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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi
e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore
o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti,
luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale
Titolo originale: The Forbidden Game Volume II: The Chase
Copyright © 1994 by Lisa J. Smith
Traduzione dall’inglese di Milvia Faccia
Prima edizione: ottobre 2010
© 2010 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-2220-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Stampato nell’ottobre 2010 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
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Lisa Jane Smith
IL GIOCO PROIBITO
L’INSEGUIMENTO
romanzo
Newton Compton editori
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A Joanne Finucan, vera eroina
e mia ispiratrice da sempre
«Se la povertà è la madre dei delitti,
lo scarso ingegno ne è il padre».
JEAN DE LA BRUYÈRE (1688)
«Prendilo e basta, Dan, quel bastardo di cieco
non sta nemmeno guardando da questa parte».
BRIAN McCANN (1987)
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Capitolo 1
N
on era tanto la caccia. Era uccidere.
Ecco perché Gordie Wilson si trovava sulle colline di
Santa Ana in quell’assolato mattino di maggio, dopo
aver marinato la scuola, senza sapere se l’avrebbe fatta
franca falsificando un’altra volta la firma di sua madre
sul libretto delle giustificazioni. Non era lì per i prati
coperti di fiori di campo, i lupini azzurro cielo o l’odorosa salvia purpurea. Era per il tonfo sordo del piombo
nella carne.
La preda.
Gordie preferiva la selvaggina grossa, ma i conigli
erano sempre disponibili, se sapevi eludere le guardie
forestali. Finora non l’avevano mai colto sul fatto.
Gli era sempre piaciuto uccidere. A sette anni ammazzava pettirossi e storni con il suo fucile ad aria compressa. A nove, scoiattoli con una doppietta. A dodici,
suo padre lo aveva portato con sé in una vera battuta di
caccia al cervo con un vecchio Winchester calibro .243.
Quella era stata un’occasione speciale. Ma del resto,
erano tutte speciali. Come diceva suo padre: «Le buone cacce non finiscono mai». Ogni notte, a letto, Gor-
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die ripensava alle migliori, rammentando l’appostamento, lo sparo, l’eccitante momento della morte. Cacciava perfino in sogno.
Per un attimo, mentre avanzava lungo il greto asciutto del torrente, un ricordo affiorò nella sua mente come una piccola lingua di fuoco. Un incubo. Solo una
volta aveva sognato di trovarsi dalla parte sbagliata
del mirino, di essere la preda inseguita dai cani. Un inseguimento terminato solo quando si era svegliato madido di sudore.
Stupido sogno. Lui era un cacciatore, non un coniglio. Era in cima alla catena alimentare. L’anno prima
aveva abbattuto un alce.
Per selvaggina del genere valeva la pena osservare,
studiare, fare piani. Ma non per i conigli. Gli piaceva
inerpicarsi lassù, semplicemente, e stanarli.
Era un buon posto, quello. Un pendio coperto di salvia che saliva verso un gruppo di querce e sicomori,
con un folto sottobosco dove nascondersi. Doveva essercene uno, là in mezzo.
Poi lo vide. Un piccolo coniglio coda di cotone, solitario, che si crogiolava al sole accanto a un ciuffo d’erba. L’animale si accorse della sua presenza, ma rimase
immobile. Paralizzato. Perfetto, pensò Gordie. Sapeva come arrivare di soppiatto addosso a un coniglio, fino a poterlo praticamente afferrare con le mani.
Il trucco consisteva nel fargli credere di non averlo
notato. Bastava guardarlo con la coda dell’occhio, camminando a zigzag mentre ti avvicinavi sempre più...
Finché teneva le orecchie abbassate, invece che dritte
e all’erta, eri a posto.
Gordie girò cautamente intorno a un cespuglio, os-
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servandolo di nascosto. Ormai era così vicino che poteva distinguerne i baffi. Avvertì una calda sensazione
di pura felicità. Sarebbe rimasto fermo, si sarebbe lasciato catturare.
Dio, quella era la parte migliore, la più eccitante.
Trattenendo il respiro, alzò il fucile e prese la mira,
pronto a premere il grilletto.
Vi fu un movimento improvviso, una visione confusa
di grigio e marrone e il guizzo di una coda bianca. Stava scappando!
Gordie sparò, ma il proiettile si conficcò a terra sollevando una nuvoletta di polvere dietro il coniglio, che
raggiunse saltellando il greto del torrente e scomparve
tra le tife.
Maledizione! Avrebbe dovuto portare un cane. Come
il beagle di suo padre, Aggie. I cani impazzivano per
quelle cose. Gli piaceva osservarli mentre inseguivano
la preda, rincorrendola in cerchi sempre più stretti. Era
un peccato che una buona caccia finisse sempre troppo
presto. A volte, se un coniglio si era dimostrato un osso
duro, suo padre lo lasciava andare, ma questo era assurdo. Che gusto c’era a cacciare senza uccidere?
C’erano momenti in cui Gordie si poneva delle domande su se stesso.
Sentiva vagamente che la sua idea di caccia era diversa da quella di suo padre. Quando era solo, faceva
cose che non raccontava mai a nessuno. A cinque anni,
versava alcool denaturato sui dermatteri, poi rimaneva
a guardarli contorcersi finché morivano. E ora, quando vedeva un opossum o un gatto sulla strada, sterzava
per investirli.
