Saggi critici
BERTOLT BRECHT: ESTRANIAMENTO E DIALETTICA DEL COMICO (2)
Pubblichiamo la seconda parte di uno studio teorico e analitico sulla funzione della
‘Verfremdung’ e del riso nell’opera drammaturgica e letteraria dello scrittore tedesco.
Attraverso lo specifico esame della scena VII della pièce “La contenibile ascesa di
Arturo Ui” inscenata nel 1958 da Wekwerth e Palitsch, è possibile rendersi conto di
come drammaturgicamente e plasticamente funzionano e interagiscono le categorie
della satira, dell’ironia, dell’umorismo, della parodia e del grottesco. Che in questo
testo, scritto nel 1941, agendo sulla figura eponima del protagonista, un gangster di
Chicago, in realtà decostruiscono e corrosivamente smascherano l’essenza criminale
di Adolf Hitler.
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di Luca Di Tommaso
Ilarità estranianti. Studio sulla teoria implicita del riso in Bertolt Brecht
6. Un esempio microanalitico: La contenibile ascesa di Arturo Ui, regia di M. Wekwerth e P.
Palitsch (1958), scena VII.
Proponiamo adesso un esempio di come la teoria appena rintracciata a partire da Brecht fosse in
effetti praticata nel suo teatro. Il che ci aiuta a comprendere meglio da un lato come possa tradursi
concretamente in azione tutto quanto detto finora, e da un altro ci illumina sul rapporto fra teoria e
pratica dell’estraniamento in Brecht e nella sua tradizione teatrale.1 Non si tratta di una vera e
propria analisi, per la quale dovremmo convocare ben altri strumenti metodologici, ma di una
microanalisi in forma di descrizione e commento, che operiamo a partire un corpus documentario
fotografico e audiovisivo piuttosto articolato e generalmente poco esplorato.2
1
Riteniamo infatti troppo semplicistica la conclusione, che spesso viene dedotta dalle interviste agli attori del Berliner
contenute in Meldolesi-Olivi (1989), per cui la pratica brechtiana non avesse molto a che fare con la sua teoresi. È
chiaro che alle prove un regista deve assumere un atteggiamento più fattivo e sa che, per quanto preparato a livello
teorico, sbaglierebbe a riflettere troppo sul piano concettuale durante le prove, interrompendo quel flusso che solo è in
grado di condurre a risultati buoni sulla scena.
2
La seguente ricostruzione viene effettuata sulla base di vario materiale fotografico (Pic e altri) e di due
videoregistrazioni, effettuate una nel 1960, l’altra nel 1974. Gli attori protagonisti della scena VII non variarono da una
versione all’altra (Ekkehardt Schall interpretava Ui) e la struttura dello spettacolo restò a grandi linee la stessa. I
frammenti di testo verbale che riportiamo di seguito costituiscono la traduzione (nostra) del recitato effettivo, che
differisce talvolta dal dramma brechtiano di partenza (e quindi dalla traduzione italiana contenuta in Brecht, 1963, a cui
pure facciamo riferimento). Per farsi un’idea della satira di Hitler messa in atto da questo spettacolo, il lettore può
innanzi tutto andare con l’immaginazione al film di Chaplin Il grande dittatore, che tra l’altro uscì proprio nello stesso
La favola fino alla scena VII: Arturo Ui (maschera di Hitler) è un gangster di Chicago che guida
una banda di criminali (tra cui le maschere di Göbbels, Röhm, Göring ecc.) alla progressiva
conquista del potere nell’ambito del commercio di cavolfiori (allegoria dell’ascesa nazista). Si
espande sempre di più e, allo scopo, costringe alle trattative il detentore del potere politico
Dogsborough (Hindenburg). Qualcuno ha fatto presente a Ui che non è molto aggraziato nei gesti e
nella voce; perciò Ui si rivolge a un attore per correggersi. La corrispondenza tra le vicende dei
gangster e quelle dei nazisti sono esplicitate così: ciascuna scena recitata (che figura una tappa della
vicenda dei gangster) viene introdotta da una didascalia (che formula una tappa corrispondente,
analoga, della vicenda nazista). Così la lettura dello spettacolo è dialetticamente orientata tra il
figurato e il formulato.
Descrizione: La scena VII si apre con una didascalia che annuncia le ultime conquiste belliche del
Nazismo.
