Come ho
detto, quando la conoscerai meglio cambierai opinione.»
Ronnie non ne era troppo sicura. Il sole stava tramontando alle loro spalle, tingendo il
cielo di arancio.«Che cosa è successo tra Scott e Marcus?» domandò lei.
Will si irrigidì.«Che cosa intendi dire?»
«Ti ricordi la sera della sagra? Dopo il suo spettacolo, Marcus pareva su di giri per
qualcosa, così ho cercato di stargli alla larga. Sembrava scrutare la folla, e quando
riconobbe Scott, assunse un'espressione... strana, come se avesse trovato quello che
gli serviva. E poi appallottolò il cartoccio di patatine e glielo tirò.»
«C'ero anch'io lì, ricordi?»
«Ma ricordi che cosa disse allora? Qualcosa di strano. Chiese a Scott se gli avrebbe
lanciato addosso una bottiglia incendiaria. E quando ha ripetuto più o meno la.stessa
cosa poco fa, tu sei sbiancato.»
Will distolse lo sguardo. «Niente di importante», insistette stringendole le mani. «E
comunque non avrei permesso che ti accadesse niente.» Si sdraiò, appoggiandosi sui
gomiti. «Posso farti una domanda, cambiando completamente argomento?»
Ronnie non fu soddisfatta dalla sua risposta, ma decise di lasciar perdere.
«Perché c'è un pianoforte dietro una parete di compensato a casa tua?» Lei lo guardò
meravigliata e lui alzò le spalle. «Si vede dalla finestra, e il compensato non è proprio
uguale al resto della stanza.»
Ora toccò a Ronnie distogliere lo sguardo. Liberò le mani dalle sue e le affondò nella
sabbia. «Avevo detto a papà che non volevo più vedere il pianoforte, allora lui ha
costruito quella parete.»
«Odi così tanto il pianoforte?»
«Sì», rispose lei gelida.
«Perché tuo padre è stato il tuo insegnante?» Lei lo guardò sorpresa, e Will proseguì.
«Se insegnava alla Juilliard, era logico che fosse anche il tuo insegnante. E sono
pronto a scommettere che tu eri molto brava, se non altro perché devi amare qualcosa
prima di poterlo odiare.»
Per essere un meccanico unto barra giocatore di pallavolo, era piuttosto perspicace.
Ronnie affondò le dita nella sabbia dove era più fresca e compatta.
«Mi ha insegnato a suonare quando ero piccolissima. Suonavo per ore, sette giorni
alla settimana, per anni. Abbiamo persino composto della musica insieme. Eraqualcosa che condividevamo. Qualcosa tra noi due e basta, e quando se ne andò di
casa... per me fu come se non avesse tradito soltanto la famiglia. Mi sentivo tradita
personalmente, ed ero così arrabbiata che giurai che non avrei più suonato né scritto
altra musica. Così, quando sono arrivata qui e ho visto il piano e lo sentivo suonare
tutte le volte che ero in casa, non ho potuto fare a meno di credere che cercasse di far
finta che ciò che aveva fatto fosse irrilevante. Quasi pensasse che potessimo
ricominciare daccapo. Ma non è possibile. Non si può cambiare il passato.»
«Ieri sera mi sei sembrata in buoni rapporti con lui», osservò Will.
Ronnie sfilò le mani dalla sabbia. «Sì, negli ultimi giorni andiamo più d'accordo. Ma
questo non significa che io voglia ricominciare a suonare», dichiarò testarda.
«La cosa non mi riguarda, ma se eri davvero così brava, allora stai facendo soltanto
del male a te stessa. È un dono, capisci? E chissà, magari potresti entrare anche tu alla
Juilliard.»
«So che potrei farlo. Continuano a scrivermi. Mi hanno promesso che mi daranno un
posto se cambio idea.» Provò un impeto di irritazione.
«Allora perché non ci vai?»
«Ti importa davvero così tanto?» Lei lo fissò intensamente. «Che io non sia solo
quella che credevi? Che abbia un talento speciale? Questo mi rende abbastanza
preziosa per te?»
«Niente affatto», rispose lui dolcemente. «Sei sempre la persona che pensavo tu fossi.
Dal primo momento che ci siamo incontrati. E non è possibile che tu possa diventare
migliore per me.»
Non appena lui ebbe pronunciato queste parole, lei si pentì del proprio sfogo. Colse la
sincerità della sua voce e capì che diceva sul serio.
Si disse che si conoscevano solo da pochi giorni, eppure... lui era gentile e brillante e
lei sapeva di amarlo già. Come se le avesse letto nel pensiero, lui si mise a sedere e si
sporse verso di lei, cercando le sue labbra. Cominciò a baciarla teneramente e lei
all'improvviso ebbe la certezza di non desiderare altro che trascorrere ore e ore
abbracciata a lui, così.
22. Marcus
Marcus li osservava da lontano. Allora ecco come stanno le cose, eh?
Al diavolo. Al diavolo lei. Era ora di divertirsi.
Teddy e Lance avevano preso da bere e la gente stava cominciando ad arrivare. Poche
ore prima aveva visto una famiglia di villeggianti che caricava uno scassato
monovolume lasciando una delle case poco distanti dalla catapecchia di Ronnie.
Ormai sapeva per esperienza che fino all'indomani, dopo le pulizie, non sarebbe
arrivato nessun altro inquilino, e ciò stava a significare che gli bastava entrare e
avrebbe avuto la casa a disposizione per tutta la notte.
Niente di impossibile, dal momento che aveva la chiave e il codice di sicurezza. I
villeggianti non chiudevano mai quando andavano in spiaggia. E perché avrebbero
dovuto farlo? In genere portavano con sé soltanto da mangiare e magari qualche
videogame, visto che la maggior parte soggiornava per una settimana soltanto. E gli
affittuari - stanchi di ricevere telefonate dalla società di sorveglianza quando quegli
idioti degli inquilini facevano partire l'allarme nel cuore della notte - erano stati tanto
gentili da scrivere il codice proprio sopra il pannello di controllo in cucina. Molto
furbo. Davvero furbo. Con un po' di pazienza era sempre stato in grado di trovare una
casa disponibile per dare una festa; il segreto era di non abusare delle opportunità.
Teddy e Lance volevano sempre far baldoria in posti come quelli, ma Marcus sapeva
che se l'avesse fatto troppo spesso, la società immobiliare avrebbe cominciato a
insospettirsi. Avrebbe mandato qualcuno a controllare e chiesto alla polizia di
sorvegliare meglio. Inoltre, avrebbe avvisato i villeggianti e i proprietari. E loro dove
sarebbero finiti? Relegati a Bower's Point, come al solito.
Una volta l'anno. Una volta ogni estate. Questa era la regola ed era abbastanza, a
meno che la casa non fosse poi distrutta da un incendio. Sorrise. In quel modo il
problema sarebbe stato risolto. Nessuno avrebbe mai neppure sospettato che ci fosse
stata una festa. Soltanto un grande incendio, perché gli incendi erano vivi. Gli
incendi, specialmente quelli grandi, si muovevano e danzavano e distruggevano e
divoravano. Ricordava di avere dato fuoco a un fienile quando aveva dodici anni e di
essere rimasto a guardarlo bruciare per ore, con la sensazione di non avere mai visto
niente di più incredibile. Così aveva appiccato un altro incendio, stavolta a un
magazzino abbandonato. Nel corso degli anni lo aveva rifatto diverse volte. Non c'era
niente di meglio; nulla lo esaltava più del potere che sentiva con un accendino in
mano.
Ma non lo avrebbe fatto. Non quella sera, perché non voleva che Teddy o Lance
venissero a conoscenza del suo passato. E poi, la festa sarebbe stata sensazionale.
Alcolici, droghe e musica. E ragazze. Ragazze ubriache. Per prima si sarebbe fatto
Blaze, e poi magari un paio delle altre, se fosse riuscito a far sbronzare Blaze
abbastanza da perdere i sensi. Magari avrebbe rimorchiato qualche altra pollastrella
disponibile, anche se lei fosse stata abbastanza sobria da rendersi conto di ciò che
stava accadendo. Poteva essere divertente anche così. Oh, sapeva che avrebbe fatto
una scenata, ma se ne sarebbe fregato e avrebbe lasciato a Teddy o Lance il compito
di buttarla fuori. Sapeva che poi sarebbe tornata. Tornava sempre, implorando e
piangendo.
Era così maledettamente prevedibile. E piagnucolava in continuazione.
Del tutto diversa da Miss Corpicino Sodo.
Aveva cercato in tutti i modi di non pensare a Ronnie. Benissimo, lei non se lo filava,
voleva stare con Mr. Dollaro, il principe delle autofficine. Molto probabilmente non
ci sarebbe stata lo stesso. Di sicuro era tutta scena e nient'altro. Tuttavia, non riusciva
proprio a capire dove avesse sbagliato, né come avesse fatto lei a leggergli dentro.
Meglio scordarsela. Non aveva bisogno di una come lei. Non aveva bisogno di
nessuno, il che lo induceva a chiedersi come mai continuasse a osservarla o si
sentisse irritato al pensiero che stesse con Will.
Questo particolare rendeva l'intera faccenda un po' più interessante, se non altro
perché conosceva alla perfezione il punto debole di Will.
Poteva spassarsela. Proprio come aveva intenzione di fare quella sera.
23 Will
L'estate per Will stava passando troppo in fretta. Tra il lavoro al garage e il tempo
passato con Ronnie, le giornate sembravano volare. Con l'approssimarsi di agosto, fu
assalito dall'ansia al pensiero che nel giro di poche settimane lei sarebbe ritornata a
New York e lui sarebbe partito per la Vanderbilt.
Ronnie era diventata parte della sua vita: per molti versi, la parte migliore. Sebbene
non riuscisse sempre a capirla, le loro divergenze in qualche modo sembravano
rafforzare il loro rapporto. Avevano discusso della sua richiesta di accompagnarla
davanti al giudice, che lei aveva categoricamente rifiutato, ma ricordava quanto fosse
rimasta sorpresa trovandolo fuori dal tribunale che l'aspettava con un mazzo di fiori.
Era sconvolta perché le accuse non erano state ritirate e l'udienza successiva era stata
fissata per il 28 agosto, tre giorni dopo la sua partenza per il college. Tuttavia, sapeva
di avere fatto la cosa giusta presentandosi lì. Lei aveva accettato il bouquet
ringraziandolo con un timido bacio.
Lo aveva sorpreso ottenendo un lavoro part-time all'acquario. Non gli aveva parlato
in anticipo dei propri progetti, né chiesto se potesse mettere una buona parola per lei.
Francamente non si era neppure reso conto che lei stesse cercando un lavoro. Quando
le aveva chiesto spiegazioni, lei gli aveva risposto:«Di giorno tu lavori e mio papà e
Jonah sono impegnati con la vetrata. Avevo bisogno di qualcosa da fare, e poi voglio
pagarmi l'avvocato con i miei soldi. Mio padre non è un nababbo». Quando era
andato a prenderla dopo il primo giorno di lavoro, si era accorto che aveva un
colorito verdastro.«Ho dovuto dare da mangiare alle lontre», gli confidò.«Hai mai
infilato la mano in un secchio pieno di pesci morti e viscidi? È disgustoso!»
Parlavano senza stancarsi mai. Sembrava che non avessero il tempo sufficiente per
condividere tutto ciò che volevano. A volte erano semplici chiacchiere, quando
discutevano dei loro film preferiti, per esempio, o quando lei gli spiegava che, pur
essendo vegetariana, non aveva ancora deciso se le uova o il latte fossero da evitare.
Ma altre volte il loro dialogo diventava serio. Lei gli raccontò i propri ricordi di
quando suonava il pianoforte e del suo rapporto con il padre; lui ammise che a volte
era risentito per il fatto di sentirsi obbligato a essere il genere di persona che sua
madre si aspettava. Parlavano del fratello di Ronnie, Jonah, e della sorella di Will,
Megan, chiedendosi se e in che modo avrebbero fatto parte della loro vita. Il futuro di
lui sembrava già pianificato: quattro anni alla Vanderbilt e dopo la laurea un breve
tirocinio in un'altra azienda per poi tornare a dirigere l'impresa paterna. Tuttavia,
mentre recitava a memoria questi progetti, sentiva dentro di sé la voce della madre
che mormorava d'approvazione e si chiedeva se fosse davvero ciò che lui desiderava.
Ronnie, invece, ammetteva di non sapere che cosa le avrebbe portato l'anno
successivo. Tale incertezza non sembrava spaventarla, però, e questo lo induceva ad
ammirarla persino di più. In seguito, quando si soffermò a riflettere sui rispettivi
progetti per il futuro, Will si rese conto con stupore che tra i due era lei a tenere più
saldamente in mano le redini del proprio destino.
Nonostante le gabbie costruite per proteggere i nidi di tartarughe lungo la spiaggia, i
procioni avevano scavato sotto la rete e ne avevano distrutti sei. Non appena Ronnie
l'aveva saputo, aveva insistito affinché a turno sorvegliassero il nido dietro casa sua.
Non c'era motivo che si trovassero entrambi lì a fare la guardia di notte, ma la
maggior parte delle volte rimanevano fuori abbracciati, a baciarsi e a parlare
sottovoce ben oltre la mezzanotte.
Com'era prevedibile, Scott non riusciva a farsene una ragione. Più di una volta Will
era arrivato tardi agli allenamenti mentre lui era lì che camminava in preda
all'agitazione, chiedendosi che cosa fosse successo all'amico. Al lavoro, nelle rare
occasioni in cui Scott chiedeva come andassero le cose tra lui e Ronnie, Will non si
sbottonava molto, perché sapeva che la domanda di Scott non nasceva da un
autentico interesse. Faceva del suo meglio per mantenere l'attenzione di Will
concentrata sull'imminente torneo di beach volley, fingendo che potesse tornare in sé
quanto prima, oppure che Ronnie non esistesse affatto.
Ronnie però aveva visto giusto riguardo alla madre di Will. Sebbene lei non si fosse
espressa con il figlio a proposito di questo nuovo legame, lui intuiva la sua
disapprovazione dal modo in cui la madre si sforzava di sorridere quando veniva fatto
il nome di Ronnie e nel comportamento quasi formale che teneva tutte le volte che la
portava a casa loro. Non gli chiedeva mai niente su di lei, e quando lui ne parlava raccontando quanto si fossero divertiti, o quanto fosse intelligente, o come riuscisse a
capirlo meglio di chiunque altro - la mamma commentava con frasi del tipo «tra
poche settimane andrai alla Vanderbilt e le relazioni a distanza sono molto faticose»,
oppure arrivava persino a chiedersi se non «passassero troppo tempo insieme».
Lui la odiava quando diceva certe cose. Si sforzava di non essere pungente con lei,
ma sapeva che era ingiusta. A differenza della stragrande maggioranza dei suoi
conoscenti, Ronnie non beveva né bestemmiava né faceva pettegolezzi e non si erano
spinti mai più in là dei baci, ma si rendeva conto istintivamente che a sua madre
queste cose non sarebbero interessate. Era incatenata ai propri pregiudizi, così
qualsiasi tentativo di farle cambiare opinione su Ronnie sarebbe stato vano.
Esasperato, lui cominciò a trovare sempre nuove scuse per stare lontano da casa il più
possibile. Non solo per l'atteggiamento che lei aveva verso Ronnie, ma anche per ciò
che cominciava a provare nei confronti di sua madre.
E verso se stesso, per la sua incapacità di criticarla apertamente.
A parte la preoccupazione di Ronnie per l'imminente chiamata in giudizio, l'unica
macchia sulla loro estate idilliaca era la costante presenza di Marcus. Sebbene fossero
stati quasi sempre in grado di evitarlo, a volte era impossibile. Quando si imbattevano
in lui, Marcus riusciva sempre a trovare il modo di provocare Will, di solito con un
accenno a Scott. Lui si sentiva paralizzato. Se avesse reagito in maniera esagerata,
Marcus sarebbe potuto andare alla polizia; se non faceva niente, si vergognava.
Adesso che stava con una ragazza che aveva affrontato il tribunale e aveva ammesso
la propria colpa, il fatto di non riuscire a trovare il coraggio per fare lo stesso
cominciava a tormentarlo. Aveva provato a convincere Scott a costituirsi, ma l'amico
aveva rifiutato categoricamente. E in maniera indiretta, come era sua consuetudine,
aveva ricordato a Will il debito che lui e la sua famiglia avevano con lui per il
terribile giorno in cui era morto Mikey. Will riconosceva l'eroismo dimostrato da
Scott in quell'occasione ma, con il passare delle settimane, cominciava a dubitare che
una buona azione precedente potesse cancellare qualcosa di negativo commesso in
seguito, e nei momenti più cupi si chiedeva se fosse in grado di sopportare il vero
prezzo dell'amicizia di Scott.
Una sera di inizio agosto, Will acconsentì a portare Ronnie in spiaggia a caccia di
granceole.
«Ti ho detto che non mi piacciono i granchi!» strillò lei afferrando il braccio di Will.
Lui rise.«Sono soltanto granceole. Non ti faranno del male.»
«Sembrano mostruosi insetti provenienti dallo spazio», ribatté disgustata.
«Non dimenticare che è stata una tua idea.»
«Non è vero. È stato Jonah a proporlo. Ha detto che era divertente. E questo mi
servirà di lezione: non bisogna dare retta a uno che impara le cose guardando i cartoni
animati.»
«Pensavo che una persona abituata a distribuire pesce viscido alle lontre non si
sarebbe lasciata turbare da qualche innocuo granchio sulla spiaggia.» Spostò il fascio
di luce della torcia sulla sabbia, illuminando le creature che si muovevano rapide.
Lei scrutò la sabbia con preoccupazione, nel caso un granchio le si fosse avvicinato
troppo.«Tanto per cominciare, non si tratta di qualche innocuo granchio. Ce ne sono a
centinaia. Secondo, se avessi saputo che di notte sulla spiaggia accade tutto questo,
avrei fatto dormire te all'aperto accanto al nido di tartarughe. Quindi sono un po'
arrabbiata con te per avermi tenuto nascosto questo fatto. E terzo, anche se lavoro
all'acquario, non significa che mi piaccia avere dei granchi che mi corrono sui piedi.»
Lui fece del suo meglio per restare serio, ma era troppo difficile. Lei alzò lo sguardo e
colse la sua espressione divertita.
«Smettila di sghignazzare. Non è divertente.»
«Sì che lo è... voglio dire, ci saranno almeno una ventina di bambini piccoli con i
genitori qua fuori a fare esattamente quello che facciamo noi.»
«Non è colpa mia se i loro genitori non hanno il minimo buonsenso.»
«Vuoi rientrare?»
«No, non importa», rispose lei.«Ormai mi hai attirato nel bel mezzo di questa
invasione. Tanto vale rassegnarsi.»
«Sai che siamo venuti molto spesso a passeggiare sulla spiaggia negli ultimi tempi.»
«Lo so, quindi grazie tante di avere portato la torcia e di avere rovinato i bei ricordi.»
«Benissimo», disse lui spegnendo la torcia.
Lei gli affondò le unghie nel braccio.«Che cosa stai facendo? Riaccendila subito!»
«Ma mi hai fatto capire che non vuoi la luce della torcia.»
«Però se la spegni non riuscirò a vederli!»
«Esatto.»
«Quindi potrei essere circondata in questo momento. Accendila», lo implorò.
Lui ubbidì e mentre si incamminavano scoppiò a ridere.«Prima o poi riuscirò a
capirti.»
«Non credo proprio. Se non ci sei riuscito fino adesso, forse è al di sopra delle tue
capacità.»
«Potrebbe essere vero», riconobbe lui. Le cinse le spalle con un braccio.«Non mi hai
ancora detto se parteciperai al matrimonio di mia sorella.»
«Non ho ancora deciso.»
«Voglio che tu conosca Megan. È fantastica.»
«Non è tua sorella che mi preoccupa. È solo che non credo che tua madre voglia che
venga.»
«E allora? Non è il suo matrimonio. Mia sorella desidera che partecipi.»
«Le hai parlato di me?»
,
«Certo.»
«Che cosa le hai detto?»
«La verità.»
«Che mi trovi bianca come una mozzarella?»
Lui la guardò incredulo.«Ce l'hai ancora con me per quello?»
«No. Ho dimenticato tutto.»
Lui sbuffò.«D'accordo, per rispondere alla tua domanda, no, non le ho detto che sei
una mozzarella. Ho detto che un tempo lo eri.»
Lei gli diede una gomitata nelle costole, e lui finse di implorare pietà.«Sto
scherzando, sto scherzando... non direi mai una cosa del genere.»
«Allora che cosa le hai detto?»
Lui si fermò e la fece voltare verso di sé.«La verità. Che sei intelligente e divertente e
spontanea e bella.»
«Ah, be', così va bene.»
«Non mi vuoi dire che mi ami?»
«Non sono sicura di poter amare un ragazzo così bisognoso», lo stuzzicò lei. Lo
abbracciò.«Ti sei meritato questa battuta per avermi portata qui a farmi assalire dai
granchi. Certo che ti amo.»
Si baciarono poi ripresero a camminare. Avevano quasi raggiunto il molo e stavano
per tornare indietro, quando videro Scott, Ashley e Cassie che venivano loro incontro
dalla direzione opposta. Ronnie si irrigidì impercettibilmente mentre Scott deviava
per raggiungerli.
«Eccoti qua, amico», lo chiamò quando fu più vicino. Si fermò davanti a loro.«È tutta
la sera che ti mando messaggi.»
Will strinse più forte a sé Ronnie.«Scusa. Ho lasciato il cellulare a casa di Ronnie.
Che succede?»
Mentre parlava, sentiva lo sguardo di Ashley che fissava Ronnie da lontano.
«Sono stato contattato da cinque delle squadre che parteciperanno al torneo e mi
hanno chiesto di fare qualche amichevole. Sono tutti molto in gamba e vogliono
organizzare un allenamento intensivo in preparazione dell'incontro con Landry e
Tyson. Una batteria di allenamenti, esercizi, partite. Stiamo pensando persino di
cambiare le squadre di tanto in tanto, per migliorare i nostri tempi di reazione, visto
che tutti abbiamo stili diversi.»
«Quando verranno?»
«Quando vogliamo, ma pensavo questa settimana.»
«Quanto tempo si fermeranno?»
«Non lo so. Tre o quattro giorni. Il tempo necessario fino al torneo. So che hai in
ballo il matrimonio e le prove, ma possiamo organizzarci.»
Will ripensò ancora una volta al fatto che il tempo da trascorrere con Ronnie stava
per terminare.«Tre o quattro giorni?»
Scott si accigliò.«Andiamo, amico. È quello che ci serve per prepararci.»
«Non credi che siamo pronti?»
«Ma che ti prende? Sai bene quanti allenatori della costa occidentale verranno a
vedere il torneo.» Puntò un dito contro di lui.«Forse a te non servirà una borsa di
studio di pallavolo per andare al college, ma a me sì. E questa è l'unica occasione che
avranno di vedermi giocare.»
Will esitò.«Ci penso su, d'accordo?»
«Vuoi pensarci su?»
«Prima devo parlare con mio padre. Non posso decidere di prendermi tre o quattro
giorni liberi con così poco preavviso senza chiederglielo. E non credo che possa farlo
neppure tu.»
Scott guardò verso Ronnie.«Sei sicuro che il lavoro sia l'unico impedimento?»
Will riconobbe la sfida, ma decise di non accettarla davanti a Ronnie. Anche Scott
sembrò ripensarci e fece un passo indietro.«D'accordo, allora. Parla con tuo padre»,
disse.«Forse riuscirai a trovare il tempo tra tutti i tuoi impegni.»
Si allontanò senza neppure un cenno di saluto. Will, incerto sul da farsi, si avviò con
Ronnie verso il bungalow. Erano ormai fuori dalla portata di udito di Scott quando
Ronnie lo cinse in vita con il braccio e gli chiese:«Si riferiva al torneo di pallavolo di
cui mi hai parlato?»
«Sì. Il prossimo fine settimana. Il giorno dopo il matrimonio di mia sorella.»
«Di domenica?»
Lui annuì.«È un torneo di due giorni, ma il sabato giocano le squadre femminili.»
Ronnie ci pensò su.«A lui serve una borsa di studio di pallavolo per andare al
college?»
«Sicuramente gli sarebbe d'aiuto.»
Lei lo fece fermare.«Allora trova il tempo per questo allenamento intensivo. Fa' tutto
il possibile per prepararti. È tuo amico, giusto? Riusciremo lo stesso a stare insieme
io e te. Anche a costo di doverci ritrovare seduti accanto al nido di tartarughe. Posso
andare al lavoro anche se sono stanca.»
Mentre parlava, Will riusciva a pensare soltanto a quanto fosse bella e a quanto gli
sarebbe mancata.
«Che cosa ci succederà al termine dell'estate, Ronnie?» La scrutò in volto.
«Tu andrai al college», rispose lei guardando da un'altra parte.«E io tornerò a New
York.»
Lui le fece piegare la testa verso di sé.«Sai bene che cosa intendo.»
«Sì», confermò lei,«so perfettamente che cosa intendi. Ma non so che cosa vuoi che ti
dica. Non so che cosa potremmo dire.»
«Qualcosa del tipo non voglio che finisca?»
Gli occhi di lei erano verdi come il mare.«Non voglio che finisca», ripetè sottovoce.
Sebbene fosse ciò che voleva sentire e capisse che diceva sul serio, Will si rese conto
di ciò che lei aveva già compreso: pronunciare quelle parole, seppure vere, non
serviva per cambiare l'ineluttabile né per farlo sentire meglio.
«Verrò a trovarti a New York», le promise.
«Lo spero.»
«E voglio che tu venga nel Tennessee.»
«Suppongo che potrei sopportare un altro viaggio al Sud se avessi una buona
ragione.»
Sorridendo, s'incamminarono di nuovo sulla spiaggia.«Farò tutto ciò che vuole Scott
per prepararmi al torneo se tu verrai al matrimonio di mia sorella.»
«In altre parole, farai quello che dovresti fare comunque e in cambio otterrai quello
che vuoi.»
Lui non la vedeva esattamente a quel modo, ma. doveva ammettere che non aveva
tutti i torti.«Sì», disse.«Penso che sia così.»
«Qualcos'altro? Visto che è un accordo così oneroso per te?»
«Ora che ci penso, ci sarebbe qualcos'altro. Vorrei che cercassi di far ragionare
Blaze.»
«Ma cosa stai dicendo? Ho già provato a parlare con lei.»
«Lo so. Ma quand'è stato? Sei settimane fa? Lei ci ha visti insieme, quindi sa che non
sei interessata a Marcus. E ha avuto il tempo di superare la cosa.»
«Non dirà mai la verità», ribatté Ronnie.«Per lei significherebbe mettersi nei guai.»
«E come? Di che cosa la accuserebbero? Il fatto è che non voglio che tu finisca nei
guai per qualcosa che non hai fatto. La proprietaria del negozio non vuole ascoltare, il
procuratore non vuole ascoltare, e non sto dicendo che Blaze ti ascolterà, ma non
vedo quale altra strada ti resta se vuoi uscire da questa storia.»
«Non funzionerà», insistette Ronnie.
«Forse no, ma secondo me vale la pena tentare. La conosco da parecchio tempo, e
non è sempre stata così. Forse in fondo le è rimasta una briciola di buonsenso e sa di
avere fatto la cosa sbagliata; forse le serve soltanto una buona ragione per cercare di
rimediare.»
Lei non ne era convinta, ma non obiettò e tornarono verso casa in silenzio. Giunti nei
pressi del bungalow, Will vide la luce che usciva dalla porta aperta del laboratorio.
«Tuo papà sta ancora lavorando alla vetrata?» .
«Così pare», rispose lei.
«Potrei vederla?»
«Perché no?»
Si diressero insieme verso il capanno malmesso. Una volta dentro, Will vide una
lampadina fissata a una prolunga appesa sopra un grande tavolo da lavoro nel centro
della stanza.
«Non c'è», disse Ronnie guardandosi intorno.
«È quella la vetrata?» chiese Will avvicinandosi al bancone.«È enorme.»
Ronnie lo raggiunse.«Stupefacente, vero? È per la chiesa che stanno costruendo
lungo la via.»
«Non me lo avevi detto questo.» La voce di lui risuonò tesa persino alle sue orecchie.
«Non pensavo che fosse importante», ribatté lei.«Perché ha importanza?»
Will si sforzò di scacciare dalla mente l'immagine di Scott e dell'incendio.«Veramente
no», s'affrettò a rispondere, fingendo di esaminare le tessere di vetro.«Non pensavo
che tuo papà potesse realizzare qualcosa di così complesso.»
«Non lo sapevo neppure io. E di sicuro nemmeno lui, almeno finché non si è messo al
lavoro. Mi ha detto che per lui era importante, quindi forse questo lo ha aiutato.»
«Perché era importante?»
Mentre Ronnie gli ripeteva la storia che aveva sentito dal padre, Will guardava la
vetrata, ripensando a ciò che aveva fatto Scott. E, ovviamente, a ciò che lui non aveva
fatto. Lei doveva avergli letto qualcosa in faccia, perché quando concluse, si soffermò
a esaminarlo.
«A che cosa stai pensando?»
Lui passò una mano sul vetro prima di rispondere.«Ti sei mai chiesta che cosa
significa l'amicizia?»
«Non sono sicura di capire.»
Lui la guardò negli occhi.«Fin dove saresti disposta a spingerti per proteggere un
amico?»
Lei esitò.«Suppongo che dipenderebbe da ciò che ha fatto l'amico. E dalla serietà
della cosa.» Gli posò una mano sulla schiena.«Perché non mi racconti tutto?»
Lui non rispose e allora lei gli si strinse vicino.«Alla fine bisognerebbe sempre fare la
cosa giusta, anche se è difficile. So che forse non ti aiuterà e che la cosa giusta spesso
non è facile da individuare. Almeno a prima vista. Ma anche quando mi ripetevo per
giustificarmi che i furti che commettevo non erano granché, sapevo che era sbagliato.
E mi faceva sentire... sporca dentro.» Avvicinò il viso a quello di Will e lui colse
l'aroma di sabbia e mare sulla sua pelle.«Non ho respinto le accuse perché qualcosa
dentro di me sapeva che ciò che avevo fatto era sbagliato. Ci sono persone che
possono convivere con la loro coscienza, fino a un certo punto. Loro vedono
sfumature di grigio dove io vedo bianco e nero. Ma io non sono fatta così... e credo
neppure tu.»
Will distolse lo sguardo. Avrebbe voluto dirglielo, desiderava raccontarle ogni cosa,
poiché sapeva che lei aveva ragione, ma non riusciva a trovare le parole giuste. Lei lo
capiva come nessun altro aveva mai fatto prima. Poteva imparare da lei, pensò.
Sarebbe stato una persona migliore al suo fianco. Per molti versi ne aveva bisogno. Si
costrinse ad annuire e Ronnie gli posò la testa sulla spalla.
Quando alla fine uscirono dal capanno, lui la trattenne con un braccio prima che lei si
avviasse verso la casa. L'attirò a sé e cominciò a baciarla. Prima le labbra, poi la
guancia, poi il collo. Aveva la pelle di fuoco, come se fosse rimasta sdraiata per ore al
sole, e quando le baciò di nuovo le labbra, la sentì far aderire il corpo al suo. Le
affondò le mani tra i capelli, senza smettere di baciarla, mentre la faceva appoggiare
con la schiena alla parete del laboratorio. L'amava, la desiderava, e mentre continuava
a baciarla, sentiva le braccia di lei muoversi lungo la sua schiena e le spalle. La sua
carezza lo elettrizzava, il suo respiro era una ventata calda, e lui si sentì scivolare via
in un luogo governato esclusivamente dai sensi.
«Ti prego», ansimò lei,«dobbiamo smettere.»
«Perché?»
«Non voglio che mio padre ci scopra. Forse ci sta guardando dalla finestra.»
«Ci stiamo solo baciando.»
«Esatto. E casualmente, ci piacciamo.» Lei rise.
Un sorriso languido gli illuminò il viso.«Perché? Non ci stavamo forse solo
baciando?»
«Sto solo dicendo che sembrava... che ciò che stavamo facendo ci stesse portando a
qualcos'altro», spiegò, lisciandosi la maglietta.
«E dove sarebbe il problema?»
La sua espressione gli fece capire che doveva smettere di scherzare. In effetti aveva
ragione lei, anche se non era ciò che lui desiderava.«Hai ragione.» Sospirò, e fece
cadere le braccia a circondarle la vita.«Cercherò di controllarmi.»
Lei lo baciò sulla guancia.«Ho piena fiducia in te.»
«Grazie tante», sbuffò lui.
Lei sorrise ammiccante.«Vado a controllare dov'è il mio papà, okay?»
«Okay. Tanto domattina devo andare al lavoro presto.»
Lei sorrise.«Peccato. Io non comincio fino alle dieci.»
«Dovrai dar da mangiare alle lontre anche domani?»
«Senza di me morirebbero di fame. Ormai sono diventata indispensabile.»
Lui scoppiò a ridere.«Ti ho già detto che penso che tu sia una perfetta custode?»
«Non credo che nessuno me l'abbia mai detto prima. Ma, per tua informazione, non si
sta troppo male neppure con te.»
24.Ronnie
Ronnie guardò Will allontanarsi prima di avviarsi verso casa, pensando a tutto ciò che
le aveva detto e chiedendosi se non avesse ragione a proposito di Blaze.
L'imminente chiamata in giudizio l'aveva tormentata per tutta l'estate. A volte si era
chiesta se l'attesa della possibile pena non fosse peggiore della pena stessa.
Con il passare delle settimane le era capitato sempre più spesso di svegliarsi nel cuore
della notte senza più riuscire a riaddormentarsi. Non era l'idea di finire in prigione a
terrorizzarla - dubitava che sarebbe successo - ma si preoccupava che quelle accuse
potessero accompagnarla per tutta la vita.
Sarebbe stata costretta a rivelare la propria storia a un college che avesse voluto
frequentare? Avrebbe dovuto dirlo ai futuri datori di lavoro? Sarebbe riuscita a
ottenere un posto d'insegnante? Non sapeva se sarebbe andata al college o se voleva
diventare un'insegnante, ma i timori rimanevano. Sarebbe stata perseguitata per
sempre?
L'avvocato credeva di no, ma non poteva promettere niente.
E poi c'era il matrimonio. Era facile per Will chiederle di partecipare, presumendo
che non fosse poi così importante. Ma lei sapeva che Susan non la voleva e l'ultima
cosa che desiderava era creare problemi. Avrebbe dovuto essere il giorno più bello
per Megan.
Raggiunta la veranda, stava per entrare quando sentì la sedia a dondolo cigolare. Fece
un balzo all'indietro terrorizzata, poi vide Jonah che la osservava.
«Che. Cosa. Volgare.»
«Cosa ci fai qua fuori?» domandò lei, il cuore che le batteva ancora in gola.
«Stavo guardando te e Will. Come ho detto, è stato proprio schifoso.» Finse di
rabbrividire.
«Ci stavi spiando?»
«Difficile evitarlo. Eri proprio lì accanto al laboratorio con Will. Sembrava che lui
volesse stritolarti a morte.»
«Non era quello che stava facendo», gli assicurò Ronnie.
«Ho solo detto quello che sembrava.»
Lei sorrise.«Capirai quando sarai un po' più grande.»
«Capisco già adesso quello che stavate facendo. L'ho visto fare nei film. Solo che lo
trovo schifoso», ribatté Jonah.
«Questo lo hai già detto», puntualizzò lei.
La sua risposta parve ammutolirlo per un secondo.«Dov'è andato?»
«A casa. Domani deve lavorare.»
«Stanotte farai la guardia al nido di tartarughe? Perché non è necessario. Papà ha
detto che potremmo pensarci noi.»
«Hai convinto papà a dormire fuori?»
«È lui che vuole farlo. Dice che sarà divertente.»
Ne dubito, pensò lei.«Per me va bene.»
«Ho già preparato le mie cose. Sacco a pelo, lanterna, succhi, panini, un pacchetto di
cracker, caramelle, patatine, biscotti e una racchetta da tennis.»
«Hai intenzione di giocare a tennis?»
«Servirà nel caso arrivi il procione. Sai, se cercasse di attaccarci.»
«Non lo farà.»
«Sul serio?» Il ragazzino sembrava quasi deluso.
«Be', forse è una buona idea», si corresse Ronnie.«Per sicurezza. Non si può mai
sapere.»
Lui si grattò la testa.«È quello che pensavo anch'io.»
Ronnie indicò il laboratorio.«A proposito, la vetrata sta venendo benissimo.»
«Grazie», disse Jonah.«Papà vuole essere sicuro che ogni pezzo sia perfetto. A volte
mi fa rifare le cose due o tre volte. Però sto diventando molto bravo.»
«Me ne sono accorta.»
«Comunque fa caldo. Soprattutto quando accende l'essiccatoio. Sembra un forno.»
È un forno, pensò lei. Ma non lo corresse.«Mi spiace. Come va la guerra dei
biscotti?»
«Bene. Basta che li prenda quando lui si addormenta, dopo pranzo.»
«Papà non si addormenta mai.»
«Ora sì. Tutti i pomeriggi, per un paio d'ore. A volte devo scrollarlo forte per
svegliarlo.»
Ronnie guardò il fratello, poi sbirciò dentro casa dalla finestra.«A proposito, dov'è?»
«È andato in chiesa. Il pastore Harris è passato prima. È venuto spesso ultimamente.
Loro parlano volentieri.»
«Sono amici.»
«Lo so. Ma penso che sia soltanto una scusa. Penso che papà si andato a suonare il
pianoforte.»
«Quale pianoforte?» domandò Ronnie perplessa.
«L'hanno consegnato alla chiesa la settimana scorsa. Papà è andato a suonarlo.»
«Ah, è così?»
«Aspetta», disse Jonah.«Non so se potevo dirtelo. Forse dovresti fare finta di niente.»
«E perché non avresti dovuto dirmelo?»
«Perché potresti prendertela di nuovo con lui.»
«Io non me la prendo con lui», protestò Ronnie.«Quand'è stata l'ultima volta che l'ho
fatto?»
«Quando suonava il piano. Ricordi?»
Ah già, è vero, pensò. Il fratello aveva una memoria da elefante.«Stai tranquillo, non
lo farò più.»
«Bene. Perché non mi piace quando ti arrabbi con lui. Domani dobbiamo andare a
Fort Fisher, e voglio che sia di buonumore.»
«Da quanto tempo è andato via?»
«Non saprei. A me sembrano delle ore. Ecco perché ero uscito. Volevo aspettarlo. E
poi sei arrivata tu con Will e avete cominciato a fare quelle cose.»
«Ci stavamo soltanto baciando!»
«Non penso proprio. Stavate facendo altre cose», disse Jonah convinto.
«Hai cenato?» chiese lei, per cambiare argomento.
«Aspettavo papà.»
«Vuoi che ti prepari un paio di hot dog?»
«Con ketchup e basta?» la incalzò lui.
Ronnie sospirò.«Va bene.»
«Credevo che non ti piacesse neppure toccarli.»
«Sai, in questo periodo ho toccato così tanti pesci morti, che un hot dog non mi
risulta più disgustoso.»
Lui sorrise.«Un giorno mi porterai all'acquario così posso guardarti mentre dai da
mangiare alle lontre?»
«Se vuoi, magari posso anche fare in modo che glielo dia tu.»
«Davvero?» La voce di Jonah era carica di entusiasmo.
«Penso di sì. Dovrò chiedere il permesso, ma a volte lo lasciano fare ai gruppi di
studenti, così non credo che ci saranno problemi.»