Uccidere era così piacevole. In qualunque modo.
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Questo era il piccolo segreto di Gordie Wilson.
Il coniglio era sparito. Lo aveva spaventato. Oppure...
Forse qualcos’altro lo aveva fatto fuggire.
Una strana sensazione si stava impadronendo di lui.
Si era sviluppata così lentamente che non sapeva nemmeno quando fosse cominciata e non somigliava a nulla che avesse mai provato prima, almeno da sveglio.
Una... sensazione da coniglio. Quella che forse un coniglio prova quando s’immobilizza, con gli occhi del cacciatore su di sé. O uno scoiattolo, quando vede qualcosa di grosso che si avvicina strisciando lentamente.
La... sensazione di essere osservato.
Gli venne la pelle d’oca.
Qualcuno lo stava guardando. Lo sentiva con quella
parte del cervello che non è cambiata in cento milioni
di anni. La parte del rettile.
Si voltò guardingo, mentre un brivido gli correva lungo la spina dorsale.
Poco più in basso crescevano tre vecchi sicomori abbastanza vicini da gettare un’ombra sul terreno. Ma l’oscurità sotto di essi era troppo fitta per essere soltanto
un’ombra. Sembrava piuttosto una sorta di vapore nero.
C’era qualcosa, sotto quegli alberi. Il coniglio se n’era
accorto.
E adesso, la cosa stava osservando lui.
Il vapore nero parve agitarsi. Denti bianchi lampeggiarono nelle tenebre, scintillanti come sole sull’acqua.
Gordie li fissò con gli occhi fuori delle orbite.
Che diavolo... che cosa era?
Il vapore si agitò di nuovo, e allora vide.
Solo che... non poteva essere. Non poteva essere davvero quello che pensava di vedere, perché... non poteva
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esistere. Perché non c’era nulla di simile al mondo,
quindi semplicemente non poteva...
Era diverso da qualunque cosa avesse mai immaginato. E quando si mosse, lo fece rapidamente. Mentre
gli si avventava contro, Gordie sparò un colpo, poi si
girò e cominciò a correre.
Fuggì seguendo la stessa direzione presa dal coniglio,
scivolando giù per il pendio, strappandosi i jeans e ferendosi le mani sui cactus. La cosa era pochi passi dietro di lui. Ne udiva il respiro. Inciampò in una pietra e
cadde scompostamente a terra.
Rotolò su un fianco e gli apparve in piena luce. Rimase a bocca aperta. Tentò di allontanarsi strisciando
sulla schiena, ma il terrore gli paralizzava i muscoli.
La creatura si avvicinò senza fretta.
Gordie emise un debole gemito, quasi un singhiozzo. Il suo ultimo, disperato pensiero fu: Non me... non
me... io non sono un coniglio... non meee...
Il cuore gli si fermò prima ancora che le zanne affondassero nella sua carne.
Jenny si stava pettinando energicamente i capelli, con
tanta foga che l’elettricità statica causata dalle setole di
plastica li sollevava verso l’alto, in quel luminoso pomeriggio di maggio. Osservò distrattamente l’immagine riflessa nello specchio: una ragazza dagli occhi verdi, scuri come aghi di pino, e sopracciglia nette come
due pennellate ben decise. I capelli che si sollevavano
verso la spazzola erano dello stesso colore del miele.
«Non sono stati loro».
Jenny smise bruscamente di pettinarsi. Una ragazza
era comparsa alle sue spalle.
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Aveva capelli scuri e occhi neri arrossati dal pianto.
Era agitata, come se si tenesse pronta a fuggire dal bagno in qualsiasi momento.
«Prego?»
«Ho detto che non sono stati loro. Lumacone e P.C.
Non hanno ucciso la tua amica Summer».
Oh. Jenny si ritrovò a stringere con forza la spazzola,
incapace perfino di girare la testa. Poteva vedere solo
gli occhi della ragazza nello specchio. Poi capì. «Non
ho mai detto che sono stati loro», mormorò in tono
cauto. «Ho solo dichiarato alla polizia che quella notte
erano in giro. E che hanno rubato qualcosa dal mio
soggiorno. Una casa di carta. Un gioco».
«Ti odio».
Turbata, Jenny si voltò.
«Siete stati voi a ucciderla, tu e i tuoi amici perbenino.
E prima o poi verranno a saperlo tutti. Pagherete per
tutto quello che avete fatto, e non vi piacerà». La ragazza stava tormentando un kleenex tra le dita abbronzate, riducendolo in pezzi. I lunghi capelli erano completamente lisci, solo leggermente ondulati alle estremità, e gli occhi malinconici. Non frequentava la Vista
Grande High School; non l’aveva mai vista prima.
Jenny posò la spazzola e le si avvicinò, affrontandola
direttamente. L’altra sembrò colta di sorpresa.
«Perché piangevi?», le chiese gentilmente.
«Che t’importa? Tu sei una snob. Indossi i tuoi eleganti vestitini a scuola e te la fai con i tuoi amici ricchi...».
«Chi è ricco? Che c’entrano i miei vestiti?». Aggrottò
la fronte, fissando i jeans della ragazza, firmati e leggermente consumati come imponeva la moda.
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La ragazza ripeté imbronciata: «Sei una snob...».
Jenny l’afferrò.