Poi si accendono le luci e appaiono Ui e Givola (Hitler e Göbbels) in un interno; sono vestiti
eleganti (abito scuro, camicia bianca, papillon: foto 1) e truccati da clowns, come sempre: sui volti
colori vivaci (blu, verde, rosso) a ricalcare i lineamenti dei personaggi che evocano. Ui indossa un
cappellino beige da investigatore, che non c’entra nulla con il resto dell’abbigliamento. Dietro di
loro una finestra ed una persiana abbassata, molto grandi. Sono su un piano rialzato di circa trenta
centimetri dal resto del palcoscenico. In avanscena, da sinistra entrano due scagnozzi altrettanto
caricaturati, i quali conducono un anziano attore vecchio stile, ridicolo nel passo eccessivamente
aggraziato, mezzo ubriaco (sale gli scalini barcollando e, quando è su, Givola fa segno al pubblico
che puzza) ed in frac stropicciato. Ui e Givola lo guardano esterrefatti, mentre gli altri due
scagnozzi escono (rientreranno di lì a poco con uno specchio).
anno (1941) in cui Brecht componeva l’Arturo Ui. Su questo film ci siamo soffermati analiticamente in Di Tommaso
(2009).
Foto 1
Di tanto in tanto, durante la scena, si udranno degli spari di pistola in lontananza: presagi di morte,
come quando Ui invita l’attore a mostrargli il giusto modo di camminare, perché gli è stato fatto
presente che il suo non è dei migliori (sparo). L’attore, orgoglioso, risponde: “Signor Ui, voi avete
qui l’uomo che fa per voi. Il vecchio Mahonney le insegnerà il modo di incedere classico IN DIECI
MINUTI”3 L’attore prende a lamentarsi del fatto che Shakespeare l’ha rovinato, imitando con
rancore i registi moderni che gli rimproverano: “‘Non reciti Shakespeare, Mahonney, quando recita
Ibsen! Guardi il calendario, siamo nel ventesimo secolo, signore!’ ‘L’arte non conosce alcun
calendario’, dico io, (un tempo di pausa) ‘io FACCIO DELL’ARTE’, oh sì”. Quest’ultima
impennata d’intonazione e volume vocale, che esprime tutto il risentimento dell’attore per chi non
comprende il suo genio, è talmente forte e brusca (dopo la pausa) che Givola e Ui indietreggiano
atterriti, come avessero ricevuto un colpo o si svegliassero improvvisamente dal sonno; Ui fa cadere
inavvertitamente la sedia dietro di lui, poi ci inciampa e un piede si incastra nel bracciolo.
Ui sollecita Mahonney a mostrargli la marcia elegante dello stile classico, e Mahonney, dal fondo
verso lo specchio (che è posto verso il pubblico ed è in realtà una cornice vuota, così da vedere chi
si specchia al di là), solennemente, allarga il braccio destro, stringe i lembi del lungo abito scuro
sull’addome con il sinistro, e comincia – lento – ad incedere. Ui, nel frattempo, è seduto alle sue
spalle, estremamente sgraziato, quasi sdraiato sulla sedia. Givola è perplesso, crede che questa
andatura “non naturale” ridicolizzerà il suo capo, ma questi gli risponde: “Che significa non
naturale [unnatürlich]? Nessun uomo è oggi naturale. Quando io cammino, voglio che si noti che
IO cammino. (Rivolto a Mahonney, preparandosi) Benissimo. Mi corregga!”
3
Il maiuscolo significa, in questa descrizione, un improvvisa impennata di energia e di intonazione nella dizione.