Il viso del fratello si illuminò.«Grande! Grazie.» Poi, alzandosi dalla sedia a dondolo,
aggiunse:«A proposito, mi devi dieci dollari».
«Per che cosa?»
«Per non dire a papà quello che stavate facendo tu e Will.»
«Dici sul serio? Anche se ti preparo la cena?»
«Avanti. Tu lavori e io sono povero.»
«È chiaro che credi che io guadagni un mucchio di soldi. Non ho dieci dollari. Tutto
quello che ho guadagnato se n'è andato per la parcella dell'avvocato.»
Lui ci pensò un attimo.«Facciamo cinque, allora?»
«Vorresti cinque dollari da me, anche se ti ho appena detto di non averne neppure
dieci?» domandò Ronnie fingendosi indignata.
Lui ci pensò.«Facciamo due?»
«Uno?»
Lui sorrise.«Affare fatto.»
Dopo avere preparato la cena a Jonah, Ronnie si avviò lungo la spiaggia verso la
chiesa. Non era lontana, ma si trovava nella direzione opposta a quella che di solito
prendeva, e lei non l'aveva mai guardata con attenzione.
Mentre si avvicinava, vide la sagoma del campanile stagliarsi contro il cielo del
crepuscolo. A parte questo, la chiesa non era affatto riconoscibile, in particolare
perché era molto più piccola delle due case che la fiancheggiavano e non possedeva
nulla della loro sontuosa eleganza. Le pareti erano di semplici assi e, nonostante
fossero nuove, avevano già un sentore di vecchio.
Risalendo la duna, raggiunse il parcheggio sul lato della strada, dove si notavano
maggiori tracce della recente attività: un container pieno di materiale di scarto, un
mucchio di assi accanto alla porta e un grosso furgone parcheggiato accanto
all'ingresso. La porta anteriore era aperta, illuminata da un fioco cono di luce, ma il
resto dell'edificio era buio.
Raggiunse la porta ed entrò. Guardandosi intorno, si rese conto che c'era ancora
molto lavoro da fare. Il pavimento era di cemento grezzo, il muro a secco non era
finito e non c'erano né sedili né panche. Uno strato di polvere copriva le assi di
rivestimento, ma proprio sul fondo, dove Ronnie immaginava il pastore Harris che
celebrava la funzione domenicale, suo padre era seduto dietro a un pianoforte nuovo
del tutto fuori luogo. L'unica illuminazione era quella di una vecchia lampada
d'alluminio attaccata a una prolunga.
Lui non l'aveva sentita entrare e continuò a suonare, ma era un motivo che lei non
conosceva. Sembrava quasi contemporaneo, diversamente dalla musica che suonava
di solito, ma alle sue orecchie risultava ancora... incompiuto. Anche il padre pareva
avere la stessa sensazione, perché si fermò per un momento, assorto, poi ricominciò
dall'inizio.
Lei colse alcune sottili variazioni. Erano un miglioramento, ma la melodia continuava
a non essere giusta. Provò un impeto di soddisfazione, per la propria capacità non
solo di interpretare la musica, ma di immaginare possibili variazioni. Qualche anno
prima era stato in particolare questo suo talento a stupire il padre.
Lui ricominciò daccapo, introducendo altri cambiamenti e, guardandolo, lei capì che
era felice. Sebbene la musica non facesse più parte della sua vita, era sempre
appartenuta a quella del padre, e lei provò un improvviso rimorso per avergliela
portata via. Ripensandoci ora, ricordava di essersi arrabbiata al pensiero che lui
cercasse di convincerla a suonare di nuovo, ma era stato davvero questo il suo
intento? Era stato un messaggio rivolto a lei? Oppure il padre suonava soltanto perché
lo desiderava lui stesso?
Non ne era sicura, ma rimase commossa da ciò che aveva fatto. La serietà con cui
considerava ogni nota e la facilità con cui introduceva i cambiamenti le fecero capire
a quanto avesse rinunciato per soddisfare un suo capriccio infantile.
Mentre suonava, cominciò a tossire, dapprima piano,
poi sempre più forte tanto che dovette smettere.
«Papà!» esclamò Ronnie correndo verso di lui,«stai bene?»
Lui alzò lo sguardo e a quel punto la crisi cominciò a diminuire. Quando si chinò su
di lui, aveva soltanto il respiro un po' affannato.
«Sto bene», disse con un filo di voce. «Colpa di questa polvere, dopo un po' mi irrita
la gola. Succede tutte le volte.»
Lei lo guardò, trovandolo un po' pallido. «Sei sicuro?»
«Certo.» Le accarezzò la mano. «Che cosa ci fai qui?»
«Jonah mi ha detto che ti avrei trovato in chiesa.»
«Mi hai scoperto!»
Lei fece un gesto vago con la mano. «È un dono, giusto?»
Lui non rispose e lei indicò la tastiera, ripensando a tutte le canzoni che avevano
scritto insieme. «Che cosa stavi suonando? Stai scrivendo una nuova canzone?»
«Ah, quella», rispose lui. «Ci sto provando. È una cosa senza importanza.»
«È bella...»
«Niente affatto. C'è qualcosa di sbagliato, ma non riesco a trovare gli accordi giusti. È
come se facessi tutto al contrario.»
«È bella», insistette lei. «Ed è... più moderna di quello che suoni di solito.»
Lui sorrise. «Te ne sei accorta, eh? In realtà non era cominciata così. Sinceramente,
non so che cosa mi stia succedendo.»
«Forse hai ascoltato il mio iPod.»
«Ti assicuro di no», rispose divertito.
Lei si guardò intorno. «Allora, quando sarà finita la chiesa?»
«Non saprei. Mi sembra di averti detto che l'assicurazione non copre tutti i danni. Per
adesso i lavori sono fermi.»
«E la vetrata?»
«La finirò lo stesso.» Indicò un'apertura sulla parete alle proprie spalle chiusa con un
pannello di compensato. «Deve andare lì e ci andrà, anche a costo di metterla io
stesso.»
«Sai come fare?» chiese Ronnie incredula.
«Non ancora.»
Lei sorrise. «Che cosa ci fa un pianoforte qui dentro visto che la chiesa non è finita?
Padre Harris non teme che possano rubarlo?»
«Non avrebbero dovuto consegnarlo prima del termine dei lavori, non capisco cosa
sia successo. Il pastore Harris spera di trovare qualcuno disposto a tenerlo in custodia,
ma non avendo una data certa per la fine dei lavori, non è una cosa semplice.»
Guardò verso la porta aperta e rimase sorpreso di vedere che fuori era buio. «Che ore
sono?»
«Le nove appena passate.»
«Accidenti», esclamò alzandosi. «Non mi ero reso conto che fosse così tardi. Stanotte
io e Jonah abbiamo deciso di dormire fuori. E devo preparare qualcosa da mangiare.»
«Ci ho già pensato io.»
Si illuminò, ma mentre raccoglieva la carta da musica e spegneva la luce, Ronnie si
sorprese di come apparisse fragile e stanco.
25. Steve
Ronnie aveva proprio ragione, pensò. La canzone era decisamente moderna.
Non aveva mentito dicendole che non era cominciata in quel modo. Nella prima
settimana, aveva cercato di abbozzare qualcosa ispirandosi a Schumann, dopo pochi
giorni si era sentito più attratto da Grieg, poi si era lasciato tentare da Saint-Saéns, ma
alla fine non c'era niente che lo soddisfacesse; niente che potesse riflettere l'emozione
che aveva provato quando aveva scritto quelle prime semplici note su un pezzo di
carta.
In passato aveva cercato di comporre musica che s'immaginava potesse durare per
generazioni. Stavolta non era così. Stava sperimentando. Cercava di fare in modo che
la musica si presentasse da sola, e a poco a poco si rese conto di avere smesso di
imitare i grandi compositori fidandosi delle proprie capacità. Ancora però non era
arrivato al punto. La melodia non era giusta ed esisteva la possibilità che non lo fosse
mai, ma per qualche motivo era soddisfatto.
Si chiese se fosse stato questo il suo problema fin dal principio: il fatto che per tutta
la vita avesse cercato di emulare ciò che aveva funzionato per altri. Suonava musica
scritta da altri compositori centinaia di anni prima; cercava Dio nelle sue passeggiate
sulla spiaggia perché aveva funzionato così per il pastore Harris. In quel momento,
con il figlio seduto accanto a lui su una duna, mentre guardava lontano con il
binocolo, si chiedeva se avesse fatto quelle scelte non tanto perché pensava che altri
avessero le risposte, quanto piuttosto perché aveva paura di fidarsi del proprio istinto.
Forse si era appoggiato troppo ai suoi maestri e alla fine aveva avuto paura di essere
se stesso.
«Papà?»
«Dimmi, Jonah.»
«Verrai a trovarci a New York?»
«Sarò felice di farlo.»
«Sai, penso che ora Ronnie voglia parlarti.»
«Lo spero.»
«È molto cambiata, non trovi?»
Steve posò il binocolo.«Credo che tutti siamo molto cambiati quest'estate.»
«Già», confermò lui.«Tanto per cominciare, credo di essere diventato più alto.»
«Senza dubbio. E hai imparato come si realizza una vetrata.»
Jonah rimase assorto per qualche istante.«Papà?»
«Sì?»
«Sai, mi piacerebbe imparare a fare la verticale.»
Steve si chiese da dove gli venisse quell'idea.«Perché?»
«Mi piace stare a testa in giù. Non so perché. Ma penso che dovresti tenermi le
gambe, almeno all'inizio.»
«Lo farò volentieri.»
Rimasero in silenzio per un bel po'. Era una notte tiepida e stellata e mentre rifletteva
sulla bellezza che lo circondava, Steve fu invaso da un'improvvisa sensazione di
appagamento. Per il fatto di trascorrere l'estate con i figli, di stare seduto sulla duna
con Jonah e di parlare di cose senza importanza. Si era abituato a giornate come
quelle e lo addolorava l'idea che ben presto sarebbero finite.
«Papà?»
«Dimmi, Jonah.»
«Stare qua fuori è un po' noioso.»
«Io lo trovo molto rilassante.»
«Ma non riesco a vedere niente.»
«Puoi vedere le stelle. E sentire le onde», rispose Steve.
«Quelle le sento sempre. Fanno lo stesso rumore ogni giorno.»
«Quando vuoi cominciare ad allenarti per la verticale?»
«Magari domani.»
Steve abbracciò il figlio.«Che cosa succede? Mi sembri triste.»
«Niente», rispose Jonah con un filo di voce.
«Ne sei sicuro?»
«Posso andare a scuola qui?» chiese.«E vivere con te?»
Steve sapeva che era un terreno minato.«E la mamma?»
«Io voglio bene alla mamma. E mi manca. Ma mi piace stare qui. Mi piace stare con
te. Sai, a costruire la vetrata, a far volare gli aquiloni, a stare fuori. Mi sono divertito
tanto. Non voglio che finisca.»
Steve lo strinse a sé.«Anch'io sto bene con te. È stata l'estate più bella della mia vita.
Ma quando comincerà la scuola, non potremo più stare insieme come adesso.»
«Magari potresti insegnarmi tu a casa.»
La voce di Jonah era timida, quasi spaventata, proprio quella di un bambino della sua
età. Steve si sentì stringere il cuore all'idea di quello che stava per dire, ma non aveva
scelta.«Credo che se restassi con me la mamma sentirebbe la tua mancanza.»
«Magari potresti tornare con noi. Magari tu e la mamma potreste sposarvi di nuovo.»
Steve fece un profondo respiro, infelice.«So che è difficile e non ti sembra giusto.
Vorrei che ci fosse un modo per cambiare le cose, ma non c'è. Tu devi stare con la
mamma. Lei ti vuole bene e non saprebbe che cosa fare senza di te. Ma anch'io ti
voglio bene. E voglio che non lo dimentichi mai.»
Jonah annuì, come se si fosse aspettato quella risposta dal padre.«Domani andremo lo
stesso a Fort Fisher?»
«Se ti va. E poi possiamo andare agli scivoli d'acqua.»
«Sono lontani?»
«No. Basterà ricordarci di portare i costumi da bagno.»
«D'accordo», disse Jonah rincuorato.
«E magari dopo possiamo andare al fastfood.»
«Davvero?»
«Se ti va.»
«Okay», disse Jonah.«Mi va.»
Jonah rimase in silenzio per un po', poi prese la borsa frigo. Quando tirò fuori un
pacco di biscotti, Steve preferì non dire niente.
«Papà?»
«Sì?»
«Pensi che le uova di tartaruga si schiuderanno stanotte?»
«Non credo che sia ancora il momento, ma è stata un'estate calda, quindi non
dovrebbe mancare molto.»
Jonah serrò le labbra senza dire niente e Steve capì che il figlio stava pensando di
nuovo all'imminente partenza. Lo strinse a sé, ma qualcosa dentro di lui si spezzò e
capì che non si sarebbe mai più riaggiustato.
Il mattino dopo di buon'ora, Steve guardò la spiaggia, sapendo che se avesse fatto una
passeggiata, l'avrebbe fatta soltanto per gustarsi la giornata.
Era giunto alla conclusione che Dio non fosse lì. Almeno non per lui. In effetti, se
fosse stato davvero così semplice catturare la presenza di Dìo, allora molto
probabilmente le spiagge sarebbero state ben più affollate di mattina. Sarebbero state
piene di persone ciascuna impegnata nella propria personale ricerca, invece che di
gente che correva o portava a spasso il cane o pescava.
La ricerca della presenza di Dìo, ora lo capiva, era un mistero quanto Dio stesso, e
che cos'è Dio, se non mistero?
Era buffo che avesse impiegato tanto tempo a capirlo.
Trascorse la giornata con Jonah proprio come avevano progettato la sera precedente.
La fortezza probabilmente interessò più lui che il figlio, dato che conosceva un po'
della storia della Guerra Civile e sapeva che "Wilmington era stato l'ultimo baluardo
importante della Confederazione. Gli scivoli d'acqua, viceversa, avevano divertito
molto più Jonah. Ciascuno doveva portare il proprio materassino fino in cima, e
mentre jonah aveva dimostrato una forza invidiabile, Steve si era sentito subito
sfinito. A dire il vero si era sentito morire.
Il fastfood o meglio, le sue decine di videogame, avevano tenuto occupato Jonah per
un altro paio d'ore. Avevano fatto tre partite di air hockey, accumulato qualche
centinaio di buoni gioco e, dopo avere incassato la vincita, erano usciti con due
pistole ad acqua, un pacchetto di matite colorate e due gomme per cancellare. Steve
aveva preferito non pensare a quanto gli fossero costate.
Era stata una bella giornata, piena di risate, ma faticosa. Dopo avere trascorso un po'
di tempo con Ronnie, andò a letto. Stanco morto, si addormentò in pochi minuti.
26. Ronnie
Dopo che il padre e Jonah erano usciti per la loro giornata insieme, Ronnie era andata
a cercare Blaze, nella speranza di trovarla prima di cominciare il lavoro all'acquario.
Era convinta di non avere niente da perdere. La cosa peggiore che potesse capitarle
era che si rifiutasse di parlarle, il che l'avrebbe lasciata nella stessa posizione in cui si
trovava ora. Non si aspettava che cambiasse idea, e non voleva farsi troppe illusioni,
ma doveva fare un tentativo. In fondo, il ragionamento di Will filava: Blaze non era
come Marcus del tutto priva di coscienza, e di sicuro doveva sentirsi almeno un po' in
colpa.
Non impiegò molto a trovarla. Era seduta sulla duna vicino al molo, a guardare i
surfisti. Non disse niente quando Ronnie le si avvicinò.
Non sapeva bene da dove cominciare, così partì dalla cosa più ovvia.
«Ciao, Blaze», la salutò.
Lei non rispose, e Ronnie si fece coraggio e proseguì.
«So che probabilmente non vuoi parlare con me...»
«Sembri un uovo di Pasqua.»
Ronnie guardò la divisa che doveva indossare all'acquario: maglietta turchese con il
logo dell'acquario, calzoncini bianchi e scarpe bianche.
«Ho cercato di convincerli a farmi indossare una divisa nera, ma non c'è stato verso.»
«Peccato. Il nero è il tuo colore.» Blaze le rivolse un fugace sorriso.«Che cosa vuoi?»
Ronnie deglutì.«Quella notte non stavo cercando di rimorchiare Marcus. È stato lui a
venire da me, e penso che abbia detto quelle cose solo per farti ingelosire. Sono
sicura che non mi crederai, ma voglio che tu sappia che non ti avrei mai fatto niente
del genere. Non sono quel tipo di ragazza.» Aveva parlato di getto, ma se non altro
aveva detto tutto.
Dopo un attimo di silenzio, Blaze disse:«Lo so».
Non era la risposta che Ronnie si era aspettata.«Allora perché mi hai messo quelle
cose nella sacca?» chiese incredula.
Blaze la guardò.«Ero arrabbiata con te. Perché era chiaro che gli piacevi.»
Ronnie ricacciò in gola una battuta tagliente che avrebbe troncato definitivamente la
conversazione, e le diede l'opportunità di proseguire. Blaze tornò a guardare i
surfisti.«Ho visto che hai passato molto tempo con Will quest'estate.»
«Mi ha detto che voi due eravate amici.»
«Sì, è vero», confermò Blaze.«Molto tempo fa. È carino. Sei fortunata.» Si asciugò le
mani sui calzoni.«La mamma sposerà il suo fidanzato. Quando me lo ha detto,
abbiamo litigato di brutto e lei mi ha cacciato di casa. Ha cambiato le serrature e non
vuole più farmi entrare.»
«Mi spiace», disse Ronnie sincera.
«Sopravviverò.»
Ronnie pensò alle analogie della loro vita - divorzio, rabbia e ribellione, un nuovo
matrimonio per uno dei genitori - eppure, nonostante queste somiglianze, loro non
erano affatto uguali. Blaze era cambiata dall'inizio dell'estate. Aveva perso lo slancio
vitale che Ronnie aveva notato al loro primo incontro, e sembrava invecchiata, come
se fossero passati anni invece che settimane. Aveva gli occhi cerchiati e la pelle
opaca. Era anche dimagrita. Un sacco. Per qualche strana ragione, era come se
Ronnie si trovasse davanti la persona che avrebbe potuto diventare, e non le piaceva
proprio.
«Quello che mi hai fatto è sbagliato», disse Ronnie,«ma puoi ancora rimediare.»
Blaze fece segno di no.«Marcus non me lo permetterà. Ha detto che non mi
parlerebbe più.»
Di fronte alla sua voce priva di emozione, Ronnie provò l'impulso di scrollarla. Blaze
sembrò intuire quello che pensava l'altra e con un sospiro proseguì.
«Non so dove altro andare. La mamma ha telefonato a tutti i parenti per avvisarli di
non accogliermi. Ha detto che per lei è difficile, ma che quello che mi serve ora è un
'amore duro'. Non ho più soldi nemmeno per mangiare e, se non voglio passare il
resto della vita a dormire sulla spiaggia, devo fare quello che dice Marcus. Quando è
arrabbiato con me, non mi permette neppure di fare la doccia nella sua camera. E non
mi dà neanche un soldo per gli spettacoli che facciamo, quindi non posso mangiare. A
volte mi tratta come se fossi un cane e io lo detesto. Ma che cosa posso fare?»
«Hai provato a parlare con tua madre?»
«A che cosa servirebbe? Lei mi ritiene una causa persa e mi odia.»
«Sono sicura che non ti odia.»
«Tu non la conosci come la conosco io.»
Ronnie ripensò alla volta in cui era stata a casa di Blaze e aveva visto i soldi infilati
nella busta. Non le sembrava la stessa madre, ma non voleva dire niente. In silenzio
Blaze si alzò. Aveva gli abiti sporchi e stropicciati, come se li avesse indossati per
una settimana di fila.
«So che cosa vorresti che facessi», disse.«Ma non posso. E non è perché mi sei
antipatica. Al contrario. Ti trovo simpatica e non avrei dovuto fare quella cosa. Ma
sono in trappola. E non credo che Marcus abbia ancora finito con te.»
Ronnie si irrigidì.«Che cosa vuoi dire?»
Blaze si alzò.«Ha ricominciato a nominarti. E non in maniera positiva. Se fossi in te
gli starei alla larga.»
Prima che Ronnie potesse rispondere, Blaze si incamminò.
«Ehi, Blaze», la chiamò lei.
La ragazza si voltò lentamente.
«Se avessi bisogno di qualcosa da mangiare o di un posto dove stare, sai dove abito.»
Per un istante, Ronnie ebbe l'impressione di scorgere un lampo di gratitudine nei suoi
occhi che le ricordò la ragazza sveglia e vivace che aveva conosciuto a giugno.
«Un'altra cosa», aggiunse.«Quella roba con il fuoco che fai con Marcus è
pericolosa.»
Blaze le rivolse un sorriso triste.«Credi che sia più pericolosa di tutto quello che mi
sta succedendo?»
Il pomeriggio seguente, Ronnie era davanti all'armadio, senza sapere che cosa
indossare. Per andare al matrimonio - cosa di cui non era ancora sicura - non aveva
niente di neppure lontanamente appropriato, a meno che non si trattasse di un
matrimonio con Ozzy Osbourne e la sua band.
Si trattava invece di un'occasione formale: smoking e abiti da cerimonia erano
richiesti anche per gli ospiti e non soltanto per i parenti. Quando aveva fatto le valigie
per trascorrere l'estate lì, non si era neppure sognata di dover partecipare a un evento
simile. Non si era portata nemmeno le scarpe nere con il tacco che la mamma le
aveva comperato il Natale precedente, quelle che erano ancora nella scatola.
Non riusciva proprio a capire perché Will la volesse lì. Anche se avesse trovato il
modo di rendersi presentabile, non conosceva nessuno. Will era il fratello della sposa,
e ciò significava che avrebbe dovuto fare tonnellate di foto durante il ricevimento, e
inoltre si sarebbe seduto al tavolo d'onore, così non avrebbero avuto modo neppure di
stare insieme al banchetto. Probabilmente lei sarebbe finita a un tavolo con un
governatore oppure un senatore o qualche famiglia arrivata con il jet privato... come
minimo. Se a questo si aggiungeva il fatto che Susan la detestava, il tutto era una
pessima idea. Davvero pessima. Orribile da ogni punto di vista.
D'altra parte...
Quando avrebbe avuto un'altra occasione di essere invitata a un matrimonio simile? A
quanto pareva la casa era stata sottoposta a una vera e propria trasformazione nelle
ultime settimane: sulla piscina era stata costruita una tettoia, erano state innalzate
tende, piantati decine di migliaia di fiori, e, non solo erano state noleggiate delle luci
dagli studi cinematografici di Wilmington, ma erano stati assunti anche i tecnici per
sistemarle e azionarle. Il catering era curato da tre diversi ristoranti, e il responsabile
di tutta l'operazione era un cuoco che Susan conosceva da Boston, che tempo prima
era stato preso in considerazione come capocuoco alla Casa Bianca. Era tutto ai
massimi livelli, di sicuro il contrario di ciò che lei immaginava per il proprio
matrimonio - il suo stile si avvicinava piuttosto a una cerimonia su qualche spiaggia
in Messico con al massimo una decina di invitati - ma probabilmente era proprio
quello il fascino della cosa. Non avrebbe mai più partecipato a una cerimonia del
genere.
Sempre ammesso di trovare qualcosa da indossare. In tutta sincerità non sapeva
neppure perché si fosse messa a cercare nell'armadio. Non aveva la bacchetta magica
e non poteva trasformare un paio di jeans in un abito né fingere che un nuovo taglio
di capelli potesse indurre gli altri a non notare la sua maglietta. L'unico completo
relativamente decente che possedeva, l'unico che Susan forse non avrebbe trovato
ripugnante se l'avesse incrociata andando al cinema, era l'uniforme che indossava
all'acquario, quella che la faceva assomigliare a un uovo di Pasqua.
«Che cosa stai facendo?»
Jonah era fermo sulla soglia e la guardava.
«Devo trovare qualcosa da mettere», rispose lei di malumore.
«Devi uscire?»
«No, mi riferivo al matrimonio.»
Lui piegò la testa di lato.«Vuoi sposarti?»
«Certo che no. È il matrimonio della sorella di Will.»
«Come si chiama?»
«Megan.»
«È carina?»
«Non saprei. Non l'ho mai vista.»
«Allora perché vai al suo matrimonio?»
«Perché me l'ha chiesto Will. Funziona così», spiegò.
«Lui può portare un ospite al matrimonio. E io sono quell'ospite.»
«Ah», fece lui.«Come ti vestirai?»
«Non lo so. Non ho niente da mettere.»
«Così stai bene.»
Il completo da uovo di Pasqua. Naturale.
Lei si guardò la maglietta.«Non posso mettermi questo. È un matrimonio formale.
Devo indossare un vestito.»
«Ce l'hai un vestito nell'armadio?»
«No.»
«Allora perché stai li davanti?»
Giusto, pensò lei, richiudendo l'anta. Si lasciò cadere sul letto.
«Hai ragione», disse.«Non posso andarci, semplice.»
«Tu ci vuoi andare?» chiese Jonah curioso.
In un attimo la sua mente passò da assolutamente no a forse un po' e infine a
decisamente sì. Piegò le gambe sotto di sé.«Will vuole che ci vada. Per lui è
importante. E sarebbe di sicuro un evento.»
«Allora perché non ti compri un vestito?»
«Perché non ho i soldi», rispose lei.
«Oh», esclamò lui,«allora non c'è problema.» Andò verso la scrivania. Da una parte
appoggiato in equilibrio c'era il modellino di un aeroplano; lo prese e lo portò dalla
sorella svitando il muso. Poi versò il contenuto sul letto di Ronnie, sotto il suo
sguardo stupefatto. Aveva raccolto una somma ingente. Dovevano essere almeno
qualche centinaio di dollari.
«È la mia banca», disse pulendosi il naso.«Li ho messi via da un po'.»
«Dove li hai presi?»
Jonah indicò una banconota da dieci dollari.«Questa è quella che mi hai dato per non
dire a papà che ti avevo visto la sera della sagra.» Indicò una moneta da un
dollaro.«Questa è per non dire a papà quello che stavi facendo con Will.» Continuò a
indicare altre monete e banconote.«Questa è per il tizio con i capelli blu e questi
vengono dalle partite di poker bugiardo. Questo è per quella volta che sei tornata
dopo il coprifuoco...»
«Va bene, ho capito. Hai tenuto da parte tutto?»
«Che cosa avrei dovuto farci?» ribatté lui.«Mamma e papà mi comprano tutto quello
che mi serve. Mi basta essere abbastanza insistente. È piuttosto facile ottenere quello
che voglio. Basta conoscere la strategia giusta. La mamma deve vedermi piangere,
mentre papà vuole che gli spieghi perché me lo merito.»
Ronnie sorrise. Suo fratello, il ricattatore-psicologo. Stupefacente.
«Quindi a me non servono. E Will mi piace. Ti rende felice.»
Sì, pensò lei, è vero.
«Sei davvero un fratellino bravissimo, lo sai?»
«Lo so. Puoi avere tutto quanto, ma a una condizione.»
Eccoci, pensò lei.«Quale?»
«Non verrò in giro per negozi con te. È noioso.»
Lei non impiegò molto tempo a prendere una decisione.«Affare fatto.»
Ronnie si guardava allo specchio, incredula di fronte alla propria immagine. Era il
mattino del matrimonio e lei aveva trascorso i quattro giorni precedenti provando gli
abiti di tutti i negozi della città, camminando avanti e indietro con diverse paia di
scarpe nuove, e passando ore e ore dal parrucchiere.
Aveva impiegato un mucchio di tempo ad arricciare e asciugare i capelli per ottenere
la pettinatura che le aveva insegnato la parrucchiera. Mentre era seduta al salone,
aveva anche chiesto consigli sul trucco, e la ragazza le aveva dato qualche
suggerimento che Ronnie aveva seguito alla lettera. L'abito aveva una profonda
scollatura a V ed era decorato di paillettes nere, ben diverso da qualunque cosa si
fosse mai immaginata di indossare.
Non ti riconosco, disse Ronnie alla propria immagine riflessa, girandosi da una parte
all'altra. Non ti ho mai vista prima. Si sistemò meglio l'abito. Era davvero carina,
doveva ammetterlo. Sorrise. E decisamente in forma per il
matrimonio.
S'infilò le scarpe mentre usciva dalla porta e si diresse in salotto. Il padre era di
nuovo intento a leggere la Bibbia e Jonah stava guardando i cartoni, come al solito.
Quando alzarono gli occhi, rimasero stupefatti.«Porca miseria», esclamò Jonah. Il
padre gli lanciò un'occhiata severa.«Non dovresti
dire certe cose.»
«Quali cose?» domandò Jonah.«Lo sai benissimo.»
«Scusa, papà», rispose lui contrito.«Volevo dire accipicchia», precisò.
Ronnie e il padre scoppiarono a ridere e Jonah guardò
prima l'uno poi l'altra.«Che cosa c'è?»
«Niente», disse il padre. Jonah si avvicinò alla sorella
per guardarla meglio.
«Che cosa è successo alla ciocca viola che avevi?»
chiese.«È sparita.»
Ronnie si sfiorò i boccoli.«Temporaneamente», rispose.«Va bene?»
Prima che il padre potesse rispondere, Jonah intervenne.«Sei di nuovo normale. Ma
non sembri più mia sorella.»
«Sei bellissima», si affrettò a dire il padre. Con sua stessa sorpresa, Ronnie tirò un
sospiro di sollievo.«Il vestito va bene?»
«È perfetto», le assicurò Steve.
«E le scarpe? Non sono sicura che siano intonate all'abito.»
«Vanno benissimo.»
«Ho cercato di truccarmi e di mettermi lo smalto...» Prima che lei potesse finire, il
padre la interruppe.«Non sei mai stata così bella», disse.«Anzi, non credo che esista
nessuna più bella di te.»
Aveva ripetuto la stessa cosa almeno un centinaio di
volte.«Papà...»
«Dice sul serio», si intromise Jonah.«Sei uno schianto. Sono sincero. Quasi non ti
riconoscevo...»
Lei lo guardò fingendosi indignata.«Significa che di solito non ti piace come vado in
giro?»
Lui alzò le spalle.«A nessuno piacciono i capelli viola,
a parte gli eccentrici.»
Quando scoppiò a ridere, si accorse che il padre le sorrideva.
«Uau», fu tutto quello che Steve riuscì a dire.
Mezz'ora dopo varcava i cancelli della proprietà Blakelee, con il cuore in gola.
Avevano appena superato il posto di blocco degli agenti della stradale che
controllavano l'identità dei nuovi arrivati e adesso erano stati fermati da altri uomini
in uniforme che volevano parcheggiare la loro auto. Suo padre cercò di spiegare con
calma che lui la stava soltanto accompagnando, ma la sua risposta sembrava non
avere senso per i tre valletti che non riuscivano ad afferrare l'idea che un ospite del
matrimonio non arrivasse con la propria macchina.
Per quanto riguardava la scenografia... Ronnie doveva ammettere che era spettacolare
come un set cinematografico. C'erano fiori dappertutto, le siepi erano state potate alla
perfezione e persino il muro di mattoni e stucco intorno alla proprietà era stato
ritinteggiato.
Quando riuscirono a raggiungere la rotonda davanti alla casa, il padre rimase per un
istante a fissare allibito l'imponente costruzione. Alla fine si voltò verso la figlia.
«Questa è la casa di Will?»
«Esatto», rispose. Immaginava che cosa avrebbe detto: che era immensa, oppure che
non si era reso conto di quanto fosse ricca la sua famiglia, o se lei si sentisse a suo
agio in un posto del genere. Invece le sorrise senza nessuna traccia di rimprovero.
«Che luogo incantevole per un matrimonio.»
Guidava con prudenza, evitando di attirare ulteriore attenzione sulla loro vecchia
auto. In realtà si trattava di quella del pastore Harris, una berlina dallo stile spigoloso
che era fuori produzione dagli anni Novanta; ma funzionava e in quel momento
andava benissimo. Le facevano già male i piedi. Non riusciva proprio a capire come
certe donne potessero portare i tacchi alti tutti i giorni. Anche da seduta, le
sembravano strumenti di tortura. Si sarebbe dovuta incerottare le dita. Inoltre l'abito
non era fatto per stare seduta; la pungeva nelle costole e le impediva di respirare. Ma
forse, era il nervosismo a toglierle il fiato.
Il padre procedeva seguendo la fila delle altre macchine, lo sguardo fisso sulla casa
come era capitato a lei la prima volta che l'aveva vista. Sebbene ormai avrebbe
dovuto esserci abituata, quel posto la intimidiva ancora.
Se a questo si aggiungevano gli ospiti non poteva fare a meno di sentirsi fuori luogo.
Non era proprio il suo ambiente.
Poco più avanti un uomo con l'abito scuro faceva segno alle auto, e prima che lei se
ne rendesse conto, venne il momento di scendere. L'uomo le tenne aperta la portiera e
le offrì la mano per aiutarla mentre suo padre le accarezzava una gamba.
«Puoi farcela.» Le sorrise.«E ricorda che sono fiero di te.»
«Grazie, papà.»
Si guardò un'ultima volta nello specchietto prima di uscire dall'auto. Poi si sistemò
l'abito, trovando più facile respirare ora che stava in piedi. La ringhiera della veranda
era decorata con gigli e tulipani e, mentre saliva i gradini, la porta d'ingresso si
spalancò.
Con lo smoking Will era del tutto diverso dal giocatore di pallavolo a torso nudo che
aveva incontrato la prima volta, o dal ragazzo che l'aveva portata a pescare; in un
certo senso era come vedere in anticipo il sofisticato imprenditore di successo che
sarebbe diventato nel giro di pochi anni. Per qualche motivo non si era aspettata di
trovarlo così... raffinato, e stava per fare una battuta su come lui si fosse ripulito per
benino, quando si rese conto che non l'aveva neppure salutata.
Per qualche minuto lui rimase a guardarla senza parlare. A mano a mano che il
silenzio si prolungava, lo sfarfallio che lei sentiva allo stomaco si trasformò in un
battito d'ali, e non potè fare a meno di pensare di avere fatto qualcosa di sbagliato.
Forse era arrivata troppo presto, o magari aveva esagerato con il vestito o il trucco.
Non sapeva che cosa pensare e stava immaginando il peggio, quando Will le sorrise.
«Sei... bellissima», disse e a quelle parole lei si rilassò. Almeno in parte. Non aveva
ancora visto Susan e fino ad allora non era fuori pericolo. Tuttavia, era soddisfatta
che Will apprezzasse ciò che vedeva.
«Non credi che abbia esagerato?» domandò.
Will fece un passo verso di lei e le posò le mani sui fianchi. «Assolutamente no.»
«Ma non è neppure troppo poco, giusto?»
«È perfetto», bisbigliò lui.
Lei gli raddrizzò il farfallino, poi gli gettò le braccia al collo. «Devo ammettere che
anche tu sei niente male.»
La giornata non fu brutta come aveva temuto. La maggior parte delle fotografie erano
già state scattate prima dell'arrivo degli ospiti, così lei e Will ebbero tempo di stare un
po' insieme prima della cerimonia. Passeggiarono per la tenuta, e Ronnie rimase
stupefatta dai cambiamenti realizzati. Will non aveva scherzato: il retro della casa era
stato rinnovato e la piscina era stata coperta da una tettoia che non aveva nulla di
provvisorio. File di sedie erano sistemate sul prato di fronte a un graticcio bianco
sotto il quale Megan e il suo fidanzato si sarebbero scambiati la promessa di
matrimonio. Erano stati costruiti anche nuovi vialetti che rendevano più facile
l'accesso alle decine di tavoli dove avrebbero consumato la cena sotto una gigantesca
tenda bianca. Qua e là c'erano cinque o sei sculture di ghiaccio abbastanza grandi da
restare in forma per ore, ma quello che la incantò furono i fiori: tutto il giardino era
un mare di tulipani e gigli.
La folla degli invitati era pressappoco come se l'aspettava. A parte Will, gli unici
ospiti che conosceva erano Scott, Ashley e Cassie, e nessuno di loro sembrava
particolarmente entusiasta di vederla. Non che le importasse. Una volta seduti al loro
posto, tutti, a eccezione di Will forse, avrebbero rivolto la propria attenzione
all'imminente arrivo di Megan. Will sembrava non riuscire a distogliere lo sguardo da
Ronnie mentre prendeva posto sotto il pergolato.
Siccome voleva rimanere il più in disparte possibile, Ronnie scelse un posto nelle
ultime file lontano dal corridoio centrale. Fino a quel momento non aveva ancora
visto Susan, probabilmente intenta a completare gli ultimi preparativi, e si augurava
che la donna non notasse la sua presenza fino a dopo la cerimonia. Fosse stato per lei,
Susan non l'avrebbe notata neanche allora, ma era assai improbabile, visto che
avrebbe trascorso così tanto tempo con Will.
«Mi scusi», sentì dire da qualcuno. Alzò gli occhi e vide un uomo anziano e la moglie
che cercavano di passare oltre lei verso gli ultimi posti nella fila.
«Forse è meglio che scorra io», si offrì.
«Ne è sicura?»
«Nessun problema», rispose spostandosi nell'ultima sedia. L'uomo le risultava in
qualche modo familiare, ma l'unica cosa che le veniva in mente, l'unico possibile
legame, era l'acquario, che tuttavia non le sembrava quello giusto.
Prima che potesse pensarci, un quartetto d'archi intonò le prime note della marcia
nuziale. Ronnie si girò verso la casa, insieme con tutti gli altri invitati. Udì un
mormorio di sorpresa quando Megan comparve in cima ai gradini della veranda.
Mentre la guardava scendere verso il padre che l'aspettava in fondo alla scala, Ronnie
capì che Megan era la sposa più incantevole che avesse mai visto.
Catturata dallo spettacolo offerto dalla sorella di Will, non si rese conto che l'uomo
anziano seduto lì accanto sembrava più interessato a lei che alla sposa.
La cerimonia fu molto bella. Il pastore lesse un brano dalla Seconda Lettera ai
Corinzi e poi Megan e Daniel recitarono le promesse che avevano scritto insieme. Si
promisero pazienza quando era facile cedere alla fretta, sincerità quando era più facile
mentire e a modo loro riconobbero entrambi il fatto che il vero impegno reciproco
poteva essere dimostrato soltanto con il passare del tempo.
Megan le piaceva. Agli altri matrimoni aveva sempre avuto la sensazione che le spose
stessero recitando una parte, e più d'una volta le era capitato di vederle turbarsi se
qualcosa non andava secondo il copione. Megan, viceversa, sembrava apprezzare
sinceramente la giornata. Mentre il padre l'accompagnava verso l'altare, ammiccò ad
alcune amiche e si fermò ad abbracciare la nonna. Quando il paggetto che portava gli
anelli si fermò a metà della passatoia per salire in braccio alla mamma, Megan rise
divertita, dissipando il momento di tensione.
In seguito si mostrò meno interessata a farsi ritrarre in altre foto piuttosto che a
parlare con gli ospiti. Doveva essere incredibilmente sicura di sé, oppure del tutto
ignara dello stress con cui la madre aveva affrontato l'organizzazione di ogni minimo
dettaglio. Anche da lontano, Ronnie si rendeva conto che niente stava andando come
aveva previsto Susan.
«Mi devi un ballo», mormorò Will.
Voltandosi rimase colpita dalla sua bellezza.«Non mi sembra che facesse parte del
nostro accordo», ribatté.«Avevi detto di volermi al matrimonio e basta.»
«Che cosa? Non vuoi ballare con me?»
«Non c'è musica.»
«Mi riferisco a dopo.»
