3.2. 3.2.1 APPENDICE 1 RAPPRESENTAZIONI IN ALTRI TEATRI Conchita 320 “Conchita” del M.° R. Zandonai al “Dal Verme” di Milano, «Il Giornale d’Italia», 16.10.1911 Milano, 15 ottobre. Vi era dell’aspettativa per la nuovissima opera del maestro Riccardo Zandonai, Conchita, su libretto ricavato dal noto romanzo: La femme e le pantin [sic] di Pierre Louijs [sic], per cura di M. Vaucaire e Carlo Zangarini. Di fatti ieri sera il teatro Dal Verme era veramente affollato di un bel pubblico. Erano presenti molte notabilità artistiche, tra queste il maestro Toscanini; il conte di Torino assisteva allo spettacolo da un palco di proscenio. Ecco in breve la tela del libretto: Nella grande stanza da lavoro delle sigaraie di Siviglia un grande numero di visitatori si aggira tra i tavoli. Tra questi è don Mateo de Diaz, un giovane signore che riconosce in una sigaraia, Conchita, una giovinetta che 8 mesi prima egli aveva difeso dagli insulti di un gendarme. Anche Conchita riconosce il suo cavaliere. I due si danno convegno in casa di Conchita e questa gli fa la promessa solenne: Domani sarò tua! Andandosene, Mateo lascia alla vecchia madre di Conchita un pacco di biglietti di banca. Non appena l’innamorata viene a conoscenza di questo fatto, scatta di orrore: «Il vigliacco voleva pagare Conchita? Non voglio vederlo mai più». Mateo per sei mesi l’ha cercata indarno e finalmente la ritrova in un teatrino mentre essa sta danzando. L’innamorato nota tra gli astanti un corteggiatore, col quale Conchita danza. Mateo non ne può più: balza, irrompe nella sala: si avventa addosso a Conchita e per poco non la soffoca. La pace sembra fatta. In una casetta silenziosa nella calle di Lucena, Mateo è atteso da Conchita, la quale lo vuole sottoporre a nuove torture. Quando giunge essa gli grida: «Va, non mi comprendi!» e chiama Morenito, il rivale, che è nell’ombra della strada ad attendere. In casa di Mateo avviene l’ultima scena. Conchita va a sedersi vicino a Mateo che, chiuso a chiave l’uscio, la investe violentemente. La lotta tra i due amanti diventa terribile. Le provocazioni della donna esaltano Mateo che ha spasimi di vendicatrice conquista. Conchita si sente doma, ormai, vinta come una schiava prigioniera e, affermando la propria purezza, si concede finalmente a chi ha saputo dimostrarle di amarla. L’opera fu ascoltata con grande attenzione. Alla fine di ogni atto si chiamò con ripetuti applausi l’autore, il maestro concertatore e gli artisti. Bisogna convenire dunque che il lavoro ha avuto un lieto successo. Anche ammettendo che il pubblico abbia inteso anche dimostrare il suo consenso simpatico e incoraggiante sul valore tutt’altro che comune e sulle chiare qualità del giovane musicista. Il pubblico ha seguito con interesse e ammirazione talora il lavoro: forse avrebbe desiderato più frequenti gl’istanti di quella commozione che trascina involontariamente all’applauso entusiastico. Conchita è un dramma realista dei più brutali, in cui una sola situazione impera: la forsennata richiesta d’amore che induce a concederlo. Ma lo Zandonai dimostrando il suo autentico valore di musicista e una grande abilità di operista superò le scabrosità dell’audacissimo libretto. Alcune pagine dell’opera dimostrano virtù di istinto piuttosto sinfonico che lirico e qualità di assimilazione assolutamente squisite. In sostanza Conchita può ritenersi una bella affermazione 3.2.1/1 della coltura e della nobiltà d’arte dello Zandonai e una speranza forte di più consistenti successi avvenire. L’esecuzione fu eccellente. la Tarquini, protagonista, fu squisita; il tenore Schiavazzi un interprete molto efficace; bene i minori interpreti e i cori. Di bello effetto artistico la messa in scena. L’orchestra fu come al solito superiore ad ogni elogio. Il maestro Panizza fu chiamato egli pure ripetute volte al proscenio. [...] 321 Blanche, Il successo di “Conchita” al Dal Verme di Milano, «La Ragione», 16.10.1911 MILANO, 15. - Iersera al Dal Verme, davanti ad un pubblico eletto, è rappresentata la nuova opera Conchita del maestro Riccardo Zandonai. Il successo è stato completo. Il libretto della nuova opera di Riccardo Zandonai, adattato alle scene da Maurizio Vaucaire e Carlo Zangarini e tolto dal romanzo di Pierre Louys [sic] La femme et le Pantin, si compone di quattro atti e sei quadri. L’azione si svolge in Ispagna. Quando si alza la tela sul primo atto (quadro primo) ci si presenta una stanza di lavoro nella “fabrica” di Siviglia, affollata di sigaraie che lavorano, raggruppate a cinque e a sei intorno a piccole tavole, quasi tutte seminude, vecchie e giovani. Fra esse è anche Conchita. Mentre si lavora si conversa ed è una conversazione animata sul tema prediletto delle vaghe fanciulle: l’amore e gli amanti. Ma la conversazione ad un tratto è interrotta per l’apparizione di Matteo, dell’ispettore della fabbrica e di alcuni visitatori che si aggirano fra i tavoli mentre vien loro spiegata la fabbricazione dei sigari. Matteo passando vicino al tavolo di Conchita la riconosce per la fanciulla che l’anno prima aveva difeso dalle ire di una vecchia gitana, sulla via che da Avila conduce a Siviglia, mentre Conchita era uscita di convento per raggiungere la mamma. Matteo esce con l’ispettore e poco dopo ritorna solo alla fabbrica, accolto dalle grida giulive delle sigaraie. S’appressa poi a Conchita e le getta nella cassetta un napoelone; e dopo averle fissato un appuntamento abbandona la fabbrica. Conchita prende la moneta e la solleva in aria in faccia alle compagne. Per la sala è allora un grande movimento di curiosità: tutte vengono a osservare il napoleone e alcune vogliono ch’ella faccia le parti. Conchita fugge a traverso la stanza, stacca rapidamente il suo scialle e scompare, mentre le amiche corrono alla finestra e, quando vedono che la fanciulla ha raggiunto Matteo, le gettano dei fiori secchi e le rivolgono ogni sorta di vituperi. La musica è di un effetto sorprendente. Il maestro Zandonai ha scritto delle pagine superbe piene di sentimento e di grazia. Il cicaleccio delle operaie è un motivo bellissimo e dolce; la fuga di Conchita, inseguita dai vituperi delle compagne e sottolineata da un crescendo, di una fattura stupenda. E siamo al secondo quadro: nella strada Matteo e Conchita si dirigono verso la casa di quest’ultima: ella intanto gli narra le vicissitudini della sua vita: Oh! non mi compiangete: sbarco, come vedete, il mio lunario se la va male, io scendo in piazza a fare la gitana: danzo la sivigliana come una ballerina di cartello! E così giungono alla casa. Il secondo quadro è mediocre: vi sono però anche degli spunti felici e una ballata sentimentale di ottima fattura. 3.2.1/2 Il terzo quadro rappresenta la casa di Conchita Perez. la madre sgrana il rosario [e] rimane stupita nel vedere ritornare la figlia così presto. Conchita le presenta Matteo. Dopo aver conversato col giovane, la madre si ritira. Conchita e Matteo rimangono soli e possono dare così sfogo al loro cuore ed evocare i più dolci ricordi. Canta Matteo: Come un filtro m’inebria la tua carezza sento su me pesare il divino calore del tuo corpo, o Conchita! E Conchita di rimando: Quando lo specchio mi dirà che invecchio e non ti piacerò più se pur senti di mentire devi dire che tu m’ami sempre... Il duetto è di una fattura mirabile. Il pubblico ne chiede il bis fra interminabili ovazioni. La madre rientra e allora Matteo le consegna un pacco di biglietti di banca, e poi si allontana. Partito Matteo, la vecchia mostra a Conchita il denaro. La giovinetta ha uno scatto d’onore e, gettato a terra il denaro, urla: Denaro? E tu l’hai accettato? Lo vedi? Voleva pagarmi l’amore! Voleva pagare Conchita! Villano! Straccione ................................... Ridargli il denaro bisogna! e fuggire! La fame? Non temo la fame! So fare di tutto... cantare... danzare magari rubare... Sua... no! Il finale è stupendo. L’autore è chiamato più volte al proscenio. Il secondo atto rappresenta il “baile”. Al levar della tela Conchita è in scena e balla mentre Morenito l’accompagna con la chitarra. Il caffè è pieno di gente, l’entusiasmo è al colmo. Matteo entra, vede Conchita, è preso da un tremito, la fanciulla lo avverte ma non lo fissa. Egli assiste sino all’ultimo numero del programma, alla danza cioè di Conchita, nude le spalle e ravvolta sotto le ascelle in uno scialle di Manilla con lunghe frangie. Quando tutto il pubblico se n’è andato, assale risolutamente la fanciulla e le chiede spiegazioni sulla sua fuga. Ella gli risponde singhiozzando: Tu mi volevi amare come le altre! hai voluto comprare l’amore di Conchita... E poi... io voglio esser felice tutta una vita!... 3.2.1/3 ...................... Ah! poter vivere in una piccola casetta queta, che fosse mia, soli... noi due... lontan lontano... Per tutto il pianto che tu piangesti tu prenderesti questo mio santo pegno d’amore, questo mio fiore ch’io t’ho serbato immacolato!... Matteo dà alla fanciulla una piccola chiave: è la chiave di una casetta silenziosa che egli ha nella calle Lucena, è un vero nido d’amore. E dice a Conchita: Va sul mattino e cogli rose intorno, fa che rida la casa a nozze belle; verrà lo sposo al tramontar del giorno e tu l’accogli con le prime stelle; apri il cancello ed aprigli le braccia; egli viene di lungi alla tua traccia! Conchita prende la chiave e si prepara a partire. Siamo al quarto quadro, è notte. Una strada di Siviglia: a destra l’ingresso di una piccola casa; una cancellata attraverso la quale si vede un “patio” inondato dalla luna. Matteo viene e suona alla cancellata: subito appare Conchita che ha teso questa volta un altro inganno: si è rinchiusa nella casetta con Morenito, il fido compagno suo e lo chiama allorché Matteo, accortosi della perfidia della donna, tenta con fervore di scuotere la cancellata per entrare. A Morenito la fanciulla apre le braccia nude; indi lo trascina in casa gridando: Questa mia carne è mia; la dono a chi mi pare! Matteo, rantolando di dolore e di rabbia, cade a traverso la cancellata, scuotendola invano con le mani impotenti. Il terzo atto è il migliore per strumentazione possente e coloritura efficace. L’autore è chiamato quattro volte al proscenio. L’ultimo atto si svolge nella casa di Matteo. Questi è triste e sembra perduto dietro un sogno lontano. Ad un tratto dalla porta a vetri appare Conchita che entra cantarellando una “zazzuela” [sic]. Matteo investe violentemente la fanciulla e la getta a terra e per due volte la colpisce alle spalle... Non insulti o lamenti; tu m’hai fatto soffrire tutti i tormenti! tu m’hai fatto morire 3.2.1/4 d’ogni più vil tortura io che perdutamente, Conchita, ti adorai. Or t’ho in mio potere, non mi sfuggi, sei qua... Conchita ha la testa rovesciata, i capelli disciolti, singhiozza come un bimbo; sente tutto il dolore di ciò che ha fatto e implora il perdono: O Matteo come tu mi ami! Ah! perdona: t’amo anch’io... La scena del cancello era impostura! Morenito m’è nulla; non ebbi amanti mai! vedrai! vedrai! sei tu che adoro! .................... Prendimi; io son tua cosa; il fiore di bellezza che hai calpestato, rinascerà sotto la tua carezza. L’anima mia ch’è nella tua discesa s’è tutta accesa!... Io t’amo! Matteo stordito, sorpreso, si alza e mormora tra sé: Che dice mai? Chi osa crederle più?... Conchita!... E chiama la fanciulla in uno spasimo d’amore e l’abbraccia e l’avvolge tutta co’ suoi baci e la tela cade fra applausi vivissimi. L’autore è chiamato dieci volte al proscenio. Con Conchita il maestro Zandonai si è affermato gloriosamente. Il successo, veramente superbo, di iersera ha aperto al giovane compositore le vie della fortuna e della fama! Il tenore Schiavazzi (Matteo) cantò meravigliosamente e calorose accoglienze ebbe pure la signora Tarquini, una Conchita simpatica e dolcissima. Dirigeva il maestro Panizza, che fu festeggiatissimo. 322 La “Conchita” di Riccardo Zandonai al “Dal Verme” di Milano, «La Tribuna», 16.10.1911 MILANO, 15, ore 10. Un ingegno ricco e franco ha presentato al teatro Dal Verme, dove si svolge un’ottima stagione musicale, un lavoro nuovo che in questi giorni di distrazione è riuscito ad attrarre su di sé la più viva e intensa aspettazione del pubblico milanese. L’autore del nuovo lavoro è il maestro Riccardo Zandonai, già conosciuto favorevolmente dopo il suo Grillo del focolare. La sua nuova opera è Conchita, tratta dal romanzo di Pierre Louys [sic] intitolato La femme et le pantin, ritornato popolarmente celebre quando l’anno scorso ne fu tentata una riduzione teatrale a Parigi che fece molto rumore specialmente per la sua... audacia. Del 3.2.1/5 romanzo originale il presente libretto – scritto da Maurizio Vaucaire e da Carlo Zangarini – non serba che una vaga somiglianza; gli episodi caratteristici che rendevano il romanzo di Pierre Louys suggestivi per lo speciale rilievo ch’essi conferivano alla figura della protagonista, capricciosa, viziosa e psicopatica, mancano quasi completamente e la trama ne ha risentito apparendo nel suo complesso priva di logicità. Conchita è una sigaraia che lavora nella fabrica dove all’inizio del dramma gli autori ci trasportano, fra donne giovani e vecchie, seminude, sfrontate, che sgonnellano pettegoleggiando per la scena. Entra don Mateo Diaz. Conchita lo riconosce: una volta, un giorno quando ritornava dal convento, Mateo Diaz fermò a mezz’aria la potente mano di un guardiano che stava per cadere sulla sua fresca e delicata guancia. Mateo Diaz riconosce esso pure la giovane, e col dono di una moneta d’oro ottiene la riconoscenza pura della monella e quella interessata della madre sua. Ama Mateo Conchita? Ella glielo afferma e gli schiude il labbro ad una dolce promessa: Domani sarò tua. Ma l’indomani essa è fuggita. Si è offesa del danaro che Mateo ha lasciato alla madre: non vuole essere venduta. Per vivere, Conchita è costretta a fare la ballerina, ad offrirsi nuda agli sguardi dei touristes inglesi in una fumosa sala, su di un piccolo palcoscenico. Qui la ritrova al secondo atto Mateo, e qui le getta in faccia la sua vergogna, ella si ribella. È ancora pura e intatta come Dio la fece e davanti a lei ridiventa umile, e fiducioso è Mateo. Ella sospira una casetta solitaria ove vivere insieme. la casetta Mateo la possiede: così il sogno di Conchita può avverarsi. Andranno insieme a tesservi fantasie d’amore. Prima di lasciarlo, la giovane fa ancora a lui la dolce promessa: -Domani sarò tua. Il giorno dopo, sulla soglia del suo nido, Conchita aspetta l’amato, ma lascia appena che egli le baci una mano e la punta della scarpetta e poi lo scaccia e da dietro al cancello lo tormenta: -Ti odio, la tua bocca mi fa orrore: sei vecchio! E, davanti all’amante che prega e si dispera dietro al cancello, ella abbraccia e bacia un giovanotto suonatore di chitarra dicendo che questi è il suo prediletto. -Cagna – rugge Mateo – ti pesterò sotto i miei piedi! E nell’ultimo atto, quando Conchita gli si fa innanzi spavalda, mantiene il suo proposito. Si scaglia contro la donna, la butta in terra e la tempesta di pugni. Santi pugni per lui. Conchita appena può riprendere fiato confessa che un mistero in lei è avvenuto: «Oh Mateo! – grida – come tu mi ami, ma come ti amo anch’io!» Il libretto, come parve a tutti, ha un difetto grave: i caratteri psicologici ivi svolti non rispondono né al romanzo di Pierre Louys né all’intima linea logica del lavoro. La protagonista, per esempio, alla fine dei due primi atti e del quarto mostra una sentimentalità che deforma la sua natura e che conduce fatalmente a situazioni non originali né di buon gusto. *** Era ben arduo rivestire di musica questo soggetto. Ad ogni modo, il pubblico numeroso che assisteva alla rappresentazione ha compreso subito che la musica del Zandonai era superiore di assai al libretto e l’ha volentieri ascoltata, decretandole un buon successo. Colorito, ricco e pieno di varietà e di brio il commento musicale della prima scena, la quale, come già abbiamo detto, si svolge in una fabbrica, fra le sigaraie. Gli spettatori, già ben disposti, furono gradevolmente interessati fin da questo simpatico principio. L’intermezzo, che è un brano sinfonico di felice arditezza e di grande delicatezza, è piaciuto moltissimo, come pure è piaciuta la bella perorazione finale. L’atto è terminato con sei chiamate agli artisti e all’autore. Il duetto del secondo atto fra Conchita e don Mateo, in cui questi rimprovera aspramente alla donna le sue miserie, è vivo, qualche volta violento, come si conviene alla violenza delle passioni che ivi si agitano. Esso è l’episodio culminante di questo atto, che si chiude con tre chiamate. Il terzo e il quarto atto s’iniziano con preludi sinfonici efficaci di alto valore, il primo descrittivo, il secondo di natura melanconica, quasi a significare il pentimento prossimo di Conchita. Tanto 3.2.1/6 nell’uno quanto nell’altro atto vi è un duetto fra i due protagonisti dell’opera e spesso la musica raggiunge una tensione parossistica. Per la cronaca, tre chiamate al terzo e quattro al quarto atto. Qualche lieve disapprovazione viene sopraffatta dall’onda degli applausi diretti al maestro e agli interpreti. In sostanza il successo è stato caldo e sincero. Alla musica del maestro Zandonai si fa l’appunto di non essere molto melodica e di ingenerare talvolta un senso di stanchezza per una tal quale monotonia nei procedimenti. L’opera fu concertata dal maestro Ettore Panizza che, superando difficoltà non lievi, seppe offrire al pubblico una esecuzione perfetta. Protagonisti: Tarquinia Tarquini e il tenore Schiavazzi, entrambi ottimi e applauditissimi. 323 Vice-Aquilifer, La prima di “Conchita” al Dal Verme, «Il Tirso» VIII/41, 22.10.1911 - p. 3, col. 5 L’attesissima opera del maestro Riccardo Zandonai ha ottenuto al nostro Dal Verme quel successo che tutti auguravano all’applaudito autore del grillo del focolare. È stato già narrato l’intreccio del libretto che Maurizio Vaucaire e Carlo Zangarini hanno tratto dal noto romanzo di Pierre Louys: La femme et le pantin. Riccardo Zandonai ha saputo rivestire la storia degli amori di Conchita e di Mateo d’una musica finissima che se pur pecca, nella ricerca delle originalità e nello sforzo di rendere il colore locale, di soverchia poliritmia, pure rappresenta una nuova brillante affermazione dell’ingegno dello Zandonai. Ammiratissima la ballata di Conchita al primo atto, nel quale è anche caratteristico il brioso scherzo strumentale che inizia l’opera. La musica si accende di colori vivaci, ha voci e spasimi di dolore, accenti d’ira e di vendetta quando passa a descrivere il personaggio di Conchita, non più sigaraja della Fabrica ma donna ardente di amore e di gelosia. Così pure di ottima fattura appare il pezzo che commenta la passeggiata dei due amanti verso la casa. Il secondo ed il terzo atto hanno pagine di squisita delicatezza e di soave melodia, fin che nel quarto atto, precipitando il dramma verso la fine, la musica s’innalza a toni più tristi d’una melanconia straziante, per riprendere alla fine dell’opera l’accenno melodioso del duetto d’amore. Esecutori ed interpreti in tutto degni della loro fama e dell’opera furono il maestro Panizza, che concertò e diresse con amore e fede la nuova opera, e Piero Schiavazzi e Tarquinia Tarquini, che resero come meglio non si poteva le loro parti faticosissime. Al primo atto si ebbero cinque chiamate agli interpreti di cui due con l’autore. Al secondo quattro chiamate di cui due con l’autore e una con il maestro Panizza. Al terzo e al quarto si rinnovarono le dimostrazioni e vennero chiamati al proscenio anche i due librettisti. 324 R. Galli, “Conchita” del maestro Zandonai, «Rivista artistica dei teatri e del varietà» II/20, 10.11.1911 - p. 1, col. 1-2-3 / p. 2, col. 1-2 Io non ho mai avuto la fortuna di ascoltare Il grillo del focolare dello Zandonai, di cui si dice molto bene; ma mi basta di avere ascoltato la sua nuova opera, Conchita, per affermare che il giovane Zandonai non è soltanto una promessa per l’arte lirica italiana ma è già un maestro provetto, compiuto, saldissimo. Veramente mi son risolto a parlarne un po’ tardi ma ho la mia buona ragione: ho voluto leggere quanto hanno scritto gli altri miei colleghi, dopo la première al Dal Verme, per trovar conforto alla mia prima impressione e al mio pensiero nell’autorevolezza dei critici magni. Ahimè, che delusione! chi le dice cotte, chi le dice crude, e chi così così! 3.2.1/7 Io non ho la dottrina enciclopedica della critica ufficiale per confondere l’intelligenza del lettore e farlo esclamare: -Che uomo dotto! – dopo non averci capito un acca. Lascio le disquisizioni scolastiche e teoretiche a quei bontemponi dei critici serî e... parliamo un po’ veramente di musica. L’adattamento a libretto del romanzo del Louys, La femme et le pantin fatto da Vaucair [sic] e Zangarini non è stato punto felice: bisogna confessarlo. Non discuto nemmeno se l’argomento fosse musicabile o no, ma il certo si è che la delicata trama psicologica del romanziere, portata sulla ribalta che vuole figure decise ed episodi a grandi linee, è apparsa sbiadita, incolore, quasi priva d’ogni risorsa commotiva, e le tenui nuances descrittive e psicologiche si sono perdute. Conchita, la protagonista, è una creatura complicatissima e punto naturale: più che strano è un essere strambo. L’azione, smidollata e snervata, si svolge intorno ai capricci di questa femminetta isterica, e non solo non interessa ma non diverte neppure le persone di gusto più semplice. Molto ci sarebbe anche da dire sulla forma del libretto, non sempre pura ed elegante e con qualche verso... che Dio ce ne scampi e liberi! Il compito del giovane maestro Zandonai era quindi assai arduo nel dover rendere interessante ciò che interessante non poteva essere; ma la sua musica, anche laddove stride con l’argomento e non risponde al sentimento delle scene, è tutta bella. La sua vena è calda, spontanea, briosa; l’orchestrazione dotta e sapiente come mai, aliena dai volgari effetti delle dissonanze e della grancassa. la padronanza dei mezzi musicali dimostrata dal maestro avvince e trascina l’orecchio. Intendiamoci bene, l’orecchio, poiché il cuore e il sentimento non c’entra. La musica di Conchita non è e non poteva essere un commento del libretto, assolutamente inadatto all’interpretazione musicale. L’ordito orchestrale del Zandonai, considerato in sé, è magnifico ma non anima l’azione dell’opera, troppo inferiore ad esso, e non descrive e non racconta. Questo difetto, che può considerarsi l’unico del lavoro lirico, non è imputabile al maestro che ha creduto bene seguire anzitutto la sua splendida ispirazione, e nessun merito toglie alla bontà e alla squisitezza della musica. Il difetto può anche imputarsi alla giovinezza del maestro negli effetti musicali, ma io sono certo che, se troverà argomenti e trame adatte al suo temperamento, lo Zandonai potrà dare all’arte lirica lavori egregi. Nella musica di Conchita i soliti dotti spulciatori hanno voluto trovare delle reminiscenze di opere classiche, da quelle di Wagner a quelle di Puccini, ma l’accorto lettore sa che questo è uno dei soliti espedienti dei critici sdegnosi, i quali per la dignità della loro cattedra non possono e non debbono mostrarsi mai soddisfatti. Se ritornassero Beethoven o Verdi, non rimarrebbero contenti nemmeno di questi! Io invece, che non sono intinto di pece dottrinaria ma amo giudicare secondo il mio buon senso e il mio buon gusto, quando calò la tela all’ultimo atto di Conchita dissi fra me stesso: -Eccone uno finalmente che dimostra di avere studio, preparazione, senso d’equilibrio e fermezza di polso. Non mi è mai accaduto di ascoltare da un giovane maestro quasi esordiente un canto così armonioso e robusto, una polifonia di accenti così varia, così fresca e pur così dotta. Avrò dunque scoperto una nuova Carmen? un altro Guglielmo Tell? Dio mio! parrebbe davvero che quei buontemponi dei critici serî esigessero dall’ancora oscuro maestro trentino qualche cosa di simile, qualche cosa di divino. Essi lo esigono sempre, anche dal più novellino laureato del Conservatorio. Io mi accontenterò di segnalare ai nostri lettori l’improvvisa e magnifica rivelazione di un giovane che pensa, studia e lavora sul serio, e di esprimere l’augurio ch’egli perseveri nella via presa e ci dia modo di plaudire a nuovi, a prossimi, a maggiori suoi successi. Per completare il resoconto della serata, dirò che lo Zandonai non poteva desiderare interpreti più eletti. Lo Schiavazzi, sebbene qua e là eccessivo, sfoggiò tutto il tesoro dei suoi mezzi vocali e fu efficacissimo. La Tarquini fu una Conchita agile e perfida, con sapiente varietà di gesto e d’accento. Bene anche gli altri: la Zizolfi, il Viale, il Sala, il Vannuccini. L’orchestra fu diretta con bell’effetto di fusione dal Panizza. Il pubblico unanime applaudì calorosamente e chiamò più volte al proscenio artisti e autore. Aggiungo questo per far vedere come della bella serata non sia rimasto soddisfatto soltanto l’umilissimo sottoscritto. 3.2.1/8 Milano, ottobre 1911 325 Z, La prima di “Conchita” a Milano - Il successo dell’opera, «La Vita», 15-16.10.1911 - p. 3, col. 4-5 MILANO, 14. Stasera al Dal Verme si è data la tanto attesa première della Conchita, il nuovissimo lavoro del maestro Riccardo Zandonai, su libretto dello Zangarini. Diremo subito che l’aspettativa non è stata delusa e che certo l’opera può degnamente essere appellata la sorella di quel gioiello musicale che è il Grillo del Focolare. Lo Zangarini ha saputo adottare un libretto scenicamente bello a cui la musica del maestro Zandonai ha dato i dovuti risalti, una cornice di armonia e di finezza. Può dirsi quindi che l’autore ha vinto una bella battaglia, ottenendo un vero successo di pubblico. E questo non si è mostrato certamente avaro del suo plauso e del suo compiacimento. La musica dello Zandonai, talvolta delicata, talvolta rude ma sempre melodiosa, è piaciuta immediatamente. Egli ha creato in Conchita un tipo di donna che pure avendo gli scatti felini di Carmen e i suoi trasporti amorosi, ha pure l’estrema dolcezza del sentimento che prorompe spontaneo e avvincente specialmente nella chiusa del secondo atto e nel finale. L’interpretazione è stata degna di ogni elogio. Il maestro Panizza ha saputo colorire con la sua orchestra la musica ottenendone ottimi effetti. Egli ha diretto magistralmente confermandosi quel buon nome che godeva nell’arte. La Tarquini ci è sembrata il tipo adatto per interpretare il principale personaggio di Conchita, e sulla scelta lo Zandonai ha avuto una mano felice. Voce, grazia, chiarezza, spontaneità di sentimento, tutto si è trovato nella giovane cantatrice che fu assai festeggiata. Non udivamo lo Schiavazzi da un pezzo, ma egli è ritornato a noi colla sua bella voce equillante e ha saputo aggiungere un altro successo a quelli cui era avvezzo. Buoni furono tutti i preziosi collaboratori. Degni di nota lo scenario e la bellezza dei costumi. Conchita avrà certamente una serie di repliche. 326 E[ttore] M[ontanaro], “Conchita” di R. Zandonai, «Orfeo» II/37, 22.10.1911 - p. 2, col. 1-2 (Milano - Teatro Dal Verme) Conchita, la nuovissima opera di Riccardo Zandonai, ha avuto sabato sera al Dal Verme, innanzi al pubblico più eletto della capitale lombarda, un successo bellissimo, sereno e persuasivo. Il primo atto, ascoltato con interesse, fu coronato da fragorosi applausi che si ripeterono cinque volte chiamando alla ribalta gli artisti e l’autore. L’atto seguente attrasse maggiormente l’attenzione del pubblico che sottolineò con vive approvazioni il duetto d’amore detto squisitamente dallo Schiavazzi e dalla Tarquini. Alla fine tre fragorosi applausi che si rinnovarono anche dopo il terzo atto. Finita l’opera, ripetute e lunghe acclamazioni allo Zandonai, col quale si volle il maestro Panizza direttore e concertatore di una grande sobrietà, di una coscienza vigile e forte, e il poeta Zangarini. L’esecuzione fu ottima. 3.2.1/9 Tarquinia Tarquini diede alla figura di Conchita tutto il fascino dell’acre passione di un’anima coscienziosa, ardente e strana; essa cantò con grazia e sentimento squisito. Anche il tenore Schiavazzi ebbe intensi accenti di dolcezza e impersonò con forti rilievi il personaggio di Mateo. L’opera d’arte Riassumiamo le nostre impressioni sull’opera d’arte. Ci sembra che ancora una volta Riccardo Zandonai abbia dimostrato di possedere un felice temperamento di musicista. Questa sua Conchita offre a chi l’ascolta viva materia di compiacimento: in essa brillano assai frequentemente luccichii d’oro ed irradiescenze [sic] di perle. Un gran pregio ha la musica dello Zandonai: quello di essere spontanea e sincera; la sua tavolozza ricca di combinazioni e di impasti giovanilmente audaci, se ha il gusto dei colori abbaglianti, conosce pur l’arte delle morbide sfumature, mentre la sua melodia, spesso inquieta e tormentata, rivela il musicista che cerca di tradurre in altrettante oscillazioni ritmiche le sue più tenui vibrazioni emotive. E vi riesce magnificamente, affermandosi fra i più ben temprati dei nostri giovani maestri e mostrando qualità d’arte e di stile che dovranno indubitabilmente divenir popolari. Ricorderò qualche pagina dello spartito degna di particolar menzione. L’opera si inizia col chiacchierio pettegolo delle sigaraie, reso con efficacia da un vivo e rapido intreccio corale che l’orchestra accompagna in un movimento leggero ed agile. Quando sorge Conchita a raccontar la sua prima avventura con Mateo, il canto si eleva a una declamazione ampia e varia di volute e di modulazioni. L’intermezzo fra il primo e il secondo atto è una piccola gemma, come è di buon effetto la scena finale dominata dall’intenso dolore e dalla violenta imprecazione di Conchita. Nel secondo atto l’ambiente basso e viziato del baile è colorito da pennellate dense di carattere; poi, dopo la tempesta suscitata nel cuore di Mateo dalla gelosia, dopo i freddi orgogliosi accenti di Conchita, il duetto dei giovani innamorati che a grado a grado si riconciliano e sognano un amore quieto e nascosto chiude l’atto con una dolcezza squisita. Nel terzo atto la descrizione della notte di Siviglia è forse la miglior pagina di tutto lo spartito e la scena che segue fra Mateo e Conchita ha caldi e vigorosi accenti di passione e di dolore. L’ultimo atto ha sprazzi di viva bellezza; di molto effetto è il preludio con cui si apre, come musicalmente indovinata e resa con mano di grande artista è la chiusa dell’opera. Tutta la stampa ha constatato l’immenso successo di Conchita ed ha elevato veri inni di lode e di entusiasmo alla fiorente genialità di Riccardo Zandonai. Il giovane musicista ha ora solo ventotto anni e già mostra il petto agguerrito all’ardua battaglia della scena lirica; se saprà fermamente volere egli salirà in alto e ci darà intera la misura del suo valore; e non ci meraviglieremmo se fra non molto dal suo bellissimo ingegno avesse a sbocciare il capolavoro. 327 Renzo Rossellini, Per Zandonai - La “Conchita” al San Carlo di Napoli, «Il Messaggero», 15.2.1959 Il San Carlo di Napoli, che è forse dei teatri italiani il più dinamico, il più ardente d’entusiasmo ed il più ricco d’iniziative coraggiose ed intelligenti, ha messo iersera in scena l’opera «Conchita» di Riccardo Zandonai che da molti anni non si rappresentava. Forse sarà un’illusione, ma a noi piace pensare che l’invito uscito proprio da queste colonne, alcuni mesi or sono, per un rilancio dei più significativi spartiti del grande musicista sia stato raccolto prontamente da chi con superiore intelletto crede nel teatro lirico, nella sua attualità e modernità, nel grande cammino ancora da percorrere nel campo vastissimo dell’arte e della cultura. Della popolarità di Riccardo Zandonai, dell’amore vivo e vigile per le sue opere, del ricordo dolcissimo lasciato da un uomo delizioso avemmo sorprendente testimonianza quando, scrivendo del maestro, da ogni parte d’Italia, da 3.2.1/10 grandi e piccole città, da remote contrade, ricevemmo parole appassionate di approvazione e persino di ringraziamento. L’animo nostro fu in quell’occasione lenito dalle molte amarezze che opprimono la coscienza di chi crede fermamente in qualcosa di giusto e di vero, eppure deve assistere quotidianamente alla mortificazione della giustizia e della verità. Non sentirsi soli nella rivendicazione di una fede o di un ideale, ma circondati dal consenso e dalla solidarietà dei migliori, vuol dire sentirsi rinvigoriti nel chiedere diritto di vita per chi ha diritto di vivere. Le opere di Riccardo Zandonai sono un grande patrimonio del teatro lirico italiano: siamo ricchi e non lo sappiamo, siamo all’avanguardia di un genere d’arte che è tipicamente nostro e che tutti ci invidiano, eppure noi per primi ignoriamo questa meravigliosa verità. Non vale ripetere un lungo, tormentato discorso esplicativo di tutte le sfortune che complicano ed aggravano la già difficile esistenza dell’arte lirica italiana: “c’è da uscire pazzi” per le cose contrarie alla logica che si vedono e che, con due soldi soltanto di buona volontà, si potrebbero ovviare. Meglio è pazientemente, giorno per giorno, cercare di costruire qualcosa che si opponga alla inerzia ed allo svilimento con cui si amministrano i supremi interessi dell’arte e della cultura nazionali: operando e producendo, guardando davanti a noi, inflessibili nella applicazione dei propri principî e, sopratutto, non mai rinunziando alla lotta. Dicevamo: siamo ricchi e non lo sappiamo. È triste ma è vero. Ce lo testimonia lo spartito di «Conchita» che abbiamo per le mani. Ci si domanda come una tale opera esuberante di vita, così fragrante di modernità, abbia potuto finire nel dimenticatoio dei polverosi e mai spolverati archivi musicali dei nostri teatri. Quando si pensa poi che uguale sorte è toccata alla «Francesca da Rimini», a «Giulietta e Romeo», ai «Cavalieri di Ekebù», alla «Farsa amorosa», si spiegano implicitamente le prime cause che sono alla base e costituiscono il fulcro della crisi teatrale italiana. Perché il livellamento e la confusione dei valori, il mancato rinnovamento del repertorio, la ignoranza delle autentiche forze sulle quali si poteva fondare la continuità della tradizione, hanno recato, insieme a tanto male, la gravità del pregiudizio che pesa su tutto un genere d’arte. Riccardo Zandonai musicò «Conchita» a ventisei anni, mezzo secolo fa: era la sua seconda esperienza teatrale. Tito Ricordi gli aveva passato il libretto scritto da Maurice Vancaire [sic] e Carlo Zangarini per Puccini e ricavato da «La femme e le pantin» [sic] di Pierre Louys [sic]. Puccini fu lungamente incerto se musicare o no il libretto: gli piaceva, lo attirava, ma non lo convinceva del tutto. Un soggetto scartato da Puccini poteva recare serio pregiudizio all’opera di un giovane; ma Zandonai, che era un ardente ed irrequieto spirito sempre desioso di lavoro, non ebbe un istante di dubbio e di incertezza nell’accettare l’invito del suo editore. Questi spedì il giovane compositore in Spagna a cercar motivi diretti di ispirazione: Zandonai visitò minutamente il paese, studiò il folclore e raccolse il canto popolare, come fioriva sulle labbra di quella gente. Scrisse in pochissimi mesi l’opera, che fu rappresentata a Milano con grandissimo successo. Allora eran gli anni belli del teatro lirico e il nuovo spartito, dopo aver fatto rapidamente il giro dei palcoscenici italiani, varcò i confini e fu ospite acclamato dei maggiori teatri internazionali. Che cosa rivelava d’importante e di singolare quest’opera che, nonostante l’incertezza dell’interesse teatrale, così a dentro penetrava nella coscienza del pubblico? Anzitutto una natura di musicista straordinaria: una personalità inconfondibile nel dire e nell’agire, un talento evocatore delle più ricche e provvide suggestioni ambientali, uno strumentatore formidabile. Le menti sensibili, le persone colte, gli amatori della lirica capirono che il nostro teatro era giunto ad una svolta di storica importanza. Il linguaggio sinfonico penetrava nel teatro come elemento rigeneratore, recando, insieme a nuove e più elette aspirazioni d’arte, un ordine esemplare. L’operismo di Zandonai aveva ed ha avuto un altro merito: quello di riallacciarsi alla tradizione verdiana del melodramma. Verdiano è il teatro di Zandonai per i suoi valori drammatici, per la profondità dei sentimenti, per l’ampiezza del canto, per la forza dell’invenzione melodica, infine per l’alta tematica e le supreme aspirazioni drammatiche. Poi per la vivida penetrazione della psicologia umana, nel conflitto dei grandi problemi che offrono eletta materia alla lirica ed alla poesia. L’atto, la scena, il quadro sono per taglio, equilibrio, misura e forza di contrasti 3.2.1/11 squisitamente verdiani: e verdiano è il canto, quando nel declamato sintetizza e scolpisce il significato delle azioni, la realtà dei caratteri. Tutti questi altissimi meriti erano già in pieno rigoglio nell’opera del compositore ventiseienne: seppure non costituiscono che le premesse di ciò che fu la meta grandissima raggiunta nella «Francesca da Rimini», ideale perfetto e punto di incontro definitivo del sinfonismo con il canto. Il successo e la rapida diffusione della «Francesca da Rimini» dovevano per forza limitare il cammino di un’opera che, pur ricca di singolari attrattive, le era sorella minore: ma «Conchita» rimane tuttavia la prima pagina documentaria della rivelazione di un nuovo musicista italiano. Tutto ciò che nell’opera può dirsi non compiuto, per la incerta poesia delle situazioni sceniche, per il taglio troppo frammentario e semplicistico del libretto, assolutamente nulla toglie al valore del musicista, ineccepibile e completo in ogni particolare della sua scrittura, della sua dialettica. La ripresa al Teatro San Carlo della «Conchita» di Riccardo Zandonai può e deve considerarsi il primo gesto concreto per un rilancio su vasta scala del grande operista italiano. A questa opera indifferibile e necessaria per la vita stessa ed il rinverdimento del repertorio teatrale, tutte le persone in grado di recare un qualsiasi contributo debbono farsi avanti con la tenacia e lo zelo che noi abbiamo posto nella nostra piccola ma sacrosanta crociata. Il pubblico lo vuole e questa è gran cosa: perché nulla si può contro il pubblico, tutto si può insieme ad esso. 3.2.1/12 Melenis 328 “Melenis” del m. Zandonai al “Dal Verme” di Milano, «Il Messaggero», 14.11.1912 - p. 5, col. 1-2 Milano, 13. Questa sera al nostro Dal Verme, affollatissimo di pubblico, ha avuto luogo la prima rappresentazione della nuova opera del maestro Zandonai: Melenis, tratta dal poema di Louis Bouilhet, da Massimo Spiritini e Carlo Zangarini. L’azione avviene in Roma l’anno di Cristo 188 e precisamente durante il governo di Aurelio Commodo. Il primo dei tre atti ci trasporta nella Suburra, il secondo nell’atrio del Circo, il terzo nei giardini dell’edile Marcello. Il retore Marzio è perdutamente innamorato della bellissima Marcella, figlia di Marcello, ma la fanciulla è di troppo alto lignaggio perché gli sia concesso di chiederla in isposa. E Marzio, per trovar pace al suo dolore, si reca fra le etère della Suburra e si imbatte nella giovane greca Melenis, che al solo vederlo si innamora pazzamente di lui. Ma Marzio non pensa che a Marcella; e al secondo atto, trasformatosi in gladiatore, atterra fra il delirio del popolo un atleta della Tracia. L’imperatore Commodo, che assiste allo spettacolo, aggiunge la sua lode e gli chiede quale compenso può dargli per la conseguita vittoria, e Marzio chiede in premio Marcella, che gli viene accordata. Al terzo atto – nel momento che si stanno per celebrare le nozze dei due giovani – Melenis, che non è riuscita a dimenticare un istante l’uomo che adora, si trae dai capelli uno spillone d’oro e se lo trafigge nei cuore, cadendo sulle rose sparse lungo il sentiero. Il soggetto di Melenis, sceneggiato e verseggiato con una certa nobilità, porta seco un vizio di origine. L’antico mondo romano rappresentato sulle scene liriche vi procrea dei corpi senza anima, oppure imprime a quelle sue anime una sensibilità troppo diversa dalla moderna per poter trovare eco nel sentimento nostro. In confronto di Conchita, nella musica della nuova opera di Zandonai si riscontra un processo di semplificazione ritmica tutt’altro che svantaggiosa alla sua interna struttura; ma l’indirizzo adottato dal maestro in Melenis non muta. Le strofe di Melenis nel primo atto; la invocazione di Marzio a Marcella in fine dell’atto secondo; l’introduzione del terzo atto dopo il preludio, tubata dolcemente dal flauto basso (applicazione nuova dello strumento inventato dal prof. Albisi); il canto di Melenis, il suo sogno di amore sulle parole: Tanto era bello il sogno mio si possono chiamare le cose migliori della partitura, in ciò che essa contiene di più vocalmente espressivo. L’esecuzione, giova dirlo, ha reso mirabilmente il nuovo lavoro dello Zandonai. Il maestro Panizza ebbe la sapienza di ricavare dagli elementi posti a sua disposizione il maximum desiderabile. La Muzio ha profuso tutti i pregi della sua voce nel rendere con allettatrice morbosità il canto di Melenis, mentre il tenore Martinelli apparve un gladiatore ottimamente rappresentativo e squisitamente canoro. Della comicità sensuale di Leandro [sic] fu interprete assai efficace il tenore Boscacci. Bene tutti gli altri. La messa in scena ottima. Un pubblico elegantissimo assisteva alla rappresentazione per la quale l’attesa era vivissima. Tra esso i maestri Giordano, Alvaro, Vitale e molti altri. Il successo dell’opera è stato piuttosto di stima. Infatti al primo atto si ebbero tre chiamate, al secondo quattro calorose, ed al terzo tre. Certamente quest’opera non avrà la popolarità di Conchita. 3.2.1/13 329 “Melenis” del m.° Zandonai al “Dal Verme” di Milano, «La Tribuna», 15.11.1912 - p. 3, col. 4-5-6 Milano, 14.11 Il maestro Riccardo Zandonai, autore acclamato del Grillo del focolare e di Conchita, ieri sera ha presentato al giudizio del pubblico milanese il suo terzo lavoro, Melenis. Per questa prima rappresentazione l’aspettativa era assai grande, data la bella rinomanza del musicista e la viva simpatia di cui egli gode nel mondo musicale. Il Dal Verme era perciò affollatissimo e l’uditorio mostrava i segni di una favorevole predisposizione. Tuttavia il successo dell’opera non fu caloroso come da tutti si sperava, anzi si prevedeva. Gli applausi ci furono, ma non apparvero mai unanimi né entusiastici. Il libretto di Melenis, scritto da Massimo Spiritini e Carlo Zangarini, mira sopratutto agli effetti di teatralità, anche a scapito del contenuto psicologico del dramma. In esso vediamo, al primo atto, il retore Marzio che, nella taberna di Saturnino alla Suburra, vaga triste e sconsolato poi che è acceso d’amore per una meravigliosa fanciulla di condizione sociale troppo elevata per lui: la figlia dell’edile Marcello. Inutilmente Stafila, un’abile indovina, cerca di fargli coraggio e di ispirargli fiducia nel suo destino: egli, perduta ogni speranza, pensa alla morte. Intanto la procace e ardente Melenis, una greca di bellezza scultoria, danzatrice e cantatrice trascinante, gli si avvicina e gli offre tutta sé stessa, mostrandosi presa per lui da una invincibile passione. Marzio dapprima si ritrae, ma poco a poco si piega al desiderio della splendida etera. Melenis canta al giovane la più voluttuosa delle sue canzoni: Salii sul pesco con la scala d’oro (erano tutti d’oro i miei pensieri) Morsi una pesca con i denti bianchi morsi una pesca sino alla midolla ....................................... All’ombra delle rose io mi sedei e un’ape punse a caso la mia bocca Donne, s’ei passa, dite al mio diletto che un’ape farà il miele col mio sangue! Alla fine Marzio, desideroso d’oblio, accoglie tra le sue braccia l’innamorata cortigiana ed esce con lei nella strada silenziosa. Il secondo atto si svolge nell’atrio del Circo. L’imperatore Commodo assiste ai giuochi. Egli ha adocchiato, tra la folla, Melenis e comanda che sia condotta a lui. Ma la greca riesce ad impietosire il feroce e lussurioso monarca e ottiene di conservare la libertà. Intanto, nell’arena, Marzio, travestitosi da gladiatore, combatte e atterra un atleta formidabile. Il popolo inneggia a lui e l’imperatore Commodo gli domanda quale premio egli desideri per la sua vittoria. Marzio allora chiede la mano di Marcella, la figlia dell’edile da lui tanto amata. L’edile insorge furibondo contro l’audace, ma Commodo con un gesto gli impone silenzio. Le nozze si faranno l’indomani. Marzio e Marcella restano avvinti, grandiosamente. D’un tratto si ode la voce di Melenis triste e pure minacciosa: Donne, s’ei passa, dite al mio diletto che un’ape farà il miele col mio sangue! Al terzo atto, la tragedia ha il suo compimento. Mentre fervono i preparativi per le nozze di Marzio e di Marcella, Melenis viene alla quieta villa suburbana per strappare il suo amante alla 3.2.1/14 fortunata rivale. Ma l’egoista Marzio si mostra impassibile alle sue preghiere disperate. Marzio non l’ama, non l’ha amata mai. Ella è stata per lui una creatura di piacere e nulla più... Melenis comprende che ogni insistenza è inutile e si allontana, decisa a morire. Così non appena appare sulla soglia della villa il corteo nuziale, ella trae dai capelli uno spillone d’oro e con voluttà se lo infigge nel cuore. Ma il suo sacrificio è inutile e passa quasi inavvertito. Il corteo si allontana tra gli inni giulivi, agita al vento la torcia di pino, lieto conduci al talamo la sposa... *** Come già abbiamo detto, questa Melenis, se pure non entusiasmò, ottenne lieta accoglienza. Dopo il primo atto il pubblico chiamò tre volte gli esecutori e tre l’autore. Dopo il secondo le chiamate furono tre e altrettante alla fine dell’opera. ma l’uditorio, per quanto ben disposto verso il valoroso autore, non fu mai trascinato dall’emozione. Il dramma in nessuno dei suoi momenti più forti ebbe potenza di suggestione. Assai animate e vivaci furono le discussioni durante gli intermezzi. Constatata ancora una volta la vasta cultura musicale dell’autore, il pubblico cercò di appassionarsi, ma invano, alle vicende dell’infelice amore di Melenis e alla tragica sua fine. Melenis, l’unico personaggio veramente interessante, non basta da solo a ravvivare il dramma, circondato come è di figure scialbe, di corpi senza anima. E gli applausi infatti si ebbero solo quando la figura della protagonista ebbe slanci di vitalità, di personalità umana. Al primo atto, che è indubbiamente il migliore dell’opera, piacque la invocazione di Marzio, ma l’applauso fu diretto, piuttosto che alla musica, alle belle note acute del tenore Martinelli. La languida danza di Melenis, la sua canzone ed il suo racconto ingenuo e così magistralmente colorito dall’orchestra, provocarono un tentativo di applausi, ma molto debole, forse perché non tutte le bellezze musicali di quei pezzi, come in genere della nuova opera, sono facilmente accessibili. La nobiltà squisita di questo primo atto sarà indubbiamente e come merita rilevata dal pubblico nelle successive audizioni. Il secondo atto, quello del Circo, il più movimentato, scosse l’uditorio e determinò il successo. La preghiera di Melenis all’imperatore perché le conceda la libertà fece vibrare la corda del sentimento e le spasmodiche invocazioni della bellissima greca provocarono il più caldo applauso della serata. Di effetto immediato fu il contrasto tra il canto dolce dei cristiani condotti al martirio e le interne urla della folla incoraggianti i gladiatori ai cimenti del Circo. Un applauso accolse il preludio del terzo atto, che apparve una pagina orchestrale di bellezza rara, ma subito dopo il pubblico ridiventò freddo né valsero a scuoterlo il ritmo danzante delle ancelle floreali né l’aria di Marzio che saluta la casa di Marcella: anzi l’uditorio rimase glaciale anche durante la grande scena fra Melenis e Marzio. La disperata invocazione della donna e il suo spasimo atroce e lacerante – strano a dirsi – provocarono un senso come di oppressione che non permise al pubblico di apprezzare al giusto valore il forte coro epitalamico che chiude l’opera. Indipendentemente dai disparatissimi giudizi che furono forse troppo affrettatamente lanciati iersera, bisogna riconoscere che lo Zandonai con questa Melenis ha superato quanto già aveva dato nelle sue opere precedenti. Lo Zandonai ha dimostrato di essere padrone di tutti i reconditi segreti dell’orchestra e di conoscere a perfezione tutta la forza espressiva della moderna arte. L’esecuzione da parte degli artisti dell’orchestra fu quale lo stesso autore avrebbe potuto desiderare. La faticosissima parte della protagonista venne sostenuta con sicurezza e resa con espressione dalla signora Muzio; il tenore Martinelli ha delle magnifiche risorse vocali e tutte le sfoggiò nella parte di Marzio, riscuotendo applausi anche a scena aperta. Il tenore Boscacci creò con intelligenza 3.2.1/15 la caratteristica parte di Leandro [sic]; buone nelle loro piccole parti la Steinat, la Marchini, il baritono Marturiani e il basso Bettoni. L’orchestra suonò mirabilmente sotto la direzione del maestro Panizza, che fu chiamato più volte al proscenio insieme all’autore. Ottimi i cori e la messa in scena. *** Il critico del Corriere della Sera dice di Melenis: [«]Nello stesso punto in cui l’ammiriamo, essa non riesce a persuaderci pienamente, a vincere ogni nostra resistenza, a darci il brivido dell’entusiasmo. Sentiamo che ci manca ancora qualche cosa più essenziale, qualcuna delle forze dinamiche ed emotive della grande opera d’arte. Quale? Non saprei dirlo con esattezza. Certo, non giova al pronto effetto di Melenis la forma del suo discorso musicale che oscilla continuamente tra quello del canto e quello della declamazione e cade in piccoli periodi monotoni, oggetto della nervosa inquietudine dell’orchestra e di quella di tutti i personaggi. Una forma siffatta non si intende con facilità e stanca la nostra attenzione con lo stimolarla senza concederle mai un istante di riposo, senza risorgerla con le attrattive e la ripresa della varietà. Il più delle volte la ricerca dell’accento drammatico interrompe il fluido drammatico spontaneo dell’espressione musicale del genio del maestro; tende capziosamente a sostituire il valore della forma a quello del pensiero. Ma la nuova opera contiene parti di sì grande bellezza che difetti anche più gravi di quelli notati le potrebbero essere facilmente e meritatamente perdonati[»]. Il critico del Secolo esprime questo giudizio: [«]In confronto alla Conchita, nella musica della nuova opera di Zandonai si riscontra un processo di semplificazione ritmica tutt’altro che svantaggiosa alla sua interna struttura; ma l’indirizzo adottato dal maestro non muta. È indirizzo senza finalità volgari, introdotto dal senno e dall’energia di un giovane maestro sdegnante le vie comuni del successo, un indirizzo tuttavia piuttosto discutibile nel riguardo estetico. In altri punti lo Zandonai non riesce a darci tutto il desiderabile. La sua orchestrazione è interessante troppo sovente per sé stessa come prodotto di una sensibile spinta e di una immaginazione che indaga con fortuna le belle combinazioni sonore. Invece il discorso suo langue e pare che la passione richiegga una vera profondità di espressione musicale e quella incisività drammatica da cui dipende in fin dei conti la possibilità di imprimere il pensiero proprio nel pensiero degli altri[»]. Il critico della Sera trova che lo Zandonai è riuscito a superare in gran parte queste difficoltà ed a plasmare un lavoro che si segnala per organica unità, per copia di idee, per solidità di costruzione, per bellezza di particolari: una notevole opera d’arte insomma e insieme un’opera da teatro. Nuoce al lavoro artisticamente e praticamente l’indeterminatezza dell’indirizzo dovuta con tutta probabilità ad una invidiabile dote del Zandonai, la facilità cioè con cui egli compone, dote che egli dovrà successivamente disciplinare. 