Foto 2
Ui copia l’incedere dell’attore (che ora è in disparte ad osservare: foto 2), compie il tragitto dal
fondo verso il pubblico, al di là dello specchio, il suo moto è tesissimo e goffissimo, i suoi gesti
meccanici. L’attore lo corregge: “Testa dietro!” Ui esegue (con scatto meccanico e movimento
accentuatissimo: da che era gobbo in avanti, ora è teso come una corda d’arco all’indietro e rischia
di cadere schiena a terra), l’attore continua: “Il piede poggia sul terreno dapprima con la punta e
poi col tallone!”, Ui ci prova, ma la cosa li riesce assai complessa, finché ad un certo punto un piede
scivola di lato e… gran tonfo per terra. Si rialza repentinamente, una mano tiene il ginocchio
acciaccato, guarda l’attore come un bambino guarda la madre, tra l’attesa di un conforto e la paura
di un rimprovero. Mahonney gli fa segno di ricominciare. Quindi daccapo: Ui prende coraggio, la
concentrazione lo porta ad allargare le braccia, tese, come le ali di un cavatappi che affonda sempre
più nel sughero. E’ attentissimo a posare prima l’avampiede, ne risulta un passo strambo, neanche
fosse un cieco costretto a varcare un terreno minato. “Bene, ci siamo” commenta Mahonney, in
evidente contrasto coi fatti “lei ha un talento naturale. Deve fare ancora solo un po’ attenzione alle
braccia. […] La cosa migliore è stringerle davanti al pube” Detto fatto: immerso che era
nell’azione di incedere dapprima con la punta del piede, Ui pare ricordarsi improvvisamente
dell’imbarazzo tremendo che gli causavano i due arti superiori aperti ad aquila, e si aggrappa al
suggerimento dell’attore come a una parola divina: fionda potentemente le braccia davanti al corpo
e raccoglie le mani sul pube; disgraziatamente, ne risulta (e l’attore Ekkehahrt Schall è abilissimo a
metterlo in evidenza) l’atteggiamento di chi, come nudo in mezzo alla folla, tenta di salvare quel
briciolo di pudore ancora non compromesso (Da questo momento in poi, per tutta la scena e anche
nella scena successiva in cui Ui terrà un comizio, foto 4 e 5, le mani gli torneranno spesso
meccanicamente e automaticamente sul pube, in movimenti sempre repentini e involontari: foto 3.)
Si procede fra numerosi lazzi comici, con altre due situazioni fondamentali: 1) Ui si fa illustrare la
postura giusta quando si sta in piedi di fronte alla gente e poi la prova concentratissimo e sempre
goffissimo davanti allo specchio, mentre discute di questioni di potere con Givola; 2) Ui si fa
ammaestrare sul parlato: Mahonney tira fuori allora dal suo quaderno un monologo. Quale
monologo? Naturalmente “SHAKESPEARE! Nient’altro! Cesare. L’antico eroe” Il nome del poeta
inglese è gridato fortissimo; è ancora una volta un colpo per Ui e Givola: i loro corpi sobbalzano,
ma si apprestano ad assistere alla recita. Mahonney si accinge alla declamazione del discorso di
Antonio ai cittadini romani: “Che pensa del discorso di Antonio? Sul feretro di Cesare, contro
Bruto. Capo degli assassini”. Uno sparo, da lontano, interrompe la frase, poi Mahonney riprende. Si
piazza nella posa giusta, di tre quarti, fiero si controlla il corpo, si raccoglie sul libricino, attimi di
intima concentrazione, grande contegno, e poi, rivolto al pubblico, “(solenne) Concittadini! (pausa,
poi commosso) Romani! (pausa, poi urlatissimo, inaspettato) AMICI!” Stavolta, per Givola, è
troppo: rischia l’infarto, quindi indignato esce via, non privandosi di lanciare un’occhiata assassina
all’attore, il quale dal canto suo casca dalle nuvole, sorpreso dall’interruzione irrispettosa.
Foto 3
Durante la declamazione, Mahonney viene osservato da Ui, che ne imita le pose e la voce. Un gesto
in particolare, quello del braccio destro, salta agli occhi quando Ui lo ripete: sul corpo dell’attore
esso era un’apertura dello spazio, come a introdurre e trasmettere meglio le parole, un gesto assai
ampolloso e tipico degli oratori, braccio teso in avanti, mano più alta della testa, palmo rivolto verso
l’interno e verso il basso. Nel ripeterlo, Ui lo trasforma in un altro gesto, che il pubblico conosce
bene: braccio molto più teso e brusco nello scatto, mano estremamente rigida, palmo tutto rivolto in
basso. È il saluto nazista; nato dunque così, a lezione di recitazione, per un fraintendimento
grossolano?...