«Oh», fece lei.«Allora, in questo caso, potrei farci un pensierino. Ma non dovresti
andare a fare le foto?»
«Ci sono stato per ore. Avevo bisogno di una pausa.»
«Ti fanno male le guance a forza di sorridere?»
«Qualcosa del genere. A proposito, ti informo che sarai seduta al tavolo sedici con
Scott, Ashley e Cassie.»
Che bello.«Magnifico», disse.
Lui rise.«Vedrai che non sarà così terribile come pensi. Si comporteranno in maniera
impeccabile. Altrimenti è probabile che la mamma mozzi loro la testa.»
Ora toccò a Ronnie ridere.«Di' a tua madre che ha fatto uno splendido lavoro. È tutto
molto bello.»
«Lo farò», rispose Will. Continuò a guardarla finché entrambi sentirono qualcuno
chiamare il nome di lui. Quando si voltarono, a Ronnie sembrò che Megan fosse
divertita dal fatto che il fratello si fosse assentato per qualche momento.«Ora devo
andare», le disse.«Ma verrò a trovarti durante la cena. E non dimenticare il nostro
ballo.»
Era davvero di una bellezza mozzafiato, pensò lei.«Ti avverto che i piedi mi fanno
già male.»
Lui si portò una mano sul cuore.«Ti prometto che non mi prenderò gioco di te se
zoppichi.»
«Grazie tante.»
Si chinò verso di lei e la baciò.«Ti ho già detto quanto sei bella stasera?»
Lei sorrise, sentendo ancora il sapore delle sue labbra.«Negli ultimi venti minuti no.
Ma ora sarà meglio che tu vada. C'è bisogno di te altrove, e non voglio finire nei
guai.»
Lui la baciò di nuovo prima di unirsi agli altri. Assalita da un impeto di contentezza,
lei si guardò in giro e si accorse che l'uomo anziano a cui aveva lasciato il posto la
fissava di nuovo.
A cena Scott, Cassie ed Ashley non fecero alcuno sforzo per coinvolgerla nella
conversazione, ma a lei non importava granché. Non aveva voglia di parlare con loro,
e non era particolarmente affamata. Dopo avere assaggiato qualche boccone, si scusò
e si diresse verso la veranda. Da lì poteva godere una vista panoramica del banchetto,
ancora più incantevole nella luce della sera. Le tende sembravano brillare sotto il
chiarore argenteo della luna. Brandelli di conversazione le giungevano mescolati alla
musica e si sorprese a chiedersi che cosa avrebbe fatto se in quel momento si fosse
trovata a New York. Con il passare dell'estate, aveva diradato sempre più le telefonate
con Kayla. Pur continuando a considerarla sua amica, si rendeva conto di non
rimpiangere il mondo che si era lasciata nella metropoli. Non sentiva affatto la
mancanza dei club newyorkesi e quando Kayla le aveva parlato dell'ultimo fantastico
ragazzo che aveva conosciuto, il pensiero di Ronnie si era rivolto immancabilmente a
Will. Sapeva che di chiunque si fosse invaghita Kayla, non era niente a paragone di
Will.
Con l'amica non aveva parlato molto di lui. Kayla sapeva che continuavano a
frequentarsi, ma tutte le volte che lei raccontava qualcosa che avevano fatto insieme
-fosse andare a pesca o infangarsi o passeggiare sulla spiaggia - aveva la sensazione
che Kayla fosse su un'altra lunghezza d'onda. Non riusciva ad accettare il fatto che
Ronnie stesse bene semplicemente in compagnia di Will, e Ronnie non poteva fare a
meno di chiedersi che cosa avrebbe significato questo per la loro amicizia una volta
che fosse tornata a New York. Sapeva di essere cambiata nelle settimane trascorse lì,
mentre Kayla, in apparenza, non lo era affatto. Ronnie si accorse di non avere il
minimo interesse nel frequentare i club. A ripensarci, si chiedeva addirittura che cosa
ci avesse trovato di tanto interessante finora. Se tutto era tanto entusiasmante, perché
la gente beveva o si drogava nella speranza di aumentare l'intensità dell'esperienza?
Per lei non aveva senso, e con il rumore dell'oceano in sottofondo, si rese conto di
non averlo mai capito.
Desiderava anche avere un rapporto migliore con la mamma. Suo padre le aveva
insegnato che i genitori potevano essere persone positive e, sebbene non si facesse
illusioni sul fatto che la mamma si fidasse di lei come papà, sapeva che la tensione
nel loro rapporto proveniva da entrambe le parti. Forse, se avesse cercato di parlarle
nello stesso modo in cui parlava con il padre, le cose tra loro avrebbero cominciato a
migliorare.
Era strano ciò che poteva capitare a una persona quando era costretta a rallentare il
ritmo.
«Sai, la cosa finirà», disse qualcuno alle sue spalle.
Immersa nei suoi pensieri, non aveva sentito Ashley avvicinarsi, ma riconobbe la sua
voce.
«Come dici scusa?» Si voltò a guardarla con aria diffidente.
«Sono contenta che Will ti abbia invitato al matrimonio. Sarà meglio che tu ti diverta,
perché non durerà. Tra un paio di settimane lui partirà. Ci hai pensato?»
«Non vedo come questo ti riguardi.»
«Anche se pensate di vedervi, credi davvero che la mamma di Will ti accetterà?»
proseguì Ashley. «Megan è stata fidanzata due volte prima d'ora e sua madre l'ha
costretta a rompere in entrambi i casi. E farà lo stesso con Will, che ti piaccia o meno.
E anche se non lo facesse, tu te ne andrai e lui pure, quindi non durerà.»
Ronnie si irrigidì, provando una rabbia sorda verso Ashley per avere dato voce ai suoi
pensieri più tetri. Era stanca di lei e ormai aveva raggiunto il limite della
sopportazione.
«Senti, Ashley», disse andandole vicino,«voglio dirti una cosa. E voglio che tu faccia
attenzione, in modo che ti risulti chiara.» Fece un altro passo avanti finché i loro piedi
si sfiorarono.«Sono stufa marcia di sentire le tue opinioni non richieste, così se provi
a dirmi di nuovo qualcosa, giuro che ti darò un pugno. Capito?»
Qualcosa nell'espressione di Ronnie convinse Ashley che faceva sul serio, perché si
voltò in fretta e, senza dire niente, si rifugiò al sicuro sotto la tenda.
Più tardi, sul pontile, Ronnie era contenta di avere dato una lezione ad Ashley, ma le
parole sprezzanti di lei continuavano a tormentarla. Mancavano solo due settimane
alla partenza di Will per la Vanderbilt, e lei stessa sarebbe partita la settimana
successiva. Non sapeva cosa sarebbe successo, ma di sicuro le cose sarebbero
cambiate.
Come sarebbe stato possibile il contrario? Il loro rapporto si basava su una
frequentazione quotidiana, e per quanto si sforzasse, non riusciva a immaginare come
sarebbe stato comunicare per telefono o per SMS. Sapeva anche che avrebbero potuto
vedersi di tanto in tanto ma non sarebbe stata la stessa cosa.
E questo significava?...
Alle sue spalle il ricevimento era al culmine. Le sedie erano state tolte da sotto la
tettoia per creare una pista da ballo e dal pontile aveva visto Will ballare almeno due
volte con la damigella di sei anni, e una volta con sua sorella. Ronnie aveva sorriso.
Pochi minuti dopo il suo scambio di battute con Ashley, aveva guardato Megan e
Daniel tagliare la torta. La musica era ripresa e Megan aveva ballato con il padre e
quando aveva lanciato il bouquet, Ronnie era sicura che tutti nel raggio di un
chilometro avessero udito il grido di entusiasmo della giovane che lo aveva preso.
«Eccoti qui», disse Will interrompendo le sue riflessioni.«Ti ho cercata dappertutto. È
il momento del nostro ballo.»
Lo guardò mentre la raggiungeva, e quando scese gli ultimi gradini, si voltò a
osservare il lieve sciabordio dell'acqua.
Lui si rese subito conto che c'era qualcosa che non andava.
«Che cosa succede?»
Vedendo che non rispondeva, le accarezzò i capelli.«Dimmelo», mormorò.
Lei chiuse gli occhi per un istante prima di girarsi a guardarlo.«Dove ci porterà tutto
questo? Cosa ne sarà di noi?»
Will la fissò preoccupato.«Non capisco, cosa vuoi dire?»
Lei sorrise malinconica.«Lo sai benissimo. Non sarà la stessa cosa.»
«Non significa che debba finire...»
«Tu la fai semplice.»
«Non è difficile andare da Nashville a New York. Saranno... due ore di volo? Non
devo venirci a piedi.»
«Verrai a trovarmi?» chiese Ronnie con voce incerta.
«Contavo di farlo. E spero che anche tu verrai a Nashville. Potremmo partecipare al
Grand Ole Opry, alla radio.»
Lei rise nonostante l'angoscia che sentiva dentro.
Lui l'abbracciò.«Non so perché ci stai pensando proprio adesso, ma ti sbagli. Voglio
dire, so che non sarà la stessa cosa, ma non significa che non possa essere migliore.
Mia sorella vive a New York, ricordi? E l'università non dura tutto l'anno. Ci sono
vacanze in autunno e in primavera, e poi a Natale e d'estate. E come ho detto, il
viaggio è abbastanza veloce, nel caso volessimo prenderci un weekend di tanto in
tanto.»
Ronnie si chiedeva che cosa ne pensassero i suoi genitori, ma non disse nulla.
«Hai dei dubbi?» chiese lui.«Non vuoi nemmeno provarci?»
«Certo che voglio.»
«Allora troveremo il modo di far funzionare le cose, d'accordo?» Lui tacque per un
istante.«Voglio stare con te il più possibile, Ronnie. Mi piaci e sei sincera. Mi fido di
te. Mi fido di noi. È vero, io partirò e tu tornerai a casa. Ma queste cose non
cambieranno ciò che provo per te. E i miei sentimenti non cambieranno soltanto
perché vado alla Vanderbilt. Ti amo più di quanto abbia mai amato qualcuno.»
Lei sapeva che era sincero, ma una vocina insistente dentro di lei si chiedeva quanti
amori estivi riuscivano a superare la prova del tempo. Non molti, e i sentimenti non
c'entravano. Le persone cambiavano. I loro interessi cambiavano. Le bastava
guardarsi allo specchio per averne la conferma. Tuttavia l'idea di perderlo le era
insopportabile. Era lui il ragazzo che amava e quando si chinò a baciarla, gli si offrì
totalmente.
Quando lui parlò, la sua voce era insieme esitante e appassionata.«Vuoi venire con
me sulla barca di mio padre?»
Lei fu scossa da un brivido.«D'accordo», bisbigliò.
Will le strinse la mano e lei ebbe l'impressione che fosse nervoso quanto lei mentre la
conduceva verso la barca. Sapeva che avrebbe potuto cambiare idea, ma non voleva
fermarsi. Voleva che la sua prima volta fosse importante, che accadesse con qualcuno
che amava profondamente. Mentre si avvicinavano alla barca, lei stava quasi
dimenticando ciò che la circondava; l'aria si era rinfrescata e con la coda dell'occhio
vedeva gli ospiti muoversi sulla pista da ballo. In un angolo scorse Susan che parlava
con l'uomo anziano che l'aveva osservata prima e fu colpita di nuovo dalla spiacevole
sensazione di conoscerlo.
«Ma che bel discorsetto, mi sarebbe piaciuto registrarlo», udì qualcuno biascicare.
Will trasalì. La voce proveniva dall'estremità più lontana del pontile. Sebbene
rimanesse nascosto nell'ombra, Ronnie indovinò subito chi era. Blaze l'aveva
avvertita che sarebbe potuto accadere qualcosa del genere. Marcus sbucò da dietro un
palo e accese una pallina di fuoco.
«Dico sul serio, Mr. Dollaro. L'hai davvero conquistata.» Sogghignò.«Quasi,
almeno.»
Will fece un passo avanti.«Vattene!»
Marcus si fece rotolare la palla di fuoco tra le dita.«Altrimenti? Chiamerai la polizia?
Sai che è meglio non farlo.»
Will si irrigidì. Marcus doveva averlo colpito nel vivo, anche se Ronnie non riusciva
a capire perché.
«Sei su una proprietà privata», disse Will, ma la sua voce non era sicura come
avrebbe dovuto.
«Questa zona della città mi piace molto, a te no? Tutti da queste parti sono tipi da
country club, hanno costruito questo bel vialetto in riva al canale che va da una casa
all'altra. Mi piace venire a passeggiare qui, sai? Mi piace il panorama.»
«Questo è il matrimonio di mia sorella», sibilò Will.
«Ho sempre trovato tua sorella molto bella», disse Marcus. «Una volta le avevo
persino chiesto di uscire. Ma quella zoccola mi ha dato picche. Ci credi?» Senza dare
a Will il tempo di rispondere, indicò verso la folla. «Ho visto Scott prima, spensierato
come se non avesse una preoccupazione al mondo. C'è da chiedersi se ha una
coscienza, eh? Ma del resto nemmeno la tua è tanto pulita, giusto? Scommetto che
non hai nemmeno detto alla mammina che la tua cara fidanzatina ladra finirà in
prigione.»
Will era teso come una corda di violino.
«Scommetto che il giudice sta provvedendo a informarla, giusto?»
Il giudice...
Di colpo Ronnie capì perché l'anziano signore le sembrava così familiare... e ora il
giudice stava parlando con Susan!
Trattenne il respiro.
Oh, Dio...
Questa consapevolezza la colpì nello stesso momento in cui Will le lasciava la mano.
Mentre si precipitava verso Marcus, questi gli lanciò contro la pallina di fuoco e
balzò dal pontile al sentiero. Si arrampicò fino al giardino, accanto all'angolo della
tenda, ma non era all'altezza di Will che lo raggiunse senza fatica e quando Marcus si
voltò all'indietro, Ronnie vide qualcosa nel suo viso che le fece capire che era
esattamente ciò che aveva voluto che
lui facesse.
Ebbe soltanto una frazione di secondo per chiedersi perché, prima di vedere Marcus
lanciarsi verso le funi che
sostenevano la tenda...
«Non farlo, Will! Fermati!» gridò, ma era troppo tardi.
Will si gettò su Marcus ed entrambi ricaddero in un
groviglio di funi e picchetti sfilatisi dal terreno. Piena di raccapriccio, Ronnie vide un
angolo della tenda cominciare a crollare.
La gente si mise a urlare e a scappare da tutte le parti, mentre una delle sculture di
ghiaccio si rovesciava con un tonfo tremendo. Will e Marcus continuavano a
dibattersi per terra, finché Marcus riuscì a liberarsi. Invece di continuare la lotta, si
rialzò e corse verso il vialetto, svanendo
oltre il cancello.
Nel caos che seguì, Ronnie si domandò se qualcuno si
sarebbe ricordato di avere visto Marcus.
Di sicuro però si ricordavano di lei. Seduta nello studio, le sembrava di avere di
nuovo dodici anni. Il suo unico desiderio era di allontanarsi il più possibile da lì e di
rifugiarsi a casa sotto le coperte.
Mentre sentiva la voce di Susan provenire dalla stanza accanto, non poteva fare a
meno di rivivere il momento
del crollo della tenda.
«Ha rovinato il matrimonio di tua sorella!»
«Non è stata lei!» gridò Will.«Ti ho raccontato com'è
andata!»
«Ti aspetti che io creda che un intruso si sia presentato alla festa e che tu abbia
cercato di fermarlo?»
«È quello che è successo!»
Ronnie non sapeva perché Will non nominasse Marcus, ma non glielo avrebbe
chiesto per niente al mondo. Da un momento all'altro si aspettava di sentire il rumore
di una sedia che sfondava la finestra. O di vederli piombare entrambi nello studio, in
modo che Susan potesse strozzarla.
«Will, per favore... Ammettendo anche che la tua storia sia vera, come era arrivato fin
qui? Tutti sanno quali sistemi di sicurezza abbiamo. Tra gli invitati c'erano tutti i
giudici della città. Lo sceriffo era di guardia alla strada d'accesso, santo cielo. Sono
sicura che sia implicata quella ragazza! Non m'inganni... te lo leggo in faccia che ho
ragione... e comunque che cosa ci facevi con lei vicino alla barca di tuo padre?»
Aveva pronunciato l'espressione «quella ragazza» come se Ronnie fosse qualcosa di
disgustoso che si era appiccicato alla suola della scarpa di Susan e che lei non
riusciva a togliere.
«Mamma...»
«Smettila! Non cercare neanche di scusarti! Era il matrimonio di Megan, Will, non lo
capisci? Il suo matrimonio! Sai quanto fosse importante per tutti noi. Sai quanto
abbiamo faticato tuo padre e io per preparare tutto!»
«Non volevo che succedesse...»
«Non ha importanza, Will.» Ronnie sentì Susan esplodere in un sospiro esasperato.
«Sapevi quello che sarebbe successo portandola qui. Sai che non è come noi...»
«Non le hai dato neppure una possibilità...»
«Il giudice Chambers l'ha riconosciuta! Mi ha detto che verrà giudicata tra pochi
giorni per furto aggravato.
Questo significa che o non lo sapevi e lei ti ha mentito, oppure lo sapevi e hai mentito
a noi.»
Dopo un silenzio carico di tensione, Will rispose con voce sommessa.
«Non te l'avevo detto perché sapevo che non avresti capito.»
«Will, tesoro... Non capisci che non va bene per te? Tu hai un futuro davanti.
Aspettavo che te ne rendessi conto da solo, ma evidentemente sei troppo coinvolto
per riuscire a vedere la situazione con lucidità. Non va bene per te. È di umile
estrazione. Umile! Estrazione!»
A mano a mano che le voci si infervoravano, Ronnie fu colpita da un'ondata di
nausea. Susan non aveva ragione su tutto, ma aveva indovinato una cosa: Ronnie era
il motivo della presenza di Marcus al matrimonio. Se soltanto si fosse fidata del
proprio istinto e fosse rimasta a casa! Quello non era il suo ambiente.
«Tutto bene?» chiese Tom. Era in piedi sulla soglia, e aveva in mano le chiavi della
macchina.
«Mi spiace davvero molto, signor Blakelee», sussurrò. «Non volevo creare alcun
problema.»
«Lo so», rispose lui. Nonostante le sue parole comprensive, Ronnie sapeva che era
molto turbato. E come dargli torto? Sebbene nessuno fosse rimasto gravemente ferito,
due ospiti erano finiti all'ospedale. Lui riusciva a dominare le proprie emozioni e di
questo gli era grata. Se avesse alzato la voce, sarebbe scoppiata a piangere.
«Vuoi che ti accompagni a casa? Là fuori c'è un bel caos in questo momento. Credo
che tuo padre faticherebbe a raggiungere la casa.»
Ronnie annuì. «Sì, per favore.» Si lisciò l'abito e si alzò, augurandosi di riuscire ad
arrivare a casa senza piangere. «Vorrebbe salutare Will da parte mia, e dirgli che
non lo vedrò più?»
Tom fece segno di sì. «Naturalmente, lo farò.»
Non pianse, ma rimase in silenzio per quello che fu il viaggio più lungo della sua
vita. Anche Tom non aprì bocca, sebbene la cosa non la sorprendesse.
Quando arrivò la casa era immersa nel silenzio; le luci erano spente e sia Jonah sia il
padre dormivano. Dal corridoio sentì il respiro di Steve; era profondo e pesante, come
se avesse avuto una lunga e faticosa giornata. Ma tutto ciò a cui riuscì a pensare
mentre s'infilava tra le lenzuola e cominciava a piangere era che nessuna giornata
poteva essere stata più lunga e più difficile di quella che aveva appena trascorso lei.
Aveva gli occhi ancora gonfi e arrossati quando qualcuno la scrollò per svegliarla.
Vide Jonah seduto sul letto
accanto a lei. «Devi alzarti!»
Le immagini della serata precedente e le cose che aveva detto Susan le riaffiorarono
impetuose alla memoria, provocandole un senso di nausea. «Non voglio.» «Non hai
scelta. C'è qualcuno per te.»
«Will?»
«No», rispose lui. «Qualcun altro.»
«Chiedi a papà se può pensarci lui», rispose tirandosi
le lenzuola sopra la testa.
«Lo farei, ma lei ha chiesto di te.»
«Chi?»
«Non saprei, sta aspettando qui fuori. Ed è uno schianto.»
Ronnie si infilò un paio di jeans e una maglietta e uscì sulla veranda. Non sapeva che
cosa aspettarsi, ma di certo non quello che si trovò davanti.
«Hai un aspetto terribile», disse Megan senza preamboli.
Portava un paio di calzoncini e un top, ma Jonah aveva visto giusto: da vicino era
persino più carina che al matrimonio. Emanava anche una sicurezza di sé che fece
sentire Ronnie molto più giovane della sua età.
«Mi spiace davvero di averti rovinato il matrimonio...»
esordì Ronnie.
Megan la interruppe.«Non mi hai rovinato il matrimonio», disse con un sorriso
storto.«Hai reso il ricevimento... memorabile...»
A quelle parole di Megan, Ronnie si sentì salire le lacrime agli occhi.
«Non piangere», le disse Megan dolcemente.«Non ti sto incolpando. Se la colpa è di
qualcuno, è di Marcus.» Ronnie sbatté gli occhi per lo stupore.«Sì, so che cosa è
successo. Dopo che la mamma ha finito con Will, io e lui abbiamo parlato. Credo di
avere capito tutto per filo e per segno. Quindi, come ti ho detto, non ti ritengo
responsabile. Marcus è un pazzo. Lo è sempre stato.»
Sebbene Megan si dimostrasse incredibilmente generosa riguardo tutta la faccenda, o
forse proprio per questo, la mortificazione di Ronnie non fece che aumentare.
«Hmm... se non sei venuta qui per prendertela con me, allora perché?» domandò
Ronnie con un filo di voce.
«Perché ho parlato con Will. Ma la ragione principale è perché voglio sapere una
cosa. E voglio che tu mi dica la verità.»
Ronnie provò un tuffo al cuore.«Che cosa vuoi sapere?»
«Se ami mio fratello.»
Ronnie non era sicura di avere sentito bene, ma lo sguardo di Megan era deciso. Del
resto, che cosa aveva da perdere? La loro storia era finita. La distanza avrebbe
completato la separazione, se prima non ci avesse pensato Susan.
Megan le aveva chiesto la verità e dopo la gentilezza che aveva dimostrato nei suoi
confronti, Ronnie sentiva di dovergliela dire.
«Sì.»
«Non è una cotta estiva?»
«No! Io e Will...» Tacque, non sapendo come spiegare, perché non c'erano parole per
descrivere ciò che li legava.
Guardandola in faccia, Megan sorrise.«Va bene», disse.«Ti credo.»
Ronnie la fissò perplessa e Megan scoppiò a ridere.«Ho una certa esperienza. Ho già
visto quell'espressione. Per esempio stamattina guardandomi allo specchio. Provo la
stessa cosa per Daniel, ma devo ammettere che è un po' strano vederla su di te.
Quando avevo diciassette anni non sapevo neppure che cosa fosse l'amore. Ma
quando capita, non c'è niente da fare, lo riconosci subito.»
Ronnie pensò che Will non aveva reso giustizia a sua sorella. Non era fantastica, era...
molto di più. Era il genere di persona che Ronnie avrebbe voluto diventare. Nel giro
di pochi minuti Megan si era trasformata in un'eroina.«Ti ringrazio», mormorò.«Non
ce n'è bisogno. Non lo sto facendo per te. Lo faccio per mio fratello, che è ancora
pazzo di te», disse con un sorriso ammiccante.«Comunque, siccome sei ancora
innamorata di lui, non dovresti preoccuparti di quanto è accaduto al ricevimento. In
realtà non hai fatto altro che fornire alla mamma una storia che racconterà per il resto
della sua vita. Credimi, ci ricamerà sopra un sacco, ma con il tempo supererà la cosa.
Come sempre succede.»
«Non so...»
«Perché non la conosci. Sì, certo, è tosta, non ti illudere. E protettiva. Ma non c'è al
mondo una mamma migliore di lei. Farebbe qualunque cosa per le persone che
ama.»
Era quello che aveva detto anche Will, ma Ronnie non
aveva la stessa opinione di Susan.
«Dovresti parlare con mio fratello», proseguì Megan seria, rimettendosi gli occhiali
da sole pronta ad andarsene.«Non preoccuparti, non ti sto dicendo di venire a casa
nostra. Tanto lui non c'è.»
«Dov'è?»
Megan fece un cenno alle proprie spalle verso il molo lontano.«Al torneo. La loro
prima partita comincia tra
quaranta minuti.»
Il torneo. Nel parapiglia che era successo, l'aveva dimenticato.
«L'ho incrociato stamani, ma quando l'ho lasciato era davvero a pezzi. Era sconvolto
per quanto accaduto e credo che non abbia chiuso occhio. Soprattutto dopo quello che
hai detto a papà. Devi rimettere a posto le cose.» La
sua voce era decisa.
Megan si voltò per scendere i gradini della veranda, ma poi si fermò a guardare
Ronnie un'ultima volta.«Sai una cosa? Io e Daniel abbiamo rimandato la luna di
miele di un giorno, per poter assistere al torneo del mio fratellino. Sarebbe davvero
bello se riuscisse a concentrarsi sul gioco. Forse ha finto il contrario, ma piazzarsi
bene nel torneo per lui è importante.»
Dopo avere fatto la doccia ed essersi vestita, Ronnie si precipitò in spiaggia; la zona
intorno al molo era gremita come la sera del suo arrivo.
Sul lato esterno erano state montate delle gradinate che racchiudevano due campi di
gioco dove avevano trovato posto almeno un migliaio di spettatori. Altri ancora erano
ammassati lungo il molo che forniva una panoramica dall'alto. Anche la spiaggia era
così affollata che Ronnie stentava a farsi largo e temeva di non arrivare in
tempo da Will.
Scrutando la folla, riconobbe alcuni dei giocatori delle altre squadre e questo la mise
ancora più in ansia. A quanto poteva vedere, non c'era una zona speciale riservata agli
atleti, e lei disperava di riuscire a individuare Will in mezzo a quella calca.
Mancavano dieci minuti all'inizio della partita e stava per rinunciare all'impresa,
quando finalmente lo vide mentre camminava con Scott accanto ad alcuni paramedici
appoggiati alla loro ambulanza. Togliendosi la maglietta, Will scomparve dietro il
mezzo di soccorso.
Lei si tuffò tra la folla, lanciando scuse frettolose a tutti quelli che spintonava. In
meno di un minuto raggiunse il punto in cui l'aveva visto poco prima, ma era
scomparso. Avanzò ancora, convinta di avere riconosciuto Scott. Mentre si
abbandonava a un sospiro di frustrazione, vide Will in piedi da solo all'ombra delle
gradinate.
Megan aveva visto giusto. Teneva le spalle curve come se fosse sfinito e non
mostrava nessun segno di esaltazione pre-partita.
Si fece largo tra gli ultimi spettatori poi si mise a correre per raggiungerlo. Per un
attimo le parve di scorgere un lampo di sorpresa sul suo viso, ma poi si voltò subito.
La sua reazione le fece capire quanto fosse addolorato e confuso. Avrebbe chiarito
ogni cosa con lui, ma non c'era tempo di farlo adesso, con la partita che stava per
cominciare. Quando lo raggiunse, gli gettò le braccia al collo e lo baciò con passione.
Se rimase sorpreso, si riprese in fretta e ricambiò il bacio.
Non appena si staccò da lui, Will le disse:«A proposito di ieri...»
Ronnie gli mise un dito sulle labbra.«Ne parleremo dopo ma, per tua informazione,
non dicevo sul serio quando ho parlato con tuo padre. Io ti amo e voglio che tu faccia
una cosa per me.»
Lui la fissò con aria interrogativa.
«Oggi devi giocare come non hai mai fatto prima.»
27. Marcus
Mentre prendeva a calci la sabbia a Bower's Point, Marcus sapeva che avrebbe
dovuto essere soddisfatto del caos che aveva provocato la sera precedente. Tutto era
andato secondo i suoi piani. La casa era addobbata esattamente come i giornali
avevano descritto e allentare i picchetti della tenda, non del tutto, ma quel tanto che
bastava perché si sfilassero quando avesse colpito le funi, era stato facile mentre tutti
erano a cena. Aveva provato un brivido di eccitazione alla vista di Ronnie che
scendeva sul pontile seguita da Will. Non lo avevano deluso. E il bravo vecchio Will
aveva recitato alla perfezione la sua parte; non esisteva al mondo una persona più
prevedibile di lui. Bastava premere il pulsante X e Will faceva la tal cosa; con il
pulsante Y faceva la talaltra. Se non fosse stato così divertente, l'avrebbe trovato
addirittura noioso.
Marcus era diverso dagli altri, lo sapeva da tempo. Crescendo non aveva mai provato
rimorso per nulla e questo gli piaceva. C'era un senso di potere nella capacità di fare
tutto ciò che voleva, quando voleva, ma in genere il piacere durava poco.
La sera precedente si era sentito più vivo di quanto gli capitasse da mesi. In genere,
dopo avere attuato uno dei suoi«progetti» come gli piaceva chiamarli, si sentiva
soddisfatto per settimane. E questo era un bene, perché altrimenti, senza controllo, i
suoi impulsi lo avrebbero reso vulnerabile. Non era stupido. Sapeva come
funzionavano le cose, e per questo era sempre molto, molto prudente.
Ora, tuttavia, fu assalito dalla sensazione di avere commesso un errore. Forse aveva
sfidato troppo la fortuna prendendo di mira proprio i Blakelee. Dopotutto erano la
famiglia più influente di Wilmington, avevano potere, ottimi contatti e denaro. E lui
sapeva che se avessero scoperto il suo coinvolgimento, non si sarebbero fermati di
fronte a nulla per farlo rinchiudere il più a lungo possibile da qualche parte. Perciò
era tormentato da un dubbio atroce: in passato Will aveva sempre protetto Scott, ma
avrebbe continuato a farlo anche a spese del matrimonio di sua sorella?
Era una sensazione che non gli piaceva. Somigliava quasi alla... paura. Non voleva
andare in prigione, neppure per una condanna brevissima. Non poteva andare in
prigione. Non era il suo ambiente. Lui era migliore. Era più furbo, e non riusciva a
immaginare di finire rinchiuso in una gabbia di tre metri per tre e di ricevere ordini da
un branco di carcerieri.
Gli edifici a cui aveva appiccato il fuoco e le persone che aveva ferito non
significavano niente per lui, ma il pensiero della prigione lo faceva stare male. E in
vita sua non aveva mai provato qualcosa di altrettanto simile alla paura che lo
attanagliava dalla sera precedente.
Fino a quel momento le acque erano rimaste calme, si disse. Evidentemente Will non
lo aveva nominato, perché altrimenti Bower's Point sarebbe già stato invaso dai
poliziotti. Tuttavia avrebbe fatto meglio a starsene nascosto per un po'. Ben nascosto.
Niente feste nelle case dei villeggianti, niente incendi di magazzini, e inoltre si
sarebbe tenuto alla larga da Will e Ronnie. Non avrebbe confidato niente a Teddy e
Lance e neppure a Blaze. Meglio che i ricordi della gente si affievolissero.
A meno che Will non cambiasse idea.
Quell'ipotesi lo colpì come un pugno allo stomaco. Laddove un tempo aveva avuto il
controllo assoluto di Will, ora i ruoli si erano rovesciati... o quantomeno equilibrati.
Forse, pensò, sarebbe stato meglio lasciare la città per un po' e dirigersi a sud verso
Myrtle Beach o Fort Lauderdale o Miami, finché non fosse tornato tutto alla
normalità.
Gli sembrava la decisione giusta, ma per attuarla aveva bisogno di soldi. Un sacco di
soldi. E in fretta. Il che significava doversi esibire di fronte a una folla numerosa. Per
fortuna quel giorno cominciava il torneo di pallavolo. Senza dubbio Will avrebbe
partecipato, ma non c'era nessun motivo di avvicinarsi al campo di gioco. Avrebbe
fatto lo spettacolo sul molo... un grande spettacolo.
Dietro di lui Blaze era seduta al sole, con indosso solo i jeans e il reggiseno; la sua
maglietta era appallottolata accanto al falò.
«Blaze», la chiamò,«ci serviranno nove palle di fuoco oggi. Ci sarà un sacco di gente
e dobbiamo raccogliere qualche soldo.»
Lei non gli rispose, ma il suo sospiro lo irritò a morte. Era stufo marcio di lei. Da
quando la madre l'aveva cacciata di casa, era sempre di pessimo umore. La guardò
alzarsi e andare a prendere la bottiglia di accendifuoco. Bene. Se non altro si dava un
po' da fare per guadagnarsi da vivere.
Nove palle di fuoco. Non tutte contemporaneamente, ovvio... in genere ne usavano
sei nel corso dello spettacolo. Ma aggiungerne una qua e là, qualcosa di inaspettato,
sarebbe servito per raggranellare una somma maggiore. Entro un paio di giorni
sarebbe stato in Florida. Da solo. Teddy, Lance e Blaze sarebbero rimasti lì: non ne
poteva più di loro.
Mentre progettava il suo viaggio, non si accorse che Blaze stava innaffiando di
liquido infiammabile diverse palle di tessuto proprio sopra la maglietta che avrebbe
indossato per lo spettacolo.
28. Will
Vincere il primo incontro era stato piuttosto facile; Will e Scott non avevano neppure
sudato. Il secondo era stato persino più semplice: gli avversari erano riusciti a fare un
punto soltanto. Nel terzo, tuttavia, avevano dovuto impegnarsi a fondo. Sebbene il
punteggio fosse nettamente a loro favore, Will uscì dal campo convinto che la
squadra che avevano appena battuto fosse migliore di quanto indicasse il tabellone.
I quarti di finale cominciavano alle due; le finali erano in programma per le sei.
Will sapeva di essere in forma quel giorno. Stavano perdendo cinque a due, ma non
era preoccupato. Si sentiva bene, si sentiva veloce, e tutti i suoi tiri andavano a finire
esattamente nel punto che voleva. Mentre il suo avversario lanciava la palla in aria
per la battuta, Will si sentiva invincibile.
La palla superò la rete in un ampio arco; prevedendo dove sarebbe andata a cadere,
Will avanzò e la intercettò con precisione. Con un tempismo perfetto, Scott saltò e
schiacciò oltre la rete, facendo tornare la battuta a loro. Segnarono sei punti di seguito
prima che la squadra avversaria riconquistasse la battuta, e mentre si metteva in
posizione Will rivolse una rapida occhiata alle gradinate in cerca di Ronnie. Era
seduta in quella di fronte a dove stavano i suoi genitori e Megan, di sicuro un'ottima
idea.
Gli era spiaciuto davvero molto non poter rivelare alla madre la verità su Marcus, ma
che scelta aveva? Se Susan avesse saputo chi era stato, avrebbe voluto la sua testa... e
questo avrebbe portato soltanto a una ritorsione. Era sicuro che la prima cosa che
Marcus avrebbe fatto, se fosse stato arrestato, sarebbe stata di farsi ridurre la pena in
cambio di «utili informazioni» riguardanti un altro crimine ben più serio: quello di
Scott. L'amico avrebbe così avuto seri problemi per trovare una borsa di studio, per
non parlare poi di quanto ne avrebbero sofferto i genitori, che, tra l'altro, erano cari
amici dei suoi. Per questo aveva mentito e, purtroppo, la madre aveva deciso di
addossare tutta la colpa a Ronnie.
Quella mattina, però, lei era ricomparsa e gli aveva detto di amarlo ugualmente.
Avrebbero parlato in seguito, era stata la sua promessa. E gli aveva detto che,
soprattutto, desiderava che lui giocasse al meglio nel torneo, ed era proprio ciò che
avrebbe fatto.
Mentre gli avversari battevano di nuovo, Will si lanciò in avanti per ribattere; Scott lo
seguì con un'alzata perfetta e Will andò a segno. Gli avversari riuscirono a fare solo
un altro punto prima della fine del set; in quello successivo andarono a punto solo due
volte.
Lui e Scott giunsero così alle semifinali e sulle gradinate, vide Ronnie tifare per lui.
La semifinale era la partita più impegnativa fino a quel momento; avevano vinto
facilmente il primo set per poi perdere il secondo allo spareggio.
Will era alla battuta e aspettava che l'arbitro desse inizio al terzo set, quando il suo
sguardo passò dalle gradinate gremite al molo, dove la folla era triplicata rispetto
all'anno precedente.
Al fischio d'inizio, Will lanciò la palla alta e fece qualche rapido passo. Con un salto
scagliò la palla oltre la rete, mirando a un punto preciso a tre quarti del campo
avversario. Tornato a terra, si mise in posizione, ma capì subito che non era
necessario. Dividendosi il campo, gli avversari erano rimasti immobili un attimo di
troppo; la poderosa battuta sollevò una nuvola di sabbia e poi> rimbalzò oltre il
campo.
Uno a zero.
Batté sette volte di fila, facendoli passare comodamente in vantaggio, e da allora si
alternarono al punteggio, ottenendo una facile vittoria.
Uscendo dal campo, Scott gli diede una pacca sulla spalla.
«È fatta», disse.«Oggi siamo invincibili. Tyson e Landry dovranno sudare.»
Tyson e Landry, due diciottenni di Hermosa Beach, in California, erano la squadra
juniores più forte del mondo. L'anno precedente erano arrivati undicesimi nella
classifica mondiale assoluta, una prestazione virtualmente all'altezza di qualsiasi altro
Paese ai giochi olimpici. Giocavano insieme da quando avevano dodici anni e negli
ultimi due avevano perso una sola partita. Scott e Will li avevano incontrati una volta
soltanto, alla semifinale del torneo l'anno precedente, ed erano usciti dal campo con
la coda tra le gambe. Non avevano vinto neppure un set.
Quel giorno, però, era tutta un'altra storia: vinsero il primo set per tre punti; Tyson e
Landry ottennero lo stesso punteggio in quello successivo; nel set conclusivo si
trovavano alla pari con sette punti.
Will era sotto il sole ormai da nove ore. Nonostante i litri d'acqua e di integratore che
aveva bevuto, il sole e il caldo avrebbero dovuto stancarlo almeno un po', e forse era
così. Ma lui non se ne accorgeva. Non ora, quando si rendeva conto che esisteva la
concreta possibilità di vincere il torneo.
Toccava a loro battere - sempre uno svantaggio nel beach volley, perché i punti
venivano segnati per ogni tiro diretto e la squadra in ricezione aveva la possibilità di
alzare e schiacciare - ma Scott tirò una palla a effetto che costrinse Tyson ad
abbandonare la sua posizione. La intercettò in tempo, ma la lanciò in direzione della
folla. Landry si tuffò e in qualche maniera riuscì a colpire la palla con una mano, ma
il suo intervento peggiorò solamente la situazione; la palla finì tra la folla e Will capì
che sarebbe passato almeno un minuto prima che tornasse in gioco. Quando fosse
accaduto, lui e Scott sarebbero stati in vantaggio di un punto.
Come sempre, si voltò prima verso Ronnie che lo salutò; poi, girandosi in direzione
delle gradinate sull'altro lato, sorrise e fece un cenno alla famiglia. Dietro di loro sul
molo, la folla era accalcata nella zona più vicina ai campi da gioco, mentre poco più
in là c'era uno spazio libero. Gli venne da chiedersi come mai, finché vide una pallina
di fuoco solcare l'aria. Voltandosi automaticamente verso quell'improvviso lampo,
riconobbe Blaze sul lato opposto che afferrava la palla e la rilanciava in un unico,
fluido movimento.
Il punteggio era dodici pari quando accadde.