330 C. G. P., Melenis di Riccardo Zandonai al Teatro Dal Verme di Milano, «Il Corriere d’Italia», 15.11.1912 - p. 3, col. 3-4-5 MILANO, 14, matt. Stagione critica per i critici corre a Milano. Con teatri di musica aperti contemporaneamente, le novità melodrammatiche si susseguono con vertiginosa vicenda, lasciando più sbalordito che commosso il pubblico che ha voglia e tempra di seguirle. Iersera fu la volta della nuova opera dell’autore acclamato di Conchita, questa greca Melenis, che nella Roma della decadenza imperiale trova l’amore e la morte. Riccardo Zandonai, giova dirlo subito, ci ha presentato un lavoro che non solo non smentisce, ma accresce la sua fama di musicista dalle elevatissime intenzioni artistiche e di esperto conoscitore di tutti i segreti della tecnica musicale. Non sempre però è riuscito nel corso della sua opera a 3.2.1/16 suscitare in noi emozioni profonde col calore e con l’intima virtù delle idee melodiche ond’è intessuta abilmente questa Melenis. Il Libretto Carlo Zangarini e Massimo Spiritini han tratto il nuovo libretto dal poema Melenis di Louis Bouillet [sic]. La scena del primo atto rappresenta la taverna di Saturnino nel rione della Suburra. Lidia, Calpurnia e Mirra conversano allegramente tra loro; Stafila, la fattucchiera, lentamente agitando i dadi nel bossolo, giuoca attenta tutta raccolta in sé e Cleandro, che l’imperatore ha fatto strumento d’ogni sua nefandezza, s’aggira in mezzo ad un gruppo di donne. Mimi, gladiatori, tavernieri sono ovunque. Della scomposta gazzarra Marzio, il giovane retore, ha disgusto e noia; è triste e chiede consiglio e conforto alla sorella Stafila. Egli ama, senza speranza di farla sposa, la figlia dell’edile Marcello e vuol morire, morire però di una morte bella nel Circo coi muscoli lucenti al sole, avanti a tutta Roma fremente, avanti ad Augusto. Si farà gladiatore. E forse una giovine donna m’avrà veduto e il viso celerà dietro la mano e il pianto solcherà la bianca mano Ah! che la scorga allora e ch’io stramazzi morto sulla sabbia calda, col suo bel nome piantato fra le labbra, come un fiore. Ma la sorella gli predice non la morte, ma una sorte migliore, la vittoria, la gloria! La scena si sfolla. È scesa la sera. Da lontano giunge fievole e triste un canto come una preghiera che esca da un sepolcro: sono i cristiani. Donami un cuore puro e rinnovella nel mio petto l’amor della giustizia; grandi son le mie colpe; tu cancella Signore, in me ogni traccia di nequizia Intanto appare silenziosa Melenis, la bellissima greca; si avvicina a Marzio che cerca togliere dai suoi tristi pensieri. Danza a lui davanti, e canta una canzone del suo paese; gli narra la sua storia, storia breve e dolorosa che finisce col provocare un labile amore in Marzio verso Melenis. L’atto secondo ci conduce nell’atrio del Circo. È il momento in cui Marzio sta lottando con un campione trace. Giungono incomposte le grida e gli urli della folla, mentre s’eleva calma e solenne la preghiera dei Cristiani destinati ad esser pasto alle belve. «Vittoria! Vittoria!» – si grida dal Circo. Marzio ha vinto. Da ogni parte, dalle scale e dagli archi del fondo accorre la folla; atleti, mimi, aurighi, matrone, senatori, patrizi, cavalieri e centurioni si sospingono per acclamare il vincitore che, portato a spalle dai gladiatori, coronato di lemnisco, s’avanza preceduto dai buccinatori. Tra la folla è Melenis. Mimi e coretidi danzano avanti al trono dell’imperatore. Questi chiama a sé Marzio e con fraterno gesto di confidenza chiede al giovane quale sia il suo desiderio. E Marzio, incoraggiato dallo sguardo di Marcella presente, risponde che egli non desidera che sposare la figlia dell’edile Marcello. Melenis fugge con un grido straziante. Commodo obbliga il padre a cedere la figlia al vincitore. Nell’atto terzo ci troviamo nella villa suburbana di Marcello. È l’alba nuziale di Marcella e di Marzio. Un gruppo di ancelle sono intente a preparare fiori per la imminente cerimonia. Isi, la 3.2.1/17 maggiore di loro, canta un ritornello triste, altre danzano. Ma la danza è interrotta dal sopraggiungere di Melenis. Questa è vestita delle sue più ricche vesti, come andasse ad una festa; ha al collo un vezzo di superbe gemme, al braccio una torque d’oro e di gioielli. Essa chiede fiori, molti fiori e vuole che si spoglino i rosai e per ogni fiore promette alle ancelle una gemma. La scena si vuota. Sopraggiunge Marzio e Melenis cerca riaccendere nel cuore dell’amato l’antico affetto. Ma Marzio non si commuove: egli ha amato sempre Marcella, Melenis non prese che una favilla del suo grande amore. E Melenis prega ancora, scongiura e si dispera; ma Marzio non l’ascolta più: freddo e deciso rientra nella villa, lasciandosi dietro la tragica angoscia di Melenis. Per la tua via se troverai le rose ricordati di me! Per la tua via se il sangue troverai ricordati di me, Marzio! Marzio è lontano. Melenis retrocede dalla soglia infausta, scossa e vinta, cadendo a sedere sull’esedra marmorea. Le ancelle ritornano e coprono l’esedra di rose, colmano la fanciulla di fiori e si allontanano. Dall’interno della villa giunge il canto nuziale. Melenis è stordita, balza in piedi e si aggira per la scena come folle; poi con impeto subitaneo si trae dai capelli uno spillone d’oro e se lo infigge al cuore. Cade sulle rose, restando attraverso il sentiero che conduce al tempietto in cui dovrà compiersi il rito nuziale dei due sposi felici. L’opera d’arte Tale libretto, come si vede subito alla prima lettura, ha valore più come sfondo che come dramma. Tolta la suggestiva ricostruzione dell’ambiente e quel fascino di poesia stanca e raffinata con cui è dipinto il mondo romano della decadenza, potremmo logicamente domandarci che bisogno c’era di scomodare l’antichità classica e le venerate mura dell’Urbe per porre in iscena il solito fatto dell’innamorata che non riuscendo a veder corrisposto il suo amore crede compiere con la sua stessa morte la vendetta. Né la figura torva e violenta di Commodo imperatore; né quella sozza del suo liberto Cleandro; né la taberna di Saturnino, con la sua poco nobile compagnia, sono granché proficue a dare simpatica luce ai protagonisti del dramma. Il soggetto poverissimo e senza interesse per essere diluito in tre atti, ha avuto bisogno di una quantità di episodi decorativi, che vantano il merito di dar varietà e ricchezza scenica all’ordito miserevole dell’azione e coloriscono abilmente l’ambiente. Il musicista quindi da parte sua ha trovato (se se ne eccettui il terzo atto, pieno di dolorosa passione) maggior campo all’espressione sonora nella parte episodica che nell’azione principale connessa alla vita scenica dei protagonisti. ne fa fede tutta la scena del Circo al secondo atto, concepita e scritta invero da grande maestro. Ma andiamo con ordine. Modernamente senza preludio s’inizia l’opera. Ritmi saltellanti e inquieti di dionisiaca gaiezza accompagnano le prime scene nella taberna di Saturnino, scene in cui campeggiano alcune figure di cortigiane e il liberto Cleandro, che improvvisa un grottesco giudizio di Paride tra le equivoche frequentatrici della taberna. Ad effetti originali d’orchestra si riduce qui il lavoro del musicista, che non ha nobili sentimenti da dipingere. L’entrata di Marzio e il racconto dei suoi strazi amorosi, ch’ei fa alla sorella Stafila chiromante e frequentatrice del luogo, col susseguente duetto, ripreso dopo una scena intermedia, contiene pagine piene di sentimento e senza dubbio superiori al duetto d’amore che Marzio ha poi con Melenis. Il 3.2.1/18 brano più suggestivo di questo è la canzone di Scio, che ella canta con grazia strana al suo amato; ma nel complesso è lungo e freddo. Nel finale però alita un soffio di poesia, che chiude bene l’atto. Il secondo atto, più ricco di elementi decorativi e scenici, si presta meglio a eludere la stanchezza degli ascoltatori. L’invocazione che Melenis fa ai piedi dell’imperatore perché questi la lasci libera al suo amore è veramente toccante; e degna d’ogni più superba penna di musicista è la scena del Circo. In essa il musicista innesta, con sapiente effetto di contrasto, un canto pieno di pace solenne d’un gruppo di cristiani destinati alla morte nell’anfiteatro alle grida feroci del popolo imbestialito dagli spettacoli cruenti dei gladiatori. Gli ottoni dell’orchestra sostengono gravemente il canto cristiano, mentre gli archi seguono con vertiginoso movimento gli impeti di furore della folla e le buccine squillano sulla scena. Il brano raggiunge una potenza rara d’espressione e offre la più eletta misura di quel che sappia concepire ed esprimere musicalmente lo Zandonai. Anche l’entrata di Marzio trionfatore e della folla acclamante nell’atrio del Circo è piena di maestà, ma in essa non è la sola virtù della musica che raggiunge l’effetto. Però la scena seguente tra l’imperatore Commodo, l’edile Marcello e il giovine Marzio raffredda l’impressione, e sopratutto alle parole d’amore trionfante che quest’ultimo rivolge alla conquistata sposa mancano accenti di passione. Il lungo canto si svolge quasi inespressivo, per quanto l’arte del compositore anche qui non trascuri d’usar la nota perizia. L’atto si chiude tuttavia con solennità, e una volta di più si deve toccare con mano che la sonorità bene adoperata è un elemento di sicuro successo nel pubblico. Il preludio del terzo atto è di eccellente fattura e svolge con sinfonica abilità il tema del personaggio di Melenis insieme con altri motivi dolorosi e agitati, che compariranno nello stesso ultimo atto. In esso udiamo quelle ingegnose sovrapposizioni di ritmi a due tempi e ritmi a tre tempi di cui ricordiamo che lo Zandonai si compiacque anche nella Conchita. Il superbo brano orchestrale termina con effetti di delicato colore nei quali si risente ancora, nel pizzicato dei bassi, l’inciso del tema di Melenis. L’ultimo atto è, a mio avviso, il più ricco di sentimento di tutta l’opera. La breve poeticissima introduzione e la successiva canzone d’Isi col coretto delle ancelle sono veri gioielli musicali. Altro brano pregevole come espressione e come fattura è il lungo saluto che Marzio fa alla casa di Marcello, meta desiata di tutti i suoi sospiri. Nel seguente duetto tra Melenis e Marzio si richiederebbe una maggiore passionalità d’accento: questa tuttavia è raggiunta nell’ultimo disperato appello di Melenis all’amante che s’allontana. Tutto il lamento che precede il suicidio della bella greca e la scena stessa del suicidio raggiungono un intenso grado d’espressione, che culmina poi nel tragico contrasto fra lo spettacolo della giovine vita spezzata e la lieta solennità del corteo nuziale che esce dalla casa di Marcello e s’avvia al tempietto. L’esecuzione L’esecuzione è stata ottima sotto ogni punto di vista e tale da mettere in rilievo tutti i pregi del lavoro. Il maestro Panizza ha diretto l’opera con grande impegno. La Muzio ha interpretato magnificamente la parte della protagonista. Ottimo il tenore Martinelli (Marzio) sia come attore sia come cantante. Benissimo il tenore Boscacci (Cleandro), la Beindi [sic] (Stapla [sic]), il baritono Marturano (un cristiano) e gli altri. La messa in scena di bellissimo effetto. L’esito L’opera ha riportato un bel successo, più tra i competenti ed i maestri che nella massa del pubblico. Il quale non ha subito compreso le grandi finezze della bellissima partitura. 3.2.1/19 L’ultimo atto si è chiuso con tre chiamate fredde e contrastatissime all’autore. Quattro se ne ebbero al primo e tre al secondo, l’atto reputato il migliore dell’opera e di più facile comprensione. L’opera si replica. 331 “Melenis” di Riccardo Zandonai al Dal Verme di Milano, «Il Giornale d’Italia», 15.11.1912 - p. 3, col. 5-6 Melenis, la nuovissima opera di Riccardo Zandonai, ha richiamato iersera al “Dal Verme” un pubblico magnifico tra cui notavansi le più spiccate personalità dell’arte, del giornalismo, della mondanità, della politica. L’aspettativa vivissima non andò delusa: in questa sua Melenis Riccardo Zandonai ha riaffermato le sue grandi qualità di compositore dal sentimento profondo aristocraticamente contenuto e dalla tecnica armonica, contrappuntistica e strumentale varia, ricca, colorita. L’autore non ancora trentenne del Grillo del focolare e di Conchita – opere che rivelavano una personalità nuova di musicista italiano – richiamava naturalmente tutta l’attenzione del mondo musicale che ripone in lui massima fiducia. Melenis figurerà anche nel cartellone della prossima stagione lirica del Costanzi. Il libretto Melenis, la terza opera di Riccardo Zandonai, s’inspira per quanto riguarda l’argomento ad un poemetto di Louis G. Bouilhet, l’amico cui Flaubert dedicò Madame Bovary. La sceneggiatura e i versi si debbono a Massimo Spiritini e Carlo Zangarini, che han trattato il lavoro con una certa nobiltà. La scena è posta a Roma, nell’epoca della decadenza imperiale che succedette agli splendori di Traiano, d’Antonino Pio e di Marco Aurelio. Impera Commodo. Il primo atto di Melenis avviene in una taberna della Suburra, convegno di etère e di perdigiorni. Lidia, Mirra, Calpurnia cianciano di gioielli e d’amanti, quando sopraggiunge per visitare sua sorella Stafila, una fattucchiera, il giovine retore Marzio. Questi, in un profondo abbattimento causato da un infelice amore, confida a Stafila lo stato dell’animo suo, il suo desiderio di darsi piuttosto ai ludi del circo che non all’esercizio del tribunato. Frattanto entra Melenis, la greca bellissima e strana, dagli occhi languidi e sognanti, dal temperamento appassionato, dal cuore anelante all’amore più tenace e più ardente. Ella vede Marzio e prende vivo interesse alle parole di lui, che spirano forza e malinconia, pensa di parlargli per riconciliarlo alla vita prima che egli vada, come dice, ad affrontare romanamente la morte nell’anfiteatro. E mentre passa lontano un canto di cristiani, Celenis [sic], la bellissima etèra, si avvicina al giovane e lo incita a lasciare la sua tristezza, a guardarla danzare. E canta una canzone del suo paese: «Salii su un pesco con la scala d’oro...» E, finita la canzone, gli offre l’amor suo. È bella, è maliarda, attorce intorno a lui le spire della sua seduzione tanto voluttuosamente che Marzio, pur con gli occhi intenti sempre al suo bel sogno irrealizzabile, è vinto dal fascino dell’oblio. E s’avviano lentamente su la strada, abbracciati. Il secondo atto si svolge nell’atrio del circo. In fondo è un’ampia scala che conduce alle gradinate. Commodo, sul trono, ascolta le parole di Cleandro, che gli decanta la bellezza di Melenis. la giovane greca è nel circo tra la folla degli spettatori e Commodo ordina che sia condotta a lui. 3.2.1/20 Cleandro obbedisce. Melenis arriva riluttante e piangente. Ella invoca dall’imperatore che la lasci libera. Ella non ha che il suo cuore ed invoca pietà e libertà pel suo amore che è la sua vita. E l’imperatore la esaudisce. Il popolo del circo chiede a gran voce la presenza di Commodo. Un campione di Tracia combatte contro un campione di Roma. Un gruppo di [ ] cristiani passa sospinto alle carceri dai legionari. Nel circo la pugna è finita e la folla irrompe sulla scena. Il vincitore – Marzio – è portato in trionfo. Nel corteggio dell’imperatore sono Marcello edile e sua figlia Marcella. Melenis è confusa tra la folla. Commodo domanda a Marzio quale desiderio egli può esaudirgli, ed il giovane retore gli confessa il suo amore folle per Marcella. Melenis fugge gettando un grido di angoscia. Commodo comanda: «A domani le nozze». L’imperatore esce, seguito dal corteggio e dalla folla. Restano Marzio e Marcella, avvinti in un lungo abbraccio, mentre i mimi e le coretidi intrecciano una danza. Dall’interno si ode la voce di Melenis: è la canzone dorica che già vinse la mestizia del retore: «Donne, s’ei passa, dite al mio diletto che un’ape farà il miele col mio sangue»! Al terz’atto l’azione ha luogo nel giardino della villa suburbana dell’edile Marcello. È il mattino nuziale di Marcella e Marzio. Una danza di ancelle è interrotta dal sopraggiungere di Melenis tutta coperta di gemme. Ella, per giustificare la sua presenza, dice che ha smarrito il sentiero e vuole che le ancelle le diano tante rose, tanti fiori che per la sposa più non ne restino. Per ogni fiore ella darà una gemma. Poi, quando Melenis e le ancelle si allontanano correndo, dal palazzo esce Marzio, felice. Ma Melenis è tornata, sola, e lo chiama. Marzio non l’ascolta e rientra nella villa. Dalla villa si diffonde il canto nuziale. Melenis è pazza d’angoscia. Raccoglie un fascio di rose e se le serra al petto retrocedendo verso il tempietto che s’erge nel fondo e lascia cader le rose in modo che formino un solco. Giunta al piccolo tempio, si trae uno spillone dai capelli e se lo infigge nel cuore. E cade morta sulle rose, mentre sulla soglia della villa appare il corteo nuziale. La musica Il primo atto s’inizia con uno spunto vivace. La presentazione delle etère è tutta intessuta su di un ricamo il cui colorito è di una intensità piena di effetto. Scena altamente espressiva è quella tra Marzio e la sorella Staffila [sic]: la canzone di Melenis è soavissimamente languida; la scena tra Melenis e Marzio che domina tutto l’atto avvinse con la sua dolcezza delicatissima. Il contrasto tra la tristezza di Marzio e l’amore che fiorisce in Melenis è espresso fortemente e la chiusa dell’atto è piena di poesia e di suggestione. Alla fine dell’atto si hanno tre chiamate e alla terza si è presentato anche il maestro tra i più calorosi applausi. Il secondo atto è ricco anche di elementi coreografici e di quelli che hanno il pregio di non lasciar languire l’attenzione del pubblico. In esso l’arte del compositore, che si spiega in un quadro vastissimo, ha raggiunto veramente una potenza rara di forza e di espressione quali le precedenti opere dello Zandonai non lasciavano prevedere. All’ombra discreta del cubiculum del primo atto sottentra la maestà grandiosa del circo: la scena è di eccellente effetto. L’imperatore Commodo ascolta da Cleandro, un suo liberto, la descrizione dei vezzi di Melenis. La scena con cui Melenis invoca dall’imperatore la grazia della sua libertà assurge a poco a poco ad una intensità ricca di passione. Il pubblico la interrompe con uno scroscio lungo di applausi. Da questo punto l’opera assume tutto un carattere diverso: siamo in pieno movimento tumultuoso. Al coro lento e grave dei cristiani segue la scena della vittoria di Marzio. Tra i clamori 3.2.1/21 della folla e tra gli squilli delle trombe, in un movimento largo dell’orchestra dominato da un accompagnamento di violini, appare l’imperatore. L’orchestra ha qui accenti di una vigoria altissima. L’effetto è pieno di forza. I cori hanno in questo punto una importanza capitale. L’atto si chiude entusiasticamente con quattro chiamate. Si accendono discussioni vivaci come intorno ad una forte manifestazione d’ingegno artistico. Si è unanimemente concordi nel riconoscere intanto nel maestro un mirabile polifonista. Al terzo atto è premesso un preludio di squisita inspirazione e squisitissima fattura. La breve introduzione dell’atto, la canzone di Isi ed il relativo coro d’ancelle intreccianti le rose, sono veri gioielli musicali. Nel saluto che Marzio volge alla casa di Marcella vibra pure un gran calore di sentimento. Al susseguente duetto tra Melenis e Marzio nuoce forse l’eccessiva lunghezza, ma non vi manca la nota suasiva della pietà e del dolore. L’angoscia disperata di Melenis è espressa dallo Zandonai con accento profondamente commosso e con passione disperata, ed il contrasto tragico tra quella giovane vita spezzata e la lieta cerimonia del corteo nuziale è una mirabile pagina musicale. L’atto si chiude con tre chiamate. Il successo dunque vi è stato ed è lieto e schietto successo: e qui notisi che la musica di Melenis è una musica che, come tutta la musica dello Zandonai, poco o nulla concede ai gusti correnti della folla e si chiude in forme e stile sinfonico elettissimo. Melenis è tale importante lavoro che farà certamente il giro dei più grandi teatri. L’esecuzione fu degna della maggior lode. L’opera fu concertata e diretta con vera coscienza d’artista dal maestro Panizza. La signorina Muzio fu una Melenis eccellente: essa prodigò i pregi della sua voce nel rendere la figura musicale della etèra greca e il tenore Martinelli fu un Marzio sicuro, espressivo ed efficace vocalmente e scenicamente. Lodevole il tenore Boscatti [sic] nella parte di Clandro [sic], egregiamente il Bettoni (Coccodo [sic]), la Beinat (Staffila [sic]); ben disciplinato il coro; decorosa e di effetto la messa in iscena. Pozza, nel Corriere della Sera, dice: «La nuova opera dello Zandonai contiene pagine di sì grande bellezza che i difetti sono e potrebbero essere meritatamente perdonati. Tutto il canto di Melenis ha una intensità di espressione e di passione tanto squisita quanto penetrante. Palpita veramente in essa un cuore innamorato e spasima un amore che non può finire e che non sa vendicarsi che con la morte. La musica qui sgorga dalla più pura e più profonda sorgente del sentimento e chi ha saputo scriverla è senza dubbio un artista che ha in sé tutte le più nobili, più rare e più sicure forze della creazione e della vittoria». Cesari nel Secolo scrive: «In confronto di Conchita, nella musica della nuova opera di Zandonai si riscontra un processo di semplificazione ritmica tutt’altro che svantaggiosa alla sua interna struttura; ma l’indirizzo adottato dal maestro in Melenis non muta». Nappi nella Perseveranza dice: «Riccardo Zandonai è un vero entusiasta dell’arte austera. Egli non si arrende mai alle tentazioni dei successi plateali. Siamo di fronte all’opera di un artista poderoso che sa ciò che vuole e che è in grado di esporre facilmente e nitidamente il suo pensiero che non devia di una linea dalla rotta che si è proposto di seguire fin dalla prima mossa». L’on. Cameroni nell’Italia dice: «Con Melenis lo Zandonai ha accresciuto notevolmente, se non per il grosso pubblico certo di fronte ad ogni persona intelligente e di buon gusto, il suo nome di musicista e di uomo di teatro, dal quale si può bene attendere per l’avvenire un’opera veramente completa, sia essa l’annunciata Francesca da Rimini od altra». Il Suzzi nella Sera si compiace che le accoglienze del pubblico all’opera dello Zandonai siano state informate a contegnosità e serietà, ciò che non ha nuociuto al successo. Non nasconde che il libretto, per quanto sceneggiato con abilità e scritto in forma mirabile, offriva al musicista uno scarso substrato drammatico. Il Suzzi trova che Melenis è un’opera di arte e insieme un’opera da teatro. 3.2.1/22 332 u. m., Il mediocre successo di “Melenis” del Maestro Zandonai, «Orfeo» III/34, 16.11.1912 - p. 4, col. 3 MILANO, 15. - Ieri sera al Dal Verme ha avuto luogo la prima rappresentazione della nuova opera del maestro Zandonai: Melenis, tratta dal poema di Louis Bouilhet, da Massimo Spiritini e Carlo Zangarini. Melenis, malgrado i troppo vivaci applausi della claque, ha ottenuto un mediocre successo. Alla fine applausi e fischi. [«]In quest’opera – scrive Giovanni Pozza – sentiamo non so quale intima freddezza, che le circola dentro anche nei momenti di maggior concitazione e di maggior sonorità. Nello stesso punto in cui più l’ammiriamo essa non riesce a persuaderci pienamente, a vincere ogni nostra resistenza, a darci il brivido dell’entusiasmo. Manca a quest’opera la forza emotiva. Zandonai tende capziosamente a sostituire il valore della forma a quello del pensiero. Nonostante ciò, Melenis contiene belle pagine[»]. L’esecuzione, affidata alla Muzio, al tenore Martinelli e al m. Panizza, fu discreta. 333 [C.G.P.], “Mèlenis” [sic] di R. Zandonai al Dal Verme di Milano, «Musica» VI/36, 17.11.1912 - p. 3, col. 3 Mercoledì sera, com’era annunziato e come era vivamente atteso, andò in iscena il nuovo lavoro del fecondo e vigoroso maestro Riccardo Zandonai, che col Grillo del focolare, poi con Conchita ha conquistato il primissimo posto tra i nostri giovani operisti. Il melodramma in Italia, da varî anni, discendeva sino a porsi alla retroguardia di ogni movimento evolutivo, tanto rapido e benefico nelle altre nazioni; con lo Zandonai nuova vita esso trae e fa prevedere in un’affermazione da tempo e invano desiderata. Mèlenis fin dal primo atto si è rivelato un lavoro destinato ad accrescere la fama di musicista dalle elevatissime intenzioni artistiche e di esperto conoscitore di tutti i segreti della tecnica. Come ben dice il Corriere della Sera, «la nuova opera dello Zandonai contiene pagine di sì grande bellezza che i difetti sono e potrebbero essere meritatamente perdonati. «Tutto il canto di Melenis ha un’intensità di espressione e di passione tanto squisita quanto penetrante. «Palpita veramente in essa un cuore innamorato e spasima un amore che non può finire e che non sa vendicarsi che con la morte. La musica qui sgorga dalla più pura e più profonda sorgente del sentimento e chi ha saputo scriverla è senza dubbio un artista che ha in sé tutte le più nobili, più rare e più sicure forze della creazione e della vittoria». L’esecuzione è stata ottima sotto ogni punto di vista e tale da mettere in rilievo tutti i pregi del lavoro. Il maestro Panizza ha diretto l’opera con amoroso impegno e con profondità. La Muzio ha interpretato magnificamente la parte della protagonista. Ottimo il tenore Martinelli (Marzio) sia come attore, sia come cantante. Benissimo il tenore Boscacci (Cleandro), la Beindi [sic] (Stapla [sic]), il baritono Marturano (un cristiano) e gli altri. La messa in scena di magnifico effetto. L’opera ha riportato un grande successo, più tra i competenti e i maestri che nella massa del pubblico. Il quale non ha subito compreso le grandi finezze della bellissima partitura. L’ultimo atto si è chiuso con tre chiamate all’autore. Quattro se ne ebbero al primo e tre al secondo, l’atto reputato il migliore dell’opera e di più facile comprensione. 3.2.1/23 334 Corriere milanese, «Il Tirso» IX/34, 17.11.1912 - p. 3, col. 4 Ieri sera al nostro Dal Verme fu rappresentata la nuova opera del maestro Zandonai dal titolo Melenis. Il libretto di Massimo Spiritini e Carlo Zangarini tratta di una bella danzatrice greca, Melenis, che si innamora del retore Marzio. Però il giovane Marzio ama riamato la figlia di un edile, Marcella. Melenis si uccide quando Marzio e Marcella vanno a nozze. E l’intreccio, ampiamente riportato dai quotidiani, è semplice e facile. In verità, quantunque la musica dello Zandonai ci si dimostri, specie nel primo atto e nel preludio del terzo, squisitamente e suggestivamente creata, tuttavia l’insieme dell’opera lasciò freddo il pubblico perché non fu capita e non fu sentita. Forse nelle successive repliche Melenis potrà strappare l’entusiasmo, ma da prima è apparsa fredda, senza attrattive, troppo monotona, poco audace. L’autore ebbe tre chiamate per ogni atto e molti applausi specie nel secondo atto per la preghiera di Melenis. La signora Muzio nella difficile parte di Melenis si dimostrò artista impeccabile; così il tenore Boscacci. Bene lo Stemat, la Marchini, il baritono Martoriani. Ammirabile l’orchestra sotto il maestro Peruzza [sic]. 3.2.1/24 Francesca da Rimini 335 “Paolo e Francesca” del M.° Zandonai - Il successo al “Regio” di Torino, «Il Corriere d’Italia», 20.2.1914 - p. 6, col. 4-5-6 TORINO, 20 matt. Dopo un lungo periodo preparatorio il nuovissimo spartito poté stasera giungere lietamente in porto ed assecondare così l’attesa vivissima di quanti nutrono fiducia nel giovane e fecondo maestro trentino salito in poco tempo ad una notevole considerazione fra gli intelligenti. L’uditorio accorso seguì infatti lo svolgersi dell’opera con quella attenzione intensa che al compiacimento congiunge il rispetto raccogliendosi in silenzio non appena il maestro Panizza ebbe dato il segnale d’attacco. Primo atto Si apre su di un movimento spigliato con vaghi accenni di viola interna. È la vecchia canzone del giullare che viene a chiedere ospitalità nel castello dei Polentani. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzose e passa nell’orchestra un fremito vago di giovinezza e di comicità contenuta. Il giullare canterà le storielle e romanze e in compenso non chiede che un pezzo di scarlatto per rappezzare la gonnella. Anche la dama che va sposa a un Malatesta sarà prodiga al cantore di doni. La fresca voce della fanciulle commista allo scoppiettìo dell’istrumentale conferiscono al quadro una grande gaiezza. Il giullare canterà di Artù e del filtro magico che la madre Lotta somministra a Tristano e ad Isotta e la viola preludia mentre le donne dal balcone sono in attesa. Ma Onstanlio [sic], fratello di Francesca, vociando villanamente, sopraggiunge interrompendolo. Egli teme nel giullare un cortigiano di Malatesta, venuto a conoscenza di ogni artifizio ordito da Ser Toldo il notaio, per dare in sposa Francesca a Ginciotto [sic] che è sciancato e repugnante. Prima che ella lo veda lo afferra, lo percuote e lo scaccia. Un canto giunge dalla stanza: è un ritornello antico, una cantilena suggestiva: liuti, viole, pifferi lo accompagna[no] e si diffonde una dolce malinconica nostalgia come un’eco insinuante ed insistente. La pagina ha sapore evocativo: qualche accenno all’antico modo con tocchi discreti ne accresce il potere. Francesca al braccio di Samaritana appare come assorta, come l’acqua corrente che va e va e l’occhio non se ne avvede. Anche la sorella nell’ora dell’abbandono è sgomenta. All’alba dal lettuccio attiguo ella non sorgerà ad annunciarle la stella diana e il tramonto delle gallinelle. Il gaio sciame delle ancelle ritorna. Si chiama Francesca; accorra essa a vedere lo sposo Paolo [che,] venuto a rogare l’atto per mandato del fratello, si arresta tra gli arbusti del giardino. Gli sguardi si incontrano turbati per la prima volta. Presaga, Francesca dice a Samaritana: «fa’ cessare questo tumulto, corretegli incontro». Il momento è musicalmente denso di poesia ed il musicista, dedito spesso come già altrove all’episodio, con una pennellata sufficiente riesce a raccogliere il quadro in una atmosfera morbida di delicatezza soavissima. Un lieve tremolio di archi avvolge la melodia che i suonatori della loggia cantano dolcemente. La viola pomposa che lo Zandonai ha introdotto quivi trae dalle corde suoni penetranti cui risponde l’oboe quasi gemebondo. Il ritornello delle voci femminili vagamente si intreccia evocativo nella sua semplicità. Atto secondo Alla serenità succede ora il fervore guerresco: e nella battaglia un’altra battaglia dilaga. Grida minacciose e nascoste; nel maniero dei Malatesta si combatte: macchine infernali e fuochi di pece greca attendono l’avvicinarsi del nemico; trombe, campane, strepiti d’arme risuonano nell’aria sanguigna; richiami angosciosi di feriti, urla [e] invocazioni si spandono nella mischia orrenda. Atto di movimento, di vita intesa naturalmente nel significato esteriore, ed anche atto di colore intenso, cupo. Voci ed orchestra hanno infatti ruvidi contrasti improvvisi, aspre dissonanze: dal punto di vista descrittivo il sinfoneta ne ha realmente intensificato la dinamica. Forse nel groviglio di frasi, 3.2.1/25 nella insistenza stessa della situazione eccede di macchinosità. La musica descrittiva, finché non rivela stati di animo ma si accontenta di rendere esteriormente vicende pure fosche, può nascondere un’insidia qualora non la sorregga il criterio della discrezione o quando il musicista non sappia raccogliere intorno a pochi temi decisivi le sue impressioni. La stessa varietà conduce in caso diverso alla uniformità. Due episodi concedono però in questo atto un po’ di tregua: quello patetico di Paolo e Francesca ove il tema che chiameremo dello sguardo ritorna in tutta la sua soavità, e l’arrivo di Malatestino ferito. Anche il declamato è a singulti: un ritmo puntato caratteristico si ripete come un pedale mentre altri tocchi nella sonorità acuta guizzano e si succedono ad intervalli di silenzio come urla di belva ferita. È questo un accenno abbastanza significativo della bieca figura del feroce e sanguinario giovanetto, accenno vago ma che illumina a sufficienza il tipo. Atto terzo Nella camera di Francesca All’alzarsi del velario ella è intenta a leggere. Una nota di pedale fissa ne dà come l’immagine plastica. Dopo la sera perigliosa non ha più veduto Paolo che il Comune di Firenze volle capitano del popolo. È questa la parte veramente lirica dell’opera. Al fascino del canto si aggiunge quello della danza: sonorità di flauti, liuti, oboi e clarini echeggiano su dalla loggia. La musica è leggera, senza costituire una imitazione pedestre di modelli arcaici e dà nell’insieme un profumo sottile come soffuso di polvere. Le ancelle, giunte le mani, ballano e cantano: «Deh, creatura allegra, conduci questa danza in veste bianca e negra come è tua costumanza». La voce si distende sugli arpeggi ed i violini in concordi acuti avvolgimenti del canto in una chiarezza soffiano quasi impalpabili. Anche la disposizione delle parti si compiace di intervalli consonanti, appena intercalati da qualche successiva armonia un po’ inconsueta. L’armonia dello Zandonai del resto, benché modernissima, è non aliena da passaggi cromatici e enarmonici, evita spesso quella sovrapposizione d’accordi così cara agli stranieri, quella sonorità composita in cui nella tonica o nella dominante si accavallano none, undicesime e tredicesime, talora a danno della limpidezza. La sostanza melodica di questo stornello non è certo originale come non sempre originale è – a rigor di termini – lo Zandonai; quando si propone di definire con una linea più sensibile un periodo, una frase, gli occorre tal volta di risentire inflessioni proprie ai maestri dell’ultim’ora non esclusi Puccini e Mascagni. Ma se nel lungo respiro della sua lunga melodia si abbandona, si riprende, come appunto nella pagina cui accenniamo, non appena la situazione richieda grazia e snellezza. L’ultimo atto La tragedia volge trucemente all’epilogo: la cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da Malatestino. Egli ama Francesca e ucciderà Gianciotto pur che ella lo voglia, come uccise il primogenito che geme e i lamenti del quale la fanno rabbrividire. Anche qui la sinfonia si distende negli strumenti, pervasa da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino: e qui nel lungo silenzio passa come un senso di sgomento. L’impressione Mancanza si sincerità che tradisce spesso l’intera tragedia ne fa opera di poesia più che di teatro e di verità: opera di poesia e quindi armonia imbevuta di musica e di sogni, tenuamente diffusa, quasi intenta esclusivamente a soggiogare e disporre per solo compiacimento proprio le idee e i pensieri, in ciò sta la scena maggiore dell’arte di Gabriele D’Annunzio e ciò limita la giustificazione di un connubio con la musica. Riccardo Zandonai, come d’Annunzio poeta e colorista, ne restò soggiogato e, anima squisita e sensibile, ne intuì l’armonia e ne fu scosso e compreso, e volle scendere a scrutarne le fibre e col potere evocatore del suono esternarne la psiche commossa, e cantare con la leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova, non consapevole in tutto forse dei pericoli e delle insidie che gli sorgevano dinanzi. 3.2.1/26 L’arte di questo giovane autore che in pochi anni, con «Il Grillo del focolare», con «Conchita» e «Melenis» si è meritatamente acquistato una fama considerevole, malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica donde aveva preso le mosse, con allargare le volute del canto verso spaziosi orizzonti, è essenzialmente anche [in] «Francesca» impressionista. Impressionista italiano – diremo così – dove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy e Ducas [sic] passano a volte in seconda linea, e che non di meno nello Zandonai, elevati a fattori, giovano con la loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ente fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si manifesta in ogni arte – pittura in specie – [e] nella musica muove alla ricerca costante del colore nuovo e dei nuovi sogni assai semplici e più spesso compositi, lo Zandonai seguì il sistema in parte per temperamento proprio e in parte per influsso altrui, e risultò analitico più che sintetico; più propenso a particolari anziché alla vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai principi tematici è talvolta un fantasioso succedersi di elementi difformi che conservano colle origini un nesso appena superficiale dove i richiami già poco plastici ed afferrabili raramente escono riconoscibili nel mare fluttuante del caleidoscopio di più svariati colori in cui sono disciolti. Ed è appunto nella parte della tragedia ove il colore tenuamente diffuso prepondera che il musicista si accompagna e si accorda con l’armonia latente più che non nel crescendo passionale dell’impeto lirico o ancora nella truce scena dell’ultimo atto. L’artificio del drammaturgo invano cerca sostegno nel declamato spinto a volte senza ragione nelle estreme regioni, e qualche volta ancora troppo diffuso e interrotto da inutili didascalie strumentali. La psicologia di Francesca, come quella di ogni altro personaggio, rimane un poco nell’ombra: ecco perché non ci sentiamo spesso partecipi o vicini e meno ancora immedesimati nella loro vita; ecco perché la vediamo più attraverso ad un velo che vibrante in noi stessi. La cronaca della serata La cronaca della serata è stata assai lieta. Si ebbero al primo atto cinque chiamate di cui una agli interpreti e quattro all’autore. All’ultima comparve anche insistentemente chiamato il maestro direttore Panizza che col Ricordi fu della messa in scena e della concertazione amoroso cooperatore dell’autore. Anche gli artisti dal canto loro cooperarono al successo e le difficoltà da sormontare non erano né poche né lievi. La Cannetti, il Crimi, il Cigada e il Paltrinieri furono attori e cantanti degni del migliore encomio. La Cannetti, benché la parte non le si convenga del tutto per il fatto che il suo sistema di canto e la dolcezza della sua voce potrebbero meglio figurare là dove si richiede una linea più larga, visse il personaggio di Francesca e lo rese da grande artista. Il tenore Crimi le figurò degnamente accanto vincendo una tessitura acuta e sostenendo i trapassi più aspri con vigore e voce vibrata. Il Cigada fu uno sdegnoso Gianciotto minaccioso e violento ed il Paltrinieri colorì la figura felina di Malatestino. Pure molto bene fecero le ancelle di Francesca. L’orchestra suonò con anima, e chi conosce il tessuto istrumentale di Francesca da Rimini, meraviglioso tale da fare invidia a quello dei più reputati autori nostrani e stranieri, sa che essa non fece poco e che non facile fu il compito del direttore. Il secondo atto, un po’ macchinoso, interessò meno ma riscosse pure due chiamate agli interpreti ed all’autore. Le sorti dell’opera si risollevarono al terzo atto interrotto dalla “canzone” e dalla frase del tenore “il vostro viso”, detta dal Crimi con molta espressione. Al quarto atto si ebbero pure varie chiamate che suggellarono così il lieto successo dell’opera. La sala del “Regio” era popolatissima. Erano presenti per l’avvenimento molti critici dei quotidiani della penisola, scrittori, musicisti ed ammiratori della musica, venuti specialmente da Milano. Notati furono il comm. Tito Ricordi, editore dell’opera, e Riccardo Sonzogno. 3.2.1/27 336 La “Francesca da Rimini” del m. Zandonai al Regio di Torino, «Il Messaggero», 20.2.1914 - p. 5, col. 2 TORINO, 19. Questa sera al teatro Regio ha avuto luogo la prima rappresentazione della Francesca da Rimini, l’opera del maestro Zandonai tratta dalla tragedia di Gabriele D’Annunzio. La Francesca è riuscita una nuova affermazione dell’ingegno e dell’arte dello Zandonai che nel volgere di pochi anni dal Grillo del focolare a Conchita a Melenis a questo suo nuovo lavoro è venuto raggiungendo una lirica d’arte vigorosa e personale. Il primo atto è stato tracciato dal maestro a tinte piuttosto fredde, come atto di presentazione. Ma il colorista appare subito dopo la prima battuta: e l’autore fa accompagnare un coro interno di donne da una curiosa orchestrina. Il recitativo, senza consolidarsi in vera linea melodica, scende si può dire dal labbro al cuore. Meno felice sembra la seconda metà dell’atto. La frase di Samaritana «O Francesca, anima mia» risente di un altro declamato di origine alquanto mascagnana. Ma il finale ricorda l’arte singolare del compositore di Conchita. Il secondo atto è il più massiccio e greve dell’opera. Lo strumentale sembra carico; forse non tutti gli effetti propostisi dal maestro risultano corrispondenti alla bella disposizione fissata nella partitura. Più felice in questo atto appare invece la musicale caratterizzazione di certi personaggi. Gianciotto, Malatestino, il Torrigiano ricevono, fin dal loro primo apparire sulla scena, una fisionomia musicalmente distinta; nel senso della rudezza e della perversità la musica dello Zandonai è assai più plasmabile che nel senso dell’amore e del dolore. Ed eccoci alla prima parte del terzo atto: teatralmente il migliore dell’opera. Biancofiore e Garsenda, Altichiara e Donella muovono il piede alla danza, sciolgono inghirlandate la canzone di primavera; i musici le accompagnano col liuto, col piffero, col flauto. Il quadro è tutto un luccichìo di fili d’oro; vi si sente come un leggero aleggiare di rondini. La canzone si muove da uno spunto già volgarizzato dal Puccini1, che però lo strumentatore di Conchita e della Danza di Menelis [sic] fa presto dimenticare. L’ultimo atto è fortemente drammatico nelle sue prime scene fra Francesca, Malatestino e Gianciotto. Il maestro, alle prese con la perversità e la rudezza dei caratteri scenici, torna ad esser padrone della sua arte; il declamato e l’orchestra gli obbediscono fondendosi mirabilmente; più che la violenza rugge in queste scene il demone della ferocia. Al finale però la musica è inferiore alle parole e alla passione. L’esecuzione del Regio è stata in tutto degna del teatro e dell’opera. Riccardo Zandonai, Tito Ricordi ed il maestro Panizza sono riusciti, dopo difficoltà di ogni genere, ad ottenere il desiderabile. Sia musicalmente che scenicamente lo spettacolo è apparso di prim’ordine. Tra gli artisti citeremo la Canneti [sic] (Francesca), la Merly (Samaritana), il tenore Krismer [sic] (Paolo), il baritono Cigada (Gianciotto), il Baltrinieri [sic] (Malatestino). Bene tutti gli altri. Bellissimi i figurini della casa Caramba e accurate anche le scene. Per la cronaca: teatro meraviglioso; tutto il primo atto ascoltato con religiosa attenzione e salutato alla fine con cinque chiamate agli artisti e all’autore. Nel secondo atto riscuote applausi vivissimi e calda ammirazione la splendida scena che rappresenta l’assalto alle mura di Malatesta; il calare del velario è accompagnato da tre calorose chiamate agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza. Al terzo atto si ha un applauso a scena aperta e alla fine tutto il teatro acclama entusiasticamente. Si hanno cinque chiamate. 1 In La fanciulla del West (1910). 3.2.1/28 Il quarto atto, diviso in due parti, è ascoltato favorevolmente: tre chiamate si hanno nel breve intermezzo e altri applausi alla fine. Il pubblico esce lentamente dopo aver decretato una vittoria. Assistevano alla rappresentazione la principessa Letizia, la duchessa di Genova, i maestri Giordano, Alfano, Seppilli, Mingardi e altre personalità. 337 “Francesca da Rimini” del maestro Zandonai al teatro “Regio” di Torino, «La Tribuna», 21.2.1914 - p. 3, col. 3-4-5 La rappresentazione Torino, 20. Diciamo subito che se il lavoro non ha avuto un successo straordinario, strepitoso, tale da lanciare di colpo il giovane musicista nei campi dorati della gloria e renderlo l’uomo del giorno, è stato però calorosissimo, schietto, oltremodo lusinghiero. Il pubblico torinese, che a Zandonai esordiente aveva dato la grande gioia del primo successo, ha compensato il suo nuovo lavoro, lo studio e la passione sua, con un nuovo trionfo incontrastato. Il pubblico gustò la musica e gustò la tragedia; non trovò soverchio distacco dall’una all’altra; è nel complesso una opera organica che non stancò, come qualcuno prevedeva. Sulla drammaticità e sul contenuto del libretto sono vari i giudizi. Non è necessario spender molte parole intorno al libretto di questa Francesca da Rimini. Si sa che esso è formato dal testo dannunziano, opportunamente sfrondato di alcuni episodi scenici e di molti brani narrativi non necessari all’intelligenza dell’azione drammatica. Lo stesso Tito Ricordi si è accinto all’impresa di alleggerire e ridurre la tragedia del D’Annunzio a libretto d’opera e, si deve riconoscerlo, egli è riuscito mirabilmente nel suo intento. I tagli operati nella compagine folta del testo originario non si avvertono, leggendo il libretto. Eppure questi tagli sono semplicemente colossali. Basti dire che al primo atto è stato soppresso, oltre ad una buona metà del dialogo fra Ostasio e Ser Toldo, tutta l’intera scena fra Ostasio e Bannino col ferimento di quest’ultimo. Di bene in meglio: la scena iniziale del secondo atto con il colloquio tra “il Torrigiano” e “il Balestriere”, lunga centododici versi nella tragedia, è stata ridotta a tre soli versi nel libretto. E le successive scene tra Francesca, Paolo e Gianciotto hanno subìto anch’esse decurtazioni importantissime. Al terzo atto sono state tolte interamente le lunghe scene con il Mercante, l’Astrologo e il Medico; anche la scena capitale tra Francesca e Paolo è stata ridotta a poco più di un terzo, guadagnando molto la forza drammatica. Il quarto e il quinto atto della tragedia, ridotti ai minimi termini, formano nel libretto un atto solo diviso in due parti. Del resto, come già abbiamo detto, queste amputazioni non hanno sfigurato affatto l’opera bellissima del d’Annunzio. La vicenda drammatica, in fondo, è rimasta immutata: il primo atto consta nell’arrivo di Paolo Malatesta nel palagio dei Polentani [di] Ravenna e termina con l’offerta della rosa che Francesca fa al sopravveniente; il secondo si svolge fra il tumulto della battaglia sull’alto della torre malatestiana a Rimini ed è inframmezzato dalla scena nella quale Paolo e Francesca rivelano l’affetto che li sospinge l’uno verso l’altra; il terzo, eminentemente poetico e lirico, ha luogo nella camera di Francesca e si chiude con l’episodio della lettura del libro e del bacio; il quarto e il quinto (collegati insieme) ci fanno assistere alla delazione di Malatestino, all’agguato di Gianciotto e all’uccisione degli adulteri. Nell’insieme, il libretto può dirsi eccellente per taglio e sceneggiatura, oltre che smagliante per la forma letteraria. Tutti conoscono, del resto, i meravigliosi pregi formali dell’opera dannunziana, e sarebbe certo ingenuità il parlarne ora. Il primo atto si apre con un breve preludio spigliato su una scena di donne alle prese con un giullare che canta comiche storielle d’amore. La gaia scena è interrotta dal sopraggiungere irruento 3.2.1/29 di Ostasio; ma poi le donne ritornano e chiamano Francesca perché accorra a vedere lo sposo. Le donne lo credono realmente il fidanzato e lo trovano degno di lei; ma Paolo è venuto invece a rogare l’atto per mandato del fratello e si arresta tra gli alberi del giardino. Gli sguardi dei due giovani si incontrano, per la prima volta, turbati. Francesca si avvicina a Paolo: coglie una rosa e gliela offre. Il momento è musicalmente denso di melodia poetica, delicatissima. Il quadro è contenuto in un’atmosfera dove un lieve tremolio di archi su una larga armonia di sonorità medie avvolge le melodie che i suonatori della loggia scandono dolcemente. Il “canto delle donne” riesce deliziosamente arcaico ed è gustato dall’uditorio. Il coro si spegne: A convito selvaggio in contrada lontana uno cor ti [sic]domanda...» Il pubblico scoppia in applausi calorosi. Sono 5 le chiamate che salutano l’autore e gli interpreti. Il secondo atto risulta, nel suo insieme, di minore contenuto musicale in confronto del precedente e di quelli che seguono. Inferiorità evidente, sentita. Esso si sostiene tuttavia per la sua bellezza esteriore e per il suo movimento scenico. Sono infatti resi assai bene il fervore della battaglia, i richiami dei feriti, gli episodi di morte. Nonostante che lo svolgimento dell’atto sia esteticamente impeccabile, l’atto stesso non riceve che 3 chiamate. Questo atto, così diverso dalla gentile tenuità del primo e rotto da un episodio che può chiamarsi di riposo, cioè quello patetico di Paolo e Francesca, a qualcuno tuttavia è apparso stanco. Quando infatti l’atto si chiude non si sa bene se gli applausi siano diretti agli esecutori o alla musica. Ma il successo rimbalza di nuovo al terzo atto che sembra la parte migliore di tutto il lavoro. Già a scena aperta si hanno parecchi applausi; piace infatti molto la leggiadra canzone a ballo delle 4 donne di Francesca: un quadretto di danze che ricorda gli affreschi tanto cari al Poeta del Palazzo Schifanoia nella silenziosa Ferrara; ed è insieme al mesto canto di Paolo: «Perché volete voi?...» una delle fini gemme dello spartito. La musica di questo atto è calda, ispirata. Su nella loggia echeggia una piacevole sonorità di flauti, di clarini, di oboi, molto gustata. La seconda parte è tutta sentimentale. Vi si svolge un lungo colloquio in cui Paolo tenta invano di vincere Francesca parlandole delle proprie sofferenze d’amore. Ma la lettura delle parole tentatrici e vittoriose: «tra le braccia lei [sic] serra - lungamente - la bacia in bocca» – come dice la didascalia del Poeta. L’atto si chiude con un grande sfoggio di melodia che ricorda il finale del primo atto e strappa calorosi applausi. La tragedia volge al suo epilogo: la cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da quella di Malatestino. Anche egli ama Francesca e ucciderà il fratello Gianciotto purché ella lo voglia, come uccise freddamente un prigioniero il cui lamento di notte la faceva rabbrividire. La sinfonia qui si distende negli strumenti pervasi da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino durante la sua prima scena. Intanto Giangiotto [sic] sopraggiunge e alcune incaute parole di Francesca fanno sorgere in lui il sospetto che Malatestino non tratti la donna sua col riguardo dovutole. Francesca esce; i due fratelli si trovano faccia a faccia e Malatestino compie brutalmente la sua opera di delazione. la scena è profondamente drammatica: la musica si mantiene all’altezza sua e riproduce quel momento di sgomento e di terrore. Tre applausi coronano questa prima parte. 3.2.1/30 Il velario si abbassa per breve. La seconda parte si svolge nella camera di Francesca. È notte, le donne prendono congedo da lei. La scena comprende molti particolari delicati, specialmente il saluto di Francesca a Biancofiore con la rievocazione della figura di Samaritana: «Era dolce la mia sorella, è vero, Biancofiore?» La musica conduce l’animo da una tristezza infinita, presaga di sventura, ad uno scoppio di passione intensa. Appare Paolo: nel suo canto risuona il gran tema del primo incontro che il pubblico ha già gustato e di cui ora si ricompiace. Le voci si fondono. Arriva Gianciotto. Trafigge i due amanti e spezza lo stocco sanguinante. Sei chiamate chiudono l’opera. Il maestro Panizza ha concertato lo spartito con diligenza, assecondato con molta lode dagli interpreti: la Canetti [sic], il Krismer [sic], il Cigada e il Paltrinieri. La Canetti fu una protagonista intelligentissima che si fece apprezzare come eletta artista in una parte ardua e faticosissima. Il Krismer dette giusto risalto drammatico e vocale alla sua parte. Molto bene il Cigada e specialmente il Paltrinieri nelle parti di Gianciotto e di Malatestino. La messa in scena e i costumi di Caramba, magnifici, sontuosi. L’opera ha commosso realmente? La musica di Zandonai nella sua essenza ha convinto? Nella Francesca, come già in Melenis, la parte drammatica è in prevalenza su quella lirica. Il musicista riesce a scrivere pagine di efficacia non dubbia, quando l’azione assume un carattere fosco e angoscioso; viceversa, là dove il canto di amore dovrebbe esplicarsi libero, flessuoso e spontaneo, sembra che la sua ispirazione si trovi un po’ inceppata. Questo si nota sia nell’episodio del secondo atto fra Paolo e Francesca, sia specialmente nell’ultimo duetto d’amore, assai meno significativo della precedente scena tra Gianciotto e Malatestino, così torva e vibrante. Lo Zandonai è sopra tutto uno straordinario colorista: egli maneggia l’orchestra con un’abilità superlativa e sa, con pochissimi elementi tematici, imbastire un quadro lussureggiante. Per questo la musica interessa più di quel che non commuova: essa sembra rivolgersi più allo spirito che al cuore dell’ascoltatore. Nella Francesca da Rimini, di vere melodie passionali che abbiano un periodo di una certa ampiezza e un disegno caratteristico, ve ne è una soltanto, che appare nel finale del primo atto – cantata da una viola pomposa – e poi ritorna nel secondo atto e chiude il terzo, commentando l’episodio del bacio. Forse la storia lancinante dei “due cognati” avrebbe richiesto un maggior corredo di melodie amorose. Tuttavia nell’opera v’ha una pagina animata da un lirismo sottile e seducente al massimo grado: la canzone della primavera, intessuta su di un motivo che per lo spunto iniziale fa pensare a un famoso brano della Fanciulla del West, ma che poi si svolge in modo originale, tra una successione di effetti fonici e vocali veramente squisiti. Ma, a parte ogni giudizio sul valore intrinseco dell’opera d’arte, una cosa è certa: che il pubblico nella sua massa, senza anatomizzare, ha provato istanti di godimento. La critica Il critico del «Momento» scrive: «Peccato che la tragedia per la stessa sua natura non commuova realmente riuscendo a malapena a mascherare l’artificiosità vuota della situazione, portata all’iperbole dalla ferocia più sanguinaria, e che ciò si rifletta anche sulla musica». Ma occorre tenere calcolo del colore del giornale e della opportunità di non esaltare l’opera dannunziana. Circa la musica lo stesso critico scrive: «L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha dato alla scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis», malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica donde invece aveva preso le mosse, con allargare le vedute del canto verso più spaziosi orizzonti è essenzialmente, anche in «Francesca da Rimini», quella dell’impressionista; e dell’impressionista italiano2. «Francesca da Rimini» rimane un documento 2 In realtà la citazione, ancorché parafrasata, sembra appartenere al «Corriere d'Italia» del 20.2.1914 - cfr. sopra, n. 335. 3.2.1/31 prezioso, considerato da una visuale d’arte superiore; prezioso non solo per qualità di tecnica, ma anche per elevatezza di contenuto, per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso che a volte costituiscono il tramite sicuro del successo. L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto, alla figura d’arte cui si trovava di fronte». Il critico della «Gazzetta del popolo» dice che «si rimane abbagliati, che si ammira anche molto la musica; ma che la ammirazione è più cerebrale che cordiale. Senza dubbio si ammira, ma si ripensa e forse anche si rimpiange quell’ampio respiro melodico che per tanto tempo fu la delizia del pubblico e del nostro teatro d’opera. Si avverte pure un onesto e lodevole desiderio, una intenzione molto chiara di italianizzare i procedimenti adottati nella costruzione della musica, ma in fondo al cuore resta sempre come una sete, un desiderio di melodie più larghe, più profonde e sviluppate. A nessuno può sfuggire la abilità di questo tentativo; ma all’abilità si vedrebbe volentieri accoppiato l’impeto e il valore di una ispirazione spontanea e più travolgente. Si rimane un poco freddi: insomma senza esaltazione, come avviene quando si contempla un gioiello sfaccettato e cesellato da un orafo perfetto». Quindi il critico soggiunge: «Ottimo successo; e quello che è più, successo serio di Riccardo Zandonai, che con questa nuova fatica d’arte prende un bel posto tra i nostri compositori». La «Stampa» dopo aver accennato alla tempra dello Zandonai, tempra di musicista complesso e delicato, ai suoi lavori ricchi di orchestrazione, originali nella armonizzazione irrequieta ed esuberanti di ritmi, con una preponderanza assoluta del linguaggio orchestrale sui mezzi di espressione concessi dalla voce, si chiede se lo Zandonai abbia seguito Debussy, o Strauss, o Wagner, e conclude: «Parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria, ciò che vale molto meglio; e la ha in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte; egli ha evitato molti accenni alla volgarità; dove il libretto glielo consentì egli trovò accenti veramente drammatici ed espressivi. Fu colorito, a volte vigoroso, e a volte semplicemente audace. Seppe essere denso e chiaro ad un tempo. L’opera sua non avrà una grande unità organica, apparirà frammentaria e talora fredda o almeno priva di quei momenti vibranti che trascinano il pubblico all’entusiasmo, ma, così come è, la «Francesca» correrà egualmente con fortuna le scene per il maggior nome della giovane scuola italiana. E questo mi pare che basti». In complesso l’opera dello Zandonai ha avuto un nobile successo del quale il giovane compositore si può molto rallegrare. 338 La “Francesca da Rimini” di Zandonai al Regio di Torino - La lieta accoglienza del pubblico, «La Vita», 21.2.1914 - p. 3, col. 3-4 Torino, 20. Magnifica ieri sera la sala del Regio per la prima della Francesca da Rimini, l’opera di R. Zandonai su parole di Gabriele D’Annunzio. Il libretto come è noto è stato tratto dal Ricordi dalla tragedia dannunziana. Il Libretto La tragedia del D’Annunzio è stata ridotta da cinque atti a quattro ma i quadri sono stati conservati quali erano: la corte nella casa dei Polentani al primo atto, la piazza d’una torre dei Malatesta al momento della battaglia nel secondo, la camera di Francesca al terzo. Il quart’atto invece riunisce il quarto ed il quinto della tragedia, ma ne conserva i due quadri, che son divisi in due parti: la sala ottagona nella casa dei Malatesta e di nuovo la camera di Francesca. Tutta la tragedia magnifica così è percorsa ugualmente da ondate di calda poesia. La necessità di sfrondare ha portato anche alla soppressione di qualche personaggio: così è stato tolto Bannino, il fratello di Francesca e di Ostasio, che non aveva più nulla da fare dopo la 3.2.1/32 soppressione della violenta scena con Ostasio, e le cinque donne di Francesca son diventate quattro – è scomparsa Alda, e Adonella è nominata Donella – e non più appare il mercatante al terzo atto e sono anche levati nella loro espressione singola i partigiani di Guido Minore da Polenta e di Malatestino da Verucchio. Ma restano, oltre alle figure essenziali, la piccola Samaritana, la dolce sorella di Francesca, e Smaraggi [sic], la schiava, e il notaro ser Toldo Berardengo, e il giullare, e alcuni uomini d’arme. Il critico musicale della Stampa trova stamane però che la tragedia così ridotta e sfrondata abbia perduto assai della sua fierezza. Egli così scrive: «Nella riduzione, per quanto abile essa sia, per quanto asservita alle esigenze della scena lirica da un uomo di buon gusto e pratico di teatro come Tito Ricordi, la tragedia del D’Annunzio, costretta nei limiti consueti di un libretto d’opera, perde – a traverso i tagli inevitabili – molto della sua selvaggia ed impetuosa fierezza; molto del suo carattere rievocativo di tempi aspri per aspre e per continue contese. Confermo però che non so chi avrebbe potuto con altrettanta abilità e con altrettanto amore sfrondare la tragedia del D’Annunzio di quanto poteva costituire un ingombro al rapido sviluppo dell’azione sulla scena o che avrebbe creato difficoltà gravissime per il musicista, soltanto con danno dell’opera sua». Gli episodi Al prim’atto l’entrata di Francesca è annunziata da un coro leggiadrissimo delle sue giovani donne. Ella appare sulla loggia insieme a Samaritana «piccola colomba», la sorellina dolce che implora Francesca di non andare sposa. Ricordate? O sorella, sorella, odimi: resta ancòra con me! Resta con me, dove nascemmo! Non te n’andare! Non m’abbandonare! Ch’io faccia ancòra il mio piccolo letto accanto al tuo! L’entrata di Paolo – Paolo è il terrore [!], naturalmente – al finale del primo atto è appoggiata al suono di tre strumenti antichi: una viola pomposa a cinque corde con sotto altre corde metalliche di risonanza, un piffero e un liuto. Paolo non dice parola. Francesca «rimane immobile ed egli si ferma fra gli arbusti, e stanno l’una di contro all’altro, divisi dal cancello, guardandosi senza parola e senza gesto». Poi ella si separa dalla sorella, coglie una grande rosa vermiglia e di sopra alla chiusura la offre a Paolo. E il coro delle donne canta: Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana va caendo vivanda. A convito selvaggio in contrada lontana uno cor si domanda... Al terz’atto, che si svolge nella camera di Francesca, col ritorno di Paolo da Firenze, il maestro si era fermato dinanzi a una difficoltà: il racconto che il Malatesta fa delle sue giornate fiorentine e dell’incontro di Dante: E un giovinetto degli Alighieri nominato Dante... 