«Non sono una snob», replicò con forza. «Sono un essere umano. Come te. Allora, qual è il tuo problema?».
La ragazza non rispose subito. Si dibatté, e Jenny
sentì muoversi le ossa minute delle spalle. Alla fine,
quasi sputandole le parole in faccia, disse: «P.C. era
mio amico. Non le ha mai fatto nulla. Siete stati tu e gli
altri, le avete fatto qualcosa di talmente orribile che
avete dovuto nascondere il corpo e raccontare tutte
quelle bugie. Ma aspetta e vedrai. Posso dimostrare
che P.C. non le ha fatto del male. Posso provarlo».
Nonostante la giornata calda, Jenny sentì un brivido.
Avvertì un formicolio alle dita.
«Che vuoi dire?».
La ragazza si ritrasse spaventata. L’espressione sul
volto di Jenny doveva essere terribile. «Niente».
«No, parla. Come puoi dimostrarlo? Hai...».
«Lasciami andare!».
Mi sto comportando in modo orribile, pensò Jenny.
Non lo faccio mai. Ma non riusciva a controllarsi. Brividi freddi le percorrevano il corpo, e avrebbe voluto
scuotere la sconosciuta per cavarle le parole di bocca.
«Lo hai visto, sai qualcosa?», le chiese. «È tornato a
casa da solo, il mattino dopo? Hai visto che cosa ha
fatto con la bambola di ca...».
Avvertì un dolore acuto allo stinco. La ragazza le aveva sferrato un calcio, liberandosi. Le corse dietro zoppicando, mentre l’altra si precipitava verso l’uscita del
bagno.
«Aspetta! Non capisci...».
La ragazza spalancò la porta e sfrecciò fuori. Quan-
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do Jenny si affacciò sul corridoio, era sparita. Rimanevano solo alcuni brandelli di kleenex sul pavimento.
Jenny si trascinò fino allo spogliatoio più vicino e
guardò dentro. C’erano solo studenti e armadietti. Allora arrancò fino alla ringhiera del corridoio che portava al cortile principale. Nulla. Soltanto ragazzi con i
loro pranzi al sacco.
Giovane. La ragazza era giovane, forse frequentava
l’ultimo anno alla Magnolia Junior High, a poca distanza da lì.
Dovunque fosse, doveva trovarla. Chiunque fosse,
aveva visto qualcosa. Poteva sapere...
Ho lasciato la borsetta nel bagno, pensò. Andò a
prenderla e tornò lentamente sui suoi passi.
Il telefono a gettoni nel corridoio stava squillando. Si
guardò intorno: due insegnanti stavano chiudendo a
chiave un’aula, mentre gli studenti si riversavano giù
per le scale alle due estremità dell’edificio. Nessuno
sembrava attendere una chiamata, nessuno faceva caso
agli squilli.
Sollevò il ricevitore. «Pronto», disse, sentendosi una
sciocca.
Udì un sibilo elettronico, rumori disturbati, poi uno
scatto. Tra le scariche elettrostatiche le parve di sentire
una voce maschile appena percettibile. Era distorta,
strascicata, e c’era qualcosa di strano nel modo in cui
pronunciava le sillabe. Ebbe l’impressione che ripetesse
continuamente la stessa parola.
Iniziava sicuramente con una a. Poi, una specie di sospiro prolungato: ish. A... ish...
Incomprensibile.
«Pronto?»
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Shhshhshhshhshhshhshh. Clic. In sottofondo sentì
qualcosa che poteva essere una breve frase pronunciata
con un curioso accento in una lingua sconosciuta. Ma
aveva un tono strano. Doveva essere una lingua molto
particolare.
Linea disturbata, pensò. Riappese.
I mignoli avevano ripreso a formicolare. Ma ora non
aveva tempo di scoprirne la causa. Doveva rintracciare
quella ragazza.
Sarà meglio che parli con gli altri, si disse.
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Capitolo 2
P
er prima cosa andò a dare un’occhiata nell’aula
di diritto commerciale di Tom, ma lui non c’era. Allora
scese al pianterreno e cominciò ad aggirarsi per il campus dove gli studenti si disputavano le panchine migliori, tra il fruscio dei sacchetti di carta e l’odore del cibo.
Nelle ultime due settimane, i membri del gruppo non
avevano mangiato insieme per non suscitare chiacchiere. Ma quel giorno non avevano scelta.
La prossima è Audrey, pensò Jenny. Oltrepassò l’anfiteatro con i suoi malridotti sedili di legno e guardò in
una delle stanze del dipartimento di economia domestica, dove la trovò intenta a dare l’esame di arredamento di interni. Naturalmente, lo superò senza il minimo problema.
Jenny rimase sulla soglia finché l’amica, che stava attardandosi con l’insegnante, alzò gli occhi e la vide. Audrey chiuse la cartella, la mise nello zaino e le si avvicinò.
«Che c’è?»
«Dobbiamo riunire tutti. Hai pranzato?»
«Sì». Audrey non le chiese il motivo della riunione: si
limitò a scostare dalla fronte i capelli color rame con un
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gesto esperto del capo e richiuse le labbra rosse come ciliegie.
Attraversarono il campus, dirigendosi verso la palestra femminile. Il sole splendeva sulla testa di Jenny,
facendole colare il sudore sulla nuca. Troppo caldo per
essere maggio, perfino in California. Ma allora, perché sentiva tanto freddo dentro?