La palla era finita nuovamente tra la folla, stavolta per colpa di Scott, e mentre Will
tornava al suo posto sul campo, il suo sguardo si diresse sul molo, dov'era Marcus.
Il fatto che fosse così vicino lo riempiva della stessa rabbia che aveva provato la sera
prima.
Sapeva che sarebbe stato meglio lasciar perdere, proprio come gli aveva consigliato
Megan. Sapeva che non avrebbe dovuto angustiarla raccontandole tutta la storia la
sera precedente, ma lei aveva insistito perché lo facesse e lui si era confidato.
Sebbene non avesse criticato la sua decisione, sapeva che non condivideva il suo
silenzio circa il crimine commesso da Scott. Quella mattina, tuttavia, gli aveva dato il
suo sostegno incondizionato, e mentre lui aspettava il fischio dell'arbitro, si rendeva
conto che stava giocando tanto per sua sorella quanto per se stesso.
Sul molo intanto le palle di fuoco continuavano a danzare nell'aria; la folla vicino alla
balaustra s'era diradata e lui riusciva a vedere Teddy e Lance impegnati come al solito
nella loro break-dance. Ciò che lo stupiva era la vista di Blaze che giocava con
Marcus con le palline infuocate. Le prendeva e le rilanciava subito con una velocità
che agli occhi di Will risultava più accelerata del solito. Blaze indietreggiava piano,
probabilmente per cercare di rallentare le cose, finché si trovò con la schiena contro
la balaustra del molo.
L'impatto le fece perdere la concentrazione mentre le palle di fuoco continuavano a
volare dalla sua parte, e calcolò male la traiettoria di una di esse che la colpì sulla
maglietta. La bloccò istintivamente, mentre cercava di afferrare la successiva. Nel
giro di pochi secondi la sua maglietta prese fuoco.
In preda al panico, cercò di spegnere le fiamme dimenticando di avere ancora in
mano la pallina infuocata...
Un istante dopo anche le sue mani erano in fiamme e le sue grida superavano il
frastuono sui campi da gioco. Gli spettatori erano sotto choc e nessuno si mosse per
aiutarla. Anche da lontano, Will si rese conto che le fiamme la stavano avvolgendo.
Seguendo l'istinto, si allontanò di corsa dal campo per raggiungere il molo. Correva il
più velocemente possibile sulla sabbia, mentre le urla di Blaze squarciavano l'aria.
Si fece largo tra gli spettatori, finché raggiunse lo spazio aperto. Nel frattempo un
uomo si era avvicinato a Blaze ed era riuscito a spegnere il fuoco. Non c'era traccia di
Marcus, Teddy e Lance.
Quando le fu accanto Will si bloccò, ma fu questione di un attimo. La prese tra le
braccia e si avviò verso il furgone. Blaze ogni tanto perdeva i sensi mentre lui
avanzava con cautela tra la folla. Quando Ronnie lo raggiunse le disse:«Le chiavi
sono nella mia tasca! Dobbiamo farla sdraiare sul sedile posteriore, e una volta partiti
chiama il pronto soccorso e avvertili del nostro arrivo, in modo che siano pronti!»
Ronnie lo precedette al furgone e aprì la portiera. Non fu facile sistemare Blaze, ma
ci riuscirono, e allora Will si mise al volante e partì a razzo.
La sala d'attesa del pronto soccorso era ormai vuota; erano rimasti solo Will e
Ronnie. Nelle ultime ore avevano raccontato quello che era successo a tante persone
diverse, compresa la mamma di Blaze. Quando si era precipitata lì, Will aveva visto
la sua espressione sconvolta prima che una delle infermiere la facesse accomodare da
una
parte.
Stava facendo buio, ma lui non si decideva ad andare via. I ricordi continuavano a
riaffiorare proponendogli l'immagine di lei in terza elementare, per poi sostituirsi a
quella della creatura martoriata che aveva portato sulle braccia poche ore prima. Un
tempo erano stati amici, non
poteva dimenticarlo.
La polizia lo aveva interrogato chiedendogli il motivo che lo aveva spinto a portare
Blaze all'ospedale invece di lasciarlo fare ai paramedici. Will aveva risposto con
sincerità - non si era ricordato della loro presenza sul campo e si era reso conto che
lei aveva bisogno di cure immediate - e per fortuna era stato creduto. Gli era persino
sembrato di vedere l'agente Johnson fare un cenno d'assenso, e Will aveva avuto
l'impressione che il poliziotto avrebbe agito proprio come lui.
Tutte le volte che la porta si apriva, Will cercava con lo sguardo le infermiere che
avevano soccorso Blaze. Erano passati quasi dieci minuti prima che lui o Ronnie
riuscissero a parlare. Erano rimasti seduti immobili, tenendosi per mano, tremando al
ricordo di Blaze che urlava nel
furgone.
La porta del reparto si aprì di nuovo e Will scorse la mamma di Blaze che si dirigeva
verso di loro. Quando li raggiunse, Will lesse l'angoscia sul suo viso.
«Una delle infermiere mi ha detto che eravate ancora qui. Volevo ringraziarvi.»
«Ce la farà?» chiese Will in un sussurro.
«Non lo so. È ancora in sala operatoria.» Lo sguardo della mamma di Blaze si posò
su Ronnie.«Sono Margaret Conway. Non so se Galadriel ti ha mai parlato di me.»
«Sono davvero addolorata, signora Conway.» Ronnie le sfiorò un braccio.
La donna sospirò.«Grazie», disse. Poi proseguì con la voce più incrinata:«Le avevo
ripetuto centinaia di volte di stare alla larga da Marcus, ma non voleva ascoltarmi, e
adesso...»
Scoppiò a piangere. Ronnie allora, sotto gli occhi sbalorditi di Will, fece un passo
avanti e l'abbracciò mettendosi a piangere con lei.
Mentre guidava per le strade di Wrightsville Beach, Will aveva una percezione
incredibilmente nitida di ogni cosa. Andava veloce, ma sapeva che avrebbe potuto
accelerare. Con un colpo d'occhio riusciva a notare particolari che di solito gli
sarebbero sfuggiti: il tenue alone di nebbia intorno ai lampioni, un bidone della
spazzatura rovesciato nel vicolo accanto al fastfood, la piccola ammaccatura di fianco
alla targa di una Nissan color crema.
Accanto a lui, Ronnie lo guardava ansiosa, ma senza parlare. Non gli aveva chiesto
dove fossero diretti, ma non ce n'era bisogno. Non appena la mamma di Blaze era
uscita dalla sala d'aspetto, Will si era alzato senza dire una parola ed era andato al
furgone. Ronnie lo aveva seguito in silenzio.
Davanti a loro il semaforo scattò sul giallo, ma invece di rallentare, Will diede gas. Il
motore ruggì e il furgone balzò in avanti, verso Bower's Point.
Conosceva la strada più breve e la seguiva senza esitazioni; lasciando la zona
commerciale, passò rombando davanti alle case affacciate sull'oceano. Poi superarono
il molo e quindi la casa di Ronnie; lui non rallentò neppure. Invece spinse il motore al
limite.
Ronnie si teneva alla maniglia mentre il furgone svoltava nel parcheggio di ghiaia
quasi nascosto tra gli alberi. Frenò bruscamente e Ronnie trovò la forza di parlare.
«Ti prego, non farlo.»
Will scese. Bower's Point, accessibile soltanto dalla spiaggia, era dietro l'angolo, a
poche centinaia di metri dalla torre della guardia costiera.
Will si mise a correre. Aveva la certezza che Marcus si trovasse lì; lo sentiva.
Accelerò l'andatura, mentre una serie di immagini riaffiorava alla sua mente:
l'incendio della chiesa, la sera della sagra, il modo in cui Marcus aveva afferrato
Ronnie per le braccia... e Blaze, avvolta dalle fiamme.
Marcus non aveva tentato di aiutarla. Era scappato quando aveva bisogno di lui.
Non gli importava che cosa gli sarebbe successo. Non gli importava che cosa poteva
succedere a Scott. Ormai aveva superato quella fase. Stavolta, Marcus aveva
esagerato. Svoltato l'angolo, lo riconobbe, seduto con Teddy e Lance su un tronco
vicino a un falò.
Un fuoco. Palle di fuoco. Blaze...
Scattò a tutta velocità, preparandosi all'inevitabile. Si avvicinò abbastanza da
distinguere le bottiglie vuote sparse intorno al falò, sapendo che loro non potevano
vederlo.
Stava bevendo la birra quando Will lo travolse da dietro. Marcus finì bocconi sulla
sabbia con un gemito.
Will sapeva di doversi muovere rapido, per neutralizzare Teddy prima che lui e suo
fratello potessero reagire. Alla vista di Marcus improvvisamente scaraventato a terra,
rimasero come paralizzati. Will, allora, si lanciò verso Teddy, le gambe che si
muovevano come pistoni, facendolo saltare oltre il tronco. Atterrò su di lui, ma
invece di usare i pugni, piegò la testa all'indietro e colpì il naso di Teddy con la
fronte.
Lo sentì spezzarsi per il colpo. Will si alzò in fretta, senza badare a Teddy che si
rotolava per terra, con le mani sulla faccia e il sangue che gli colava tra le dita.
Lance intanto stava caricando verso Will, che fece un passo indietro per schivarlo. Lo
aveva quasi raggiunto e stava per colpire basso, quando Will alzò di scatto un
ginocchio che finì contro la faccia di Lance. Per l'impatto il ragazzo cadde a terra
svenuto.
Due erano sistemati, ne restava solo uno.
Marcus intanto si era rialzato barcollando. Afferrò un ramo e indietreggiò mentre Will
avanzava. Ma Will non voleva che Marcus tornasse ben saldo sulle gambe prima di
brandire il bastone, così lo caricò. Marcus usò il legno, ma il colpo fu debole, Will lo
evitò e si lanciò contro il petto di Marcus. Lo cinse con le braccia, le strinse e le
sollevò, usando lo slancio del proprio peso per far cadere Marcus all'indietro. Fu una
perfetta placcatura di rugby e Marcus si schiantò di schiena.
Will piombò su di lui con tutto il proprio peso e, come aveva fatto con Teddy, lo colpì
il più forte possibile con la testa.
Udì lo stesso identico rumore di ossa che si spezzano, ma questa volta non si
accontentò e cominciò a tempestarlo di pugni. Lo colpì più volte, abbandonandosi
alla collera, scatenando la propria ira per l'impotenza che aveva provato dalla sera
dell'incendio. Mirò più volte all'orecchio. Le grida di Marcus servirono soltanto ad
aizzare la sua collera. Portò indietro il pugno un'altra volta e mirò al naso che aveva
già rotto, quando all'improvviso sentì qualcuno che lo afferrava per un braccio.
Si voltò, pronto per affrontare Teddy; invece era Ronnie a tenergli il braccio, sul viso
un'espressione terrorizzata.
«Smettila! Non vale la pena finire in prigione per questo!» gridò.«Non rovinarti la
vita per colpa sua!»
Lui la udiva a stento, ma si rese conto che lei cercava di tirarlo via.
«Ti prego, Will», lo implorò con voce tremante.«Tu non sei come lui. Tu hai un
futuro. Non buttare via tutto.»
Lui allentò la presa, mentre di colpo si sentiva svuotato di tutte le energie. Si alzò
barcollando, scosso e sbilanciato per lo sforzo appena sostenuto. Ronnie lo cinse in
vita con un braccio e insieme si avviarono lentamente verso il furgone.
Il mattino successivo, andò al lavoro con la mano dolorante, e trovò Scott che lo
aspettava per affrontarlo nel piccolo spogliatoio. Mentre s'infilava la tuta, l'amico gli
lanciò un'occhiata torva.
«Non c'era bisogno che tu abbandonassi la partita», dichiarò tirando su la zip.«I
paramedici erano lì.»
«Lo so», rispose Will.«Non ci ho pensato. Li avevo visti prima, ma me ne sono
scordato. Mi spiace di avere mandato all'aria la nostra partita.»
«Anche a me dispiace, sai», ribatté asciutto Scott. Prese uno straccio e se lo infilò
nella cintura.«Avremmo potuto vincere tutto, ma tu sei corso via per fare l'eroe.»
«Scott, lei aveva bisogno di aiuto!»
«Davvero? E perché hai dovuto farlo proprio tu? Perché non hai aspettato che
arrivasse qualcun altro? Perché non hai chiamato l'ambulanza? Perché l'hai dovuta
portare via con il tuo furgone?»
«Te l'ho già detto, mi ero dimenticato che i paramedici erano sulla spiaggia. Pensavo
che un'ambulanza avrebbe impiegato troppo tempo ad arrivare...»
Scott diede un pugno all'armadietto.«Pensare che non ti piace nemmeno!»
gridò.«Non la frequenti neanche più! Certo, se si fosse trattato di Ashley o Cassie o
persino di Ronnie, l'avrei capito. Accidenti, avrei capito anche se fosse stata una
sconosciuta. Ma Blaze? Blaze? La stessa stronza che farà finire la tua ragazza in
prigione? La ragazza che sta con Marcus?» Scott fece un passo verso di lui.«Pensi
forse che lei avrebbe fatto la stessa cosa per te? Se tu ti fossi ferito e avessi avuto
bisogno d'aiuto? Scordatelo!»
«È soltanto un gioco», obiettò Will, mentre la rabbia riaffiorava dentro di lui.
«Per te, forse!» esclamò Scott.«Per te è un gioco! Ma per te, è tutto un gioco! Non
capisci? Niente ti sta a cuore! Non hai bisogno di vincere un torneo, perché anche se
perdi, la vita ti viene ugualmente offerta su un vassoio d'argento. Io invece ne avevo
bisogno! C'è in gioco il mio futuro, amico!»
«Se è per questo, c'era in gioco la vita di una ragazza!» ribatté Will con enfasi.«E se
per una volta la smettessi di essere così egocentrico, ti renderesti conto che salvare
una vita umana è più importante della tua preziosa borsa di studio di pallavolo!»
Scott lo guardò disgustato.«Siamo amici da un sacco di tempo... ma sai, sei sempre
stato tu a dettare le regole. Tutto è sempre stato come vuoi tu. Tu hai voluto rompere
con Ashley, tu hai voluto metterti con Ronnie, tu hai voluto saltare gli allenamenti per
settimane, tu hai voluto fare l'eroe. Ebbene, la sai una cosa? Ti sbagli. Ho parlato con
i paramedici. Hanno detto che hai sbagliato. Che trascinandola sul furgone come hai
fatto, forse hai peggiorato le cose. E che cosa hai ottenuto? Ti ha ringraziato? No,
certo che no. E non lo farà. Ma tu sei disposto a mandare al diavolo un amico perché
quello che vuoi fare tu è più importante.»
Le parole di Scott erano come altrettanti pugni allo stomaco, ma servirono solo ad
aumentare la sua collera.«Datti una calmata, Scott», disse Will.«Stavolta la cosa non
riguarda te.»
«Me lo dovevi!» esclamò Scott, percuotendo di nuovo l'armadietto.«Ti avevo chiesto
una cosa soltanto! Sai quanto fosse importante per me!»
«Io non ti devo proprio niente», ribatté Will con gelida furia.«Ti ho coperto per otto
mesi. Sono stanco dei ricatti di Marcus. Devi fare la cosa giusta. Devi dire la verità.
Le cose sono cambiate.»
Will andò verso la porta. Quando l'aprì sentì la voce di Scott alle proprie spalle.
«Che cosa hai fatto?»
Will si voltò, tenendo la porta socchiusa e guardando Scott negli occhi con ferrea
determinazione.«Te lo ripeto, devi dire la verità.»
Attese che Scott comprendesse le sue parole, poi uscì, sbattendosi la porta alle spalle.
Mentre superava le auto parcheggiate nell'officina, sentì Scott che lo chiamava.
«Vuoi rovinarmi la vita? Vuoi che finisca in prigione per un incidente? Non lo farò!»
Aveva quasi raggiunto il bancone all'ingresso, quando sentì Scott che prendeva a
pugni con tutta la forza gli armadietti.
29. Ronnie
La settimana successiva fu difficile per entrambi. Ronnie si sentiva turbata dalla
violenza compiuta da Will, e non era a proprio agio con la sensazione che le aveva
provocato. Non le piacevano le risse, non le piaceva vedere la gente farsi male, e
sapeva che di rado serviva a migliorare una situazione. Eppure non riusciva a essere
in collera con lui. Per quanto non volesse liquidare l'accaduto, guardare Will
sbaragliare definitivamente tutti e tre la faceva sentire un po' più sicura quando stava
con lui.
Will però era stressato. Era sicuro che Marcus avrebbe denunciato l'accaduto e che la
polizia sarebbe venuta a bussare alla sua porta da un momento all'altro. Ronnie
tuttavia aveva intuito che c'era qualcos'altro che lo turbava, qualcosa che non voleva
ammettere. Per qualche motivo lui e Scott non si parlavano più e lei si domandava se
non fosse quella la causa del disagio di Will.
Inoltre, c'era la famiglia. In particolare la madre di Will. Ronnie l'aveva vista due
volte dopo il matrimonio: una mentre aspettava nel furgone davanti a casa di Will
quando lui era corso dentro a prendere una maglietta pulita, e una volta in un
ristorante in centro quando Will l'aveva portata a cena fuori. Si erano appena seduti,
quando Susan era entrata con un gruppo di amiche. Ronnie era girata proprio verso la
porta, invece Will le stava di fronte. In entrambe le occasioni Susan le aveva
deliberatamente voltato le spalle.
Non aveva fatto parola con Will dei due fatti. Mentre Will era perso nel suo mondo di
vendetta e ansia, Ronnie si era accorta che Susan sembrava convinta che per qualche
motivo fosse lei la responsabile della tragedia accaduta a Blaze.
Dalla sua camera, osservava Will raggomitolato accanto al nido di tartarughe; poiché
alcuni degli altri nidi avevano cominciato a schiudersi, la rete era stata tolta quel
pomeriggio e le uova erano esposte. Nessuno di loro voleva lasciarle incustodite per
la notte, e siccome Will voleva trascorrere meno tempo a casa, si era offerto di
sorvegliarle.
Ronnie non poteva fare a meno di ripensare a tutto ciò che era accaduto quell'estate.
Ricordava a malapena la ragazza che era al suo arrivo lì. E l'estate non era ancora
finita; l'indomani avrebbe compiuto diciott'anni, e quello era l'ultimo weekend che
avrebbero trascorso insieme, prima che Will partisse per il college. L'udienza in
tribunale era fissata pochi giorni dopo e poi anche lei sarebbe tornata a New York.
Erano capitate tante cose, e tante ancora l'aspettavano.
Nella sua testa si affollavano mille domande. Chi era? E che genere di vita stava
conducendo? E soprattutto, dove l'avrebbe portata?
In quei giorni aveva la sensazione che non ci fosse nulla di reale e nel contempo che
fosse tutto molto più reale di qualunque cosa avesse sperimentato in passato: il suo
amore per Will, il legame sempre più profondo con il padre, il modo in cui la sua vita
aveva rallentato, in maniera semplice e completa. A volte le sembrava che tutto
questo stesse accadendo a qualcun altro, qualcuno che lei doveva ancora conoscere a
fondo. Non si sarebbe mai sognata che una sonnolenta località di villeggiatura come
quella potesse essere tanto piena di... vita e tragedia quanto Manhattan.
Sorridendo ammise che, salvo qualche eccezione, non era stata poi tanto male lì.
Dormiva in una camera tranquilla insieme con il fratello, separata soltanto da un
vetro e un po' di sabbia dal ragazzo che amava e che la ricambiava. Si domandava se
potesse esistere qualcosa di meglio al mondo. E nonostante quanto era successo, o
forse proprio per quello, sapeva che non avrebbe mai dimenticato l'estate che
avevano trascorso insieme, comunque fossero andate le cose in futuro.
Si coricò e si abbandonò al sonno. Il suo ultimo pensiero fu che non era ancora finita.
Sebbene spesso quella sensazione presagisse il peggio, sapeva che non era possibile,
non dopo quello che avevano passato.
Il mattino seguente si svegliò in preda all'ansia. Come sempre, era consapevole che
era passato un altro giorno, ovvero che le restava un giorno in meno da trascorrere
con Will.
Ma mentre, ancora sdraiata, cercava di dare una spiegazione al turbamento che
provava, si rese conto che non si trattava solo di quello. Will sarebbe partito per il
college la settimana successiva. Kayla si era iscritta al college. Lei, invece, non aveva
ancora la più pallida idea di ciò che avrebbe fatto. Certo, doveva affrontare la
decisione del tribunale, ma poi? Sarebbe rimasta per sempre a vivere con la mamma?
Avrebbe cercato un impiego come cassiera o cameriera?
Era la prima volta che pensava così lucidamente al proprio futuro.
E com'era possibile guadagnare abbastanza per permettersi di vivere a Manhattan?
Non lo sapeva. La sua unica certezza era che non si sentiva pronta perché l'estate
finisse. Non era pronta a tornare a casa. Non era pronta a pensare a Will che
passeggiava per i prati della Vanderbilt accanto alle sue coetanee vestite da
cheerleader. Non ci voleva proprio pensare.
«È tutto a posto? Mi sembri taciturna», osservò Will.
«Scusami», disse lei,«è solo che ho dei pensieri.»
Erano seduti sul molo, a mangiare ciambelle sorseggiando caffè. Di solito era
affollato di pescatori, ma quella mattina era tutto per loro.
«Stai pensando a quello che vuoi fare?»
«Tutto, fuorché qualcosa che abbia a che fare con elefanti e pale.»
Lui posò la ciambella in equilibrio sulla tazza di plastica.«Pensi che sia il caso di
spiegarmi di che cosa stai parlando?»
«Meglio di no», rispose lei con una smorfia.
«D'accordo. Io però mi riferivo a quello che vuoi fare domani per il tuo compleanno.»
«Non c'è bisogno di fare niente di speciale», disse laconica.
«Ma è il tuo diciottesimo compleanno. È un gran giorno. Diventerai legalmente
adulta.»
Fantastico, pensò lei. Un altro modo per ricordarsi che il tempo per decidere che cosa
fare della propria vita stava scadendo. Will doveva averle letto nel pensiero, perché le
posò una mano sul ginocchio.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«No. Non so, oggi mi sento strana.»
In lontananza, un branco di focene increspò l'acqua. La prima volta che le aveva viste
era rimasta sorpresa. Anche la ventesima. Adesso facevano parte dell'ambiente, ma
ciononostante ne avrebbe sentito la mancanza una volta tornata a New York a fare
qualunque cosa fosse in serbo per lei. Probabilmente sarebbe finita drogata di cartoni
come Jonah e avrebbe insistito per guardarli a testa in giù.
«Che ne dici se ti porto fuori a cena?»
No, non era esatto. Sarebbe finita drogata di Game Boy.«D'accordo.»
«Oppure potremmo andare a ballare.»
Oppure di Guitar Hero. A Jonah piaceva giocarci per ore. Come del resto a Rick,
pensandoci bene. In pratica chiunque non avesse una vita era drogato di quel
gioco.«Per me va bene.»
«Senti questa, invece. Ci dipingiamo la faccia e cerchiamo di evocare antiche divinità
inca.»
Dopo avere sviluppato un'irrimediabile dipendenza per quei giochi idioti, di sicuro
avrebbe continuato a vivere a casa della mamma anche quando Jonah sarebbe andato
al college otto anni più tardi.«Come vuoi tu.»
La risata di Will riuscì a strapparla alle proprie riflessioni.«Hai detto qualcosa?»
«Stavo parlando del tuo compleanno. Cercavo di capire che cosa desiderassi, ma è
evidente che tu sei su un altro pianeta. Partirò lunedì e volevo fare qualcosa di
speciale con te.»
Ci pensò, poi si voltò verso il bungalow e si rese conto ancora una volta di quanto
stonasse su quel tratto di spiaggia.«Sai che cosa vorrei veramente?»
Non avvenne il giorno del suo compleanno, ma due sere dopo, venerdì 22 agosto. Era
comunque abbastanza vicino. Lo staff dell'acquario aveva organizzato tutto con
precisione scientifica; nel pomeriggio, addetti e volontari avevano cominciato a
preparare la zona in modo che le tartarughe potessero raggiungere l'acqua senza
problemi.
Lei e Will avevano dato una mano a lisciare la sabbia nella pista scavata fino
all'oceano; altri avevano sistemato un nastro segnalatore per tenere a distanza di
sicurezza i curiosi. Almeno la maggior parte. Il padre e Jonah avevano avuto il
permesso di entrare nella zona recintata e, in piedi da una parte, osservavano la
frenetica attività preparatoria.
Ronnie non aveva idea di che cosa dovesse fare, a parte assicurarsi che nessuno si
avvicinasse troppo al nido. Non era un'esperta, ma con indosso l'uniforme color uovo
di Pasqua dell'acquario, tutti immaginavano che fosse una studiosa di tartarughe.
Nell'ultima ora aveva risposto almeno a un centinaio di domande. Era contenta di
essere riuscita a ricordare le cose che Will le aveva spiegato sulle tartarughe e
sollevata per aver dedicato pochi minuti a leggere il volantino esplicativo sulle
testuggini che l'acquario aveva stampato per gli spettatori. La maggior parte delle
informazioni che la gente le chiedeva erano scritte lì, ma evidentemente era più facile
chiedere a lei anziché leggere il foglietto che tutti tenevano in mano.
Serviva anche da passatempo. Ormai erano là fuori da ore, e sebbene avessero
ricevuto rassicurazioni che le uova si sarebbero schiuse da un minuto all'altro, Ronnie
non era tanto sicura. Alle tartarughe non importava se qualche bambino si stancava, o
se qualcuno doveva alzarsi presto il mattino dopo per andare al lavoro.
Per qualche ragione lei aveva immaginato che ci sarebbe stata solo una decina di
persone, non le centinaia che si accalcavano lungo il nastro di sicurezza. Non sapeva
se la cosa le piacesse; le dava l'idea che tutta la faccenda fosse considerata alla
stregua di uno spettacolo da circo.
Mentre si sedeva sulla duna, Will la raggiunse.
«Che cosa ne pensi?» le chiese indicando intorno a sé.
«Sto aspettando, ma non è successo niente per ora.»
«Non manca molto.»
«È quello che mi sento ripetere da un po'.»
Will le si sedette accanto.«Devi imparare l'arte della pazienza, mia giovane puledra.»
«Io sono paziente. Voglio solo che la schiusa avvenga più presto che tardi.»
Lui rise.«Colpito.»
«Non dovresti dare una mano?»
«Io sono soltanto un volontario. Sei tu quella che lavora a tutti gli effetti per
l'acquario.»
«Sì, ma non vengo pagata per queste ore e, in teoria, essendo tu volontario, credo che
dovresti presenziare per un po' al nastro di sicurezza.»
«Lasciami indovinare: metà della gente ti chiede che cosa sta succedendo e l'altra
metà domanda informazioni che sono scritte sul foglietto che hai distribuito.»
«Più o meno.»
«E tu ti sei stancata.»
«Diciamo che non è divertente come la cena dell'altra sera.»
Per il suo compleanno lui l'aveva portata in un intimo ristorantino italiano; le aveva
anche regalato una collana d'argento con un ciondolo a forma di tartaruga che le era
piaciuta tantissimo e che da allora non si era più tolta.
«Come fai a sapere quando il momento si avvicina?»
Will indicò il responsabile dell'acquario e uno dei biologi dello staff.«Basta guardare
quando Elliot e Todd cominciano ad agitarsi.»
«Un metodo davvero scientifico.»
«Eccome. Puoi credermi.»
«Ti spiace se mi siedo qui con te?»
Quando Will si era allontanato per andare a prendere delle torce sul furgone, il padre
l'aveva raggiunta.
«Non devi neppure chiederlo, papà. Certo che puoi.»
«Non volevo disturbarti. Avevi l'aria preoccupata.»
«Sto aspettando, come tutti gli altri», rispose lei. Si spostò in modo da fargli spazio.
La folla era persino aumentata nell'ultima mezz'ora e lei era contenta che al padre
fosse stato permesso di stare all'interno della zona di sicurezza. Ultimamente aveva
l'aria molto stanca.
«Che tu ci creda o no, da bambino non ho mai visto schiudersi le uova di tartaruga.»
«Perché no?»
«All'epoca non era un avvenimento così speciale come ora. Sì, mi capitava di
imbattermi in un nido, ma non me ne interessavo più di tanto. La volta che ci sono
andato più vicino è stato quando sono passato lì accanto il giorno dopo la schiusa. Ho
visto tutti i gusci rotti in giro, ma da queste parti capitava di frequente. Comunque,
scommetto che non era quello che ti aspettavi, giusto? Con tutta questa gente
intorno?»
«Che cosa vuoi dire?»
«Con Will hai sorvegliato il nido ogni notte, tenendolo al sicuro. E adesso che sta per
succedere la cosa più interessante, dovrete condividerla con tutti gli altri.»
«Non importa. Va bene lo stesso.»
«Ne sei proprio sicura?»
Le sorrise. Era sorprendente come il padre la conoscesse bene.«Come sta venendo la
canzone?»
«È una specie di work in progress. Avrò scritto un centinaio di variazioni, ma ancora
non funziona. So che è un esercizio inutile: se non l'ho ancora azzeccata, non accadrà
mai, però serve a tenermi occupato.»
«Ho visto la vetrata stamattina. È quasi finita.»
Il padre fece segno di sì.«Non manca molto.»
«Hanno deciso quando la monteranno?»
«No», rispose lui.«Aspettano ancora i fondi necessari per continuare i lavori e non
vogliono montarla finché la chiesa non sarà agibile. Il pastore Harris teme che
qualche vandalo potrebbe prenderla a sassate. L'incendio lo ha reso molto più
prudente su tutto.»
Lei annuì.«Già, anch'io sarei più prudente.»
Steve allungò le gambe sulla sabbia, poi le piegò di nuovo con una smorfia.
«Ti senti bene?»
«È solo che sono stato molto in piedi in questi ultimi giorni. Jonah vuole finire la
vetrata prima della vostra partenza.»
«Si è divertito quest'estate.»
«Davvero?»
«Ieri sera mi ha detto che non vuole tornare a New York. Vuole restare qui a vivere
con te.»
«È un bambino davvero dolce», osservò lui malinconico. Esitò, poi si voltò a
guardarla.«Immagino che la domanda inevitabile sia se anche tu ti sei divertita.»
«Sì, molto.»
«Grazie a Will?»
«Grazie a tutto», rispose lei.«Sono contenta che abbiamo trascorso del tempo
insieme.»
«Anch'io.»
«Allora, quand'è che verrai a trovarci a New York?»
«Oh, non saprei. Deciderò al momento.»
Le sorrise.«Hai troppi impegni?»
«Tutt'altro», rispose lui.«Ma vuoi sapere una cosa?»
«Che cosa?»
«Credo che tu sia diventata una ragazza fantastica. Voglio che ricordi sempre che
sono molto fiero di te.»
«Perché me lo dici proprio adesso?»
«Non ero sicuro di avertelo detto abbastanza ultimamente.»
Lei gli posò la testa sulla spalla.«Anche tu sei in gamba, papà.»
«Ehi», esclamò lui indicando verso il nido.«Credo che stiano per cominciare.»
Si voltò anche lei, poi si alzò in piedi. Elliot e Todd si muovevano in preda
all'eccitazione mentre la folla era ammutolita.
Le cose si svolsero come aveva detto Will, tranne che le parole non rendevano
giustizia all'avvenimento. Essendo così vicina al nido, lei ebbe modo di vedere tutto:
il primo uovo che si crepava, seguito da un altro e un altro ancora, tutte le uova che si
agitavano da sole, finché la prima tartaruga fece capolino fra i gusci e cominciò ad
arrampicarsi sulle altre uova e fuori dal nido.
Quello che seguì fu ancora più stupefacente: prima un movimento appena abbozzato,
poi più deciso, infine così frenetico che era impossibile seguirlo con gli occhi, mentre
cinque, poi dieci, poi venti e poi troppe tartarughine si lanciavano in un'attività
frenetica.
Come un alveare impazzito...
Ed ecco che le minuscole creature dall'aspetto preistorico cercavano di lasciare il
nido; si arrampicavano determinate per poi scivolare di nuovo sul fondo, poi
tornavano a scavalcarsi... finché una riuscì a superare l'ostacolo, seguita da un'altra,
poi un'altra ancora, e poi tutte avanzarono lungo la pista di sabbia verso la torcia che
Todd teneva in piedi nell'acqua.
Ronnie le guardò mentre le sfilavano davanti a una a una, creature così piccole da
apparire incapaci di sopravvivere. L'oceano le avrebbe inghiottite, facendole
scomparire: quando raggiunsero l'acqua furono sballottate tra le onde, riaffiorando
brevemente prima di sparire per sempre.
Lei e Will erano vicini, si tenevano per mano, e lei traboccava di felicità all'idea di
avere trascorso tutte quelle notti accanto al nido e di avere avuto una piccola parte in
quel miracolo. Era incredibile pensare che dopo settimane di totale immobilità, tutto
ciò che aveva tanto aspettato sarebbe finito nel giro di pochi minuti.
Era bello, però, avere condiviso con la persona che amava quello straordinario
momento.
Un'ora più tardi, dopo aver rivissuto con entusiasmo le fasi della schiusa, Ronnie e
Will augurarono la buonanotte al personale dell'acquario. A parte la pista sulla sabbia,
le prove di quanto avvenuto erano scomparse. Persino i gusci erano spariti; Todd li
aveva raccolti perché voleva studiarne lo spessore e verificare l'eventuale presenza di
sostanze chimiche.
Mentre camminavano insieme, Will le cinse le spalle con un braccio.«Spero che sia
stato come ti aspettavi.»
«È stato persino meglio», rispose lei.«Ma non riesco a smettere di pensare alle
tartarughine.»
«Se la caveranno.»
«Non tutte.»
«No», ammise lui.«Non tutte. Quando sono piccole, le loro probabilità di
sopravvivenza sono piuttosto scarse.»
Fecero qualche passo in silenzio.«È questo che mi rattrista.»
«È il cerchio della vita, giusto?»
«Ti prego, non ho bisogno della filosofia da Re Leone in questo momento», sospirò
lei.«Ho bisogno che tu mi dica una bugia.»
«Va bene», rispose lui disinvolto.«In questo caso... sopravviveranno tutte e
cinquantasei. Cresceranno, si accoppieranno, avranno tanti tartarughini e alla fine
moriranno di vecchiaia, naturalmente dopo avere vissuto più a lungo della maggior
parte delle tartarughe.»
«Lo credi davvero?»
«Ma certo», disse lui convinto.«Sono i nostri piccoli. Sono speciali.»
Lei stava ancora ridendo quando vide il padre uscire sulla veranda insieme con Jonah.
«Bene, nonostante questo ridicolo lancio pubblicitario», esordì Jonah,«e dopo avere
visto la cosa dall'inizio alla fine, ho una sola cosa da dire.»
«E quale?» si informò Will.
Jonah fece un sorriso smagliante.«È. Stato. Fortissimo.»
Ronnie rise al ricordo. Di fronte all'espressione perplessa di Will, si limitò ad alzare
le spalle.«Una battuta tra me e lui», disse, e proprio in quel momento il padre fu
assalito da un accesso di tosse.
Era una tosse forte, catarrosa... malata... e, proprio come era accaduto in chiesa,
sembrava non voler smettere. Lui continuava a tossire, scosso da quei colpi violenti.
Ronnie lo guardò aggrapparsi alla ringhiera per non perdere l'equilibrio; Jonah era
impaurito e preoccupato, e anche Will rimase paralizzato.
Lo guardarono mentre tentava di raddrizzarsi, inarcando la schiena e cercando di
controllare la tosse. Si portò entrambe le mani alla bocca e tossì un'ultima volta, e
quando alla fine fece un respiro profondo, sembrò che stesse respirando sott'acqua.
Dopo un ultimo singulto, abbassò le mani. Per alcuni secondi, i più lunghi della sua
vita, Ronnie rimase agghiacciata, in preda a una paura che non aveva mai provato. Il
padre aveva la faccia coperta di sangue.
30.Steve
Aveva ricevuto la condanna a morte in febbraio, seduto nello studio del medico,
un'ora dopo avere dato la sua lezione di pianoforte.
Quando si era trasferito a Wrightsville Beach, abbandonando la carriera di pianista,
aveva ricominciato a insegnare. Il pastore Harris aveva accompagnato una
promettente ragazza a casa di Steve pochi giorni dopo il suo arrivo, chiedendo
all'amico di fargli«un favore». Era stato un modo gentile per aiutarlo a restituire un
senso alla sua vita.
L'allieva si chiamava Chan Lee. Entrambi i genitori insegnavano musica alla UNC
Wilmington e, a diciassette anni, possedeva una tecnica impeccabile. Era una ragazza
seria che chiedeva molto a se stessa, e Steve l'aveva presa subito in simpatia;
ascoltava i suoi insegnamenti con attenzione e si impegnava con costanza.
Steve aspettava con ansia le lezioni ma, nonostante la gioia che gli dava
l'insegnamento, si sentiva sempre più stanco e, per la prima volta in vita sua,
cominciò a dormire regolarmente il pomeriggio.
Con il passare del tempo questi sonnellini si allungarono, fino ad arrivare a due ore
alla volta, e quando si svegliava era spesso assalito da forti dolori allo stomaco. Una
sera, mentre stava preparando la cena, provò una fitta lancinante che lo fece piegare
in due; la padella gli si rovesciò, spargendo il contenuto sul pavimento. Mentre
cercava di riprendere fiato, si rese conto che qualcosa non andava e che era il caso di
farsi visitare da un medico.
Aveva fatto tutti gli esami necessari pensando spesso al padre e al tumore che alla
fine lo aveva ucciso. E all'improvviso aveva saputo quale sarebbe stata la diagnosi.
All'appuntamento successivo, aveva scoperto di avere ragione.
«Lei ha un cancro allo stomaco», lo informò il dottore. Fece un lungo respiro.«Dagli
esami risultano metastasi al pancreas e ai polmoni.» Aveva una voce neutra, ma non
distaccata.«Sono sicuro che avrà molte domande da farmi, ma le dirò subito che la
situazione è grave.»
Gli stava dicendo che non c'erano speranze. Steve lo sapeva, così come sapeva che il
medico voleva farlo parlare per permettergli di assorbire il colpo.
Quando il padre si era ammalato, aveva fatto delle ricerche. Sapeva che cosa
significava quello che il dottore aveva appena detto, sapeva che cosa significava
avere un tumore allo stomaco con metastasi al pancreas e sapeva che le probabilità di
sopravvivenza erano pari a zero. Invece di fare domande, guardò fuori dalla finestra.
Sul davanzale era appollaiato un piccione, ignaro della tragedia che si stava
svolgendo all'interno della stanza. Mi hanno detto che sto morendo, pensò mentre lo
fissava, e il medico vuole che ne parli. Ma in realtà non c'è niente da dire, giusto?
Sto morendo, pensò di nuovo.
Aveva unito le mani, sorpreso dal fatto che non gli tremassero e fossero invece ferme
e salde come acciaio.
«Quanto tempo mi resta?»
Il dottore sembrò sollevato.«Prima di rispondere a questa domanda, voglio parlarle
delle possibili opzioni.»
«Non ci sono opzioni», disse Steve.«Lo sappiamo entrambi.»
Se il dottore fu sorpreso da questa affermazione, non lo diede a vedere.«Esistono
sempre delle opzioni», ribatté.
«Ma nessuna cura. Lei sta parlando della qualità della vita.»
Spostò di lato la cartella clinica.«Esatto», confermò.