3.2.1/33 appariva difficile e lo sbigottiva invece di inspirarlo. Se ne parlò a D’Annunzio, e D’Annunzio sostituì il racconto con questi versi nuovi. Solamente i primi quattro che legano sono dell’edizione primitiva: Perché volete voi ch’io rinnovi nel cuore la miseria di mia vita? Mi fu a noia e spiacque tutto ch’altrui piaceva. Nemica ebbi la luce, amica ebbi la notte, ove su dal silenzio di me stesso nata e dal fondo dell’eterna doglia, simile alla sorgente che disseta e simile alla fiamma che riarde, freschezza e incendio, lenimento e piaga, or torbida ruggente come fiaccola, or mite come lampada, una visitatrice si chinava su me, quasi a nudrirmi dell’assidua mia veglia; quando si partiva al tremor delle stelle, non più foco né fonte era, ma il vostro viso... FRANCESCA Ah, Paolo, Paolo! PAOLO ...il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore FRANCESCA Paolo se perdonato vi fu, perché vi rilampeggia ancòra sotto i cigli la colpa? Ahi, che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra! La lettura del libro di Lancillotto del Lago, alternata da Paolo e da Francesca, è declamato sovra un sommesso accompagnamento dell’orchestra che ha appena l’aria di sfiorare le parole. E prima, nello stesso atto, la canzone a ballo soavissima: Nova in calen di marzo o rondine, che vieni dai reami sereni d’oltremare... è intonata prima a duetto da Biancofiore e da Garsenda, poi danzata dalle quattro donne, poi ripresa da Altichiara e da Donella, e in fine cantata dalle quattro voci insieme. Il precipitar della tragedia – lo irrompere di Gianciotto nella camera di Francesca e l’uccisione dei due amanti – è qui 3.2.1/34 rapidissimo 3 . Sono state tolte le parole di Paolo alla donna impietrita dal terrore mentr’ella obbedisce al marito furente e va ad aprire vacillando, e tolte sono le parole che lo Sciancato avventava contro il fratello impigliato nella fuga a un ferro della botola. Gianciotto urla di fuori, squassando l’uscio: Apri, Francesca, pel tuo capo! Apri! E quando, l’uscio aperto, lo Sciancato si precipita innanzi furibondo cercando con gli occhi il fratello, e lo scorge ritenuto per la sopravveste alla cateratta, e gli si fa sopra e lo afferra per i capelli forzandolo a risalire, la donna si getta tra mezzo ai due: Lascialo! Me, me prendi! Eccomi! E come il ferro le trapassa il petto la morente sospira: Ah, Paolo! E sono le ultime parole della tragedia. La musica - Il successo Ecco intanto le impressioni dopo la prima dell’opera. La musica è stata giudicata fine, elegante, melodica. Si tratta di un’opera veramente italiana in tutte le sue parti. Il successo si è delineato fin dal primo atto sicuro. L’autore è stato chiamato cinque volte al proscenio fra grandi ovazioni. Nel secondo atto hanno riscossa subito la più viva ammirazione le splendide scene che rappresentano l’assalto alle mura dei Malatesta. Al cadere del velario tre chiamate calorose agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza che ha diretto l’orchestra magistralmente. Alla fine dell’atto terzo il teatro ha acclamato con entusiasmo e si sono avute cinque chiamate, e Zandonai ed il maestro Panizza si sono presentati tre volte alla ribalta. Il quarto atto, diviso in due parti, è stato ascoltato dal pubblico favorevolmente. Tre chiamate al breve intermezzo ed altre tre alla fine della rappresentazione. Il pubblico è uscito lentamente, dopo aver decretato una piena vittoria. La difficile prova è stata vinta, perché si giudicava molto arduo il compito di mettere in musica la tragedia di D’Annunzio. L’esecuzione vocale ed orchestrale è stata ottima. Specialmente si distinsero la signorina Canetti [sic] (Francesca), il baritono Cigada (Lanciotto [sic]), il tenore Crini [sic] (Paolo). Assistevano la Principessa Laetitia e la Duchessa di Genova. 339 Nicola D’Atri, Il gran successo della “Francesca da Rimini” di d’Annunzio e Zandonai al Teatro Regio di Torino, «Il Giornale d’Italia», 21.2.1914 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con 2 bozzetti di scena: uno per il I atto, uno per il II) Torino, 20 febbraio. La Francesca da Rimini è finita or ora al “Regio” tra le acclamazioni prolungate. È stato un successo crescente. Dichiaratosi al finale del primo atto, quando, all’arrivo di Paolo, Francesca gli offre la rosa, ha toccato la nota alta dell’entusiasmo alla fine del terzo atto per la bellezza della musica inspirata e spirante tutta poesia nella scena d’amore e alla lettura del libro. 3 È evidente che qui l'articolista confonde le situazioni sceniche del terzo e del quarto atto. 3.2.1/35 E il plauso entusiastico si è mantenuto durante il quarto atto, potente nel primo quadro per drammaticità della grande scena in cui Malatestino annunzia a Gianciotto il tradimento di Francesca, e profondamente patetico nel secondo ed ultimo quadro fino alla catastrofe tragica. Quattro chiamate al primo atto, due al secondo, che è l’atto della battaglia, sei dopo il terzo, otto o nove durante e dopo l’ultimo atto. L’aritmetica ormai banale delle chiamate questa volta diventa significativa. L’opera si dava in ambiente difficile e per sé stessa sollevava diffidenze; l’autore era un giovane stimato già in Italia dagl’intelligenti, ma senza il prestigio della popolarità e del gran nome. Gl’intelligenti medesimi non osavano riconoscergli altro che talento e sapere; solo pochissimi, e di questi mi onorai far parte senza ambagi, non indugiarono a concedergli anche le doti superiori della genialità creatrice, che pure s’intravedevano nelle sue opere precedenti. Ma Riccardo Zandonai, con la sua giovinezza audace nell’affrontare l’altissimo soggetto, ha vinto d’impeto la sua battaglia decisiva con la Francesca, conquistando il gran pubblico che non gli ha resistito; ha vinto la grande battaglia da cui esce ormai col suo destino di operista italiano potente ed inspirato. L’aritmetica quindi delle chiamate che dinota un successo pieno, incontrastato, discusso, ha questa volta un’importanza singolare che trascende la pura cronaca dell’avvenimento. Ma, appresa la cronaca, sorgerà nella mente curiosa dei lettori lontani il desiderio di molte domande cui non mi è dato rispondere in questa prima ora dopo lo spettacolo, cui ho assistito per informarvi e a cui fui attratto anche e sopratutto dalla fede che avevo nell’autore della nuova musica e nel soggetto da lui prescelto. Saranno probabilmente, quelle del lettore lontano, domande non scevre di dubbi su quest’altra Francesca da Rimini, ultima di una serie da anni molti ininterrotta di opere musicali inspirate dall’immortale episodio dantesco, che tutte le ha soverchiate con la propria grandezza poetica e subito poi le ha cancellate quasi sul nascere dal novero delle cose vive. Vivrà all’arte, vivrà lungamente alla scena quest’ultima Francesca? A domande così esplicite, eppure tanto comuni dopo le prime rappresentazioni teatrali, nessuno che abbia senno ed esperienza vorrà esplicitamente rispondere. Basterebbe per oggi sapere, e sarebbe già molto, che in questa Francesca ferve di vita un artista. Ma se e quali elementi di schietta poesia, se e quali elementi di teatralità viva e sana, se e quanta genialità musicale contenga il nuovo dramma lirico per la propria esistenza all’arte e per la propria fortuna alla scena, si potrà dire, sia pure di sfuggita, nel corso veloce di questo resoconto. Quel che intanto preme affermare, per sciogliere i dubbi, è che questa Francesca da Rimini, apparsa iersera alla scena lirica, ultima di una serie dimenticata, è tale opera che sorprende e impressiona, penetra fascinosamente nell’animo, persuade l’intelletto e asseconda il gusto dello spettatore moderno. Potrà poi essere tranquillamente e variamente giudicata nel suo insieme e notomizzata nella parti, ma frattanto si offre al teatro con alte suggestioni, e un fascino nuovo di bellezze rare vi spiega la musica, inspirata dal poema tragico in cui Gabriele D’Annunzio rivisse e riespresse in nuove forme l’episodio dantesco. È opera insomma che, indipendentemente dal successo di teatro e da ogni altro criterio momentaneo, s’imporrà come un oggetto degno alla critica d’arte, e fin da oggi innalza il giovane musicista, Riccardo Zandonai, ch’ebbe l’audacia di un gran cimento, nella sfera di quei tali artisti che, come suol dirsi, hanno le scintille. Per darvi un’idea del nuovo dramma lirico v’invito a ripensare la tragedia dannunziana, ch’egli stesso, il Poeta, denominò poema di sogni e di delitti. Non diversa è stata la visione del musicista. Ridotta per la scena lirica, la tragedia perde episodi e versi preziosi ma acquista in rapidità ed efficacia drammatica, e conserva inalterato l’ambiente duecentesco, inalterata la soavità d’amore che la pervade, inalterata la ferocia delle armi. E l’ambiente, l’amore, la ferocia ritrovano una figurazione sonora per virtù geniale del musicista. Nel primo atto si susseguono con una grazia arcaica le scene musicali delle ancelle col giullare, di Ostasio con Ser Toldo, un duettino, questo, caratteristico per la sua andatura che richiama il vecchio recitativo italiano, e quella della entrata di Francesca al braccio della Samaritana mentre il corettino interno delle donne modula un’ingenua cantilena accompagnata dall’orchestra, che si 3.2.1/36 fonde con un’orchestrina interna composta di un liuto, una viola pomposa, un clarinetto, un piffero e un flauto. E non soltanto il suono di questa orchestrina all’antica, ma l’insieme della melodia e delle armonie dànno un senso di lontananza nel tempo, il senso di cose che furono e tra le quali si maturarono sogni e delitti. E quasi trasognata incede Francesca, appoggiata alla cara sorella e carezzata dalle tenui armonie vaganti per l’aria. Alcuni accordi tristissimi dell’orchestra, che ricorreranno in tutta la partizione con significato tragico, vengono a impostare musicalmente il dramma, tosto che il pensiero di Francesca si volge allo sposo annunziato ed atteso. Quindi, al lamento della Samaritana che trepida per la dipartita di lei e la scongiura di non abbandonarla, la «piccola colomba». Ma sull’improvviso suono rapido e festoso dell’orchestra le ancelle invocano Francesca perché corra a vedere lo sposo, Paolo, che passa. Qui l’animo di lei entra in tumulto, e l’orchestra ferve in un modo che lo esprime e che ingrossa e che incalza finché raccoglie l’agitato canto di Francesca. La commozione a questo punto si propaga nell’uditorio. Risuona festosa l’orchestra e, prorompente ora nella gioia, Francesca accorre, la Samaritana singhiozza; le ancelle conclamano la venustà dello sposo; Paolo si appressa al cancello della corte dei Polentani, si fa silenzio, trepido silenzio: mormora leggerissima tutta l’orchestra intorno ad una melodia, la melodia d’amore, intonata dalla viola pomposa cui presto si uniscono gli altri strumenti dell’orchestrina all’antica, sulla scena; tutti guardano verso il giardino, e un coretto di donne intercala la sua mite cantilena. È il finale dell’atto che finisce come in un sospiro di suoni, come in un sogno. La visione dannunziana è raggiunta ed è come avvolta in un velo di armonie fascinose da cui emerge semplice, pura, gentile, italianissima, l’onda melodica. Si chiude il velario. Scrosciano irresistibili gli applausi. Seguono le chiamate. Analizzare ora ciascun pezzo musicalmente? Dirne il pregio, i difetti, la struttura o la linea? A che vale, se il loro nesso, creato dalla fantasia del musicista, produce in sintesi la sensazione del quadro dannunziano nel primo atto del suo poema? Lirico paesista è stato chiamato D’Annunzio; e un paesaggio musicale arcaico in cui ferve l’animo lirico di un musicista moderno ha dipinto con i suoni Riccardo Zandonai nel primo atto della sua opera. Così nel secondo egli ha visto la battaglia ardente e tumultuosa, in cui violenta si scatena a tratti nel fragore, e tra il pericolo incombente di morte, la passione dei due cognati. Brevi episodi lirici, frasi cantabili di Paolo e Francesca, poi di Gianciotto traversano i clamori della battaglia. L’atto, di carattere sinfonico, è costruito superbamente come una immensa chiazza di colore crudo, in forte contrasto con l’atto precedente. Forse è oscuro nella sua costruzione a chi lo ascolta per la prima volta, e ferisce con le aspre sonorità dell’orchestra e delle voci, realisticamente trattate. Forse la parte lirica è soverchiata. Ma nel quadro sinfonico irrompe, maschia e scultoria pur musicalmente come nella tragedia, la figura di Gianciotto, e si determina nel suo ritmo caratteristico, strano ed indimenticabile poi nella partitura, il perverso tipo di Malatestino. Altro paesaggio musicale a grandi macchie impressioniste e con le sue figure in iscorcio questo secondo atto, che poi si chiude con la ripresa sinfonica della battaglia in cui trionfa con gli ottoni il tema del giuramento d’amore tra Paolo e Francesca. Il terzo atto, l’atto della scena d’amore e del bacio presso il libro galeotto, meriterebbe davvero anche una esegesi musicale riposata e tranquilla. Altri la darà o noi stessi in diverso momento, ma ora qui, sotto l’impressione provata, noi cerchiamo di intuire, nella visione generale del quadro, le intenzioni d’arte del musicista. Poiché la critica non è, come i più credono, quell’osservare e rilevar pregi oppure rimproverar difetti, e nemmeno è la semplice analisi musicale di pezzi e brani e melodie e ritmi e accordi; critica è lo interpretare, intendere e fare intendere l’artista se questi ci ha sinceramente penetrati e commossi, la critica è nella sua prima fase una sintesi, una ricostruzione emotiva. Onde è che il terzo quadro musicale della Francesca da Rimini ci è apparso come un trionfo della poesia della primavera così come fu visto nel fondo dal paesaggio lirico dannunziano. Paesisticamente lo Zandonai ha tratteggiato e sfumato tutto il suo quadro con i brani e i frammenti della fresca canzone della primavera intonata dalle quattro ancelle nella camera di Francesca che 3.2.1/37 attende il suo amato. E quando nel quadro si delineano le figure dei due amanti che sciolgono dal cuore e dal labbro le melodie più tenere e appassionate, i frammenti della canzone primaverile si insinuano come lieta risonanza arcana dei loro animi, finché all’ultimo accompagnano il bacio d’amore coi loro echi indefinibili, generati sommessamente dall’orchestra e dalle voci interne in lontananza, le quali cadenzano soavemente mentre il bacio si prolunga e dura: primavera! Primavera! – Cala la tela e il pubblico rapito scatta di entusiasmo. Così il temperamento musicale coloristico dello Zandonai già rilevato nella Conchita qui trova esplicazione altamente poetica e si completa con l’affermazione di un altro temperamento che è in lui, quello del melodista che lirizza e canta. Tutta la Francesca, salvo alcune scene come quella della battaglia, è materiata di musica melodica e cantabile; le voci secondo la grande tradizione italiana regolano la condotta musicale del dramma, non l’orchestra; l’orchestra dipinge, descrive con frammenti a lei apprestati dalle melodie vocali. Rievocando ora rapidamente il quarto atto nel quale il dramma domina in tutto sull’ambiente e il quadro è preso dal disegno delle figure, si ha nella prima parte, dopo le prime due scene forse troppo sviluppate relativamente all’azione melodrammatica, quella tra Gianciotto e Malatestino, potente nella tragedia e resa potentissima dalla musica. Il dialogo declamato fra i due e intercalato di un ritmo crescente dell’orchestra è di una efficacia teatrale immancabile, onde il successo ottenuto da tale scena. La seconda parte dell’atto contiene una delle pagine musicali più inspirate di tutta l’opera, quella tra Francesca e le sue ancelle e poi con Biancofiore: pagina, questa, piena di profonda melanconia, che sembra preludere come un presagio alla tragica morte di Francesca e Paolo. La scena ultima tra i due amanti non ha pregio musicale in senso assoluto, ma è piena di passione e di foga nel canto; qui le voci dei due amanti insieme ripetono in uno slancio comune la melodia della rosa, quella con cui sulla fine del primo atto si aprirono i loro animi all’amore. Così termina felicemente l’opera inspirata dal nobile poema di Gabriele D’Annunzio al più forte tra i giovani operisti italiani. Opera in cui questo ha esaltato il suo estro sinfonico nel contemplare le visioni del Poeta, ed al sonito del fulgido verso dannunziano ha potuto formare una sua melodia cantabile italianamente bella ed eletta spontanea infiammata. La vittoria di un giovane musicista che già si sapeva fortemente temprato nella sua arte e che oggi nel contatto spirituale con un alto soggetto poetico guadagna la palma dell’operista ho voluto io qui esaltare ai lettori. Non ho inteso celebrare nella Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai un capolavoro musicale: né mi farà velo il suo successo odierno nel giudicarne quando che sia il valore intrinseco di opera d’arte e rilevarne pacatamente o le rare bellezze o i mancamenti. Oggi noto soltanto che da consimile materia poetica e da siffatte tempre di artisti quali si mostrano nella nuova opera sorgono i capolavori; e constato né più né meno che da oggi esiste per la scena lirica un melodramma nobilmente inspirato nel quale l’arte ha detto una sua parola. E constato pure che per il pubblico teatrale esiste un’altra opera italiana bella e commovente. L’esecuzione Della esecuzione dell’opera al “Regio” non si può affermare che sia stata veramente perfetta: fu commendevole per alcune parti, manchevole per alcune altre. La protagonista medesima, signorina Canneti [sic], una squisitissima cantante, se fu ammirevole per bellezza di canto, non fu abbastanza efficace nell’azione scenica e nemmeno in qualche accentuazione drammatica del suo canto. Ma a lei va tenuto gran conto che dovette assumere la parte all’ultim’ora e studiarla in pochissimi giorni, onde si può dire ch’ella abbia compiuto un vero miracolo e abbia nello stesso tempo assicurata l’andata in iscena dell’opera. Nella parte di “Paolo” si è magnificamente affermato il giovane tenore Crimi, che si fece applaudire anche a scena aperta. Egli è un cantante dalla voce bella, calda, simpatica, estesa ed ha contribuito non poco al successo dello spettacolo. Il baritono Cigada, un artista ben noto, è stato un “Gianciotto” efficacissimo per robustezza di voce e vigoria di accento e per l’azione scenica sempre felice. Così pure un efficacissimo 3.2.1/38 “Malatestino”, parte difficile, è stato il tenore Paltrinieri. Fra le parti minori si distinse il basso Malatesta, il giullare. Il maestro Ettore Panizza, un direttore stimatissimo, ha posto tutta la sua coscienza di artista nella concertazione dell’opera difficilissima: che risulta anche di tante finezze strumentali ed armoniche le quali costituiscono un lato originalissimo della nuova musica di Zandonai. Quindi il maestro Panizza fu con gli artisti e con l’autore chiamato più volte al proscenio, e fu anche evocato il valentissimo maestro Veneziani istruttore dei cori. Generalmente ammirata è stata poi la messa in iscena. Bellissime alcune scene del Rovescalli e i costumi di Caramba. La sala4 La sala presentava un bellissimo aspetto benché ieri sera fervesse a Torino in ogni ritrovo il giovedì grasso. La principessa Letizia e la duchessa di Genova assistettero a tutto lo spettacolo dai palchi di Corte. Tra gli intervenuti si notavano molte notabilità artistiche torinesi. Coi treni di Milano eran giunti Umberto Giordano e i maestri Seppilli, Alfano, Donaudy, Barone e vari altri. Vi erano gli editori Riccardo Sanzogno [sic] e Tito Ricordi, quest’ultimo complimentato per la riduzione della «Francesca da Rimini» di D’Annunzio, da lui fatta per la musica di Zandonai e riuscita teatralmente efficace. I giudizi dei giornali Torino, 20 febbraio. Nella Stampa di stamane Ferrettini constata il grande successo ed esaminata l’opera così conclude: «Dovrei ora riassumere e rispondere se l’opera è bella, se lo Zandonai segue Debussy o Strauss o Wagner e via via. Ma parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria e ciò che vale molto meglio che l’abbia in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte; egli ha evitato molti accenni alla volgarità. Dove il libretto glielo consente, egli trova accenti veramente drammatici ed espressivi. È un colorista a volte vigoroso, a volte semplicemente audace. Francesca da Rimini correrà con fortuna le scene per il maggior nome della giovane scuola italiana, e questo mi pare che basti». A. Borta nella Gazzetta del Popolo parla in particolar modo del terzo atto della Francesca e dice: «La virtù di alta poesia non è in un sol momento o in un episodio dell’atto, ma in tutto l’atto che – a parte qualche lieve prolissità – si potrebbe classificare tra le cose più indovinate che l’arte possa produrre. Questa è musica vera, grande musica che mi costringe a battere le mani mosso da un impeto misterioso che mi sale su dal cuore palpitante». Filippo Brusa nel Momento dice: «L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha dato alle scene un Grillo del focolare, una Conchita, una Melenis, è essenzialmente anche in Francesca quell’impressionista. «Dell’impressionista italiano – diremo così – vale a dire ove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy e Dukas passano a volte in seconda linea e che nondimeno nello Zandonai sono elevati a fattori, giovano con la loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ente fonico. Francesca da Rimini rimane un documento prezioso non soltanto per qualità di tecniche, ma anche per dignità, anzi elevatezza di concetto, per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche che a volte costituiscono il tramite sicuro del successo». Milano, 20 febbraio. Clerici nel Corriere della Sera scrive: «Con quest’opera lo Zandonai conferma la sua fama di musicista dotato di qualità veramente eccezionali. Nella tecnica della strumentazione e della armonizzazione egli si classifica addirittura 4 La parte che segue è un'appendice redazionale. 3.2.1/39 tra i migliori non solo per la solidità della scienza ma anche e meglio per la felicità e la ricchezza delle disposizioni native. Egli si classifica fra i migliori anche come sinfonista; possiede ormai alla perfezione l’arte di far commentare dall’orchestra una data situazione e sa anche plasmare l’idea musicale sul testo poetico in modo che la rispondenza giunga fino ai minimi particolari, così quando si tratta di semplici evocazioni pittoresche come quando si tratta di riprodurre i più sottili movimenti dell’animo». Cesari nel Secolo dice: «Nel volgere di pochi anni Riccardo Zandonai è pervenuto alla sua quarta opera. Dopo Il grillo del focolare, dopo Conchita e Melenis eccoci ora innanzi a questa Francesca, concepita e tracciata con rapidità, senza giovanili esitanze, con baldanza schietta e vigorosa. Zandonai anche questa volta ha agito con la sicurezza di chi sapendosi ben reggere in arcione non conosce i rischi della corsa. Alle negazioni a cui talvolta conduce l’autocritica egli preferisce le affermazioni concrete e lascia al pubblico e al tempo la cura della selezione. Il suo modo di comportarsi dipende dalla qualità stessa della sua natura di musicista, poiché alla disposizione musicale veramente forte non può riuscire mai faticoso il lavoro. E Zandonai non lesina sul quantitativo della sua produzione». 340 Filippo Brusa, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Tirso» XI/9, 1.3.1914 - p. 1, col. 5 / p. 2, col. 1-2 Torino, 20 febbraio. Il nuovissimo spartito del maestro trentino ha ottenuto al nostro massimo teatro un esito lietissimo. Non uguale per intensità ad ogni atto, ma tale nel suo complesso da legittimare l’aspettativa di cui era circondato. Il primo e sopratutto il terzo parvero interessare di più, mentre il secondo, di genere descrittivo, e i due ultimi quadri lasciarono come un’impressione di incertezza, malgrado il carattere eminentemente drammatico del poema. E ciò del resto si spiega. Già sulla scena di prosa la «Francesca» del D’Annunzio non aveva in quanto a teatralità quel fascino da altre opere d’arte di pretese più modeste raggiunto. A mala pena il poeta riesce quivi a mascherar nella cupa ferocia l’artifiziosità del congegno e la mancanza di sincerità, che tradisce spesso il poema e ne fa un’opera di letteratura e di poesia più che non di teatro e di verità. Opera di poesia e quindi armonica, imbevuta di melodia e di suoni tenui e diffusi, quasi intenti esclusivamente a soggiogare ed a disporre per solo compiacimento proprio le idee, i pensieri. Ciò può spiegare e giustificare il connubio colla musica e come Riccardo Zandonai, alla stessa maniera del D’Annunzio poeta e colorista, ne sia rimasto soggiogato e abbia voluto scendere a scrutarne le fibre, e col potere evocatore del suono esaltarne la psiche commossa e cantare colla leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova; non consapevole in tutto forse del pericolo e dell’insidia che gli si riserbava. L’arte di questo giovane autore fecondo che in pochi anni ha dato alla scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis», malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica d’onde aveva preso le mosse coll’allargare le volute del canto verso più spaziosi orizzonti, è essenzialmente anche in «Francesca» quella dell’impressionista. Dell’impressionista italiano, diremo così, vale a dire ove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy o Dukas passano a volte in seconda linea, e che nondimeno nello Zandonai elevati a fattore giovano colla loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’elemento fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si manifesta in ogni arte, e nella pittura in ispecie, e nella musica muove alla ricerca costante del colore nuovo e del nuovo suono – siano essi semplici o più spesso composti – lo Zandonai seguì il sistema, in parte per temperamento 3.2.1/40 proprio, in parte per influsso altrui. E risultò analitico più che sintetico: propenso al particolare anziché alla vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai principi tematici è talora un fantasioso succedersi di elementi difformi che conservano colle origini un nesso appena superficiale, ove i richiami già poco plastici ed afferrabili raramente riescono riconoscibili nel mare fluttuante, nel caleidoscopio dei più svariati colori in cui sono disciolti. Ed è appunto nelle parti della tragedia ove il colore tenue e diffuso prepondera che il musicista vi s’accorda coll’armonia latente. Nel finale del primo atto, fra gli altri, ove il musicista, dedito spesso all’episodio, con una pennellata riesce a raccogliere il quadro in un’atmosfera morbida, soavissima e delicata nel lieve tremore di archi, sotto cui si svolge a sospiri, tra oboe e viola pomposa, il tema d’amore nascente. Nella protasi ancora dell’atto terzo cotesta musica ha profumi e carezze delicate. L’armonizzazione, nel quadro vigoroso della battaglia aspra e dissonante, ritorna quieta e serena. Né in genere da una notevole chiarezza essa si allontana pur non sdegnando i portati della tecnica modernissima, aliena però da quella specie di sovrapposizione di accordi che in altri autori genera a volte come un senso di pesantezza e di oscurità. Nel crescendo passionale, per contro, nell’impeto lirico ed ancora nei momenti più tragici, sentiamo a volte venir meno allo Zandonai la profondità del sentire e, nella ricerca del grande volo, anche la personalità. Tutta la seconda parte del dialogo dei due amanti risente di cotesta lacuna. Nei pochi momenti in cui la melodia si afferma non sono infrequenti le analogie di successioni armoniche, di cadenze e melopee alla Mascagni ed alla Puccini, come in altri punti – nel declamato – alla Wagner. Anziché il calore intenso troviamo quivi accenni sentimentali. Non la sensualità gagliarda di un Riccardo Strauss, il mistico e sognante epperò traboccante amore di Riccardo Wagner o la passione profonda, umana e sommamente sentita di Verdi e nemmeno la voluttuosa onda sottile, avvolgente di Giulio Massenet... Nelle scene drammatiche poi il nostro autore raramente perviene a scolpire con un disegno ritmico e melodico il ritmo e la melodia latente della frase del testo, a riprodurlo con quell’incisività che plasma, con quel “pathos” che lumeggia in un istante uno stato psichico, una coscienza; con quel “quid” misterioso che rivela gli altri a noi stessi e noi stessi agli altri. Francesca da Rimini rimane tuttavia un documento prezioso, considerato da una visuale d’arte superiore: e prezioso non soltanto per qualità di tecnica ma ancora per dignità ed elevatezza di contenuto: per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso e famigliari al gran pubblico le quali a volte possono costituire il tramite sicuro del successo. L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto, della figura d’artista che aveva di fronte. 341 Sergio Graziani, Lettere dall’America - Francesca da Rimini al “Colon” di Buenos-Aires, «Il Tirso» XII/24, 11.7.1915 - p. 1, col. 5-6 (con foto di Zandonai e R. Raisa) Buenos Aires, giugno Il 18 maggio u. s. s’inaugurò con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai la grande stagione lirica del teatro Colon. Grande era l’aspettativa del nostro mondo artistico, così per l’opera nuova come per la nuova organizzazione: e bisogna subito riconoscere che l’uno e l’altra non hanno deluso la viva attesa. L’opera del maestro Zandonai ha riportato un magnifico successo. Fin dalle prime battute Zandonai s’è manifestata la simpatia del pubblico. La scena delle ancelle ha sollevato le prime acclamazioni. L’incontro di Paolo con Francesca è parso un magnifico brano di musica e veramente suggestivo è apparso il coro con cui l’atto si chiude. 3.2.1/41 Il secondo atto, sebbene sia il più artificioso dell’opera, ha impressionato per la vivezza e la potenza della sua struttura orchestrale. Dell’atto terzo hanno subito favorevolmente impressionato le squisite canzoni che precedono il duetto d’amore, e la grande perorazione orchestrale – è questa forse la più bella pagina dell’opera – con cui l’atto ha termine ha suscitato un vero e proprio delirio di acclamazioni. L’atto quarto s’è imposto per la vivezza e l’efficacia dei suoi contrasti, per la potenza espressiva a cui la musica assurge nel comento della torva e bieca anima di “Malatestino”, nell’odio di “Giangiotto” [sic], nella superba scena d’amore fra “Paolo” e “Francesca”, come nell’impetuosa e travolgente fine della tragedia. La musica del maestro Zandonai è invero il frutto di un ingegno musicale profondo e maturo. Anche se nella sua opera trasparisce evidente un certo sforzo per la ricerca di qualche effetto, lo sforzo è sempre nobile e dignitoso e contenuto nei limiti di una grande sobrietà. Ma in complesso la sua musica è sincera. In Francesca, Zandonai sente lo spirito della tragedia, il grande alito di passione e di morte che la inspira, e ne comenta la vicenda passo per passo, penetrando nell’anima dei personaggi, ravvivando gli elementi del dramma con una coloritura orchestrale di una grande efficacia. L’esecuzione fu eccellente sotto qualunque rapporto. Rosa Raisa nella parte della protagonista ottenne un successo personale entusiastico. L’appassionata figura di “Francesca” visse in lei con una realtà scenica impressionante. Il suo canto ebbe momenti di un’efficacia superba. Ippolito Lazzaro ha dato un giusto colorito alla parte di “Paolo” ed ha sfoggiato le sue mirabili e squisite virtù vocali imponendosi subito all’attenzione del pubblico. Un “Giangiotto” impetuoso, drammaticissimo, feroce è stato il baritono Danise la cui voce ampia, robusta, resistentissima ha più volte sollevato le spontanee acclamazioni dell’uditorio. Assai bene il Paltrinieri. La concertazione del M.o Marinuzzi è stata eccellente e l’orchestra sotto la sua valida direzione ha suonato impeccabilmente. 342 Momo Longarelli, Il successo ad Ancona della “Francesca” di Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 24.11.1920 - p. 2, col. 1 Ancona, 23 novembre. Pubblico numerosissimo dona, ad ogni ripetuta rappresentazione della Francesca da Rimini del maestro Zandonai, largo e maggior consenso di ammirazione e di plauso. La bella tragedia adriatica, ché tutta si svolge in faccia all’Adriatico, per la prima volta è stata data ad Ancona in questa stagione lirica [e] nella prima serata attrasse gli applausi di ammirato stupore, poi è penetrata nel pubblico con una cosciente ammirazione. È merito dell’impresario Ragazzini avercela signorilmente apprestata alle Muse, con ricchezza di scenario, con eletti elementi d’arte. La tragedia di Francesca da Rimini con parole di tenerezza e di gentilezza, con parole di definitiva umanità, ci fu donata in poche terzine da Dante, il quale volle che la folle passione di Paolo e Francesca salisse all’immortalità dell’arte in un velo di pudore che più l’umanizza. Silvio Pellico la sdilinquì, per il teatro, in morbosa romanticheria. Gabriele d’Annunzio ne fece una tragedia “di sangue e di lussuria”: egli stesso lo confessa nel proemio. E la tragedia di sangue e di lussuria, ridotta ma non mutata nella forma e nella costruzione, è stata dal magistero di Zandonai risospinta tra ineffabili velami di gentilezza e di tenerezza. Svincolarsi dall’opera dannunziana sia pur vivificata dal canto è impossibile; ma nel legame dell’opera dannunziana è superbo merito del maestro Zandonai di aver donato alla tragedia quel senso di trepida umanità che d’Annunzio aveva mortificato proprio nel sangue e nella lussuria. Egli la commenta: non sterile cantata, ma vivificazione dell’opera. E l’orchestra e il canto si muovono in un’atmosfera di melanconia primaverile, in una strumentazione dove tutte le audacie 3.2.1/42 della tecnica sono magistralmente adoprate non per parossismi di novità, non per sbalorditorî effetti, ma per vincolare le sensibilità a più intime comprensioni. La “viola”, il “liuto”, il “flauto basso” gareggiano a significar la parola della passione, a dar la linea di un commento orchestrale deliziosamente decorativo. E tutta la drammaticissima scena ultima del primo atto, quando Francesca coglie una grande rosa vermiglia e la offre ammaliata al bel signore che non l’accetta perché non è lui il marito ma il procuratore – ed è Paolo – e la rosa cade; in quella scena l’orchestra dice quanto è umanamente possibile per esprimere quel nodo interiore che si stringe e che è tutto il dramma. E la canzone di calendimarzo: Marzo è giunto e febbraio gito se n’è col ghiado. Or lasceremo il vaio per veste di zendado. ha tutta la malìa di quelle antiche canzoni fatte di anime più che di suoni in cui il trecento fioriva tutta sua gentilezza. Malìa dell’antico, ma perenne, che ci riprende, che ci carezza. Qualche segno è questo di ciò che più è penetrato in noi: ma tutta è bella, la bell’opera. Dai canti abbacinati di passione di Paolo e di Francesca: da qualche motivo ritmato sul misticismo come un canto fermo, in cui Francesca talvolta disvela la parola: dal motivo di marcia funebre dell’entrata in scena di Malatestino, al grandioso commento orchestrale del dramma e del fato. E tutto fuso, voci e strumenti tutto unificato nell’anima della tragedia è per merito del direttore e concertatore dello spettacolo, maestro conte Giuseppe Sturani, il quale discende da illustre famiglia anconitana. Francesca è impersonata dalla signora Linda Barla-Ricci che nella sua bella linea statuaria ammorbidisce il gesto della drammatizzazione. Ha voce stupenda e canto sicuro e commosso. Si mostra donna di passione più che di lussuria. Ha parte difficilissima: dal recitativo musicale alla cantata più viva, ella è signora della scena per tutti i quattro atti. E pur nell’ultimo atto ha voce fresca, chiara e potente. Rara potenzialità di mezzi vocali e di espressioni. È sicura vittoria la sua. Adolfo Pacini si presenta come Gianciotto. Ha voce bella e potente: ha una viva intuizione del personaggio storico, sicché ce l’ha dato nella linea di una figurazione tipica. È caldo di drammatizzazione e potente di espressione e nel canto e nel gesto. Paolo è Nino Piccolugo [sic], tenore dalla voce adusata a timbri ed a sfumature di vivace commozione. Si muove come affascinato della sua passione, che canta in lui con arte sottile e con intuito di artista già esercitato alle vittorie. Malatestino – Carlo Bonfanti – ha una espressione tragica ammirevole: esprime il suo contenuto drammatico con una potentissima padronanza della scena. È un espressivo «fanciullo perverso» dalla bella voce. E poi tutte le donne di dolcezza che fanno corona di canto alla tragedia – Samaritana (Ada Ospitali), Biancofiore (Emma Lattuada), Garsenda (Gina Pedroni), la Schiava (Giuseppina Ciampaglia) – hanno voci ricche di toni e di espressione. Su la gran tragedia della donna di passione, Biancofiore, la fanciulla di tenerezza, getta un’onda primaverile con la sua voce che squilla ed offre la sua ghirlandetta ripetendo: Possa malinconia con ciò passare. 343 G[iuseppe] Federici, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai al S. Carlo, «Le Maschere», 30.1.1921 - p. 4, col. 1-2-3 3.2.1/43 Siamo di fronte alla forte e incalzante tragedia del fato di Paolo e Francesca che D’Annunzio dal gran palpito delle immortali terzine dantesche trasse in una tragedia tutta sua. Ma prima della tragedia, D’Annunzio intessé un poema: poema tutto compreso in sottili sfumature, in tragiche bufere d’anime espresse in rassegnate rinunzie e più toccanti, in un complesso di lirismo, si sogno che dà all’amore di Francesca un’essenza di visione e di presagio. E il tutto intersecato e frammezzato, ma non coperto, dalla accanita medioeval lotta dell’Italia guelfa e ghibellina coi suoi rudi uomini d’arme e di sangue. Tale la tragedia di D’Annunzio che Tito Ricordi, per esigenze tecniche, ha sfoltito delle sue più belle vaghezze e imagini, del suo maggior lirismo che è nelle sfumature delle più raffinate decorazioni, vaghezze, imagini che formano la tragedia. Così visto obbiettivamente e così ridotto, lo scheletro del poema Dannunziano ci si presenta in cinque vari episodi che non convincono abbastanza e che più ancora non hanno la linea scenica nell’urto fra il lirismo e la durezza della lotta d’armi, e senza quell’avvincente incalzarsi di avvenimenti che tiene lo spettatore e che lega l’azione di più atti in una unica complessa azione. E la ragione di tale manchevolezza consiste nell’aver voluto ridurre un poema tragico in una tragedia scenica. *** L’opera grandiosa del musicista, la grande fatica di Zandonai egregiamente si è esplicata nel commentare i cinque episodi. La musica di Zandonai, evidentemente sente la sproporzione del libretto, ma è potente lo stesso nella perfetta fusione sinfonica e nella interpretazione sottilissima e sentita dei momenti psicologici (talvolta troppo sottile). L’intero spartito non ha la frase armonica che individualizza ogni opera, e tanto meno, per conseguenza, i “leit motif” [sic]. Lo spartito si basa su due accordi di tritono, completamente fuori delle leggi del contrappunto, e che si ripetono due sole volte nell’opera: al primo atto, quando Francesca dice «Egli è venuto», e nell’ultimo atto, alla catastrofe finale. Quattro temi musicali delineano le quattro figure dei personaggi principali; il ritmo di Francesca lieve e soave di liuti, viole e oboe si presenta al primo suo apparire nel coro arcaico delle donne e predomina nella scena di presentimenti della sorellina Samaritana che non vorrebbe lasciarla partire. E con l’ansia di Francesca di conoscere il suo sposo incomincia il secondo ritmo di Paolo. Paolo comparisce accompagnato dal dolce suono della “celeste” e l’incantevole suo tema, che forma la fine dell’atto, è modulato sulla viola pomposa, antico strumento dalla voce più squillante del violoncello, con accompagnamento di liuto. Ed è questo il primo bel passo musicale, legato, armonico, vibrante, reso più suggestivo dal coro a mezza voce delle donne che cantano il profumo del maggio, e dalla stessa scena, tutta Dannunziana, di Francesca che, rapita, porge a Paolo ch’ella crede il suo sposo, anch’esso rapito dalla bellezza di lei, una rosa rossa colta da un rosaio di rose rosse, mentre Samaritana piange e la “viola” modula e strascica i suoi ultimi dolcissimi accordi. Il secondo atto incomincia col tema di Gianciotto, rude, possente e nello stesso tempo spezzato, quasi sciancato come il Malatesta. La designazione sullo spartito è grave e pesante, ed infatti siamo sui merli del castello dei Malatesta e fervono i preparativi per la pugna. Paolo comanda la difesa e Francesca non teme il pericolo: lo aiuta e teme per lui, e vuole che si nasconda. La musica, nell’impeto della battaglia, invade l’intera orchestra; squilla sulle trombe e su quelle tali buccine che serviranno pure alla Nave di Montemezzi, in una fusione sinfonica perfetta coprendo spesso il duetto inefficace, fino all’apparizione di Gianciotto col suo ritmo sciancato e rude sugli archi. Il nemico è respinto. Si beve il vino greco, ed in un largo sostenuto Gianciotto invita a bere i due cognati nella stessa coppa. E qui si riaffaccia il tema di Paolo. Ma ecco che entra in iscena Malatestino, dall’occhio crepato, terzo fratello, che vien trasportato svenuto. L’orchestra attacca il quarto tema, direi quasi viscido, inquietante sulla quarta corda degli archi in sordina, ritmicamente accompagnato dal battito del dorso degli archi sulle corde dei contrabassi, accompagnamento che fece rimanere perplesso in un primo momento il pubblico. Ma il feroce piccolo essere è già in piedi fremente e al grido «A cavallo, a cavallo» si lancia nuovamente nella mischia che si riaccende. La fine dell’atto, fra i bagliori di fuoco e lo scoccare dei massi delle catapulte e dei dardi dagli archi, di 3.2.1/44 un effetto scenico reso con grandiosità, è maestoso, imponente sulle trombe che rispondono in sincopato alle buccine ed ai corni di caccia, in una potente e travolgente visione d’orrore. Il terzo atto, nella camera di Francesca, è mite e suadente. In esso arieggiano i ritmi di Francesca e di Paolo, e colpisce la meravigliosa canzone marzaiola a ballo sull’oboe e il liuto inneggiante alla primavera, meravigliosa per limpidezza e freschezza e che io classificherei un quinto tema, il tema della primavera, perché si fa sentire ancora vagamente qua e là fino alla fine. Siamo finalmente alla vera tragedia. Paolo entra introdotto dalla schiava, per volere di Francesca. Son soli. Incomincia il duetto d’amore: un duetto recitativo, timido, a voce bassa, dove l’amore è nello spirito e non nei sensi, dove la frase è strozzata. Un vecchio signore a me vicino si dimena sulla poltrona. È un musicomane, evidentemente. Tutte le volte che il soprano o il tenore cominciano una frase musicale e la spezzano quando appena la s’incomincia a percepire, egli si fa più rosso in viso. E infine, non potendone più, rivolto a me: -Wagner! - esclama con esasperazione. -Wagner - rispondo stringendomi nelle spalle. L’atto si chiude in un proporzionato crescendo fino al bacio fatale e in un decrescendo di grande poesia e di commozione intensa nel grido: «Francesca!» – e nel bisbiglio, quasi rantolo: - «Paolo» -, mentre trema l’eco lontana delle fanciulle che cantano la canzone marzaiola. Il quarto atto, diviso in due quadri, incomincia rude sui temi dello sciancato e di Malatestino. È la scena della delazione, meravigliosamente dipinta dalla musica torva e potente. Malatestino accusa Paolo e Francesca presso Gianciotto. È un dibattito acuto e furioso fra la tenacia maligna del piccolo sciacallo Malatestino e la potente forza di Gianciotto, teatralmente e musicalmente belli. E nel secondo quadro si passa al nostalgico ricordo di quella primavera lontana, di quella “viola pomposa” e di quel soave amore sororale di Samaritana. Siamo di nuovo nella camera di Francesca. È notte. Gianciotto a quell’ora dev’essere di già partito, e Francesca attende Paolo. Ma è inquieta. Qualche cosa come un presagio le annunzia una sventura. L’ancella Biancofiore si trattiene ancora un po’ con lei ed ella si ricorda di Samaritana, la dolce sorellina che piangeva prima ch’ella partisse pel suo destino. Il ritorno nostalgico della musica è di grande effetto. Ma Paolo giunge. Son soli. Questo secondo duetto è ardente, quasi disperato: pauroso. La catastrofe è fulminea sui temi cupi e disperati di Gianciotto e Malatestino. Tutto precipita con celerità ed il finale giunge con i due accordi di tritono, fondamentali, impressionanti. Il finissimo pubblico che letteralmente riempiva il teatro dette una prova luminosa della sua intelligenza e squisitezza di gusto, gustando in una sola audizione e applaudendo freneticamente la musica sottile, eminentemente aristocratica di Zandonai. Se si tien conto delle quattro chiamate al primo atto di artisti e autore, cinque al secondo e sei al terzo, lunghe ovazioni unanimi a cui s’unì anche l’orchestra, il successo si può ben dire clamoroso. E a ciò concorse la perfetta esecuzione curata sui più piccoli dettagli. Gilda dalla Rizza fu una Francesca ineguagliabile. In lei applaudiamo ancora una volta non solo la portentosa limpida e modulata voce, ma anche l’arte scenica e la perizia della recitazione. Ottimo anche il tenore di Bernardo nella sua difficilissima parte. La sua voce calda dall’impeto drammatico e la proporzione della sua recitazione ne fecero un Paolo ammirabile. Il baritono Franci dette alla parte di Gianciotto il vero colorito rude [e] imperioso, con l’aiuto della sua liquida, abbondante voce. Una rivelazione fu il giovanissimo tenore Papaccio nella parte di Malatestino. Il Papaccio fu d’un’efficacia scenica sorprendente che piacque a tutti, oltre al timbro della sua voce ben modulata. Gli altri a posto: la Gontarouk in Samaritana, il baritono Zuccarelli nella parte di Ostasio ecc. ecc. La «Francesca» si ripeterà molte altre volte. 344 3.2.1/45 La prima della “Francesca” di Zandonai in Francia, «Il Giornale d’Italia», 1.3.1924 Lione, 1 marzo. Iersera ha avuto luogo in questo Théâtre Municipal la prima della Francesca da Rimini di Zandonai, che così ha impiegato dieci anni dalla sua prima rappresentazione al Regio di Torino nel 1913 [!] per penetrare in Francia. Il successo entusiastico è stato pari all’aspettativa grandissima, tenuta viva dal fatto che il Municipal di Lione con questa première prendeva la precedenza sul Grand Opéra di Parigi, che da vari anni non riusciva a rappresentare l’applaudita opera italiana per l’ostilità delle correnti musicali sciovinistiche dell’ambiente parigino. Ma a vincere ogni preconcetto nazionalistico ha qui influito l’esito teatrale, forse senza precedenti, riportato nel novembre scorso dalla Francesca, nella traduzione francese del Vaucaire, alla Monnaye di Bruxelles, dove l’opera fu subito messa nel repertorio e da allora le repliche non sono più state interrotte. L’esito di iersera al Municipal fa prevedere che anche a Lione le repliche si succederanno numerose. Protagonista applauditissima Maria Roggero, ben [nota] sulle scene italiane. Stamane la stampa, giudicando favorevolmente lo spettacolo, illustra l’autore italiano di cui esalta la genialità ed enumerandone i vari lavori, tuttora sconosciuti in Francia, fa prevedere che al Municipal di lione si darà anche la première di Giulietta e Romeo, la cui prima edizione francese ha già avuto luogo nel Belgio, a Gand, dove l’opera come la Francesca e Bruxelles è del pari entrata nel repertorio di quel teatro. 345 M[atteo] Incagliati, La “Francesca” di Zandonai dalle grandi alle piccole scene, «Il Giornale d’Italia», 5.5.1925 - p. 3 Fossombrone, 3 maggio. Le Marche possono andare orgogliose del loro Calendimaggio musicale. La Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai tenta, dopo le grandi ribalte, di... trapiantarsi sulle piccole scene. Nel teatro “Petrucci” di questa linda, alacre e industre cittadina, un teatro che ricorda tanti grandi avvenimenti di cui notevole, come attesta una lapide nel foyer, quello cui conferirono lustro e il canto e l’arte suggestiva di Lina Pasini-Vitale per una “indimenticabile interpretazione” della Mignon di Thomas, la Francesca da Rimini ha veramente vinto una curiosa battaglia. Non era in dubbio se l’opera geniale e acclamata ormai in tanti teatri italiani e stranieri da circa dodici anni potesse raccogliere consensi di ammirazione in una terra pur così musicale e così echeggiante tra i monti e le marine di suoni e di canti, ma era giustificata la preoccupazione se la Francesca, che richiede responsabilità e coscienza non comuni in chi la ponga in iscena, riuscisse a ritenersi paga di una ribalta a piccole dimensioni. Il problema di carattere estetico e artistico è stato felicemente risolto. Un’opera come la Francesca non era stata prima d’ora rappresentata che sulle massime scene dei teatri delle metropoli. Con la prova di iersera al “Petrucci” la Francesca ha libero il passo sulle piccole scene. Tocca darne lode al Ragazzini, tra i pochi impresari che all’intelligenza associno un po’ d’ardimento e sappiano allestire gli spettacoli con vera munificenza. E il Regazzini [sic], lanciato il dado, non arresterà, io mi auguro, al primo felice passo la sua nobile iniziativa. Perché da Fossombrone la Francesca non dovrebbe andare “in allegrezza” per i teatri delle Marche – primavera d’arte e di bellezza? Ma quella di iersera, per la nobile riproduzione di quest’opera che valse a Zandonai l’ambita definitiva vittoria di assidersi arbitro del melodramma nazionale, inteso e realizzato secondo il “secol novo”, così da rendere lecito il giudizio che come la Cavalleria rusticana nel 1890 così la 3.2.1/46 Francesca iniziò un periodo storico melodrammatico, ma quella di iersera fu senza dubbio una prova felice d’un felice ardimento. E a seguire il pubblico adunato iersera nella sala del “Petrucci”, a me è parso che il canto di Francesca si riflettesse nella gioia, nell’esultanza che l’opera suscitava. È dolce cosa vivere obliando, almeno un’ora, fuor della tempesta che ci affatica. Già, a notare come il pubblico della terra delle Marche sia sensibile alla musica e come non si sia arrestato alle formule vecchie e non goda unicamente per la cabaletta e per la cavatina, si prova un senso di giustificato orgoglio. La cultura musicale non è dunque più patrimonio dei grandi centri più o meno popolati. E per questa passione le Marche tendono, fra le regioni dell’Italia centrale, a guadagnare il primato in fatto di sensibilità musicale. Di Riccardo Zandonai, al quale con Puccini e Mascagni l’Italia volge gli occhi benigni per la fortuna del melodramma ormai andato a picco di là della Alpi, così in Francia come in Germania – Ancona, Pesaro, Fano e altre cittadine conoscono le opere migliori. Anzi di una di esse, la Via della finestra, l’onore della prima rappresentazione – battesimo e viatico augurale – toccò al teatro “Rossini” di Pesaro. Né sono dimenticate le trionfali rappresentazioni al teatro delle “Muse” ad Ancona della Giulietta e Romeo, diretta dall’autore. Se ci fosse consentito, diremmo che le Marche costituiscono il feudo... artistico del maestro Zandonai. Mancava al repertorio zandonaiano di pubblico dominio marchigiano la Francesca – e, a malgrado delle difficoltà innumeri, la creatura dantesca illeggiadrita attraverso l’arte e il cuore di Gabriele d’Annunzio e di Zandonai è apparsa alla ribalta del Petrucci”. E il pubblico del “Petrucci” ha ben giudicato, entusiasmandosi ad una musica di così rara originalità e di così profonda e commossa poesia, e può ben dire di trovarsi dinanzi ad un autentico capolavoro. Se è vero ciò che scrisse Francesco De Sanctis – che Francesca è la primogenita, la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico de’ tempi moderni – è bensì anche vero che a rivestirla di melodia con tutto il fascino della italianità è occorso lo scatto del genio di un italiano, di un artista della nostra epoca, dopo i vani tentativi di tanti operisti, ai quali, posti di fronte alla tragedia dantesca, venne meno e la vena e l’intelletto. Gli è che Zandonai è riuscito a fare risuonare in tutta l’opera il destino di Francesca. Qui la musica fa sentire la bellezza di Francesca, che si compiaceva di essere amata e «sentiva piacere del piacere» di Paolo. Nota inoltre il De Sanctis nel saggio sulla Francesca: «Francesca empie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca; la corda che freme quello che la parola parla; il gesto che accompagna la voce; l’uno parla, l’altro piange; il pianto dell’uno è la parola dell’altro». Ed ecco Riccardo Zandonai cogliere l’acuto giudizio estetico del De Sanctis e tradurlo come nessuno operista prima di lui in forma musicale. Sicché in quel finale del primo atto, in cui Zandonai ha avuto una delle intuizioni concesse solo al genio, e durante il terzo atto si traduce in musica lo spirito sottile del grande critico napoletano. Che nella Francesca di Zandonai – e ciò intese il pubblico del “Petrucci” – veramente si riflette e risuona «eternità di amore, eternità di martirio!». *** E quale spontaneità di consensi, quali slanci di entusiasmi in questi pubblici di provincia, dove non conta che l’emozione, e in virtù della quale si giudica, si applaude e si festeggia l’artista. Come Zandonai è apparso sul podio direttoriale, la sala del teatro ha echeggiato di acclamazioni fragorose con grida: «Viva il Maestro!». E le dimostrazioni si sono ripetute durante tutta l’opera. E ubbidienti, l’orchestra e gl’interpreti sulla scena hanno seguito la vigile bacchetta dell’autore. Della protagonista Eleonora Corona, che recentemente a Cremona ha interpretato la Giulietta di Zandonai e che conta tanti successi, nonostante la giovane età, conseguiti a Barcellona, a Lisbona e 3.2.1/47 in molti teatri italiani, applaudita “Elena” nel Mefistofele sotto la direzione di Edoardo Vitale, – rese con suggestione e con fascino di femminilità – ella è una affascinante creatura – esprimendo con voce espressiva e con dolce accento, con sottile sensibilità e con un mutevole gioco fisionomico tutte le pene e tutte le esultanze dell’amore. Di Francesca la Corona riprodusse con intelligenza e con varietà di atteggiamenti e con voce vellutata ed educata a ottima scuola lo spirito. Fu dunque per lei il successo veramente schietto e significativo. Ottimi il tenore Caceffo, il baritono Morellato, un caratteristico Gianciotto dalla voce ben timbrata, e il gruppo delle ancelle. La cittadinanza segue questa rinascita teatrale musicale con molto interesse. E le recite della Francesca si avvicendano, con l’intervento del cardinale Ragonesi, alle feste religiose per la ricorrenza della celebrazione centenaria del Beato Benedetto dei Conti Passinei. Feste un po’ dovunque: al teatro “Petrucci”, al Comune, dove il chiaro sindaco comm. Carlone ha offerto un ricevimento in onore del cardinale Ragonesi, e per le vie, la sera, tutte illuminate alla veneziana. Ma meritava di essere segnalata tra tutte queste feste quella organizzata al “Petrucci” per volere della deputazione teatrale che – come diceva l’amico comm. Ceppetelli – nulla ha risparmiato perché la Francesca riuscisse degna e giustificasse l’intervento dell’illustre autore. Da stasera lo spettacolo sarà diretto dal valoroso maestro Icilio Nini Bellucci. E così la provincia, in fatto di politica teatrale, può ormai bene competere con i centri maggiori. 