Si affacciarono alla porta dello spogliatoio. Dee non
si era ancora vestita. Reggeva un asciugamano e ridacchiava con un paio di ragazze della squadra di nuoto.
A quanto pareva, non si rendeva neppure conto di essere nuda, splendida, flessuosa e agile come una pantera nera. Quando notò Jenny e Audrey che le lanciavano sguardi significativi, inarcò un sopracciglio e annuì. Un minuto più tardi, le raggiunse infilandosi una
T-shirt granata.
Trovarono Zach nel dipartimento di arte, solo davanti al laboratorio fotografico. Non era una novità:
era quasi sempre solo. Ciò che sorprese Jenny fu che
non fosse dentro il laboratorio, immerso nel lavoro. Il
suo viso magro ed espressivo era sempre pallido, ma in
quei giorni sembrava addirittura di gesso, e nelle ultime settimane aveva preso l’abitudine di indossare completi e magliette di cotone nero. È cambiato, pensò
Jenny. Be’, non c’era da meravigliarsi. Con quello che
era successo, chiunque sarebbe cambiato.
Quando la vide accennare in direzione del parcheggio dei docenti, il loro solito posto, fece un breve gesto
d’assenso. Si sarebbero incontrati lì.
Trovarono Michael vicino al dipartimento di inglese,
intento a raccogliere alcuni fogli e libri sparsi sul pavimento.
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«Deficienti, porci, bestioni, uomini di Neanderthal»,
borbottava.
«Chi è stato?», gli chiese Jenny, mentre Audrey esaminava le contusioni.
«Carl Vortman e Steve Matsushima». Aveva il viso
tondo arrossato e i capelli neri più spettinati del solito.
«Mi potrebbe consolare un bacio qui». Strizzò l’occhio ad Audrey, indicando l’angolo della bocca.
Dee sferrò una doppietta pugno-calcio in aria, come
se danzasse. «Mi occuperò io di loro», esclamò con il
suo sorriso più feroce.
«Andiamo, dobbiamo parlare», disse Jenny. «Qualcuno ha visto Tom?»
«Credo che non sia venuto, stamattina», rispose Audrey. «Non c’era né a storia né a inglese».
Fantastico, pensò Jenny, mentre Michael prendeva il
suo pranzo. Zachary sembrava un cadavere vestito di
nero, Michael si faceva pestare e Tom, il superstudente,
spariva per intere mattinate, proprio quando aveva più
bisogno di lui.
Si sedettero vicino al parcheggio su quella che alla Vista Grande High era nota come la collina erbosa. Zach
posò il sacchetto di carta, poi si lasciò cadere a terra incrociando le lunghe gambe magre in un unico, agile
movimento.
«Che succede?», domandò Dee.
Jenny inspirò a fondo.
«C’è una ragazza», spiegò, facendo del proprio meglio per descrivere la Fanciulla Che Piangeva. «Dev’essere una dell’ultimo anno della Magnolia Junior High», aggiunse. «Qualcuno di voi la conosce?».
Tutti scossero la testa.
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«Perché ha detto che noi abbiamo ucciso Summer e
nascosto il suo corpo, ed è sicura dell’innocenza di P.C.
Sembrava realmente convinta, e non solo perché si fida
di lui o cose del genere».
Dee socchiuse gli occhi scuri. «Tu pensi...».
«Penso che forse l’ha visto quel mattino. E questo significa...».
«Magari sa dov’è la casa di carta», intervenne Michael con espressione più impaurita che eccitata.
«Se è così, dobbiamo trovarla».
Lui gemette.
Jenny non poteva biasimarlo. La situazione era orribile sotto ogni aspetto. Il modo in cui la gente li guardava, le domande inespresse... e il pericolo. Il pericolo
che nessuno conosceva, tranne loro.
In gran parte era colpa sua. Aveva avuto lei la brillante idea. Raccontiamo la verità alla polizia...
C’erano due agenti, due donne. Una era hawaiana o
polinesiana e sembrava una modella. L’altra era un tipo
tarchiato dall’aria materna. Entrambe avevano esaminato i frammenti intorno alla porta scorrevole a vetri.
«Ma questo non ha nulla a che fare con Summer»,
aveva detto Jenny, e poi lei, Tom, Michael e Audrey avevano spiegato tutto daccapo.
No, non era stato un UFO. Be’, qualcosa di simile; Julien era alieno, d’accordo, ma non era stato lui a rompere la porta. Era uscito da un gioco, o almeno li aveva
risucchiati dentro un gioco. O almeno...
Benissimo, di nuovo dal principio.
Jenny aveva comprato il gioco in un negozio in Montevideo Avenue. Ok? Poi l’aveva portato a casa, dove
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lo avevano aperto. Sì, c’erano tutti e sei, più Summer.
Stavano festeggiando il diciassettesimo compleanno di
Tom.
Dentro avevano trovato quella casa di cartone. Quel
modellino. Avevano messo insieme i pezzi, ottenendo
un edificio vittoriano di due piani con una torretta. Azzurro.
Poi ci avevano messo dentro le bambole di carta, dopo averle colorate per renderle somiglianti a loro. Sì,
certo, erano un po’ grandicelli per certe cose, ma quella non era solo una casa per le bambole. Era un gioco.