«Come posso discutere della qualità del tempo che mi resta da vivere se non so
quanto tempo mi resta da vivere? Se fossero solo pochi giorni, dovrei cominciare a
fare delle telefonate.»
«Lei ha più di qualche giorno.»
«Settimane?»
«Sì, certo...»
«Mesi?»
Il dottore esitò. Doveva avere visto qualcosa sul viso di Steve che gli aveva fatto
capire che avrebbe insistito sino a conoscere la verità. Si schiarì la voce.«Curo i
pazienti da molti anni, e ho imparato che le previsioni in questi casi non hanno molto
senso. Ci sono troppe variabili che vanno al di là delle conoscenze cliniche. Molto di
quello che succederà dipende da lei e dal suo patrimonio genetico, e anche dal suo
atteggiamento. Certo, non possiamo fare niente per fermare l'inevitabile, ma non è
questo il punto. Quello che sto cercando di dirle è che dovrebbe sfruttare al meglio il
tempo che le resta.»
Steve lo osservava con attenzione mentre parlava, consapevole che non aveva
risposto alla sua domanda.
«Un anno?»
Non rispose di nuovo, ma il suo silenzio lo tradì. Uscendo dallo studio, Steve fece un
profondo respiro. Probabilmente gli restavano meno di dodici mesi.
La verità lo colpì in tutta la sua evidenza, mentre era in spiaggia.
Aveva un cancro in fase avanzata e non esistevano cure efficaci. Sarebbe morto nel
giro di un anno.
Il medico gli aveva dato del materiale informativo. Steve aveva gettato tutto quanto
in un cestino mentre raggiungeva la macchina. In piedi sulla spiaggia deserta, si infilò
le mani in tasca e guardò il molo. Sebbene la sua vista non fosse più quella di un
tempo, distingueva le persone che passeggiavano o pescavano e si meravigliò della
loro normalità. Era come se non fosse accaduto niente di straordinario.
Stava per morire e questo gli fece capire che tante cose che fino a quel giorno lo
avevano preoccupato non avevano più importanza. La sua polizza sulla vita? Non
sarebbe servita. Un lavoro continuativo? Non aveva importanza. Il desiderio di
incontrare un'altra donna e innamorarsi? Non sarebbe stato giusto nei suoi confronti.
Era finito tutto, si ripetè. Nel giro di un anno, sarebbe morto. Sì, aveva immaginato
che ci fosse qualcosa che non andava, e forse si era persino aspettato che il medico gli
desse una notizia del genere. Ma il ricordo della diagnosi cominciò a riaffiorare nella
sua mente. Fu assalito da un violento tremito. Aveva paura ed era solo.
Si nascose il volto tra le mani e si chiese perché fosse successo proprio a lui.
Il giorno successivo, telefonò a Chan e le spiegò che non poteva più darle lezioni. Poi
si incontrò con il pastore Harris e gli diede la notizia. In quel periodo il pastore era in
convalescenza dopo le ustioni riportate nell'incendio, e pur rendendosi conto che era
un gesto egoistico da parte sua caricarlo del proprio fardello, Steve non sapeva a chi
altro rivolgersi. Era andato a casa sua, si erano seduti sulla veranda e lo aveva messo
al corrente. Cercò di essere distaccato come se non stesse parlando di se stesso, ma
non ci riuscì, e alla fine scoppiarono a piangere entrambi.
Mentre passeggiava sulla spiaggia, si domandava come impiegare il tempo che gli
restava. Che cosa era più importante per lui? Passando davanti alla chiesa - i restauri
non erano ancora cominciati, ma i muri anneriti erano stati abbattuti e portati via - si
trovò a fissare il buco dove una volta si trovava la vetrata, e ripensò al pastore Harris
e alle innumerevoli mattinate che aveva trascorso nell'alone di luce proiettato dai
vetri colorati.
Fu allora che capì di dover costruire un'altra vetrata.
Il giorno dopo, telefonò a Kim. Quando le dette la notizia, lei pianse a dirotto. Steve,
invece, non cedette alle lacrime, e per qualche motivo comprese che non avrebbe più
pianto.
In seguito la richiamò, per chiederle se i figli potevano trascorrere l'estate con lui;
sebbene l'idea la spaventasse, lei accettò. Su sua richiesta Kim acconsentì a non
informarli delle sue condizioni. Sarebbe stata un'estate piena di bugie, ma che
cos'altro poteva fare?
In primavera, con le azalee in fiore, cominciò a riflettere più spesso sulla natura di
Dio. Esisteva oppure no? Avrebbe trascorso l'eternità in cielo, oppure non c'era niente
dopo la morte? Per qualche motivo porsi quell'interrogativo gli dava conforto; faceva
appello a un anelito nascosto dentro di lui. Alla fine giunse alla conclusione che Dio
era reale, e che lui desiderava sperimentarne la presenza in questo mondo, in termini
mortali. Allora aveva cominciato la sua ricerca.
Era l'ultimo anno della sua vita. Quella primavera era stata la più piovosa a memoria
d'uomo. Maggio, tuttavia, fu completamente asciutto, come se qualcuno avesse
all'improvviso chiuso il rubinetto.
Aveva acquistato il materiale necessario e si era messo al lavoro sulla vetrata. Poi, a
giugno, erano arrivati i suoi figli. Aveva passeggiato lungo la spiaggia e cercato Dio,
e in qualche modo era riuscito a riannodare i fili che lo legavano a loro. Ora, in una
buia notte di fine agosto, mentre le tartarughe appena nate si tuffavano nell'oceano,
lui tossiva sangue. Era giunto il momento di dire la verità.
I ragazzi erano spaventati e sapeva che si aspettavano che lui dicesse qualcosa che
fugasse le loro paure. Ma il suo stomaco era trafitto da migliaia di aghi. Si pulì il
sangue dalla faccia con il dorso della mano e cercò di parlare in tono calmo.
«Penso», disse,«di avere bisogno di andare all'ospedale.»
31.Ronnie
Il padre era a letto, collegato a una flebo, quando glielo disse. Non era vero. Non
poteva essere vero.
«No», disse,«non ci credo. I dottori si sbagliano.»
«Non questa volta», ribatté lui prendendole la mano.«E mi spiace che tu l'abbia
saputo in questo modo.»
Will e Jonah erano al bar dell'ospedale. Il padre aveva voluto parlare con ciascuno di
loro separatamente, ma tutto a un tratto Ronnie non voleva sentire più niente. Non
voleva che le dicesse altro.
La sua mente fu invasa da una miriade d'immagini diverse: all'improvviso capiva
perché il padre aveva voluto che lei e Jonah trascorressero l'estate con lui. E
comprese che sua madre sapeva la verità fin dal principio. Visto il poco tempo che gli
restava, il padre non aveva voluto litigare con lei. E il suo instancabile lavoro alla
vetrata ora aveva un senso. Ripensò al suo accesso di tosse in chiesa e alle volte che
lo aveva visto contorcersi per il dolore. Ora ogni tassello andava al suo posto. E tutto
stava crollando.
Lui non l'avrebbe vista sposata e non avrebbe tenuto in braccio un nipotino. Il
pensiero di trascorrere il resto della vita senza di lui era insopportabile. Non era
giusto. Non c'era niente di giusto in tutto questo.
Quando parlò aveva un tono brusco.«Quando pensavi di dirmelo?»
«Non lo so.»
«Prima della mia partenza? O quando ormai ero di nuovo a New York?»
Lui non rispose e lei si sentì montare la rabbia. Sapeva che non era giusto arrabbiarsi,
ma non potè trattenersi.«Allora? Avevi intenzione di dirmelo per telefono? Che cosa
mi avresti detto? «Oh, scusa, non te l'ho detto quest'estate, ma ho un cancro in fase
terminale. Tu come stai?»
«Ronnie...»
«Se non avevi intenzione di dirmelo, perché mi hai fatto venire qui? Perché potessi
guardarti morire?»
«No, tesoro. Al contrario. Ti ho chiesto di venire perché così io potevo guardarti
vivere.»
A questa risposta, sentì che qualcosa dentro di lei si scioglieva, come i sassi che
rotolano lungo il pendio della montagna prima di una frana. Sentì i passi e le voci
ovattate di due infermiere nel corridoio. I tubi al neon sul soffitto ronzavano piano,
spargendo una luce azzurrognola sulle pareti. La flebo gocciolava a ritmo regolare,
scene normali per un ospedale, ma lei non lo sopportava; girò la testa di lato per
evitare di piangere.
«Mi spiace, tesoro», proseguì lui.«So che avrei dovuto dirtelo, ma volevo trascorrere
un'estate normale, e volevo che tu e Jonah passaste un'estate normale. Desideravo
conoscere i miei figli. Puoi perdonarmi?»
La sua supplica la colpì nel profondo e lei lanciò un grido involontario. Il padre stava
morendo e chiedeva il suo perdono. C'era qualcosa di così struggente in questo e lei
non sapeva che cosa rispondere. Mentre aspettava, lui porse la mano e Ronnie gliela
strinse.
«Certo che ti perdono», disse, poi cominciò a piangere. Si appoggiò a lui, la testa
posata sul suo petto, e si accorse di quanto fosse magro. Sentiva le sue costole e
all'improvviso pensò che si stava consumando da mesi. Provò un dolore straziante
all'idea di non essersene accorta prima, di essere stata così assorbita dalla propria vita
da non rendersi conto di niente.
Quando il padre l'abbracciò, cominciò a singhiozzare più forte, consapevole del fatto
che entro breve tempo non sarebbe stato possibile avere neppure quel semplice gesto
d'affetto. Suo malgrado, ripensò al giorno del suo arrivo lì e alla rabbia che aveva
provato nei suoi confronti; ricordò che era uscita di casa furiosa. Allora lo aveva
odiato e adesso lo amava.
Era felice di conoscere finalmente il suo segreto, anche se avrebbe preferito non
saperlo. Sentì che le accarezzava i capelli e cercò di non pensare al futuro. Aveva
bisogno di più tempo. Aveva bisogno che lui ascoltasse il suo pianto, che la
perdonasse quando commetteva degli errori, che l'amasse come aveva fatto
quell'estate. Ne aveva bisogno per sempre, e sapeva che non sarebbe stato possibile.
Rimase stretta tra le sue braccia e pianse come la bambina che non era più.
Più tardi lui rispose alle sue domande. Le parlò del padre e le spiegò la storia del
cancro nella sua famiglia, le disse che aveva cominciato ad avere i dolori all'inizio
dell'anno. Le spiegò che la radioterapia era fuori questione, perché il tumore era
troppo diffuso. Mentre parlava, lei immaginava le cellule maligne spostarsi da un
punto all'altro del suo corpo, un esercito predatore che lasciava solo distruzione dietro
di sé. Gli chiese della chemioterapia, e lui le rispose allo stesso modo. Il tumore era
aggressivo e la chemio sarebbe servita a rallentarlo, ma non a bloccarlo, con la
conseguenza di farlo stare ancora più male. Le spiegò il concetto di qualità della vita,
e mentre lo faceva, lei lo odiò per non averla informata prima. Tuttavia sapeva che la
sua era stata la decisione giusta. Se lei avesse saputo della sua malattia, l'estate
sarebbe stata diversa.
«Ti fa ancora male?» gli chiese.
«Non come prima», la rassicurò.
«Quando lo hai detto alla mamma?»
«A febbraio, subito dopo averlo scoperto. Ma le ho chiesto di non dirvi niente.»
Ronnie cercò di ricordare come fosse stata la mamma all'inizio dell'anno. Di sicuro
era sconvolta, ma o Ronnie non si ricordava, o non ci aveva prestato attenzione.
Come sempre, era stata concentrata a pensare a se stessa. Ora avrebbe voluto credere
di essere diversa, ma sapeva che non era vero. Tra il lavoro e le ore con Will, aveva
passato poco tempo con il padre, e sapeva che il tempo era l'unica cosa che non
sarebbe tornata indietro.
«Se me lo avessi detto, avrei trascorso più tempo con te. Avremmo potuto vederci di
più, avrei potuto aiutarti in modo che non ti stancassi così.»
«Saperti qui era abbastanza per me.»
«Ma forse non saresti finito all'ospedale.»
Lui le prese la mano.«E forse, guardarti trascorrere un'estate spensierata e innamorarti
è stato quello che mi ha tenuto così a lungo fuori dall'ospedale.»
Sebbene non gliel'avesse detto apertamente, sapeva che non sarebbe vissuto ancora
molto, e lei cercò di immaginare la vita senza di lui.
Se non fosse venuta qui, se non gli avesse dato una possibilità, forse sarebbe stato più
facile separarsi. Ma era successo, e niente di ciò che l'aspettava sarebbe stato facile.
Nel silenzio opprimente della camera, sentiva il suo respiro affannato e guardava il
suo corpo smagrito. Chissà se ce l'avrebbe fatta fino a Natale, o magari più a lungo,
per darle modo di tornare a trovarlo.
Suo padre stava morendo, e lei non poteva fare niente per impedirlo.
«Che cosa accadrà?» gli chiese. Non aveva dormito a lungo, forse una decina di
minuti, poi si era girato a guardarla.
«Che cosa vuoi dire?»
«Dovrai rimanere in ospedale?»
Era l'unica domanda che aveva avuto timore a fargli. Mentre sonnecchiava, lei gli
aveva tenuto la mano, immaginando che non sarebbe più uscito da lì, ma avrebbe
trascorso ciò che gli restava della vita in quella camera che odorava di disinfettante,
circondato da estranei.
«No», rispose.«Probabilmente potrò tornare a casa tra qualche giorno.»
Sorrise.«Almeno lo spero.»
Lei gli strinse la mano.«E poi? Quando noi saremo partiti?»
Lui rifletté.«Suppongo che mi piacerebbe vedere la vetrata completata. E finire la
canzone che ho composto. Credo ancora che contenga qualcosa di... speciale.»
Lei avvicinò la sedia al letto.«Io volevo sapere chi si prenderà cura di te.»
Lui non rispose subito, ma cercò di mettersi seduto.«Me la caverò», disse.«E se mi
servisse qualcosa, potrei chiamare il pastore Harris. Abita molto vicino.»
Lei cercò di immaginarsi il pastore Harris, con le mani ustionate e il bastone, che
cercava di aiutare il padre che aveva bisogno di salire in macchina. Lui parve leggerle
nella mente.
«Non ti preoccupare», mormorò.«Sapevo che sarebbe successo e se fosse necessario,
l'ospedale ha un settore per malati terminali.»
Lei non voleva immaginarselo lì.«Un settore per malati terminali?»
«Non è come pensi. Ci sono stato.»
«Quando?»
«Qualche settimana fa. E poi di nuovo la settimana scorsa. Sono pronti ad
accogliermi appena ne avrò bisogno.»
Provò una stretta allo stomaco e una sensazione di nausea.«Tu però preferiresti
tornare a casa, vero?»
«Lo farò», disse lui.
«Fino a quando non ce la farai più?»
La sua espressione era di una tristezza straziante.«Fino a quando non ce la farò più.»
Uscì dalla camera del padre e andò al bar. Ora, le aveva detto lui, voleva parlare con
Jonah.
Si sentiva stordita mentre percorreva i corridoi dell'ospedale. Era quasi mezzanotte,
ma il pronto soccorso era pieno di gente. Le infermiere correvano qua e là, portando
cartelle cliniche e carrelli di medicinali. Era sorpresa dalla quantità di persone che si
recavano in ospedale, ma sapeva che nella maggior parte dei casi sarebbero tornate a
casa l'indomani. Il suo papà, invece, sarebbe stato trasferito in una stanza al piano di
sopra. Stavano aspettando i documenti necessari.
Attraversò la sala d'attesa affollata e arrivò nell'atrio dell'ospedale, dov'era il bar.
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, il frastuono diminuì di colpo. Ora sentiva
il rumore dei propri passi e riusciva a udire i propri pensieri. Questo era il posto dove
andavano le persone malate; questo era il posto dove le persone andavano a morire, e
lei sapeva che il padre lo avrebbe visto di nuovo.
Raggiunse il bar. Si stropicciò gli occhi gonfi e arrossati, cercando di dominarsi.
Jonah e Will erano a un tavolo accanto alla porta e Will la vide. Sul tavolo c'era una
bottiglia d'acqua mezza vuota e un pacchetto di biscotti. Jonah si voltò a guardarla.
«Ci hai messo tanto», esclamò.«Che cosa succede? Papà sta bene?»
«Sta meglio», disse lei.«Vuole parlarti.»
«Di che cosa?» Jonah posò un biscotto.«Non sono nei guai, vero?»
«No, stai tranquillo. Vuole dirti che cosa sta succedendo.»
«Perché non puoi farlo tu?» Aveva il tono agitato e Ronnie si sentì stringere il cuore
per l'angoscia.
«Perché vuole parlare con te da solo. Come ha fatto con me. Io ti accompagnerò e
aspetterò fuori dalla porta, d'accordo?»
Jonah s'incamminò verso l'uscita, lasciando che lei lo seguisse.«D'accordo», disse
mentre la superava e Ronnie provò l'impulso improvviso di scappare via, ma sapeva
di dover restare con Jonah.
Will era rimasto seduto, immobile, gli occhi fissi su Ronnie.
«Ti raggiungo subito, va bene?» disse rivolta al fratello.
Will si alzò, l'espressione profondamente preoccupata. Lui sa, le venne da pensare
d'un tratto. Per qualche motivo lo sa già.
«Puoi aspettarci qui?» chiese Ronnie.«So che forse...»
«Nessun problema», disse lui sottovoce.«Resterò qui per tutto il tempo che avrai
bisogno di me.»
Fu invasa da un'ondata di sollievo e gli rivolse un'occhiata riconoscente, poi
raggiunse Jonah e insieme si avviarono nel corridoio vuoto.
Non le era mai capitato di vedere qualcuno dei suoi cari morire. Sebbene i genitori
del padre fossero morti e lei ricordasse di essere stata al loro funerale, non li aveva
conosciuti bene. Non erano il genere di nonni che andavano a trovare i nipoti. In un
certo senso erano degli estranei, e anche dopo la loro scomparsa non aveva mai
sentito la loro mancanza.
L'esperienza più simile a questa era stata quando Amy Childress, la sua insegnante di
storia delle medie, era rimasta uccisa in un incidente stradale un'estate dopo la fine
della scuola. Era stata informata da Kayla, e ricordava di avere provato più un senso
di sgomento che di tristezza, se non altro perché Amy era tanto giovane. La signorina
Childress non aveva ancora trent'anni e Ronnie ricordava che le era sembrata
un'esperienza surreale. Era stata un'insegnante molto disponibile, una delle poche che
ridesse in classe. Quand'era tornata a scuola in autunno, non era sicura di che cosa
aspettarsi. Come reagiscono le persone a una cosa del genere? Che cosa pensavano
gli altri insegnanti? Il primo giorno di scuola era'entrata cercando segnali che
indicassero qualcosa di diverso, ma a parte una piccola targa commemorativa appesa
accanto alla porta della presidenza, non aveva notato niente di straordinario. Gli
insegnanti facevano lezione e parlavano tra di loro in sala professori; la signora
Taylor e il signor Burns, due insegnanti con cui la signorina Childress pranzava
spesso, sorridevano e chiacchieravano come se non fosse successo niente.
La cosa l'aveva turbata. Certo, l'incidente era avvenuto all'inizio dell'estate e le
persone avevano avuto tempo di elaborare il lutto, ma passando accanto all'aula della
signorina Childress e vedendo che veniva usata come aula di scienze, aveva provato
un moto di rabbia, non solo perché era morta, ma anche per il fatto che il suo ricordo
fosse stato cancellato definitivamente in un intervallo di tempo tanto breve.
Non voleva che la stessa cosa succedesse al padre. Non voleva che fosse dimenticato
nel giro di poche settimane: era una brava persona, un buon padre, e si meritava di
più.
Pensare a queste cose le fece capire anche qualcos'altro: in realtà non lo aveva mai
conosciuto. L'ultima volta che aveva trascorso del tempo con lui era stato durante il
primo anno delle superiori. Ora era maggiorenne, poteva votare e arruolarsi, e durante
l'estate lui le aveva tenuto nascosto il proprio segreto. Chi sarebbe stato se non avesse
saputo ciò che lo aspettava? Chi era in realtà?
Non aveva niente che l'aiutasse a giudicarlo, a parte i ricordi di lui come insegnante
di pianoforte. Lo conosceva ben poco. Non sapeva quali fossero i suoi scrittori
preferiti, non conosceva il suo animale preferito, e a dire il vero, neppure il suo colore
preferito. Non erano cose importanti, ma per qualche motivo l'addolorava sapere che
non avrebbe mai conosciuto le risposte.
Dietro la porta udì i singhiozzi di Jonah e comprese che sapeva la verità. Sentii anche
la voce bassa del padre. Si appoggiò al muro, soffrendo per Jonah e per se stessa.
Avrebbe voluto fare qualcosa per scacciare quell'incubo. Avrebbe voluto far tornare
indietro il tempo al momento in cui le uova di tartaruga si erano schiuse, quando tutto
al mondo era ancora in ordine. Avrebbe voluto trovarsi accanto al ragazzo che amava,
insieme con la sua famiglia felice. Di colpo le tornò in mente l'espressione raggiante
di Megan mentre ballava con il padre, al matrimonio, e provò una fitta di dolore
all'idea che lei e suo padre non avrebbero mai condiviso quel momento speciale.
Chiuse gli occhi e si premette le mani sulle orecchie, cercando di non sentire il pianto
di Jonah. Era così disperato, così piccolo... così spaventato. Non poteva capire quello
che stava succedendo, non si sarebbe mai ripreso del tutto. Sapeva che non avrebbe
dimenticato facilmente quel terribile giorno.
«Posso fare qualcosa per te?»
Quelle parole le giunsero da molto lontano, ma comprese che erano rivolte a lei.
Alzando gli occhi pieni di lacrime, vide il pastore Harris in piedi di fronte a lei.
Incapace di rispondere, si limitò a scuotere la testa. Lui aveva un'espressione gentile,
ma si capiva che soffriva da come stringeva il bastone, dalle spalle curve.
«Sono molto addolorato», disse. Aveva la voce stanca.«Non posso neppure
immaginare che cosa significhi per te. Il tuo papà è una persona speciale.»
Lei annuì.«Come faceva a sapere che era qui? Le ha telefonato lui?»
«No», rispose.«L'ha fatto una delle infermiere. Vengo qui due o tre volte la settimana,
e quando lo hanno ricoverato, hanno pensato che fosse giusto informarmi. Sanno che
lo considero come un figlio.»
«Vuole parlargli?»
Il pastore Harris guardò la porta chiusa.«Soltanto se lui lo vorrà.» Dalla sua
espressione addolorata, capì che sentiva i singhiozzi di Jonah.«E dopo avere parlato
con voi due, sono sicuro che lo vorrà. Non hai idea di quanto temesse questo
momento.»
«Ne avete parlato?»
«Molte volte. Vi ama più della sua vita, e non voleva farvi soffrire. Sapeva che
avrebbe dovuto dirvelo, ma sono sicuro che non era sua intenzione farvelo scoprire in
questo modo.»
«Non ha importanza. Tanto non cambia niente.»
«Però tutto è cambiato», replicò il pastore Harris.
«Perché adesso lo so?»
«No», replicò lui.«Per via del tempo che avete trascorso insieme. Prima del vostro
arrivo, lui era estremamente nervoso. Non per la malattia, ma perché desiderava tanto
passare del tempo con voi, e voleva che tutto andasse bene. Non credo che tu ti renda
conto quanto sentisse la vostra mancanza, o quanto ami te e Jonah. Contava i giorni
che mancavano al vostro arrivo. Quando andavo a trovarlo, mi diceva, 'diciannove',
oppure, 'dodici'. E il giorno prima del vostro arrivo? Ha passato ore a pulire la casa e
a rifare i letti. So che il posto dove abita non è niente di speciale, ma se lo avessi visto
prima, capiresti. Voleva che voi due trascorreste un'estate memorabile, e voleva farne
parte. Come tutti i genitori, desidera che siate felici. Vuole sapere che ve la caverete.
Vuole sapere che prenderete le decisioni giuste. Era quello di cui aveva bisogno
quest'estate, ed è stato quello che gli hai dato.»
Lei lo guardò perplessa.«Ma io non ho sempre preso le decisioni giuste.»
Il pastore Harris sorrise.«Questo dimostra ancora di più che sei un essere umano. Lui
non si è mai aspettato la perfezione. Ma so che è fiero della giovane donna che sei
diventata. Me l'ha detto anche pochi giorni fa, e avresti dovuto vederlo, mentre
parlava di te. Era così... orgoglioso, così felice, e quella sera, quando ho pregato, ho
ringraziato Dio per questo. Perché tuo padre ha dovuto lottare duramente quando è
tornato qui. Temevo che non sarebbe più stato felice. E tuttavia, nonostante quello
che è successo, ora so che lo è.»
Lei provò un groppo in gola.«Che cosa dovrei fare?»
«Non credo che ci sia nulla che tu possa fare.»
«Ho paura», disse lei.«E papà...»
«Lo so. Voi due lo avete reso molto felice, ma anche lui ha paura.»
Quella sera Ronnie uscì sulla veranda. Le onde si infrangevano sul bagnasciuga e le
stelle brillavano nitide e intense, ma tutto il resto intorno a lei sembrava diverso. Will
si era fermato da loro ed era in camera a parlare con Jonah, ma la casa sembrava più
vuota.
Il pastore Harris le aveva detto che sarebbe rimasto all'ospedale tutta la notte, perciò
lei poteva riportare a casa Jonah. L'indomani il padre sarebbe stato sottoposto a
ulteriori esami e a una nuova visita con il dottore. Tutte quelle attività l'avrebbero
stancato, e lei sapeva che aveva bisogno di riposare. Ma voleva esserci, voleva stare
al suo fianco anche se dormiva, perché non voleva perdersi neppure un minuto del
tempo che gli rimaneva.
Alle sue spalle udì il cigolio della porta che si apriva; Will la richiuse piano dietro di
sé. Mentre si avvicinava, lei rimase girata a guardare la spiaggia.
«Si è addormentato», le disse.«Non credo che si renda conto di cosa sta accadendo.
Mi ha detto di essere sicurissimo che il dottore guarirà il suo papà e ha continuato a
chiedermi quando avrebbe potuto tornare a casa.»
Le tornarono in mente i singhiozzi del fratello all'ospedale e annuì debolmente. Will
l'abbracciò.
«Tu stai bene?» le chiese.
«Secondo te? Ho appena scoperto che mio padre è malato e che probabilmente non
arriverà a Natale.»
«Lo so», ribatté lui con dolcezza.«E mi spiace tanto. So quanto è difficile per te.»
Lei sentì il calore delle sue mani intorno alla vita.«Resterò qui stanotte, così se tu
dovessi andare via, ci sarà qualcuno con Jonah. Posso rimanere tutto il tempo che
vuoi. Dovrei partire tra un paio di giorni, ma posso telefonare al rettore e spiegargli la
situazione. In ogni caso, le lezioni non inizieranno fino alla prossima settimana.»
«Non puoi cambiare le cose», disse lei con una nota di asprezza nella voce che non
riuscì a trattenere.«Non lo capisci?»
«Non sto cercando di cambiare niente!»
«Invece sì! Ma non puoi!» Le sembrava che il cuore dovesse scoppiarle.«E non puoi
neanche capire ciò che sto passando!»
«Anch'io ho perso qualcuno», le ricordò lui.
«Non è lo stesso!» Respirò a fondo, cercando di bloccare le lacrime.«Sono stata così
meschina con lui. Ho smesso di suonare! Lo ritenevo responsabile di tutto e per tre
anni non gli ho rivolto la parola. Tre anni! E ora non posso recuperarli. Ma forse, se
non fossi stata tanto arrabbiata non si sarebbe ammalato. Forse sono io la causa di
tutto questo! Forse è stata colpa mia!» Si staccò bruscamente da Will.
«Non è stata colpa tua.»
Will tentò di abbracciarla di nuovo, ma era l'ultima cosa che lei desiderava e lo
allontanò da sé. Vedendo che non cedeva, prese a tempestarlo di pugni.
«Lasciami andare! Posso farcela da sola!»
Lui però la tenne stretta lo stesso, e quando lei si rese conto che non l'avrebbe
lasciata, crollò. Rimase a lungo abbracciata a lui mentre piangeva.
Ronnie era sdraiata nella camera buia e ascoltava il respiro regolare di Jonah. Will
dormiva sul divano in salotto. Sapeva che avrebbe dovuto cercare di riposare, ma era
in attesa dello squillo del telefono. Immaginava il peggio: che il padre avesse
cominciato a tossire, che avesse perso altro sangue, che non ci fosse più niente da
fare...
Accanto a lei, sul comodino, c'era la Bibbia. Poco prima le aveva dato un'occhiata,
senza sapere bene che cosa cercare. Chissà se Steve aveva sottolineato dei brani,
oppure messo dei segni. Mentre la sfogliava, aveva scoperto poche tracce del padre, a
parte il fatto che le pagine risultavano consunte, come se fossero state girate spesso.
Le sarebbe piaciuto che lui avesse lasciato qualcosa per appropriarsene, qualcosa che
rivelasse particolari della sua indole, ma non c'era niente che suggerisse neppure che
avesse trovato un brano più interessante di un altro.
Non aveva mai letto la Bibbia, ma per qualche ragione sapeva che avrebbe letto
quella, cercando il significato che il padre vi aveva trovato. Chissà se era un regalo
del pastore Harris, oppure se l'aveva comprata di sua iniziativa; e da quanto tempo la
possedeva? Erano così tante le cose che non sapeva di lui, e ora si chiedeva perché
mai non gli avesse fatto quelle domande.
Avrebbe rimediato adesso, si disse. Se era destino che avesse soltanto ricordi di lui,
voleva che fossero il più numerosi possibili, e mentre pregava per la prima volta dopo
anni, chiese a Dio di concedere loro abbastanza tempo per farlo.
32. Will
Will non aveva dormito molto. Per tutta la notte aveva sentito Ronnie rigirarsi nel
letto e camminare su e giù in camera. Sapeva quello che stava provando; ricordava il
senso di stordimento e colpa, l'incredulità e la rabbia, dopo la morte di Mikey. Gli
anni avevano smorzato l'intensità delle emozioni, ma ricordava ancora il desiderio
conflittuale di avere compagnia e di restare solo.
Provava una profonda tristezza per lei e anche per Jonah, troppo giovane per
comprendere quanto stava accadendo. E anche per se stesso.
Durante l'estate, Steve era stato incredibilmente gentile con lui, visto che avevano
trascorso molto più tempo a casa di Ronnie che a casa sua. Gli piaceva il suo modo di
cucinare e la spontanea intimità che condivideva con Jonah. Spesso li aveva visti
insieme sulla spiaggia, a far volare l'aquilone o a giocare a rincorrersi sulla battigia,
oppure a lavorare alla vetrata con serena concentrazione. Da quando lo conosceva,
non lo aveva visto arrabbiarsi neppure una volta, né alzare la voce. Forse dipendeva
dal fatto che conosceva il proprio destino, ma Will non credeva che bastasse a
spiegare tutto. Il padre di Ronnie era semplicemente... una brava persona in pace con
se stessa e con gli altri; voleva bene ai figli e confidava nel fatto che fossero
abbastanza assennati da prendere le decisioni giuste.
Sdraiato sul divano, si diceva che un giorno gli sarebbe piaciuto essere un padre così.
Per quanto amasse suo padre, non era sempre stato la persona amichevole che aveva
conosciuto Ronnie. Per lunghi periodi della sua vita, Will lo aveva visto di rado,
impegnato com'era a seguire lo sviluppo della sua attività. Se a questo si aggiungeva
l'indole volubile della madre e la morte di Mikey, che aveva fatto piombare tutta la
famiglia nella depressione per un paio d'anni, a volte aveva provato il desiderio di
essere nato altrove.
Sapeva di essere fortunato, e in effetti le cose ultimamente erano migliorate. Ma da
bambino non era stato facile, e ricordava quante volte si fosse augurato una vita
diversa.
Steve invece era un genitore del tutto differente.
Ronnie gli aveva raccontato che stava seduto per ore con lei mentre imparava a
suonare il piano, ma da quando lo frequentava non lo aveva mai sentito parlare della
cosa. Non l'aveva nominata neppure di sfuggita, e sebbene all'inizio Will lo trovasse
strano, l'aveva interpretato come un'intensa manifestazione del suo amore per Ronnie.
Lei non voleva parlarne, perciò lui si adeguava, anche se era stata la parte
preponderante della loro vita insieme. Era arrivato persino a nascondere il pianoforte
perché lei non voleva vederlo.
Chi l'avrebbe fatto?
Soltanto Steve, una persona che aveva imparato ad ammirare, il genere d'uomo che
lui stesso si augurava di diventare.
Fu svegliato dal sole del mattino che inondava il salotto e si stirò prima di alzarsi.
Sbirciando nel corridoio, vide che la porta della camera di Ronnie era aperta e capì
che lei era già sveglia. La trovò sulla veranda, nello stesso punto della sera prima.
«Buongiorno», la salutò.
Si girò a guardarlo con le spalle curve.«Buongiorno», rispose con un mezzo sorriso.
Spalancò le braccia e lui si strinse a lei, grato di quell'abbraccio.
«Mi spiace per ieri notte», gli disse.
«Non devi scusarti.» Lui le arruffò i capelli.«Non hai fatto niente di sbagliato.»
«Comunque grazie lo stesso.»
«Non ti ho sentita alzarti.»
«Sono sveglia da un po'», spiegò sospirando.«Ho telefonato in ospedale e ho parlato
con papà. Non me l'ha detto apertamente, ma ho capito che soffre ancora molto. È
probabile che lo tengano ricoverato per qualche giorno, per fare ulteriori analisi.»
In qualsiasi altra circostanza, lui le avrebbe assicurato che sarebbe andato tutto bene,
ma in questo caso sapevano entrambi che erano parole senza senso. Perciò lui si
chinò e appoggiò la fronte a quella di lei.
«Sei riuscita a dormire almeno un po'?»
«Non proprio. Alla fine mi sono messa nel letto di Jonah, ma la mia mente non
voleva spegnersi. Non solo per quello che sta succedendo a papà.» Fece una
pausa.«Anche per te. Andrai via tra pochi giorni.»
«Te l'ho detto, posso rimandare la partenza. Se vuoi che resti...»
«Non voglio che tu lo faccia. Stai per iniziare un nuovo capitolo della tua vita.»
«Ma non è necessario che io parta subito. Le lezioni non inizieranno...»
«Non voglio», ripetè lei. Aveva il tono dolce ma risoluto.«Devi andare al college e
questo non è un tuo problema. Può sembrarti spietato, ma non lo è. Lui è mio padre,
non il tuo. Non voglio sentirmi responsabile del tuo ritardo, lo capisci?»
Sapeva che aveva ragione anche se lui avrebbe desiderato che non fosse così. Si
slacciò il braccialetto e glielo porse.
«Voglio che lo tenga tu», mormorò, e guardandola in faccia ebbe la conferma che
capiva quanto fosse importante per lui che lo accettasse.
Con un sorriso strinse il dono nella mano. Will stava per dire qualcosa, ma fu
interrotto dallo sbattere della porta del laboratorio. Per un attimo pensarono che fosse
entrato un intruso. Poi videro Jonah che trascinava faticosamente fuori una sedia
rotta. Con grande sforzo la sollevò e la gettò oltre la duna accanto al laboratorio.
Anche da lontano Will colse la furia nell'espressione del ragazzino.
Ronnie era scattata in piedi.
«Jonah!» esclamò mettendosi a correre.
Will la raggiunse con un balzo, rischiando di scontrarsi con lei sulla porta del
laboratorio. Guardando all'interno, vide Jonah che cercava di spostare un pesante
scatolone. Lo spingeva con tutte le sue forze, e non si rese subito conto
dell'improvvisa comparsa dei due.
«Che cosa stai facendo?» domandò Ronnie sgomenta.«Quando sei venuto qui?»
Jonah continuava a spingere lo scatolone sbuffando.
«Jonah!» lo chiamò Ronnie.
Il grido penetrò nella sua mente concentrata e lui si voltò sorpreso verso Will e la
sorella.«Non ci arrivo!» esclamò con rabbia, prossimo al pianto.«Non sono
abbastanza alto!»
«Dove non riesci ad arrivare?» domandò lei prima di fare un passo avanti.«Ti sei
tagliato!» esclamò in preda al panico.
Will notò i jeans strappati e il sangue sulla gamba di Jonah mentre Ronnie correva
verso di lui. Spinto dai propri demoni, Jonah continuava a muovere lo scatolone che
sbatté contro uno scaffale. La creatura mezzo scoiattolo e mezzo pesce si rovesciò
finendo addosso a Jonah proprio mentre Ronnie lo raggiungeva.
Aveva la faccia congestionata e tesa.«Vattene! Posso farlo da solo! Non ho bisogno di
te!» gridò.
Cercò di spostare nuovamente lo scatolone, ma era bloccato dallo scaffale. Ronnie
voleva aiutarlo, ma Jonah la spinse via. Will vide che aveva le guance rigate di
lacrime.
«Ti ho detto di andartene!» ripetè lui.«Papà vuole che finisca la vetrata! Devo farlo
io! Non tu! Ci abbiamo lavorato per tutta l'estate.» Parlava con voce rotta, pieno di
rabbia.«Era una cosa nostra. A te interessavano soltanto le tartarughe. Io invece stavo
con lui tutti i giorni!»
Scoppiò a singhiozzare.
«Non riesco ad arrivare alla parte centrale della vetrata. Sono troppo piccolo! Ma
devo finirla, perché forse se la finisco, papà starà meglio. Ho provato a usare la
seggiola ma si è rotta e io sono caduto e mi sono arrabbiato e allora volevo usare lo
scatolone, ma è troppo pesante...»
Ormai non riusciva più a parlare, e poi all'improvviso si lasciò cadere a terra.
Stringendo le braccia intorno alle gambe e chinando il capo, si abbandonò a
singhiozzi disperati.
Ronnie si mise a sedere sul pavimento accanto a lui. Gli cinse le spalle con un braccio
e lo strinse a sé mentre lui continuava a piangere. Will li guardava con un groppo in
gola.
Rimase con Ronnie mentre lei teneva stretto il fratello, senza cercare di consolarlo o
di tranquillizzarlo. Restò in silenzio, finché i suoi singhiozzi si calmarono. Alla fine
lui alzò la testa, il viso paonazzo rigato di lacrime.
Quando Ronnie parlò, la sua voce era gentile, come Will non l'aveva mai udita.
«Possiamo entrare in casa per qualche minuto? Voglio solo controllare il taglio che ti
sei fatto alla gamba.»
La voce di Jonah era ancora tremante.«E la vetrata? Bisogna finirla.»
Ronnie scambiò un'occhiata con Will, poi tornò a guardare il fratello.«Possiamo darti
una mano noi?»
«Non sapete come fare!»
«Ce lo insegnerai tu.»
Dopo avere disinfettato la ferita, tornarono al laboratorio.
La vetrata era quasi completa, i contorni dei visi erano già al loro posto e anche le
barre di rinforzo. Restavano da aggiungere un centinaio di piccoli pezzi per formare
lo sfondo.
Jonah mostrò a Will come tagliare le sbarrette di piombo e a Ronnie come saldarle;
Jonah tagliava il vetro, come aveva fatto per gran parte dell'estate, e lo faceva
scivolare tra le strisce di piombo prima di lasciare che Ronnie saldasse le tessere al
loro posto.