La declamazione di Ui scivola gradatamente dal ridicolo al serio, poiché viene sempre più in
evidenza il contenuto del testo declamato. Lo spettacolo crea un corto circuito: si parla del
tradimento di Cesare da parte del figlio Bruto, ma la caricatura di Hitler è lì vicino, intenta ad
imitare i gesti e la voce del suo ‘maestro’ e, per suo tramite, a dire ai cittadini (ma rivolto al
pubblico del teatro) le parole di Antonio, un congiurato dedito alla conquista del potere a tutti i
costi. I lazzi fisici all’inizio prevalgono: ad esempio, Ui urla tantissimo e Mahonney discreto gli fa
segno di non esagerare, puntandosi l’indice al naso e stringendosi nelle spalle. Ui non capisce
affatto e nell’abbassare la voce si stringe pure lui nelle spalle e si punta il dito al naso, proseguendo
così nella lettura. L’attore gli suggerisce le intonazioni delle frasi che tanto sa a memoria, e Ui le
riproduce senza capire nulla di ciò che dice, e sempre estremizzandole. A un certo punto Mahonney
recita per lui una parte commovente e si commuove; al che Ui va premurosamente a controllare che
stia bene: lo abbraccia e gli divarica l’occhio con le dita, esaltandosi quando scopre una lacrima
vera. Corre verso il pubblico ostentando il dito umido, raggiante come un bambino che si reca dalla
madre per aver trovato finalmente la conchiglia sulla spiaggia. Ui torna quindi davanti allo
specchio, cerca di piangere (ne risulta una mimica estremamente ridicola), finché si ferma, si fissa
nello specchio, forse è riuscito a versare una lacrima vera, quindi gioisce come uno scemo. In tutto
ciò prosegue il testo: se in un primo momento Ui balbetta, si inceppa, non sa leggere, man mano
prende confidenza con la declamazione e quindi conquista un certo ritmo. Assecondato da
Mahonney, che va quasi in trance quando legge o ascolta Shakespeare, Ui si avvia alla conclusione
del monologo; i volumi, i toni, gli entusiasmi crescono, ormai il libretto non gli serve più, come per
magia conosce il resto del testo, è una corsa del recitato, un montare della passione, un’orgia
collettiva. Il testo passa finalmente indisturbato e, quando si spengono le luci, gli applausi (nella
videoregistrazione) scalzano del tutto le risate.
Commento: La dissacrazione estraniante agisce innanzitutto su Hitler, che viene mostrato come un
bambino, uno scemo, uno sgraziato, un clown ecc. A monte dei singoli lazzi comici, comunque,
estraniante rispetto all’immagine diffusa di Hitler (ieri come oggi), quella di un leader carismatico e
dalla forza epocale, nel bene e nel male, è l’atto stesso di esporlo nel momento dell’ apprendimento.
Il carattere sacro dell’aura di cui quell’immagine si caratterizza dipende proprio da una sua semidivinità, dall’esibirsi sempre vincente, pieno di sé, convinto delle proprie idee, coerente con le
proprie posizioni, senza bisogno di andare a scuola. Lo spettacolo (e il dramma) esibiscono di Hitler
il lato umano, imperfetto: la sua necessità, come tutti, di imparare. Ora, come nella vita di tutti,
imparare vuol dire talvolta sbagliare e divenire ridicoli. È su questa umanità che Brecht e i registi
fanno leva per indurre il riso nel lettore-spettatore: è un’umanità restituita, poiché Hitler,
all’immaginario collettivo e a se stesso, questa umanità l’aveva sottratta. E se nei confronti
dell’immaginario questa restituzione estraniante è generosa, nei confronti di Hitler è assai
ingenerosa, poiché si sa che in politica (ieri come oggi) nessuno ama mostrare i propri difetti.
Si noti, fra l’altro, che questo estraniamento consiste nel mostrare il dietro le quinte, non solo della
politica ma dello stesso teatro (d’altra parte, la politica stessa è un teatro, per Brecht). 4 Infatti, la
strategia del dramma prima e dello spettacolo poi è metateatrale: si mostra il teatro nel teatro. Più
precisamente, si mostra la preparazione (teatrale in senso stretto: le prove) al teatro che si farà di
fronte alla gente (la teatralità politica, in senso allargato). La finezza di questo spettacolo consiste
nel figurare i livelli sovrappondendoli: si prendono due piccioni con una fava, si ridicolizzano in un
colpo il teatro e la politica, mostrandone i retroscena.
Da questo punto di vista è assai significativo che l’attore prescelto (il personaggio-attore) sia uno di
stile classico, proprio quello stile che secondo Brecht andava bollato come formalista5. Infatti, per
Mahonney “l’arte non conosce alcun calendario”, è fuori dalla storia. È una posizione
antibrechtiana ed antidialettica, come si vede, ed il maestro di Hitler è schierato su questa posizione.