E consisteva nel disegnare su un cartoncino il proprio incubo peggiore e metterlo in una stanza, dopo di
che, cominciando dal basso, bisognava arrivare in cima superando gli incubi degli altri.
Sembrava divertente, solo che era divenuto reale.
Sì, reale. Reale. È tanto difficile capire cosa significa
la parola reale? Reale!
Avevano avuto tutti una sorta di svenimento, e al risveglio si erano trovati in quella casa. Non era più di
cartone, ma solida, come una casa vera. Poi era comparso Julian.
Chi era Julian? Che cosa era, ecco la domanda giusta.
Si poteva pensare a lui come a una specie di principe
dei demoni, senza allontanarsi troppo dalla verità. Lui
si definiva l’Uomo Ombra.
L’Uomo Ombra. Come l’Uomo Nero, solo che lui
rendeva veri gli incubi.
Il punto era che Julian aveva ucciso Summer. Le aveva mostrato il suo incubo peggiore, che era una camera
sporca e in disordine. Mucchi di rifiuti e scarafaggi
enormi. Sì, sembrava buffo, ma non lo era...
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No, nessuno di loro aveva letto Kafka.
Non era buffo perché aveva ucciso Summer. Era stata
sepolta in una discarica infernale, sotto cumuli di immondizia e roba in decomposizione. L’avevano udita
urlare e urlare, finché le urla erano cessate.
Il corpo? Per amor di Dio, dove altro poteva essere?
Era là, tra la spazzatura, nella casa di carta. Nel Mondo delle Ombre.
No! La porta scorrevole non c’entrava nulla. Il vetro
si era rotto dopo che erano fuggiti dal Mondo delle
Ombre. Jenny aveva ingannato Julian, chiudendolo
dietro una porta con sopra incisa una runa di contenimento. Quando erano tornati nel mondo reale, avevano rimesso la casa di carta nella scatola e chiamato la
polizia. Sì, la telefonata fatta quel mattino alle 6:34.
Mentre erano al telefono, avevano sentito il vetro andare in frantumi e avevano visto due tizi che scavalcavano la staccionata sul retro, portandosi via la scatola.
Chi mai poteva volerla? Be’, quei due avevano seguito
Jenny quando era uscita dal negozio. E solo a vederlo il
Gioco ti faceva uno strano effetto. Bastava guardare
quella scatola bianca e lucida per desiderarla. Probabilmente l’avevano seguita fino a casa solo per rubarla.
NO, SUMMER NON ERA SPARITA CON LORO! NON ERA
LÀ! IN QUEL MOMENTO ERA GIÀ MORTA!
Solo dopo aver raccontato la storia Jenny si era resa
conto di quanto sembrasse pazzesca. All’inizio la polizia non voleva credere che Summer fosse scomparsa
davvero, nonostante le ripetute richieste di Tom perché
venissero sottoposti alla macchina della verità.
Alla fine gli investigatori avevano cominciato a convincersi, dopo aver chiamato i genitori della ragazza e
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aver appreso che nessuno l’aveva più vista dalla sera
prima. Ma a quel punto Jenny e gli altri si trovavano
già in centrale, seduti davanti a un grande tavolo, con
le scrivanie dei detective tutte intorno a loro. Lei aveva
individuato tra le foto segnaletiche quelle dei due che
avevano rubato il gioco: P.C. Serrani e Scott Martell,
meglio noto come Lumacone, un nome che si era scelto
lui stesso. Entrambi avevano precedenti penali per taccheggio e furto d’auto. P.C. era quello con la bandana e
il giubbotto di pelle nera, Lumacone quello con la camicia di flanella e il colorito malsano.
Ed era venuto fuori che anche loro erano scomparsi.
La parte peggiore era stata quando i genitori di Summer erano andati al commissariato per chiedere a
Jenny dove fosse la figlia. Non capivano perché lei, che
conosceva Summer fin dalle elementari, si rifiutasse di
dire la verità. E tutti i ragazzi erano stati sottoposti a
uno screening farmacologico, perché il padre di Summer insisteva a dire che la loro storia ricordava esattamente delle cose che aveva visto negli anni Sessanta.
Come un trip molto, molto brutto.
La signora Parker-Pearson continuava a ripetere:
«Qualunque cosa Summer abbia fatto, non importa.
Dicci solo dov’è».
Una situazione orribile.
Era stata Aba a risolverla.
Si era presentata proprio nel momento di massima
confusione. Indossava un abito di un arancione acceso,
che sembrava più un accappatoio che una veste, e un
copricapo dello stesso colore, simile a un turbante. Era
la nonna di Dee, ma era nobile come una regina. Aveva
chiesto agli investigatori di lasciarla sola con i ragazzi.
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Poi Jenny, tremando da capo a piedi, aveva ripetuto
di nuovo ogni cosa. Dal principio.
Terminato il racconto, Aba li aveva fissati uno per
uno. Tom, il campione sportivo, con i capelli castano
scuro, di solito perfettamente pettinati, adesso arruffati. Audrey, l’elegantona, con il mascara sciolto dalle lacrime. Zach, il fotografo imperturbabile, con gli occhi
grigi vitrei per lo shock. Michael, spettinato, con la testa tra le mani. Dee, l’unica ancora seduta composta,
fiera, tesa e furiosa, i capelli scintillanti come mica a
causa del sudore.
E Jenny, che ricambiava il suo sguardo, con un muto
appello perché capisse.