L'aria del laboratorio era pesante e lo spazio poco, ma alla fine tutti e tre riuscirono a
prendere un ritmo di lavoro. All'ora di pranzo Will uscì a comprare dei panini e
un'insalata per Ronnie; fecero una breve pausa per mangiare, e poi tornarono al
lavoro.
Nel corso del pomeriggio Ronnie telefonò all'ospedale tre volte, e ognuna si sentì dire
che il padre stava facendo degli esami oppure dormiva, ma comunque stava bene.
Quando fece buio, avevano terminato la metà del lavoro; Jonah cominciava ad avere
le mani stanche e fecero un'altra pausa per cena, poi portarono qualche lampada dal
salotto nel laboratorio per avere più luce.
Verso le dieci Jonah iniziò a sbadigliare allora rientrarono in casa. Will lo
accompagnò in camera sua e, quando tornò in salotto, Ronnie era già nel laboratorio.
Will si mise a tagliare le tessere; aveva visto Jonah farlo, e, dopo qualche errore
iniziale, cominciò a ingranare.
Lavorarono per tutta la notte e all'alba erano stanchi morti. Sul tavolo davanti a loro
c'era la vetrata finita.
Will non sapeva come l'avrebbe presa Jonah per non avere partecipato alla
collocazione degli ultimi pezzi, ma immaginava che Ronnie avrebbe saputo come
affrontare la cosa.
«Sembra che voi due siate stati alzati tutta la notte», disse una voce alle loro spalle.
Voltandosi, Will vide il pastore Harris sulla soglia.
L'uomo si appoggiava al bastone. Aveva i paramenti sacri, ma Will notò lo stesso le
cicatrici sul dorso delle mani e capì che continuavano anche sulle braccia.
Ripensando all'incendio della chiesa e al segreto che aveva custodito per tutti quei
mesi, non riuscì a guardare il pastore negli occhi.
«Abbiamo finito la vetrata», disse Ronnie con voce arrochita.
Il pastore Harris fece un cenno verso il tavolo.«Posso?»
Lei annuì.«Certo.»
Il pastore entrò nel laboratorio con andatura lenta. Il bastone risuonava sulle assi del
pavimento a ogni passo. Giunto al tavolo, la sua espressione cambiò dalla curiosità
alla meraviglia. Appoggiato al bastone, passò la mano nodosa sul vetro.
«È incredibile», sospirò.«È più bella di quanto avessi creduto possibile.»
«La maggior parte del lavoro è opera di Jonah e papà», disse Ronnie.«Noi abbiamo
dato soltanto una mano per finirla.»
Il vecchio sorrise.«Tuo padre ne sarà molto fiero.»
«Come vanno i lavori alla chiesa? So che papà vorrebbe vedere la vetrata montata al
suo posto.»
«Siamo nelle mani di Dio. La chiesa non è amata come un tempo, quindi la comunità
è assai ristretta. Ma confido che riusciremo a completare i lavori.»
Dall'espressione ansiosa di Ronnie, Will comprese che si chiedeva se sarebbe stato
possibile montare la vetrata in tempo, ma non si azzardava a chiederlo.
«Tuo padre sta meglio», la informò il pastore Harris.«Dovrebbero dimetterlo tra
qualche giorno, e stamattina potrai andarlo a trovare. Ieri ho passato la maggior parte
del tempo seduto da solo in camera sua mentre lo sottoponevano a tutti gli esami.»
«La ringrazio di essere stato con lui.»
«No, tesoro», replicò lui. Diede un'altra occhiata alla vetrata.«Sono io che ringrazio
te.»
Rimasero in silenzio, poi il pastore Harris uscì dal laboratorio. Will lo guardò
allontanarsi, senza riuscire a scacciare dalla mente l'immagine delle sue mani.
Esaminò la vetrata, considerando il lavoro che era stato necessario per costruirla, e
pensò alle parole del pastore e all'eventualità che il padre di Ronnie non vivesse
abbastanza a lungo da vederla montata.
Ronnie era immersa nei propri pensieri quando lui si girò a guardarla.
Fu come se dentro di lui fosse crollato qualcosa, come un castello di carte.«Devo dirti
una cosa.»
Seduti sulla duna, Will le raccontò tutto dal principio. Ronnie sembrava confusa.
«Mi stai dicendo che fu Scott ad appiccare il fuoco? E che tu da allora lo hai
protetto?» La sua voce era carica di incredulità.«Hai mentito per lui?»
Will scosse la testa.«Non è andata così. Ti ho detto che si è trattato di un incidente.»
«Non ha importanza.» Ronnie lo scrutò intensamente.«Incidente o meno, deve
assumersi la responsabilità delle proprie azioni.»
«Lo so. Gli ho detto di andare alla polizia.»
«E se non lo facesse? Lo coprirai per sempre? Lascerai che Marcus continui ad avere
il controllo delle vostre vite? È sbagliato.»
«Scott è mio amico...»
Ronnie balzò in piedi.«Il pastore Harris ha rischiato di morire in quell'incendio! È
stato all'ospedale per settimane. Sai quanto sono dolorose le ustioni? Perché non
chiedi a Blaze di spiegartelo? E la chiesa... non può nemmeno ricostruirla... e mio
padre forse non vedrà mai la vetrata al suo posto!»
Will la guardò calmo. Si rendeva conto che la situazione era emotivamente troppo
pesante per Ronnie: suo padre malato, l'imminente separazione, l'udienza in
tribunale.«È sbagliato», disse piano,«e mi sento in colpa per questo. Non puoi
immaginare quante volte ho avuto la tentazione di andare alla polizia.»
«E allora?» sbottò lei.«Che cosa significa? Eppure ti ho spiegato perché in tribunale
ho ammesso le mie colpe, no? Perché sapevo che quello che avevo fatto era
sbagliato! La verità significa qualcosa soltanto quando è difficile da ammettere! Non
lo capisci? Quella chiesa era la vita per il pastore Harris. Era la vita per mio padre! E
ora non c'è più e l'assicurazione non copre i danni e il pastore è costretto a dire messa
in un magazzino...»
«Scott è amico mio», protestò lui.«Non posso gettarlo in pasto ai lupi.»
Lei lo guardò stupita, come se stentasse a credere alle sue parole.«Come fai a essere
così egoista?»
«Non sono egoista...»
«Invece è quello che sei, e se non riesci a capirlo, non voglio parlare con te!»
esclamò. Si voltò e si avviò verso casa.«Vattene! Sparisci!»
«Ronnie!» la chiamò lui, alzandosi per seguirla. Lei intuì le sue intenzioni e si voltò
di scatto a guardarlo.
«È finita, capito?»
«Non è finita. Avanti, cerca di essere ragionevole...»
«Ragionevole? Vuoi che io sia ragionevole? Tu non hai mentito soltanto per Scott,
hai mentito a me! Sapevi perché mio padre stava costruendo la vetrata. Mi hai
ascoltato senza dire niente.» Quelle parole sembrarono portare nuova chiarezza nella
sua mente. Lei fece un altro passo indietro.«Non sei quello che credevo! Ti pensavo
migliore!»
Lui trasalì, ammutolito, poi fece un passo avanti, ma lei indietreggiò.
«Vattene! Tanto te ne andrai comunque e non ci vedremo più. Tutte le estati prima o
poi finiscono. Possiamo parlare e fingere quello che ci pare, ma non è possibile
cambiare la situazione, così tanto vale farla finita ora. Non ce la faccio ad affrontare
la cosa adesso, non posso stare con qualcuno di cui non mi fido.» I suoi occhi
brillavano di lacrime trattenute.«Non mi fido di te, Will!»
Lui non riusciva a muoversi, né a parlare.
«Vattene!» ripetè correndo in casa.
Quella sera, l'ultima che avrebbe trascorso a Wrightsville Beach, Will era seduto in
salotto, cercando di dare un senso a quanto era accaduto. Quando il padre entrò, alzò
gli occhi.
«Tutto a posto?» chiese Tom.«Sei stato piuttosto taciturno a cena.»
«Sì», rispose Will.«Tutto a posto.»
Il padre si mise seduto sul divano di fronte al figlio.«Sei nervoso per la partenza di
domani?»
Will fece segno di no.
«Hai preparato i bagagli?»
Will annuì e il padre si sporse in avanti osservandolo intensamente.
«Che cosa succede? Sai che con me puoi parlare.»
Will non rispose subito, assalito da un improvviso nervosismo.
Alla fine si decise a guardare il padre negli occhi.«Se ti chiedessi di fare qualcosa che
ritengo importante, qualcosa a cui tengo particolarmente, lo faresti? Senza fare
domande?»
Tom si appoggiò allo schienale del divano senza smettere di guardare il figlio, e il suo
silenzio fece comprendere a Will quale sarebbe stata la risposta.
33. Ronnie
«Hai davvero finito la vetrata?»
Ronnie guardava il padre che parlava con Jonah nella camera dell'ospedale. Aveva
sempre l'aria stanca, ma le guance avevano riacquistato un po' di colore e sul suo viso
non c'erano tracce di sofferenza.
«È fortissima, papà», disse Jonah.«Non vedo l'ora che tu la veda.»
«Ma c'erano ancora così tanti pezzi da inserire.»
«Ronnie e Will mi hanno dato una mano», ammise lui.
«Sul serio?»
«Ho dovuto mostrare loro come si faceva. Non sapevano proprio niente. Ma non ti
preoccupare, sono stato paziente anche quando sbagliavano.»
Il padre sorrise divertito.«Mi fa piacere sentirtelo dire.»
«Già, sono proprio un bravo maestro.»
«Non ne dubito.»
«C'è uno strano odore qua dentro, non è vero?» disse Jonah con una smorfia.
«Un po'.»
«Mi sembrava», Jonah indicò la televisione.«Hai guardato qualche film?»
Il padre fece segno di no.
«A che cosa serve quello?»
Il padre guardò il flacone della flebo.«Contiene delle medicine.»
«Ti faranno guarire?»
«Sto già meglio.»
«Allora tornerai a casa?»
«Presto.»
«Oggi?»
«Forse domani», rispose lui.«Ma sai che cosa mi andrebbe?»
«Che cosa?»
«Qualcosa da bere. Ti ricordi dov'è il bar? In fondo al corridoio girato l'angolo?»
«So dov'è. Non sono un bambino piccolo. Che cosa vuoi?»
«Una bibita, scegli tu.»
«Non ho i soldi però.»
Il padre lanciò un'occhiata a Ronnie, che capì e infilò la mano nella tasca
posteriore.«Ce li ho io», disse. Tirò fuori un dollaro e lo diede al fratello che uscì
dalla camera. Non appena se ne fu andato, Ronnie sentì su di sé lo sguardo del padre.
«Ha telefonato l'avvocato stamattina. Hanno rimandato la tua udienza a fine ottobre.»
Ronnie spostò lo sguardo verso la finestra.«In questo momento non ci voglio
pensare.»
«Mi spiace», disse lui. Rimase in silenzio per un po' e lei si rese conto che la stava
osservando.«Come se la sta cavando Jonah?» le chiese.
Ronnie alzò le spalle.«È perso. Confuso. Spaventato.
Si controlla a stento.» Come me, avrebbe voluto aggiungere.
Il padre le fece segno di avvicinarsi. Lei si accomodò sulla sedia che Jonah aveva
appena lasciato. Lui le prese la mano e gliela strinse.«Mi spiace di non avere avuto la
forza di restare fuori dall'ospedale. Non avrei mai voluto farmi vedere così da te.»
«Non devi scusarti per questo, mai», gli intimò lei.
«Ma...»
«Niente ma. Avevo bisogno di sapere. Sono contenta di sapere.»
Lui parve rassegnarsi. Ma poi la colse di sorpresa.
«Puoi parlarmi di quello che è successo con Will?»
«Perché mi fai questa domanda?» chiese lei.
«Perché ti conosco e capisco quando hai la mente altrove. E poi so quanto sei legata a
lui.»
Ronnie drizzò le spalle; non voleva mentirgli.«È a casa a fare i bagagli», rispose.
Percepiva lo sguardo scrutatore del padre.
«Ti ho mai detto che mio padre era un giocatore di poker?»
«Sì, certo. Perché? Vuoi giocare a poker?»
«No», rispose lui.«È solo che capisco che tra te e Will è successo molto più di quanto
mi vuoi raccontare. Ma se non ne vuoi parlare, non importa.»
Ronnie esitò. Sapeva che avrebbe capito, ma non era ancora pronta.«Come ti ho
detto, sta per partire», si limitò a rispondere. Suo padre lasciò perdere.
«Mi sembri stanca», le disse.«Dovresti andare a casa a riposare.»
«Lo farò. Ma voglio restare qui ancora un po'.»
Lui le strinse di nuovo la mano.«D'accordo.»
Lei guardò il flacone della flebo di cui Jonah aveva domandato in precedenza. Ma a
differenza del fratello, sapeva che non conteneva medicinali che potessero farlo stare
meglio.
«Ti fa male?» gli chiese.
Lui non rispose subito.«No», disse poi.«Non troppo.»
«Ma ti faceva male?»
Il padre cercò di eludere la domanda.«Tesoro...»
«Voglio saperlo. Ti faceva male prima di venire qui? Dimmi la verità.»
«Sì.»
«Da quanto tempo?»
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio sapere quando, ha cominciato a farti male», spiegò Ronnie appoggiandosi
alla sponda del letto. Lo costrinse a guardarla negli occhi.
Lui scosse la testa.«Non ha importanza. Ora mi sento meglio. E i dottori sanno che
cosa fare per aiutarmi.»
«Ti prego», disse lei.«Quando ha cominciato a farti male?»
Lui abbassò lo sguardo sulle loro mani, strette saldamente sul letto.«Non so, marzo,
aprile? Ma non era tutti i giorni...»
«Quando ti faceva male», proseguì lei decisa a sentire la verità,«che cosa facevi?»
«All'inizio non era così forte!»
«Però soffrivi lo stesso, giusto?»
«Sì.»
«Che cosa facevi?»
«Niente», protestò lui.«Cercavo di non pensarci. Mi concentravo su altre cose.»
Lei percepiva la tensione nelle spalle, ma era pronta a sentire la sua risposta, che
detestava e nel contempo desiderava.«Su che cosa ti concentravi?»
Con la mano libera il padre lisciò una piega del lenzuolo.«Perché è tanto importante
saperlo per te?»
«Perché voglio capire se ti concentravi su altre cose suonando il piano.»
Non appena l'ebbe detto, comprese che era così.«Ti ho visto suonare quella sera in
chiesa, la sera in cui hai avuto quell'attacco di tosse. E Jonah diceva che andavi lì di
nascosto dal giorno in cui avevano consegnato il pianoforte.»
«Tesoro...»
«Ricordi quando mi hai detto che suonare ti faceva stare meglio?»
Il padre annuì. Sapeva che cosa stava per chiedergli e lei era sicura che non avrebbe
voluto risponderle. Però aveva bisogno di sapere.
«Intendevi dire che non sentivi il dolore? Ti prego di dirmi la verità. Lo capirò se mi
mentirai.» Questa volta Ronnie non aveva intenzione di cedere.
Lui chiuse gli occhi, poi la guardò.«Sì.»
«Però hai eliminato lo stesso il pianoforte?»
«Sì», ripetè lui.
Sentì crollare definitivamente la sua facciata composta. Cominciò a tremarle il mento
mentre appoggiava la testa sul petto del padre.
Lui la accarezzò.«Non piangere», le disse.«Ti prego, non piangere...»
Lei non riusciva a smettere. Il ricordo del proprio comportamento e la
consapevolezza di ciò che lui stava passando assorbì tutte le energie che le
restavano.«Oh, papà...»
«No, piccola mia... ti prego, non piangere. Non era così forte. Pensavo di poterlo
superare, e credo di averlo fatto. È stato solo la settimana scorsa più o meno...» Le
mise un dito sotto il mento e quando lei lo guardò negli occhi, vide qualcosa che le
spezzò il cuore. Girò la testa dall'altra parte.
«Allora ce la facevo», ripetè lui, e lei comprese che stava dicendo la verità.«Te lo
garantisco. Faceva male, ma non era l'unico pensiero che avevo, perché potevo
sfuggire in altri modi. Per esempio lavorando alla vetrata con Jonah, oppure
godendomi l'estate che mi ero sognato quando avevo chiesto a tua madre di farvi
venire entrambi qui da me.»
Quelle parole la straziarono, il suo perdono divenne più difficile da accettare di
qualsiasi altra cosa.«Mi spiace tanto, papà...»
«Guardami», le disse, ma lei non poteva. Riusciva a pensare soltanto a quanto lui
avesse bisogno del suo pianoforte, e di come lei glielo avesse sottratto. Perché aveva
pensato solo a se stessa. Perché aveva voluto ferirlo. Perché non le era importato
niente.
«Guardami», ripetè lui. La sua voce era bassa ma insistente. Lei alzò la testa
controvoglia.
«È stata un'estate meravigliosa, la più bella della mia vita», bisbigliò lui.«Ti ho vista
salvare le tartarughe, e ho avuto l'occasione di vederti innamorata. E soprattutto, ho
potuto conoscerti come una giovane donna, non più una ragazzina. E non puoi
immaginare quanta gioia mi abbiano dato queste cose. Mi hanno aiutato a resistere
per tutta l'estate.»
Lei sapeva che erano parole sincere, e questo serviva soltanto a farla sentire peggio.
Stava per dire qualcosa, quando Jonah piombò nella camera.
«Guarda chi ho trovato», disse indicando qualcuno dietro di lui.
Ronnie alzò la testa e vide la madre alle spalle di Jonah.
«Ciao, tesoro», le disse.
Ronnie si voltò verso il padre.
«Ho dovuto avvisarla», le spiegò.
«Come stai?» domandò la mamma.
«Sto bene, Kim», rispose Steve.
Lei lo prese come un invito a entrare.«Credo che abbiamo bisogno tutti quanti di
parlare», annunciò.
Il mattino successivo, Ronnie aveva deciso cosa fare e aspettava in camera sua
l'arrivo della madre.
«Hai finito di preparare i bagagli?»
Lei fissò la madre con sguardo calmo ma determinato.«Non tornerò a New York con
te.»
Kim si mise le mani sui fianchi.«Pensavo che ne avessimo già discusso.»
«No», obiettò Ronnie decisa.«Tu ne hai discusso, ma io non verrò con te.»
La madre ignorò la sua osservazione.«Non essere ridicola. Certo che verrai a casa.»
«Non tornerò a New York.» Incrociò le braccia, ma non alzò la voce.
«Ronnie...»
Lei scosse la testa, sapendo di non essere mai stata così seria in vita sua.«Resterò qui,
e questo è quanto. Ho diciott'anni e non puoi obbligarmi a tornare con te. Posso fare
ciò che voglio.»
Mentre la madre elaborava le parole di Ronnie, si dondolava nervosa da un piede
all'altro.
«Questa...» disse finalmente indicando verso il salotto e cercando di mantenere un
tono ragionevole,«questa non è una tua responsabilità.»
Ronnie fece un passo verso di lei.«Ah no? E allora di chi è? Chi si prenderà cura di
papà?»
«Io e tuo padre ne abbiamo parlato...»
«Oh, ti riferisci al pastore Harris?» domandò Ronnie.«Ma certo, come se fosse in
grado di soccorrere papà se cadesse o ricominciasse a vomitare sangue. Non ha la
forza fisica per farlo.»
«Ronnie...» provò a insistere la madre.
La ragazza sentì la frustrazione e la determinazione che crescevano dentro di lei.«Il
fatto che tu ce l'abbia ancora con lui non significa che debba essere lo stesso per me.
So quello che ha fatto e mi dispiace che ti abbia ferito, ma è mio padre. È malato e ha
bisogno del mio aiuto e io resterò con lui. Non mi interessa se ha avuto una storia,
non m'interessa che ci abbia lasciato. Io gli voglio bene.»
Per la prima volta, la madre rimase genuinamente sorpresa. Quando parlò, la sua voce
s'era addolcita.«Che cosa ti ha detto esattamente tuo padre?»
Ronnie stava per protestare che non aveva importanza, ma qualcosa la bloccò.
L'espressione della madre era così strana, quasi... colpevole. Come se... come se...
La guardò mentre nella sua mente si faceva largo la consapevolezza.«Non è stato
papà ad avere una storia, giusto?» disse tranquilla.«Sei stata tu.»
La madre rimase immobile, ma la sua espressione cambiò. Per Ronnie fu come
ricevere un pugno allo stomaco.
È stata mamma ad avere una storia, non papà. E...
Di colpo si sentì soffocare, a mano a mano che le implicazioni di quella scoperta si
facevano strada nella sua mente.«Per questo è andato via, vero? Perché l'aveva
scoperto. Tu invece mi hai lasciato credere per tutto il tempo che fosse colpa sua, che
era andato via senza un motivo. Come hai potuto farlo?» A Ronnie mancava il fiato.
La madre non riusciva a parlare, e a lei sembrò di avere di fronte un'estranea.
«Era Brian?» domandò di colpo.«Hai tradito papà con Brian?»
Il silenzio di Kim le fece capire di avere ragione.
La mamma le aveva fatto credere che fosse stato il padre ad andarsene senza motivo.
E io non gli ho parlato per tre anni per questo...
«Sai una cosa?» esclamò Ronnie.«Non mi interessa. Non m'importa quello che è
successo tra voi, non m'importa quello che è successo in passato. Ma ora non lascerò
il mio papà, e tu non puoi...»
«Che cosa succede?» l'interruppe Jonah. Era appena entrato nella stanza, con un
bicchiere di latte in mano e le guardava. Lei colse il panico nella sua voce.
«Vuoi restare qui?» le chiese.
Ronnie impiegò qualche istante a rispondere, per cercare di riportare sotto controllo
la rabbia.«Sì», disse augurandosi di sembrare più calma di quanto si sentisse
realmente.«Io resto.»
Lui posò il bicchiere di latte sul cassettone.«Allora rimarrò anch'io», annunciò.
La madre aveva un'aria sconfortata, e sebbene Ronnie sentisse ancora dentro di sé la
lama tagliente della collera, era decisa a impedire al fratello di vedere morire il padre.
Attraversò la stanza e gli si parò davanti.
«So che vorresti restare, ma non puoi», gli disse dolcemente.
«Perché no? Tu resti.»
«Ma io non devo andare a scuola.»
«E allora? Posso andare a scuola qui. Io e papà ne abbiamo parlato.»
La madre si voltò verso di loro.«Jonah...»
Lui indietreggiò di colpo in preda al panico, quando si rese conto di essere in
minoranza.«Non mi interessa della scuola! Non è giusto! Voglio restare qui!»
34.Steve
Voleva farle una sorpresa. Almeno questa era stata la sua intenzione.
Aveva fatto un concerto ad Albany e l'esibizione successiva era prevista a Richmond
due giorni dopo. Di solito, non tornava a casa mentre era in tournée; era più facile
mantenere il ritmo passando da una città all'altra, ma siccome aveva un po' di tempo
libero e non vedeva la famiglia da due settimane, prese un treno e arrivò in città
mentre la folla del mezzogiorno sciamava dagli uffici in cerca di un posto dove
mangiare.
Fu una pura coincidenza che la vedesse. Ancora adesso, le probabilità che succedesse
gli sembravano al limite dell'impossibile. La città contava milioni di abitanti e lui era
nei pressi di Penn Station, davanti a un ristorante pieno di gente.
Il suo primo pensiero nel vederla, fu che quella donna assomigliava tantissimo a sua
moglie. Era seduta a un tavolo appartato di fronte a un uomo brizzolato che sembrava
un po' più grande di lei.
Indossava una gonna nera e una camicetta di seta rossa e faceva scorrere il dito sul
bordo del bicchiere. Lui colse tutti questi particolari con una sola occhiata e provò un
tuffo al cuore. Si trattava proprio di Kim, che stava pranzando con un uomo che lui
non conosceva. Attraverso la vetrina, la vide ridere ed ebbe l'assoluta certezza di
avere già visto quella risata in passato, quando le cose tra loro andavano meglio.
Quando lei si alzò da tavola, lui osservò l'uomo seguirla e posarle una mano sulla
schiena. Il suo gesto aveva qualcosa di tenero, quasi intimo, come se lo avesse già
fatto centinaia di volte. Probabilmente a lei piaceva il modo in cui la toccava, pensò
Steve, mentre osservava lo sconosciuto baciare sua moglie sulle labbra.
In quel momento non aveva saputo che cosa fare e, a ripensarci, non ricordava di
avere provato niente di particolare.
Sapeva che tra loro si era creata una frattura, e che negli ultimi tempi si erano
allontanati l'uno dall'altra e avevano litigato troppo. Forse avrebbe dovuto
comportarsi come supponeva che facesse la maggior parte degli uomini, entrare nel
ristorante e affrontarli. Magari fare una scenata. Ma lui era diverso dalla maggior
parte degli uomini. Così spostò nell'altra mano la valigia che aveva riempito la sera
precedente, si voltò, e si incamminò in direzione di Penn Station.
Prese il treno due ore dopo e arrivò a Richmond in tarda serata. Come sempre, alzò il
telefono per chiamare la moglie, che rispose al secondo squillo. In sottofondo sentiva
il rumore del televisore acceso.
«Finalmente ce l'hai fatta», osservò lei.«Mi chiedevo quando avresti telefonato.»
Seduto sul letto, ripensò alla mano dello sconosciuto sulla schiena della
moglie.«Sono appena rientrato», disse.
«È successo qualcosa di interessante?»
Lui era in un hotel economico, e il copriletto era un po' consunto sui bordi. Sotto la
finestra il condizionatore ronzava agitando le tende. Sopra il televisore c'era uno
strato di polvere.
«No», rispose.«Niente d'interessante.»
Mentre era in ospedale, queste immagini gli tornarono alla mente con una chiarezza
sorprendente. Forse perché sapeva che Kim sarebbe arrivata tra poco, con Ronnie e
Jonah.
Ronnie gli aveva telefonato per informarlo che non sarebbe tornata a New York.
Questo era l'inizio di un periodo non facile. Ricordava ancora la figura consumata e
irriconoscibile del padre verso la fine, e non voleva che sua figlia lo vedesse in quel
modo. Ma lei aveva deciso, e lui sapeva che non sarebbe riuscito a farle cambiare
idea. Ma la cosa lo spaventava.
Tutto di quella situazione lo spaventava.
Nelle ultime due settimane aveva pregato con regolarità. O almeno, era così che una
volta il pastore Harris l'aveva definito. Lui non univa le mani né chinava il capo; non
chiedeva di essere salvato. Tuttavia, condivideva con Dio le preoccupazioni che lo
tormentavano riguardo ai figli e gli domandava di renderli felici.
Probabilmente non era diverso dalla maggior parte dei genitori in questo.
I figli erano ancora giovani, avevano tanti anni da vivere, e si chiedeva che cosa ne
sarebbe stato di loro: se avrebbero continuato a vivere a New York, se si sarebbero
sposati e avrebbero avuto dei figli. Interrogativi normali, nient'altro, ma fu allora,
solo in quel momento, che comprese ciò che aveva voluto dire il pastore Harris
spiegandogli che camminava e parlava con Dio.
Diversamente da lui, tuttavia, doveva ancora sentire le risposte nel suo cuore e
sperimentare la presenza di Dio nella sua vita, e sapeva che non gli restava molto
tempo.
Guardò l'orologio. L'aereo di Kim sarebbe partito tra meno di tre ore. Dall'ospedale
lei si sarebbe fatta portare direttamente all'aeroporto insieme con Jonah, e quell'idea
lo terrorizzava.
Ancora pochi minuti e avrebbe abbracciato il figlio per l'ultima volta; quel giorno gli
avrebbe detto addio.
Jonah entrò in camera che già piangeva, e corse verso il letto. Steve ebbe appena il
tempo di aprire le braccia prima che lui vi si rifugiasse. Le sue spalle erano scosse dai
singhiozzi e Steve si sentì straziare il cuore. Si concentrò sulla sensazione che il
corpo del figlio gli dava contro il proprio, cercando di memorizzarla.
Amava i suoi figli più della vita stessa ma, soprattutto, sapeva che Jonah aveva
bisogno di lui e ancora una volta si rese conto che stava fallendo nel ruolo di padre.
Jonah continuava a piangere inconsolabile. Steve lo teneva stretto, non voleva
lasciarlo. Ronnie e Kim erano sulla soglia, a discreta distanza.
«Vogliono farmi tornare a casa, papà», singhiozzò il bambino.«Ho detto che potevo
stare con te, ma non vogliono darmi ascolto. Sarò bravo, papà. Ti prometto che sarò
bravo. Andrò a letto quando vorrai, terrò pulita la mia camera e non mangerò biscotti
quando non devo. Digli che posso restare. Ti prometto che mi comporterò bene.»
«Lo so che saresti bravo», mormorò Steve.«Sei sempre stato bravo.»
«Allora diglielo, papà! Digli che vuoi che resti qui con te. Ti prego! Diglielo!»
«Io vorrei che tu rimanessi», disse Steve.«Lo vorrei più di ogni altra cosa, ma la
mamma ha bisogno di te. Le manchi.»
Se Jonah aveva nutrito ancora qualche speranza, l'abbandonò definitivamente in quel
momento, e ricominciò a piangere.
«Ma non ti rivedrò mai più... e non è giusto! Non è giusto!»
Steve cercò di parlare nonostante il groppo che gli chiudeva la gola.«Ehi...»
disse.«Voglio che mi ascolti, va bene? Puoi farlo per me?»
Jonah alzò la testa. Con un enorme sforzo di volontà, Steve si impose di non farsi
travolgere dall'emozione. Non voleva crollare davanti al figlio.
«Voglio che tu sappia che sei il figlio migliore che un padre possa desiderare. Sono
sempre stato fiero di te, e so che crescerai e farai cose meravigliose. Ti voglio bene.»
«Anch'io ti voglio bene, papà. E mi mancherai tanto.»
Con la coda dell'occhio, Steve vide Ronnie e Kim con il volto rigato di lacrime.
«Anche tu mi mancherai. Ma veglierò sempre su di te. Te lo prometto! Ricordi la
vetrata che abbiamo costruito insieme?»
Jonah annuì, il mento che gli tremava.
«Io la chiamo la luce di Dio, perché mi fa pensare al paradiso. Tutte le volte che la
luce brilla attraverso la vetrata che abbiamo costruito o attraverso qualsiasi altra
finestra, ricorda che io sono lì con te, d'accordo? Quello sarò io. Sarò la luce nella
vetrata.»
Jonah annuì, senza neppure tentare di asciugarsi le lacrime. Steve continuava a
stringerlo a sé, desiderando con tutto il cuore di poterlo consolare.
35.Ronnie
Ronnie accompagnò sua madre e Jonah fuori dell'ospedale per salutarli e per parlare
alla mamma prima che partisse. Voleva chiederle di fare qualcosa per lei non appena
fosse arrivata a New York. Poi tornò dentro e si mise a sedere accanto al padre,
aspettando che si addormentasse. Lui rimase a lungo in silenzio, lo sguardo rivolto
alla finestra. Lei lo teneva per mano, e insieme osservavano le nuvole che si
muovevano lente.
Decise di uscire un po' a sgranchirsi le gambe e prendere una boccata d'aria fresca;
l'addio tra il padre e Jonah l'aveva lasciata scossa e affranta. Non voleva immaginarsi
il fratello sull'aereo o che entrava nell'appartamento; non voleva pensare che stesse
ancora piangendo.
Una volta fuori, si incamminò sul marciapiede davanti all'ospedale, la mente affollata
da mille pensieri. Lo aveva quasi superato quando lo sentì schiarirsi la voce. Era
seduto su una panchina; nonostante il caldo, portava la solita camicia a maniche
lunghe che lei gli aveva sempre visto.
«Ciao, Ronnie», disse il pastore Harris.
«Oh... salve.»
«Speravo di poter fare una visita a tuo padre.»
«Sta dormendo», rispose lei,«ma se vuole può salire.»
Lui batté il bastone per terra, temporeggiando.«Mi spiace molto per quello che stai
passando, Ronnie.»
Lei annuì. Faticava a concentrarsi, e anche una semplice conversazione le sembrava
un impegno incredibilmente arduo.
Per qualche motivo aveva la sensazione che per il pastore fosse lo stesso.
«Ti va di pregare con me?» I suoi occhi contenevano una supplica.«Mi piace pregare
prima di andare da tuo padre. Mi... aiuta.»
Lei passò in fretta dalla sorpresa al sollievo.
«Mi piacerebbe molto», rispose.
Cominciò a pregare tutti i giorni, e scoprì che il pastore Harris aveva ragione.
Non credeva certo che il padre potesse essere curato. Aveva parlato con il dottore,
aveva visto le radiografie, e dopo il colloquio era uscita dall'ospedale e si era rifugiata
sulla spiaggia a piangere.
Non si aspettava un miracolo. Sapeva che il padre non ce l'avrebbe fatta. Non dopo
ciò che aveva visto, non dopo le spiegazioni ricevute dal medico. Il cancro, le aveva
spiegato, aveva sviluppato metastasi allo stomaco, al pancreas e ai polmoni, e nutrire
qualche speranza sembrava... azzardato. Lei non riusciva a immaginare di doversi
rassegnare una seconda volta a quello che gli stava succedendo. Era già abbastanza
difficile così, specialmente a notte fonda, quando la casa era silenziosa e lei restava
sola con i propri pensieri.
Pregava per avere la forza che le serviva per aiutare il padre; pregava per essere
positiva di fronte a lui, invece di piangere tutte le volte che lo vedeva. Sapeva che lui
aveva bisogno della sua risata e del suo ottimismo.
La prima cosa che fece una volta uscito dall'ospedale, fu di portarlo a vedere la
vetrata. Lo guardò che si avvicinava lentamente al tavolo, gli occhi che scrutavano
ogni particolare, l'espressione incredula e allibita. Capì allora che in alcuni momenti
aveva temuto di non fare in tempo a vedere l'opera compiuta. Le rincresceva
tantissimo che Jonah non fosse lì con loro, e sapeva che anche il padre stava
pensando la stessa cosa. Era stato il loro progetto, il loro modo di trascorrere l'estate.
Il figlio gli mancava terribilmente, più di ogni altra cosa, e per quanto si fosse voltato
per non farsi vedere da Ronnie, lei sapeva che aveva le lacrime agli occhi mentre
tornava in casa.
Telefonò a Jonah non appena fu in salotto. Ronnie lo udì tranquillizzare il figlio
dicendogli che si sentiva meglio, e sebbene Jonah avrebbe potuto fraintenderlo,
sapeva che il padre aveva fatto la cosa giusta. Voleva che ricordasse la felicità di
quell'estate, e non si soffermasse sull'ineluttabile.
Quella sera, sul divano, Steve aprì la Bibbia e cominciò a leggere. Ora Ronnie ne
comprendeva il motivo. Si mise seduta accanto a lui e gli fece la domanda che le era
sorta spontanea da quando aveva sfogliato lei stessa il libro.
«Hai un passaggio preferito?» gli chiese.
«Più di uno», rispose lui.«I salmi mi sono sempre piaciuti. E trovo molto istruttive le
lettere di Paolo.»
«Però non hai sottolineato nessun brano», osservò lei. Quando vide che la guardava
stupito gli spiegò:«L'ho sfogliata mentre eri in ospedale e non ho trovato niente».
Lui rispose dopo un istante di riflessione.«Se cercassi di sottolineare qualcosa di
importante, finirei per sottolineare ogni riga. L'ho letta tante volte, eppure imparo
sempre qualcosa di nuovo.»
Ronnie lo fissò con attenzione.«Non ti avevo mai visto leggere la Bibbia prima...»
«Perché eri piccola. La tenevo sul comodino e la leggevo una o due volte la
settimana. Chiedi alla mamma. Lei te lo dirà.»
«Ultimamente hai letto qualcosa che ti piacerebbe condividere con me?»
«Lo vorresti?»
Lei fece segno di sì e lui impiegò pochi istanti a trovare il brano che cercava.«È la
lettera ai Galati, 5:22», disse tenendo la Bibbia aperta in grembo. Si schiarì la voce
prima di recitare.«Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.»
Lei lo osservò mentre leggeva, ricordando il proprio atteggiamento quando era
arrivata lì e la reazione del padre alla sua rabbia. Pensò alle volte in cui lui si era
rifiutato di discutere con la mamma, anche se lei cercava di provocarlo. Al momento
l'aveva considerata una debolezza e spesso si era augurata che il padre fosse diverso.
Ma adesso, tutto a un tratto, sapeva di essersi sbagliata su molte cose.
Ora si rendeva conto che suo padre non aveva mai agito da solo. Lo Spirito Santo
aveva sempre guidato la sua vita.
Il pacco della mamma arrivò il giorno seguente, e Ronnie capì che aveva fatto ciò che
le aveva chiesto. Portò il voluminoso involto in cucina, ne lacerò il bordo e fece
cadere il contenuto sul tavolo.
Diciannove lettere, tutte spedite dal padre, tutte ignorate e non aperte. Lesse i diversi
mittenti che lui aveva apposto nell'angolo in alto: Bloomington, Tulsa, Little Rock...
Non si capacitava di non averle mai lette. Davvero era stata così in collera? Così
amareggiata? Così... meschina? A ripensarci ora, conosceva la risposta, ma
continuava a non trovarvi un senso.
Sfogliò le lettere, cercando la prima che lui le aveva scritto. Come la maggior parte,
l'indirizzo era scritto ordinatamente con l'inchiostro nero, e il timbro postale era un
po' sbiadito. Oltre la finestra della cucina, il padre era in piedi sulla spiaggia, e dava
le spalle alla casa: come il pastore Harris, aveva cominciato a portare camicie a
maniche lunghe nonostante il caldo estivo.
Facendo un profondo respiro, aprì la busta e iniziò a leggere nella cucina inondata di
sole.
Cara Ronnie,
non so neppure come cominciare una lettera del genere, se non dicendoti che mi
dispiace.
Ecco perché ti avevo chiesto di incontrarmi al bar, ed era ciò che volevo dirti più tardi
quella sera quando ho telefonato. Capisco perché tu non sia venuta e non abbia
risposto al telefono. Sei arrabbiata con me, sei delusa e, in cuor tuo, credi che io sia
scappato. Ai tuoi occhi io ho abbandonato te e la famiglia.
Non posso negare che le cose sono andate in modo diverso, ma voglio che tu sappia
che, nei tuoi panni, probabilmente proverei quello che provi tu. Hai tutto il diritto di
essere arrabbiata con me. Hai tutto il diritto di essere delusa da me. Suppongo di
essermi meritato questi sentimenti, e non ho intenzione di cercare scuse per me o
incolpare altri, o di convincerti che un giorno capirai.
In tutta sincerità, potresti non capire, e questo mi addolorerebbe più di quanto tu
possa immaginare. Tu e Jonah siete sempre stati importantissimi per me, e voglio che
sappiate che né tu né lui avete nessuna colpa per quanto è accaduto. A volte, per
motivi non sempre chiari, i matrimoni non funzionano. Ma ricorda: io ti vorrò sempre
bene e vorrò sempre bene a Jonah. Vorrò sempre bene alla mamma e lei avrà sempre
il mio rispetto. È lei che mi ha dato i due doni più grandi che abbia mai ricevuto, ed è
stata, ed è, una madre stupenda. Per molti versi, nonostante la tristezza che provo
all'idea che io e tua madre non staremo più insieme, continuo a credere di essere stato
fortunato a restare sposato con lei per tutto questo tempo.
So che non è molto e di sicuro non è abbastanza per farti capire, ma io credo ancora
nel dono dell'amore. Voglio che ci creda anche tu. Te lo meriti nella vita, perché non
c'è niente di più appagante dell'amore.