346 B., Una memorabile serata al Politeama Duca di Genova - Riccardo Zandonai dirige la sua “Francesca da Rimini”, «Il Giornale d’Italia», 23.3.1926 - p. 4, col. 1-2-3-4 L’esecuzione trionfale La Spezia, 22 marzo. La venuta dell’illustre maestro Riccardo Zandonai ha segnato per la Spezia un avvenimento della più alta importanza per l’onore fattole dall’Autore di Francesca da Rimini di dirigere il suo capolavoro musicale, e la nostra Città deve essere ben grata e riconoscente alla solerte impresa Ragazzini e al Consiglio dell’Ente per il Teatro Lirico che si sono adoperati con tanto ardore a realizzare questo grande avvenimento artistico che non potrà essere dimenticato tanto facilmente. A ricevere all’arrivo, avvenuto nel pomeriggio di sabato col diretto dal Brennero, l’illustre Maestro erano convenuti alla stazione il Consiglio dell’Ente per il Teatro Lirico al completo [...], la presidenza della Sezione Musicologi, quella della Società dei Concerti [...] e molti altri amici della musica, doveroso omaggio allo Zandonai che ha dato e continua a dare lavori di eccezionale valore, i quali segnano fulgide pagine d’oro nella nostra storia musicale. Dopo le presentazioni di prammatica ed il gradito omaggio di fiori, il piccolo corteo di due automobili si dirige alla volta dell’Albergo Croce di Malta, ove il maestro Zandonai, appena sceso, non può a meno di manifestare la sua ammirazione per la splendida vista del nostro incantevole Golfo e la vegetazione dei nostri giardini che egli, reduce da poco dalla bella Napoli, non credeva di trovare così lussureggiante e così imponente. Brevi conversazioni improntate tutte ad affabilità, ché il Maestro è tutta cortesia e gentilezza: quindi una piccola sosta da Crastan dove il Maestro riceve il saluto della Città portogli dal prosindaco dott. Oldoini e dall’assessore alla Pubblica Istruzione comm. Faggioni; in ultimo una fugace visita al Politeama dove tutto è pronto per la grande serata. *** Alle 21 precise, a teatro affollatissimo di pubblico, fra il quale si notavano tutte le pìù spiccate personalità cittadine, Zandonai appare sul podio, mentre un applauso caldo e fragoroso saluta l’insigne musicista che si appresta a dirigere la sua opera prediletta. La sua piccola figura quasi scompare sul podio, ma la bacchetta, ch’egli impugna sicuro, si leva quasi con magico ritmo, come sospinta da una forza e da un’energia invisibili che fan contrasto con la modestia della persona e l’atto comincia e l’attenzione dell’uditorio s’incatena e l’orchestra e il palcoscenico filano meravigliosamente, ubbidienti e docili ai cenni del Maestro con una fusione che 3.2.1/48 rivela l’ottima preparazione e il saggio spirito interpretativo del concertatore maestro Pais che aveva preceduto l’Autore. E le bellezze affascinanti di un’opera che è scaturita da un genio con l’impronta di un genio vanno a mano a mano sempre più rifulgendo, così che, quando il velario si chiude sul paradisiaco finale del primo atto, l’applauso scoppia spontaneo convinto ed elevato, omaggio agli artisti ed all’orchestra e sopratutto alla onoranza all’Autore che è costretto a presentarsi ripetute volte anche da solo, mentre all’ovazione del pubblico si associano con slancio e i professori d’orchestra e gli artisti tutti stretti attorno al Maestro che, additando e gli uni e gli altri, intende dimostrare loro la propria soddisfazione per la valentìa con cui lo hanno assecondato. È il successo, già consacrato, che si afferma ancor più delle sere precedenti: è il fascino di una musica che più si gusta e si apprezza perché rivela sempre maggiori bellezze, continua a soggiogare l’uditorio, sempre attento e avvinto. Così passa fremente di impeto guerresco e di passione il secondo atto; così espandono nella sala silenziosissima le dolci note della ballata alla Primavera e le sublimi melodie del malioso duetto d’amore del terzo atto, mentre la tragica rivelazione del quarto e la catastrofe finale si svolgono e si compiono attraverso ad una musica or passionale or violenta. Ed alla chiusa di ogni atto, ma più specialmente dopo il terzo, gli applausi si ripetono, con gli onori di un trionfo, interminabili e scroscianti, ed il Maestro Zandonai con gli artisti e da solo è costretto a presentarsi numerosissime volte alla ribalta, non senza associare con gentile pensiero al tributo di omaggio rivolto a lui anche il maestro Pais che con squisito temperamento di musicista intelligentissimo e profondo e con sapiente lavorio di preparazione ha concertato l’opera riscuotendo la lode più incondizionata dell’Autore come aveva già riscosso quella altrettanto completa del pubblico e della critica. Tutti hanno gareggiato in zelo e bravura affinché completo fosse il suo trionfo e tutti meritarono ampia lode: la Barrigar, il Matteucci, il Morellato, il Toffanetti, la Zappa, la Gentilini, la Seghizzi, la Bignozzi, la Mapelli, la Vaccari, il Rodati, l’Alfieri, il Cassia, il maestro Finzi, il maestro Mugnai, il maestro Tramonti, direttore di scena, ecc. Quella di sabato 20 rimarrà dunque una serata memorabile nella storia del Teatro lirico alla Spezia, che per merito dell’Ente si è affermato con ottimi auspici per l’avvenire. E mentre la Spezia rende plauso ed onore all’illustre Maestro Zandonai che è gloria e vanto di questa nuova Italia e di cui serberà vivo il ricordo e la riconoscenza per averlo avuto ospite gradito e desiderato in un avvenimento di così alta e significativa importanza, fa voti che Autorità, Enti e cittadini vogliano concorrere sempre ad alimentare il sacro fuoco dell’arte musicale educatrice del popolo assecondando le finalità e l’opera che l’Ente per il Teatro lirico e le altre società di coltura musicale spezzine svolgono attivamente per maggior decoro della nostra Città. 347 Dalla sala alle “quinte” Si è detto che tra il Mascagni, il cui estro da molt’anni riposa, ed il Pizzetti e l’Alfano, le opere dei quali s’individuano di caratteri d’eccezione, il Maestro Zandonai è oggi il maestro italiano l’arte del quale abbia un significato veramente universale. Si è anche aggiunto, in note biografiche, che l’illustre autore di Francesca, uomo semplice e sdegnoso di ostentazione, ebbe la... spinta dall’immortale Boito che, dopo averlo sentito in un salotto milanese, accondiscese a presentare l’allora oscuro maestro trentino alla Casa Ricordi. Si sono rievocati aneddoti e particolari della vita del Maestro: sì che sabato sera il pubblico intelligente e fine della Spezia, convenuto al Politeama Duca di Genova, attendeva con impazienza lo “squillo” annunziante l’inizio dell’opera per ammirare ed applaudire il Maestro. E vi dico – vale anche per gli assenti – che le acclamazioni all’Autore sono state, fin dal suo apparire al podio direttoriale, spontanee, calorose, affettuose, deliranti. Era il fascino dell’uomo o della trama dannunziana o della musica? E gli è, amabili lettrici e cari lettori, che piano piano Francesca va conquistando – oltre il cuore di Paolo il bello – le simpatie popolari. Sicuramente, quando le rappresentazioni dell’opera del Zandonai saranno ultimate, molti di coloro che hanno 3.2.1/49 affollato nelle sere passate il Politeama sentiranno una certa nostalgia: e parrà loro di aver perduto una cara creatura. *** Già sotto la sapiente bacchetta del maestro Pais, la Francesca da Rimini si era affermata fra il nostro pubblico, che taluno definisce pubblico freddo. Guidata dall’Autore, l’opera ha ottenuto un trionfo: d’altra parte già conseguito nei maggiori teatri d’Italia. L’entusiasmo, le acclamazioni e le chiamate alla ribalta (7 dopo il terzo atto) ci hanno richiamato alla memoria una serata d’eccezione svoltasi all’inizio della guerra nazionale nel medesimo nostro Teatro che impavido sfida il tempo... Chi scrive, allora studentiello, dal classico loggione partecipò al tributo di reverenza e di omaggio del popolo della Spezia a Pietro Mascagni che dirigeva la Gioconda, protagonista la impareggiabile Bianca Bellincioni-Stagno. Per la venuta odierna di Zandonai, la sala ospitava un pubblico numeroso, fine e signorile. Vi erano comitive di Genova, di Viareggio, di Massa, di Carrara, di Pontremoli, di Sarzana e di altri centri della regione ligure-lunigianese. Un vaporino dell’Unione Operaia del Golfo, con una gita serale sotto il cielo stellato e lunato da innamorati, riversò al Teatro una rappresentanza di Lerici e San Terenzo. *** [...] *** Alle ore 20.45, un uomo di bassa statura avvolto in una pelliccia con cappello a cencio infila la porta del Politeama e per il corridoio di destra va lestamente sul palcoscenico. Nessuno se ne accorge: è Zandonai che prima di accingersi a dirigere la sua Francesca, naturalmente senza spartito e senza prova alcuna, vuol dare un’occhiata... d’insieme alle quinte. Poi, ossequiato dagli artisti e dal personale di scena, l’illustre maestro si ritira nel suo camerino, dove riceve notabilità cittadine [...], i critici ed i giornalisti. Poco prima che andasse in scena la Francesca, l’insigne maestro gr. uff. Riccardo Zandonai ha ricevuto cortesemente Duilio Biaggini che gli ha porto l’omaggio e il saluto augurale della Redazione provinciale del Giornale d’Italia. L’autore di Giulietta e Romeo, dalla fronte alta e spaziosa, fra una sigaretta e l’altra ha parlato d’arte e di musica dicendo che per lui, ora, era un perioso di stasi..., però stasi relativa, avendo il Maestro diretto Francesca a Roma, a Napoli, a Torino, a Varese ed altrove. Ha espresso la sua viva fede nell’avvenire musicale nostro: ha soggiunto però che bisogna perseverare. Dopo il bellissimo terz’atto che è pervaso di alto lirismo, Riccardo Zandonai riceve i rappresentanti della stampa in massa [...]. Il Maestro conversa con tutti, tenendo ad esprimere il suo compiacimento per il pubblico che ha trovato attento e composto. Egli è commosso e grato delle affettuose e calorose accoglienze della Spezia. All’illustre Maestro sono state offerte due corone d’alloro: dal Sindacato orchestrale e dall’Associazione di S. Cecilia. Il trionfo è stato completo. Complessivamente si sono avute oltre 15 chiamate e ben 7 dopo il terzo atto. Eguale successo nella rappresentazione di domenica. DUBIA. 348 Ente lirico, Mefistofele, Francesca e il restauro del Politema Cose vecchie e cose nuove La Spezia, 22 marzo [1926]. Il crescente successo riportato dalla stagione organizzata e voluta dall’Ente Lirico della Spezia sfata un po’ la leggenda che la nostra città o per meglio dire il pubblico, la massa, sia portata piuttosto verso gli avvenimenti cinematografici, equestri o operettistici e non verso la musica classica o l’avvenimento d’eccezione. [...] 3.2.1/50 Oh! Francesca! Perdona la facezia e prega Iddio di averti fatta vivere e morire verso il trecento o giù di lì e di aver trovato un secolo senza corte... d’Assise e con pochi avvocati, che altrimenti invece di un poeta esaltatore avresti forse trovato, anzi Gianciotto avrebbe trovato, un avvocato difensore ad un Assise che invece di fare il processo a lui l’avrebbero fatto a te. E Gianciotto ne sarebbe sortito con onore e avrebbe forse potuto ricommettere la corbelleria, lui sciancato vecchio e brutto, di riprendere una bella figliuola come te! Ma «Sic fata voluerunt» tanto più che non è di te che volevamo parlare ma dell’opera cui hai dato il nome. Francesca, D’Annunzio, Zandonai: ecco il trinomio che non poteva fallire. Chi conosce la grande tragedia d’Annunziana e lo spirito che tutta la pervade non può fare a meno di pensare al lavoro e allo studio che la mente fantasiosa del Zandonai ha dovuto e saputo vincere. Tutti gli atti della tragedia sono un’intelaiatura sottile di melodie, un ricamo continuo di note, un commento ed una presentazione veraci dell’avvenimento che svolge e dello spirito che lo pervade. Zandonai, questo Roveretano la cui fama vola libera pel mondo, ha saputo trarre dall’essenza musicale dannunziana l’altra essenza musicale tutta sua particolare. La musica del Zandonai ancor prima che s’alzi la tela ci dice chiaramente se l’atto sarà dolce o forte, delicato-sentimentale o brutale-selvaggio. E quando cala il sipario e l’applauso scoppia, quasi fa rabbia perché interrompe l’estasi che ha pervaso e pervade ancora la nostra anima aggrappata alle stelle. Il Maestro Pais, la magica e simpatica bacchetta del Politeama, ha saputo superare se stesso. È sempre stato grandissimo. Il pubblico glielo ha dimostrato e glielo dimostra più di quanto non potrebbe fare un qualunque critico. Egli è ormai nella strada dura e sicura. La Barrigar (Francesca) dalla voce melodiosa e canora, con la sua persona slanciata e con la sua scena naturalissima in ogni sua parte, è stata una Francesca di grande effetto per cui gli è arriso e gli arriderà il successo. Così il Matteucci (Paolo), il Morellato (Gianciotto), il Toffanelli (Malatestino), artisti di sicuro avvenire, e gli altri tutti hanno contribuito al successo dell’opera. [...] A. Giuliotti 349 Da Lecce - Riccardo Zandonai dirige la “Francesca” al Politama, «Il Messaggero», 24.5.1927 - p. 6, col. 3-4 LECCE, 23. L’eleganza nobilissima della «Francesca da Rimini» fusa mirabilmente con quel tenue delicato ricamo di dolcezze che costituisce tutto quanto lo sfondo dell’opera su cui brucia con bellissima fiamma la passione torbida e tortuosa dei protagonisti, ha con magnifico slancio conquistata la sala. Il pubblico completamente preso, intimamente pervaso dalla ricchezza inesauribile dello spartito, ha espresso il suo entusiasmo con un linguaggio nuovo, fresco, profumato. I fiori hanno per esso detta tutta quanta l’ammirazione fervida ed il ringraziamento per la offerta. E fiori, fiori freschissimi, olezzanti, in pioggia vivida di colori, sono caduti ai piedi di Riccardo Zandonai il musicista-poeta, poiché egli ha espressa come non si potrà mai la perfetta rispondenza tra verso e nota; poiché egli ha rinsaldato il vincolo altamente spirituale forgiando la melodia che parla senza parole. Lecce, che non conosceva la «Francesca», ha avuta la grandissima fortuna di carpirne i tesori direttamente dall’autore. E il fatto costituirà, per il Salento, la data più gloriosa della sua storia di manifestazioni artistiche. Abbiamo avvicinato Riccardo Zandonai in un intervallo. Commosso egli era per le manifestazioni di entusiasmo; ma più commosso ancora per la immediata comprensione dimostrata dal pubblico. La sua semplicità lo ha portato ancora più in alto; la sua modestia ha fatto di lui un principe. Prima di iniziare una breve rassegna sugli esecutori, ci piace affermare senza mezzi termini che l’orchestra è stata degna dell’autore. 3.2.1/51 Dalle prime battute, in un cammino sicuro e travolgente, durante il primo atto nel quale si delinea con una meravigliosa chiarezza il personaggio di Francesca, e nel quale si annunzia mirabilmente il carattere di Paolo; nel secondo atto denso di musica potentemente espressiva nella maggiore delineazione dei protagonisti e “Gianciotto”, con quella sua particolare impetuosità feroce, e “Malatestino” falso e vizioso e meglio “Paolo” nobile e sognatore anche nel furore della mischia e «Francesca» che “sente” il suo avvenire d’amore e [Nota: il ritaglio che contiene il presente articolo, conservato a Rovereto, RVE, SZ 548, si tronca a questo punto] 350 Virgilio Mortari, Della “Francesca” e di altre cose, «L’Italia letteraria», 28.4.1929 - p. 5, col. 1-23 [su una rappresentazione alla Scala] Quando Riccardo Zandonai apparve alla luce con quelle sue prime opere (Melenis, Grillo del focolare e Conchita) per le quali è stata fiduciosamente fermata l’attenzione su di lui come quegli che doveva continuare le tradizioni di quel teatro italiano incominciate con Puccini, Mascagni e Giordano, era giusto desiderio che una simile promessa fosse mantenuta perché un materiale di tale gusto operistico fosse concretato in una forma che, per quella strada, solo Zandonai poteva foggiare. E sulla nota tragedia di d’Annunzio, adattata per il teatro lirico da Tito Ricordi, compose la Francesca da Rimini, che rappresentata la prima volta una quindicina d’anni fa alla Scala5 ottenne un giusto e meritato successo, confermato poi nei molti teatri dove è stata accolta in Italia e all’estero. Cosa è accaduto poi di Zandonai? La vena non gli è mancata, ché molte pagine pregevoli si trovano in tutte le sue ultime opere. Eppure le altre cose composte dopo la Francesca da Rimini non godono molta simpatia, neanche fra il pubblico pel quale sembrano specialmente adattate. Certo è stata assai opportuna e conveniente in quel suo momento la felice scelta del meraviglioso poema di D’Annunzio, che deve avergli soffiato quello slancio del quale è nutrita tutta l’opera e che si ritrova molto più raro e infiacchito in Giulietta e Romeo o nei Cavalieri d’Ekebù. (Non conosco il Giuliano) Mentre poi le altre cose appaiono di un respiro poco nobile e sano e si stimano e si avvicinano non più di chi debba sopportare le conseguenze di un alito cattivo o di un sudore... aromatico, la Francesca da Rimini al contrario è nata in un momento di salute e risponde esattamente agli scopi per i quali è destinata quella tendenza suaccennata, che Zandonai rappresenta onorevolmente nella musica moderna. Mi pare che neanche il fiato della Francesca sia tutto purissimo. Siccome però la tragedia vuole che si baci quella bocca e la passione non ceda a qualunque prezzo, così le lievi impurità, che neanche le “Pasticche del Re Sole” sotto forma di prezioso e squisito condimento armonico e strumentale riescono a nascondere, vengono travolte e trascinate dall’ondata di quel grande amore che da Dante ad oggi, attraverso a tante versioni, ha sempre commosso tutti. Si potrebbe dire che l’espressione di amore profondamente sentita è facilmente accettata nello stesso modo qualunque essa sia, come la méta ultima dell’amore si equivale press’a poco per quel che offre la donna dei sogni o la cortigiana. Ma io credo che sia proprio quel “press’a poco” che conta, e che la “differenza” sia solo quella che può suscitare l’opera d’arte. Tocca dunque all’artista scegliere il materiale in modo che la sensibilità del pubblico sia fatta vibrare per mezzo di espressioni dettate da sorgenti e per bisogni d’arte e non da un... fatto fisico per un altro fatto fisico, quello cioè del... brivido attraverso il “filone della schiena” che, specialmente in teatro, il pubblico vuol sentire anche a costo di far buon viso alla cortigiana e di goderne i suoi servizi. 5 [sic]: ma Regio di Torino. 3.2.1/52 Ora la lega espressiva della Francesca da Rimini è in complesso buona, qualche volta molto buona, e mi pare giusto dunque che il pubblico l’abbia nelle sue buone grazie. L’eredità della tendenza dalla quale discende Zandonai non dà grande noia, neppure alle mie orecchie intransigenti. Anzi io amo assai quest’opera, come un piacevole risultato di ciò che il pubblico chiedeva quando il suo autore apparve all’orizzonte. Il maestro Ettore Panizza, che concertò e diresse l’opera, Pertile, Gilda Dalla Rizza, Maugeri, Nessi e le altre parti minori tutte eccellenti. Insieme a Zandonai sono stati evocati numerose volte alla ribalta con cordiale e calda accoglienza. [...] 351 Il grande successo a Pesaro di “Francesca da Rimini”, «Il Popolo di Roma», 5.2.1932 - p. 6, col. 1-2 (con una foto di Zandonai e una di L. Scavizzi) Pesaro, 4. Pesaro musicale ha vissuto ieri sera ore indimenticabili. Si è ritornati di colpo all’entusiasmo delle grandi serate, all’accesa atmosfera delle vecchie polemiche artistiche scatenatesi nella nostra città tra i fautori di un genere e gli assertori di un altro, alla vibrazione spirituale di cui è capace soltanto la nostra folla quando si trovi dinanzi all’opera d’arte perfetta. E ieri sera, in luogo della polemica, si è avuta la unanimità, una unanimità viva, piena, assoluta, che ha circondato questa meravigliosa edizione dello spartito di Zandonai d’una luce indimenticabile. L’opera, d’altra parte, è tale da risvegliare nell’anima del popolo i più riposti sentimenti di poesia e di amore. Dire come e perché Francesca da Rimini abbia il singolare potere di scuotere così potentemente la gente di Romagna è facile; e Pesaro, d’altra parte, essendo il punto di contatto fra la dolcezza marchigiana e l’irruenza romagnola, può ben vantare il diritto, in nome della sua magnifica tradizione musicale, di essere considerata sede degna per ogni giudizio che voglia aver valore di competenza e di equità. Paolo e Francesca vivono ancora, nell’anima popolare, la loro eterna vita di poesia e d’amore. Essi sono ancora nel cuore del popolo. La loro vicenda si rinnova nell’animo delle nostre genti con la spontanea freschezza di un sentimento naturale, istintivo, innato. Non c’è romagnolo, forse, che di fronte alla grandiosa bellezza della sua terra e del suo mare non abbia pensato almeno una volta nella vita che su questo sfondo si mossero le inquiete figure dei due tragici amanti, che sotto questo cielo fiorì, per non morire, una delle più grandi passioni che la storia dell’amore ricordi. Ecco perché il poema dannunziano non suscita ma rievoca, non crea ma rianima: ridà vita a qualcosa che esiste, che resiste e che non si spegnerà mai più. *** Che dire del successo? Né Zandonai né i superbi interpreti della sua opera avrebbero potuto chiedere di più all’ammirazione e all’entusiasmo del pubblico, accorso in numero quasi inverosimile a gremire il teatro in ogni ordine di posti. Da Bologna, da Ancona e da tutti i centri maggiori della Romagna e delle Marche sono convenute a Pesaro numerose comitive di persone che hanno dovuto accontentarsi di aspettare gli amici all’uscita. Pareva quasi impossibile che da tanta folla ci si potesse aspettare un silenzio così religioso durante l’esecuzione dello spettacolo: in certi momenti – per usare l’espressione di un umorista inglese – si sarebbe potuta sentire una chiocciola schiarirsi la gola a un chilometro di distanza. Il teatro pendeva dalla bacchetta di Zandonai e dalle labbra degli artisti. Poi, a un tratto, la furia degli applausi si scatenava impetuosa come un uragano. Così, dal principio alla fine. Se da cronisti potessimo tramutarci in critici dovremmo ora parlare degli artisti. Fortunatamente la loro fama è tale da esimerci da ogni commento. Lina Scavizzi, reduce dal grande successo riportato al Reale di Roma, ci ha dato la misura delle sue infinite possibilità artistiche. Poche volte, forse, si è dato il caso di un talento così vivace accoppiato a una sì vasta disponibilità di mezzi di espressione. Ella interpreta siffattamente la maliosa figura di Francesca da far pensare al pubblico 3.2.1/53 che l’amante di Paolo dovette essere proprio così e non altrimenti. È la comprensione del personaggio spinta fino all’ultimo limite: al punto che, a volte, non si sa se ammirare più la cantante o l’artista. Ma solo una grande intelligenza può condurre a questi risultati, ché una cantante stupida anche se dotata della voce di Adelina Patti non potrà mai creare la suggestione spirituale che ha saputo darci la Scavizzi con la sua indimenticabile Francesca. Ella ci ha dato insomma l’impressione di una grande artista della scena dotata di una voce potente, estesa e vibrante, ricca di fascino e di emotività, di dolcezza e di tragicità; ed è riuscita a scolpire la figura dannunziana con una purezza di linee degna dello scalpello di Fidia. Il pubblico l’ha ricompensata generosamente della sua nobile fatica. Il tenore Mirassou ha tenuto il suo ruolo con grande bravura e si è fatto ammirare per un’arte di canto degla del massimo elogio. Egli ha saputo trarre magnifici effetti dalla sua partitura, dando al personaggio, in ogni particolare, il netto rilievo scenico che esso richiede. Il baritono Inghilleri, dal canto suo, si è dimostrato all’altezza della riputazione che i suoi incontestabili meriti artistici gli hanno conferito. Egli ha completato il glorioso trio dei maggiori protagonisti ponendosi a fianco di Paolo e Francesca con tutta la finezza, la forza e la signorilità della sua arte. In una parte facile a esser travisata e fraintesa egli ha portato un mirabile equilibrio interpretativo, confermandosi un Gianciotto difficilmente superabile. Lodevole Malatestino, che era il tenore Giusti; ottimi gli altri tutti. Fusi e affiatati i cori; buone le scene. Il maestro Zandonai vorrà indulgere alla nostra modestia se essa ci impedisce di lodarlo come vorremmo. Egli è oggi troppo in alto nella scala dei valori musicali europei perché la nostra parola possa avere importanza. Diremo soltanto che il suo successo personale, al quale ha fervidamente collaborato l’orchestra, è stato davvero grandioso; e la città di Pesaro gli è profondamente grata del godimento artistico che egli ha saputo procurarle. Gli applausi e le chiamate non si contano: troppi per poter essere numerati. Stasera prima replica. 352 Alessandro Baricco, Così Zandonai racconta il crollo del melodramma, «La Repubblica», 27.3.1991 - p. 28, col. 3-4-5 [su un allestimento a Torino] L’ascolto della Francesca da Rimini di Zandonai ha un che di sottilmente didattico: mostra l’agonia del melodramma. Avrebbe anche potuto scolorare, il gran baraccone dell’Opera, in un nobile tramonto senza isterismi. E invece morì come si deve, in mezzo a incredule convulsioni e cocciute illusioni. Così. Come insegna la Francesca, il primo smottamento, insanabile, colpisce proprio le fondamenta del melodramma: la sua lingua. Nella poetica prosa di D’Annunzio-Ricordi si smarrisce per sempre la saggezza elementare del librettismo ottocentesco, che cicatrizzava con la rima qualsiasi ferita e confezionava in serie perfette frasi per cioccolatini non ancora inventati. Sparisce la bella utopia della parola scenica, ancora non si impone la nuova frontiera di una effettiva parola poetica: in una neutrale terra di nessuno defluisce l’ingombrante velleitarismo di un linguaggio alla moda capace di far dire a Francesca cose come «Prendimi l’anima e riversala». Nostalgia dei cari vecchi tempi in cui si potevano ascoltare le orme dei passi spietati. Il secondo smottamento sfigura (per sempre) il canto, cioè il cuore del melodramma. In un’opera come la Francesca, che di melodie memorabili non ne ha più di due, la linea del canto disegna quasi costantemente un grafico smarrito, palese diagramma di un’agonia. A tratti si arriva al punto di sfiorare l’acuminata astrazione della vocalità che avrebbe segnato il teatro musicale moderno: sembra incredibile, ma Lulu non è poi così lontana. Più spesso si vagabonda in una vocalità apolide, dove la tentazione dell’urlo verista veglia, in agguato, su manierismi e smarrimenti vari. 3.2.1/54 Se, a dispetto di ciò, la Francesca regge ancora – e riesce a essere non semplicemente un’agonia, ma lo spettacolo di un’agonia – è in gran parte grazie alla scrittura orchestrale di Zandonai. Non è solo una questione di raffinate tavolozze timbriche: quel che si mostra è la solidità di un “pensiero sinfonico” tanto ricco da prendere su di sé le rovine del melodramma e ricomporle in spettacolo. Il baricentro dell’opera scivola gradualmente giù dal palcoscenico e si accomoda in buca. Come ha insegnato la recente incisione di Sinopoli della Cavalleria, solo prendendo alla lettera una simile migrazione si può restituire al repertorio italiano a cavallo tra 8 e 900 una certa credibilità. Cosa che, puntualmente, non è successa nell’allestimento della Francesca che il Teatro Regio ha presentato come quarto titolo della stagione. Sul podio c’era Yuri Ahronovich, che non è direttore rinunciatario né routinier. Ma il coraggio di trovare nuovi equilibri non ce l’ha. Concerta bene ma in modo tradizionale: l’orchestra resta un passo dietro ai cantanti, e mai si azzarda l’ipotesi che le voci possano essere strumenti come altri, trame tra le tante di un unico tappeto sonoro. Il “pensiero sinfonico” è tenuto a bada con una pericolosa ambizione da domare. Un simile atteggiamento finisce per abbandonare l’opera a se stessa, nella convinzione che sia ancora in grado, nonostante il tempo passato, di reggersi perfettamente in piedi. Convinzione che si auspicherebbe decaduta. Ad essa lietamente si ispirava, per altro, l’intero allestimento. La regìa di Alberto Fassini, priva di errori e di idee, declinava un disciplinato omaggio al gusto del tempo (di Zandonai, non nostro) dettando ai personaggi quelle pose esagerate e belle che facevano la bellezza di certi manifesti pseudo-liberty (primo fra tutti quello, ammirevole, disegnato da Palanti per la prima dell’opera). Da annotare, per la cronaca, l’assenza totale di forzature erotiche, la disciplinata e noiosa battaglia, la composta sobrietà dei due momenti cruciali (il bacio e l’assassinio). Lo scenografo Pasquale Grossi ha riesumato il Medio Evo che piaceva al pubblico di inizio secolo immaginare come verosimile: variopinto come un campionario di stoffe preziose, luminoso e sereno. Nemmeno l’ombra di barbarie, oscurità e oscurantismi. Anche l’abile e misurato gioco di quinte mobili che ridisegnava di volta in volta gli spazi sembrava partecipare al generale clima di distesa funzionalità. Il cast proponeva, nei ruoli dei due amanti, il consueto Martinucci (così implacabilmente identico a se stesso da scoraggiare qualsiasi commento) e Elena Mauti Nunziata: che fraseggia con classe, ma paga l’imbarazzo di acuti ormai irrigiditi e sbiancati. Più efficace, scenicamente e vocalmente, è parso il Gianciotto di Tom Fox, magari non disciplinatissimo nell’emissione ma capace di lasciare il segno a ogni apparizione. Eccellente il livello delle altre parti: la deliziosa Samaritana di Laura Chierici, il convincente Malatestino di Mario Bolognesi, Smaragdi (Kumilo Joshi), le quattro dame di compagnia (Bernadette Lucarini, Giovanna De Liso, Antonella Trevisan, Anna Schiatti). Applausi, tiepidi, per tutti. 353 Rubens Tedeschi, Francesca appassionata e liberty, «L’Unità», 28.3.1991 - p. 21, col. 1 TORINO. Forse non sarebbe urgente riesumare la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, ma è certo che il Regio vi si è impegnato col massimo zelo. Doveroso, se non altro perché l’opera ebbe proprio a Torino, nel 1914, il fortunato esordio. Il testo dannunziano e la ricca veste orchestrale parvero inaugurare una stagione di sinfonismo lirico svincolato dal “verismo” della generazione pertinente [?!]. Tito Ricordi, che aveva tentato invano di convincere Puccini a collaborare con il poeta, ne fu entusiasta. Assai meno Puccini che, essendo il Re in Casa Ricordi, vedeva con sospetto l’arrivo di un Principe ereditario. Indifferente invece D’Annunzio, che non dimostrò nessun interesse per la musica. Zandonai gliela suonò al pianoforte a Parigi e lui si profuse in complimenti verbali e epistolari, ma non andò mai a teatro a sentirla! Forse l’irritavano alcuni energici tagli operati da Tito Ricordi, in veste di librettista, nel testo della tragedia. O forse annusò residui di detestato verismo sotto l’elegante scorza liberty. 3.2.1/55 In effetti, quando si ascolta la Francesca con un direttore impegnato, come Yuri Aronovic [sic], ad esaltare le preziosità della scrittura strumentale, si comincia con l’apprezzarne la novità. Il primo atto, con il garrulo vocìo delle damigelle, la canzone del giullare e l’incontro con gli immortali amanti, sembra aprirsi in modo originale alle grazie florieali di cui gronda il poema. Magari un po’ in ritardo con la letteratura dove lo stile floreale era ormai esaurito, ma non con la musica dove, con Respighi in Italia, con Zemlinsky e la sua scuola in Germania, il “decadentismo” ha una lunga coda. Il primo atto dell’opera, insomma, promette molto. Ma poi, con l’arrivo dei cattivi Malatesta, le speranze vanno in fumo. Il secondo atto, con le scene di battaglia, è tutto costruito sul vuoto. Nel terzo, il gran duetto d’amore ha un suo garbo, ma l’opera prosegue ricalcando il già noto e via rimasticando col quarto. La scrittura, certo, conserva la sua eleganza e Aronivic continua a prodigarsi per rivelarne i pregi. Lodevole impresa che finisce per portare alla luce anche una quantità di piccoli imprestiti wagneriani che in esecuzioni meno raffinate restano nascosti. A una lettura tanto penetrante occorrerebbe una compagnia di pari livello. Il Regio ne offre una complessivamente buona e, dati i tempi, non è il caso di sofisticare. Elena Mauti Nunziata disegna una Francesca più appassionata che liliale e più incline al canto veristico che al “recitar cantando”, ma non priva di efficacia. Al suo fianco il Paolo di Nicola Marinucci [sic] che si destreggia tra le difficoltà della parte e qualche logorio vocale. Gianciotto è Tom Fox che, nella parte del “cattivo” diventa addirittura truce e Mario Bolognesi che relizza un Malatestino non privo di ambiguità. Una folla di comprimari completa, col coro, il dignitoso assieme vocale. Infine, l’allestimento al quale D’Annunzio teneva moltissimo. Oggi le scene e i costumi di Pasquale Grosso [sic] si limitano a ricreare gustosamente un “dugento” elegantemente manierato, con pareti e panneggi damascati che scorrono aprendo e chiudendo ambienti preraffaelliti. Nella cornice si muove la regìa di Alberto Fassini, impegnata anch’essa a rievocare con discrezione il clima liberty della tragedia. Qualche attenzione maggiore ai particolari non avrebbe guastato: Francesca non legge la storia di Lancillotto su un fascicolo a dispense; all’interno del castello non occorre agitar bandiere e la protagonista non ha bisogno di insistere nelle pose della Bertini. Ma sono, appunto, particolari che non disturbano troppo e che non impediscono il successo, esploso con calore. 354 Giordano Montecchi, Il Medioevo cantato al popolo, «L’Unità», 28.3.1992 - p. 21, col. 1 BOLOGNA. L’opera a volte è come i mobili di casa: parla alla memoria, desta ricordi. Come i mobili, esistono musiche nuove e musiche antiche, musiche vecchie e musiche nuove nate vecchie: il divano firmato e il tavolo del rinascimento, l’armadio in radica della nonna e la credenza in stile. Francesca da Rimini, l’opera che Riccardo Zandonai scrisse nel 1914 su un libretto tratto dall’omonima celeberrima tragedia di Gabriele D’Annunzio portata sulla scena nel 1901 da Eleonora Duse, è il vecchio armadio in radica con la specchiera in mezzo: l’oggetto che si credeva dimenticato, ma che quando lo si reincontra, suscita memorie dai tratti inequivocabilmente familiari. Naturalmente Francesca da Rimini ambì ad essere tutt’altro, non certo un arredo domestico. Eppure l’eccitazione dannunziana per un Medioevo virgineo e corrotto, floreale e cruento insieme, per un umanesimo torbido e passionale, l’ondeggiar tra Beardsley e i due Dante – Alighieri e Gabriele Rossetti – se ebbe corso fra il pubblico del melodramma, con la mediazione di Zandonai, del Mascagni della Parisina ed altri ancora, lo ebbe in quanto addomesticamento del crogiuolo decadente, sotto forma di temi affrontabili a tavola o alla sera, tornati a casa dopo l’opera: il floreale, le passioni disperate, il gesticolare esagitato, le lame insanguinate, ingredienti in cui si camuffano lussurie e inquietudini insondabili. Solo così Francesca da Rimini ci divenne familiare, titolo saldamente collocato fra i maggiori successi dei decenni fra le due guerre. Il decadentismo popular era anche la cifra del nuovo allestimento di quest’opera presentata al Comunale di Bologna e coprodotta col Regio di Torino. Assenti gli psicologismi ammorbati, 3.2.1/56 schiacciati sotto il passo pesante di guerrieri nerboruti, ricomposti nei virginali abiti delle creature femminili. La regìa di Alberto Fassini, le scene e i costumi di Pasquale Grossi hanno infatti impastato con un insistito gusto illustrativo l’armamentario inesauribile del medievalismo primonovecentesco: obbligate citazioni preraffaellite, incombenti tendaggi damascati, logge, scalinate, fiori, vetrate finite in piombo, quindi l’assedio, le balestre, gli elmi, gli armigeri, i feriti, l’olio fumante, i bolidi infuocati scagliati dagli spalti. Anche Zandonai d’altronde impasta a più non posso. Possiede una sapienza coloristica indubbia, la féerie di glockenspiel, tremoli degli archi, pigolio dei legni è il suo pane; sgrana un Wagner popular, manipola Puccini, orecchia improbabili arcaismi medievaleggianti che riforniranno la fantasia dei futuri Morricone. Sa giostrare a lungo, creare magie indubbie, ma si arresta sulla soglia dei climax drammatici, dove l’abilità annega nel pompierismo ma, soprattutto, gli sfugge la melodia folgorante, quella che nelle mani dei Giacomo e dei Pietro è spesso l’arma risolutiva. Sul podio era il croato Niksa Bareza, direttore inedito da queste parti e che non lascia dietro di sé un’orma profonda. La sua lettura nel complesso diligente – mai al di sopra, qualche volta al di sotto – ha concesso troppo briglia ad una partitura sgusciante, di innata complessione vociferante. Così l’emblema di questa Francesca a pieni polmoni è stato il tonante Gianciotto di Paolo Gavanelli, energumeno vocalmente autorevole, ma sempre sopra le righe, pronto a stritolare il malcapitato di turno (come vuole D’Annunzio) e a spaccare tutto a colpi di mazza (come ha aggiunto di suo il regista). Chi invece ha lasciato un’impronta di pregio è stato il tenore Sergej Larin, un ottimo Paolo Malatesta dall’accento omogeneo e nobile, capace in genere di fermarsi in tempo, al di qua di escandescenze veristiche. Ma la più attesa era Raina Kabaivanska, una delle rare artiste che abbia conservato dimestichezza con gli atletismi vocali di Francesca da Polenta. Per quanto le concedono una carriera ormai lunghissima e un logorio sempre più palese negli estremi dell’estensione, è stata musicalmente magistrale e aristocratica come suo solito, contornata da un manipolo di dame di buona caratura vocale. Fra gli altri interpreti un neo fastidioso era lo stonicchiante e incerto Malatestino di Sergio Bertocchi. Da parte del pubblico tanti applausi, tanta claque e tanta fretta di tornare a casa, come succede con quelle opere che forse durano più del necessario. 3.2.1/57 La via della finestra 355 La Via della finestra (Rossini - Pesaro) - Le prime in Italia, «Lo Spettacolo» XII/104, 31.71.8.1919 - p. 1, col. 1-2-3-4 Il Libretto Parliamo un po' anzitutto del libretto; perché in un'opera comica esso ha un'importanza assai più grande che nelle drammatiche e nelle tragiche. In queste la musica involge poesia ed azione, quasi assorbendole; nelle opere comiche si accompagna invece all'azione per metterla in maggior rilievo, rischiarando le scene e colorando le parole. Parole e scene vengono così da essa soverchiate d'importanza – tanto che nelle opere comiche migliori si arriva col tempo a ricordare solo il nome del musicista – ma non d'effetto. È concepibile, infatti, un'opera tragica o drammatica composta su un libretto bruttissimo – anzi ce ne sono parecchi esempi – ma non è concepibile un'opera comica che non abbia un bel libretto. I versi potranno essere scritti alla buona ma la trovata fondamentale deve essere piacevole e curiosa, le situazioni interessanti, i dialoghi pieni, il più che sia possibile, di spirito e di brio. La trovata poi, si capisce, può essere semplicissima e lo sviluppo scenico privo delle tante complicazioni che sono oggi l'elemento quasi indispensabile di quella lontana, lontanissima parente dell'opera comica che è l'operetta. E anche qui si potrebbero fare degli esempi e ricordare qualcuna di quelle vecchie e gloriose opere comiche italiane, che sono sempre giovani e sempre vive e di cui perciò è inutile ripetere i nomi ai lettori che le hanno viste mille volte rappresentare. La Via della Finestra poggia anch'essa su una trovata assai semplice: la sposina che per impietosire il marito si butta giù dalla finestra sotto la quale sa che sta fermo un carro di fieno che la salverà dalla più piccola scalfitura e che, per rifare la pace col marito, deve ritornare in casa per la stessa strada che ha scelta per uscirne: cioè per la finestra. La trovata servì già per un vaudeville in un atto di Scribe e certo essa non meriterebbe uno sviluppo maggiore di un atto; tant'è vero che Giuseppe Adami, l'autore del libretto, per poterne cavar fuori tre atti ha dovuto diluire un po' la sua commedia nella quale, per questo rispetto, almeno il secondo atto c'è di più. Niente di male, però. Per riempire questo secondo atto egli vi ha introdotto fra l'altro una scena villareccia di danze e canti, che ha permesso allo Zandonai di dipingere un quadro mirabilmente colorito, e una partenza per la caccia, che è riuscita un quadro ancor più bello e più vivo e che costituisce certamente la parte più caratteristica dell'opera. La commedia dell'Adami – a parte il piccolo appunto che ho creduto di doverle fare – corre via abbastanza sciolta e disinvolta, e il giuoco delle scene vi è condotto con innegabile perizia teatrale. Vi è del buon gusto e, per esso, ai nostri palati corrotti dalle droghe moderne e modernissime, piace anche la semplicità della commedia: semplicità del soggetto e semplicità anche maggiore dello svolgimento. Pochi personaggi e un intreccio leggiadrissimo: respiriamo l'aria delle vecchie opere comiche, divenuta però più fine e più sottile. L'umorismo vi è misurato e composto; tra i personaggi vi è perfino una suocera, disegnata però fuori del solito cliché delle solitissime farse e commedie e perciò con solo una punta di arguta caricatura. La Musica Opera comica, commedia musicale, la si chiami come si vuole, la Via della finestra è il prodotto vivo e spontaneo di uno spirito che si è tuffato nei ricordi del passato solo per rinfrancarsi, per aver forza dall'esempio, per sentirsi confortato a riprendere, con altri modi ma con lo stesso fine, una tradizione gloriosa che sembrava spenta. Ed egli ha, infatti, trovata una vena d'umorismo tutta sua, che non somiglia (non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo) alla facile sdolcinata e più o meno sguajata comicità delle operette odierne (bisogna dirlo però, perché in altri recenti tentativi italiani di opera comica moderna l'autore o gli autori, benché intelligenti e vigorosi, non hanno saputo evitare il pericolo di sdrucciolare ogni tanto nell'operetta) e non somiglia nemmeno alle stranezze e 3.2.1/58 alle bizzarrie e pazzie germaniche e slave, interessanti e anche belle forse nella loro patria, ma non nella nostra, che ama la proporzione, la misura, la correttezza della linea e, sorridendo e magari plaudendo agli sforzi degli acrobati e dei contorsionisti, li tiene però sempre nel loro giusto valore. Cinque sono i personaggi della Via della finestra, e tre di essi, la suocera, il marchese zio e la serva Giovanna sono comici. Ai due personaggi principali, i due sposini, è invece affidata una parte quasi sempre sentimentale e passionale. E questa è, nell'opera, la parte prevalente. L'orchestra sottolinea con gustosi commenti l'entrata e l'azione dei personaggi comici: e la suocera, si capisce, è da essa la più accarezzata. Gli istrumentini sorridono, i bassi borbottano; colpi secchi, rudi, suoni cupi l'accompagnano e la seguono nelle esplosioni più fiere del suo malumore: la caricatura è qui più profonda che sulla scena, ma la sua arguzia vivissima è fatta sempre di garbo e di grazia. Quando però compaiono i due sposi innamorati, il loro cuore trova nella musica accenti di dolcezza, di passione, di dolore, che ci fanno immancabilmente ricordare lo Zandonai della Francesca. Ed è essa certo una scena bellissima destinata ad ottenere il maggiore effetto presso il pubblico, che ama le cose dolci e delicate, intinte di un leggero sapore romantico. Gabriella e Giovanna entrano portando la scala, e la precede un mormorio soave dell'orchestra, un ricamo leggiadro intessuto su un motivo di bell'effetto, che si va poi facendo più intenso. L'invocazione di Gabriella, giunta sul balcone, è calda e fremente d'amore e percorsa, nel canto e nell'orchestra, da lunghe onde di melodia, e il duettino tra i due sposi riconciliati chiude l'atto in un sospiro di abbandono, come una carezza freschissima. Altri pezzi notevoli dello stesso genere sono, nel primo atto: il brano del tenore: O primavera del nostro amore, dolce e tenue al suo inizio e poi agitato e tumultuoso verso la fine; un'aria, pure del tenore, al secondo atto: Ma vorrà ritornare la mia compagna buona, e il pezzo per soprano, pure nel secondo atto: Forse quello che faccio è molto male, sapientemente svolto e sostenuto: una magnifica pagina dove canto ed orchestra, fusi insieme mirabilmente, esprimono la forza di un'anima fortemente vibrante. Tra i pezzi comici, simpaticissimo per gaiezza e freschezza il terzetto femminile del primo atto, e tra i quadri di ambiente, dipinti, come già ho rilevato, con tanto amore, anzitutto la partenza per la caccia del secondo atto. Il preludietto dell'ultimo atto, ricamato su motivi popolari, ci offre un'altra pagina descrittiva, di gusto decorativo, molto efficace. L’interpretazione L'esecuzione della Via della finestra è stata veramente splendida. Gli interpreti sono di prim'ordine. La Caracciolo, grande artista, ha un temperamento drammatico straordinario e mezzi vocali magnifici. Il tenore Ciniselli ha voce dolce, limpida, benissimo educata; il baritono Babini [sic] è insuperabile per il canto e l'azione, la voce forte, calda e sicura, l'interpretazione brillantissima; la Casazza, nella parte della suocera, è di un'efficacia grandissima per la voce forte, chiarissima, l'accentuazione mirabile, l'azione bellissima, argutissima; l’Arezza [sic] merita pure i maggiori elogi per la valentia con cui interpreta la parte di Giovanna. Lodevolissimi pure il Cilla, il falciatore, e il Baracchi, stornellatore. Il maestro Edoardo Vitale ha un'orchestra composta di ottimi elementi e ne ricava effetti splendidi di fusione e di dettaglio. Il coro va pure benissimo sotto la guida del maestro Veneziani. Il pubblico, distintissimo e foltissimo, tra cui erano parecchi artisti e giornalisti illustri, ha tributato all’opera un vero trionfo, applaudendo frequentemente e chiamando spessissime volte alla ribalta il maestro Zandonai insieme al maestro Vitale ed ai principali interpreti dell'opera. 356 Virgilio Mortari, Le novità alla “Scala”, «L'Italia letteraria» II/4, 26.1.1930 - p. 5, col. 1-2-3-4-5 3.2.1/59 Fra i numerosissimi vaudevilles di Scribe ce n'era uno, Una femme qui se jette par la fenêtre, del quale ormai nessuno sapeva l’esistenza. Era una di quelle cose che il tempo, non sempre giusto ma assai raramente ingiusto, aveva voluto seppellita sotto un bel palmo di polvere. Si vede proprio che la ricerca di un argomento per una commedia musicale deve essere apparsa ben difficile e faticosa a Riccardo Zandonai e a Giuseppe Adami perché si rassegnassero al non gradito compito di disseppellire i cadaveri e di tentare con la... respirazione artificiale di dare un soffio di vita al sopra nominato vaudeville di Scribe. Eppure il teatro italiano e straniero è ricchissimo di belle commedie, e Zandonai, con quell'istinto che lo fa la maggiore stella del corrente teatro lirico moderno italiano, avrebbe potuto certamente scegliere un soggetto un po' più nutrito e sugoso ed anche più adatto alla propria natura dello sbiadito vaudeville francese6. * Baruffa in famiglia. Gabriella, un'adorabile mogliettina novella, gelosissima, “spalleggiata” dalla Marchesa Madre, tipo classico di suocera, vuole impedire al proprio marito, Renato, di andare ad una festa. Arriva lo zio Marchese, che si fa consigliere del giovane sposo. Gabriella ha trovato il modo di raggiungere il suo scopo e finge un suicidio gettandosi dalla finestra... sopra un comodo carro di fieno, che sapeva sottostante. Questo il primo atto. Nel secondo atto Gabriella vuole la pace ed accetta come condizione di ritornare al tetto coniugale per la stessa via per la quale se n'era uscita, la via della finestra. Di notte tempo s’arrampica sopra una scala a pioli e raggiunge il marito, che l’aspetta trepidante. la suocera è furente. «Mia figlia e suo marito!». Ma Gabriella e Renato sono felici. Notte di primavera, alberi, fiori, stelle, e una parole: Amore. E la commedia è già finita. È facile pensare come queste piccole vicende coniugali non potessero offrire ad un librettista la possibilità di combinare molte e svariate situazioni. Infatti Giuseppe Adami non ha avuto modo qui di sbrigliare la sua fantasia e per lo sviluppo del tenue argomento si è limitato ad aggiungere non molto di più di qualche convenzionale effetto di teatro, come i canti interni del primo atto ed una scenetta di caccia nel secondo. Ci sono delle cose molto simpatiche e piacevoli nel libretto, come per esempio nel primo atto il terzetto fra la Marchesa Madre, Gabriella e Giovanna, la cameriera, che ha una graziosissima parte, ma non sono certo tali da dare un rilievo ed un carattere alla commedia. Della povertà dell'azione devono essersi accorti anche gli autori quando, dopo la prima rappresentazione di Pesaro, pensarono di ridurre in due atti l'opera, che originariamente era in tre... ma neanche nell'odierna versione la vicenda appare molto interessante. * L’attenzione dunque con la quale si segue tutta l'opera è quasi unicamente dovuta ai pregi della musica, che Zandonai ha voluto ricca di immagini e di fresca ispirazione. L'autore della «Francesca da Rimini» ha trovato la propria personalità in espressioni di dolce e soave abbandono e qualche volta di vibrante passione, perciò la tragedia dannunziana era quanto di meglio si potesse adattare alla sua natura. Nella «Via della finestra» ci sono tutti i segni di tale personalità, che avvolgono di idilliaca e profumata poesia gli episodi lirici e pagine di soave intimità, come la nostalgica romanza di Renato nel primo atto: «O primavera del nostro amore» o quella di Gabriella nel secondo: «Forse quello che faccio è molto male» o il bellissimo “canto del fienatore”. Però il riflesso della più fortunata opera di questo autore vi è troppo evidente perché non possa apparire vivace il contrasto fra l'azione e la musica, la quale per una “commedia giocosa” non 6 Come è noto attraverso le biografie zandonaiane, il musicista aveva inteso la sua scelta del soggetto come omaggio particolare alla ‘nonna’ Candida Kalchsmidt, alla quale l'opera è dedicata. 3.2.1/60 poteva essere pensata sulla stessa strada di una tragedia. Non tradire la personalità, ma cercare della personalità un'altra espressione. Ogni più piccola sfumatura sentimentale è sempre considerata con troppa importanza e questa interpretazione tendenzialmente lirica del libretto fa in modo che la parte brillante della commedia passi in un secondo piano e il lato comico vi sia assai scarso e non certo di quella sana e limpida allegria e di quello sfrenato ed irresistibile buon umore che la grande tradizione dell'opera comica italiana ci dice esistere nel nostro sangue, nella nostra razza soleggiata e mediterranea. Tuttavia in qualche momento e specialmente ad ogni entrata della Marchesa Madre, la sola figura musicalmente ben definita e caratterizzata, fa capolino un senso caricaturale di buon gusto, che riesce assai gradito e che fa apparire meglio realizzata l'unità fra parola e musica. Anche qui come sempre l'orchestrazione di Zandonai è efficace e ricca di colore. La materia musicale è affidata agli istrumenti con mano esperta e sicura ed in modo che ne esce sempre in un notevole rilievo. Assai lodevole è stata l'esecuzione, curata e diretta con grande amore dal maestro Ferruccio Calusio, un nuovo “acquisto” della Scala, che fa onore a chi l'ha voluto sul podio del nostro massimo teatro. L'equilibrio fra cantanti e orchestra è stato perfetto. Chiare e delineate sono apparse le varie situazioni sonore a volte delicatissime a volte baldanzose e caricaturali. È stata un’escuzione scorrevole e sicura. La commedia in palcoscenico è stata “giocata” con brio e con disinvoltura. Mafalda Favero nella parte di Gabriella ha messo in bell’evidenza la sua voce fresca e ricca di dolcissimi accenti e la sua notevole intelligenza musicale. Elvira Casazza è stata una suocera di irresistibile comicità. La sua voce duttile e robusta ha saputo mirabilmente adattarsi al personaggio. Iris Adami Corradetti ha cantato con grazia ed ha sostenuto con garbata civetteria la parte di Giovanna. La figura di Renato non è apparsa invece nel suo giusto rilievo, perché il tenore Ciniselli, anche per la natura del suo fisico, era molto impacciato e non certo il marito da far ingelosire una sì amabile sposina. Di lui sono state ammirate però eccellenti qualità vocali. Uno Zio Marchese un po' freddo ma distinto e composto e dalla voce gradevole è stato il baritono Weinberg. La piccola parte del coro è stata assai bene eseguita e di ciò va fatta lode al maestro Veneziani. Molto comuni, ma decorose e di buon effetto le scene dipinte dal Santoni. Il teatro era affollato ed elegante. Il successo è stato senza contrasti, ma non entusiastico. In tutto sette chiamate, qualcuna delle quali abbastanza calorosa. [...] 