Poi Aba aveva abbassato gli occhi sulle sue dita intrecciate: dita da scultrice, lunghe e belle nonostante i
nodi dell’età.
«Ti ho narrato molte storie», aveva detto a Jenny,
«ma ce n’è una famosa che non credo tu conosca. È una
storia hausa. I miei antenati erano “quelli che parlano
hausa”, sai, e mia madre me la raccontò quando ero
bambina».
Michael aveva sollevato lentamente la testa.
«C’era una volta un cacciatore che camminando nella
boscaglia trovò un teschio tra l’erba e gli domandò, anche se in realtà parlava tra sé e sé: “Ehi, come sei arrivato qui?”.
Con sua grande sorpresa, il teschio rispose: “Ci sono
arrivato parlando, amico mio”».
Tom si era proteso in avanti, ascoltando con attenzione. Audrey era sbalordita. Non conosceva Aba bene
come gli altri.
La donna aveva continuato. «In preda all’eccitazio-
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ne, il cacciatore tornò di corsa al villaggio e disse a tutti di aver incontrato un teschio parlante. Quando il capotribù lo venne a sapere, gli chiese di mostrargli quel
portento.
Così, il cacciatore condusse il capo sul posto. “Parla”, ordinò al teschio, ma questo rimase in silenzio. Il
capo si arrabbiò a tal punto per essere stato ingannato
che tagliò la testa al cacciatore e la lasciò a terra.
Quando se ne fu andato, il teschio domandò alla testa mozzata: “Ehi, come sei arrivata qui?”. E la testa
rispose: “Ci sono arrivata parlando, amico mio”».
Nel lungo silenzio che era seguito, Jenny aveva sentito
telefoni squillare in lontananza e voci fuori dell’ufficio.
«Vuol dire», aveva mormorato finalmente Michael,
«che abbiamo parlato troppo?»
«Voglio dire che non è necessario raccontare tutto a
tutti. Ci sono momenti in cui è meglio tacere. Inoltre,
non dovete insistere nell’affermare che la vostra versione dei fatti è l’unica possibile, nemmeno se ne siete
sinceramente convinti. Quel cacciatore non sarebbe
morto se avesse detto: “Credo che un teschio mi abbia
parlato, ma forse è stato un sogno”».
«Ma noi non abbiamo sognato», aveva obiettato
Jenny in tono sommesso.
Le parole di Aba avevano cambiato ogni cosa, rendendo tutto in qualche modo più facile.
«Ti credo», l’aveva rassicurata, posandole affettuosamente una mano nodosa sul braccio.
Quando gli investigatori erano tornati, si erano tutti
calmati. Avevano ammesso che pur essendo sicuri di
aver detto la verità, poteva essersi trattato di una specie
di sogno o allucinazione. Gli investigatori avevano ipo-
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tizzato che qualcosa fosse realmente accaduto a Summer, qualcosa di così spaventoso che i ragazzi semplicemente non riuscivano ad accettarlo, e quindi avevano inventato una storia fantastica per cercare di dimenticare ciò che avevano visto. Gli adolescenti sono
particolarmente inclini alle allucinazioni collettive,
aveva spiegato ad Aba un ispettore. Se avessero superato il test della macchina della verità, dimostrando di
non aver fatto nulla a Summer...
Lo avevano superato.
Poi la polizia li aveva lasciati andare, affidandoli ai
genitori, e Jenny era tornata a casa e aveva dormito
per sedici ore filate. Quando si era svegliata era domenica, e di Summer ancora nessuna traccia. E nemmeno
di Lumacone e P.C.
Ecco come era nato il Centro.
La nuova teoria era che Lumacone e P.C. avessero
ucciso Summer o che qualcun altro avesse fatto fuori
tutti e tre. Il centro commerciale aveva messo a disposizione uno spazio per un gruppo di ricerche, e centinaia di volontari avevano cominciato a controllare canali, fossi e cassonetti.
Non c’era nulla che Jenny potesse fare per fermarli.
Ogni giorno i volontari si impegnavano di più, e le ricerche si estendevano.
Si sentiva terribilmente in colpa. Finché non si era resa conto di una cosa.
Il corpo di Summer non si trovava in una discarica,
ma poteva esserci la casa di carta. Cercare lei non serviva a niente, ma forse sarebbe stato utile mettersi sulle
tracce di Lumacone e P.C.
«Perché», aveva fatto notare cupamente a Dee e al re-
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sto del gruppo, «quei due sono entrati nella casa di carta,
e questo significa che potrebbero salire al secondo piano
e aprire una certa porta, lasciando uscire Julian...».
Da quel momento, si erano uniti ai volontari, in cerca
di un indizio che rivelasse dove Scott Martell e P.C.
Serrani avevano portato il Gioco. Jenny sapeva che era
una corsa contro il tempo. Bisognava trovare la casa
prima che Lumacone e P.C. liberassero Julian. Perché
dopo quello che gli aveva fatto... lo aveva ingannato e
chiuso dietro quella porta, anche se gli aveva promesso
di rimanere con lui per sempre, e poi era fuggita...
Se fosse uscito di lì, l’avrebbe sicuramente trovata. E
si sarebbe vendicato.
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Capitolo 3
S
ulla collina erbosa, Michael continuava a criticare l’idea di trovare la Fanciulla Che Piangeva.