Spero che in cuor tuo troverai un modo per perdonarmi di essermene andato. Non per
forza ora, né entro breve. Ma voglio che tu sappia una cosa: quando finalmente ti
sentirai pronta, ti aspetterò a braccia aperte e quello sarà il giorno più felice della mia
vita.
Ti voglio bene,
papà
«Sento di dover fare di più per lui», disse Ronnie.
Era seduta sulla veranda, di fronte al pastore Harris. Il padre dormiva in camera e il
reverendo era venuto a portare una teglia di lasagne cucinate dalla moglie. Era metà
settembre e di giorno faceva ancora caldo, anche se alcune sere prima avevano avuto
qualche avvisaglia dell'autunno imminente. Era durato una notte soltanto; la mattina
il sole era tornato a splendere caldo e Ronnie si era ritrovata a passeggiare sulla
spiaggia, chiedendosi se la notte appena trascorsa fosse stata solo un'illusione.
«Stai già facendo tutto il possibile», le disse lui.«Non so proprio che cosa potresti
fare di più.»
«Non mi riferisco al fatto di prendermi cura di lui. In questo momento, non ha
neppure così tanto bisogno di me. Vuole cucinare lui e passeggiamo sulla spiaggia.
Ieri abbiamo persino fatto volare l'aquilone. A parte gli analgesici, che lo
intorpidiscono molto, è tornato quello che era prima di andare all'ospedale. È solo
che...»
Il pastore Harris la guardò comprensivo.«Vorresti fare qualcosa di speciale. Qualcosa
che significhi molto per lui.»
Lei annuì, grata della sua presenza. Nelle ultime settimane, il pastore Harris era
diventato non solo un amico, ma l'unica persona con la quale poteva parlare
sinceramente.
«Confido che Dio ti mostrerà la risposta. Ma devi capire che a volte occorre un po' di
tempo per riconoscere ciò che Dio vuole da noi. Spesso succede così. Di solito la
voce di Dio non è altro che un bisbiglio, e bisogna ascoltare con grande attenzione
per distinguerla. Ma altre volte, assai rare, la risposta è evidente e risuona forte come
la campana di una chiesa.»
Ronnie sorrise, pensando a quanto avesse imparato ad apprezzare i loro
colloqui.«Sembra che lei parli per esperienza.»
«Anch'io voglio bene a tuo padre e, come te, volevo fare qualcosa di speciale per
lui.»
«E Dio le ha risposto?»
«Dio risponde sempre.»
«È stato un bisbiglio oppure una campana?»
Per la prima volta dopo molto tempo, lei scorse una scintilla di allegria nel suo
sguardo.«Una campana, ovvio: Dio sa che sono duro d'orecchi.»
«Che cosa farà?»
Lui raddrizzò le spalle.«Monterò la vetrata della chiesa», annunciò.«La settimana
scorsa è spuntato dal nulla un benefattore che non soltanto si è offerto di coprire il
resto dei costi del restauro, ma ha già mandato gli operai sul posto. I lavori
cominceranno domattina.»
Per qualche giorno, Ronnie rimase in ascolto, per cogliere eventuali scampanìi, ma
tutto quello che udiva erano le strida dei gabbiani. Quando cercava di ascoltare i
bisbigli, non sentiva un bel niente. La cosa non la sorprendeva molto, in fondo anche
il pastore Harris non aveva ricevuto la sua risposta immediatamente, ma si augurava
che arrivasse prima che fosse troppo tardi.
Nel frattempo continuava la vita di sempre. Aiutava il padre quando ne aveva
bisogno, lo lasciava fare quando non era necessario, e cercava di sfruttare al meglio il
tempo che restava loro da trascorrere insieme. Quella domenica, siccome il padre si
sentiva in forze, fecero una gita agli Orton Plantation Gardens, nei pressi di
Southport: non erano tanto distanti da Wilmington e Ronnie non c'era mai stata
prima. Mentre imboccavano la stradina di ghiaia che portava alla dimora originaria
risalente al 1735, Ronnie comprese che sarebbe stata una giornata memorabile. Era il
genere di posto che sembrava rimasto cristallizzato nel tempo. Le piante non erano
più fiorite, ma mentre camminavano tra le maestose querce con i rami bassi
drappeggiati di rampicanti, Ronnie si disse che non era mai stata in un luogo tanto
bello.
Mentre passeggiavano sottobraccio all'ombra degli alberi, parlarono dell'estate
appena trascorsa. Per la prima volta, Ronnie raccontò al padre del suo rapporto con
Will; gli disse di quando erano stati a pescare e di quando erano andati a infangarsi,
gli descrisse il suo acrobatico tuffo dalla tettoia, e l'increscioso incidente accaduto al
matrimonio. Tuttavia non gli parlò di quello che era successo il giorno prima della
partenza di Will per la Vanderbilt, né delle cose che lei gli aveva detto. Non era
ancora pronta; la ferita era troppo recente. Come sempre, mentre lei parlava, il padre
l'ascoltava in silenzio, intervenendo di rado, anche quando lei s'interrompeva. Questo
le piaceva molto. Anzi, era una cosa preziosissima per lei, e le venne da chiedersi chi
sarebbe diventata se quell'estate non fosse andata lì.
Raggiunsero Southport e cenarono in uno dei ristorantini affacciati sul porto. Sapeva
che il padre si stava stancando, ma il cibo era buono e come dessert divisero una fetta
di torta al cioccolato.
Era stata una bella giornata, e lei sapeva che non l'avrebbe dimenticata. Ma più tardi,
seduta in salotto dopo che il padre era andato a dormire, fu nuovamente assalita dalla
sensazione che avrebbe potuto fare qualcosa di più per lui.
La settimana successiva, la terza di settembre, Ronnie cominciò a notare un
peggioramento nelle condizioni del padre. Dormiva per gran parte della mattinata, e
tornava a coricarsi anche nel pomeriggio. I suoi pisolini diventavano sempre più
lunghi e la sera andava a letto più presto. Mentre riordinava la cucina per passare il
tempo, fece un calcolo e si rese conto che il padre ormai dormiva più di metà della
giornata.
Le cose continuarono a peggiorare. Ogni giorno che passava, il padre dormiva un
pochino di più. Inoltre non aveva appetito e non mangiava abbastanza. Si limitava a
spostare il cibo nel piatto e a fingere di masticare; quando lei gettava gli avanzi nella
spazzatura, si rendeva conto che aveva inghiottito uno o due bocconi soltanto.
Dimagriva a vista d'occhio e Ronnie cominciò a temere seriamente per le sue
condizioni.
Giunse la fine di settembre. Al mattino, l'odore salmastro dell'oceano veniva tenuto
lontano dai venti di montagna che soffiavano da Est. Faceva ancora caldo, era la
stagione degli uragani, ma per il momento la costa del North Carolina era stata
risparmiata.
Il giorno precedente il padre aveva dormito per quattordici ore. Ronnie sapeva che
non poteva farci niente, che il corpo non gli lasciava scelta, ma soffriva al pensiero
che lui trascorresse dormendo la maggior parte del poco tempo che gli restava.
Quando era sveglio, era più quieto, si accontentava di leggere la Bibbia o di fare
quattro passi intorno a casa.
Lei si sorprendeva a pensare a Will più spesso di quanto avrebbe immaginato.
Portava sempre il braccialetto che le aveva dato, e mentre lo sfiorava con un dito, si
chiedeva quali lezioni frequentasse, chi camminasse accanto a lui sui prati del
campus passando da un edificio all'altro. Era curiosa di sapere con chi si sedesse
quando mangiava alla mensa e se pensasse a lei mentre si preparava per uscire il
venerdì o il sabato sera. Forse, pensava nei momenti di maggior sconforto, aveva già
trovato un'altra ragazza.
«Ne vuoi parlare?» le chiese un giorno il padre, all'improvviso, mentre passeggiavano
lungo la spiaggia. Si stavano dirigendo verso la chiesa. Da quando i lavori erano
ripresi, la costruzione procedeva in fretta. La forza lavoro era ingente: carpentieri,
elettricisti, muratori specializzati. C'erano almeno quaranta furgoni al cantiere e un
viavai incessante di gente.
«Di che cosa?» domandò lei cauta.
«Di Will», disse lui.«Di come sia finita tra voi.»
Lei gli rivolse un'occhiata penetrante.«Com'è possibile che tu ne sia al corrente?»
«Perché nelle ultime settimane lo hai nominato solo di sfuggita, e non gli telefoni mai
né ricevi telefonate da lui. Non è difficile immaginare che sia successo qualcosa.»
«È complicato», disse lei riluttante.
Fecero qualche passo in silenzio prima che il padre parlasse di nuovo.«Se la cosa ti
può interessare, secondo me era un ragazzo davvero eccezionale.»
Lei lo prese sottobraccio.«Certo che mi interessa. Ed era quello che pensavo anch'io.»
Intanto avevano raggiunto la chiesa. Lei vide gli operai che portavano tavole di legno
e barattoli di pittura e come sempre il suo sguardo cercò lo spazio vuoto sotto la
guglia. La vetrata non era stata ancora montata - prima bisognava portare a termine la
maggior parte della costruzione, per evitare danni alla fragile struttura di vetro - ma al
padre piaceva lo stesso andare a vedere i lavori. Era contento di come stava venendo,
e non solo per via della vetrata. Diceva sempre quanto fosse importante la chiesa per
il pastore Harris e quanto il reverendo soffrisse per non poter celebrare la messa nel
luogo che da tempo ormai considerava come una seconda casa.
Il pastore Harris era spesso presente al cantiere, e di solito scendeva sulla spiaggia per
andare loro incontro. Guardandosi intorno ora, Ronnie lo vide in piedi nel
parcheggio. Parlava con qualcuno e intanto gesticolava animatamente indicando
l'edificio. Persino da lontano, si rendeva conto che sorrideva.
Stava per rivolgergli un cenno di saluto per attirare la sua attenzione, quando
all'improvviso riconobbe il suo interlocutore. Rimase sbigottita. L'ultima volta che
l'aveva visto, era sconvolta; l'ultima volta che erano stati insieme lui non l'aveva
neppure salutata. Forse Tom Blakelee si era trovato a passare di lì per caso e si era
fermato a parlare con il pastore dei lavori di ricostruzione della chiesa. Forse la sua
era semplice curiosità.
Per il resto della settimana, tutte le volte che andava al cantiere, controllava se Tom
Blakelee fosse lì, ma non lo vide più. Una parte di lei era sollevata, doveva
ammetterlo, che le loro strade non si incontrassero più.
Dopo le passeggiate fino alla chiesa e il sonnellino pomeridiano del padre, di solito
leggevano insieme. Lei terminò Anna Karenina, quattro mesi dopo averlo iniziato, e
prese in prestito dalla biblioteca Il dottor Zivago. C'era qualcosa negli scrittori russi
che le piaceva: forse il carattere epico delle loro storie; grandi tragedie e amori
contrastati dipinti a tinte fosche, molto distanti dalla sua vita qualunque.
Il padre continuava a studiare la Bibbia e a volte leggeva ad alta voce un passaggio o
un verso su richiesta della figlia. Alcuni erano brevi, altri più lunghi, ma molti
riguardavano il significato della fede. Lei non sapeva perché, ma aveva la sensazione
che l'atto di leggere ad alta voce desse un significato nuovo alle cose, che prima gli
era sfuggito.
Le cene ormai erano diventate frugali. All'inizio di ottobre aveva cominciato a
cucinare lei, accettando questo cambiamento con la stessa naturalezza con cui aveva
accettato tutto il resto nel corso di quell'estate.
In genere suo padre se ne stava seduto in cucina e parlavano mentre lei preparava la
pasta o il riso o rosolava della carne in padella. Era la prima volta che cucinava carne
dopo anni, e le sembrava strano spronare il padre a mangiarla dopo avergli messo il
piatto davanti. Lui faceva sempre molta fatica a mangiare, e le pietanze scondite,
perché le spezie gli irritavano lo stomaco, non stimolavano certo il suo appetito. Lei
però sapeva che aveva bisogno di nutrirsi perché continuava a perdere peso.
Una sera, dopo cena, si decise finalmente a raccontargli ciò che era accaduto con
Will. Gli disse dell'incendio e dei tentativi di Will di proteggere Scott, e di ciò che era
trapelato con Marcus. Il padre l'ascoltò con molta attenzione, come sempre.
«Posso farti una domanda?» chiese lui.
«Certo, puoi chiedermi quello che vuoi.»
«Quando mi avevi detto di essere innamorata di Will,
dicevi sul serio?»
Le tornò in mente che Megan le aveva rivolto la stessa
domanda.«Sì.»
«Allora penso che tu sia stata troppo dura con lui.»
«Ma stava coprendo un crimine...»
«Lo so. Ma se ci pensi, ora anche tu sei nella sua posizione. Ora sai la verità,
esattamente come lui. E non ne hai parlato con nessuno neppure tu.»
«Ma non sono stata io a commetterlo...»«Hai detto che non è stato nemmeno
lui.»«Che cosa stai cercando di dirmi? Che dovrei informare il pastore Harris?»
Lui scosse la testa.«No», rispose cogliendola di sorpresa.«Non credo che dovresti
farlo.»«Perché?»
«Ronnie», le disse dolcemente,«forse questa storia contiene più implicazioni di
quanto sembri.»«Ma...»
«Non sto dicendo di avere ragione. Sono pronto ad ammettere per primo che mi
sbaglio su tante cose. Ma se tutto è accaduto davvero come me lo hai raccontato,
allora devi sapere una cosa: il pastore Harris non vuole conoscere la verità. Perché
altrimenti dovrebbe prendere qualche provvedimento. E ti assicuro che non vorrebbe
mai ferire Scott o la sua famiglia, soprattutto se si è trattato di un incidente. Non è
quel genere d'uomo. E poi c'è un'altra cosa. Forse la più importante di tutte.»«Quale
sarebbe?»«Devi imparare a perdonare.»
Lei incrociò le braccia.«Ho già perdonato Will. Gli ho lasciato dei messaggi...»
Prima che lei potesse finire, il padre la fermò.«Non mi riferisco a Will. Devi imparare
a perdonare te stessa.»
Quella sera, in fondo al mucchio di lettere che suo padre le aveva scritto, Ronnie ne
trovò un'altra, ancora chiusa. Doveva averla aggiunta, senza che se ne accorgesse, di
recente, perché sulla busta non c'erano né il francobollo né il timbro postale.
Non sapeva se lui desiderava che la leggesse adesso oppure dopo la sua scomparsa.
Forse avrebbe potuto chiederglielo, ma non voleva farlo. In realtà non era sicura di
volerla leggere; già il fatto di tenere in mano la busta la spaventava, perché sapeva
che era l'ultima lettera che lui le avrebbe mai scritto.
La malattia continuava inesorabile il suo cammino. Sebbene seguissero la routine di
sempre - mangiare, leggere e fare passeggiate sulla spiaggia - il padre aveva
aumentato ancora la dose di antidolorifici.
A volte aveva gli occhi lucidi e assenti, ma lei aveva sempre l'impressione che il
dosaggio non bastasse a toglierli il dolore. Di tanto in tanto lo vedeva fare una
smorfia mentre leggeva seduto sul divano. Chiudeva gli occhi e reclinava la testa
all'indietro, il volto che mostrava sofferenza. Quando succedeva, lui le stringeva la
mano, ma con il passare dei giorni la sua stretta si era indebolita. Le forze lo
abbandonavano, pensò; tutto in lui si stava spegnendo. E ben presto sarebbe
scomparso completamente.
Si rendeva conto che anche il pastore Harris aveva notato quei cambiamenti nel
padre. Nelle ultime settimane andava da loro quasi tutti i giorni, di solito poco prima
di cena. In genere parlava di argomenti ameni; li aggiornava sulla costruzione della
chiesa, oppure narrava aneddoti divertenti del suo passato, riuscendo ad accendere un
sorriso fugace sul volto di Steve. Ma in certi momenti sembravano entrambi a corto
di argomenti.
Per tutti era tassativo evitare il tema della morte, e in quelle circostanze un velo di
tristezza sembrava scendere sul salotto.
Quando Ronnie intuiva che volevano restare da soli, usciva sulla veranda e cercava di
immaginare la loro conversazione. Non era difficile: parlavano della fede o della
famiglia, e forse dei rimpianti che avevano, ma sapeva che più spesso pregavano
insieme.
Li aveva sentiti una volta che era rientrata in casa a prendere un bicchiere d'acqua, e
ricordava di avere pensato che la preghiera del pastore Harris le era sembrata più che
altro una supplica. Lui aveva invocato la forza come se ne andasse della sua stessa
vita e, mentre lo ascoltava, Ronnie aveva chiuso gli occhi e si era unita in silenzio
alla preghiera.
La metà di ottobre portò tre giorni di freddo insolito per la stagione, tanto che di
mattina era necessaria la felpa. Dopo mesi di caldo incessante, Ronnie apprezzava
l'aria più pungente, ma furono giornate difficili per il padre. Andarono lo stesso a
camminare sulla spiaggia, ma lui si muoveva più lentamente, e si fermarono solo per
un istante alla chiesa, prima di tornare verso casa. Quando raggiunsero la porta, il
padre tremava di freddo. Lei allora gli preparò un bagno caldo, sperando che potesse
aiutarlo, mentre una stretta di panico l'attanagliava, di fronte a questi nuovi sintomi
che segnalavano come la malattia procedesse più rapida.
Un venerdì, una settimana prima di Halloween, il padre insistette affinché andassero a
pescare sul pontile dove Will l'aveva portata durante l'estate. L'agente Pete prestò loro
le canne e le esche. Stranamente, Steve non era mai stato a pesca in vita sua, così fu
Ronnie a dover infilare l'esca sull'amo. I primi due pesci che abboccarono riuscirono
a liberarsi, ma alla fine ne presero uno che finì sul pontile. Era la stessa varietà di
pesce che aveva preso con Will e mentre l'animale si dibatteva sotto le sue mani
intanto che gli toglieva l'amo, Ronnie fu assalita da uno struggente ricordo di Will
che la colpì come un dolore fisico.
Quando tornarono a casa, dopo quel tranquillo pomeriggio al pontile, trovarono due
persone ad aspettarli sulla veranda. Scesa dall'auto, Ronnie riconobbe Blaze e sua
mamma. Blaze era cambiata radicalmente. Teneva i capelli raccolti in una coda
ordinata, indossava un paio di calzoncini bianchi e una maglietta color acquamarina a
maniche lunghe. Non aveva né gioielli né trucco.
La vista di Blaze fece tornare in mente a Ronnie qualcosa che era riuscita a
dimenticare nei mesi trascorsi a occuparsi del padre: prima della fine di ottobre
sarebbe dovuta tornare in tribunale. Si domandò che cosa ci facessero lì le due donne.
Con calma aiutò il padre a uscire dalla macchina, offrendogli il braccio.
«Chi sono?» gli chiese lui sottovoce.
Ronnie glielo spiegò e, mentre si avvicinavano, Blaze andò loro incontro.
«Ciao, Ronnie», disse schiarendosi la voce. Strinse gli occhi nella luce del
tramonto.«Sono venuta per parlarti.»
Ronnie era seduta di fronte a Blaze in salotto, e osservava la ragazza fissare il
pavimento. I rispettivi genitori si erano accomodati in cucina per lasciarle sole.
«Mi spiace davvero tanto per tuo padre», cominciò Blaze.«Come sta?»
«Benino», rispose Ronnie.«E tu?»
Blaze si toccò il davanti della maglietta.«Mi resteranno per sempre le cicatrici qui»,
disse, poi si toccò le braccia e l'addome,«e qui.» Sorrise mestamente.«In realtà sono
fortunata a essere ancora viva.» Si agitò sulla sedia, poi guardò Ronnie negli
occhi.«Volevo ringraziarti per avermi portato all'ospedale.»
Ronnie fece un cenno d'assenso, chiedendosi ancora dove sarebbe andato a parare
quel colloquio.«Figurati.»
Nel silenzio che seguì, Blaze si guardò intorno nel salotto, senza sapere che cosa dire.
Ronnie, prendendo esempio dal padre, aspettò tranquilla.
«Sarei dovuta venire prima, ma so che hai avuto da fare.»
«Non importa», disse Ronnie.«Mi fa piacere vedere che sei tornata in forma.»
Blaze alzò gli occhi.«Davvero?»
«Certo», disse Ronnie. Poi sorrise.«Anche se somigli a un uovo di Pasqua.»
Blaze si guardò la maglietta.«Sì, lo so. È pazzesco, vero? La mamma mi ha comprato
dei vestiti.»
«Ti stanno bene. Scommetto che ora andate più d'accordo voi due.»
Blaze le rivolse un'occhiata triste.«Ci sto provando. Sono tornata a vivere con lei. Ma
è difficile. Ho fatto un sacco di stupidaggini. A lei, ad altre persone. A te.»
Ronnie rimase seduta immobile, l'espressione neutra.«Perché sei venuta qui, Blaze?»
'. La ragazza si torceva le mani in grembo, tradendo la propria agitazione.«Sono
venuta a chiederti scusa. So di non poter rimediare del tutto al guaio che ho
combinato, ma voglio che tu sappia che stamattina ho parlato con il procuratore
distrettuale. Le ho detto di essere stata io a infilarti quelle cose nella borsa perché ero
arrabbiata con te, e ho firmato una dichiarazione che attesta come tu fossi all'oscuro
di tutto. Dovresti ricevere una telefonata oggi o domani che ti scagiona, e mi ha
assicurato che le accuse contro di te saranno cancellate.»
Blaze aveva parlato così in fretta che dapprincipio Ronnie non fu sicura di avere
capito bene. Ma lo sguardo implorante della ragazza le disse ciò che le serviva
sapere. Dopo quei mesi, quei giorni e quelle notti d'ansia, era tutto finito di colpo.
Ronnie era sconcertata.
«Mi dispiace davvero», proseguì Blaze a voce bassa.«Non avrei mai dovuto metterti
quelle cose nella borsa.»
Ronnie stava ancora cercando di recepire la notizia che quell'incubo stava per finire.
Guardava intensamente Blaze, che ora tormentava un filo che le spuntava dall'orlo
della maglietta.«Che cosa ne sarà di te? Sarai incriminata?»
«No», disse. Poi alzò la testa, l'espressione determinata.«Non mi incrimineranno
perché in cambio ho fornito delle informazioni circa un altro crimine. Ben più grave.»
«Ti riferisci a ciò che ti è accaduto al molo?»
«No», rispose lei e a Ronnie parve di cogliere qualcosa di duro e sprezzante nel suo
sguardo.«Si tratta dell'incendio alla chiesa e delle sue vere cause.» Blaze si accertò
che Ronnie l'ascoltasse attentamente, prima di continuare.«Non fu Scott ad appiccare
il fuoco. La sua bottiglia incendiaria non c'entrava niente. È vero, finì vicino alla
chiesa, ma era già spenta quando toccò terra.»
Ronnie colse quest'informazione con crescente stupore. Per un attimo rimasero a
guardarsi in un silenzio carico di tensione.
«Allora chi fu ad appiccare l'incendio?»
Blaze si sporse in avanti, appoggiando i gomiti alle ginocchia, gli avambracci tesi
come in un gesto di supplica.«Stavamo facendo baldoria sulla spiaggia, Marcus,
Teddy, Lance e io. Qualche tempo dopo comparve Scott, a poca distanza. Fingemmo
di ignorarci a vicenda, ma lo vedemmo maneggiare delle bottiglie incendiarie. Will
era ancora distante e Scott ne lanciò una verso di lui, ma il vento fece deviare la
bottiglia verso la chiesa. Will cominciò ad agitarsi e si mise a correre. Marcus trovava
tutta la faccenda molto divertente e non appena la bottiglia cadde dietro la chiesa,
corse verso il sagrato. Io all'inizio non capii che cosa stesse succedendo, ma dopo
averlo seguito lo vidi dare fuoco all'erba secca accanto al muro della chiesa. E poi, di
colpo, tutta la parete laterale dell'edificio fu avvolta dalle fiamme.»
«Stai dicendo che è stato Marcus?» Ronnie era allibita.
Blaze annuì.«Aveva già causato altri incendi. Ha sempre amato il fuoco. Credo di
avere sempre saputo che fosse pazzo, però...» Si fermò, realizzando di avere
affrontato quell'argomento già troppe volte. Tornò a raddrizzarsi sul divano.«In ogni
caso, ho accettato di testimoniare contro di lui.»
Ronnie si sentiva soffocare: ricordava ciò che aveva detto a Will, e si rese conto di
colpo che se lui avesse fatto ciò che lei pretendeva, la vita di Scott sarebbe stata
rovinata inutilmente.
La nausea l'assalì, mentre Blaze riprendeva a parlare.«Mi dispiace davvero per tutto
quanto», disse.«E per quanto possa sembrare pazzesco, ti consideravo amica mia,
finché sono stata così idiota da rovinare ogni cosa.» Per la prima volta la sua voce
s'incrinò.«Ma tu sei una persona fantastica, Ronnie. Sei sincera e sei stata carina con
me senza nessun motivo.» Una lacrima le scese sulla guancia e lei si affrettò ad
asciugarla.«Non dimenticherò mai il giorno in cui mi hai offerto di venire a stare da
te, nonostante le cose terribili che ti avevo fatto. Mi sono... vergognata tanto. Però ero
riconoscente, sai? Ero grata che qualcuno ancora si preoccupasse per me.»
Blaze tacque, visibilmente emozionata. Dopo avere ricacciato indietro le lacrime,
fece un respiro profondo e fissò Ronnie con uno sguardo determinato.
«Se dovesse mai servirti qualcosa - e intendo, qualunque cosa - fammelo sapere.
Mollerò tutto il resto, capito? So che non potrò mai rimediare a quello che ti ho fatto,
ma in un certo senso è come se tu mi avessi salvata. Quello che è successo a tuo
padre è così ingiusto... farei di tutto per aiutarti.»
Ronnie annuì.
«Un'ultima cosa», aggiunse Blaze.«Non dobbiamo essere per forza amiche, ma se in
futuro dovessi incontrarmi di nuovo, mi faresti il piacere di chiamarmi Galadriel?
Non sopporto più il nome Blaze.»
Ronnie sorrise.«Ma certo, Galadriel.»
Come preannunciato da Blaze, il procuratore le telefonò quel pomeriggio,
informandola che le accuse contro di lei erano state ritirate.
Quella sera, mentre il padre dormiva in camera, Ronnie accese la TV per sentire il
notiziario. Non era sicura che avrebbero mandato in onda un servizio sulla notizia,
tuttavia, subito prima delle previsioni meteo, il cronista annunciò«l'arresto di un
nuovo sospetto nelle indagini relative all'incendio della chiesa avvenuto all'inizio
dell'anno». Intanto, sullo schermo, era apparsa una foto segnaletica di Marcus seguita
da alcuni dettagli sui suoi precedenti penali. Ronnie spense il televisore. Quegli occhi
freddi e senza emozioni avevano ancora il potere di innervosirla.
Pensò a Will e a ciò che aveva fatto per proteggere Scott da un crimine che non aveva
mai commesso. Che cosa c'era in realtà di tanto terribile, si chiese, se la lealtà verso il
suo amico aveva viziato il suo giudizio? Soprattutto alla luce delle nuove rivelazioni!
Ronnie non era più sicura di niente. Si era sbagliata su tante cose: il padre, Blaze, la
madre, persino Will. La vita era molto più complicata di quanto avesse immaginato
quando era un'adolescente capricciosa a New York.
Mentre camminava per casa, spegnendo le luci a una a una, rifletteva su se stessa.
Quella vita - una sequenza di feste, pettegolezzi scolastici e battibecchi con la
mamma -le sembrava far parte di un altro mondo, un'esistenza che aveva soltanto
sognato. Oggi c'erano le passeggiate sulla spiaggia con il padre, il fragore incessante
delle onde dell'oceano, l'odore dell'inverno imminente.
Halloween passò e lasciò Steve sempre più debole e stanco. Così, a un certo punto,
rinunciarono alle passeggiate sulla spiaggia che erano diventate troppo faticose per
lui. Sapendo che la malattia stava progredendo velocemente, Ronnie portò il
materasso nella camera del padre, per essere pronta in caso di necessità e per stargli
vicino il più a lungo possibile.
Ormai assumeva il dosaggio più elevato di antidolorifici che il suo fisico potesse
sopportare, ma non era mai abbastanza. Di notte, mentre dormiva sul pavimento
accanto a lui, lo sentiva lanciare gemiti che le spezzavano il cuore. Teneva i farmaci
sul comodino e, al risveglio, erano la prima cosa che prendeva. Di mattina restava
seduta vicino a lui, abbracciando il suo corpo scosso dai tremiti, finché il farmaco
faceva effetto.
Il male avanzava inesorabile. Adesso oltre a essere debole si muoveva con fatica,
tanto che Ronnie doveva sostenerlo tutte le volte che si spostava da un punto all'altro
della stanza, per impedirgli di cadere.
Questa situazione pesava enormemente a Steve sebbene non manifestasse in alcun
modo alla figlia la propria frustrazione. I suoi occhi, però, esprimevano tutto il
rammarico che provava per il compito ingrato che Ronnie si era assunta.
Ormai dormiva per gran parte del giorno e Ronnie trascorreva il tempo a casa,
leggendo e rileggendo le lettere che lui le aveva scritto negli anni precedenti. Non
aveva ancora letto l'ultima, perché l'idea di farlo la spaventava troppo, ma a volte la
rigirava tra le mani, sperando di trovare il coraggio per aprirla.
Telefonava più spesso a casa, cercando di chiamare quando Jonah tornava da scuola,
oppure dopo cena. Suo fratello avrebbe voluto essere lì con loro e quando chiedeva
notizie sulla salute del padre, lei a volte si sentiva in colpa a nascondergli la verità,
ma non voleva che si preoccupasse e si accorgeva che quando parlava con il figlio
Steve faceva del suo meglio per apparire energico e vitale.
Poi, immancabilmente, restava seduto sulla sedia accanto al telefono, sfinito per lo
sforzo, troppo stanco persino per muoversi. Lei lo guardava in silenzio, oppressa
dalla consapevolezza di poter fare qualcosa di più per lui, se solo avesse capito che
cosa.
«Qual è il tuo colore preferito?» gli chiese.
Erano seduti in cucina e Ronnie aveva un bloc-notes aperto davanti a sé.
Steve le rivolse un'occhiata perplessa.«Era questo che volevi sapere?»
«Questa è solo la prima domanda. Ne ho molte altre.»
«Verde», rispose.
Lei scrisse la risposta e lesse la domanda successiva.«Quanti anni avevi la prima
volta che hai baciato una ragazza?»
«Dici sul serio?» domandò lui con una smorfia.«Ti prego, papà», lo esortò Ronnie.«È
importante.» Glielo disse e di nuovo lei annotò la risposta. Completarono un quarto
delle domande che aveva preparato e, nel giro di una settimana, tutte. Lei scriveva le
risposte in maniera abbastanza dettagliata, così da poterle ricostruire in futuro. Era un
esercizio impegnativo e a volte sorprendente, ma alla fine giunse alla conclusione che
il padre era in gran parte esattamente l'uomo che aveva conosciuto nel corso di
quell'estate.
Questo era allo stesso tempo un bene e un male. Un bene perché lo aveva
immaginato, un male perché non l'avvicinava alla risposta che stava cercando.
La seconda settimana di novembre portò con sé le prime piogge autunnali, ma la
costruzione della chiesa procedette senza interruzioni. Anzi, il ritmo accelerò. Il padre
non l'accompagnava più; Ronnie però camminava fino alla chiesa tutti i giorni, per
vedere i progressi. Era diventata una sua abitudine quotidiana nelle ore solitarie
mentre il padre dormiva. Sebbene il pastore Harris non mancasse mai di rivolgerle un
cenno di saluto quando la vedeva sopraggiungere, non si fermava più a chiacchierare
con lei sulla spiaggia.
Nel giro di una settimana gli operai avrebbero montato la vetrata e il pastore Harris
sapeva di avere fatto per il suo amico Steve qualcosa che nessun altro avrebbe potuto
fare e che per lui aveva un grandissimo significato.
Ronnie era felice per il reverendo, e si augurava di ottenere un segno divino anche
per sé.
In una grigia giornata di novembre, il padre insistette per avventurarsi fino al molo.
Ronnie era preoccupata per la distanza e il freddo, ma lui fu irremovibile. Voleva
vedere l'oceano da lì, disse.«Un'ultima volta», furono le parole che non ebbe bisogno
di aggiungere.
Si infilarono i giacconi e Ronnie gli avvolse una sciarpa di lana intorno al collo.
Il vento portava il primo assaggio pungente dell'inverno, dando l'impressione che
fosse più freddo di quanto segnasse il termometro. Lei lo convinse che era opportuno
arrivare al molo con la macchina del pastore Harris, che lasciò nel parcheggio
deserto.
Impiegarono molto tempo a raggiungere l'estremità del molo. Erano soli sotto un
cielo solcato di nubi, le onde grigie visibili tra le lastre di cemento. Avanzavano
lentamente, con il padre che teneva il braccio infilato in quello di lei, aggrappandosi
alla figlia, mentre il vento agitava i loro giacconi.
Giunti in fondo al molo, Steve allungò le braccia verso la balaustra e rischiò di
perdere l'equilibrio. Nella luce plumbea i suoi lineamenti scavati risaltavano ancora di
più e i suoi occhi avevano un aspetto leggermente vitreo, ma lei capì dal suo sguardo
che era felice di essere lì.
Il regolare movimento delle onde che si allungavano davanti a lui pareva dargli un
senso di serenità. L'oceano era deserto, non c'erano imbarcazioni, né focene, né
surfisti, e per la prima volta da settimane la sua espressione pareva serena e libera
dalla sofferenza. Sulla linea dell'orizzonte le nuvole sembravano vive, si
accavallavano e mutavano forma mentre il sole invernale cercava di squarciare la loro
cortina. Ronnie si sorprese a guardare il gioco delle nubi con la stessa meraviglia del
padre, chiedendosi a che cosa stesse pensando.
Il vento si era rinforzato e lo vide rabbrividire. Capiva che avrebbe voluto rimanere,
lo sguardo fisso sull'orizzonte. Gli tirò dolcemente una manica, ma lui si limitò a
stringere la presa sulla ringhiera.
Allora attese, rimanendogli accanto finché fu scosso da violenti brividi di freddo e fu
pronto ad andare via. Lasciò la ringhiera e le permise di aiutarlo a voltarsi, poi
cominciarono la loro lenta marcia verso la macchina. Con la coda dell'occhio Ronnie
si accorse che stava sorridendo.
«È stato bellissimo, vero?» osservò lei. Il padre fece qualche passo prima di
rispondere.«Sì», disse.«Ma soprattutto mi è piaciuto averlo fatto con te.»
Due giorni dopo, Ronnie decise che avrebbe letto l'ultima lettera. L'avrebbe fatto
prima che lui se ne andasse. Non quella sera, ma entro breve, si ripromise. Era già
tardi e la giornata era stata la peggiore per il padre fino a quel momento. Le medicine
non sembravano avergli dato alcun sollievo. Aveva le lacrime agli occhi mentre gli
spasmi di dolore aggredivano il suo corpo; lei lo implorò affinché le permettesse di
portarlo all'ospedale, ma lui si rifiutava.
«No», ansimò.«Non ancora.»
«Quando?» domandò disperata, lei stessa prossima al pianto. Lui non rispose,
trattenendo il fiato in attesa che il dolore passasse.
Quando si placò, di colpo parve più debole, come se la sofferenza avesse portato via
una parte dello spirito vitale che gli restava.
«Voglio che tu faccia una cosa per me», disse. La sua voce era un rantolo.
Lei gli baciò il dorso della mano.«Qualunque cosa», rispose.
«Quando mi fu fatta la diagnosi la prima volta, ho firmato una dichiarazione che dice
che non voglio trattamenti straordinari che possano mantenermi in vita. Nel caso
andassi all'ospedale, intendo.»
Lei provò una fitta di terrore allo stomaco.«Che cosa stai cercando di dirmi?»
«Quando arriverà il momento, dovrai lasciarmi andare.»
«No», disse lei scuotendo la testa,«non parlare così.»
La sua espressione era tenera ma determinata.«Ti prego», bisbigliò.«È ciò che voglio.
Quando andrò all'ospedale, porta i documenti che ho preparato. Sono nel primo
cassetto della scrivania, in una busta gialla.»
«No... papà, ti supplico», singhiozzò lei.«Non farmi fare una cosa del genere. Non
posso!»
Lui continuava a fissarla.«Nemmeno per me?»
Quella notte, i suoi gemiti furono interrotti da una respirazione faticosa e rapida che
la terrorizzò. Sebbene avesse promesso di fare quello che le aveva chiesto, non era
sicura di riuscirci.
Come avrebbe potuto dire ai dottori di non fare niente? Come poteva lasciarlo
morire?
Il lunedì seguente, il pastore Harris li andò a prendere per portarli in chiesa ad
assistere al montaggio della vetrata. Poiché il padre era troppo debole per stare in
piedi, portarono una sedia da giardino.
Il pastore Harris aiutò Ronnie a sostenerlo mentre si incamminavano lentamente
verso la spiaggia. Si era radunata una piccola folla in occasione dell'evento e per
qualche ora tutti rimasero a guardare gli operai che alzavano con cautela la vetrata.
Fu spettacolare come si era immaginata e, quando fu fissato anche l'ultimo sostegno,
dalla folla si levò un'esclamazione di giubilo e un lungo applauso. Ronnie si voltò per
vedere la reazione del padre e si accorse che si era addormentato, confortato dal caldo
delle pesanti coperte che gli aveva avvolto addosso.
Con l'aiuto del pastore Harris, lo riportò a casa e lo mise a letto. Mentre usciva, il
pastore le disse come per convincere se stesso oltre che lei:«È stato felice».
«Lo so», gli assicurò lei stringendogli un braccio.«Era quello che voleva.»
Steve dormì per il resto della giornata e quando scese la sera, lei seppe che era giunto
il momento di leggere la lettera. Se non l'avesse fatto ora, non avrebbe più trovato il
coraggio.
La luce in cucina era fioca. Dopo avere aperto la busta, sfilò il foglio piena di
trepidazione. La calligrafia era diversa dalle lettere precedenti; non c'era più traccia
dello stile chiaro ed elegante che si era aspettata. Al suo posto una specie di
scarabocchio. Non voleva neppure pensare a quanta fatica gli fosse costato scrivere
quelle parole, né quanto tempo avesse impiegato. Fece un profondo respiro e
cominciò a leggere.
Ciao, tesoro,
sono fiero di te.
Non te l'ho detto tutte le volte che avrei dovuto. Te lo dico adesso, non perché hai
deciso di stare con me in questo periodo terribilmente complicato, ma perché sei
diventata la persona meravigliosa che mi ero sempre immaginato.
Ti ringrazio di essere qui con me. So che per te è difficile, di sicuro più difficile di
quanto pensassi, e mi dispiace per le ore che inevitabilmente dovrai trascorrere da
sola. Ma soprattutto mi dispiace di non essere sempre stato il padre di cui avresti
avuto bisogno. So di avere commesso degli errori. Vorrei cambiare tante cose della
mia vita. Suppongo che sia normale, considerato quello che mi sta accadendo, ma
vorrei farti sapere anche un'altra cosa.
Per quanto la vita possa essere complessa e nonostante i rimpianti, ci sono stati
momenti in cui mi sono sentito sinceramente toccato dalla grazia. Quando sei nata e
quando ti ho portata allo zoo da bambina e ti ho osservata che guardavi le giraffe
piena di stupore. Di solito, questi momenti non durano a lungo; vanno e vengono
come la brezza marina. Ma a volte durano per sempre.