Foto 4
Dunque abbiamo, nello stesso tempo,
i) la satira (e la caricatura) del personaggio Hitler. L’interprete spinge all’estremo le difficoltà
umane del personaggio che apprende, e le rende disumane: solo un imbranato assoluto si muove
così. Si vedono il personaggio e la sua difficoltà motorie, ma è evidente che quella goffagine
dipende dall’attore, il quale la predispone ad arte per far ridere; e in effetti, da quanto risulta nelle
4
5
Cfr. La teatralità fascista, in Brecht (1975b). Analogamente in Chaplin (cfr. Di Tommaso, 2009).
Sul resalismo in trad. it. di Brecht (1967a).
videoregistrazioni, le risate abbondano di fronte all’implacabile e continuo stridore di piani
(attore/personaggio; personaggio/immagine consueta di Hitler ecc.). Il comico, dunque, come
fenomeno dialettico (Brecht). E il comico non ci impedisce nemmeno, in certi momenti, di
partecipare alle difficoltà esibite, così da produrre effetti umoristici (Pirandello). Da notare, inoltre,
che la grande comicità del corpo di Ui dipende da una estrema meccanizzazione dei movimenti
(Bergson), solo che questa meccanizzazione non è comica di per sé, bensì è comica perché esprime
(portandola all’estremo) la rigidità della mimica ampollosa di Hitler. Il riso che ne scaturisce non è
un gesto sociale alla Bergson: non si limita a rimettere in moto, acriticamente e con indifferenza, la
vita degli spettatori di fronte alla scattosità disumana del corpo di Ui; è invece un Gestus sociale
alla Brecht: si ride mentre si comprende che quel quasi-robot è l’individuo (dis)umano che ha fatto
strage tra i popoli ed è stato sul punto di comandare il mondo. In questo senso, l’estraniamento del
gesto del saluto nazista, che avviene mediate l’esibizione della sua falsa origine (l’arte classica) e
mediante l’acquisizione inconsapevole del suo massimo esecutore, gioca un ruolo fondamentale.
ii) la parodia del teatro classico formalistico (si consideri infatti che il testo del dramma è in gran
parte scritto in versi, alla maniera shakespeariana). Mediante questo procedimento viene estraniato
il cliché che Shakespeare e l’arte siano eterni. Lo stile elevato, raccomandato da Brecht nelle sue
note al dramma, viene incarnato dall’attore classico, il quale, ogni volta che nomina il suo poeta e
parla della sua arte, perde il controllo, esplode in improvvise ed esagerate impennate vocali,
provocando meraviglia e incredulità nei due gangster. L’arte che difende Mahonney è eterna, fuori
dalla storia, naturale. Tuttavia l’attore presenta il personaggio come estremamente innaturale e, alla
sua scuola, lo stesso Ui diviene innaturale (unnatürlich), meccanico, disorganico (che è un altro
motivo del riso scrosciante) nei gesti e nella voce (producendo con ciò, parallelamente, la parodia
della teatralità fascista). È esattamente la caratteristica principale con la quale Brecht definisce la
Verfremdung: la non naturalità. La cosa bella, e di grande finezza drammaturgica, è che questa
rivendicazione di non-naturalezza è fatta dallo stesso Ui-Hitler (“Chi è naturale oggi? Nessun uomo
è oggi naturale. Quando io cammino, voglio che si noti che IO cammino”) mentre, per Brecht,
Hitler aveva nei suoi comizi l’obiettivo principale di far dimenticare al pubblico di aver preparato il
discorso, di inculcargli la convinzione che le cose non potevano stare altrimenti da come lui le
diceva, che tutto quello era estremamente naturale6. Allo stesso modo dell’attore shakespeariano,
Hitler-Ui viene rovesciato dialetticamente in un’eccessiva innaturalezza, da lui stesso ricercata.