357 Gino Scaglia, La “Via della finestra” di Zandonai al Garibaldi di Palermo, «Il Giornale d'Italia», 5.12.1942 PALERMO, 4 - Vivo successo ha avuto ieri sera al Politeama Garibaldi La via della finestra di Riccardo Zandonai, nuova per Palermo. Una “novità” già... maggiorenne, perché l'atto di nascita della La via della finestra risale al luglio del 1919. L'opera, concepita e realizzata dopo la Francesca da Rimini e prima della Giulietta e Romeo, [fu] rappresentata per la prima volta a Pesaro. L'inverno successivo fece la sua prima apparizione su importanti ribalte italiane ed estere. Noi avemmo occasione di assistere al fervido successo della prima rappresentazione romana, al “Costanzi”, in febbraio del 1920, sotto la direzione di Edoardo Vitale, protagonista Juanita Caracciolo. Sentimmo subito per La via della finestra la più viva simpatia, mantenutasi intatta col volgere degli anni. Le successive manifestazioni dell'attività creatrice di Zandonai (Giulietta, I Cavalieri di Ekebù, Giuliano, La farsa amorosa) hanno naturalmente accresciuto la nostra alta estimazione per il fecondo musicista, senza però sottrarre alla Via della finestra un sol briciolo della nostra iniziale simpatia. Un'opera senza cadaveri in scena, dove i personaggi cantano con semplicità e sincerità, sia che sorridano sia che si disperino con moderazione proporzionata alla lieve entità dei loro affanni, 3.2.1/61 può ben piacere, dilettare e lasciar traccia profonda nel ricordo dell'ascoltatore al pari di drammi musicali di maggior mole e responsabilità. È nei nostri riguardi il caso della Via della finestra: e noi non sapremmo oggi dissimulare il nostro contento per l’[ ] nuovo incontro con questa soavissima creatura zandonaiana. *** L’opera nacque in tre atti. Qualche anno dopo la prima rappresentazione musicista e librettista pensarono che lo sviluppo in tre atti di una vicenda assai semplice fosse eccessivo: e così La via della finestra fu contratta in due atti, sopprimendo dal libretto e dalla partitura tutto quanto gli autori giudicarono non propizio a tener costantemente desta l’attenzione dell’uditorio. La nuova edizione in due atti, dal 19257 in poi, ha confermato, intensificandolo, il successo della precedente. *** Meglio che giocosa, l’opera potrebbe definirsi comico-sentimentale se non addirittura romantico-sentimentale. Così infatti l’ha “sentita” il musicista, perché situazioni da “opera giocosa”, alla maniera sette-ottocentesca, il libretto non presenta. Non mancano nella partitura pagine vivaci, con sprazzi d’una arguzia misurata e signorile, ma sono le effusioni liriche degli sposi innamorati che prevalgono e determinano il carattere dell’opera. Per bocca di Gabriella e di Renato, Zandonai canta con sincero abbandono, con ampio respiro, spesso con il sorriso sulle labbra, ma talvolta anche con gli occhi umidi di mal repressa commozione... Il finale della Via della finestra è da annoverarsi fra le cose più fresche e belle di tutta la produzione di Zandonai. Alla tenue trama d’amore fa da sfondo la lussureggiante campagna agreste con intuito assai felice; lo stornello «odor di fieno...» è una gemma di questo spartito, i cui pregi di fattura – per altro – non sono inferiori alla schiettezza dell’ispirazione: né era da attendersi meno, anche un quarto di secolo indietro, da un maestro che aveva già dato al teatro lirico una Conchita ed una Francesca. Tenendosi lontano da struggenti passioni, da clangori di battaglie e da gesti disperati, Riccardo Zandonai creò con La via della finestra un’opera vitale e di sicuro pregio, sgorgata con sincerità dal suo cuore di artista italianissimo. Il pubblico di Palermo l’ha accolta col vivo consenso che ha sempre caratterizzato i successi delle opere di Zandonai nella nostra città. L’esecuzione era affidata nelle parti principali ad Ines Alfani Tellini (Gabriella), Gustavo Gallo (Renato), Giuseppina Sani (la Marchesa suocera), Leo Picciòli (il Marchese zio). 7 In realtà dal 1923. 3.2.1/62 Giulietta e Romeo 358 La prima di “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Politeama di Lecce, «Il Giornale d’Italia», 27.4.1929 - p. 4 LECCE, 25 aprile. Iersera il pubblico leccese è stato chiamato a dare il suo battesimo all’opera Giulietta e Romeo del maestro Zandonai. Pubblico delle grandi occasioni: se non numerosissimo, era però il più intellettuale e quindi il più preparato ed il più degno per un battesimo d’arte. Quando il maestro Zandonai sale sul podio una grande acclamazione lo accoglie: acclamazione significativa che era insieme di saluto all’illustre Maestro, già conosciuto due anni or sono dal nostro pubblico per il grato ricordo della sua Francesca da Rimini, e di propiziazione per la nuova fatica dell’autore. Non parleremo del bel libretto del Rossato, in tutto degnissimo della musica di cui è stato rivestito. La musica sin dalle prime note ha conquiso il pubblico, propiziandosene l’attenzione che è stata desta fino alla fine dell’opera. Il pubblico si è trovato dinanzi ad una nobile concezione musicale che, guardata da qualunque punto di vista, si impone per la sua fresca originalità, in cui vi sono fusi magistralmente elementi lirici e drammatici, e se qua e là affiorano delle espressioni di puro cerebralismo – come, per esempio, nei duetti che per la loro struttura ricordano un po’ il carattere Wagneriano –, tutta l’opera è informata alla tradizione melodrammatica schiettamente e nobilmente italiana. Opera bella, dunque, in cui il canto è fuso con l’orchestra, senza che questa prenda il sopravvento su quello, in mirabile armonico equilibrio. Bellissimi i cori, specialmente quelli interni. Sottolineata da approvazioni per la fresca ondata melodica è stata la fine del primo atto. L’entusiasmo del pubblico è arrivato al culmine quando l’orchestra ha intonato quella miracolosa pagina descrittiva – fulgida gemma dell’opera – della “Cavalcata” del terzo atto. Queste, in rapidissima sintesi, le impressioni suscitate dalla prima audizione dell’opera. I suoi pregi rifulgeranno certamente nelle successive, quando la mente potrà fermarsi con più pacatezza sui particolari. L’esecuzione è stata mirifica. L’orchestra, animata da sì vibrante bacchetta, si è fusa col palcoscenico in mirabile, perfetto equilibrio e l’appassionata vicenda Zandonaiana è stata vissuta dai protagonisti in un’atmosfera di reciproco superamento. Elena Barrigar è stata una “Giulietta” appassionata e dolce che ha espresso il pathos del personaggio con calore e con efficacia veramente singolari. Il tenore De Bernardi ha superato la difficile parte di “Romeo” con impegno ammirevole. Il baritono Togliani è stato un possente interprete della parte di “Tebaldo”. Voce poderosa, gradevole, educatissima, che non si abbandona ai lenocini; gesto sobrio eppur vibrante. Il pubblico lo ha particolarmente sottolineato con le sue approvazioni e con applausi. Un “Cantatore” appassionato e dolce, che conosce tutte le vie per arrivare al cuore, è stato il tenore Mattioli con quella sua voce simpatica e con quel suo gesto perfettamente intonato. Benissimo i cori. Messa in scena decorosissima: va data lode al marchese Romanazzi che nulla ha lesinato perché scenografie e vestiti siano degnissimi dello spettacolo. La cronaca della serata è stata lietissima. Festose, come abbiamo detto, sono state le accoglienze tributate al maestro Zandonai sin dal primo apparire sul podio. 3.2.1/63 Il pubblico ha evocato più volte gli interpreti e l’autore alla fine di ogni atto, ed una acclamazione vibrante, multanime, entusiastica ha accolto la fine della “Cavalcata” del terzo atto, che il Zandonai ha dovuto far ripetere dall’orchestra. La fine dell’opera è stata salutata da applausi fragorosi. 359 “Giulietta e Romeo” di Zandonai ottiene incondizionato successo, «Il Lavoro fascista», 27.4.19418 BERLINO, 26 (notte) La penultima serata di questa felicissima stagione lirica offerta ai berlinesi dal complesso romano ha visto l’incondizionato successo dello spartito di Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai. L’attesa per questo spettacolo era tanto più viva in quanto il melodramma dello Zandonai rappresentava una primizia assoluta per Berlino, essendo apparso per la prima volta sulle scene tedesche. Il foltissimo uditorio che anche stasera occupava letteralmente ogni ordine di posti al “Deutsche Opernhaus” ha assistito allo spettacolo dimostrando una partecipazione così intensa come è raro riscontrare. Fra i bis richiesti con tenace insistenza ci fu naturalmente quello brillantissimo che è la “Cavalcata” nel finale del terzo quadro in cui il motivo conduttore raggiunge attraverso la magistrale elaborazione polifonica un’altissima potenza suggestiva preparando l’atmosfera sconsolata dell’ultima scena. La direzione d’orchestra affidata alla bacchetta di Vincenzo Bellezza ha contribuito ad innalzare al suo massimo valore la musica di Zandonai. Di Giulietta e Romeo sono stati interpreti applauditissimi Magda Olivero e Alessandro Ziliani. Con la sua voce bellissima e limpida la celebre artista ha trascinato il pubblico al più alto entusiasmo; accanto a lei il tenore Ziliani dal timbro solido, dalla dizione schietta e dalla scena sicura, ha offerto una della sue più efficaci interpretazioni. Bravissimo il baritono Borgonovo (Tebaldo). Molto applaudita Maria Huder (Isabella) e Francesco Albanese (Il Cantastorie). Ottimi pure tutti gli altri. I cori, diretti dal Maestro Giuseppe Conca, sono riusciti particolarmente suggestivi. Molto ammirata la regìa di Guido Salvini. Bene ambientati all’epoca e alla vicenda le scene ed i costumi disegnati da Cipriano Efisio Oppo. Apprezzatissima l’organizzazione tecnica ed il suggestivo effetto di luce, fatica particolare di Pericle Ansaldo. A tutto il nostro complesso artistico l’Ambasciatore Alfieri ha voluto offrire nel salone della Deutsche Opernhaus un rinfresco al quale sono intervenute anche alte personalità italiane e tedesche e rappresentanti della stampa dei due Paesi. Il Governatore dell’Urbe ha detto parole di elogio per il successo riportato dagli artisti in questa breve stagione berlinese, e di ringraziamento per le calorose accoglienze ricevute. Anche l’Ambasciatore Alfieri ha espresso il suo vivo compiacimento ai valorosi rappresentanti dell’arte italiana in Germania. 8 Lo stesso articolo, con solo qualche leggera modifica, è pubblicato sul «Messaggero» del 27.4.1941, p. 3, con il titolo redazionale «Giulietta e Romeo» di Riccardo Zandonai riporta un trionfale successo. 3.2.1/64 I cavalieri di Ekebù 360 M[atteo] Incagliati, “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai alla Scala - Il successo della prova generale, «Il Giornale d’Italia», 7.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con quattro immagini dell’allestimento: Atto I, Atto IV, Atto III parte I, Atto III parte II) Dal nostro inviato speciale Milano, 6 marzo. Ieri sera, alla Scala, dinanzi ad un folto pubblico di invitati e presenti i critici musicali dei quotidiani milanesi e degl’inviati speciali dei principali giornali di Roma, Torino e Bologna, si è svolta la prova generale della nuova opera di Riccardo Zandonai, I cavalieri di Ekebù, su libretto di Arturo Rossato. Quest’opera, com’è noto, a pochi giorni dopo la première alla Scala, verrà posta in iscena al Costanzi. Il che – e cioè la duplice e quasi simultanea rappresentazione di questa nuova opera – attesta senza dubbio del grado di rinomanza e della popolarità cui è pervenuto il geniale autore della Francesca da Rimini e della Giulietta e Romeo. E n’è prova anche la fervida attesa che si manifesta in questa eccezionale vigilia d’arte. Negli ambienti musicali non si parla d’altro. La Scala ed I cavalieri di Ekebù sono all’ordine del giorno della vita milanese, sicché par quasi che tutti gli altri... temi, musicali o non, siano stati posti a tacere. La prova generale dei Cavalieri , dunque, ha assunto iersera una notevole importanza. Lo spettacolo è stato concertato da Arturo Toscanini che ha diretto con foga e maestria. Le parti principali sono affidate alla Fanelli, alla Casazza, al tenore Lo Giudice e al baritono Franci. Il successo Il primo atto dura precisamente 38 minuti; il secondo 36; il terzo è diviso in due parti: la prima dura 21 minuti e la seconda venti; l’ultimo atto 25 minuti. Quest’opera rivelerà, rispetto alle precedenti, un Zandonai rinnovato. L’opera è di quelle che non potranno non essere ammirate ed acclamate per la ricchezza delle idee melodiche, per la freschezza dell’ispirazione. Ognuno dei cinque quadri ha una musica rispondente all’ambiente. Il secondo atto, atto col teatrino sulla scena, è riuscito a meraviglia nonostante l’ardimento della situazione teatrale. Il finale dell’opera è di una potenza straordinaria, ma non è possibile dire di più. L’attesa per questa première si fa d’ora in ora più intensa. Il teatro è già tutto venduto, nonostante che l’ingresso sia di lire 30 e una poltrona costi 220 lire, una poltroncina 158; s’intende senza considerare l’ingresso. Riccardo Zandonai ha assistito alla prova con la consueta sua serenità. Quella serenità che non smarrì mai, neppure quando tentò le aspre vie del teatro, umilmente, con l’anima sì milionaria, milionaria di sogni e di chimere, né più né meno come Rodolfo della Bohème pucciniana, ma senza possedere, ahimè, neppure un soldo in tasca. Ricordi non molto lontani. Volontà ferrea e tenace, in tre soli anni esaurisce il novennale corso degli studi. Il primo suo saggio – Il ritorno di Odisseo, di Giovanni Pascoli, un ispirato poema sinfonico per soli coro e orchestra – è come l’augurale viatico per la fortuna artistica che doveva sorridergli poi. Adesso, a quarantadue anni, Zandonai può ben dire di averla tutta conquistata, la fortuna. E non è inopportuno oggi rievocare la rapida ascesa verso la cima cui egli è pervenuto. Boito e Zandonai Arrigo Boito, col suo squisito intuito, come già fece per Puccini, stese una mano protettrice al giovane musicista, in un’ora in cui lo sconforto e le pene straziavano la sensibile anima dell’artista. 3.2.1/65 Volle il caso che Zandonai riuscisse a fare sentire ad Arrigo Boito una melodia per canto e pianoforte. E l’autore del Nerone ne rimase così gradevolmente impressionato che, stringendo la mano al giovane e allora sconosciuto musicista, gli disse: -Voi avete molto ingegno, e dovete fare la vostra strada. -È quello che penso anch’io – rispose Zandonai – ma la strada è difficile così, senza aiuti. Il giorno dopo di... quest’incontro fortunato, Zandonai è presentato a Giulio Ricordi, il quale, senz’altro, lo esorta a scrivere un’opera. E con una rapidità veramente prodigiosa Zandonai compone la sua prima opera, Il grillo del focolare, eseguita per la prima volta a Torino, all’inaugurazione del teatro Chiarella. Il dado è tratto. Segue la seconda opera: Conchita, il cui libretto fu tratto da La femme et le pantin di Pierre Loys [sic], e a malgrado il soggetto arduo e sovratutto insidioso per il ricordo della Carmen, Zandonai vince la prova. Temperamento versatile e agile, la sua terza opera, Melenis, è piena di concitata drammaticità e a forti rilievi, una superba e felice riproduzione dell’ambiente riflettente la decadenza della Roma imperiale. Ma ecco la Francesca da Rimini, sulla tragedia di Gabriele d’Annunzio; ecco l’opera che reca in sé le stigmate della più schietta genialità, un capolavoro. la individualità di Zandonai è ormai delineata. Balza poi dalla fantasia del musicista, così come un sorriso, una commedia lirica: La via della finestra. Ma il sorriso, la giocondità presto si smorza sulle labbra e in fondo all’anima, e il suo temperamento è attratto di nuovo da un altro soggetto tragico, ed egli musica quella Giulietta e Romeo che ormai ha conquistato tutti i pubblici dei grandi teatri d’Italia e dell’estero. Settima opera Con I cavalieri di Ekebù Riccardo Zandonai è dunque alla sua settima opera, e con quali partiture! Quale aspetto nuovo della genialità dell’artista essa manifesti, non è possibile dire in questa vigilia. Certo è che il pubblico sarà attratto dalla nuova opera per la ispirazione felice e per lo spirito teatrale che anima tutta la partitura. Il Maestro, a chi l’interrogava in questi giorni durante i quali ha presenziato le prove della sua nuova opera alla Scala, così si esprimeva: -La musica non può e non deve mai abbandonare quella ch’è la sua umile ma grande origine: il sentimento. A furia di adoperarla per decorazioni, di attribuirle facoltà descrittive, di chiamarla a sottigliezze psicologiche, di arrischia di farle perdere la favella. L’alchimia armonica è la trattazione matematica del cervello, l’alterazione della disposizione dei lobi, per dirla in termini anatomici, e certe operazioni possono dare per risultato il balbettio quando non danno la pazzia. Per questa considerazione sovratutto Zandonai ha prescelto per soggetto alla sua nuova opera I cavalieri di Ekebù, in cui i personaggi sono mossi, agitati, sconvolti da una sensibilità piena di umanità. È un’opera, insomma, di teatro, questa che domani sera avrà il battesimo del pubblico alla Scala e che fra qualche settimana sarà presentata al pubblico del Costanzi. Non vieto e sterile sinfonismo, dunque, non alchimie, non formule algebriche, non logaritmi, non allocuzioni armoniche, tanto, com’è costumanza nei Narseti dell’opera, per fare del contrabbando in mancanza d’ispirazione, nell’illusione vana che il pubblico non abbia modo di trasformarsi in... doganiere. Sicché, vale la pena di riprodurre ciò che fu scritto qualche giorno fa sul carattere distintivo dei Cavalieri di Ekebù, in seguito a un colloquio avuto col Maestro: «Con un’ossatura prettamente drammatica, Zandonai dice di aver voluto dare alla sua nuova opera una significazione di teatro vivo, dinamico, che sovrasti alle stasi liriche ed alle amplificazioni puramente sonore del cantabile. Non ci saranno soste di intermezzi, perorazioni 3.2.1/66 orchestrali, lunghi duetti d’amore. Ci sarà sopra tutto del teatro. Lo strumentale sarà più leggero che nelle opere precedenti: la foresta orchestrale – che ramifica così impetuosa in certi atteggiamenti moderni, e scavalca la ribalta paralizzando con la sua fioritura i cantanti – è stata diradata.È un concetto di semplificazione che l’attuale indirizzo rende urgente. Non per nulla lo stesso Strawinski ha scritto recentemente una partitura per dodici strumenti e Strauss sogna lo stile mozartiano. Nessun folklore scandinavo. Zandonai non l’ha voluto. I canti popolari della Norvegia [?] sono, d’altra parte, poveri e sbiaditi. Le loro caratteristiche sono debolissime. Grieg, a torto ritenuto un folklorista, è stato un inventore schietto e genialissimo. Forse più verso di lui che verso i canti della nordica terra ha dovuto attenersi Zandonai per creare quell’atmosfera che erroneamente molti identificano con Grieg». Vecchia terra d’Ekebù, chi seduce le tue spose, rubiconde primavere dalla bocca imporporata? La Canzon del Cavaliere sempre gaia e disperata: Heissan! Heissan! La vecchia terra d’Ekebù avrà da sabato sera, dunque, con la musica di Riccardo Zandonai, la sua opera, così come la Spagna l’ebbe con Bizet. Il vecchio secolare tronco del melodramma italiano rinnova così i suoi verdi rami. E vi s’innesta giovinzezza d’arte e di vita. 361 Il successo dei “Cavalieri di Ekebù” di Zandonai alla “Scala”, «Il Messaggero», 8.3.1925 - p. 4, col. 2-3 (con ritratto fotografico di Zandonai) MILANO, 7 Un pubblico eletto ed enorme gremiva ieri sera la “Scala” per la prima rappresentazione della nuovissima opera di Riccardo Zandonai I cavalieri di Ekebù. Nella impressione generale appare, fin dal primo atto, l’opera della maturità artistica, l’opera in cui l’esperienza del teatro ed i progressi della tecnica più avanzata trovarono uno stato di equilibrio con le non mai rinnegate tradizioni del canto italiano. Cosicché questi Cavalieri, ricchi di melodia, di bei declamati e di squarci orchestrali sempre smaglianti, intensi di espressione sentimentale come di colori descrittivi, semplici, chiarissimi, d’immediata percezione pur nella struttura oltremodo complessa, mentre conquistano il gran pubblico teatrale interessano ed attraggono anche gli uditori evoluti e raffinati. Il libretto che Arturo Rossato ha tratto dalla nota saga svedese di Selma Lagerlöf riuscendo a dare unità scenica ai molti episodi, ha offerto a Zandonai varietà grande di situazioni nuove, di personaggi strani, di ambienti caratteristici. L’attenzione del pubblico alla rappresentazione è stata continua e crescente. Nel primo atto il musicista trasporta subito nell’atmosfera nordica, così triste nel silenzio del paesaggio nevoso, in cui si delinea il pathos di tutto il dramma. Notevoli le prime scene e quella tra Giosta e Sintram, la figura satanica vividamente plasmata; piacevole il coretto delle fanciulle che si recano al Castello d’Ekebù, ispirato ad una dolce cantilena e sottolineato da un grazioso effetto di carillon. L’atto riceve il suo massimo rilievo dai racconti di Giosta e della Comandante: il primo di carattere lirico, cantabile, il secondo drammatico declamato. La canzone finale dei Cavalieri è giocosa e ben ritmata, secondo il gusto dei cori popolari nordici. 3.2.1/67 Nel secondo atto l’interesse, tenuto vivo dal giuramento di Giosta e dalla presentazione dei cavalieri a lui, si riconcentra nella scena del teatrino, in cui il grottesco si unisce al più acceso lirismo. Il terzo presenta due quadri. Il primo, quello della fucina nella notte di Natale, è di grande effetto teatrale e musicalmente ricco di colori strani e di originali trovate strumentali. Il secondo cede il posto al sentimento amoroso di Giosta ed Anna. Il quarto atto, di natura essenzialmente corale, assume una linea grandiosa. La morte della Comandante suscita una profonda commozione. Si riprende il lavoro nella fucina e il maglio tonfa, le incudini battono e i cavalieri intonano in tragico contrasto la loro canzone che si fonde con un corale quasi religioso della folla. La cronaca della serata Quei pochi privilegiati, che il maestro Toscanini tollera e ormai quasi ignora, che furono ammessi alla prova generale in fondo alla sala tenuta permanentemente nella più completa oscurità, e che avevano avuto l’occasione di potersi come nascondere fra le ultime file delle sedie, avevano giudicato la nuova opera dello Zandonai degna del maggior successo. Questo giudizio di pochi è stato ieri solennemente e calorosamente confermato dal grande pubblico della Scala, composto di elementi disparatissimi ma tutti abitualmente severi: alcuni per competenza e nobile tradizione, altri per rigoroso spirito di critica ed altri... per imitazione. Questa folla di intellettuali, di artisti, di critici, di gran signori e di grandi dame che incute soggezione a chiunque si presenti al suo giudizio, ha fatto ieri sera le più festose accoglienze al maestro Zandonai, al librettista Arturo Rossato, al maestro Toscanini che ha diretto con la sua abituale maestria, agli artisti tutti perfettamente affiatati, dei quali alcuni come il tenore Lo Giudice si producevano per la prima volta dinanzi al pubblico della Scala. Il primo atto è stato seguito con grande attenzione dal pubblico che ha avuto subito la sensazione di trovarsi dinanzi ad un nuovo Zandonai; alla fine, quando il coro dei cavalieri lancia il suo canto di spensierata allegrezza, il pubblico scatta in un primo caloroso e insistente applauso. Calato il sipario Zandonai, Rossato, gli artisti e il maestro Toscanini sono chiamati quattro volte alla ribalta. Al secondo atto il pubblico è già dominato dal fascino del dramma e, a scena aperta, il coro dei cavalieri riscuote nuove acclamazioni. Ottima la presentazione dei cavalieri fatta da Cristiano (baritono Franci); il duetto, con un coro che si svolge nelle scene del teatrino del castello di Ekebù, è stato di grande effetto e alla fine dell’atto si hanno sei entusiastiche chiamate. Il primo quadro del terzo atto ha avuto due chiamate ed alla fine del secondo quadro, che chiude il terzo atto, si registrano cinque chiamate. Il principio del quarto atto si segnala alla attenzione del pubblico col coro della folla imprecante, coro nel quale Zandonai ha ottenuto effetti assai suggestivi. Il pubblico vorrebbe scattare in un applauso come avrebbe voluto fare precedentemente per sottolineare altri squisiti brani, ma l’autore non ha voluto servirsi della piccola malizia e non dà tempo al pubblico di soffermarsi per l’applauso perché le nuove azioni e i nuovi motivi si presentano, immediatamente, senza pause. Il finale dell’opera, nel quale Zandonai ha accenti grandiosi, riscuote generali acclamazioni e il lavoro si chiude con sei chiamate, consacrando così il successo che il maestro Zandonai ha saputo conquistarsi e nel quale ha avuto ottimo collaboratore Arturo Rossato. magnifico il Franci che si è fortemente imposto; buono il tenore Lo Giudice, che era però visibilmente impressionato; eccellente il baritono Autori; lodevolissima la Fanelli e la Casazza. Ottimi i cori, meravigliosa l’orchestra sotto la geniale bacchetta di Toscanini. Le scene dipinte dal Grandi e il movimento scenico disciplinato dal Forzano sono stati inappuntabili. L’opera è destinata a molte repliche. 362 3.2.1/68 M[atteo] Incagliati, Il grande successo dei “Cavalieri di Ekebù” a Milano, «Il Giornale d’Italia», 10.3.1925 - p. 1, col. 4-5-6 / p. 2, col. 1-2-3-4-5 (con un ritratto di Zandonai e caricature di Toscanini, del soprano Fanelli, del mezzosoprano Casazza, del baritono Franci e del basso Autori) (Dal nostro inviato speciale) Milano, 9 marzo. Riccardo Zandonai ha ottenuto iersera alla “Scala” – il cui aspetto era meraviglioso, gremito in ogni ordine di posti, una sala magnifica, sfolgorante – la cittadinanza del massimo teatro ambrosiano, dopo averla conseguita su le maggiori scene italiane e straniere. Importa, dunque, constatare subito che il successo più schietto ha arriso ai Cavalieri di Ekebù: un successo pieno, unanime, mantenutosi sempre allo stesso tono, senza attenuarsi mai, e culminando alla fine dello spettacolo nella forma entusiastica dell’ovazione. All’apparire di Riccardo Zandonai alla ribalta a fine d’ogni atto, gli applausi e le acclamazioni s’infervoravano a tal segno che pareva a buon conto che questo nostro vecchio melodramma, che altrove agonizza, non ha ancora esaurito la sua missione e che qualche nuova parola ha pur modo di esprimere e di fermare in tratti suggestivi e non superficiali, di là da ogni accademismo e da ogni inutile esercitazione stilistica. Il dramma e la musica Il libretto dei Cavalieri, che Arturo Rossato ha tratto con un’abilità ingegnosa dal romanzo svedese La leggenda di Gosta [sic] Berling e che è architettato e “tagliato” artisticamente con versi di nobile fattura, è diviso, some è noto, in quattro atti e cinque quadri. Atto I: la vecchia terra d’Ekebù Come nelle precedenti opere, così nei Cavalieri di Ekebù Riccardo Zandonai delinea musicalmente l’ambiente, creandone il colore con pennellate magistrali di immediata suggestività. È l’ultima ora del crepuscolo in un cielo grigio e su un silente paesaggio bianco di neve. Da un lato l’interno di un’osteria, in cui una donna siede al focolare; il resto della scena rappresenta uno spiazzo solcato da un sentiero che scende verso la vallata e poi riprende a salire verso il massiccio castello di Ekebù. L’orchestra comincia con un ritmo nei bassi lento, eguale e cupo, tratto tratto intercalato da un tema di due note che ritorna insistente e si alterna con la melodia della notte di Natale, grave, quasi religiosa. Giosta viene su dal sentiero e si appoggia agli abeti, canterellando come un ubriaco. Il commento orchestrale procede su un movimento ritmico, agile ma lugubre, cui seguono due temi ugualmente agili, incisivi e pervasi di drammaticità. Quando egli chiede imperiosamente dell’acquavite all’ostessa, i temi suaccennati si sviluppano, s’intrecciano per dar luogo a nuovi movimenti ritmici fino a che dall’orchestra si snoda il canto vocalizzato da Giosta alla sua uscita. L’orchestra a mano a mano si placa e quindi fraseggia la dolce melodia dell’ostessa: Scende la notte di Natale... L’orchestra riprende ad agitarsi, mentre s’ode da lungi lo strepito di sonagliere accompagnato da breve e sinistro tema, che, sempre crescendo ed avvicinandosi, annunzia l’arrivo di Sintram, l’essere maligno e perverso. A un tratto nel culmine del loro sviluppo, l’orchestra e le sonagliere si arrestano in una lunga pausa. Poscia l’orchestra ricomincia a brontolare sommessamente, ed al nuovo arrestarsi appare Sintram chiamando Giosta. Alla caratteristica scena tra Sintram e Giosta, dominata dal sarcastico tema di Sintram, segue a guisa di contrasto un tema vivace e festoso, che descrive il gaio cinguettìo di voci femminili. Sono le fanciulle che cantano da lontano con spensierata allegrezza. Il tema nel suo fresco profumo campestre passa dall’orchestra alle voci, dialogate dapprima e poi fuse insieme, mentre vi s’innesta un dolce motivo pastorale che simboleggia il canto della zampogna; vi s’innesta altresì un vago canto d’indole popolare alle parole: O lime, o lime, o lime! 3.2.1/69 Intanto un ritmo inatteso, leggero e vivacissimo, accompagna l’arrivo delle fanciulle, tra cui Anna, la gentile figliuola di Sintram. Il tema dominante viene trasformandosi in svariate misure ritmiche, intrecciantesi con gli altri elementi tematici in continui ondeggiamenti e contrasti tali da conferire al brano il carattere di un geniale scherzo di sinfonia di colore pastorale. Il commento musicale viene man mano attenuandosi e nella lieve sonorità d’un piano, trasparente e soave, si ode il rintocco di campane. Mentre il giocondo sciame femminile si allontana salendo il sentiero verso Ekebù, entra in iscena la Comandante. Nell’orchestra si profila un tema grave e severo cui [ne] segue un secondo ritmicamente imperioso, e poi un terzo agitato ed eguale nei bassi. Questi tre temi dominano la scena del duetto con Giosta, fino a che questo non comincia il suo racconto con le parole: Bro: la chiesetta triste. Bro, la mia triste vita, Neve, silenzio, gelo, malinconia infinita. Vivevo là, sperduto... mentre l’orchestra rievoca con accento accorato la melodia del Natale e svolge un canto di ampio lirismo dalle parole: Ma sulla terra ispida che odora non fioriscono più, dunque, le viole? Questo canto si riode nel corso dell’opera, riespresso con ricchezza e varietà di atteggiamenti. Segue il racconto della Comandante sui temi che già abbiamo notato al suo apparire, ed ai quali s’innesta un canto pieno di tenerezza. Il racconto prosegue concitato ed ansante, mentre l’orchestra in un continuo crescendo raggiunge il massimo di forza espressiva nel cozzo dei varii motivi propri alla Comandante, quando ella narra il gesto di violenza contro la madre. L’orchestra in un pianissimo continua ancora ad agitarsi, finché si spegne nella frase lirica cui abbiamo già accennato, sui versi: Amavo allora, e come lo sa Dio, in umiltà, sognando l’uomo e il focolare mio semplici e santi nella povertà. Con le ultime note del racconto comincia ad echeggiare dall’interno la fanfara dei Cavalieri. S’ode la voce, ancora lontana, di Cristiano, che intona la canzone: Vecchia terra di Ekebù, chi fa crescere le rose sulle squallide miniere dalla bocca sgangherata? I cavalieri gli rispondono, irrompendo quindi, seguiti dalla folla, nella scena e ricantando in coro a voce piena. La Canzone dei Cavalieri, di carattere nordico, [che] è un canto marziale e festoso d’immediata comprensione pel suo ritmo marcato ed incisivo, viene ad un tratto interrotta dallo strepitio delle sonagliere di Sintram, che traversa la scena beffeggiato dalla folla. Ma la canzone, ripresa in pieno dall’orchestra e dal coro che si avvia per l’erta alla festa del Castello di Ekebù, chiude l’atto in un tripudio di generale esultanza. 3.2.1/70 Atto II: il bacio dei due amanti Le idee fondamentali dell’atto precedente risorgono nel secondo e riappariranno successivamente in elaborato sviluppo. Su di esse lo Zandonai, oltre ad intrecciare con l’arte che gli è propria nuovi elementi di ispirazione, intesse melodie nuove, declamati e recitativi che completano il ricco organismo musicale dell’opera. L’atto s’inizia con una breve introduzione orchestrale. La scena raffigura un’ampia sala del Castello di Ekebù. Anna è nel mezzo, grave e triste, attorniata dalle fanciulle, che, abbigliandola per la recita della commedia, avvicendano sullo stesso motivo del preludio i loro canti in un agile dialogato, interrotto dall’inatteso comparire di Sintram. Guizza il suo tema sinistro. La scena si svolge rapida tra lui, le fanciulle ed Anna fino a che sopraggiungono i Cavalieri, Cristiano, la Comandante a braccio di Giosta e la folla che era già in attesa dello spettacolo, cui precede la cerimonia della consacrazione di Giosta a Cavaliere ed il suo giuramento. All’irrompere dell’allegra brigata, la Canzone dei Cavalieri risuona nella sua forma originaria cantata dalla folla. Nel duetto seguente tra Giosta ed Anna, Riccardo Zandonai scioglie canti melanconicamente appassionati. Degno di rilievo è il mesto racconto di Anna dalle parole: Vivevo umile e sola nella casa laggiù, buia e severa... per la ispirata espressione nostalgica del paesaggio nordico. Giosta risponde implorando ed è qui che in orchestra si profila il tema della commedia, di cui comincia la recita, dopo che son rientrati Cristiano e il seguito, che si affollano innanzi al teatrino. È questa del teatrino una delle più importanti scene dell’opera per la sua originale concezione e forza emotiva. La prima parte consta di tre elementi espressivi: 1. l’accompagnamento dei corni nella orchestrina dei Cavalieri su un ritmo di semicrome e su di un accordo volutamente dissonante e talora addirittura stonato, che conferisce alla musica un effetto grottesco; 2. il motivo suonato da altri due corni, che è come una canzone di sapore arcaico e pieno di affettuosa tenerezza; 3. sopra questi due elementi il violino di Liecrona, uno dei Cavalieri, snoda arabeschi melodici e ritmici alla zingaresca tra il caricaturale e il drammatico. Il motivo dei due corni passa alle parole di Anna: Notte serena! Notte d’argento! e mentre i tre elementi di cui abbiamo fatto cenno continuano a svilupparsi in diverse fogge durante il duetto, questo comincia ad animarsi di passione, che man mano cresce fino alle parole di Giosta: T’imploro, come implora uno che muore ed a quelle di Anna: Com’è bello il tuo volto e come splende! vibranti di intenso pathos. Mentre la folla comincia ad impressionarsi e commenta come se la finzione scenica divenisse realtà, il duetto prosegue sempre più caldo di sentimento e di alato lirismo. Ed è qui che Riccardo Zandonai generosamente prodiga la sua vena melodica. 3.2.1/71 L’orchestra rievoca con foga esultante i motivi del racconto di Giosta al primo atto; e il duetto, raggiunta la sua massima esplosione, comincia a calmarsi fino al ritorno del commento iniziale di questa scena. Al bacio degli amanti riappare Sintram livido ed urlante. L’orchestra commenta agitatamente il tumulto e l’uscita della folla. L’atto si chiude dolcemente. Anna stringe sul suo cuore la mano di Giosta che l’aveva stesa sulla fiamma in prova della purezza del suo amore. Ma in orchestra c’è come un cupo presagio di prossima tragedia. Atto III: «Natale! Natale!» L’orchestra annunzia tre motivi che sono la base di questo caratteristico episodio nella fucina del castello di Ekebù tra i cavalieri che si ubbriacano. Il primo incisivo, vigoroso e caricaturale; il secondo, agile, sta a significare il loro stato di ebbrietà; il terzo è un frammento lirico ricavato dalla loro canzone. Questi motivi si sviluppano a seconda delle esigenze della scena e su di essi si avvicenda il dialogato della allegra comitiva, cui contrasta il mesto atteggiamento di Liecrona il violinista, che siede in disparte abbracciando il suo violino come se cullasse un bambino. Ad un tratto tacciono l’orchestra e i Cavalieri, e Liecrona comincia a suonare traendo dall’istrumento accordi doloranti che si concludono con una melodia triste e nostalgica. I Cavalieri cantano a sole voci la ninna nanna: «Natale! Natale! Natale! Ora il piccino dorme entro il bel velo». Il violino suona la melodia proposta, intercalata da ritmi bizzarri e da accorati gemiti di pianto. All’apparizione diabolica di Sintram il dialogo tra lui e i Cavalieri si svolge piccante e burlesco. L’apparire della Comandante è segnato dal suo tema che questa volta è largo e solenne. Questo racconto ha momenti di espressione musicale toccanti e profondi, specialmente alle parole: «...qui sarà finita senza di me», ecc. Dopo l’addio ai Cavalieri l’orchestra diventa piena di passione e conchiude in un pianissimo in cui cupo e funebre echeggia, mentre la Comandante esce, il singulto di Samzelius suo marito che l’ha scacciata. «Ave all’amore!» Notte limpida. Silenzio profondo. La casa di Anna. La madre, seduta sui gradini della porta attende rassegnatamente il ritorno di lei dalla festa notturna nel Castello di Ekebù. L’orchestra mormora con andamento veloce, mentre da lungi si odono le sonagliere. L’insieme della sonorità cresce gradatamente ed arriva al fortissimo per attenuarsi sino ad arrestarsi. Arriva Sintram che spranga la casa prevedendo l’arrivo di Anna con Giosta. Un interludio breve e suggestivo annunzia l’arrivo dei due amanti. Segue un improvviso appassionato, alato e drammatico, cantato da Giosta: «Ah! non avrà [sic]mai più nella mia vita». Il duetto prosegue interessante ed avvincente per le frasi d’alto lirismo cantate da Anna e da Giosta. La scena di Anna che, battendo invano alla porta della sua casa, invoca la mamma, s’inizia e procede dapprima con recitativi concisi ed efficaci sopra un ritmo concitato, affannoso ed interrotto da pause, sul quale presto si disegna il canto d’implorazione di Anna, commoventissimo in languide frasi melodiche. Giosta ritorna ad Anna, cui l’uscio non viene aperto, e la ripresa del loro duetto si eleva ad un’intensa espressione lirica, specialmente nella strofe conclusiva di Giosta: «Cammineremo incontro al nuovo sole», ecc. Anche la perorazione orchestrale è una delle pagine più suggestive. Gli archi cantano con ineffabile sentimento, sostenuti da un accompagnamento che è come un singhiozzo d’intima commozione erotica. I due amanti, allacciati alla vita, vanno verso l’aurora, verso un ignoto destino che non ha méta, come sembra voler significare anche la melanconica melodia che l’orchestra lascia come sospesa mentre cala la tela. Atto IV: «Sciogli il maglio! - Giù!» 3.2.1/72 Cortile nell’interno del Castello di Ekebù, che nel fondo una cancellata divide dalla strada. Da un lato s’intravede l’interno della fucina deserta, da un anno non più risonante di lavoro. L’abbandono della Comandante, raminga in espiazione del suo peccato, e la baldoria dei Cavalieri in ozio hanno prodotto la miseria. Il popolo si affaccia alla cancellata ed impreca contro i Cavalieri. Sulla scena è soltanto Anna che siede assorta e dolente presso il portico delle fucine. Nasconde il volto tra le mani ed ascolta le voci che si avvicinano, senza volgersi a guardare. Nell’orchestra ritorna in ampia linea ed in isvariati aspetti il tema di Natale sempre dolorante; le voci continuano con maggiore drammaticità nelle loro apostrofi ed invettive, finché, al massimo della sonorità, repentinamente si arrestano con l’orchestra, mentre Giosta interviene. Il suo declamato melodico: Giusto Signore, se ho peccato colpiscimi è accompagnato da accordi lenti. La folla, rassicurata da Giosta, si allontana; rientra Cristiano seguito dai Cavalieri, e dopo il loro dialogato comincia il duetto tra Giosta ed Anna (rimasti soli) in un’atmosfera musicale triste e desolata. In un ritmo sincopato vagano accordi lenti e frasi melodiche, mentre il canto nasce dalla parola. Cresce la intensità passionale, che raggiunge la più alta espressione quando Giosta dice: T’imploro come implora uno che muore, mentre ad un tratto i violini levano forte un grido come di pianto che a poco a poco si placa. Segue un’alata melodia che si svolge in orchestra e che accompagna il canto di Anna alle parole: Fa’ che muoia, così, fra le tue braccia. Il tema di Natale, drammatizzato in un fortissimo orchestrale, conchiude il duetto; quindi un ritmo agitato nei bassi, che man mano si eleva, si propaga in tutta l’orchestra. Ed ecco che voci lontane annunziano l’arrivo della Comandante moribonda. Irrompe Cristiano, e con un recitativo parlato intima il silenzio alla folla sopraggiunta e ai Cavalieri. Entra la Comandante. La scena si svolge sui motivi caratteristici della protagonista, che si sviluppano melodicamente secondo le frasi del testo poetico, in raffigurazioni ed atteggiamenti di grande commozione. Cominciano intanto a profilarsi in orchestra in forma vivacissima i ritmi abituali dei Cavalieri, esaltati per la ripresa del lavoro nella fucina. La massa orchestrale si arresta di botto la prima volta su un accordo dissonantissimo alla parola: Giù!, con cui Giosta comanda la caduta del maglio per l’inizio del lavoro. Il maglio tonfa; le incudini battono in ritmo misurato; la massa corale ed orchestrale intona il motivo della Canzone dei Cavalieri: Vecchia terra di Ekebù; quindi una parte del coro, alle parole: Il lavoro sia canzone... fede pia e benedizione, eleva un inno di carattere liturgico che si alterna con la Canzone cantata dall’altra parte del coro fino alla terza volta che risuona la parola di comando: Giù! In un tremolo dell’orchestra il maglio fa sentire ancora i suoi colpi, mentre Anna annunzia che la Comandante è morta. Giosta grida ancora sul tema della Canzone, che dalla precedente gaiezza festosa assume ora, in tono minore, l’espressione d’infinita tristezza. Nella generale costernazione il maglio riprende a battere inesorabilmente, mentre l’orchestra innalza, drammaticamente straziante, lo scultorio tema della Comandante, che corona l’opera. Il fascino dell’opera d’arte Tale, in rapida sintesi, l’esame della musica dei Cavalieri e a cui non occorreva sottrarsi per fornire una impressione, sia pure vaga, di questa partitura che ha rivelato – gradita sorpresa – l’autore di Conchita, della Francesca e della Giulietta del tutto rinnovato rispetto alle sei opere precedenti. L’artista è apparso nella piena compiuta maturità del suo genio. V’era in lui una certa tendenza all’enfasi, e di questa enfasi nei Cavalieri non si scorge neppure l’ombra, come del resto la vampata della passione umana arde con tutte le fiamme e con tutte le esaltazioni, meglio e con 3.2.1/73 più larga espansione melodica, e sovratutto con una incisività ritmica e una semplificazione di mezzi orchestrali tendenti a fissare in una linea ben determinata e significativa la declamazione vocale, il canto, l’ambiente, e[d è] con tale spirito di originalità che la parola sonora ha felice rispondenza, plasmata com’è sopra i rilievi psichici della persona scenica – e che il quadro, l’atmosfera risponde a un disegno di fantastica rappresentazione musicale. Un’esaltazione lirica, infatti, pervade e agita tutta la partitura, la quale, se pure elaborata sinfonicamente, basa la sua vitalità, il suo fascino sovra l’elemento tematico, sgorgamento della vicenda scenica, con una fioritura di idee melodiche del tutto originali e tipicamente espressive. Onde la visione estetica dell’opera d’arte, non viziata o adombrata da nessun preconcetto culturale e da nessun sistema, appare e si profila nel suo genuino aspetto. Zandonai riflette in questa nuova opera ciò ch’è nella sua precedente produzione: un artista sensibile alla voce della propria anima, della propria fantasia, ubbidiente non ad altro che all’ispirazione non scarsa e non comune, ribelle ad ogni concezione teorica. Artista, dunque, sincero e sensibile, Zandonai ha ideato e composto I Cavalieri quali ebbe ad intuirli, e traducendoli in forma nello stesso momento dell’atto creativo. Se così non fosse, come spieghereste lo spirito che anima tutta la partitura della nuova opera? Questa ha un ambiente che la fantasia dell’artista ha disegnato con combinazioni di timbri orchestrali e con imagini musicali che determinano un clima – la nuda campagna nordica sotto un cielo plumbeo e con un’atmosfera gelida. L’opera a questo clima ha frequenti insistenti richiami – e par quasi che il paesaggio triste e sconsolato si ripercuota musicalmente nelle turbate anime dei due amanti Anna e Giosta. Un clima che Zandonai – è bene insistere su ciò, se pure già vi abbiamo fatto cenno – ha tratto fantasticamente dalla sua capacità inventiva, senza ricorrere al folklore. In un ambiente così ideato e realizzato le persone del dramma sono come agitate e sconvolte da un’espressione lirico-drammatica che non rassomiglia punto a quella di cui Zandonai si avvalse per le precedenti opere. La personalità dell’artista si atteggia nei Cavalieri in un aspetto nuovo. Le formule della fraseologia lirica sono alimentate da un linguaggio veramente suggestivo. Gli stati d’animo hanno un pathos del tutto originale e che vale a conferire alla nuova opera una spiccata individualità. Non è possibile passare in rassegna con la diffusione che meriterebbero, mentre l’ora incalza, così le pagine profonde di umanità come quelle arabescate di una caratteristica tinta caricaturale, e come, infine, quelle altre che descrivono pittorescamente l’ambiente. La musica dei Cavalieri riflette e risente di una vigorosa e agile personalità artistica, che attinge la sua ragion d’essere da una fantasia vivace e da una ispirazione spontanea, capace questa di conferire al canto un’anima. Nel primo atto è di un’accorata nostalgia il racconto di Giosta, dalla larga sviluppata onda musicale – nutrito di belle idee il declamato melodico tra Giosta e la Comandante, un declamato pervaso da un sottile lirismo; – di effetto gradevole l’entrata dei Cavalieri che la musica delinea nei suoi marcati vivaci ritmi beffardi, spavaldi, stravaganti. Nel secondo atto, il quale per forma decorativa, per spirito caricaturale e per vivacità d’espressione è un quadro di una caratteristica incomparabile, il coro ha parte predominante: leggiadro quello delle Fanciulle; pomposo e grottesco quello dei Cavalieri. La presentazione di questi poi, fatta da Cristiano, è oltremodo gustosa per la bizzarria della melodia, per la singolarità dei ritmi e per la geniale struttura orchestrale – una pagina che onora la fantasia dell’operista. Né da meno è il duetto tra Anna e Giosta sul teatrino – pieno di dolcezza e di melismi carezzevoli. Nel terzo atto il primo quadro si svolge in un’atmosfera di malinconia e di tristezza con pennellate grigie – suoni rievocanti e riproducenti la poesia del Natale – e con una malia di accenti, cui accrescono fascino i ritmi fantastici con tipici procedimenti armonici. Nel secondo quadro l’atmosfera musicale diventa ancora più triste. Onde il canto della vecchia Madre di Anna e il canto di questa e di Giosta sono come dominati dal destino di un cupo presagio: dolci, teneri, agili tocchi di melodia vaga, indeterminata. L’ultimo atto è pieno di forza, un quadro grandioso in cui domina e tumultua il coro. 3.2.1/74 Suggestivo e commovente l’addio della Comandante ai cavalieri e alla folla. E quando il dramma precipita per concludere, un inno di suoni e di voci esplode e si spande superbo [e] magniloquente sul fragore del maglio e sul canto dell’incudine, sorretto da uno strumentale potente, di effetto immancabile. In quest’opera, dunque, Riccardo Zandonai è riuscito mirabilmente a dare forma viva ed espressiva al suo pensiero, come forse in nessuna delle sue opere precedenti. Il pensiero musicale non è mai tortuoso e asmatico. La melodia domina sovrana in forma lineare strofica. I personaggi hanno una tipica rappresentazione, così come ciascuno dei cinque quadri ha la sua luce, il suo clima, la sua pittura. Né bisogna passare sotto silenzio la forma con cui Zandonai ha trattato il coro, e cioè con una maestria e genialità com’è difficile imaginare. Il coro, nei Cavalieri, ha un accento, un disegno, una foga di tale espressività e di tale vigoria che non si sa se sia più da lodare l’abilità o la genialità. Lo spettacolo e il successo Al successo grande, unanime decretato dal pubblico della Scala ho già fatto cenno. Arturo Toscanini ha diretto con tutta la foga della sua giovinezza artistica – e si può dire sia stato il trionfatore dello spettacolo. Nelle rispettive parti furono efficaci la Fanelli e il tenore Lo Giudice. La Casazza fu una caratteristica Comandante e si prodigò con tutta la sua arte di cantatrice e attrice ammirata. Il baritono Franci, Cristiano, fu superiore ad ogni elogio per la generosità onde profuse la robusta risonante voce e per il tocco caricaturale conferito all’arduo personaggio. Quest’acclamato artista merita davvero una parola sconfinata di ammirazione per avere foggiato un tipo scenico con la vivacità e versatilità del suo temperamento e per la voce che non conosce misura. Ottimo il basso Antori [sic] nella parte di Sintram, lodevole per lo spirito beffardo e per la tipica accentuazione della voce timbrata con cui si trasse onorevolmente dal difficile compito assunto. Il basso Antori, che come Caruso è un geniale caricaturista, ha fornito al Giornale d’Italia le caricature degli interpreti qui inseriti. Bene gli undici Cavalieri. Il coro cantò con foga e con ineccepibile intonazione. La messa in iscena sontuosa, e così Gioacchino Forzano poté ancora una volta mostrare com’egli sia uno dei geniali cooperatori per la fortuna degli spettacoli alla Scala. Appena ebbe termine il primo atto gli applausi risuonano per tutta la vasta sala. Zandonai con Toscanini e gli artisti sono evocati alla ribalta cinque volte. Nel secondo atto il coro a scena aperta suscita un’acclamazione interminabile. Alla fine l’autore ha sei chiamate. Dopo il terzo altre sei – e alla fine dell’opera non è più l’applauso ma è l’entusiasmo che prorompe impetuoso. Nessuno si allontana dal proprio posto, e Zandonai con Toscanini ha ben sette chiamate, l’ultima delle quali è come la consacrazione definitiva del trionfale successo che ha arriso ai Cavalieri di Ekebù. Dopo di che prepariamoci ad accogliere i Cavalieri al Costanzi fra una diecina di giorni. 363 Giuseppe Bevilacqua, “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai alla “Scala”, «La Tribuna», 10.3.1925 p. 3, col. 2-3 MILANO, 8. Questa nuova opera di Riccardo Zandonai –Cavalieri di Eckebù [sic] – che il pubblico della Scala ha giudicato ieri sera per la prima volta, costituisce per il musicista trentino un progresso teatrale innegabile. Diremo poi del suo valore artistico, ma pertanto, checché si dica sulla consistenza del romanzo della Lagerlöf e sulla riduzione compiuta e sceneggiata dal Rossato fra i dubbi e la punture della critica aulica (l’alta critica letteraria che questa volta ci volle mettere lo zampino), bisogna affermare nettamente che lo Zandonai ha visto nei Cavalieri, per l’intreccio, per l’azione, per i contrasti che si alternano dal comico al drammatico, per i movimenti che si 3.2.1/75 rincorrono, ora patetici ed ora caricaturali, una vera opera di teatro, spoglia di ogni fronzolo accademico e scolastico. Infatti la Francesca e la Giulietta, se sono bocconi di lusso, non formano di certo quel piatto-forte che tutti i palati appetiscono e che appetiscono specialmente le folle. Molto lo Zandonai deve al Rossato che gli ha apprestato un libretto di ottima fattura, dovizioso di elementi scenici, ricco di suggestione poetica. Lo Zandonai non fu mai tanto sincero; si sente in questa sua nuova fatica una spontaneità che quasi diletta, che quasi conforta, poiché non ha sforzi, non ha artifici, non ha confini. Ha avuto l’accortezza di lasciarsi guidare più dall’ispirazione che non dalle sue tendenze ed ha trovato una veste musicale che si adatta all’azione senza ricorrere a quell’armamentario di ricercatezze e talvolta di astruserie che tanto caratterizzano le altre sue opere e che conferiscono alle stesse quel senso di uniformità e di monotonia che tutti conoscono. In genere la musica segue l’azione e le parole senza indugiarsi in commenti pletorici e inutili, sgorga e scivola via incalzata dal libretto che le impone sempre nuovi sviluppi. La parte che maggiormente colpisce in quest’opera è quella dei “pezzi d’assieme”. Dove il movimento predomina, sieno i cozzi sonori delle sonagliere, sieno le scapigliate farandole dei cavalieri, sieno le imprecazioni del popolo, Zandonai si trova a suo agio. Vi è in queste pagine un giusto equilibrio di sonorità, di linea, di combinazioni di ritmi, senza sovrapposizioni all’elemento vocale: scena e musica sono ben fuse e formano un tutto armonico dilettevole. Ed è in questi pezzi, che sono quadri isolati di magnifico effetto, che l’evoluzione dello Zandonai balza più evidente: lo strumentale di questi Cavalieri è in verità più nutrito, più vario, e dà la sensazione di un che di più pieno, di più sostanzioso che nelle opere precedenti: scioltezza di passaggi, armonizzazioni meno cacofoniche e artificiose di quelle che sembravano diventate un carattere inalienabile del suo stile. L’azione scenica dove, insomma, è complessa, vivace e variata, trova nella svariatissima tavolozza dello Zandonai un’abbondante amalgama di suoni che efficacemente la esprimono e le offrono il migliore rilievo. Sotto tale aspetto, i punti che più colpiscono lo spettatore sono: le voci interne, l’entrata dei cavalieri ed il finale del primo atto; la scena della commedia e l’orchestrina dei cavalieri (questa davvero graziosa e originale) nel secondo atto; la canzone di Natale con la dolcissima e nostalgica violinata ed il canto morbido, languido e sommesso dei Cavalieri nel terzo atto e infine, nell’ultimo, la trattazione di tutto il coro e, in ispecie, il martellante, festoso finale, canto di forza, di fede, di volontà. Riuscitissimo è anche il disegno dei Cavalieri, nel quale il burlesco ed il comico si confondono e dal quale sprizza fuori un carattere simpaticamente spavaldo. Era facile cadere nell’enfasi o nella frivolità: l’una e l’altra Zandonai le ha evitate. La parte lirica è forse la meno riuscita. Vien fatto quasi di pensare che il compositore rifugga di proposito dall’abbandonarsi alle seduzioni del bel canto, del canto di buona lega che ha le maggiori radici proprio nella tradizione italiana; pare che abbia paura di concedersi, di lasciarsi attirare, di ardersi. E sì che Zandonai non è un virtuoso, anzi è uno spontaneo, pieno di impeto e di freschezza e sentimentalmente tutt’altro che arido. Eppure nei momenti in cui “parla l’anima” la sua vena musicale si arresta alla prima espressione. Espressione, badate, che a tutta prima vi accarezza, vi piglia, vi innamora: così l’inizio del duetto nel secondo atto, così l’inizio di quello nel terzo: Addio! Vorrei tornar dolce e bambina come quando sostavo alla fontana nell’ora mattutina. Ma poche battute e la melodia si arresta; quando il respiro dovrebbe farsi più ampio, innalzarsi, espandersi, si affievolisce, barcolla. In alcuni di questi la musica è priva di pensiero e di contenuto e non disdegna l’artificio. Anche la voce è forzata ed in registri altissimi, impossibili ad essere sostenuti a lungo, e spesso in contrasto colla situazione; spesso ancora la trama melodica si frantuma o si nasconde sotto una valanga di note e di suoni che si dileguano senza lasciare traccia. Artificio e tecnica al posto di sentimento e di idee. Si direbbe che lo Zandonai abbia un sacro terrore della melodia e che per non cascarvi si affanni in dettagli tecnici atti a distrarlo, non dando alcuna 3.2.1/76 importanza all’elemento melodico e accontentandosi tutt’al più di confessarne lontanamente il suo valore, lasciandosi sorprendere in frequenti scorribande sul terreno delle più orecchiabili opere: Manon, Chénier, Tosca. Perciò non è certo eccellente il duetto fra la Comandante e Giosta al primo atto, non è molto ispirato il brano della commedia «toglierò il mantel che ebbi da Dio» ed è incolore tutta la seconda parte (quadro secondo) dell’atto terzo. Poi là dove predomina il canto a recitativo, l’autore non si stacca dalla solita tecnica dei brevissimi commenti per lo più a carattere di armonia imitativa, che non hanno altro valore all’infuori di quello dell’elemento armonico che nasce col declamato e che finisce a periodo chiuso con lo stesso: come accade nella parte centrale del primo atto. Tutto sommato: libretto fortunato che interessa fino alla fine; momenti di azione scenica e di emozione notevoli e caratteristici in ogni atto, sufficienti a stabilire il valore artistico dell’opera; maggiore padronanza dello strumentale e maggiore equilibrio fra le esigenze della scena e quelle della musica; maggiore facilità nell’autore a rendere le situazioni d’assieme, dove vi è movimento e colore: qui il pensiero è ricco, le idee sono abbondanti. Tutto ciò “che è forte” è reso con potenza, è espresso con pienezza. Nessuna stramba sonorità, nessun tecnicismo inconcludente. Al contrario assenza di idee cantabili, scarso sviluppo lirico, scarso sentimento melodico. Non si può dire che l’opera abbia uno stile; se mai è il solito stile dello Zandonai, con una maggiore perizia tecnica e con la tendenza a rendersi più chiaro e più accessibile. Anche nei Cavalieri il maestro trentino rimane il raffinato e aristocratico compositore della Francesca, però il suo intuito lo ha già portato ad accostarsi al pubblico con più confidenza ed anche con più stima, ad abbandonarsi senza schizzinosità a comprenderlo senza per questo lusingarlo. Il successo Il pubblico meraviglioso che gremiva ieri sera la Scala ebbe applausi particolarmente vibranti e calorosi dopo il primo, il secondo ed il quarto atto. Meno unanimi, a conferma dei rilievi della critica, parvero quelli alla chiusura del terzo, un atto prevalentemente sentimentale, in cui le capacità descrittive del compositore così originali, così ammirabili, devono lasciare il posto quasi per intero alla effusione, passionale e triste, del dolore dei due amanti. Il successo si delineò ad ogni modo sin dal primo atto, pieno di convinzione: alle sei chiamate che lo seguirono dovettero partecipare anche lo Zandonai ed il Rossato, salutati da vere ovazioni. Un’altra ovazione nutritissima, e che sfidando la etichetta della Scala si prolungò per alcuni istanti, accolse il coro del secondo atto il quale poi concluse con altre sei chiamate. Qualche mormorio di plauso sottolineò la dolcissima nenia dei cavalieri nel primo quadro del terzo atto, e nell’intervallo – brevissimo – le evocazioni rivolte ancora e in particolar modo allo Zandonai furono tre. Cinque poi furono le chiamate alla fine del quadro secondo. Alle 0,25 calava il velario sull’ultimo atto e non ostante l’ora tarda e insolita, il pubblico – tutto il pubblico, anche quello della platea – si trattenne ad applaudire gli autori con entusiasmo: Zandonai, Toscanini, Rossato comparvero sette od otto volte. Il maestro Toscanini diresse l’opera, che tanto egli ammira, prodigando passione e intelligenza; i mezzi tecnici della Scala consentirono una messa in iscena magnifica e Forzano seppe muovere le masse con efficacia. Encomiabile fu pure l’esecuzione: ottima la Casazza (La Comandante) [e] la Fanelli (Anna), buono il Lo Giudice (Giosta), migliore il Franci (Cristiano). 