«Probabilmente non sa nulla», disse Zach, gli occhi
grigi come nubi invernali. «Magari si sta chiedendo se
siamo stati noi. In fondo, credo che se lo chiedano tutti».
Jenny osservò i componenti del gruppo: Dee sdraiata
pigramente sull’erba, Audrey seduta su una cartellina
per non sporcare il tailleur, Michael con il suo corpo da
orsacchiotto e gli ironici occhi da spaniel, e Zach, simile a un monaco tibetano con la coda di cavallo. Non
sembravano certo degli assassini. Ma ciò che Zach stava dicendo era vero, ed era proprio da lui affermare
una cosa del genere.
«Comunque, oggi dobbiamo andare a distribuire volantini», fece notare Audrey. «Possiamo cercarla mentre
siamo in giro».
«Non farà alcuna differenza», replicò Zach seccamente.
Gli altri si girarono verso Jenny. È tuo cugino, veditela tu con lui, dicevano i loro sguardi.
Lei sospirò. «Sai perfettamente che farà la differen-
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za», obiettò in tono brusco. «Se non recuperiamo la casa di carta, sai cosa potrebbe succedere».
«E cosa intendi fare, se la troviamo? Bruciarla? Tagliarla in minuscoli pezzi? Con loro dentro? Sarebbe
un omicidio. Oppure P.C. e Lumacone non contano?».
Tutti cercarono di prendere la parola. «A loro non
importerebbe nulla di noi...», cominciò Audrey.
«Bada a come parli», sibilò Dee, in piedi davanti a
Zach, fiera come una leonessa.
«Forse non sono dentro la casa», suggerì Michael.
«Magari hanno lasciato la città e se la sono portata dietro».
Jenny fece appello a tutto il suo autocontrollo, poi si
rivolse direttamente a Zach. «Se non hai niente di utile
da dire, è meglio che te ne vada».
Vide l’espressione sconcertata con cui la guardavano gli altri. Zach, tuttavia, non sembrava sorpreso. Il
ragazzo si alzò fissandola intensamente, il viso scarno
più espressivo che mai. Poi, senza dire una parola, diede le spalle al gruppo e se ne andò.
Turbata, Jenny tornò a sedersi.
«Santo cielo!», mormorò Michael.
«Se l’è cercata», commentò Dee.
Jenny sapeva che non era importante se Zach se la
fosse cercata o no: il fatto era che Michael non si aspettava una simile reazione da parte sua.
Sono cambiata, pensò. Cercò di mettere da parte
quella consapevolezza dicendosi: “E con ciò?”, ma quel
pensiero la tormentava. Aveva la sensazione che il cambiamento fosse più profondo di quanto chiunque sospettasse.
«Dobbiamo trovare la casa di carta», dichiarò.
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«Giusto», approvò Dee. «Anche se non credo che P.C.
e Lumacone abbiano la minima possibilità di raggiungere il secondo piano dove si trova Julian. Non con quel
serpente e quel lupo nei paraggi...».
«Il Rettile e la Spia», puntualizzò Audrey.
«...ma noi potremmo anche essere al sicuro». Udirono una campanella. «Ci vediamo a fisiologia», aggiunse Dee, rivolta a Jenny, afferrando la lattina vuota di
una bibita energetica e dirigendosi di corsa verso il dipartimento di arte.
Michael si pulì le ginocchia per togliere le briciole,
quindi s’incamminò verso la palestra.
Anche Jenny sapeva di non avere molto tempo. Lei e
Audrey dovevano cambiarsi per la lezione di tennis.
Ma in quel momento non le importava granché di arrivare in ritardo.
«Ti va di marinare la scuola?», chiese all’amica.
Audrey smise di colpo di passarsi il rossetto sulle labbra. Poi terminò l’operazione, mise via lo stick e chiuse
l’astuccio. «Che cosa ti è successo?», domandò.
«Niente...», cominciò Jenny, quando si accorse che
qualcuno stava salendo verso di loro.
Era uno studente dell’ultimo anno che frequentava
il suo stesso corso di letteratura. Brian Dettlinger. Il ragazzo guardò Audrey con aria incerta, ma quando divenne chiaro che lei non aveva alcuna intenzione di andarsene le salutò entrambe.
Le due ragazze risposero al saluto.
«Mi stavo chiedendo», disse lui, osservando un bombo che ronzava intorno a un ciuffo di gigli messicani,
«se sei impegnata per il ballo».
Il ballo c’è già stato, pensò stupidamente Jenny. Poi
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capì che ovviamente Brian si riferiva a quello per gli
studenti dell’ultimo anno.
Audrey spalancò gli occhi castani. «No, non lo è», rispose, arricciando leggermente le labbra per mostrare
il suo neo.
«Ma io ho già un ragazzo», replicò Jenny sorpresa.
Tutti lo sapevano. E sapevano anche che lei e Tommy
stavano insieme fin dalle elementari, e che da anni la
gente parlava di loro come di una cosa sola, quasi fossero fratelli siamesi. Tutti lo sapevano.
«Oh, certo». Brian Dettlinger sembrava leggermente
imbarazzato. «Solo che pensavo... non l’ho più visto
molto in giro, e...».