L'estate appena trascorsa è stata così per me, e non solo perché mi hai perdonato.
Quest'estate è stata un dono perché ho conosciuto la giovane donna che sapevo saresti
diventata. Come ho detto a tuo fratello, è stata di gran lunga l'estate migliore della
mia vita, e durante quelle settimane idilliache mi sono spesso domandato come fosse
possibile che una persona come me avesse messo al mondo una figlia tanto
meravigliosa.
Grazie, Ronnie. Grazie di essere venuta. E grazie per come mi hai fatto sentire ogni
giorno nel tempo che abbiamo passato insieme.
Tu e Jonah siete sempre stati la mia gioia più grande. Ti voglio bene, Ronnie, te ne ho
sempre voluto. E non dimenticare mai che sono e sono sempre stato fiero di te.
Nessun padre è fortunato quanto me.
Papà.
Arrivò il giorno del Ringraziamento e, subito dopo, la gente che abitava lungo la
spiaggia cominciò a sistemare gli addobbi natalizi.
Il padre di Ronnie aveva perso un terzo del suo peso e ormai trascorreva tutto il
tempo a letto.
Una mattina, mentre rimetteva a posto, lei si imbatté nei fogli su cui Steve aveva
iniziato a scrivere lo spartito. Erano stati gettati distrattamente nel cassetto del
tavolino, in salotto, e quando li tirò fuori impiegò soltanto un istante a capire di cosa
si trattava.
Era la canzone che stava scrivendo, quella che lei aveva udito per la prima volta la
sera che lo aveva trovato a suonare in chiesa. Posò le pagine sul tavolo e le esaminò
meglio. I suoi occhi percorsero rapidi la serie di note scritte con forza, e lei pensò
ancora una volta che il padre stava componendo qualcosa di notevole. Mentre
leggeva, le sembrava di sentire nella testa i primi accordi. Ma, esaminando la seconda
e la terza pagina, si rese conto che c'era qualcosa che non andava.
Nonostante l'intuizione iniziale fosse quella giusta, le pareva di avere individuato il
punto in cui la composizione cominciava a perdere slancio.
Trovò una matita nel cassetto e iniziò a fare le sue correzioni, aggiungendo veloci
progressioni di accordi e riff melodici dove il padre si era interrotto.
Senza rendersene conto erano passate tre ore, quando lo sentì agitarsi. Rimise le
pagine nel cassetto e si diresse in camera, pronta ad affrontare tutto ciò che la
giornata le avrebbe portato.
Più tardi quella sera, dopo che lui si era nuovamente addormentato, riprese le pagine
e ci lavorò fin dopo la mezzanotte. Al mattino si svegliò piena di energie, ansiosa di
mostrare il proprio lavoro al padre. Ma lui era immobile sul letto e Ronnie fu assalita
dal panico quando si rese conto che respirava appena.
Chiamò l'ambulanza e barcollando tornò verso la camera da letto. Non era pronta, si
disse, non gli aveva mostrato la canzone. Le serviva ancora un giorno. Non è ancora
il momento. Ma con mani tremanti aprì il primo cassetto della scrivania e tirò fuori la
busta gialla.
Nel letto d'ospedale, il padre pareva più piccolo di quanto l'avesse mai visto. La sua
faccia sembrava essersi raggrinzita, la pelle aveva un innaturale colorito grigiastro.
Aveva il respiro breve e superficiale come quello di un neonato. Lei chiuse con forza
gli occhi, desiderando di non essere lì. Desiderando di essere da qualsiasi altra parte
ma non lì.
«Non ancora, papà», bisbigliò.«Aspetta ancora un po', d'accordo?»
Fuori dalla finestra dell'ospedale il cielo era grigio e nuvoloso. I rami degli alberi
ormai spogli le facevano pensare a membra ossute. L'aria era fredda e immobile, e
preannunciava un temporale.
La busta era sul comodino e, pur avendo promesso al padre che l'avrebbe consegnata
al dottore, Ronnie non lo aveva ancora fatto. Non voleva, finché non fosse stata
sicura che non si sarebbe risvegliato, finché non fosse stata sicura di non poterlo più
salutare. Finché non fosse stata sicura che non potesse fare più niente per lui.
Invocò ardentemente un miracolo, un miracolo minuscolo. E, come se Dio l'avesse
ascoltata, accadde venti minuti più tardi.
Era rimasta seduta al suo capezzale per quasi tutta la mattina. Si era così abituata al
rumore del suo respiro e al segnale regolare del monitor cardiaco, che il minimo
cambiamento la metteva in allarme. Alzò gli occhi e vide il braccio del padre
contrarsi, poi i suoi occhi aprirsi. Sbatté le palpebre sotto le luci al neon e Ronnie
d'istinto gli strinse la mano.
«Papà?» lo chiamò. Suo malgrado, fu assalita da una flebile speranza; immaginò che
lui lentamente si mettesse a sedere.
Ma non lo fece. Sembrava che non l'avesse neppure sentita. Quando girò
faticosamente la testa verso di lei, Ronnie scorse nei suoi occhi un'ombra scura che
non aveva mai visto prima. Ma poi sbatté le palpebre e lei lo sentì sospirare.
«Ciao, tesoro», mormorò con voce arrochita.
Il liquido che aveva nei polmoni dava l'impressione che stesse annegando. Lei si
costrinse a sorridere.«Come ti senti?»
«Non troppo bene.» Tacque, come per raccogliere le forze.«Dove mi trovo?»
«All'ospedale. Ti hanno portato qui stamattina. So che hai firmato la dichiarazione
per rifiutare i trattamenti straordinari, ma...»
Quando lui chiuse di nuovo gli occhi, lei temette che non li avrebbe più riaperti. Ma
alla fine lo fece.
«Va bene», bisbigliò. La nota di perdono che colse nella sua voce le straziò il
cuore.«Capisco.»
«Ti prego, non avercela con me.»
«No.»
Lo baciò sulla guancia e cercò di abbracciare la sua figura smunta. Sentì la mano del
padre che le sfiorava la schiena.
«Stai... bene?» le chiese lui.
«No», ammise lei, mentre le lacrime le salivano irrimediabilmente agli occhi.«Non
sto per niente bene.»
«Mi dispiace», disse lui.
«Non dirlo nemmeno», ribatté lei severa, facendo di tutto per mantenere il
controllo.«È a me che dispiace. Non avrei mai dovuto smettere di parlarti. Vorrei
tanto tornare indietro.»
Lui le rivolse l'ombra di un sorriso.«Ti ho mai detto che ti trovo bellissima?»
«Sì», rispose tirando su con il naso.«Me lo hai già detto.»
«Be', stavolta dico sul serio.»
Lei rise tra le lacrime.«Grazie», disse. Poi si chinò a baciargli la mano.
«Ti ricordi quando eri piccola?» domandò lui improvvisamente serio.«Mi guardavi
suonare il piano per ore. Un giorno ti trovai alla tastiera che suonavi una melodia
sentita da me. Avevi soltanto quattro anni. Hai sempre avuto talento.»«Me lo
ricordo.»
«Voglio dirti una cosa», proseguì lui stringendole la mano con stupefacente
energia.«La musica non mi aveva mai interessato neppure la metà di quanto
m'interessavi tu come figlia... voglio che tu lo sappia.»
Lei annuì.«Ti credo. E ti voglio bene, papà.»
Lui fece un profondo respiro, senza smettere di guardarla.«Allora mi riporterai a
casa?»
Quelle parole la colpirono con tutta la loro forza, ineluttabili e dirette. Guardò la
busta, consapevole di ciò che lui le chiedeva e di ciò che voleva sentirsi rispondere.
In quel momento le tornarono in mente tutti i particolari degli ultimi tre mesi. Una
sequenza di immagini affiorò nella sua mente, inarrestabile, sino a quella di lui seduto
al pianoforte in chiesa, sotto il buco dove alla fine sarebbe stata montata la vetrata.
E fu allora che comprese ciò che il suo cuore aveva continuato a dirle per tutto il
tempo.
«Sì», disse.«Ti porterò a casa. Ma anch'io voglio che tu faccia qualcosa per me.»
Il padre deglutì, poi sembrò raccogliere tutte le forze che gli restavano per
parlare.«Non so se sarò più in grado di farlo.»
Lei sorrise e prese la busta.«Nemmeno per me?»
Il pastore Harris le aveva prestato l'auto e lei guidava più veloce possibile. Prese il
cellulare e telefonò mentre cambiava corsia. Spiegò brevemente ciò che stava
accadendo e ciò che le serviva; Galadriel acconsentì all'istante. Guidava come se la
vita del padre dipendesse dalla sua velocità, accelerando a ogni semaforo giallo.
Quando arrivò, Galadriel l'aspettava già davanti a casa. Accanto a lei sulla veranda
erano posati due grimaldelli, che sollevò quando Ronnie la raggiunse.
«Pronta?» chiese Galadriel.
Ronnie si limitò a far cenno di sì, poi entrarono in casa insieme.
Con l'aiuto di Galadriel impiegò meno di un'ora a smontare il lavoro del padre. Non
le importava la confusione che lasciarono in salotto; il suo unico pensiero era per il
tempo che rimaneva al padre e per ciò che voleva che lui facesse. Quando anche
l'ultimo pezzo di compensato fu divelto, Galadriel si voltò verso di lei, sudata e
ansimante.
«Va' a prendere tuo papà. Ci penso io a pulire. E ti aiuterò a portarlo dentro quando
arrivi.»
Guidò ancora più veloce tornando all'ospedale. Prima di andarsene, aveva parlato con
il medico che l'aveva in cura, spiegandogli che cosa avesse in mente di fare. Con
l'aiuto di un'infermiera, aveva compilato i documenti di dimissioni richiesti
dall'ospedale; quando telefonò dall'auto, parlò con la stessa infermiera e le chiese di
portare il padre all'ingresso con una sedia a rotelle.
Inchiodò nel parcheggio, seguì la via d'accesso al pronto soccorso e vide che
l'infermiera era stata di parola.
Insieme aiutarono il padre a salire in macchina e nel giro di pochi minuti era di nuovo
in viaggio. Steve sembrava più vigile di quanto fosse stato in ospedale, ma lei sapeva
che la situazione poteva cambiare da un momento all'altro. Doveva a tutti i costi
riportarlo a casa prima che fosse troppo tardi. Mentre guidava per le strade di una
città che ormai considerava sua, era combattuta tra la paura e la speranza. Le
sembrava tutto così semplice, così chiaro ora. Raggiunta la casa, trovò Galadriel ad
aspettarla. La ragazza aveva già spostato il divano e insieme aiutarono Steve a
sdraiarsi sopra.
Nonostante le sue condizioni, sembrava rendersi conto di ciò che Ronnie aveva fatto.
Piano piano, la sua espressione di sofferenza fu sostituita da una di meraviglia.
Mentre fissava il pianoforte tornato visibile nell'angolo, lei capì di avere fatto la cosa
giusta. Si chinò a baciarlo sulla guancia.
«Ho finito la tua canzone», disse.«La nostra ultima canzone. E voglio suonarla per
te.»
36. Steve
La vita, ora lo capiva, assomigliava a una canzone. Al principio c'è il mistero, al
termine la conferma, ma nel mezzo ci sono le emozioni che arricchiscono l'intera
esperienza. Per la prima volta da mesi, non provava alcun dolore e sapeva che i suoi
interrogativi avevano trovato una risposta. Mentre ascoltava la canzone che Ronnie
aveva perfezionato e terminato, chiuse gli occhi con la consapevolezza che la sua
ricerca della presenza divina era giunta alla conclusione.
Dio era presente dappertutto, sempre, e ciascuno lo sperimentava prima o poi nella
vita. Era stato con lui nel laboratorio mentre faticava insieme con Jonah per realizzare
la vetrata; era stato con lui nelle settimane trascorse con Ronnie; ed era presente
anche ora, mentre la figlia suonava al pianoforte l'ultima canzone che avrebbero mai
condiviso. A ripensarci adesso, si domandava come avesse fatto a non comprendere
qualcosa di così incredibilmente ovvio. All'improvviso capiva che Dio era l'amore
nella sua forma più pura e, negli ultimi mesi trascorsi con i figli, aveva percepito il
suo tocco con la stessa sicurezza con cui sentiva la musica uscire dalle dita di Ronnie.
37. Ronnie
Morì una settimana più tardi, nel sonno, con Ronnie sdraiata sul pavimento accanto al
suo letto.
Non riusciva a parlare dei dettagli. La madre si aspettava che concludesse il racconto;
nelle tre ore da quando l'aveva cominciato, era rimasta in silenzio ad ascoltarla. Ma
gli istanti in cui aveva guardato suo padre fare gli ultimi respiri, li considerava
estremamente privati, e sapeva che, almeno per il momento, non li avrebbe condivisi
con nessuno.
Essere al suo fianco mentre se ne andava da questo mondo era stato un dono che lui
aveva concesso a lei, a lei soltanto, e Ronnie non avrebbe mai dimenticato quanto
fosse stato solenne e intimo.
Guardando fuori dalla finestra la gelida pioggia di dicembre, parlò invece della sua
recente esibizione, la più importante della sua vita.
«Ho suonato per lui il più a lungo possibile, mamma. E ho cercato di suonare meglio
che potessi perché sapevo quanto significasse per lui. Ma era così debole»,
bisbigliò.«Alla fine non sono sicura che mi abbia sentito.» Pianse di nuovo, in un
certo senso sorpresa di avere ancora delle lacrime da versare.
La madre spalancò le braccia e le fece segno di avvicinarsi. Anche lei aveva gli occhi
umidi.
«So che ti ha sentito, tesoro. E sono sicura che è stato bellissimo.»
Ronnie si abbandonò all'abbraccio materno, posando la testa sul suo petto come
faceva da bambina.
«Non devi mai dimenticare quanto tu e Jonah l'abbiate reso felice», mormorò la
madre accarezzandole i capelli.
«Anche lui mi ha reso felice», mormorò Ronnie.«Ho imparato così tanto da lui.
Rimpiango solo di non averglielo detto. Insieme con un altro milione di cose.»
Chiuse gli occhi.«Ma ora è troppo tardi.»
«Lui lo sapeva», le assicurò la madre.«L'ha sempre saputo.»
La cerimonia funebre fu semplice, celebrata nella chiesa appena restaurata. Il padre
aveva chiesto di essere cremato e il suo desiderio era stato esaudito.
Il pastore Harris pronunciò l'elegia. Fu breve, ma vibrante di autentico dolore e
affetto. Aveva voluto bene a Steve come a un figlio, e suo malgrado Ronnie si mise a
piangere con Jonah. Abbracciò il fratello che singhiozzava disperatamente, cercando
di non pensare a come avrebbe ricordato questa perdita che l'aveva colpito tanto
presto nella vita.
Fra le persone che avevano partecipato al funerale aveva riconosciuto Galadriel e
l'agente Pete, mentre entrava, e aveva sentito la porta aprirsi un altro paio di volte
dopo che la funzione era iniziata, ma la chiesa era quasi vuota. L'addolorava pensare
che così in pochi sapessero quanto fosse stato speciale suo padre e quanto fosse stato
importante per lei.
Dopo la messa, era rimasta seduta in chiesa con Jonah, mentre Brian e la mamma
erano usciti a parlare con il pastore Harris. Sarebbero tornati tutti insieme a New York
con un volo che partiva entro poche ore, e lei sapeva di non avere molto tempo.
Tuttavia non si decideva ad andarsene. Aveva smesso di piovere e il cielo si stava
rasserenando. Lei ci aveva sperato, e si era ritrovata a fissare la vetrata del padre,
desiderando che il sole trovasse il modo di squarciare le nubi.
E quando accadde, fu proprio come gliel'aveva descritto lui. I raggi del sole colpirono
il vetro, frantumandosi in centinaia di prismi di luce vivida e colorata. Il pianoforte fu
inondato da una cascata di colori brillanti, e per un istante Ronnie immaginò il padre
seduto alla tastiera, il viso rivolto verso la luce. Non durò a lungo, ma in quel
momento le venne spontaneo stringere meravigliata la mano del fratello. Nonostante
il peso del dolore, sorrise, sapendo che Jonah stava pensando la stessa cosa.
«Ciao, papà», mormorò Ronnie.«Sapevo che saresti venuto.»
Quando la luce si affievolì, fece in silenzio l'ultimo saluto al padre e si costrinse ad
alzarsi. Voltandosi, si accorse che lei e Jonah non erano soli nella chiesa. Accanto alla
porta, seduti nel banco in fondo, riconobbe Tom e Susan Blakelee.
Posò una mano sulla spalla di Jonah.«Vorresti uscire e dire alla mamma e a Brian che
arrivo subito? Devo parlare con delle persone.»
«Va bene», rispose lui strofinandosi gli occhi gonfi.
Rimasta sola, Ronnie si avviò verso i Blakelee, che si avvicinarono per salutarla.
Cogliendola di sorpresa, Susan parlò per prima.
«Ti faccio le mie più sincere condoglianze. Il pastore Harris ci ha detto che tuo padre
era un uomo meraviglioso.»
«Grazie», disse Ronnie guardando i genitori di Will e sorridendo.«Mi fa piacere che
siate venuti. E vorrei anche ringraziare entrambi per ciò che avete fatto per il restauro
della chiesa. Era davvero molto importante per mio padre.»
A quelle parole, vide Tom Blakelee distogliere lo sguardo, e capì di avere avuto
ragione.«Il contributo al restauro avrebbe dovuto restare anonimo», mormorò lui.
«Lo so. Infatti il pastore Harris non ha detto niente né a me né a mio padre. Ma ho
intuito la verità quando l'ho vista al cantiere. Il suo è stato un gesto bello e generoso.»
Lui annuì, quasi timidamente, e Ronnie seguì il suo sguardo che si posava sulla
vetrata. Anche lui aveva visto la luce che inondava la chiesa.
Nel silenzio, Susan indicò la porta.«C'è qualcuno per te qui fuori.»
«Sei pronta?» le domandò la madre non appena uscì sul sagrato.«Siamo già in
ritardo!»
Ronnie l'ascoltò distrattamente. Aveva lo sguardo fisso su Will. Indossava un abito
nero. I capelli gli erano cresciuti e il primo pensiero di Ronnie fu che sembrava più
adulto. Stava parlando con Galadriel, ma non appena la vide, le rivolse uno sguardo
come a chiederle di concedergli qualche minuto.
«Ho bisogno ancora di un momento», disse senza distogliere gli occhi da Will.
Non si era aspettata di trovarlo lì, in realtà non si era aspettata di vederlo di nuovo.
Non sapeva che cosa significava la sua presenza, e non sapeva se essere felice oppure
dispiaciuta o entrambe le cose. Fece un passo verso di lui poi si fermò.
Non riusciva a decifrare la sua espressione. Mentre lui le andava incontro, le tornò in
mente la sua camminata, il primo giorno che lo aveva visto, e il loro bacio sul pontile
la sera del matrimonio di Megan.
E sentì di nuovo le parole che gli aveva detto il giorno che si erano lasciati. Fu
assalita da una serie di emozioni contrastanti: desiderio, rimpianto, paura, dolore,
amore. C'erano troppe cose da dire, eppure, che cosa avrebbero potuto dirsi in un
momento come quello e dopo tanto tempo?
«Ciao.»
«Ciao», rispose lui. La scrutò in viso come se cercasse qualcosa.
Rimase immobile davanti a lei, senza toccarla, e lei fece lo stesso.
«Sei venuto», disse incapace di mascherare la meraviglia.
«Non ce la facevo a restare lontano. Mi dispiace tanto per tuo padre. Era... una
persona fantastica.» Per un attimo un'ombra gli attraversò il viso, poi aggiunse:«Mi
mancherà».
Le riaffiorarono improvvisi i ricordi delle serate trascorse a casa del padre, il profumo
del cibo, gli scoppi di risa di Jonah mentre giocavano a poker bugiardo. Provò un
senso di mancamento. Era tutto così surreale, vedere Will lì in quella giornata
terribile. Una parte di lei avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia e scusarsi per come
lo aveva lasciato andare. Ma un'altra parte, muta e paralizzata per la perdita del padre,
si chiedeva se lei fosse la stessa persona che Will aveva amato quell'estate. Erano
accadute così tante cose da allora.
Si dondolò impacciata da un piede all'altro.«Come va alla Vanderbilt?» domandò alla
fine.
«È come me l'aspettavo.»
«È un bene o un male?»
Invece di rispondere, lui indicò la macchina a noleggio.«Presumo che tu stia tornando
a casa, vero?»
«Devo prendere l'aereo tra poco.» Si fermò una ciocca di capelli dietro l'orecchio,
odiandosi per la propria goffaggine. Era come se fossero due sconosciuti.«Il semestre
è finito?»
«No, la settimana prossima avrò gli esami: partirò stasera anch'io. Le lezioni sono più
difficili di quanto immaginassi. Mi toccherà studiare anche di notte...»
«Presto tornerai a casa per le vacanze. Qualche passeggiata sulla spiaggia e sarai
come nuovo.» Ronnie si sforzò di fargli un sorriso di incoraggiamento.
«Veramente i miei genitori vogliono portarmi in Europa non appena avrò finito.
Passeremo il Natale in Francia. Credono che per me sia importante vedere il mondo.»
«Lo penso anch'io.»
Lui alzò le spalle.«E tu?»
Ronnie guardò altrove, la mente ancora occupata dal ricordo degli ultimi giorni
trascorsi con il padre.
«Farò un'audizione alla Juilliard», disse con un sospiro.«Vedremo se mi vogliono
ancora.»
Per la prima volta lui sorrise e lei colse un lampo della gioia che aveva manifestato
spesso durante quei lunghi mesi estivi. Quanto le era mancata la sua allegria, il suo
calore, in tutto quel tempo.«Sul serio? Bello! Sono sicuro che andrà benissimo!»
Ronnie odiava il loro modo di girare intorno alle cose. Le sembrava così assurdo, così
sbagliato dopo quello che avevano condiviso nell'estate precedente. Fece un lungo
respiro, cercando di dominare le emozioni. Ma era difficile in quel momento, e lei si
sentiva sfinita. Le parole successive le uscirono di bocca senza che se ne rendesse
conto.
«Vorrei scusarmi per quello che ti ho detto. Non lo pensavo. È solo che stavano
succedendo tante cose. Non avrei dovuto sfogarmi prendendomela con te...»
Lui fece un passo verso di lei e le posò una mano sul braccio.«Non importa»,
disse.«Capisco.»
A quel contatto lei sentì affiorare dentro di sé tutte le emozioni trattenute di quella
giornata, che travolsero il suo fragile autocontrollo, e si sforzò di fermare le
lacrime.«Ma se tu avessi fatto ciò che volevo, Scott...»
Lui la interruppe.«Scott è a posto: che tu ci creda o no, ha persino ottenuto la borsa di
studio. E Marcus è in prigione.»
«Però non avrei dovuto dirti quelle cose!» esclamò lei disperata.«L'estate non sarebbe
dovuta finire così. Non ci saremmo dovuti lasciare in quel modo, e la colpa è stata
tutta mia. Non sai quanto mi sia pentita di averti mandato via...»
«Tu non mi hai mandato via», disse lui dolcemente.«Dovevo partire. Lo sapevi.»
«Ma non abbiamo parlato, non ci siamo scritti né sentiti per telefono, e poi è stato
straziante assistere a ciò che stava accadendo a papà... avrei tanto voluto parlare con
te, ma sapevo che eri in collera con me...»
Mentre scoppiava a piangere, lui la strinse a sé e il suo abbraccio ebbe il potere di
farla sentire meglio e peggio nello stesso tempo.
«Calmati», mormorò,«è tutto a posto. Non sono mai stato arrabbiato con te.»
Lei lo strinse più forte, aggrappandosi a ciò che avevano condiviso.«Però non ti sei
fatto vivo.»
«Perché sapevo che tuo padre aveva bisogno di te», rispose Will,«e volevo che ti
concentrassi su di lui, non su di me. Ricordo quello che ho provato alla morte di
Mikey, e come ho rimpianto il fatto di non avere avuto a disposizione più tempo con
lui. Non potevo fare la stessa cosa a te.»
Lei nascose il volto contro la sua spalla mentre lui la teneva stretta. Tutto quello a cui
riusciva a pensare era che aveva bisogno di lui. Aveva bisogno che la cullasse e le
sussurrasse che avrebbero trovato un modo per stare insieme.
Lo sentì chinarsi su di lei e mormorare il suo nome. Quando si staccò, vide che le
stava sorridendo.
«Porti il braccialetto», notò sfiorandole il polso.
«Per sempre nei miei pensieri.»
Lui le sollevò il mento per poterla guardare negli occhi.«Ti chiamerò, d'accordo?
Quando tornerò dall'Europa.»
Lei annuì, sapendo che era tutto ciò che potevano promettersi, ma che non era
abbastanza. Le loro vite avevano preso strade diverse, ora e per il futuro. L'estate era
finita, ed entrambi dovevano andare avanti.
Chiuse gli occhi, per difendersi da quell'odiosa verità.
«D'accordo», sussurrò.
Epilogo. Ronnie
Nelle settimane successive al funerale del padre, Ronnie continuò a essere preda di
violenti sbalzi emotivi, ma immaginava che fosse abbastanza normale. Certi giorni si
svegliava oppressa da qualcosa d'indefinibile e passava ore a rivivere gli ultimi mesi
trascorsi con lui, paralizzata dal dolore e dal rimpianto da non riuscire nemmeno a
piangere. Dopo un periodo di convivenza così intenso, le risultava difficile accettare
che di colpo se ne fosse andato per sempre sebbene lei avesse ancora bisogno di lui.
Avvertiva la sua assenza con una straziante e incontenibile intensità, che a volte la
annichiliva.
Ma quelle giornate cominciavano a diventare più rare rispetto alla prima settimana
dopo il ritorno a casa, e sapeva che con il tempo sarebbero diminuite ancora.
Vivere con il padre e occuparsi di lui l'aveva cambiata e ora sapeva che sarebbe
sopravvissuta. Era ciò che lui avrebbe voluto, e le sembrava di sentire la sua voce
ricordarle che era più forte di quanto si rendesse conto. Lui non avrebbe voluto che
portasse il lutto per mesi; avrebbe voluto che vivesse più o meno come aveva fatto lui
negli ultimi anni della propria esistenza. E soprattutto, avrebbe voluto che andasse
incontro alla vita e sbocciasse.
Anche Jonah. Sapeva che il padre si aspettava che lo aiutasse ad andare avanti, e da
quando era tornata a casa aveva passato moltissimo tempo con lui. Una settimana
dopo il loro ritorno, Jonah era rimasto a casa da scuola per le vacanze di Natale e lei
aveva approfittato di quelle giornate per fare gite speciali: lo aveva portato a pattinare
al Rockefeller Center e in cima all'Empire State Building; erano stati alla mostra sui
dinosauri al Museo di Storia Naturale e aveva trascorso un pomeriggio intero tra i
giocattoli di FAO Schivarz. Le aveva sempre considerate attrazioni turistiche
terribilmente banali, ma Jonah si era divertito e, con sua sorpresa, anche lei.
A volte passavano momenti di relax insieme. Lei gli teneva compagnia mentre lui
guardava i cartoni, disegnava con lui al tavolo di cucina e, una notte, su richiesta del
fratello, aveva dormito in camera sua su un materasso steso per terra. In quelle
occasioni di intimità spesso ricordavano l'estate precedente e si raccontavano
aneddoti sul padre che recavano conforto a entrambi.
Lei tuttavia sapeva che Jonah stava ancora lottando alla sua maniera di bambino di
dieci anni. Ogni tanto sembrava che fosse tormentato da qualcosa, che le confidò una
sera quando uscirono a fare una passeggiata dopo cena. Soffiava un vento gelido e
Ronnie teneva le mani affondate nelle tasche, quando Jonah le chiese
improvvisamente:«La mamma è malata come papà?»
Quella domanda la colse di sorpresa tanto che non riuscì a rispondere subito. Si fermò
e si chinò per guardarlo negli occhi.«No, niente affatto. Perché lo pensi?»
«Perché voi due non litigate più. E quando hai smesso di litigare con papà...»
Lei vide la paura nel suo sguardo e capì la logica infantile del suo ragionamento. In
effetti era vero, lei e la mamma non avevano mai litigato dal suo ritorno a casa.«La
mamma sta bene. È solo che ci siamo stancate di litigare, così non lo facciamo più.»
Lui la fissò intensamente.«Me lo giuri?»
Lei lo strinse forte a sé.«Te lo giuro.»
I mesi trascorsi con il padre avevano alterato anche il suo rapporto con New York.
Impiegò diverso tempo per riabituarsi alla metropoli. Non sopportava più il rumore
incessante e la presenza costante di altre persone; aveva dimenticato come i
marciapiedi fossero sempre in ombra a causa degli enormi edifici e come la gente
corresse dappertutto, anche negli stretti corridoi del supermercato. Non aveva
neppure voglia di socializzare; quando Kayla le aveva telefonato per sentire se le
andava di uscire, lei aveva declinato l'invito e Kayla non l'aveva più richiamata. Di
sicuro avrebbero conservato i ricordi di ciò che avevano fatto insieme, ma d'ora in poi
la loro amicizia sarebbe stata diversa. Ronnie lo accettava di buon grado, anche
perché, tra le lezioni di piano e il tempo passato con Jonah, non le restava spazio per
molte altre cose.
Siccome il pianoforte del padre era ancora a Wrightsville Beach, lei andava a
esercitarsi alla Juilliard. Aveva telefonato il giorno stesso del suo ritorno a New York
e aveva parlato con il direttore. Lui era stato un amico del padre e si era scusato di
non essere riuscito a presenziare al funerale. Sembrava sorpreso - e anche entusiasta,
pensò lei - di sentirla. Quando lo informò di avere cambiato idea e di volersi iscrivere
alla sua scuola, lui le organizzò un calendario di prove accelerato e l'aiutò persino ad
accorciare i tempi della domanda.
Tre settimane più tardi, aveva aperto la propria esibizione con la canzone composta
con il padre. Era un po' arrugginita, ma quando uscì dall'auditorium si disse che
sarebbe stato fiero di lei. Ma del resto, pensò con un sorriso mentre s'infilava
sottobraccio il suo amato spartito, lui lo era sempre stato.
Dopo la prova si era messa a suonare tre o quattro ore al giorno. Il direttore aveva
fatto in modo di lasciarle usare le aule della scuola e lei stava cominciando ad
abbozzare qualche semplice composizione. Spesso pensava al padre mentre era
seduta nelle aule, le stesse dove lui aveva insegnato, un tempo. Certi giorni, quando il
sole tramontava, i raggi filtravano tra gli edifici circostanti, gettando lunghe lame di
luce sul pavimento. Tutte le volte che lei vedeva quella luce, ripensava alla vetrata
della chiesa e alla cascata di colori che aveva visto al funerale.
Ovviamente pensava anche a Will. All'estate passata con lui. Non aveva più avuto sue
notizie dopo il funerale e, passato il Natale, iniziò a credere che non l'avrebbe
chiamata. Ricordava che le aveva detto qualcosa su una vacanza oltreoceano, ma con
il passare dei giorni cominciò a vacillare tra la certezza del suo amore per lui e la
disperazione della loro situazione. Forse era meglio che lui non le telefonasse, si
diceva, perché cosa avrebbe potuto dirle?
Con un sorriso triste, si costrinse a mettere da parte quei pensieri. Aveva del lavoro da
fare, così rivolse l'attenzione al suo ultimo progetto, una nuova canzone, dicendo a se
stessa che doveva guardare avanti e non indietro. La sua ammissione alla Juilliard
non era ancora sicura, anche se il direttore le aveva detto che la sua prova era
stata«estremamente promettente». Qualunque cosa fosse successa, sapeva che nel suo
futuro c'era la musica, e in un modo o nell'altro avrebbe trovato la strada per tornare a
quella passione.
Il cellulare appoggiato sul pianoforte cominciò a vibrare. Lei lo prese, convinta che
fosse la madre, ma quando guardò lo schermo, rimase paralizzata. Facendo un
profondo respiro, l'avvicinò all'orecchio.
«Pronto?»
«Ciao», disse una voce familiare.«Sono Will.»
Lei cercò di immaginare da dove la stesse chiamando: sentiva una specie di eco
cavernosa, come quella di un aeroporto.
«Sei appena sceso dall'aereo?» chiese lei.
«No. Sono tornato qualche giorno fa. Perché?»
«Niente, sento un rumore strano», rispose provando un tuffo al cuore.«Com'è andata
in Europa?»
«Mi sono divertito molto. Io e la mamma siamo andati più d'accordo di quanto
credessi. Come sta Jonah?»
«Bene. Si sta riprendendo, ma... è ancora dura per lui.»
«Me lo immagino», disse serio, e lei colse di nuovo quella specie di eco. Forse era
sulla veranda di casa sua.«-Altre novità?»
«Ho superato un colloquio alla Juilliard...»
«Lo so», disse lui.
«Come fai a saperlo?»
«Altrimenti che cosa ci faresti lì?»
Lei cercò di dare un senso a quella risposta.«Ecco... in realtà lasciano che mi eserciti
qui finché non arriverà il pianoforte di papà, visto il legame di mio padre con la
scuola e tutto il resto. Il direttore era un suo buon amico.»
«Spero proprio che tu non sia troppo impegnata a esercitarti e possa trovare un
momento libero.»
«Perché?»
«Mi chiedevo se volevi uscire questo fine settimana. Sempre che tu non abbia già
altri programmi.»
Lei si sentì balzare il cuore in gola.«Verrai a New York?»
«Sto da Megan. Sai, do un'occhiata ai novelli sposi.»
«Quando arriverai?»
«Vediamo...» Le pareva di vederlo controllare l'ora.«Sono atterrato poco più di un'ora
fa.»
«Sei qui? Dove sei?»
Lui non rispose subito, e quando lei udì la sua voce, si rese conto che non proveniva
dal telefono. Veniva da dietro di lei. Voltandosi, lo vide sulla soglia, con in mano il
cellulare.
«Scusami», le disse.«Non sono riuscito a resistere.»
Sebbene ce l'avesse davanti, non ci credeva. Chiuse forte gli occhi poi li riaprì.
«Perché non mi hai telefonato per avvertirmi del tuo arrivo?»
«Volevo farti una sorpresa.»
Di sicuro ci sei riuscito, pensò lei. Con indosso un paio di jeans e un maglione era
persino più bello di quanto ricordasse.
«E poi», annunciò lui,«devo dirti una cosa importante.»
«Quale?» chiese lei.
«Prima di dirtelo voglio sapere se usciremo insieme.»
«Come?»
«Questo fine settimana, ricordi? Ci stai?»
Lei sorrise.«Sì, ci sto.»
Lui annuì soddisfatto.«E il fine settimana dopo?»
Lei ebbe un attimo di esitazione.«Quanto tempo ti fermerai?»
Lui si incamminò lentamente verso di lei.«Ecco... era quello di cui volevo parlarti. Ti
ricordi quando ti dissi che la Vanderbilt non era la mia prima scelta? Che in realtà
avrei voluto frequentare questa scuola con un incredibile programma di scienze
ambientali?»
«Sì, mi ricordo.»
«Di norma la scuola non accetta trasferimenti a metà anno, ma la mamma, che fa
parte del consiglio di amministrazione della Vanderbilt, conosce alcune persone di
quest'altro college, ed è riuscita a forzare le cose. In ogni caso, mentre ero in Europa,
ho saputo di essere stato accettato, così mi trasferirò. Comincerò lì il semestre
prossimo e pensavo che ti sarebbe interessato saperlo.»
«Bene... mi fa piacere per te», disse lei perplessa.«Di quale scuola si tratta?»
«La Columbia.»
Per un attimo, lei temette di non avere sentito bene.«Intendi la Columbia qui a New
York?»
Lui fece un sorriso sornione.«Proprio quella.»
«Sul serio?» chiese lei con voce stridula.
«Comincerò tra un paio di settimane. Te ne rendi conto? Un bel ragazzo del Sud
come me sbattuto in mezzo a questa metropoli... Probabilmente avrò bisogno di
qualcuno che mi aiuti ad ambientarmi, e speravo che potessi essere tu. Se ti va.»
Ormai le era abbastanza vicino da poterle afferrare i passanti nella cintura dei jeans.
Quando la tirò verso di sé, lei sentì che tutto ciò che la circondava svaniva. Will
sarebbe stato a New York. Con lei.
Lo abbracciò, consapevole che in quel momento non poteva esserci niente di più
bello.«Credo di poter accettare. Ma non sarà facile per te. Non si va molto a pesca o a
infangarsi, da queste parti.»
Lui la strinse.«Lo sospettavo.»
«E non si fa neppure beach volley. Soprattutto in gennaio.»
«Vorrà dire che farò qualche sacrificio.»
«Magari, con un po' di fortuna, potremo trovarti delle occupazioni alternative.»
Si chinò a baciarla teneramente, prima sulla guancia e poi sulle labbra. Quando la
guardò negli occhi, lei rivide il ragazzo che aveva amato durante l'estate e il giovane
che amava ancora.
«Non ho mai smesso di amarti, Ronnie. E non ho mai smesso di pensare a te. Anche
se tutte le estati finiscono.»
Gli sorrise, sapendo che diceva la verità.
«Anch'io ti amo, Will Blakelee», sussurrò baciandolo di nuovo.
Ringraziamenti
Come sempre, devo cominciare ringraziando mia moglie Cathy, il mio sogno. Siamo
insieme da vent'anni e quando mi sveglio al mattino, per prima cosa penso a quanto
sono fortunato ad averli trascorsi con te.
I miei figli - Miles, Ryan, Landon, Lexie e Savannah -sono una fonte inesauribile di
gioia nella mia vita. Vi voglio bene.
Jamie Raab, il mio editor alla Grand Central Publisher, merita tutta la mia gratitudine,
non solo per il suo brillante lavoro, ma per la gentilezza che dimostra sempre nei miei
confronti. Grazie.
Denise DiNovi, la produttrice cinematografica di Le parole che non ti ho detto, I
passi dell'amore, Come un uragano e La scelta, non è soltanto un genio, ma una delle
persone più disponibili che io conosca. Grazie di tutto.
David Young, amministratore delegato di Hachette Book Group, si è guadagnato il
mio rispetto e la mia riconoscenza negli anni della nostra collaborazione. Grazie,
David.
Jennifer Romanello e Edna Farley, le mie addette stampa, non sono soltanto due
buone amiche, ma due persone meravigliose. Grazie di tutto.
Harvey-Jane Kowal e Sona Vogel, come al solito, meritano il mio ringraziamento, se
non altro perché io sono sempre in ritardo con la consegna dei manoscritti, e quindi
rendo il loro lavoro molto più difficile.
Howie Sanders e Keya Khayatian, i miei rappresentanti all'agenzia letteraria UTA,
sono fantastici. Grazie di cuore, ragazzi!
Scott Schwimer, il mio avvocato, è semplicemente il migliore. Grazie, Scott!
Un ringraziamento va anche a Marty Bowen (produttore di Ho cercato il tuo nome),
così come a Lynn Harris e Mark Johnson.
Amanda Cardinale, Abby Koons, Emily Sweet e Sharon Krassney meritano la mia
gratitudine. Grazie per tutto ciò che fate.
Alla famiglia Cyrus va un particolare ringraziamento non solo per avermi accolto
nella loro casa, ma per tutto ciò che hanno fatto per il film. Un grazie speciale a
Miley, che ha scelto il nome di Ronnie. Appena l'ho sentito, ho capito che era
perfetto!
E, in conclusione, grazie a Jason Reed, Jennifer Gipgot e Adam Shankman per il loro
lavoro alla versione cinematografica di questo libro.
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L`ultima canzone