364 Il successo de “I Cavalieri di Ekebù”, «Il Piccolo», 9.3.1925 - p. 6, col. 2 Milano, 8 marzo Per la prima rappresentazione dei Cavalieri di Ekebù, sabato sera la “Scala” era inverosimilmente piena del pubblico più fine e più aristocratico di Milano. Si notavano anche molti critici e giornalisti venuti dalle altre città italiane. 3.2.1/77 Il successo dell’opera è stato veramente solenne; il pubblico ha largamente applaudito. Il maestro Zandonai ha avuto accoglienze veramente trionfali, e con lui sono stati applauditi il librettista Rossato e il maestro Toscanini. Il primo atto con la chiusa corale di squisito colore popolare ha suscitato larga messe di applausi. Il pubblico è scattato in piedi applaudendo freneticamente. Altre quattro chiamate per gli artisti e per Toscanini si sono avute alla fine di quest’atto. Mentre il secondo atto si svolge, il pubblico appare già dominato dalla grande arte dello Zandonai; alla fine gli artisti sono chiamati per ben sei volte alla ribalta. Il primo quadro del terzo atto ha avuto due chiamate e il secondo quadro cinque chiamate. Nell’ultimo atto ha particolarmente impressionato il coro della folla che impreca; il finale dell’opera ha avuto acclamazioni entusiastiche. Tutti gli artisti per sei volte son dovuti comparire alla ribalta dinanzi al pubblico acclamante. L’esecuzione è stata magnifica. Toscanini ha curato la concertazione della nuova opera del maestro Zandonai, come lui sa fare, da musicista di altissimo valore e di non meno alta coscienza. Ogni dettaglio è stato particolarmente messo in luce e tutto è stato animato, ravvivato, raggiungendo così gli effetti che lo stesso autore si era proposto. La sua direzione è stata agile precisa pura, spendendo senza misura quella sua genialissima attività che raggiunge meravigliosi risultati. Tutte le parti della nuova partitura apparvero così non soltanto evidenti, ma anche interpretate con meravigliosa genialità. Forzano ha avuto modo, in questa nuova fatica, di compiere ancora una lodevole opera di educazione artistica. Magnifici i costumi di Caramba di perfetto carattere svedese. Toni di colore resi pittoreschi nei gruppi di cavalieri e del popolo. Anche per la parte vocale Toscanini non poteva avere a disposizione artisti migliori. Il tenore Franco Lo Giudice che per la prima volta si presentava innanzi al pubblico milanese si è rivelato un cantante dalla voce espressiva, calda, efficace all’interpretazione ardua. I suoi mezzi vocali sono generosi, specialmente nella tessitura centrale. Scenicamente fu perfetto. La signora Elvira Casazza nella parte della Comandante riuscì a dare notevole linea e vigorosa espressione al carattere del personaggio. Il suo temperamento di artista intelligente ha avuto modo di portare tutto quello che di forte, di drammatico, di concitato che questa parte richiede. Così anche la Fanelli, nella parte di Anna, nulla lasciò mancare all’interpretazione ed alla figura. Cantò con voce spontanea e fresca e specialmente nella canzone del terz’atto, quando sola nella notte si trova ad essere cacciata fuori di casa, ella ebbe momenti di rara efficacia drammatica. Il baritono Franci, nella interpretazione della parte del Cavaliere Cristiano, cantò con voce magnifica. Bene l’Autori nella parte di Sintram, così sotto le apparenze umane come nel costume mefistofelico. Il basso Walter completa bene il gruppo degl’interpreti. Il successo dei Cavalieri di Ekebù non poteva essere maggiore. 365 “I Cavalieri di Ekebù” alla Scala, «L’Epoca», 9.3.1925 - p. 3, col. 3 Milano, 8. Pubblico magnifico per la prima rappresentazione della nuova opera di Riccardo Zandonai, su libretto di Arturo Rossa [sic], e liete accoglienze a questi «Cavalieri di Ekebù» che vengono ad unirsi alla già cospicua famiglia delle opere del maestro roveretano. Abbiamo detto “accoglienze liete” cioè buonissime, ma non entusiastiche: numerose le chiamate ad ogni fine d’atto; ma non calorosissime, e non tutte unanimi. 3.2.1/78 Riservando a quando l’opera sarà, tra pochi giorni, data al vostro Costanzi l’analisi minuta del nuovo spartito, diremo sommariamente che questo non è da annoverare tra le opere destinate a suscitare grandi avversioni o grandi fanatismi. Procede sicuro e spedito su vie battute; segue i più comuni gusti del pubblico; è costruito con abilità ed accortezza. L’esecuzione è da definire superba. Ottimo il baritono Franci che si è imposto fin dalle prime note; buono il tenore Lo Giudice, il quale appariva però alquanto impacciato essendo la prima volta che cantava alla Scala; eccellente il basso Autori; meritevoli d’ogni lode la Casazza e la Fanelli. I cori – quelli della Scala! – hanno dato ancora una volta la prova della loro inarrivabile fusione, contribuendo in modo magnifico all’esito dell’opera. L’orchestra, diretta da Toscanini, è stata pari alla sua fama. Ammirate, per il loro grande effetto, le scene dipinte dal Grandi. Forzano ha disciplinato, con la sua riconosciuta competenza e genialità, il movimento scenico. 366 “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai al “Colon” di Buenos Aires, «Il Giornale d’Italia», 31.7.1925 p. 3, col. 4 Buenos Aires, 29 luglio Iersera è andata in iscena l’ultima opera di Riccardo Zandonai, I Cavalieri di Ekebù. L’aspettativa per quest’opera era così intensa che la vasta sala era gremita come nelle occasioni solenni: non un posto vuoto, e l’intervento di tutte le notabilità cittadine. Il successo schiettamente trionfale si delineò fin dal primo atto: dopo il duetto tra mezzosoprano e tenore si ebbero i primi applausi. La canzone dei cavalieri piacque per il bel caratteristico ritmo, e gli artisti con il maestro direttore Tullio Serafin furono evocati alla ribalta sette volte. Tutto il secondo atto fu seguito con infinito godimento e si ebbero a sipario calato ben otto chiamate. I due quadri del terzo atto alzarono il tono del successo e complessivamente gli artisti furono evocati al proscenio dieci volte. L’ultimo atto, così genialmente ideato e tutto pervaso di una nostalgica onda melica, coronò il caloroso successo con molte chiamate. L’esecuzione fu superiore ad ogni elogio. Tullio Serafin ne fu un vigoroso animatore, interprete sicuro e geniale. La Vallin Pardo cantò con arte e con sentimento, il tenore Merli, già acclamato in quest’opera al Costanzi, si fece ammirare per lo slancio passionale e per la duttilità della bella ampia voce, deliziosa nell’espressione lirica e squillante negli acuti. Il baritono De Luca creò con il suo spirito interpretativo una parte di cui rimarrà a lungo il ricordo. Ottima la Capuana nella parte della “Comandante”. Bene il basso Didur, e a posto tutte le seconde parti. Il coro, istruito dal maestro Consoli, cantò con impetuoso slancio, con impeccabile ritmo. Sontuosa e caratteristica la messa in iscena. 367 M. I., “I Cavalieri di Ekebù” al “San Carlo”, «Il Giornale d’Italia», 11.2.1926 - p. 5, col. 1-2 Napoli, 10 febbraio. Iersera la sala del San Carlo per la prima rappresentazione dell’ultima opera di Riccardo Zandonai, «I cavalieri di Ekebù», presentava un aspetto imponente, gremita in ogni ordine di posti. Nel pubblico era palese la viva attesa per questi «cavalieri» di cui erano noti i successi conseguiti alla Scala ed al Costanzi e nelle altre città d’Italia e dell’Estero. Fu dunque schietta e fervida la dimostrazione tributata a Riccardo Zandonai quando apparve sul podio direttoriale, una dimostrazione che si prolungò per qualche minuto, perché non bisogna dimenticare che l’illustre operista ha qui diffuse simpatie ed è circondato da larga estimazione per la «Francesca» e la «Giulietta» che al San Carlo sono state riprodotte col più largo consenso di applausi. 3.2.1/79 «I cavalieri di Ekebù», che rivelano una nuova tipica espressione dell’arte di Zandonai, hanno in sé tutti gli elementi per vincere qualsiasi ardua prova; la nuova opera, anche in quest’ultima edizione, allestita in un teatro che riabilitò, dopo gli insuccessi dell’“Opéra Comique” di Parigi, la Carmen, e che dopo le tiepide accoglienze di Torino e di Roma fece spiccare il volo per tutte le scene alla «Bohème» pucciniana, ha rivelato di essere sorretta da una foga di originalità melodica, da quella tipica colorazione ambientale in virtù della quale l’opera d’arte ha una sua tipica rappresentazione. Zandonai, come nella «Francesca» ha fatto aleggiare sulle vicende dei due immortali amanti una spiritualità quale Dante trasse dalla sua fantasia, in questi «Cavalieri» ha veramente trovato una nota capace di imprimere all’opera d’arte un ambiente, pur non senza essere ricorso alle fonti di dominio pubblico del folklorismo. L’ambiente della nuova opera è frutto di fantasia, non di ricalchi formali e il pubblico magnifico del San Carlo lo intuì fino dalle prime scene. Certo, a ravvivare l’ambiente giunse in buon punto nel finale del primo atto quella canzone dei cavalieri che è come la nota distintiva del melodramma di Zandonai. La canzone, col suo ritmo, con la sua spavalda e bizzarra animazione, col suo spirito musicale, echeggiò infatti con tutta la risonanza e il pubblico ne fu così avvinto che gli applausi proruppero con quella espansione che è giustificata dall’intuitiva e pronta sensibilità. Il primo atto si chiuse con sette chiamate al proscenio: l’ultima volta si volle Zandonai solo alla ribalta in un delirio di acclamazioni. Il secondo atto, che è tutto fondato sul grottesco tra le spire di un delizioso canto di amore, suscitò vivo interesse e si chiuse con sei chiamate alla ribalta. A differenza delle edizioni precedenti, il secondo atto è seguito dal quadro della neve che faceva parte del terzo, sicché si è avvantaggiata la vicenda scenica e drammatica. La melodia ispirata e piena di commossa ardente animazione si insinua nell’animo dell’uditorio e suscita un senso di profonda ammirazione. Il maestro Zandonai è stato evocato sei volte alla ribalta. Il terzo atto è adesso, in questa nuova edizione, costituito dal solo quadro della fucina, che è, com’è noto, pervaso di un senso di nostalgia nordica e tutto refluente di patetica dolcezza: è un affresco musicale che vivrebbe pure da solo, tanto e così potente e fantasticamente ideata ne è la concezione. Chiuso il velario, l’autore per sei volte fu festeggiato con applausi insistenti. L’ultimo quadro, che palpita di un largo respiro di umanità, procede di scena in scena con spirituale animazione e con mutabilità di accenti e di immagini, così pieno di angoscia e di tragica verità da scuotere qualsiasi fibra sensibile. L’opera si concluse con manifestazioni imponenti che valsero a coronare il successo delineatosi fin dal primo atto. Sulla scena trionfò la Casazzi [sic] nelle vesti della Comandante, per la sua interpretazione e per il suo canto, nel quale si rispecchiava tutta la tragedia musicale così come l’ha ideata l’operista. Ella popolò di sé la scena: la sua voce si spandeva con vivacità di accenti e con ampio respiro, eguale in tutti i registri. Nella scena della morte fu di una sorprendente tragica verità, suscitando una schietta commozione. La Devolvi [sic] fu una leggiadra e patetica anima innamorata; il tenore Bisagni, che non ha una voce squillante, cantò con efficacia. Il baritono Urbano conferì al suo personaggio un carattere di disinvoltura spavalda. Bene il basso Venghi, caratteristico il gruppo dei cavalieri. Il comm. Clausetti della Casa Ricordi, venuto appositamente da Milano, curò una messa in scena che fu molto ammirata. Così colla rappresentazione di ieri sera «I cavalieri» hanno fatto un passo innanzi verso quella popolarità alla quale aspira ogni opera d’arte teatrale, ideata con spirito di giovinezza musicale. 368 3.2.1/80 U. I., La prima dei “Cavalieri di Ekebù” di Riccardo Zandonai in una nuova edizione al “San Carlo”, «La Tribuna», 11.2.1926 - p. 5 NAPOLI, 10. - L’attesa per questa prima dei Cavalieri di Ekebù al San Carlo, come già annunciammo, era vivissima, vivissima nel pubblico napoletano presso il quale il maestro Zandonai gode le più forti simpatie, vivissima in tutto il mondo dell’arte e della critica per il sapore di autentica primizia che questa edizione sancarliana dei Cavalieri acquistava, con i tagli sapienti e le notevolissime modifiche che maestro e librettista hanno apportato all’originale edizione scaligera. Pubblico quindi delle grandi occasioni quello di ieri al San Carlo. Tutta la Napoli intellettuale, tutta l’aristocrazia ancora sensibile ed entusiasta per gli autentici avvenimenti d’arte, nonché uno stuolo... esotico di innumerevoli ammiratori del Maestro venuti da ogni parte d’Italia, e le figure più in vista del mondo teatrale e della critica italiana. Dinanzi ad un giurì così complesso ed esigente, dunque, Riccardo Zandonai ha portato ieri sera al giudizio la sua nuova creatura, e il verdetto non poteva essere più lusinghiero per Maestro. Cronaca lietissima, cui, per l’ora tarda, non ci è dato che accennare rapidamente. Dopo gli applausi scroscianti, unanimi che hanno salutato Riccardo Zandonai al suo apparire sul podio direttoriale, le prime battute tenui e lievi, che rendono lo scenario del crepuscolo sullo squallido spiazzo nevoso in cui Giosta si inebria di vino e di canto ed invoca la morte dell’anima e del corpo, prendono il pubblico per la semplicità con cui lo strumentatore ha saputo rendere la scena che si va man mano colorendo e rafforzando fino a giungere al massimo calore di accenti drammatici con i due canti di Giosta e della Comandante e col ritmo finale della canzone dei Cavalieri. L’atto termina con tre chiamate agli interpreti e quattro al Maestro. Il secondo atto, in cui più notevoli sono le modifiche apportate all’opera, è accolto entusiasticamente dal pubblico, che chiama sei volte alla ribalta interpreti ed autore. Il terzo atto è il più perfetto dell’opera per forza di ispirazione e per potenza descrittiva. Il pubblico lo ha applaudito, evocando ancora per sei volte interprete ed autori. Il quarto atto è il più denso di contrasti drammatici. In esso l’autore ha concertato, come in un’apoteosi, il concetto simbolico dell’opera d’arte: l’arrivo della Comandante morente e che, con la sua presenza soltanto, riporta nella fucina squallida la pace e la gioia del lavoro, acquista un tono solenne e maestoso cui si accompagna il grande coro dei lavoratori. Il successo è stato veramente unanime e strepitoso. Prima fra tutti a meritare il giusto premio è stata la Casazza, soprano [?] che oggi non ha rivali in arte e che ha interpretato la parte della Comandante in maniera inarrivabile, con accenti di forte drammaticità nella dizione chiara e colorita e con tutto lo slancio della sua magnifica voce. Altre lodi meritano il tenore Bisagni nella parte di Giosta, e il baritono Urbano in quella di Cristiano. Il basso Magli e Raffaella De Voltri (Anna) hanno dato tutto l’impeto della loro arte. Benissimo i cori, decorosissima, anzi eccellente, la messa in scena, di cui va data ampia lode all’impresa e particolarmente a quell’infaticabile metteur en scène di eccezione che si chiama Tina Laganà. L’orchestra ha suonato mirabilmente; sotto la guida di un animatore come Riccardo Zandonai è diventato strumento docile, plasmabile, ed ha raggiunto effetti di tonalità e di insieme veramente magnifici. In complesso, uno spettacolo di prim’ordine. QuestiCavalieri di Ekebù, con l’entusiastico successo napoletano di ieri sera, lanceranno ormai trionfalmente la loro canzone di gioia e di amore pel mondo. 369 “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai al Teatro Reale di Stoccolma, «Il Messaggero», 22.11.1928 - p. 2 3.2.1/81 STOCCOLMA, 21. La direzione di questo Teatro Reale, che due anni fa mise in scena il «Nerone» di Boito, ha procurato un trionfo, che avrà larga eco anche nella vicina Germania, a un’altra opera italiana. Iersera, dopo il periodo di tempo occorso per la traduzione in lingua svedese e per la preparazione del grande spettacolo, ha avuto luogo la prima rappresentazione dei «Cavalieri di Ekebù» di Riccardo Zandonai, invitato qui a dirigerla. Allo spettacolo si è voluto dare anche un particolare significato di omaggio alla veneranda scrittrice Selma Lagerlöw [sic], autrice del famoso romanzo che meritò il premio Nobel: «La leggenda di Gösta Berling». Da questa Arturo Rossato trasse, com’è noto, il libretto per la pittoresca opera di Zandonai, la quale, dopo che tre anni or sono fu data alla “Scala” diretta da Toscanini e poi in altri teatri italiani, non aveva avuto, prima di iersera in questo Teatro Reale, la consacrazione del pubblico straniero. Alla rappresentazione assisteva il Re di Svezia con la Corte, il ministro d’Italia don Ascanio Colonna, Selma Lagerlöw e tutto il mondo artistico e letterario di Stoccolma. Critici di giornali tedeschi e intendenti dei maggiori teatri della Germania erano qui convenuti per l’avvenimento, che in verità ha superato la generale aspettativa. La magnificenza dello spettacolo, in cui si ricostruisce nello scenario, nei costumi e in ogni particolare l’ambiente della vecchia Svezia; la felice realizzazione scenica da parte del librettista italiano del leggendario soggetto qui popolarissimo; la musica dello Zandonai, ora insinuante, ora trascinante, ricca di tutte le risorse del sinfonismo moderno, animata dalla bacchetta dell’autore medesimo con ardore tutto italiano, e infine la indiscussa valentia degl’interpreti hanno trasportato questo pubblico nordico al più caldo entusiasmo. Trenta chiamate a Zandonai e ovazioni ad ogni atto per tutti gli esecutori. La grande Radio di Berlino deve aver trasmesso iersera ovunque due atti dell’opera e l’eco delle acclamazioni. Tra gl’interpreti principali vanno segnalati la signora Kerstin Thorborg nella parte della “Comandante”, il tenore Beyron nei panni di “Gösta”, il baritono Larson in quelli di “Cristiano”. Splendide le masse corali e l’orchestra, in cui è violino di spalla il prof. Giovanni Turicchia, egregio artista italiano qui residente. Il maestro Zandonai, che si fermerà per dirigere altre repliche del fortunato spettacolo, ha ricevuto le personali congratulazioni del Re di Svezia. I «Cavalieri di Ekebù» rimarranno d’ora in poi nel repertorio del Teatro Reale. La direzione del teatro si è assicurata la esclusività di quest’opera nella traduzione e riduzione svedese, nella quale, per desiderio di Selma Lagerlöw, Rossato e Zandonai aggiunsero due nuove scene riproducenti episodii caratteristici della leggenda di Gösta Berling. La stampa svedese rileva stamane l’inconsueto entusiasmo del pubblico, che dice giustificato dal valore dell’opera d’arte italiana e dall’originalità della musica. 370 s., Zandonai a Stoccolma - “I cavalieri di Ekebù” al Teatro Reale (Dal nostro corrispondente), «Il Giornale d’Italia», 22.11.1928 - p. 2 Stoccolma, 21 novembre Ieri sera in questo Teatro Reale, alla presenza del Re e della Regina di Svezia, del Ministro d’Italia don Ascanio Colonna, delle maggiori notabilità artistiche e letterarie e di vari direttori di teatri tedeschi qui convenuti, ha avuto luogo la preannunziata prima rappresentazione in lingua svedese dei Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, invitato per l’occasione a concertare e dirigere la sua opera. L’avvenimento artistico si è fatto coincidere con festeggiamenti speciali alla illustre scrittrice Selma Lagerlöw [sic], ora settantenne, e vivente gloria letteraria della Svezia, autrice della Leggenda di Gösta Berling, donde Arturo Rossato trasse il libretto per la fantastica opera di Zandonai. 3.2.1/82 Questo Teatro Reale, che si è assicurata la proprietà della traduzione svedese dell’opera – compiutasi d’accordo con la Lagerlöw e gli autori italiani Rossato e Zandonai, che si recarono nei mesi scorsi a Stoccolma per questo scopo – ha approntato superbamente lo spettacolo. Onde l’opera, cui fu anche aggiunto, per desiderio della Lagerlöw, qualche episodio caratteristico del romanzo, è stata presentata nella sua forma più originale ed autentica, con scenari, costumi, attrezzi artisticamente riprodotti dal vero e conformi all’epoca ed all’ambiente svedese. Il successo del lavoro è stato assolutamente completo. Riccardo Zandonai, qui giunto alcuni giorni addietro, assunse la direzione degli artisti e delle masse, infondendo all’esecuzione tutto il calore della sua bacchetta. La sua musica ha trascinato il gran pubblico che gremiva il teatro a manifestazioni entusiastiche rarissime in questo ambiente. Ben trenta volte è stato chiamato alla ribalta festeggiatissimo e con vera soddisfazione dei non molti italiani che poterono assistere. Gl’interpreti tutti furono ammirevoli, specialmente la Tharborg [sic] nella parte protagonistica della Comandante. Il Re di Svezia si è altamente rallegrato col nostro geniale musicista e la stampa di stamane loda senza riserve l’opera d’arte italiana sorta dal magnifico soggetto svedese, cui il Rossato seppe conferire forma teatrale. L’opera, che dato il successo rimarrà nel repertorio del Teatro Reale, avrà ora parecchie repliche sotto la direzione dell’autore. La Radio di Berlino se n’è assicurata la trasmissione ai suoi milioni di abbonati. 371 Vivie Hjelm, Lettera da Stoccolma, «Mom-Mus» I/7, 29.11.1928 - p. 1, col. 4 / p. 2, col. 1 La prima rappresentazione de I Cavalieri di Ekebù data a questo Teatro dall’Opera il 20 u. s. in coincidenza con il 70° compleanno della poetessa Selma Lagerlöf (autrice del romanzo Gösta Berling da cui A. Rossato tolse l’argomento del suo libretto) è riuscita una imponente festa d’arte. Un pubblico innumerevole ed entusiasta, fra cui si notavano il Principe Ereditario, le R.R. Principesse e i Principi Wilhelm e Eugen, oltre alle Autorità e ai diplomatici, affollava la elegante Sala del Teatro. Sorvolando sopra gli episodi cerimoniali coi quali fu festeggiata la Regina dei poeti svedesi, posso dirvi che l’opera del maestro Zandonai fu ascoltata con sommo interesse ed applaudita con frenesia. L’autore, che dirigeva da un podio riccamente ornato e cifrato con le lettere R. Z., fu chiamato alla ribalta alla fine di ogni atto e colmato di ovazioni e di corone d’alloro. Con lui divisero gli onori della memorabile serata il maestro Grevillius (ripetitore dell’opera), John Forsell direttore del Teatro, gli interpreti Kerstin Thorberg, Brita Herteberg, Einar Beyron, Richter (Sintram) e, naturalmente sopra tutti, la poetessa settantenne. La sera stessa in un grandioso banchetto di 250 persone al Grand-Hotel Selma Lagerlöf, che sedeva fra due Altezze Reali, tenne a ringraziare in lingua italiana il maestro Zandonai e il librettista Rossato per aver dato alla leggenda di Gösta Berling quella veste musicale che da anni il romanzo aspettava. Ella stessa – disse – si era incaricata di apportare qualche modificazione d’accordo con gli autori italiani e col traduttore dott. Helmer Key. Quanto alla musica, fatte alcune riserve per la mancanza di un vero sapore nordico, essa è stata giudicata molto favorevolmente. Si riconosce che vi è molta bella musica, forme suggestive, teatralità nel miglior senso della parola, un’orchestrazione nobile ed efficace. La non spiccata personalità del compositore è compensata da una sicura esperienza scenica e dal corretto gioco delle voci. L’esecuzione fu grandiosa. Il maestro Zandonai diresse con molto calore e con temperamento, assecondato nel migliore modo dalla ottima orchestra. 3.2.1/83 I Cavalieri di Ekebù, concludono i giornali, diverranno senza dubbio un’opera di cassetta per l’Opera Svedese. Miglior riconoscimento non vi potrebbe essere. 372 F[erdinando] L[udovico] Lunghi, Zandonai trent’anni dopo - Riesumati “I Cavalieri di Ekebù” a Bologna, «Il Giornale d’Italia», 30.11.1952 - p. 5, col. 2-3-4-5 DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA, 29. - Dopo quasi trent’anni dalla prima alla Scala, ieri sera, al teatro Comunale, Bologna ha ascoltato come una novità «I cavalieri di Ekebù» di Riccardo Zandonai. Strano destino di attesa per talune opere, che rischia poi di portare al giudizio un lavoro fuori del tempo in cui è nato, a contatto con mutate sensibilità di ascolto e dopo che molte, talora prodigiose, spesso confuse cose sono accadute lungo il travaglioso cammino delle conquiste musicali. È una prova alla quale poche opere resistono. Per i Cavalieri la prova era anche più ardua. Se del romanzo infatti di Selma Lägerlof [sic] non si è qui dispersa la traccia di un amaro profumo di leggenda nordica e se della trama restano validi i motivi contrastanti e drammatici (morale, religione e perdizione, amore e sacrificio), il libretto di Arturo Rossato accusa invece oggi un meccanismo teatrale che talora annulla, in luogo di illuminarli, i momenti umani della vicenda e un linguaggio che ignora una schietta ed autentica poesia. A questo processo di revisione Zandonai rimane dunque solo ed è soltanto la sua musica che lotta col tempo e con quella pericolosa diffidenza con cui oggi si usa liquidare troppo leggermente valori artistici non caduchi. Solo con i suoi caratteri immutati, giacché non si affida al facile giuoco della tematica popolare, qualunque essa possa essere, né a quello più allettante del colore nordico. Suscitatore di atmosfere intrise di musica e nelle quali sempre le sue creazioni si configurano come per un coagularsi di suoni, il maestro trentino crea anche qui l’atmosfera in cui respirano ed esistono i personaggi; soltanto e pur sempre l’atmosfera di Francesca e di Giulietta, con in più una certa tagliente e ventosa crudezza timbrica che può, a prima vista, determinare quell’ambiente particolare; ma nella quale il respiro di creature, pur così strane e lontane da noi, non perdono i contorni melodici e il commosso piglio, così sacri a quelle eroine dell’amore. Non bisogna lasciarsi ingannare da quel tanto di acerbo e di lontano che differenzia quest’opera dalle altre; da quella aspra e talora primitiva crudezza di temi e di ritmi. Non appena fiorisce sulle labbra dei personaggi un respiro di amore o di dolore, di smemorata dolcezza o di crudeltà, Zandonai torna il cantore schietto, il commosso menestrello che racconta, di contrada in contrada, le eterne commoventi storie di amore e di morte. E se da quel mondo di nordica leggenda sembra per ciò stesso allontanarsi, esprime ugualmente e naturalmente, con la sua sensibilità mediterranea, ciò che di quelle creature è vero e commovente sotto qualsiasi parallelo: i motivi cioè eterni ed universali. Una tale frattura può apparire ad un rigido esame estetico e critico un difetto: è qui invece una specie di documento della coerenza di un artista che ha veduto sì un altro mondo ma lo ha tradotto nella sua lingua, senza per altro ignorarlo del tutto. Le due confessioni al primo atto, di Giosta prima e della Comandante poi, hanno sì un loro disparato e ben definito carattere e aderiscono a quel tanto di strano che pur c’è nella loro umanità tormentata nel chiuso involucro del nord; ma non appena Giosta ed Anna si guardano negli occhi, fiorisce quella dolcezza trobadorica con cui parlano le altre creature dello Zandonai. Sintram, il demoniaco padre di Anna, violenta quell’atmosfera con quel suo crudo sghignazzare da saga nordica, ma l’addio alla Comandante ci riporta a quelle desolate e irreparabili tristezze di cui il Maestro possedeva un suo segreto; e se la scena del teatrino, un gioiello di ingenuità e di sapienza strumentale insieme, ci mostra un artefice che tratteggia un quadretto amaro ed infantile 3.2.1/84 insieme in cui si disposa la nostalgia del violino solo alla voluta crudezza di una orchestrina improvvisata; se la cocente nostalgia del primo atto, in quella triste notte di perdute speranze, ha pure un suo sapore lontano e quasi boreale nel senso di voci che si spengono sotto la gelida coltre invernale, se il breve lamento del marito della Comandante può far pensare ad un richiamo di renne nel gelato deserto, tutto quanto vi è di umano, in amore e in dolore, e di violento, in disperazione e in fede, appartiene bene ad un linguaggio che resta sempre quello dello Zandonai di sempre. Il coro dei Cavalieri, ricorrente ed alla fine portato alle estreme conseguenze, sembra riassommare in sé tutti i termini di questo conflitto, senza tuttavia infirmare, nonché disperdere, quella poesia delle cose, quello fondo magico delle immagini ed il concretarsi del dramma per atmosfere, con quel processo di configurazione proprio dello Zandonai. L’opera resiste e non meritava l’oblio cui è stata condannata e merita invece che riprenda contatto con il pubblico, con l’augurio che ciò avvenga in una edizione altrettanto curata nell’insieme e felicemente assortita negli interpreti quale è stata quella di ieri sera, concertata e diretta con sapienza, forza e fede dal Mestro Oliviero De Fabritiis, cui va il merito di averla portata ad un nuovo battesimo con tutti i crismi di un’arte vigile, nobile e fervida. Gianna Pederzini è stata una Comandante di rara forza e personalità; la sua interpretazione è stata pari al suo alto, riconosciuto valore ed essa ha pienamente meritato l’ovazione con cui è stata salutata, sola, alla fine del terzo atto. La bella voce ed il ricco temperamento di Rina Malatrasi hanno conferito alla figura di Anna un delicato ed appassionato carattere. Particolarmente adatto alla parte ed alle esigenze vocali di Giosta è stato il bravo tenore Umberto Picchi; ottimo nella parte di Cristiano il baritono Giampiero Malaspina, bravo lo Stefanoni in quella di Sintram; a posto tutti gli altri. Degni di lode particolarmente i cori per affiatamento e belle voci. Varia ed efficace la regìa di Piccinato. Successo superiore ad ogni aspettativa da parte di un pubblico che, fuori dalle sue opere predilette, non è facile all’entusiasmo, ma che ieri sera ha sostenuto per tutto lo spettacolo il tono caloroso dell’applauso, sia a scena aperta ai principali interpreti che a fine d’atto, e che è stato prodigo di chiamate al Direttore e agli interpreti tutti. 3.2.1/85 Giuliano 373 Raffaello De Rensis, Il buon successo di Zandonai alla prova generale del “Giuliano” (Dal nostro inviato speciale), «Il Giornale d’Italia», 5.2.1928 - p. 5 Napoli, 4 febbraio. Alla prova generale del Giuliano assistevano tutti i critici e corrispondenti dei principali giornali italiani ed esteri, nonché Arnaldo Mussolini, l’on. Polverelli, l’on. Sansanelli, l’on. Ciarlantini, l’on. Frignani, l’on. Baistrocchi. Arnaldo Mussolini è stato ricevuto dal Duca di Bovino, presidente del Consiglio d’amministrazione del S. Carlo e dall’on. Barattolo. Dopo il primo atto, il direttore del Popolo d’Italia ha voluto esprimere a Riccardo Zandonai le sue sensazioni sull’opera d’arte e sulla bella esecuzione orchestrale e vocale. Il maestro si è lungamente trattenuto a colloquio con Arnaldo Mussolini. L’illustre uomo ha ascoltato tutta l’opera con grande ed intensa attenzione e alla fine ha rinnovato al maestro le sue felicitazioni. Arnaldo Mussolini nell’accomiatarsi ha espresso all’on. Barattolo, consigliere delegato dell’Ente autonomo del S. Carlo, tutto il suo vivissimo compiacimento per la risurrezione sancarliana, per i progressi tecnici realizzati, per la magnifica orchestra. Alle 0.30 Arnaldo Mussolini ha lasciato il teatro ritornando in albergo. Prima che la prova generale del Giuliano avesse avuto inizio, il vice-podestà di Trento Aris Beltramelli ha rimesso al maestro Zandonai il seguente messaggio dell’on. Marcello Vaccari, prefetto di Trento: «Illustre Maestro. Mi è impossibile di scendere per sabato a Napoli, pellegrino devoto fra i devoti, a rendere omaggio al musico di Giuliano, fra l’incanto del suo cielo e l’arco di sogno del Golfo guardato dalla scolta azzurra di Capri. Ma le mando, avido spettatore e messaggero della fierezza di Trento madre, un camerata fedele e buono, interprete del mio rammarico e dell’ansia della provincia lontana. Egli le dirà alla vigilia della nuova prova e della novella vittoria, tutta l’anima della sua e della nostra gente e riporterà per noi, dura razza alpina, fra queste montagne, ai nemici inviolabili, il canto di Giuliano, assunto nel canto divino del cielo partenopeo, saluto e profumo della patria immortale e fascista che si rinnovella nelle opere e nello spirito. A Lei e per Lei ogni mio augurio devoto». Non mi permetto precorrere gli avvenimenti i quali, specie se di carattere teatrale, presentano incognite e sorprese talora inspiegabili. Non poche volte le opinioni favorevoli di una prova generale sono state radicalmente trasformate dalla prima rappresentazione di un lavoro. Ma per non lasciare i lettori e gli ammiratori di Zandonai senza notizie fino a lunedì riferisco le impressioni e le previsioni sommarie della prova generale del Giuliano che ebbe luogo ieri sera e che procedette con tale ordine e prontezza da sembrare uno spettacolo in tutta regola. Del prologo sono stati particolarmente ammirati gli elementi corali, assai suggestivi, e la invocazione di Giuliano, vibrante di umanità e di commozione. Nel primo atto tanto il poeta Rossato che il musicista hanno reso efficacemente il terrore delle genti di Reginella perseguitate e seviziate da molti anni da un mostro insaziabile di vittime ed implacabile e la loro gioia al sopraggiungere di Giuliano liberatore. Il duetto fra Giuliano e Reginella che si conclude con un’appassionata promessa d’amore è un finissimo e melodioso ricamo. Il secondo atto, forse il più attraente e possente, mette in contrasto la squisita e gentile intimità familiare con lo scoppio tremendo della immane tragedia. Il punto scabroso e pericoloso dell’uccisione dei genitori è stato mirabilmente superato dall’arte di Zandonai la quale con semplicità di mezzi ha saputo toccare l’apice della drammaticità. Tenue e patetica in questo atto la nenia degli usignoli. L’epilogo si svolge in una atmosfera di religiosità. Il canto dei pellegrini che vanno a Roma per avere da Dio clemenza, l’incontro di Reginella con Giuliano, l’apparizione finale di Gesù Cristo in 3.2.1/86 una pompa di suoni, di canti, di luci, sono pagine di spontaneità e di immediata percezione. Rimandando dunque l’esame dettagliato dell’opera a dopo la prima rappresentazione, posso assicurare senza metterci nulla di mio che la impressione dell’eletto uditorio è stata più che mai favorevole e che tutte le previsioni sono per un vibrante successo della nuovissima opera. 374 [Augusto Cartoni], Il “Giuliano” di Zandonai a Napoli, «Il Corriere d’Italia», 5.2.1928 - p. 5, col. 2-3 (Dal nostro inviato speciale) NAPOLI, 4, matt. Napoli è nell’attesa vivissima per l’andata in scena della nuova opera di Riccardo Zandonai. Sono giunti i critici dei maggiori giornali d’Italia, e per questa sera in cui avrà luogo la prima rappresentazione è preannunciato l’arrivo di eminenti personalità dell’arte, della politica, della finanza. Ieri sera avanti ad un ristrettissimo numero di invitati ha avuto luogo la prova generale. Non è il caso di anticipare giudizi. Solo posso dirvi che l’opera ha prodotto in tutti una profonda impressione. Il Prologo, l’epilogo e il primo atto, che sono veramente di altissimo interesse musicale e teatrale, contengono pagine notevolissime. Il secondo atto è tutto di tinta triste e dolorante. Bellissima la canzone del focolare [!] e la scena del temporale. Zandonai – che dirige personalmente il lavoro – ha concertato in modo magnifico. Ottimi esecutori il tenore Lo Giudice, protagonista, e Maria Laurenti, Reginella. Il libretto di Arturo Rossato è tratto dalla Leggenda Aurea e più precisamente dal breve racconto di Iacopo da Varagine, il quale, nella sua rozza semplicità e brevità, ha dato al librettista più ali che tutte le altre larghe e fiorite narrazioni delle diverse leggende su Giuliano l’ospitaliero. La vicenda umana e tragica è svolta in due atti chiusi, direi così, tra il Prologo e l’Epilogo, nei quali il Rossato ha diffuso l’elemento leggendario e divino. Secondo il librettista, questo prologo e questo epilogo stanno a sostituire l’annuncio e la licenza propri delle rappresentazioni sacre. [...]9 Arnaldo Mussolini alla prova generale Nel pomeriggio di ieri è arrivato a Napoli il gr. uff. Arnaldo Mussolini, direttore del “Popolo d’Italia”. Lo accompagnavano l’on. Polverelli, il comm. Luigi Freddi e Fausto Maria Martini. Il gr. uff. Mussolini, come si era saputo in un primo momento, avrebbe dovuto recarsi alla conferenza dell’on. Ciarlantini, invece, dopo una breve sosta in un albergo della Riviera di Chiaia [...], si recò al “S. Carlo” per assistere alla prova generale della nuovissima opera di Riccardo Zandonai “Giuliano” che, come è noto, si rappresenterà stasera per la prima volta in Italia. [...] Intanto il ristretto pubblico intellettuale che aveva avuto la fortuna di essere ammesso alla prova generale del “Giuliano” ha riportato ottima impressione dello spettacolo ed ha presagito che il miglior successo arriderà stasera alla nuova opera dello Zandonai. 375 A[lberto] G[asco], “Giuliano” di Zandonai a Napoli. L’attesa - La prova generale, «La Tribuna», 5.2.1928 - p. 6, col. 1-2 (con una foto che ritrae insieme M. Laurenti e F. Lo Giudice) 9 Qui segue un ampio, dettagliato riassunto del libretto. 3.2.1/87 NAPOLI, 4. - L’apparizione sulle scene del Giuliano costituisce un avvenimento di prim’ordine. La musicalissima città di Napoli è fiera di essere madrina del nuovo rampollo del maestro Riccardo Zandonai. Si formulano lieti presagi per il neonato, e si spera che esso abbia una gran forza di vita, una corporatura atletica e una voce straordinariamente armoniosa. Conviene notare che l’autore di Francesca da Rimini e Giulietta e Romeo è popolare a Napoli come in nessun’altra città italiana. Egli può contare, qui, su legioni di fedeli estimatori, pronti ad ingaggiare per lui, e per il Giuliano, una generosa battaglia. Però è da ritenersi che quest’opera non darà luogo a dissensi. Essa ha una struttura relativamente semplice ed è stata composta dallo Zandonai con sicerità di fede e veloce ispirazione. Poco prima della prova generale ci siamo incontrati col maestro, il quale così ci ha parlato del suo Giuliano. -È un lavoro al quale io tengo, perché l’ho meditato per circa tre anni, pur avendolo scritto in un breve periodo di tempo. Ero suggestionato da alcuni splendidi affreschi trecenteschi del Duomo di Trento, nei quali è narrata con ingenuità adorabile, ma pure con rara potenza espressiva, la storia di San Giuliano l’Ospitaliero. Avevo la convinzione che da questa antica storia si potesse ricavare un libretto d’opera pieno di varietà: cioè in parte mistico e serenamente elegiaco, in parte fosco e violento sino all’estremo limite. Arturo Rossato, col suo vivo talento, è riuscito a scrivere il poema drammatico che io tanto desideravo. E non vi so dire con quanta gioia io l’abbia rivestito di musica... -Ma come mai, caro maestro, ella, che è un cacciatore appassionato, ha potuto essere attratto da un poema in cui si trova l’esplicita condanna dello sport venatorio, considerato come manifestazione di crudeltà verso i poveri animali che popolano le selve e i campi? -Mah... non saprei dire. L’uomo pensa in un modo, l’artista in un altro. È un caso di sdoppiamento di coscienza... -Non entriamo nel campo metafisico. La cosa, in fondo, è assai semplice. Ella sa di non essere un cacciatore brutale come il leggendario Giuliano, assetato del sangue delle innocue cerbiatte. Perciò non si sente in colpa come lui... -Realmente, non credo di aver dato mai prove di ferocia! -Stia pure tranquillo: nessuno le nega il diritto di fare allegro eccidio di leprotti e di volatili errabondi. Sant’Uberto le vuol bene... È destino che ella debba essere, nella sua duplice veste di musicista e cacciatore, il felice erede di Giacomo Puccini. -Intanto, esprimo il timido voto che il mio Giuliano non sia preso a fucilate dai critici allineati nella platea del San Carlo. -Non abbia sospetti, né timori. La sua opera incute a tutti un senso di rispetto e se essa sarà fantasiosa come la Conchita e la Francesca, o acremente drammatica come la Giulietta, le lodi saliranno al settimo cielo. -Spero che tutto andrà bene: voglio dirvi però che Giuliano non è fratello né cugino di Paolo Malatesta. Sotto alcuni punti di vista, l’opera che tra poco ascolterete è assai diversa da quelle che l’hanno preceduta. Nelle altre mie produzioni liriche il misticismo affiora appena qua e là; nel Giuliano esso predomina ben spesso, specialmente nel Prologo e nell’Epilogo. Ed ora basta. Corro al mio posto di combattimento. -Ascoltate l’opera e ditene... il meno male possibile. La prova generale Pochi privilegiati hanno potuto assistere alla prova generale del Giuliano. La direzione dell’ente Sancarliano ed il maestro Zandonai avevano impartito severissime disposizioni al riguardo. Migliaia di richieste, presentate anche da persone autorevoli, sono state respinte con intransigenza. Perciò nella sala del teatro vi erano soltanto alcuni artisti, un gruppo di giornalisti cittadini e varii critici musicali venuti espressamente a Napoli per conoscere da vicino ed esprimere un giudizio su questo Giuliano tanto atteso. Abbiamo notato fra i colleghi romani Giorgio Barini, Raffele De Rensis, Luigi Colacicchi e Vito Raeli. 3.2.1/88 La prova generale si è svolta impeccabilmente: l’opera ha durato poco più di tre ore. Riccardo Zandonai ha diretto con fermezza ed equilibrio ammirabili l’orchestra; tuttavia, egli appariva preoccupato e nervoso. Alla fine di ogni atto i presenti hanno rivolto complimenti al maestro, che però è scivolato via, ringraziando appena con un cenno del capo ed un rapido sorriso. Non sarebbe opportuno né simpatico esaminare dettagliatamente la musica del Giuliano prima che sia stata presentata al pubblico ed abbia ottenuto l’alto verdetto della folla. Comunque, diremo che il nuovo lavoro risulta oltremodo interessante e, in varii episodi, robusto e colorito con somma perizia. Entro la cornice mistica si muovono personaggi pieni di umanità, arsi dalla passione od oppressi dal dolore. Giuliano campeggia nell’opera e tiene di continuo desta l’attenzione dello spettatore: la sua violenza ed i suoi abbandoni sono tradotti musicalmente con sonorità appropriata ed accenti profondi. La parte drammatica, malgrado i chiari propositi dell’autore, prevale recisamente su quella mistica. Il terzo10 atto – quello in cui Giuliano uccide, per uno spaventoso errore, i propri genitori, è il meglio riuscito di tutta l’opera. Se ne riporta una impressione durevole. Il maestro Zandonai ha confermato le sue invidiabili qualità di musicista teatrale capace di affrontare qualsiasi arduo problema e di risolverlo brillantemente. È anche da notarsi che nel Giuliano la poesia e le melodie vocali non sono rare come in altre opere dello Zandonai. C’è anzi una canzone blanda e sospirosa che farà il giro dei nostri salotti: la canzone dell’usignolo. Ciò detto, si comprende come l’opera possa aspirare ad un’alta vittoria. Tuttavia l’argomento del dramma formerà oggetto di discussioni interminabili. La leggenda di San Giuliano ospitaliero ha scorci paurosi ed asperità sgradevoli, che il poeta Arturo Rossato non ha voluto attenuare. C’è veramente da rallegrarsi con lo Zandonai per la bravura di cui egli ha fatto sfoggio nel rivestire di note scene di ebbrezza sanguinaria e di demenza omicida, che avrebbero reso esitante e forse inerte ogni altro operista italiano odierno. Dell’esecuzione vocale e strumentale del Giuliano parleremo a suo tempo: ora ci basta segnalare che il tenore Franco Lo Giudice si è mostrato interprete eccezionalmente animoso e sicuro della sua parte, piena di difficoltà di ogni sorta. Ottima la signorina Laurenti, Reginella, che ha modulato la canzone dell’usignolo con sobrietà e con preziosa novità di effetti. 376 G[iorgio] B[arini], Grande successo del “Giuliano” di Zandonai al Teatro “San Carlo” di Napoli, «Il Messaggero», 5.2.1928 - p. 3, col. 5-6 (Dal nostro inviato speciale) NAPOLI, 4. Questa sera al Teatro S. Carlo si è avuta la prima rappresentazione dell’opera lirica del m. Riccardo Zandonai, su libretto di Arturo Rossato. Prima di parlare dell’opera sentiamo il dovere di registrarne subito il trionfale successo. Più oltre il lettore troverà la cronaca della serata: ci preme avvertire qui che, per giudizio unanime del grande pubblico accorso questa sera al “San Carlo”, il teatro italiano si è arricchito di un’opera non peritura, di un’opera di altissimo valore musicale e di sicura, immediata popolarità. Il libretto Come per Giulietta e Romeo il libretto per la musica di Riccardo Zandonai fu desunto direttamente dalla novella del Da Porto e non già dalla celeberrima, sfruttatissima tragedia dello Shakespeare, così il libretto del Giuliano non è stato tratto dal noto e suggestivo racconto del Flaubert, ma attinto alla pura fonte della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, la storia dei santi tutta imbevuta di fede sincera, d’ingenuo misticismo. Arturo Rossato ha voluto ben definire questo 10 Ovvero secondo. 3.2.1/89 fatto, riproducendo in principio del libretto il passo della Leggenda che si riferisce a San Giuliano l’Ospitaliero. I due atti in cui il dramma umano si svolge sono racchiusi, come in una cornice, tra il prologo e l’epilogo, nei quali l’elemento soprannaturale predomina: infatti la scena del prologo è in una grande selva tutta vibrante delle voci misteriose delle piante – radici, rami, fronde e fiori – e degli uccelli, che armoniosamente levano una lauda al Creatore, mentre vivide luci si diffondono intorno, seguendo e afforzando l’inno misterioso, celestiale. Ma le voci tacciono, le luci si spengono mentre prorompe l’impeto sanguinario di Giuliano, giovane ardente, tutto invaso da irresistibile passione per la caccia, e che prova una strana voluttà mentre abbatte con le freccie sicure selvaggina d’ogni specie, inebriandosi della strage e del sangue versato, e si accanisce contro una grande cerva che si sottrae ai suoi colpi infallibili, finché resta vittima coi propri cerbiatti della furia omicida di Giuliano. Ma quando gli occhi di fuoco della cerva si spengono, una voce tremenda si leva dal buio della foresta: «Tu che mi uccidi... ucciderai tua madre... e tuo padre!». Atterrato è Giuliano dalla maledizione: piangendo invoca la Divina Bontà, proclamando che non toccherà più freccia e arco, e andrà lontano dedicando la sua vita per l’altrui gioia. Nel primo atto apprendiamo che Giuliano è giunto ove un Barbaro possente da un anno asserraglia la Rocca di Reginella, abbattendo i cavalieri che han cercato liberarla: ora Giuliano sta combattendo e Reginella e i suoi attendono ansiosi e angosciati l’esito della lotta. Vittoria! Giuliano giunge: a traverso l’arcione è il cadavere del nemico. L’inno di gloria della turba è seguito da un inno d’amore. Reginella tende le braccia al suo salvatore, consacrandogli la vita. Giuliano a fianco della sposa adorata ha talvolta momenti angosciosi, ripensando ai genitori che ignorano la sua sorte; gli ululi di una fiera misteriosa che si aggira intorno alla Rocca lo turbano, incitandolo a rompere il giuramento di non più toccare arco e saetta; Reginella cerca addolcire tanta pena ripetendo la dolce canzone dell’usignolo, la canzone che soltanto i genitori di Giuliano conoscono ed egli ha insegnato a lei; essa medesima poi, con amorosa premura, gli consegna le armi e lo bacia, spingendolo a colpire la belva misteriosa. Rimasta sola, ripete ancora la canzone dell’usignolo, e con suo grande stupore essa ode due voci che le fanno eco: sono due pellegrini, in cui subito riconosce i genitori del suo Giuliano, i soli che conoscono la canzone. Li accoglie esultante, ha per essi cure affettuose, li spinge a riposarsi nel letto nuziale, e si allontana. Torna Giuliano spaventato e dalla tempesta scoppiata allorché ha mancato al giuramento e dalle misteriose voci maledicenti; si turba ancor più vedendo il desco imbandito per due; apre la tenda dell’alcova e nel letto nuziale vede con un uomo una donna, che crede sia la sua donna infedele, leva il coltello, si avventa. Rientra, ed ecco Reginella sorridente: l’orribile profezia si è avverata: egli ha ucciso il padre e la madre. Fugge ancora e si fa ospitaliero. Nel luogo romito ove si è ritirato a pregare, con le sue opere di pietà e di carità ottiene alfine la grazia: il Salvatore gli appare come divina visione, ed egli muore benedetto da Lui. La musica Il libretto del Rossato, chiaro, plastico, ricco di versi armoniosi, incisivi, ha offerto a Riccardo Zandonai elementi drammatici, momenti di una tragicità impressionante che ben rispondono al temperamento del maestro, che ne ha ricavato espressioni ed effetti di eccezionale efficacia. Nel prologo lo Zandonai ha coordinato e fuso con omogeneità ammirabile le voci misteriose della selva, religiosamente vaghe, e il vivo canto degli uccelli: i gorgheggi dell’usignolo, il ritmo insistente del cuculo e il fruscio del vento fra le fronde, che pur si odono mentre Giuliano si abbandona alla sanguinaria foga della caccia; e il turbinare della tempesta sottolinea gli accenti paurosi delle voci maledicenti, finché l’augurale promessa di redenzione fonde in un complesso riboccante di sonora esultanza le voci del cielo e della terra, mentre squillano le angeliche trombe. Tutto ciò conferisce al prologo, pure a traverso il vivo contrasto dei sentimenti, una unità organica ammirevole; l’abilità del musicista ha saputo graduare in modo stupendo l’intensità delle 3.2.1/90 sonorità corali e orchestrali: la spezzatura ritmica nella declamazione e nel canto di Giuliano dà bel risalto alla fluente onda melodica delle voci osannanti che raggiungono eloquenza possente. Nel primo atto è da rilevare, subito dopo le voci delle scolte, l’ampia declamazione musicale di Reginella, alla cui varietà, aumentata per l’intervento delle voci dell’Arciere e degli altri militi, conferisce un notevole senso di unità l’intervento di un breve tema risolvente in un gruppetto caratteristico che serpeggia a traverso la partitura insinuandosi nella trama musicale con naturalezza e spontaneità grandi. Non meno efficace è il contrasto tra la melanconica dolcezza del canto della giovane folle e i suoi scatti drammatici, le stridule risate, la danza angosciosa, finché l’ansietà nell’attesa di Giuliano si accentua: gli appelli delle trombe, le affannose frasi dei messaggeri si seguono con crescente animazione; la luce del giorno nascente divien più viva, mentre irrompe la folla e il galoppo del cavallo si avvicina, finché al giungere del guerriero vincitore nell’aspra lotta prorompono vibranti le grida di esultanza. Riccardo Zandonai, con la stupenda intuizione e attuazione delle espressioni sonore meglio rispondenti al momento drammatico, la sicura visione delle ragioni e delle esigenze sceniche, ha creato un episodio d’impressionante potenza: tale però da non fare apparire meno suadente e profonda la scena seguente, in cui Reginella apre il suo cuore a Giuliano e le anime dei due giovani si uniscono in un bacio. Anche qui vi sono momenti di eccezionale efficacia, veramente sentiti, some la bella frase di Giuliano: E un dì se al rintoccar della campana, e quella all’unisono delle due voci Son la tua fonte dal fresco cantare, frasi lumeggiate da felicissimi disegni imitativi. Nella prima parte del secondo atto è sopra tutto degna di rilievo la eleganza e la dolce armoniosità della fresca melodia della canzone dell’usignolo, la quale avviva e illumina la scena, ch’è però intorbidata dal tormentoso turbamento di Giuliano, dalla tristezza male augurante che circonda i due sposi; un tema breve, che si presenta al principio dell’atto e si ripete con grande insistenza sottolineando foschi presentimenti, conferisce alla scena un senso di desolante malinconia; il ringhiare della misteriosa belva e le raffiche del maltempo ne aumentano ancora la tristezza. La tragica violenza dell’ultima parte dell’atto, culminante con parricidio, assume per lo scatenarsi delle maggiori energie foniche un carattere che è perfino apparso terrificante, così da scuotere e impressionare: la sicura abilità del maestro vi si manifesta singolarmente efficace. Dopo la tempesta, la calma: un preludio dolcemente sereno prepara assai bene l’epilogo. Il canto dei pellegrini si svolge largamente, melodico, spontaneo, alternandosi col canto del Crocifero, finché giunge Reginella. Malinconico è l’incontro dei coniugi, ravvivato da ricordi degli episodi precedenti; tutta la scena dell’Incognito, fino a che se ne determina la natura Divina, e le celesti legioni intonano canti osannanti, è tutta sostenuta da arpeggi armoniosi, incessanti, che vanno man mano crescendo d’intensità, così da ricondurre al pensiero le impressioni vive del prologo, chiudendo lo spartito con una solenne apoteosi. Nel Giuliano si riscontrano assommate tutte le doti artistiche proprie del maestro Zandonai: limpidezza e scorrevolezza melodica che si snoda e plasma con singolare equilibrata giustezza; stupenda abilità formale che si esplica in una armonizzazione ingegnosa, elegante, ardita, senza contorsioni arbitrarie; in una strumentazione varia, colorita, che lumeggia plasticamente vigorosa il quadro scenico e dà rilievo superbo ad ogni atteggiamento, ad ogni espressione di vita; in una quadratura organicamente salda che conferisce ai singoli episodi ed al complesso di ogni atto e dell’intero dramma un significato, un carattere unitario netto e preciso, profondamente significativo. L’esecuzione Il Giuliano ha avuto al San Carlo una esecuzione magnifica, tale da porre in piena luce ogni particolare, in una espressione sintetica completa ed eloquente. [...] Abbiamo potuto rilevare quale eccellente risultato abbia avuto l’ardita azione del Vitale nel rinnovamento dell’orchestra che è divenuta organismo perfetto nei singoli artisti e nel complesso; e il maestro Zandonai esprimeva la propria soddisfazione ammirata, sentendo l’opera sua così ben 3.2.1/91 compresa e resa dalla omogenea e flessibile massa strumentale. Così pure nell’andamento scenico, nell’allestimento, il Giuliano ha trovato al San Carlo una realizzazione ottima sotto ogni aspetto. Franco Lo Giudice è un magnifico protagonista, per bellezza di voce, arte di canto, accento, vivezza impetuosa e dolcezza mistica; Maria Laurenti rende con finezza e nobile purezza di sentimento la figura gentile di Reginella, rivelando ammirabili doti di cantante e d’attrice; Dante Perrone e Tamara Beltacchi, nelle parti dei genitori di Giuliano; Maria Carbone, Alfredo Auchner e gli altri tutti contribuiscono assai efficacemente all’attuazione dell’opera d’arte. Ugo Falena, ben coadiuvato da Antonio Lega e Giuseppe Lualdi, ha curato l’allestimento e la vita del dramma sulla scena, in modo degno della maggior lode; gli scenari sono caratteristici e suggestivi; il giuoco delle luci, così importante durante l’intero spettacolo, è riuscito assai bene. Il Prefetto di Trento, on. Vaccari, ha scritto al M.o Zandonai una nobile lettera in cui tra l’altro dice: «Mi è impossibile scendere per sabato a Napoli, pellegrino devoto fra i devoti, a rendere omaggio al musico di Giuliano fra l’incanto del puro cielo e l’arco di sogno del golfo guardato dalla scolta azzurra di Capri. Ma le mando, avido spettatore e messaggero della fierezza di Trento, madre, un camerata fedele e buono, interprete del mio rammarico e dell’ansia della provincia lontana. Egli le dirà, alla vigilia della nuova prova e della novella vittoria, tutta l’anima della sua e della nostra gente». Trionfale successo Il Teatro S. Carlo era splendido stasera pel pubblico elettissimo accorso in folla ad assistere alla importante rappresentazione. Come abbiamo detto, il successo dell’opera è stato completo, entusiastico. Riccardo Zandonai, con la sua consumata abilità, da vero maestro che sente profondamente il teatro, ha saputo avvincere ed entusiasmare l’uditorio dal principio alla fine dello spettacolo. La gradazione così bene intesa della sonorità, che giunge a risultanze stupende, ha procurato ovazioni interminabili alla fine del prologo con sei chiamate agli artisti e all’autore, due al Rossato, una al maestro dei cori Papi. Al primo atto grande ammirazione per la grandiosità dell’effetto fonico all’arrivo di Giuliano trionfante. Alla fine sette chiamate agli artisti, cinque al maestro, due al poeta. Nel secondo atto applauso a scena aperta alla canzone dell’usignolo. Alla chiusa così straziante e possente per tragica vigoria, otto chiamate agli artisti, cinque al Zandonai, tre al Rossato. La chiusa dell’epilogo, che ricorda molto sensibilmente la chiusa del prologo, ha impressionato profondamente l’uditorio: vi sono state cinque chiamate agli artisti, tre all’autore, due al librettista. Sopratutto Riccardo Zandonai è stato fatto segno ad applausi straordinariamente entusiastici. Tutto il pubblico unanime in piedi acclamava. L’opera avrà certamente molte repliche e la vera grande fortuna che merita. 