iii) l’ironia, consistente nel far pronunciare a Ui-Hitler quelle stesse parole che l’Hitler storico non
avrebbe mai condiviso (sempre secondo Brecht). Tale ironia è un grande, anche se fine, effetto-V,
volto a rovesciare qualcosa, o meglio, ad attualizzare (sulla scena e, a monte, sulla pagina) questo
qualcosa, mentre nello sesso tempo si allude al suo contrario. Come Socrate finge di assumere un
punto di vista per rovesciarlo e mostrarne l’assurdità, così questo spettacolo presenta dei
personaggi, delle situazioni e degli atteggiamenti per metterne radicalmente in dubbio (e poi
rovesciarne) la convinzione. Un procedimento dialettico, poiché non è possibile, per il lettore
attento di Brecht, ascoltare Hitler pronunciare quelle parole senza pensare al fatto che il suo
rappresentato (l’Hitler storico) non le avrebbe mai dette (l’azione compiuta allude all’azione non
compiuta, il detto allude al non detto, il visto al non visto; è il metodo, in termini brechtiani, del
“nicht – sondern”, “non – bensì”).
6
Cfr. ancora La teatralità fascista, cit.
Ulteriore ironia, e fortissima, è quella che provoca il corto circuito dell’ultima fase della scena: si fa
leggere a Hitler, cioè a un dittatore dipinto come negativo per i valori umani (lealtà, umanità, pace),
parole di un monologo che tratta di un tradimento, anzi di uno dei tradimenti più famosi e
importanti della storia. Dunque si stabilisce un nesso dialettico fra il passato e il presente; tanto più
che l’anello di congiunzione è il recitativo di Hitler stesso: dunque il passato è contenuto, riversato
nel presente. Ma quale presente? È un presente dipinto come totalmente inconsapevole: Hitler non
capisce nulla di ciò che dice, né tanto meno riesce a notare un’ affinità dell’argomento con le sue
vicende. D’altra parte, Mahonney, che è l’altro veicolo verbale delle vicende antiche, si commuove
non per il parallelismo terribile di quelle vicende con le attuali (altrimenti non si commuoverebbe
affatto…), ma solo perché quella è la sua arte, fuori del tempo e dalla storia. Con ciò, ancora una
volta, l’atteggiamento dell’artista shakespeariano viene estraniato (denunciato) come altrettanto
negativo (per i valori dell’umanità e della pace) che Hitler stesso. Durante la lezione, infatti, si
susseguono degli spari, annunci di morte e di soprusi. Emblematica, tra l’altro, è la puntualità
ritmica con cui essi vengono fatti esplodere: spesso e volentieri (come abbiamo indicato nella
descrizione) interrompono la dizione o la presentazione di un brano artistico, forzando
quell’accostamento tremendamente stridente fra la storia che si consuma di fuori e l’arte classica,
che si vuole astorica: come a dire “Mahonney, tu ti vanti di un’arte astorica, ma fuori da questa
stanza il mondo viene fatto a pezzi, storicamente; e autore di questi disastri storici è proprio colui al
quale tu insegni le tue tecniche eterne!” Ma Mahonney è sordo agli spari, non li sente o non vuole
sentirli… Al contrario dei due personaggi, invece, il pubblico sente, e capisce bene: capisce proprio
grazie al loro non capire. Perciò, alla fine della scena (come risulta dalle videoregistrazioni) le risate
fanno luogo agli applausi: sono applausi non solo divertiti, ma sconcertati.
Foto 5
iv) il Grottesco: su tutti, spicca per efficacia esilarante il gesto di Ui a coprirsi il pube. Un gesto
pudico, ma compiuto da chi non era mai stato immaginato in imbarazzo intimo. Chi ha mai
immaginato, ad esempio, Hitler a letto, tentare un amplesso e poi fallirlo? La strategia adottata qui è
analoga, anche se più discreta. Si mette in evidenza il basso corporeo (Bachtin), e si fa decadere
così l’immagine alta di un eroe (negativo o positivo: non importa) della storia (tra l’altro, questa
caduta si verifica concretamente sulla scena: Ui è letteralmente messo al tappeto, e più volte, dal
suo interprete). Da questo punto di vista è assai significativa, da parte dell’attore Schall, la
reiterazione impietosa del gesto anche nella scena successiva (VIII) dove Hitler tiene un comizio al
microfono.
Il gesto fa attrito col tono solenne ed aggressivo della voce, trasporta l’attenzione dal
tremendamente disumano del dittatore disincarnato al tremendamente umano del pudico
reincarnato. Un uomo che non fa ridere – diremmo parafrasando Brecht – è un uomo di cui si deve
ridere.
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