377 Luigi Colacicchi, “Giuliano” di Rossato e Zandonai ottiene un lusinghiero successo al San Carlo, «Il Popolo di Roma», 5.2.1928 - p. 7, col. 2-3-4 (Dal nostro inviato speciale) Napoli, 4 notte. Il battesimo della nuova opera di Arturo Rossato e Riccardo Zandonai si è svolto questa sera al San Carlo in una atmosfera più che festosa, vibrante di cordialità. Riccardo Zandonai è legato alla città di Napoli da vecchia amicizia ed i napoletani, in cambio, hanno poi l’aria di considerarlo uno dei loro. L’attesa per Giuliano era vivissima ed il carattere di mondanità che generalmente hanno questi avvenimenti artistici questa volta era passato in seconda linea. 3.2.1/92 L’accoglienza che il pubblico ha rivolto al Giuliano è stata veramente affettuosa ed il maestro Zandonai, che già al suo apparire nella sala era stato salutato da un applauso augurale, dopo il prologo ha ottenuto il primo attestato di stima dal pubblico di tutti gli ordini di posti. Le chiamate dopo questa prima parte dell’opera sono state sette, di cui quattro a Zandonai, che si è presentato al proscenio una volta solo e le altre tre rispettivamente con gli interpreti, col librettista Rossato ed il maestro Papi istruttore dei cori. Il successo delineatosi così fin dal prologo si è venuto man mano accentuando e dopo il primo atto le chiamate sono salite ad otto di cui quattro all’autore. Il secondo atto, come era prevedibile, ha maggiormente interessato l’uditorio nei confronti dei precedenti e si è avuto anche uno spontaneo e nutrito applauso a scena aperta dopo la ninna-nanna dell’usignolo, miniata deliziosamente dalla signorina Maria Laurenti. Alla chiusa di questo atto le feste sono state molto calorose e si registrano nove chiamate. Il maestro Zandonai ha dovuto presentarsi a ringraziare cinque volte, di cui due insieme ad Arturo Rossato. Alla fine dell’opera cinque chiamate hanno salutato Riccardo Zandonai e gli interpreti. Dalla leggenda al libretto La «Leggenda aurea» di Iacopo de Varagine vescovo di Genova, dalla quale Arturo Rossato ha tratto il suo libretto per la musica di Zandonai, ha la freschezza e la linearità proprie alle prime forme della nostra arte narrativa in volgare, e non poche sono le analogie spirituali e letterarie che si riscontrano con i Fioretti di San Francesco. Ad Arturo Rossato non deve esser stato difficile comprendere queste necessità, cosicché il suo libretto nel mentre risponde alle esigenze della sceneggiatura – la distribuzione degli episodi in un prologo, due atti e un epilogo risulta equilibrata – rispetta quasi sempre anche quelle specifiche proprie alla natura del soggetto trattato. Esso è abbastanza comprensivo inoltre dei rapporti che debbono intercedere tra verso e suono affinché la parola non faccia da zavorra alla musica. Vero è che talvolta il versificatore prende la mano al poeta, riuscendo magari a creare dei versi ben limati ma dannosi all’economia dell’opera, poiché costringono il musicista ad inutili vagabondaggi che ritardano il succedersi degli eventi. Ma in fatto di soste non desiderabili più di tutte guasta quella determinata dalla scena della fanciulla pazza, scena la cui sovrapposizione alla leggenda non ci sembra giustificata da nessuna esigenza d’ordine espressivo. Il Rossato ne ha ottenuto in compenso un improvviso e non certo opportuno stagnarsi dell’azione proprio quando questa doveva incalzare per giungere rapidamente all’incontro di Giuliano con Reginella, presentito fin dalle prime battute dell’atto. Le parti affidate al coro (nel quale vanno comprese le voci del cielo, della terra e degli angeli) son parse invece giustamente distribuite e tali comunque da offrire al musicista l’occasione di misurare le sue forze con gli elementi sovrumani e divini cui s’è accennato. Per annunciare che il Signore aveva accettato la “penitengia” di Giuliano, non era indispensabile che Rossato facesse scendere in terra, cioè sul palcoscenico ch’è come dire terra terra, addirittura il Signore stesso in cambio dell’inviato celeste del racconto. È chiaro che in questi casi dalla grandiosità della mistica apoteosi è facile cadere nel grossolano e nel banale, mentre è difficile che la musica possa sostenere una siffatta coreografia: e soltanto apparato coreografico è apparso stasera la scena conclusiva del dramma. I caratteri della musica Anche con i suoi difetti ed eccessi la riproduzione scenica della miracolosa storia di Giuliano non esce ad ogni modo dal campo del mistero, e Zandonai avrebbe dovuto considerare le costrizioni che il genere scelto imponeva alla sua musicalità. È evidente la ricerca di un’atmosfera più limpida e più raccolta che non la consueta fosca e ferrigna di quasi tutte le sue opere precedenti. Nondimeno, tolti alcuni momenti in cui egli è riuscito a realizzare queste intenzioni (non nei punti capitali però), bisogna dire che nel complesso Giuliano è immerso nel medesimo clima melodico, 3.2.1/93 armonico e timbrico dei suoi drammi d’amore. È quindi più dramma che mistero, più lavoro dispersivo che raccolto, più opera sensuale che spirituale, ad onta della funzione temperatrice del coro rappresentante il potere divino. Questo coro che riassume in sé le voci del cielo e della terra, degli angioli e delle belve, che ammonisce e minaccia, condanna e perdona, esalta e glorifica, ha in fondo la medesima importanza e gli stessi compiti dell’antico coro greco: soltanto che qui la legge ineluttabile del fato è sostituita dal verbo infallibile che regna nel mondo cristiano. Era proprio esso, adunque, che avrebbe potuto rendere efficacemente la religiosità della leggenda. Zandonai servendosi di inizi melodici or gravi e cupi, or ariosi e diafani, dà di quando in quando il la dell’intonazione ambientale necessaria; con poca fortuna però, ché le masse vocali prendono i motivi ma svolgendoli in modo non adeguato: troppo pomposi o melodrammatici appaiono per un coro il cui fine è quello di evocare il divino e avvicinarlo all’umano. Non si comprende come Zandonai non si sia rivolto alla polifonia per risolvere questo problema estetico certo di non facile soluzione. La parte drammatica del Giuliano ha anch’essa risentito di una, per così dire, maniera forte, ché specialmente dal lato della strumentazione questa è così carica e soprassatura di timbri e di sonorità che talora nei punti melodicamente meno felici al pieno orchestrale corrisponde il vuoto espressivo; tale fatto si riscontra ad esempio nella scena del duplice delitto. La maniera forte però non disdice al quadro grandioso del ritorno di Giuliano dalla battaglia: qui il descrittivismo strumentale alternato e fuso con le grida del popolo ansioso dell’esito della contesa raggiunge pienamente il suo scopo di rappresentare non solo un fatto d’arme, ma particolarmente la mutata, sia pure temporaneamente, psicologia di Giuliano fattosi soldato. L’episodio per altro ha la sua ragion d’essere nel determinare l’incontro e poi le nozze fra Giuliano vittorioso e la castellana liberata. Si può dire anzi che costituisca l’anello di congiunzione fra la prima e la seconda parte della leggenda e prepari logicamente l’avverarsi della profezia tragica. È naturale che la musicalità di Zandonai abbia trovato il suo più naturale rifugio nei momenti di lirismo amoroso nei quali egli è stato schietto, semplice, veritiero. Allorché la leggenda aurea diventa fatto comune o sulla scena non più angioli si ammirano né più ringhi si sentono terribili ma indisturbati vi campeggiano due giovani che si amano e se lo dicono, l’onda sonora si placa e si fa tersa. In tutto il duetto del primo atto e in quello del secondo culminante nella bella nostalgica ninna-nanna cantata da Reginella la linea melodica assume un’importanza soprattutto vocale mentre lo strumentale, sia come complesso di timbri sia come successioni d’armonie, è ridotto all’essenziale. Reginella, che già dalle battute iniziali del primo atto è stata come dolcemente “segnata” sì da acquistare una certa fisionomia sua propria accentuatasi con la ripresa degli stessi temi al principio e alla fine del duetto d’amore dello stesso atto, con la ninna-nanna assume una decisa personalità cosicché si può dire che Zandonai ha musicalmente creato il suo carattere. Ma è l’unica persona del dramma ch’abbia avuta un’impronta musicale ben definita, poiché la figura di Giuliano non può certo vantare lo stesso privilegio nonostante l’incisività del declamato onde s’esprime nei momenti più concitati. La leggenda di Giuliano vera e propria che ha movimentato l’ascesa dallo stato semibruto al cosciente fino al sublime non si può pertanto affermare che abbia avuto una soddisfacente estrinsecazione musicale. L’esecuzione Come è ormai simpatica consuetudine del maestro trentino, anche questa volta Riccardo Zandonai ha curato personalmente la concertazione della nuova opera. Giuliano, per ciò, oltre ad aver avuto una impostazione solida ed equilibrata, è stato anche sorretto da un calore interpretativo veramente paterno, al quale ha pienamente corrisposto la devota attenzione della massa strumentale. Questa ha dato all’autore e direttore tutto quanto egli ha da loro richiesto e quindi è da segnalare una esecuzione orchestrale fervida e vibrante. 3.2.1/94 Sul palcoscenico il tenore Franco Logiudice [sic] aveva dinanzi a sé un compito ben difficile. Giuliano è infatti per la sua multanimità personaggio seducente ma complicato. Il Logiudice ne ha cavato fuori tutto quel che poteva e sebbene si sarebbe preferita in lui una interpretazione meno melodrammatica, più sfrondata e quindi più vicina allo spirito della leggenda, pure il giovane tenore ha superato la prova specialmente mercé i suoi mezzi vocali ampli e robusti. Reginella ha avuto come madrina la signorina Maria Laurenti, una artista dalla voce forte e risonante e dal timbro oscuro assai gradevole, qualità che, non disgiunte ad un senso musicale sviluppato, le hanno consentito di impersonare delicatamente la ben delineata figura della dolce sposa di Giuliano. Le parti minori tra “la fanciulla” (Maria Carboni) [sic], i genitori di Giuliano (Dante Barone [sic] e Tamara Beltracchi) ed i vari messi, arcieri, fanti, si sono tutti disimpegnati senza difficoltà. Le masse corali, cui era stata affidata una parte di alta importanza, hanno cercato, sotto la cura del valoroso e fattivo maestro Papi, di comportarsi nel miglior modo possibile. È da riconoscere quindi in esse molta buona volontà e disciplina, ma la realizzazione di questi lodevoli propositi è parsa non proporzionata allo scopo da raggiungere, sia dal punto di vista vocale che dal punto di vista dei movimenti e degli aggruppamenti. Gli scenari, non allontanandosi dal tipo convenzionale consacrato da decenni di spettacoli lirici, particolarmente a questa leggenda oscillante fra il reale e l’irreale non erano troppo adatti: per ciò non hanno saputo dare al pubblico l’imprecisione vaga richiesta dal soggetto. 378 A[ugusto] Cartoni, “Giuliano” di Zandonai al S. Carlo di Napoli, «Il Corriere d’Italia», 7.2.1928 p. 5, col. 1-2-3-4 (con una foto di scena del I atto) (Dal nostro inviato speciale) NAPOLI, 5 matt. In questi giorni si viveva a Napoli nell’ansia ardente per la prima rappresentazione della nuova opera di Riccardo Zandonai «Giuliano» [in] un prologo, due atti ed un epilogo di Arturo Rossato. La Casa Ricordi, per l’occasione, aveva inviato qua il suo stato maggiore con a capo l’ottimo ed infaticabile comm. Clausetti mentre i giornali, nazionali ed esteri, avevano mandato appositi corrispondenti, ché l’avvenimento impegnava a fondo l’arte italiana trattandosi di uno dei suoi rappresentanti più nobili e più significativi. Il che, mentre spiega la ragione della grande attesa, può lasciare pallidamente immaginare qual magnifico colpo d’occhio offrisse ieri sera il San Carlo. Per ripetere la frase di rito, ma esatta, diremo che non un posto vuoto vi era e che la vendita dei biglietti, ad un prezzo relativamente... confortevole (cinquanta lire l’ingresso), si era svolta animatissima. E per ripetere un’altra frase di rito ed anche questa non meno esatta, diremo che tutta Napoli assisteva allo spettacolo. In un palco di secondo ordine notato anche S. E. Mattei Gentili. Pochi minuti dopo le nove Riccardo Zandonai salì sul podio direttoriale per assumere la direzione dello spettacolo. Al suo apparire il pubblico scoppiò in un applauso fragorosissimo, mentre le luci si rialzavano. La bella dimostrazione durò qualche minuto sempre calorosa ed entusiastica. Poi le luci si abbassarono di bel nuovo, cessò il brusìo della folla. Delle voci lontane lontane che sembrava volessero perdersi nell’immensità dello spazio presero ad intonare un’Ave dolcissima. Il «Giuliano» di Zandonai prende così contatto con il pubblico. Susciterà come le sue sorelle maggiori l’entusiasmo della folla? La musica Sopra un accordo di settima tenuto dalle sole voci termina il primo coro e subentra l’orchestra con un morbido tremolato mentre la tela si leva lentamente sulla scena di una grande selva nella luce del giorno che muore. L’orchestra si culla in un languido e melodico movimento intrecciandosi con un canto corale e leggere folate di vento. Sono canti rigogliosi che si fondono, che si agitano tra 3.2.1/95 le due masse, che si allargano e ringagliardiscono fino all’entrata di Giuliano, trionfante sugli abitatori della foresta. Qui è tutta vivacità orchestrale senza melodie ben definite. Ne troviamo una dolcissima alle parole «Peccai, Signore». È l’orchestra, precisamente il violoncello, che ne sostiene il canto. Questa pagina che passerà sotto il titolo di «Pianto di Giuliano», di una profonda e sincera espressività melodica, è indubbiamente una delle scene musicali più sentite e forse anche più appassionate. Due note affidate all’arpa – e che avremmo invece giurato, alla lettura dello spartito, che sarebbero state di assoluta padronanza dei violini – danno la impressione di un pianto accorato. Nel mesto e pietoso andamento melodico l’arpa mantiene un predominio assoluto. Ancora una volta, nell’epilogo, risentiremo questa bella melodia; adesso sopra accordi di una languida tenerezza il coro riprende il suo inno. A mezza voce sul principio, poi rianimandosi sempre più forte, sempre più solennemente, poi in tutto il suo vigore. Amore, amore se’, bello Signore. L’atto si chiude in un fortissimo di grande effetto al quale prendono parte il coro e l’orchestra. Eccoci ora nella rocca di Reginella vivendo con lei l’attesa ardente per l’arrivo di Giuliano. Arcieri sono alla vedetta tra le merlature della rocca. Alba sulla scena ed alba in orchestra. Poche battute di colore, un colore rossastro mentre il corno lancia uno squillo misterioso. Gli arcieri, i soldati si chiamano: In veglia. Veglio! Trema già in ciel l’aurora. Arciere! Tornerà! Deve tornare... canta Reginella. Il canto suo è dolcissimo, di una tenerezza che avvince, di una espressività che commuove. L’orchestra l’asseconda con vivace colore: ora unendosi al suo canto, ora dondolandosi in un tranquillo cadenzare di quartine. Questa anche è una bella pagina di sentita passione. Al canto di Reginella fa seguito l’entrata del coro prima a sole voci, poi fra il rianimarsi dell’orchestra, che s’innalza sempre per preparare rapidamente la scena della folla che si svolge purtroppo freddamente tra la indifferenza della massa corale. Ora l’alba rosseggia, e nel risveglio del giorno si rianima il movimento orchestrale che prende poi a stringere affannosamente quando gli arcieri ed il messaggero preannunziano l’arrivo di Giuliano: Giunge! Giunge; il suo cavallo... Pare un’ombra... Tra gli squilli delle trombe si ode ben distintamente il calpestio del cavallo, che aumenta, che stringe, che incalza fino alla irruzione di Giuliano sul palcoscenico ricordando un po’ musicalmente, questa scena, la meravigliosa cavalcata di Romeo, mirabilmente condotta. Siamo ormai alla chiusa dell’atto che termina con il duetto fra Giuliano e Reginella dopo che il popolo ha inneggiato alla vittoria. Qui il musicista non ha ritrovato quel sentimento tanto squisitamente convincente della Francesca, pur mantenendosi inalteratamente aristocratico e procedendo fra scatti passionali e frasi languide. Le ultime battute si perdono in una penombra incerta. Terzo atto – o secondo dopo il prologo, come vuole il librettista – la stanza di Reginella. Reginella e Giuliano son là, sulla scena, il loro silenzio è cullato da un movimento in tempo ordinario al quale si uniscono accordi ai bassi e negli istrumentini di buonissimo effetto coloristico. Siamo prossimi al temporale, alla scena, diremo così, della perdizione, al momento cioè in cui Giuliano, rinnegando il suo giuramento, torna alla selva agitata dalla tempesta per uccidere. Ma prima assistiamo alla muta scena delle ancelle che vanno e vengono nel preparare l’alcova, ed ai dolci colloqui dei due protagonisti che rievocano il passato, dove il musicista mantiene un cadenzare lento e melodioso, spezzato ogni tanto da guizzi di lampi, che l’orchestra mirabilmente descrive e da qualche frase impetuosa degli archi. Si procede di preferenza in un movimento in tempo binario. Si giunge così alla canzone dell’usignolo, animata da una melodia tenue e delicata come una carezza. Tutta espressione, tutta affettuosità questa canzone che il pubblico palesemente attendeva con grande impazienza e che riscuote l’unico entusiastico applauso a scena aperta. 3.2.1/96 Nuovi scoppi di folgore interrompono il dolce idillio e così si procede in un alternarsi di dolcezze e d’improvvisi scatti fino alla scena della separazione che vien chiusa da poche battute minacciose e vigorosamente marcate. Sopra languidi accordi di quinta, Reginella riprende la canzone dell’usignolo. Sostenute sempre da accordi di quinta, alla sua fanno eco due voci. Segue una scena rapidissima in cui l’orchestra non offre un interesse spiccato, ma che si risveglia all’entrata di due vecchi, che sono, come si sa, i genitori di Giuliano. Anche qui l’orchestra non presenta che un movimento di grande semplicità. Il timore del padre per l’incerto ritorno del figlio trova riscontro in due o tre guizzi orchestrali che richiamano il saettare dei fulmini nel tremolio dei contrabassi che accompagnano il tuono. Poi con il sonno dei vecchi l’orchestra sembra disperdersi. L’entrata di Giuliano e l’intima sua lotta per aver tradito il giuramento di un giorno ed il timore che possa avverarsi la triste profezia sono descritti mirabilmente. È questa una scena di grande impeto e condotta mirabilmente. Come pure mirabilmente è condotta la scena in cui Giuliano dubita della fedeltà della sposa. Qui, oltre un movimento insistente di buonissimo effetto, ve ne ha uno melodico che dà la impressione del dubbio perché ha un qualche cosa di incerto e di timoroso. Egli si domanda Chi è là? Chi dorme? e la melodia cui alludiamo, di appena quattro battute, si affaccia e lo rincorre nel dubbio e nel delirio straziante. Ma vince l’orgoglioso desiderio di vendetta e scoppia l’orchestra fragorosissima, tumultuosamente, mentre Giuliano ciecamente colpisce e uccide. Dopo il fortissimo straziante, un glissando rapidissimo, e poi una nota profonda, misteriosa. La strage è fatta. Silenzio e più nulla. Ma al pallido chiarore di una lampada torna Reginella, calma e sorridente, come calma è ora tutta la massa orchestrale. Al tumulto angoscioso di Giuliano fa eco quello dell’orchestra. Ora è tutto un grido spasimante, che si risolve in un pianissimo nel quale si risente quel movimento dubbioso che ha preceduto la tragica scena della strage. Finalmente l’epilogo: una calma orchestrale che dà subito una impressione di pace e di serenità. Solo l’orchestra descrive la scena dell’eremita orante. Giunge da lontano il canto dei pellegrini che aumenta la sonorità perché si avvicinano, anzi eccoli sulla scena con il loro Crocifero in testa mentre un lungo pedale in si bem. accompagna tutto il loro passaggio. Sempre in questa calma di pace e serenità si svolge l’ultimo colloquio tra Reginella e Giuliano con qualche leggero risveglio, con qualche ombra più marcata. Siamo ormai alla chiusa dell’opera: alla apparizione dell’Ignoto, che chiama a sé Giuliano per accoglierlo nel regno dei cieli tra il canto melodioso degli angeli che si sente ora distintamente, accompagnato da un arpeggiare di archi e di arpe fino alla fine e che saluta anche la visione celeste degli angeli che intrecciano corone di rose. Su questa visione di mirabile effetto cade per l’ultima volta la tela. Giuliano, la nuova opera di Zandonai, è ormai del pubblico. L’opera d’arte Fu circa due mesi fa che trovandosi Riccardo Zandonai in Roma per i concerti sinfonici all’“Augusteo”, avemmo occasione di intrattenerlo sulla sua nuova opera11. Egli, parlandoci con il suo animato calore, ci spiegava le intenzioni alle quali aveva deliberato attenersi: «Scrivere della musica lineare». E dicendo questo allontanava le due mani tenendo uniti l’indice e il pollice come se scorressero sopra un filo di rete. Ieri sera nei punti di maggior calma ci sembrava rivederlo così: allontanando le due mani come se tracciasse una linea. A tal principio il Zandonai si è fedelmente attenuto. Che abbia scritto della musica lineare e di una sincera chiarezza è fuori dubbio. Che si sia attenuto ad un genere mistico più che umano, come a suo tempo aveva detto, è pur ancor vero. Che abbia investito pienamente il dramma, là nei punti che l’azione glie ne presentava il motivo, è ben esatto. Che abbia inneggiato a cuore sincero nel prologo e nell’epilogo servendosi di una polifonia ricca e di un effetto portentoso lo si deve 11 Cfr. n. 383. 3.2.1/97 ampiamente riconoscere. Che Riccardo Zandonai sia stato per vivacità e consistenza orchestrale all’altezza delle sue precedenti opere possiamo dichiararlo e confermarlo a voce altissima. Zandonai ha composto l’opera inquadrandosi fra certi dati elementi che lo portavano in un campo fino ad oggi da lui mai battuto. Egli più che umano e passionale ha voluto essere mistico. Ed in questo è riuscito mirabilmente. Lo dimostrano non soltanto il prologo e l’epilogo, in cui il misticismo ha una preponderanza assoluta ed inappuntabile, ma anche gli stessi due atti in cui il musicista si è lasciato trascinare dalla passione solo quando il dramma glielo imponeva. Ma qui, nel dramma, Zandonai qualche volta si è lasciato sopraffare fin troppo dal misticismo. La scena in cui i due genitori dopo anni ed anni di ricerche riescono finalmente a ritrovare il figlio non dà quelle sensazioni che dalla situazione scenica si aspettava. Pensiamo a quello che avrebbe saputo fare il buon Verdi. Avrebbe messo in gola al basso dei fa naturali da far venire giù il soffitto del teatro. Avrebbe fatto correre per oltre venti metri la madre per portarsi fin sotto la bocca scenica, inginocchiarsi, allargare le braccia e gridare e ringraziare Iddio per la grandissima grazia ricevuta. Invece anche qui Zandonai, che pur si era proposto di seguire ed interpretare il dramma, si mantiene lineare. Anche nella scena della folla non abbiamo ritrovato la sensazione che l’azione scenica riprometteva. Vero è che in ciò dovrebbe ritenersi un po’ responsabile il Rossato per non aver egli offerto al Zandonai una giusta preparazione scenica. L’azione precipita sempre senza respiro. La partenza di Giuliano per la caccia e l’arrivo dei genitori ha una preparazione in poche battute. Ma questa in fondo non è che una questione di dettaglio perché l’opera d’arte, in sé e per sé, può considerarsi riuscita. Pochissime sono le opere che non presentino un qualche lato debole. In questa il lato debole è offerto appunto da quelle intenzioni artistiche che nobilmente animavano l’artista ed alle quali, con la involontaria corresponsabilità del Rossato, l’autore è stato fin troppo fedele. Il che però fa sì che i punti essenzialmente drammatici abbiano un maggiore risalto. Se si volesse accennare a qualcuno, molto spazio ancora saremmo costretti ad occupare. Ma non possiamo qui non ricordare l’ingresso trionfante di Giuliano nel secondo atto fra squilli di trombe e grida di popolo. Sebbene, come si è detto, questa scena faccia ripensare alla cavalcata di Romeo, non possiamo negarle una magnifica impressione. Qui Zandonai è mirabilmente inquadrato. Qui come nel prologo e nell’epilogo con i loro cori salmodianti, con quel magnifico slancio corale che commuove intensamente e lascia pensare. L’artista si è attenuto scrupolosamente ai suoi propositi, in qualche punto umanizzando di meno e misticizzando di più, e perciò ha vinto brillantemente e festosamente. La serata La cittadinanza di Napoli, calda, sincera, vibrante nel suo entusiasmo, ha decretato a questo Giuliano un magnifico successo. Le chiamate ad ogni fine di atto sono state moltissime. Artisti, autore, librettista e maestro del coro sono stati chiamati ripetutamente alla ribalta. Abbiamo cercato di contare le chiamate ma confessiamo che a un certo punto ne perdemmo il conto. L’esecuzione è stata magnifica. Dirigeva lo stesso autore. L’orchestra si è comportata in modo portentoso, come egregiamente si è comportato il coro istruito dal maestro Papa [sic]. Perfettamente a posto gli artisti. Maria Laurenti, voce di bellezza squisita, fu una Reginella di grande espressione. Si ebbe un applauso a scena aperta dopo la canzone dell’usignolo. Franco Del Giudice [sic] ha costantemente fraseggiato con voce pastosa, di una estensione e di una potenza prodigiosa. Le parti dei protagonisti, di notevole difficoltà, non potevano essere meglio affidate. Anche le altre parti risultarono completamente a posto. Ricordiamo la Carbone nella parte di Fanciulla folle, la Tamaro-Bertacchi [sic] in quella della Madre, il Perrone in quella del Padre, l’Auchner (l’Ignoto), il Girardi (Crocifero), ecc. La scena buona nel secondo e terzo12 atto e nell’epilogo, nel prologo non ci parve all’altezza del San Carlo. 12 Ovvero primo e secondo. 3.2.1/98 La serata resterà memorabile negli annali del teatro napoletano. La rappresentazione, iniziatasi pochi minuti dopo le nove, ebbe termine a circa mezz’ora dopo la mezzanotte. L’uscita offrì un eccezionale spettacolo: mentre il pubblico si dileguava, i corrispondenti si affollavano al telefono ed al telegrafo per lanciare nel mondo la notizia del nuovo successo dell’arte italiana. 379 Mario Labroca, “Giuliano” di Zandonai al San Carlo di Napoli, «Il Tevere», 6.2.1928 - p. 3, col. 1-2-3 (con una foto di scena) NAPOLI, 5, sera. Dopo la constatazione del successo che il pubblico napoletano ha decretato alla nuova opera di Zandonai (le chiamate sono state in complesso oltre quaranta) ben poco resterebbe da dire al povero cronista. Le espressioni di lode o di biasimo vagolano inutilmente nel vuoto più assoluto e non raccolgono mai un seguito di credenti, i lunghi articoli apologetici o stroncatori si afflosciano nella loro inutilità e l’opera resta lì a vivere o ad impolverarsi secondo vorranno gli spettatori che a teatro ci vanno a pagamento per ritrarne emozioni piacevoli, tristi, giocose, passionali, ecc. ecc. Come abbiamo già detto a proposito di altre musiche di Zandonai, noi ci sentiamo estranei e lontani dal genere di melodramma che il pubblico mostra invece di amare, e per la stessa ragione ci sentiamo estranei e lontani da questo Giuliano a cui il successo che ha arriso a Napoli apre le porte di innumerevoli altri teatri. Si tratta in ogni modo di una nostra forma mentis che rifugge dal melodramma così come oggi è concepito e svolto e non già da una nostra avversione contro lo Zandonai che tra i musicisti che oggi sono sulla breccia del gran teatro è uno dei migliori e più rispettabili. Il libretto del Giuliano è il libretto tipico del tipico melodramma dei nostri giorni: azione scarsa, lunghe tirate liriche, oscuro procedere della vicenda, mancanza di aria, di luce, di freschezza, null’altro che enfasi, letteratura e retorica. È chiaro che sopra una base così fatta la musica invece di racchiudersi in forme chiare e di concentrarsi nella definizione dei caratteri, debba spandersi uniforme sopra un testo uniforme dove i personaggi dal principe al palafreniere parlano tutti lo stesso linguaggio. Ecco il formarsi di un’atmosfera uguale e costante dove le melodie, i canti e i ritmi si confondono in un unico colore perdendo i loro caratteri più significativi ed impedendo la formazione di quei contrasti musicali che fino a Verdi e Puccini hanno costruito la base del melodramma e, crediamo, la ragione della sua vita. Nel caso specifico di questo Giuliano, impavido cacciatore di belve che la maledizione di una fiera ferita a morte conduce ad essere l’involontario uccisore dei genitori ed in seguito il santo ospitaliere della foresta, la vicenda si muove impacciata ed oscura, le premesse non sono in equilibrio con le conseguenze, e lo spirito divino che vorrebbe aleggiare su tutto il lavoro sa di sforzato e di appiccicaticcio. La musica invece risulta secondo noi più efficace e commossa proprio là dove gli affari di ordinaria amministrazione quali l’amore, le battaglie, la caccia, le belve vengono messe da parte e l’autore si rivolge a qualche cosa di più alto ed universale, a qualche cosa di veramente umano. E così il coro del prologo e tutto l’epilogo costituiscono episodi musicali di grande rilievo, degni in tutto delle pagine che amiamo della Conchita e della Francesca da Rimini. In tutto il resto dell’opera abbiamo ammirato una grande sobrietà, un assoluto abbandono degli effetti più comuni, una grande abilità costruttiva, un buon colore orchestrale, ma abbiamo avvertito anche un procedere uniforme attraverso la monotonia del recitativo aperto ed il persistere di certe armonie, di certi melismi, di certi ritmi che creano un ambiente sonoro grigio ed uniforme. Questo è quanto noi abbiamo saputo cogliere nella nuova opera di Zandonai che, se vogliamo paragonarla alle altre dello stesso autore, appare assai migliore della Giulietta e Romeo e dei cavalieri di Ekebù. Avremmo tuttavia desiderato un più deciso avviamento a quella che noi consideriamo italianità del melodramma e cioè un accenno più chiaro alle forme chiuse che sole possono darci contrasti drammatici, sole creare una più elevata atmosfera lirica. Ma noi ci 3.2.1/99 contentiamo di quanto Zandonai ha fatto nel prologo e nell’epilogo del Giuliano per trarre la speranza che questo orientamento verso un melodramma più sano e più moderno abbia conquistato un nuovo proselite in uno dei più acclamati musicisti italiani. Bisogna, secondo noi, uscire un po’ fuori da quanto si va oggi comunemente facendo; non è tanto l’argomento che conta quanto il modo come esso è svolto, e siamo sicuri che se Giuliano cacciatore avesse mostrata davvero un po’ di quella audacia che dice di possedere ed avesse ascoltato con pienezza di animo la voce della fede per la quale dichiara a gran voce di combattere, se l’uccisione involontaria dei genitori fosse sorta da una fatalità paurosa anziché da un equivoco male impostato, se la rinuncia alla vita per l’eremitaggio invece che avvenire nell’intervallo tra un atto e l’altro fosse scaturita davvero nell’anima del personaggio (si ricordi la conversione di Parsifal), allora Zandonai avrebbe trovato una materia più solida su cui costruire, e la nuova opera la avremmo sentita più vicina al nostro animo e al nostro cuore. Comunque, ed è questo che conta, il successo c’è stato e grandioso e noi non possiamo che rallegrarcene vivamente con l’autore. L’esecuzione è stata assai buona per quanto riguarda la parte musicale. Zandonai ha concertata e diretta la sua opera con molta abilità e slancio; il tenore Lo Giudice è stato magnifico per voce e qualità di canto, la signora Laurenti si è rivelata una Reginetta [sic] dalla voce carezzevole, dolce e potente. Buoni l’orchestra e i cori. La messinscena assai povera e di gusto assai discutibile. Nel teatro bellissimo c’era l’adunata di tutto il mondo musicale italiano. 380 La prima del “Giuliano” di Zandonai al San Carlo, «Il Piccolo», 6.2.1928 - p. 6, col. 6 NAPOLI, 5 febbraio Sabato sera, dinanzi ad una sala affollatissima alla presenza delle maggiori autorità e personalità cittadine, degli inviati speciali e dei corrispondenti dei principali giornali italiani ed esteri ha avuto luogo al S. Carlo la attesa prima rappresentazione del «Giuliano» di Riccardo Zandonai. Il Governo era rappresentato dal Sottosegretario di Stato on. Mattei Gentili che aveva preso posto nel palco dell’Alto Commissario. Avevano telegrafato S. E. Turati e il Ministro della P. I. on. Fedele. La nuova opera di Zandonai è stata salutata da un vivo successo. Al suo apparire in orchestra il maestro è stato accolto da una fervida ovazione. Il prologo ha destato la più favorevole impressione e alla fine si sono avute sette chiamate di cui quattro a Zandonai solo e tre con Arturo Rossato autore dell’ispirato libretto. Il primo atto ha commosso intimamente l’uditorio e si sono avute otto chiamate agli interpreti, a Zandonai e a Rossato. Anche al secondo atto e all’epilogo si sono avute otto chiamate e alla fine dell’opera Zandonai è stato salutato da una calda ovazione. Ottimi esecutori la signorina Laurenti e il tenore Franco Lo Giudice nonché gli altri. Degna di rilievo l’ottima fusione dei cori diretti dal maestro Papi, la messa in scena e l’orchestra che, diretta dal maestro Zandonai, ha reso mirabilmente l’ispirata musica del «Giuliano». 381 Domenico Alaleona, Il successo del “Giuliano” di Zandonai al San Carlo di Napoli (dal nostro inviato speciale), «Il Lavoro d’Italia», 7.2.1928 - p. 5, col. 1-2-3-4-5 (con una foto di Zandonai e una foto di scena del I atto) Napoli, 6. Iersera il teatro “San Carlo”, magnifico sfarzoso e luminoso, presentava un colpo d’occhio superbo per la prima rappresentazione – diretta dall’autore – del Giuliano, la nuova opera di Riccardo Zandonai, su libretto di Arturo Rossato. Tutta Napoli elegante e intellettuale si era data 3.2.1/100 convegno nella storica sala; e, oltre ai critici dei maggiori giornali italiani, erano presenti molte personalità del mondo politico e artistico italiano. Alle 20.45 precise Riccardo Zandonai è salito sul podio, salutato da un applauso affettuoso ed augurale; e si è iniziata l’esecuzione con le soavi invocazioni delle voci sole, a velario chiuso. L’opera è stata ascoltata con attenzione continua, e spesso con emozione. Le accoglienze – se non hanno raggiunto il grado di commozione entusiastica cui si assurge solo per la scoperta di mondi d’arte assolutamente nuovi non posseduti in precedenza dagli spettatori per alcuna sensazione o previsione – sono state affettuose e cordiali. Senza fare il preciso computo numerico delle chiamate, diremo che gli artisti, il musicista, il librettista e gli altri loro collaboratori sono stati evocati infinite volte alla ribalta alla fine di ogni parte. Specialmente quando Zandonai si è presentato a ringraziare da solo il saluto del pubblico ha raggiunto un alto grado di affettuoso fervore: meritatissimo omaggio ad un artista che persegue nobilmente e con mente e mano sicura i suoi ideali di bellezza e che iersera, con spirito e braccio non meno sicuro, ha voluto presentare personalmente al pubblico napoletano la sua ultima creazione. Arturo Rossato e Riccardo Zandonai hanno tolto il soggetto per il loro nuovo lavoro da una delle più belle leggende di Jacopo da Varagine, che già ispirò al Flaubert una delle sue più ammirate novelle. Il Rossato ha dato felicemente largo risalto alla figura di donna che nella leggenda originale e nel Flaubert è appena accennata: creando la soave figura di Reginella. Il poema musicato da Zandonai si divide in quattro parti: un prologo, due atti e un epilogo. [...] Leggendo il libretto del Rossato e confrontandolo con la leggenda originaria – di divina bellezza, nella sua vaga imprecisione e nella sua pura spiritualità – di Jacopo da Varagine, io ripensavo ad alcuni passi dell’Epistolario di Giacomo Puccini, venuto alla luce questi giorni, che dovrebbe essere consultato e meditato dai musicisti e dagli uomini di teatro assai più dei comuni trattati, falsi ed astratti, di precettistica e di estetica. Puccini rinunziò ad alcuni soggetti per i quali si era pure vivamente appassionato (e, fra gli altri, alla Conchita musicata poi dallo stesso Zandonai), perché tali soggetti, bellissimi e delicatissimi nella forma originale, non gli parve conservassero nella trasformazione scenica quella convincente chiarezza ed efficacia di espressioni e di trapassi che egli esigeva come condizione indispensabile all’effetto pieno e duraturo. Ad esempio, il carattere di Conchita, comprensibilissimo nel romanzo, gli sembrò dovesse risultare “inesplicabile” sulla scena. Qualcosa di simile si verifica, per alcuni aspetti, nel libretto del Giuliano; nel quale – non per mancata abilità degli autori, ma per la natura stessa del soggetto – la grandezza spirituale della leggenda del Da Varagine sembra, qua e là, debba risultar diminuita e la delicatezza menomata; oltre al fatto che gli avvenimenti, costretti nella successione di episodi concreti e con precisione cronologica concatenati, acquistano un sapore poco convincente di durezza e di inverosimiglianza. Qualche rapidissima osservazione. La tremenda maledizione a Giuliano, bellissima come voce di rimorso della coscienza che a poco a poco si delinei e si ingigantisca, si impiccinisce tradotta nel babau degli occhi di brace e delle voci al megafono. Nel secondo atto quasi tutti gli elementi scenici – la bufera, le belve intorno alla rocca, e così via – appaiono arbitrari e troppo a bella posta raccolti per arrivare alla scena d’obbligo; e pur senza, con ciò, evitare le inverosimiglianze: non si spiega, ad esempio, né la improvvisa follia gelosa di Giuliano, né il perché i due ospiti vengano mandati a dormire proprio nell’alcova nuziale, né la ostinata scomparsa di Reginella fino a delitto compiuto. Inoltre il parricidio di Giuliano si sarebbe spiegato in una atmosfera che avesse allontanato e cancellato dalla mente del protagonista la tremenda “idea fissa”. È strano che Giuliano colpisca così alla cieca proprio nel momento in cui le terribili voci tornano a gridargli nel più alto diapason la maledizione, e quindi egli dovrebbe gettar via più che mai lontano da sé, con terrore, ogni coltello e ogni arma. Si aggiunga che l’ampliamento della leggenda in quattro quadri scenici ha costretto il librettista a introdurre troppi episodi di ripieno e di maniera. 3.2.1/101 Ma – ripetiamo – il soggetto era difficile. E dobbiamo ammettere, in definitiva, a parte le osservazioni di cui sopra, che il Rossato è riuscito a creare – anche per l’indovinato tono poetico arcaicizzante, e soprattutto per la felice delineazione del personaggio da lui quasi totalmente immaginato di Reginella – un lavoro ricco di pregi e tale da offrire alla fantasia musicale di Zandonai una trama ricca di delicatezze e di contrasti. Il melodramma di Zandonai Qualcuno preferirà ancora dire “realizzazione musicale-drammatica” o wagnerianamente “dramma musicale”. Ma questa parola italianissima di etimologia, di origine, di gloriose tradizioni storiche: “melodramma” è tempo ormai venga coraggiosamente rimessa in uso e riconsacrata. Fino a ieri non si parlava che di "atteggiamenti melodrammatici" e di “tono melodrammatico” in senso spregevole. È riuscito – dunque – Riccardo Zandonai a creare, sul soggetto da lui prescelto ed elaboratogli dal Rossato, un melodramma (nel senso alto e pieno di questa parola, cioè di compenetrazione, integrazione perfetta degli elementi musicali, drammatici, poetici e scenici) e quale valore ha la sua creazione? Col Giuliano noi possediamo senza dubbio un nuovo pregevole melodramma di tipo zandonaiano; melodramma, a mio parere, superiore – per più felice rispondenza del temperamento dell’artista col soggetto prescelto – agli ultimi due precedentemente composti dal maestro: Giulietta e Romeo e I cavalieri di Ekebù. Ho detto “melodramma di tipo zandonaiano”. Intendendo con ciò che non è possibile considerare il Giuliano come opera soltanto presa in sé e limitata a sé stessa. Il compito del critico deve piuttosto rivolgersi a penetrare e cogliere nel loro complesso certi caratteri tipici della produzione lirica di Zandonai quali si manifestano costanti nelle opere di lui, e specialmente nelle ultime in cui questi caratteri raggiungono via via il più alto grado di precisione e di affinamento. È notorio ormai che Zandonai non è un compositore di ampia sintesi musicale, un creatore di periodi a largo respiro, un lanciatore di dardi che compiano tutto d’un fiato una lunga parabola. Verdi e Mascagni, dopo la crisi suprema della scena del giuoco nella Traviata e del drammatico duetto fra Santuzza e Alfio nella Cavalleria, creano l’uno il divino Preludio dell’atto quarto e l’altro l’indimenticabile Intermezzo: cioè due melodie totalmente nuove, e non dedotte da temi qualsiasi; melodie che si svolgono e fluiscono dalla prima nota all’ultima con nesso ferreo e inscindibile: se uno attacca la prima nota deve giungere all’ultima. È come il corso di un fiume, che in tanto è in quanto l’acqua scorre fluida, libera, prepotente e serena; la cui forza e vivacità non si giudica in base ad analisi chimiche o indagini cristallografiche. Zandonai, invece, nella Giulietta e Romeo, in un momento analogo di crisi suprema, compone un intermezzo sinfonico – nel senso che negli ultimi tempi si è dato a questa parola “sinfonico” – imperniato e svolto su un grido di Romeo: «Giulietta mia». Alla stessa maniera come se Verdi e Mascagni, nei punti da me indicati delle opere loro, avessero composto un intermezzo sui gridi «Che qui pagata io l’ho» e «Ad essi non perdono». Non facciamo apprezzamenti né confronti di levatura. Quello che ci preme rilevare è soltanto la diversità di temperamento e di indirizzo. Ora se Zandonai, con tutto ciò, riesce ad avere una sua efficacia e un suo fascino è segno che l’arte sua vive di altri elementi espressivi e di altre risorse poetiche. Con quanto diciamo, noi non facciamo che cercar di cogliere e precisare la natura di Zandonai artista e – in conseguenza – i suoi particolarissimi meriti. L’arte di Zandonai è fatta di piccole frasi espressive, di delicati episodi e scene di colore, di incisi ed appelli melodici e ritmici or soavi ed iridescenti, ora irruenti e poderosi, a lungo ripresi e ripetuti; è fatta di sapienti invenzioni e tessiture tematiche, di colorature vocali e strumentali attraenti e pittoresche. E di questi caratteri zandonaiani la partitura della nuova opera venuta ieri alla luce rifulge con inusitato splendore. 3.2.1/102 L’inquadratura scenica e l’impianto musicale del Prologo e dell’Epilogo derivano palesemente dal Mefistofele, il cui Prologo (e mi sia permesso di coglier l’occasione per inviare un commosso saluto alla venerata memoria di Arrigo Boito) io non mi stancherò mai di proclamare come una delle più salde, euritmiche ed ispirate creazioni del patrimonio lirico italiano. Mascagni, musicalmente e scenicamente, nell’Iris offrì, della concezione boitiana, la prima geniale e colorita imitazione. Viene ora Zandonai; la cui creazione – pur di notevole respiro in confronto alla maniera abituale del maestro – avrebbe certo guadagnato se vi fosse stata più vivamente e largamente rivissuta la purissima e gloriosa tradizione sinfonica vocale italiana. Nella vicenda scenica del Prologo toccante l’episodio del “Lamento” di Giuliano; una melodia dolorosa proposta dai violoncelli, accompagnata da accordi cupi dei bassi e da un insistente tinnire dell’arpa, passa poi ai violini con effetto di crescente emozione. Le scene della prima parte del primo atto, pur sapientemente e brillantemente costruite, hanno del manierato e del convenzionale. Si pensa ai modelli del genere: Lohengrin ed altre opere wagneriane, la stessa Francesca di Zandonai; come per la parte mistica del Giuliano, il pensiero si volge naturalmente, oltre che al Lohengrin, al Tannhaüser [sic], al Parsifal e ad altri capolavori, in cui quest’ordine di sentimenti ha trovato espressioni di potente, indimenticabile originalità. Nel duetto fra Giuliano e Reginella notevole un affettuoso, insistente inciso dei violini che – avvolto, come spesso in Zandonai, di soavi iridescenze dell’arpa e della celeste – avviva l’appassionato dialogo di bri- [riga saltata] selva che canta». Un altro colorito ed espressivo episodio, di pretto sapore zandonaiano e nella natura della ispirazione del maestro, è quello della fanciulla impazzita dal dolore, che danza, inserito nell’atto stesso. Nell’Atto Secondo squisitamente riuscita, nella sua semplicità, la canzone dell’usignolo. Essa fu applaudita a scena aperta, anche per la soave interpretazione della Laurenti. Nello stesso atto (i movimenti violenti, nella bufera materiale e spirituale, per quanto abilmente ideati, sono piuttosto di maniera) si distingue per nobiltà e delicatezza espressiva la scena dell’arrivo del padre e della madre di Giuliano e del successivo loro colloquio con Reginella. L’esecuzione e il successo L’Epilogo si apre con un fine preludio. Segue la scena dei pellegrini, impiantata su un semplice movimento ostinato, quasi di passi cadenzati. Pateticamente espressivo, ma non di grande rilievo, il dialogo fra Giuliano e Reginella. Alla chiusa si riprende il canto del Prologo; qui però meno ancora che al principio si addicono i chiassosi clangori delle trombe e i frastuoni del tam-tam. Una chiusa più sostanzialmente musicale e di più austera, armoniosa, sinfoniante italiana dolcezza – si pensi che sulla scena è apparsa e si indugia la divina figura del Salvatore – scuoterebbe forse meno le orecchie, come effetto immediato, ma lascerebbe certo negli ascoltatori (i quali hanno, sì, l’animo aperto alle genuine, elevate voci musicali e spirituali: noi critici ne sappiamo qualche cosa dalle loro confessioni e dai loro sfoghi verbali od epistolari) un’impronta più profonda, più duratura e consolatrice. La Casa editrice Ricordi e l’impresa del San Carlo hanno posto ogni attenta premura perché la realizzazione musicale e scenica del nuovo lavoro di Zandonai avvenisse nel miglior modo possibile. La scelta degli interpreti vocali è stata compiuta con mano felice. La signorina Laurenti (cantatrice dalla pura voce e di delicato sentimento interpretativo che apprezzammo settimane or sono, nello stesso teatro, nel personaggio di Liù) ha fatto liricamente e scenicamente una soave creazione della figura di Reginella. Franco Lo Giudice è stato un protagonista degli accenti commossi e vigorosi, esprimendo con felici atteggiamenti vocali e scenici gli stati d’animo inconsueti e potentemente contrastanti del personaggio. Dante Perrone, Tamara Beltacchi, Maria Carbone, Alfredo Auchner e tutti gli altri hanno contribuito ad una interpretazione vocale efficace, appropriata ed equilibrata. 3.2.1/103 L’orchestra – il merito del cui rinnovamento spetta a Edoardo Vitale, il sapiente e coraggioso animatore della odierna fortunata stagione sancarliana – è stata magnifica di slanci e di delicatezze, sotto la direzione energica, chiara e vigile dell’autore. Il coro – che ha un valoroso istruttore nel maestro Papi – ha avuto buoni momenti di impeto e di vigore: qualche incertezza negli episodi dietro la scena si spiega con le difficoltà di un’opera nuova e difficile. La messa in scena è stata curata lodevolmente da Ugo Falena, coadiuvato da Antonio Lega e Giuseppe Lualdi. Le scene, specialmente quelle del prologo e dell’epilogo, non sono apparse molto felicemente ideate ed eseguite. A proposito di quella del prologo, ci permettiamo osservare che – oltre ad immaginarla assai meno giardinetto o cimiteriolo e assai più “selva selvaggia ed aspra e forte” nel senso dantesco – ci sembra possa realizzarsi con profondità assai minore: il che recherebbe il grandissimo vantaggio di poter collocare il coro assai più vicino. Così come è collocato al San Carlo, il coro poco si sente, e in ogni modo non si fonde ed amalgama con l’orchestra; e non si ha certo l’effetto “di tutta la selva che canta”. Le accoglienze – come sopra abbiamo detto – sono state affettuose e cordiali. All’applauso fervido e ripetuto dell’imponente pubblico raccolto nel teatro si sono aggiunti gli omaggi augurali di personalità lontane: hanno difatti telegrafato in termini deferenti e affettuosi per Zandonai S. E. Turati, S. E. Fedele e il Prefetto di Trento. Il Governo era rappresentato da S. E. il Sottosegretario on. Mattei Gentili. Da martedì sera cominceranno le repliche del Giuliano, creazione nobile e commossa di uno stimabilissimo artista, che viene ad aggiungersi degnamente alle migliori opere del repertorio moderno italiano. 382 Raffaele De Rensis, “Giuliano” di Zandonai al S. Carlo, «Il Giornale d’Italia», 7.2.1928 - p. 3, col. 3-4-5 (con la riproduzione della scena del I atto) (Dal nostro inviato speciale) Napoli, 5 febbraio L’ente autonomo del Teatro San Carlo si proclama giustamente orgoglioso d’aver messo in iscena il «Giuliano» di Zandonai e di aver così restituito al pubblico napoletano, tanto nativamente sensibile, la consuetudine e il diritto di dare il battesimo alle nuove opere. Le sentenze artistiche di questo pubblico sono state sempre molto apprezzate ed approvate. La dura lotta combattuta da Zandonai, quella che ancora dovrà combattere non contro di sé ma contro il pervertimento dell’anima collettiva italiana, dovuto all’assoluto dominio esotico di ormai quasi mezzo secolo, scomparve e si annullò nella ovazione preliminare e augurale. Alla quale fece seguito una serie ininterrotta di consentimenti e di applausi che conducono ad un bilancio molto lusinghiero: sei chiamate al prologo, sette al primo atto, dieci al secondo, otto all’epilogo: un totale dunque di trentadue chiamate, che non lascia adito a riserve mentali più o meno dubbiose e pessimistiche. Il successo dell’opera Il Giuliano segna una nuova tappa nel curriculum vitæ di Zandonai ed una nuova affermazione del suo credo estetico, che percorre una logica e serena evoluzione destinata al trionfo finale e totale. L’artista italiano, specie il musicista, da Monteverdi a Verdi, non ama le rivoluzioni pompose. Quando la sensibilità del nostro pubblico riconquisterà i suoi naturali e tradizionali attributi, si troverà in grado e nella disposizione migliore per accettare, percepire e godere l’opera drammatica del maestro trentino, fatta com’è di poesia, di emozione e d’irruenza. Tre elementi che nel Giuliano erompono più necessari, efficaci ed immediati. 3.2.1/104 Allorché nel buio e nel silenzio del vasto e storico vaso sancarliano, al di là del pesante sipario si diffusero lievi, sussurranti le voci e i canti della... selva, un alito di alta poesia creò l’ambiente. Come si sa, in queste dipinture Zandonai è uno specialista. Egli possiede per istinto il senso del colore e dello sfondo. Da Conchita a traverso Francesca, sino ai Cavalieri, la sua tavolozza ha profuso ricchezze di tinte che sembrano inesauribili. Di queste tinte egli conosce ormai i segreti e la essenza, in maniera che non ha più bisogno di abbondare e sciupare. Infatti, poche linee, discreti accordi, chiari temi e ritmi normali son bastati a dar vita misteriosa, soprannaturale alla foresta in risveglio. Il mormorare delle fronde, il cinguettare degli uccelli, le folate del vento, in comunione o in alternativa con le voci che vengon dall’alto e da lontano, formano un tessuto sonoro di una incomparabile trasparenza, che si mantiene anche quando i canti e l’orchestra levano un inno all’amore (Amore, Amore sì bello Signore) e concludono in una solenne perorazione (Te ogni vita canta). La tremenda fatalità Sulle ultime battute corali, quasi lacerandole, echeggia il grido di Giuliano, l’acerrimo, ebro cacciatore, che insegue una cervia bella e smisurata, con due cerbiatti appresso. Ma la cervia gli sfugge ed allora egli sfoga la sua ferocia contro gli uccelli, che cadono trafitti ai suoi piedi. Mentre gioisce dinanzi a tanta strage, il cielo si abbuia e l’orchestra si fa grave e lenta. Siamo nel simbolo, come si vede, ma senza misteri o astrusità. La natura, vivente ed operante, partecipa all’azione, prima con le laudi e le luci, ora col dolore e col brio, in seguito con temporali e stridori, infine con Alleluja ed Osanna. Il fantastico e il vero, non agevoli ad accoppiare e ad amalgamare, come insegnano varii tentativi del genere non esclusi i cavalieri degli stessi autori, nella realizzazione attuale diventano termini necessari, inscindibili, integranti, nonostante la cura del poeta Rossato a tenerli distinti nell’architettura del libretto. Nell’oscurità, d’un tratto, scintillano due occhi di fuoco: è la cervia. Giuliano balza, tende l’arco e colpisce. Dalle viscere dell’orchestra sorge un rombo crescente e pauroso, dai meandri della foresta lugubri voci di basso, portate da un cupo megafono, lanciano la maledizione e la tremenda profezia: Ucciderai tua madre e tuo padre. È un momento supremo e impressionante, che rivela al pubblico la maestosità eschilea della tragedia che si annunzia; è un momento passionale e musicale che ha sospinto la forza dell’arte di Zandonai alla più felice esplosione. Nel successivo episodio, nella invocazione e nel pentimento di Giuliano, si tocca l’apice della commozione. Non sappiamo se Zandonai abbia prima d’ora espresso il dolore con tanta melodiosità di pensiero, con tanta efficacia ritmica ed armonistica: certo questa pagina è di quelle scritte col cuore angosciato e col pianto sulle ciglia, di quelle che determinano ed assicurano la precisa impostazione psicologica della tragedia. La figura eroico-mistica di Giuliano ha già acquistata una fisionomia che andrà meglio illuminandosi, ma che non muterà. Il fato incombe sul suo destino, e dovrà ineluttabilmente compiersi. La fede soltanto potrà salvarsi; e la fede non mancherà a Giuliano, come appunto significa il ritorno delle luci e dei canti angelici che concludono il prologo. La dolce Reginella Nel primo atto, la figura di Reginella appare subito in tutta la sua dolcezza ed umiltà. Il suo canto di amore e di attesa per Giuliano si scioglie gentile e patetico. Non giunge diritto al cuore degli ascoltatori perché o inframmezzato o contemporaneo al movimento delle scolte e alle voci di lontano. È però un canto accorato e insieme fidente, poggiato sopra un disegno melodico che produce delicate risonanze emotive. L’arrivo di Giuliano è preceduto dal sopraggiungere della popolazione e, con essa, della fanciulla impazzita per le sevizie del barbaro. Ella narra e danza insieme. Il tema e la struttura, assai 3.2.1/105 aderenti alla straziante realtà, si fanno ammirare; ma questa danza, fors’anche perché non facile ad interpretarsi e a rendersi, e pur essendo un fugace episodio, distrae piuttosto che concorrere alla compiutezza del quadro. Ma ecco i segni dell’arrivo del liberatore: squilli di trombe e galoppo serrato del cavallo. Nulla di uguale, come forma e come significato, con la famosa cavalcata di Romeo: questo correva verso il dolore e la morte; Giuliano corre verso la gioia di un popolo e l’amore di una donna. Il suo ingresso nel castello produce un delirio di gridi e di suoni. Nell’uditorio corre un brivido di esultanza: segno che la finzione dell’arte coincide con una realtà della vita. Magnifico, suggestivo, ispirato, di una religiosità maschia e umana il parlare di Giuliano al popolo, nel nome di Gesù e Maria, soltanto interspuntato, quasi episodicamente, da un tema secco e forte. Reginella se ne sta quasi confusa tra la folla, ma quando questa si disperde (è ormai l’ora del duetto d’amorer) si avvicina a Giuliano, mentre che nel silenzio emerge, calmo e caldo, il tema della fede, come a indicare che si può giungere alla salvezza a traverso l’amore. Il loro duetto non è uno sfoggio di ondate romantiche ma un delicato discorso fatto di moderate vibrazioni, che solo in qualche istante s’accendono e scoppiano. Non poteva essere un duetto enfatico, di quelli che facilmente esaltano le platee: un’anima mistica come Giuliano e mite come Reginella non possono vivere se non di pura poesia. Quando ritroviamo Reginella, sposa felice nell’intimità della sua casa con una istantanea apparizione e sparizione d’ancelle mai prima viste, ella ci appare ancora più dolce ed umile. Pur essendo una castellana con sudditi, ella ha fatto totale dedizione di sé all’essere amato. Veramente, molto felice non deve sentirsi, perché l’orchestra procede monotona e gravida di minaccie, perché la nostalgia del luogo natio e dei genitori invace Giuliano, ed ella non riesce a lenire e a distruggere. La tenue malinconia vien d’un tratto rotta da un ululo cupo, infernale, echeggiante paurosamente, che vien dalla foresta. È una fiera. Giuliano scatta in piedi, prende l’arco, come ripreso dal demone della caccia, corre alla finestra, ma subito si ritrae. Egli ha giurato, egli s’è pentito (suggestivo qui l’accenno al tema della invocazione). Reginella lo accarezza affettuosamente, lo conduce presso il focolare e gli sussurra la nenia dell’usignolo, a lui tanto cara perché: il padre mio, la madre mia soltanto conoscono quel semplice cantare. La nenia dell’usignolo, al disopra di qualunque derivazione o coincidenza, è una delle pagine più ingenuamente squisite della produzione di Zandonai. È diffusa in essa tanta tenerezza, tanta soavità che il nostro cuore, al solo rievocarla, si commuove: lagrime e sorrisi affiorano dalla mirabile melodia. Il pubblico, contrariamente alle abitudini, ha sentito l’irresistibile bisogno di applaudire, anche a costo di distruggere l’incanto della finzione scenica. Incanto, del resto, che vien subito distrutto dal ritorno dell’ululo minaccioso della fiera. Giuliano soffre, non resiste. Reginella, ella stessa, gli porge l’arco e lo sospinge fuori. Si scatena l’universo: lampi, tuoni, vento e sempre l’ululo. Straordinaria, qui, la potenza descrittiva dell’orchestra. Non esuberanza di mezzi ma incisività di espressione. La tragedia procede senza sosta e tiene gli animi sospesi: si vorrebbe che non accadesse. La calma che segue è apparente. Reginella soltanto è inconsapevole. Torna al focolare e riprende la nenia. Ahi sorpresa! Dalla strada giungono due voci che cantano la medesima canzone. E son proprio i genitori di Giuliano. Una melodia larga e piena commenta con espansione l’ingresso dei due vecchi. Reginella premurosa li rifocilla ed offre loro il letto nuziale per riposare dal lungo cammino. Un gioco sapiente ed ispirato di temi e di ritmi rappresentano e delineano non solo il sentimento delle persone ma la imminente fatalità delle cose. Quando tutto nella casa è quiete, Giuliano rientra furente per non aver potuto ammazzare la fiera. Nel delirio, nell’ossessione rivede le stragi venatorie dei tempi passati, riode la tremenda profezia. Quindi, a poco a poco, si calma. La pace però non è nel suo destino. Questo si compie, ed è orrendo, tremendo. I due che dormono nel suo letto sono Reginella e l’adultero. Ed egli li ammazza. 3.2.1/106 Invece, si delinea sulla porta la figura bianca di Reginella col suo più dolce sorriso sulle labbra. E gli dice: C’è tuo padre, c’è tua madre. L’orchestra aiuta l’uomo infelice, che ancora una volta implora pietà al Signore; poi continua per conto suo, a fine di prolungare la profonda tragicità del momento. Anche noi saremmo d’opinione che occorrerebbe sopprimere alcune battute finali; ma in ogni modo il poeta e il musicista hanno saputo trovare le parole e i suoni adeguati all’altezza della tragedia. Superata vittoriosamente questa situazione, che è il nucleo dell’azione, l’opera di poesia, di musica e di teatro può dichiararsi riuscita. La santificazione Resta l’epilogo. Giuliano già nell’animo del pubblico non è un volgare parricida, ma una vittima del fato. Vince la pietà, non l’orrore verso di lui. La riascoltazione delle note melodie, che nel prologo si fissarono nella nostra meloria e nel nostro cuore, riecheggiano ora nell’aria per avvertirci che Giuliano si salva, si redime e si santifica. Egli è l’ospitaliero che prega per sé e per tutti. La voce del crocifero e il coro dei pellegrini che si recano a Roma antica, Roma santa producono un effetto di profonda e umana religiosità. Il colloquio tra Giuliano e Reginella si intesse musicalmente sui motivi della redenzione e dell’usignolo: è rassegnato ed austero. Ormai Giuliano non è più di questa terra, ma del Signore. Il Signore, finalmente, nelle spoglie del lebbroso gli appare, mentre che per l’ultima volta, ma quasi festosi ed osannanti, riecheggiano per i clivi le voci degli angeli ed i suoni della Fede. L’opera di Zandonai, che avremo occasione di risentire e di meglio riesaminare prossimamente al “Teatro Reale” di Roma, conseguì, come abbiamo detto, un magnifico successo, e il pubblico napoletano lo decretò con molta spontaneità e cordialità. L’esecuzione risultò in generale lodevolmente accurata. L’orchestra, che è ottima in tutte le famiglie di strumenti, sotto la guida dell’autore, che diresse come sa e può chi concepisce e soffre l’opera d’arte, collaborò con diligenza, coscienza ed entusiasmo. I cantanti, specie i protagonisti Franco Lo Giudice e Maria Laurenti, ma anche tutte le parti secondarie, si guadagnarono l’elogio incondizionato dell’uditorio, che li chiamò spesso all’onore della ribalta. Non perfettamente pronti i cori, che, come si è visto, assolvono una funzione importantissima, diremmo quasi decisiva, perché costituiscono l’elemento religioso e soprannaturale della tragedia. Altro elemento essenziale e che ci sembrò manchevole fu quello del movimento delle masse (nell’episodio della danza) e quello coreografico (l’apparizione degli angeli) nel prologo e nell’epilogo, dei quali anche gli scenari non corrispondono esattamente alla concezione del poeta e del musicista. Noi, chi ci legge lo sa, siamo convinti fautori degli organismi teatrali lirici stabili e indipendenti; l’on. Barattolo, che dedica tanta attività e tanto amore alla resurrezione del glorioso teatro della sua città, merita l’universale gratitudine; soltanto egli dovrà spregiudicatamente scegliere i suoi collaboratori. A noi sta tanto a cuore la sorte della vita musicale napoletana, la quale si adorna di personalità distintissime, che ci permetteranno di tornare sull’argomento. 383 Alberto Gasco, La rappresentazione del “Giuliano” di Zandonai al “San Carlo” di Napoli, «La Tribuna», 7.2.1928 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con una foto di scena del I atto: Il castello di Reginella, e una curiosa caricatura di Zandonai in veste direttoriale) NAPOLI, 6. Dopo una vigilia ansiosa, Riccardo Zandonai ha trascorso una serata di straripante allegrezza. Tutto ha concorso ad appagare il suo legittimo orgoglio di autore. Egli ha visto il suo Giuliano ricevuto in pompa magna da un pubblico elettissimo. Lo spettacolo, allestito con meticolosa cura, 3.2.1/107 ha avuto l’esito più gaio che potesse immaginarsi. Trentacinque volte il maestro, il suo poeta e i valorosi interpreti dell’opera sono apparsi alla ribalta, evocati rumorosamente dalla folla che gremiva il “San Carlo”. Ci rallegriamo oltremodo del successo riportato dallo Zandonai, artista instancabile e lottatore avvezzo a servirsi sempre di armi leali. Come abbiamo scritto all’indomani della prova generale, il Giuliano ha diritto alla nostra sincera ammirazione malgrado alcuni difetti, ai quali accenneremo imparzialmente. Il carattere dell’opera Il musicista si è impegnato a fondo spiegando tutte le sue risorse di armonista sottile e di grande virtuoso dell’orchestra. Non è mai caduto nel volgare e ben spesso è riuscito a raggiungere altezze notevoli ed anche a mantenersi per un certo tempo nelle zone elevate, là dove l’aria non reca germi malsani. Inoltre, egli ha reso omaggio – nei limiti del possibile – a quelle forme di musica melodica che rappresentano una delle più gloriose tradizioni artistiche della nostra terra. I suoi nuovi atteggiamenti nel campo del dramma lirico non debbono passare inosservati. Sinfonista amante dei contrasti rabbiosi di tinte, egli passa, con evidente voluttà, dalle sonorità orgiastiche alle delicatezze estreme, dagli urli belluini ai sospiri flebilissimi. Talora questi trapassi appaiono rapidi ed anche artificiosi. Però se la mancanza di gradazioni può spiacere ad un ascoltatore raffinato, seduce invece il grosso pubblico, che ama le violente sorprese. Nel Giuliano le crisi parossistiche strumentali sono, di solito, brevi e terribili. Quando avvengono, fanno tremare il cielo e la terra. Viceversa, nei brani elegiaci si avverte un senso di persistente melanconia. A dare una siffatta impressione contribuisce assai il sistema armonico adottato dal musicista e sopratutto l’uso e l’abuso dei cromatismi. D’altra parte, è evidente che, applicando con tenacia simili procedimenti armonici, Riccardo Zandonai è riuscito a crearsi uno stile proprio, abbastanza ben definitivo. Non a torto il Berenson sentenziava che i difetti e i pregi entrano in parti uguali nel dare carattere – e quindi virtù espressiva – a un’opera d’arte... La novità esplicita del Giuliano rispetto alle precedenti produzioni liriche dell’autore è nella sua speciale architettura. La prima e l’ultima parte abbondano di elementi mistici e dànno un senso di riposo. I due atti centrali sono invece fastosamente drammatici e ci riportano al clima di Francesca da Rimini e Giulietta e Romeo. Dichiariamo senza ridicoli infingimenti che preferiamo di gran lunga la parte umana e viva dell’opera a quella estatica e magniloquente. Lo Zandonai sente la poesia della Natura, ma non è incline all’ascetismo: perciò, come il Puccini di Suor Angelica, non riesce a trovare espressioni di vera religiosità mentre si accosta a Dio. Sotto la tonaca del frate novello si intravvede pur sempre l’uomo di teatro che pensa al suo pubblico più che ai cherubini che svolazzano nell’Empireo. I cori mistici del Giuliano sono condotti con bravura e dignità, ma la ricerca dell’effetto immediato è flagrante. Siamo lungi dai sublimi struggimenti del Parsifal. Del resto, non pretendiamo affatto dallo Zandonai un’opera affine a quella con la quale Wagner ha chiuso la sua attività di musicista: chiedevamo soltanto a lui un lavoro generoso di idee e adorno di vaghi colori. Egli ci ha appagato in buona misura. Ha cantato il rimorso cupo di Giuliano e l’amore tenero di Reginella con emozione veritiera; ha fatto ardere e lampeggiare prodigiosamente l’orchestra. Non ha mai detto banalità stucchevoli. Contentiamoci, per Bacco! La musica del Giuliano fa onore a colui che l’ha scritta e, per la sua fervida, elegantissima italianità, appare degna di particolari omaggi. Piuttosto – ahimè – non si può accettare a cuor leggero il libretto che Arturo Rossato ha tratto dalla leggenda di San Giuliano l’Ospitaliero narrata da Iacopo da Varagine. Leggenda sinistra e, secondo noi, inesplicabile. L’uccisione dei genitori di Giuliano non ha un motivo plausibile. In verità, si può essere un entusiasta cacciatore di cervi, camosci e stambecchi – interrogate l’ombra gloriosa di Vittorio Emanuele II – e dare tuttavia prova di bontà illimitata verso la propria famiglia. Se tutti coloro che gioiscono nell’abbattere un cinghiale o un’anatra selvatica dovessero poi, in breve tempo, diventare omicidi, il mondo si muterebbe in un immenso penitenziario!... 3.2.1/108 La maledizione che pesa su Giuliano ci sembra perciò esagerata ed anche curiosa. Come opera di propaganda anti-venatoria, il libretto del Rossato avrà forse una grande efficacia: ci si consenta però di dire che le terribili vicende cinegetiche e famigliari di Giuliano ci convincono assai poco. È sommo pregio della policroma musica di Zandonai l’aver reso meno sensibile l’incongruenza del dramma. È giusto altresì riconoscere che il Rossato si è affermato valoroso stilista e buon fabbro di versi. Il testo del Giuliano, con i suoi leggiadri arcaismi e le sue sapienti armonie verbali, va giudicato di pregio effettivo. Diamo ora una scorsa all’opera. Il poema e la musica L’opera si inizia pacatamente, con un breve coro senza accompagnamento orchestrale. Siamo in una selva piena di fremiti misteriosi. Le fronde, i fiori e gli augelli cantano le lodi del Creatore, mentre il giorno splende immacolato. Interviene l’orchestra con i suoi bisbigli e cicalecci: un’elegante melodia densa di lirismo si fa largo, s’alza e, dopo un breve volo, ricade con morbidezza: più volte essa riappare durante lo svolgimento della laude e con effetto sempre maggiore. Ecco Giuliano, il cacciatore immite: egli segue le traccie di una cervia ferita. La misera bestia ha con sé due cerbiatti. «Essi popperanno sangue!», urla il tormentatore, incoccando il dardo. Gli strumenti dell’orchestra descrivono la scena con stridori e scatti improvvisi. Però si avverte la mancanza di un tema che caratterizzi la foga sanguinaria di Giuliano e venga a cementare i vari episodietti armonici e ritmici. La foresta s’abbuia. Una voce stentorea pronunzia le ferali parole: Maledetto! Maledetto! Tu che mi uccidi, ucciderai tua madre e tuo padre! Giuliano impallidisce, sente orrore di se stesso e cade in ginocchio invocando il perdono di Dio. «Non toccherò mai più arco e saetta» egli giura, contrito. Qui si disegna un motivo orchestrale assai bello, angoscioso e insinuante, abbastanza affine a quello che chiude la patetica scena dell’addio della Comandante nei Cavalieri d’Ekebù. Torna la luce e la selva si riempie di armonie festose. Il coro invisibile rinnova la laude all’Eterno e il quadro termina con un fortissimo delle voci e dell’orchestra. Si pensa, inevitabilmente, al finale del Prologo del Mefistofele quantunque, a dire il vero, lo Zandonai non abbia tolto dalla partitura del Boito neppure una battuta. Il secondo quadro si svolge nella rocca di Reginella, «in un luogo d’oltremare». Giuliano ha rinunziato alle gioie venatorie e, girando per il mondo, è giunto nella contrada soggetta a Reginella. La gentildonna lo ha ospitato affabilmente. Egli ora è partito per duellare con un Barbaro, che già ha vinto in aperta tenzone vari cavalieri e che minaccia di prendere d’assedio la rocca. Reginella palpita per Giuliano: se egli tornerà vincitore, si offrirà a lui quale sposa. S’odono in orchestra squilli fieri di corni; aleggia d’un tratto una melodia mite e pudica: è l’anima di Reginella che si disvela... Una torma di popolani urge alla porta della rocca. La folla implorante e imprecante accompagna una fanciulla bellissima che ha subìto violenza da parte del Barbaro ed ora, uscita di senno, ride tragicamente e muove inconscia i passi in ritmo di danza. L’episodio non ha importanza riguardo allo svolgimento del dramma: però è trattato brillantemente dal musicista e perciò avvince l’attenzione del pubblico. Il popolo scaglia nuove invettive contro il Nemico; l’angoscia si fa più acre per la sorte di Giuliano. E quando costui appare cavalcando fieramente il suo destriero e recando in sella il corpo del Barbaro ucciso, il giubilo della moltitudine diventa spasmodico. Questo brano strumentale e corale ha una indiscutibile potenza espressiva. L’orchestra riversa torrenti di suoni e sfolgora superbamente. L’episodio guerresco della Francesca da Rimini può dirsi superato, ciò che attesta dei progressi tecnici compiuti dallo Zandonai. 3.2.1/109 Nell’ultima parte dell’atto si snoda il colloquio amoroso fra Giuliano e Reginella. La scena è tinta di soavità: la melodia fiorisce ma non assume purtroppo quel calore comunicativo che si desidererebbe. È poi da rimpiangere che Riccardo Zandonai, temendo di peccare d’indulgenza verso il pubblico, abbia improvvisamente chiuso la bocca ai suoi eroi dopo un breve a due. Troppo ritegno, caro maestro!... Ricordiamoci che i maggiori musicisti italiani – dal Donizetti della Favorita al Mascagni del Piccolo Marat – hanno sempre cantato l’amore con superbo abbandono, assicurando la fortuna delle loro opere... Andiamo avanti. Nel terzo quadro vediamo Giuliano e Reginella sposi, ma non interamente felici. Il giovane pensa ai suoi genitori che ha lasciato soli, vecchi e dolenti. la musica di questa scena è intima, fluida, aderente all’azione scenica e pervasa di mestizia. Ritroviamo il musicista che ha cantato così bene la pena segreta di Francesca da Rimini nel vespro di calendimaggio 13 profumato di viole. Dal bosco attiguo al castello urla una fiera: forse un lupo famelico... Giuliano sussulta, prende l’arco e le freccie, ma poi si ricorda della maledizione che pesa su di lui e del giuramento ch’egli ha fatto di non uccidere più alcuna creatura vivente: così lascia cadere l’arma e resta assorto. Reginella allora, per distoglierlo dalla sua fantasticheria uggiosa, gli canta la Canzone dell’usignolo, tenera e cullante come una ninna-nanna. Questa pagina di schietta melodia ha un potere d’attrazione al quale nessun pubblico potrà mai sfuggire. La sosta lirica ha una breve durata. Si ripete l’urlo della fiera nel bosco, mentre sbisciano le folgori e il vento di tempesta fa piegare le cime degli alberi. Sospinto dall’incauta reginella, il provetto arciere corre ad uccidere la bestia minacciosa. Tutto ciò è commentato dall’orchestra in modo vivacissimo. Sopraggiungono due viandanti che chiedono asilo per la notte. Sono il padre e la madre di Giuliano. Reginella li ravvisa e si inchina a loro come una figlia devota. La musica assume un tono d’umiltà quasi religiosa. Ora i due vecchi, dopo essersi rifocillati, vanno a riposare, in attesa che Giuliano torni dalla selvaggia caccia notturna. Reginella vuole che essi dormano nell’alcova coniugale. La scena si vuota per qualche istante. Rientra Giuliano, acceso di torva gioia. Il sangue della fiera uccisa gli ha dato una perversa ebbrezza. Intanto la tempesta infuria e i lampi si succedono senza tregua. la sinfonia strumentale è straricca e genialmente discordante. Incalza l’ora tragica. Giuliano entra nel talamo, vede i due sopiti nel suo letto, crede che Reginella stia in amplesso con un adultero e compie fulmineamente l’eccidio dei disgraziati. Il musicista si rivela prode e saggio: egli non si attarda in commenti faticosi: l’orchestra dice quel tanto che è necessario, sottolineando ma non interrompendo l’azione. Quando Giuliano si avvede dello spaventevole inganno in cui è caduto, l’orchestra prorompe con furia dispotica; quindi si affloscia e prende a gemere. L’episodio termina senza alcuna perorazione orchestrale à sensation. Giuliano singhiozza mentre gli strumenti mormorano una vagolante cantilena. Qui conviene ammirare Riccardo Zandonai quale assoluto padrone di ogni arcano segreto della tecnica operistica. Egli sa dispensare carezze e seminare il terrore a momento opportuno. È eloquente e conciso. Ha muscoli da atleta e cammina spedito, guardando fisso dinanzi a sé. Rendiamo onore a questo nostro campione in cui si ripongono a buon diritto tante alte speranze. *** Non ci soffermeremo a lungo sull’Epilogo dell’opera. Giuliano, ansioso di redimersi, ha cercato rifugio tra i monti ed è diventato eremita ospitaliero. La sua vita ormai trascorre nel recare sollievo agli uomini stanchi e nel pregare l’Onnipotente. Invano Reginella cerca di convincerlo a tornare presso di lei: egli non vuol lasciare il luogo di penitenza. Un giorno o l’altro il Signore si mostrerà a lui ed egli morirà beato. Il sogno di Giuliano si avvera. Un pellegrino si avanza barcollante: sembra assiderato, quasi esanime. Giuliano lo soccorre con fraterna premura, lo abbraccia per riscaldarlo... E si accorge che l’Ignoto è il Salvatore che gli reca l’annunzio della sua grazia. Piegato il capo sulle ginocchia di Gesù, il peccatore redento spira in perfetta beatitudine. Si apre la cortina di nuvole che 13 [sic]: ma calen di marzo. 3.2.1/110 oscurava il cielo e si vedono gli angeli in festa. Dai monti e dalle valli prorompe un inno in lode del Creatore. La musica di cui lo Zandonai ha ornato questo episodio ha insigni attributi di nobiltà e gentilezza: però non reca una mèsse rigogliosa di nuove idee. C’è un ottimo canto religiosopopolaresco intonato dal crocifero di una torma di pellegrini, c’è qualche momento di felice estasi orchestrale, ma il “motivo della santità di Giuliano” ha un modesto valore e la scena tra il penitente e Reginella appare alquanto scialba. E ben si avverte che la ripresa della laude già udita nel Prologo costituisce, più che altro, un espediente teatrale. Comunque la conclusione dell’opera è di vistoso effetto. Coro ed orchestra gareggiano in letizia ed energia: l’accordo finale, fragorosissimo e lungamente sostenuto, empie di luce abbagliante la sala del teatro. Riassumendo: una produzione lirica di pregio incontestabile e, per due atti almeno, palpitante di vita. Se il musicista lascia qualche dubbio sulla sua attitudine a comporre canti mistici di nuovo conio, sia in Italia che oltre le nostre frontiere, ha pochi antagonisti che possano onorevolmente competere con lui. L’esecuzione L’esecuzione vocale ha soddisfatto anche i soliti incontentabili. Il protagonista Franco Lo Giudice si è prodigato con eroismo ed ha vinto la battaglia su tutta la linea. Maria Laurenti ha impersonato a meraviglia la sentimentale “Reginella”. Le altre parti – di minore ampiezza, ma tutte importanti – erano affidate alla Carbone (Fanciulla folle), all’Auchner (l’Ignoto), al Perrone (Il padre), alla Tamaro-Bertacchi [sic] (La madre), al Girardi (Il Crocifero). L’orchestra ha risposto con baldanzoso amore agli incitamenti dello Zandonai che dirigeva personalmente il suo lavoro; signorili e luminosi gli scenari del primo e del secondo atto; giuoco di masse regolato con fine ingegnosità da Ugo Falena, Antonio Lega e dal Manzi. Come si vede, l’Ente Autonomo sancarliano ha servito l’eminente compositore con devozione commovente e di ciò non sapremmo abbastanza lodarlo. 384 A. G., Il successo del “Giuliano” di Zandonai al “Rossini” di Pesaro, «Il Giornale d’Italia», 7.8.1928 (con foto di M. Favero e G. Masini) PESARO, 5 agosto Il successo entusiastico ottenuto da Riccardo Zandonai con l’ultimo suo lavoro Giuliano al S. Carlo di Napoli ebbe in questa Pesaro che lo ama, lo considera suo illustre figlio di adozione e lo vanta il maggiore degli allievi usciti da questo Liceo Musicale Rossini, la più larga e simpatica eco, ed al ritorno del Maestro dai trionfi di Napoli la cittadinanza volle manifestargli ancora il proprio affetto e l’ammirazione grande offrendogli un banchetto che riuscì una indimenticabile manifestazione. In tale occasione sorse in molti il desiderio di rappresentare a Pesaro, nella grande stagione lirica estiva, il Giuliano: desiderio fatto proprio dall’intera cittadinanza e che ieri sera ha avuto la sua migliore realizzazione. La stagione lirica estiva fu così concretata con l’aggiunta dell’Italiana in Algeri, in commemorazione del 136° anniversario della nascita del sommo concittadino Gioacchino Rossini, con complessi artistici di primissimo ordine e grandi masse corali e orchestrali. Riccardo Zandonai, che ricambia Pesaro con eguale intenso affetto, si offrì spontaneamente di concertare e dirigere personalmente il suo Giuliano, ciò che aumentò nella città e fuori l’intensa aspettativa per l’avvenimento artistico eccezionale. E l’aspettativa certo non è stata delusa, perché il pubblico magnifico che ha assistito ieri sera al Giuliano ha dimostrato chiaramente, non solo il suo compiacimento, ma il suo entusiasmo per questo nuovo lavoro dello Zandonai. 3.2.1/111 Nella sala del “Rossini” si era dato convegno iersera tutto il fior fiore della cittadinanza non solo, ma numerosissimi forestieri giunti dalle città e spiagge vicine; un pubblico elegantissimo fra cui notavansi tutte le maggiori autorità locali, personalità artistiche, i critici musicali di molti quotidiani. Quando alle 21.15 precise Riccardo Zandonai sale il podio direttoriale una prima, entusiastica e prolungata ovazione lo saluta. Il Maestro dà subito inizio al Prologo, che si svolge fra il più religioso silenzio di tutto il pubblico, che vuole seguirlo attentamente, e che alla fine scattò in nuove entusiastiche acclamazioni, evocando il Maestro numerose volte alla ribalta. Il primo atto accentua ancora il successo dell’opera, la cui musica suggestiva e ispirata avvince sempre maggiormente il pubblico, che al calar del sipario vuole ancora numerose volte alla ribalta il maestro; così al terzo14 atto il successo e l’entusiasmo raggiungono le più alte espressioni in onore di Riccardo Zandonai che deve presentarsi altre sei volte alla ribalta, solo e con gli interpreti. L’opera si chiude con un epilogo in cui Riccardo Zandonai ha trasfuso tutta la sua grande anima d’artista ed alla fine del quale pubblico, orchestra ed anche artisti e coro tributano al Maestro una trionfale manifestazione. Riccardo Zandonai resta per alcuni istanti quasi interdetto e poi ringrazia visibilmente commosso. L’opera, in due atti pieni di drammaticità chiusi fra un prologo e un epilogo di natura sinfonicocorale, ha ottenuto il più grande successo perché il pubblico ha potuto afferrare e penetrare subito nello spirito e nella musica di Giuliano, tanto che ne sottolineò con fragorosi applausi tutti i punti più salienti. L’esecuzione, curata in ogni sua parte da Riccardo Zandonai, è semplicemente superba. Tutti i principali interpreti furono all’altezza del compito, ma specialmente vanno ricordati la giovane soprano Fàvero Mafalda, Reginella, che sostenne tutta la sua parte facendo risaltare in modo evidente le sue splendide doti di artista e di cantante di grande classe e avvenire, ed il tenore Galliano Masini, che nelle vesti del protagonista Giuliano ebbe modo di sfoggiare i suoi magnifici mezzi vocali. Ottimi pure, per voce e per scena, il basso Mario Gubbiani, il Padre; la mezzo-soprano Elvira Ravelli, la Madre; la soprano Dolores Seghizzi, la fanciulla; il baritono Millo Marucci, l’Ignoto, e il crocifero, tenore Ubaldo Tofanelli. La poderosa orchestra, sotto la guida dell’autore, perfetta, e magnifico il coro istruito dall’ottimo maestro Bernardelli. Bellissima la messa in scena. [...] 385 Il “Giuliano” di Zandonai diretto dall’autore al Rossini di Pesaro, «La Propaganda musicale» I/3, 15.8.1928 - p. 9 Dopo il grande successo riportato nella recente passata stagione lirica del Giuliano al San Carlo di Napoli, al teatro dell’Opera di Roma e a Trento, la nuova ultima opera di Zandonai è stata rappresentata il 4 agosto al teatro Rossini di Pesaro, accolta con schietto entusiastico fervore di plauso e acclamazioni. Il nostro illustre collaboratore gaianus, che non volle mancare all’eccezionale avvenimento teatrale, dopo un lungo, acuto e geniale saggio critico sulla nuova opera, così parla dell’accoglienza fatta al Giuliano dal pubblico pesarese: «La rappresentazione di ieri sera al Teatro Rossini diretta dall’autore si è risolta in un trionfo. Pieno, festantissimo. Zandonai dall’orchestra e dall’imponente coro ha ottenuto tutto l’ottenibile. Della compagnia lirica è da mettere in primo piano la giovanissima Mafalda Favero, padrona di un’arte di cantante e di attrice che è doveroso dichiarare veramente fuori del comune. La Favero è 14 Ovvero secondo. 3.2.1/112 predestinata indubbiamente ad una carriera di grande stile. Degno di segnalazione il tenore Galliano Masini che ebbe accenti vigorosi, cantando la sua poderosa parte con molto impegno e con buoni effetti. Volonterosi, accurati ed efficaci gli altri. L’opera è stata messa in scena con molto decoro e con cure specialissime. Vi sono stati applausi calorosi a tutti i pezzi principali; applausi vivissimi e numerose chiamate all’autore, ai cantanti e al maestro dei cori alla fine degli atti. La grande serata alla quale ha assistito un pubblico magnifico si è chiusa con un’ovazione grandiosa al maestro Zandonai». «Dobbiamo – così conclude gaianus – dichiarare apertamente la nostra fierezza di possedere un musicista che a quarantacinque anni ha già dato all’arte del proprio Paese ben otto opere, l’ultima delle quali ci può essere invidiata da tutti gli operisti viventi all’estero». Gaianus nota inoltre opportunamente: «Non va dimenticato che per il Giuliano il nostro operista ha cercato e trovato nella sua sensibilità espressioni per lui nuove; ed egli ha dato un maggiore sviluppo, in altezza e profondità, alle forme della coralità; che ha potenziato all’ennesima la forza dei suoi “modi tecnici” (modi corali e modi orchestrali)». 3.2.1/113 Una partita 386 “Una partita” di R. Zandonai al Teatro della Scala, «Il Messaggero», 20.1.1933 MILANO, 19 La Scala presentava stasera per l’attesa nuova opera, Una partita, di Riccardo Zandonai, un aspetto imponente. Nel breve giro di questo inizio di stagione la Scala si è trovata a dovere allestire due opere nuove dell’illustre autore della Francesca da Rimini: quella di stasera e la Giulietta e Romeo, giunta a Milano dopo dieci anni di successi nei grandi teatri d’Italia e dell’estero. Una partita è in un atto, su libretto di Arturo Rossato. La vicenda si svolge a Madrid; epoca il 1600. Due rivali, Don José e Don Giovanni di Marana, sono di fronte per l’amore di una donna: Manuela. Dopo una partita a carte i due rivali son tratti a una partita fatale per un duello: ultima disperata posta Manuela, amante di José. Questi è la vittima tragica della partita alla spada. Manuela, memore di José, si avvelena per non cadere tra le braccia di Don Giovanni. Così, Don Giovanni, se può dirsi pago di aver vinta la partita a carte, è tratto a dichiararsi sconfitto per aver perduto la partita d’amore. La musica L’opera s’inizia brillantemente. L’orchestra attacca un ritmo vivo e deciso di danza spagnuola, quasi a dare il colore ambientale di quel ritrovo madrileno seicentesco ove dame e cavalieri in festa, ora raccolti intorno a una ballerina, ne cadenzano, con la voce e battendo le mani, la danza. Pagina, questa d’apertura, piena di vivacità e di brio, che per l’andamento ritmico e la ricca tavolozza orchestrale fa ripensare allo Zandonai della Conchita. Ma è questo l’unico brano della Partita che abbia uno scopo puramente coloristico o decorativo, perché subito dopo con l’entrata in scena di Don José e di Don Giovanni di Marana (i due rivali che presto s’impegneranno nella mortale partita prima alle carte e poi, per il possesso di una dama, Manuela, alla spada) l’azione drammatica s’imposta con tale evidenza e procede così serrata che impone al musicista di seguirla senza diversivi ornamentali. E infatti in questo suo nuovo lavoro l’autore di Francesca e di Giulietta (opere, per citare le più popolari, dove la musica sembra spaziare a proprio agio) quasi si raccoglie con un fare sobrio e conciso intorno alla vicenda scenica. Specialmente nella prima parte dell’atto, fino all’arrivo di Manuela e alla grande scena con Don Giovanni, è un commento musicale incisivo dell’azione, della quale nulla trascura. Con caratteristici disegni melodici o ritmici, ora nel canto ora in orchestra, esso va via via delineando i personaggi e i loro stati d’animo; e, col porre in rilievo ogni parola e i sottintesi del dialogo, fa emergere fortemente l’interesse del dramma che avvince lo spettatore fino all’ultima parola e all’ultima nota. Di fronte a un soggetto come questo della Partita che, abilissimamente svolto dal Rossato, corre necessariamente rapido alla tragica fine e ben poco può indugiarsi nelle consuete soste liriche del melodramma, l’esperta mano dell’operista in Zandonai, per non dire il suo sicuro intuito artistico, lo ha portato a comporre una partitura che non ha forse riscontro nella sua precedente produzione per la semplicità almeno apparente dell’ordito orchestrale, per il vigore del recitativo drammatico e per la chiarezza melodica quando il canto nella seconda parte dell’atto ampiamente si spiega. Soltanto in questa forma il breve dramma, che si svolge in meno di un’ora, poteva essere musicalmente inquadrato per risultare, come infatti risulta alla scena, in tutta la sua efficienza. Né la musica ne sembra soverchiata, ridotta cioè alla funzione secondaria di un commento; si avverte invece che la musica è elemento integrante dell’interesse drammatico, come è il sostegno indispensabile dell’effetto teatrale. 3.2.1/114 Dal momento scenico in cui Don José e Don Giovanni si accaniscono nella partita a carte che avrà per ultima e disperata posta, da parte del primo, la propria amante Manuela che Don Giovanni brama far sua, in orchestra si afferma un movimento ritmico che a sua volta si fa incalzante come le battute della partita, seguendo gli stati d’animo dei due avversari e degli astanti. Ma a tratti si presenta nel canto di Don José lo spunto melodico della serenata ch’egli quella sera farà portare sotto i balconi di Manuela: spunto di melodia semplice ed accorata che significherà nelle scene successive l’amore di lui. Allorché la serenata – subito dopo che Don José è caduto in duello – vien realmente portata a Manuela, quello spunto, svolto in larga melodia, formerà l’atmosfera poetica in cui si spegnerà anche Manuela, avvelenatasi pel dolore e per non concedersi a Don Giovanni; mentre costui, vincitore alle carte ma ora deluso davanti al corpo esanime della donna, confesserà a se stesso d’aver perduta la partita d’amore. Due pezzi salienti sono nella grande scena dell’incontro fra Donna Manuela e Don Giovanni, scena che abbraccia tutta la seconda parte sino alla fine tragica dell’opera, la quale, come si è detto, si conchiude con la triste serenata che un cantore con la chitarra e un piccolo coro fanno giungere armoniosamente dalla strada, quasi a ricordare in quel momento estremo del dramma l’amante sventurato, José. Il primo dei due pezzi è l’aria drammatica di Manuela: «Ero sua, tutta sua...» nell’apprendere da Don Giovanni di essere stata giocata, perduta e vilmente ceduta dal suo amante; il carattere passionale e fiero della donna è scolpito in questo brano di sicuro effetto. L’altro brano, «Mai non udiste...», è il bellissimo ed eloquente arioso del tenore – Don Giovanni – che, svelando a Manuela affranta il proprio essere, quasi simbolo dell’amore che sempre si rinnova in eterna giovinezza e che riconsola, le si insinua con carezzose parole, dapprima sussurrando «Io t’amo!» e poi ripetendolo con foga insistente ed impetuosa. Riassumendo, nella Partita Riccardo Zandonai, musicando un soggetto di maniera romantica ma impostato su forti situazioni, mentre ha dato ancora prova della sua sempre vivida genialità, feconda di melodie cantabili e di trovate orchestrali, si è particolarmente affermato come operista di razza. Il quale, sempre meglio aderendo alla tradizione melodrammatica italiana, sa e vuole disciplinare l’opera in musica al soggetto e alle imprescindibili esigenze del teatro e dei suoi effetti, mantenendole però il carattere e i segni dell’opera d’arte. Il grande successo L’opera è stata diretta con slancio e vigoria drammatica dal maestro Sergio Failoni che ha dato un nitido rilievo alle migliori pagine della nuova opera. Il tenore Piccaluga (“Don Giovanni”) e il baritono Biasini (“Don José”) hanno efficacemente reso lo spirito dei personaggi e hanno prodigato con foga la loro voce. Bene la Raisa nella parte di “Manuela”. Il coro si è disimpegnato al solito ottimamente nei rapidi interventi sulla scena. Le accoglienze sono state calorose ed alla fine dell’atto si sono dovute registrare sette chiamate cui ha partecipato l’autore e alle due ultime Arturo Rossato. Alla rappresentazione ha assistito pure il Duca di Bergamo il quale, alla fine della «Partita», ha fatto chiamare nel suo palco il maestro Zandonai. Con l’illustre musicista il Duca si è vivamente congratulato per il vibrante successo di questa sera. [...] 387 bev [= Giuseppe Bevilacqua], “Una partita” di R. Zandonai, «La Tribuna», 21.1.1933 - p. 3, col. 5 MILANO, 20. 3.2.1/115 Il pubblico della Scala è stato chiamato ieri sera a giudicare un’altra composizione lirica del maestro Zandonai, un atto intitolato Una partita di ambiente e di carattere spagnolo. È una vicenda che Rossato ha rivestito di leggiadri versi. L’azione si svolge a Madrid, in una bella sala del Ridotto, in cui si muove una folla di uomini e di donne, mascherati o no, nei costumi del pittoresco seicento. Quando si alza il sipario la scena appare animata da una danza. Don Giovanni conte di Marana e don José Sandova, che entrano mascherati mentre la folla furoreggia attorno alla danzatrice, per un futile motivo si sfidano. Entrambi fieri, prepotenti e tracotanti, giocheranno una partita strana, prima a carte, poi con la spada. La sorte è avversa a don José, che perde tutto quello che possiede e accetta la rivincita mettendo come posta suprema la sua donna, la bellissima e innamoratissima contessa Manuela, sotto i cui balconi don José canta le più ardenti serenate. L’avversario è ancora vittorioso, la bella posta è sua, ma dovrà poi misurarsi colla spada in pugno. Giunge Manuela sbalordita e atterrita. Ella sarà di don Giovanni solo dopo che i due si saranno misurati colla spada. Ella spera nella vittoria del suo innamorato, ma don Giovanni ritorna dopo aver trafitto il rivale. Egli è il vittorioso, ma non avrà la posta perché Manuela versa nel suo vino, mentre la cena sta per cominciare, il veleno e muore sospirando le ultime parole d’amore: «José! Son io... Apri la porta... non mi lasciar nel buio... T’amo! Sì! T’amo...» – L’amore è un gioco, dice don Giovanni. Fosti il gioco mio... Ho perduto! Più che commuovere, lo spartito piace e diverte per la sua spigliatezza, per il piglio agile e sicuro, per la continuità e la scorrevolezza, sì da sembrare scritto d’un fiato, senza soste, senza pentimenti, senza faticose elucubrazioni. Una novella narrata in musica, più che una vicenda rivissuta scenicamente, da un gaio divertente narratore che conosce la suggestione degli opportuni indugi davanti al pittoresco o al patetico e vi si sofferma quel poco che è necessario per lasciar intravedere una visione di bellezza o per risvegliare un soffio di emozione, ma non tanto da appesantire il racconto. Se questo era il proposito del compositore, nessun dubbio che c’è riuscito mirabilmente. Poche battute di introduzione sulle quali si innesta un motivo di danza spagnola e la scena ci presenta la danzatrice cui fanno coro gli spettatori. È uno spunto di colore che ci fa ricordare Conchita che segnò il fortunato inizio di Zandonai. Colori oscuri si insinuano nella festosità orgiastica dell’orchestra. Entrano in scena i due cavalieri rivali. Una pennellata di lezioso e di caricaturale accompagna i convenevoli tra i due e la scena della sfida. Originale l’episodio del gioco, in cui si alternano motivi sincopati e strappi d’archi ed accenti languorosi e flebili. La musica segue ora la vicenda drammatica della sorte, ora la evocazione amorosa della donna lontana ma presente nel desiderio di entrambi. La scena tra Don Giovanni e Manuela è pure condotta con perizia fine e nutrita di passionalità. Specialmente la parte di don Giovanni col progredire della scena acquista un tono lirico che si fa sempre più insinuante e carezzevole, in vivo contrasto con quella di Manuela in cui si dibattono vari sentimenti: lo sdegno, l’ira e il presentimento del dramma che sta per svolgersi. La voce di una appassionata preghiera mentre i due rivali stanno scontrandosi nella via buia. E sulla visione truce di Manuela fulminata dal veleno, la musica stende il suo velo di poesia con un coro interno tenero ed appassionato. È la serenata. Una stornellata piena di grazia, fresca, con quel senso di spazioso e di arioso in cui pare che la melodia riecheggi se stessa, come nelle strofe lanciate nella solitudine della montagna, ove il canto si distende in vibrazioni arcane. E si ripensa ai bei monti trentini dove indubbiamente sono nate queste carezzevoli armonie. Il successo di Una partita è stato caloroso. Alla fine dell’atto il bellissimo pubblico che gremiva la sfarzosa sala del Pier Marini ha vivamente applaudito evocando sei volte alla ribalta gli interpreti. A tre delle chiamate si è presentato pure il maestro Zandonai. 388 3.2.1/116 g. r., “Una partita” di R. Zandonai - Un grande successo alla Scala, «Il Giornale d’Italia», 21.1.1933 - p. 3, col. 7 (Dal nostro corrispondente) MILANO, 19 - Il pubblico della “Scala”, foltissimo, imponente, ha giudicato questa sera una nuova opera di Riccardo Zandonai: Una partita. Il libretto è di Arturo Rossato. È il demone del gioco – gioco di carte che mette spavaldamente in rischio ogni ricchezza e gioco di spada che mette ad ogni pié sospinto in gioco la vita – quello che lega don Giovanni conte di Marana e don José Sandora [sic] in una partita infernale nel Ridotto di Madrid. I due gentiluomini ammantellati e fieri rappresentano l’espressione più impennacchiata e tragicamente burlesca di quella spagnolerìa che fu delizia di tante secentesche invenzioni letterarie e sceniche. La partita comincia: e don Giovanni freddamente, implacabilmente vince. Vince tutto il denaro, vince il Castello, vince financo l’ultimo gioiello del suo rivale. Ma è la donna di don José, è la bella e innamorata contessa Manuela che il conte di Marana vuol guadagnare nella furibonda partita. E propone la posta senza batter ciglio: e senza batter ciglio l’altro accetta. Perduta anche la donna, don José firma un biglietto e si allontana: gli rimane ancora la spada e con la spada in pugno, se il rivale non avrà paura, si giocherà al Prado l’ultima partita. Manuela, chiamata, giunge: sa di essere stata buttata sul tavolo da gioco dal proprio amante come una moneta; si infiamma, si sdegna, vuole che il traditore paghi anche con la vita la propria temerarietà prima di concedersi al vittorioso don Giovanni. E don Giovanni va a battersi e torna con la spada lorda del sangue dell’ultima posta gridando: L’ho ucciso! È convinto di aver completamente vinto quando si accorge, per la disperazione senza freno della sempre innamorata Manuela che si uccide avvelenandosi, di aver perduto. Le vicende del libretto si ripercuotono nella musica. Dove sono le strettoie nervose ed incalzanti dei recitativi, gli interpreti non riescono a dare la misura delle loro voci, ed anche l’orchestra procede a sbalzi. Dove invece si distende l’ala della canzone la tipica ispirazione musicale di Riccardo Zandonai trova effetti sicuri e pittoreschi e vene fresche e spontanee di singolare malinconia. La scena della danza con la quale l’atto si inizia è molto bella, e di ottimo effetto musicale e scenografico è il quadro finale. Sergio Failoni diresse con impeto generoso e sicura maestria ricavando dall’orchestra disciplinatissima ogni risorsa. Erano sulla scena Nino Piccaluga nella parte di “Don Giovanni”, Pico Biasini nella parte di “Don José” e Rosa Raisa “Manuela”: cioè quanto di meglio per mezzi vocali e per valentia scenica l’interpretazione della nuova opera poteva desiderare. Sette chiamate hanno consacrata la breve opera al successo. Il duca di Bergamo, presente, ha invitato Zandonai nel suo palco e si è vivamente complimentato con lui. Una partita avrà molte repliche. 3.2.1/117 La farsa amorosa 389 Artom, Il grande successo della “Farsa amorosa” a Bruxelles, «La Tribuna», 1.12.1933 - p. 3 BRUXELLES, novembre. Ciccio e Checca, i due somarelli dal raglio canoro che guidano le burlesche della «Farsa Amorosa» di Zandonai, han ritrovato il successo ottenuto l’altr'anno al Teatro Reale dell’Opera sulle scene anche troppo dorate della “Monnaie”. Li avevamo incontrati sulla piazza che s’apre dinanzi al massimo teatro lirico del Belgio verso le sette di sera, nell’ora in cui sull’asfalto umidiccio le automobili si avventano più numerose e più aggressive al segnale dell’agente dal casco bianco che appena si intravede nella bruma fatta rossiccia dalle lettere di fuoco della pubblicità. Condotti a mano da un grosso villico, i nostri asinelli, avvolti, come si conviene in questi piovosi paesi, in lucenti incerate, puntavano gli zoccoletti sul viscido suolo così diverso dai caldi selciati romani, volgendo ogni tanto i nostalgici occhi affondati nel pelo bigio verso il cielo filaccioso e livido. Tristezze di due asinelli lombardi in terra di Brabante. Ma un’ora dopo, tra la balzante allegria della musica di Zandonai, c’era in scena, a compensarli delle brume belgiche, non un cielo lombardo, così bello quando è bello, ma addirittura un cielo meridionale, di un azzurro solido e inalterabile, sotto la cui volta salivano nientemeno che i vasti parasoli dei pini mediterranei. In mezzo a questo paesaggio che avrebbe per lo meno fatto stupire Carlo Linati, Piero Gadda e gli altri specialisti in cose di Brianza, si aggiravano villanelle con un costume tra il ciociaro e il sorrentino che faceva ben poco pensare alle compagne di Lucia Mondella. Poco male, tanto più che a carezzare i nostri occhi italiani c’eran dappertutto, sui grembiali e sulle mantellette, nastri e fiocchi tricolori che, sebbene assegnati a un’epoca precedente di un buon secolo e mezzo l’invenzione della nostra bandiera, facevano un bellissimo e allegro vedere. In tutti, orchestra, cantanti, coristi, quel dover far gli italiani aveva messo un impegno a un fuoco straordinario per questi paesi biondi e tranquilli. La civetteria di Lucia, le gelosie di Renzo, gli spagnolismi del Podestà trovavano così il calore necessario negli interpreti e i ragli tempestivi di Ciccio e di Checca valsero a sottolineare in scena il tono farsesco che Zandonai ha impresso con tanto colorismo in orchestra. I consensi del pubblico non potevano essere maggiori e fin dal primo quadro scrosciarono applausi a non finire. La sala della “Monnaie”, tutto ori e angioletti paffuti, perfetta espressione di un’epoca in cui l’ideale artistico era rappresentato dalla bomboniera, era stipata di pubblico e dalla platea al loggione il consenso regnò unanime. Per Riccardo Zandonai è stata una vittoria tanto più notevole in quanto il pubblico belga, di gusti modernissimi negli altri campi dell’arte, è piuttosto tradizionalista in fatto di opere liriche. La vivacissima partitura, il colore e il taglio moderno conquistarono invece del tutto un uditorio avvezzo alle classiche formule del melodramma ottocentesco e molto a questo valse la bravura del maestro De Thoran che dirigeva l’orchestra, del tenore Lens e della soprano Livine Mertens. Gli altri cantanti furono tutti molto a posto: podestà tronfio e beffardo il Boyer, Frulla arlecchinesco e disossato come si conviene il Mayer, Spingarda ammazzasette a dovere il Salès. Il vivace libretto di Arturo Rossato non ha perduto nulla della sua comicità nella bella tradizione francese di Paul Spaak. Tirando le somme, «La Farsa Amorosa» ha provato con successo che le sue qualità non risultano affatto minori sopra una scena straniera e che le sue possibilità come opera “di esportazione” sono grandissime, accresciute anche dal fascino del colore italiano che trova sempre aperta la porta del cuore dei pubblici. 3.2.1/118 390 [Notizie di musica], «Il Messaggero», 10.1.1934 - p. 3, col. 6 [...] Le repliche de La farsa amorosa di Zandonai, dopo la prima fortunatissima rappresentazione al Teatro della Monnaye di Bruxelles, si susseguono dal 27 novembre con costante concorso di pubblico. La stampa belga nota il continuato successo della nuova opera comica italiana che, dopo il Falstaff e il Gianni Schicchi, entra a far parte del repertorio di quel teatro. È interessante rilevare ciò che un noto critico, J. du Chastain, ha affermato nel Vingtième Siècle. Dopo aver lodato il divertente libretto di Arturo Rossato (che, secondo un altro critico, il D’Anglé, «non lascia al pubblico che il tempo di ridere, senza poter riflettere alla inverosimiglianza delle situazioni»), il Du Chastain scrive: «Zandonai è indubbiamente un uomo di teatro. Pur restando fedele alla concezione italiana, egli si è evoluto coi suoi tempi e non disdegna in nessun modo d’impiegare le formule le più recenti, benché le attenui con una spontaneità che esclude gli eccessi. Si sente in questo musicista una grande probità e una rara lucidità; e quando egli cerca di conquistare il consenso del pubblico, lo fa con mezzi che tutti devono apprezzare, poiché sono di una perfetta lealtà. Bisogna mostrargli riconoscenza per essere restato sempre lo stesso, mentre tanti compositori più o meno in voga cercano di mascherare il loro viso con eccentricità che, a forza di essere adottate, mancano di novità». A mostrare poi l’impressione che l’opera del nostro musicista ha prodotto sui suoi interpreti di Bruxelles, togliamo dai giornali belgi un brano della lettera che uno dei reggenti della Monnaye, che è stato anche il direttore-concertatore dello spettacolo, ha voluto scrivere in risposta a un telegramma che Zandonai gli aveva indirizzato dopo la prima rappresentazione: «Caro maestro,... Tutti i vostri interpreti hanno fatto, con cuore, un grande sforzo per presentare la vostra bella opera nelle migliori condizioni. Per parte mia, dopo aver qui diretto venticinque rappresentazioni della vostra ammirabile Francesca, tengo a dirvi la mia grande gioia d’aver potuto attendere alla concertazine e collaborare al successo della Farsa amorosa. A nome degli artisti, dell’orchestra e mio, io vi manifesto il grande interesse da cui fummo presi lavorando intorno alla vostra partitura così piena di colore, così finemente cesellata, e sforzandoci di renderne tutto lo spirito e la straordinaria vitalità che da essa si sprigiona - Firmato: M° C. de Thoran». Simili attestazioni straniere per un artista nostro meritano di essere divulgate. [...] 3.2.1/119 Il bacio 391 R[enzo] R[ossellini], “Il bacio” di Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 11.3.1954 - p. 3 Dagli studi della R.A.I. è stata radiodiffusa l’opera postuma, rimasta incompiuta, di Riccardo Zandonai intitolata «Il bacio». Atto di omaggio alla memoria di un grande operista italiano, prematuramente scomparso, e di cui tra breve si commemora il decimo anniversario della sua dipartita. Attorno a «Il bacio», il cui libretto era stato ricavato, dal suo fedele collaboratore Arturo Rossato, da una novella dello scrittore svizzero Gotifred Keller, Zandonai aveva lavorato, in modo convulso e con molta pena, negli anni più drammatici e più foschi della nostra guerra. Rossato morì senza aver potuto completare la stesura del libretto: a questo provvide lo scrittore Emilio [sic] Mucci, sulla base di indicazioni lasciate da Rossato e di appunti concordati con il musicista. Durante questo periodo di nuovo lavoro, gli eventi della guerra precipitarono ed il compositore, già minato da un grave male, dovette lasciare la sua serena casa sul Colle S. Bartolo di Pesaro, occupato da un comando germanico, e trovare rifugio e protezione in un convento francescano sulle montagne della Carpegna. Quivi, framezzo ad inaudite torture fisiche per i continui attacchi del male, condusse a termine, con stoico animo e dedizione al lavoro, la partitura d’orchestra dei primi due atti de «Il bacio». Resosi impellente, per le aggravate condizioni del Maestro, un intervento chirurgico, egli fu portato a braccia in un ospedale da campo alla periferia di Pesaro: aveva con sé il manoscritto della nuova opera, arra delle sue sofferenze e delle sue speranze. La morte sopraggiunse a placare l’estremo sogno del grande musicista italiano. A dieci anni da questa penosa dipartita, la R.A.I., con gesto delicato e commosso, ha raccolto l’incompiuto manoscritto di Zandonai: tale e quale come il Maestro aveva lasciato la partitura, essa è stata presentata, con amorevole cura, dal Maestro Francesco Molinari Pradelli, concertatore e direttore, e dai cantanti Lina Pagliughi, Angelo Lo Forese, Rosetta Noli. Un piccolo rito commemorativo è stato, dunque, compiuto: piccolo ma pieno di significato. Non c’era da appagare delle curiosità, non c’era da suscitare discussioni e polemiche: così mutilata l’ultima opera di Zandonai non è che un’ombra di quel che doveva e poteva essere; ma il significato di questa esumazione è nella grande ed affettuosa considerazione che va di diritto al nome di Riccardo Zandonai, dolente figura di musicista italiano. Riaffiorano nella coscienza di chi ama il teatro le sue opere geniali, ancora in attesa di una giusta e sacrosanta divulgazione. Ascoltando i frammenti de «Il bacio», una commedia sentimentale che si diverte a girare attorno a situazioni grottesche per poi sfociare in un lirismo acceso, già si percepiscono quelli che sarebbero stati i suoi solidi elementi spettacolari: nella passione folle e finalmente vittoriosa di un proconsole dell’antico Impero Romano per una fanciulla alessandrina infatuata d’intellettualità, che crede di poter comandare i sensi attraverso la ragione e che un solo bacio, invece, rende schiava della ineffabile legge dell’amore. E si coglie quel gustoso senso coloristico della sgargiante tavolozza armonica di Zandonai, il trepido lirismo del suo caratteristico melodiare, la vivacità spontanea e suggestiva d’ogni elemento musicale. Audizione ricca di interesse, degna del nome del Maestro che si andava a ricordare. 3.2.1/120