«Grazie, non posso venire». Jenny si rendeva conto
di avere un tono quasi scandalizzato, e Brian non meritava quel trattamento. Stava semplicemente cercando
di essere gentile. Ma la proposta l’aveva colta alla
sprovvista. Naturalmente, lei non poteva essere la sua
prima scelta, perché era lunedì e il ballo ci sarebbe stato quel sabato, ma il fatto che gliel’avesse chiesto era di
per sé un complimento. Brian Dettlinger non era uno
di quei goffi studenti dell’ultimo anno che si affannavano per trovare qualcuna all’ultimo minuto. Era il capitano della squadra di football e usciva con la capogruppo delle cheerleader. Era una star.
«Ma sei pazza?», esclamò Audrey quando se ne fu
andato. «Quello era Brian Dettlinger!».
«Che cosa ti aspettavi che facessi? Che accettassi?»
«No... be’...». Audrey scosse la testa, poi la inclinò
all’indietro per guardare l’amica con aria critica dietro le ispide ciglia color rame. «Sei proprio cambiata. È
quasi inquietante. È come se fossi sbocciata, e tutti
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l’hanno notato. Come se ti si fosse accesa una luce dentro. Da quando...».
«Dobbiamo andare a educazione fisica», tagliò corto
Jenny.
«Credevo che avessi intenzione di marinare la scuola».
«Non più». Jenny non voleva altri cambiamenti. Voleva sentirsi al sicuro come prima. Voleva essere una
normale studentessa del terzo anno in impaziente attesa delle imminenti vacanze estive. Voleva Tom.
«Andiamo», disse. Per un momento, mentre scendevano dalla collina e gettavano le bottiglie vuote di tè
ghiacciato nel bidone dei rifiuti vicino al dipartimento
di inglese, ebbe la sensazione che qualcuno la stesse osservando. Si voltò rapidamente, ma non vide nessuno.
Tom la guardò allontanarsi.
Gli dispiaceva starsene nascosto all’ombra del dipartimento, dietro i pilastri arrugginiti che sostenevano il
tetto del portico, ma non sapeva decidersi a rivelare la
propria presenza.
La stava perdendo, e la colpa era sua.
Il fatto era che aveva già rovinato tutto. La cosa più
importante della sua vita, e se n’era reso conto soltanto
diciassette giorni prima. Il 22 aprile. Il giorno del Gioco.
Il giorno in cui era arrivato Julian a portarsi via Jenny.
L’amava, naturalmente. Amare era facile. Ma non
aveva mai pensato a come potesse essere la vita senza
di lei, perché aveva sempre saputo che Jenny era al
suo fianco. Non te ne vai in giro dicendo a te stesso:
“Mi chiedo cosa succederebbe se domani non sorgesse
il sole”.
Aveva dato tutto per scontato. Era stato pigro. Ecco
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cosa succede se ogni cosa ti viene servita su un piatto
d’argento. Se non devi mai dimostrare quanto vali, hai
intorno persone che ti adulano per il tuo bell’aspetto,
l’automobile sportiva e la tua bravura nel lanciare una
knuckleball. Insomma, se sei Tom Locke. Finisci per
convincerti di non aver bisogno di nulla.
Poi scopri fino a che punto ti sei sbagliato.
Il problema era che proprio mentre stava cominciando a capire quanto avesse bisogno di Jenny Thornton,
lei aveva scoperto di non aver bisogno di lui.
L’aveva vista dall’Altra Parte, dentro quella casa di
carta che si era rivelata reale. Era così bella e coraggiosa da fargli male al cuore. Se la cavava perfettamente senza di lui.
Avrebbe anche potuto accettarlo, se non fosse stato
per Julian. L’Uomo Ombra. Il ragazzo con gli occhi di
ghiaccio che li aveva rapiti tutti perché voleva Jenny.
Un’azione indiscutibilmente malvagia ma, per Tom,
del tutto comprensibile.
Jenny era cambiata da quando era comparso Julian.
Forse gli altri non se n’erano accorti, ma Tom sì. Era
diversa ora, perfino più bella. C’erano momenti in cui
aveva un’espressione trasognata, come se stesse ascoltando cose che nessun altro poteva udire. La voce di
Julian nella sua mente, forse.
Perché Julian l’amava. Lo aveva detto lui stesso, insieme a tutto quello che Tom non aveva mai pensato di
dire. E Julian aveva il fascino del diavolo.
Come poteva resistergli Jenny, innocente com’era?
Forse credeva di poterlo cambiare, magari sperava che
non fosse cattivo come sembrava. Tom sapeva che le
cose non stavano così, ma a che sarebbe servito cercare
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di spiegarglielo? Li aveva visti insieme, aveva visto gli
occhi di Julian quando la guardava, l’influsso che sapeva esercitare. Non appena Julian fosse tornato a cercare Jenny, Tom avrebbe perso.
E adesso non poteva che osservarla appostato nell’ombra. Notare come certe ciocche di capelli risaltassero rispetto alle altre, leggere come barbe di granturco e dello stesso color del miele. Ricordare i suoi occhi,
verde scuro con sfumature d’oro. Tutto in lei era dorato, perfino la pelle. Era buffo che non gli fosse mai venuto in mente di dirglielo. Forse era proprio quello che
stava facendo Dettlinger poco prima. Tom non era
sorpreso che il campione di football fosse andato a
parlare con lei, ma che se ne fosse andato così in fretta.
Peccato non aver potuto ascoltare la loro conversazione.
Ma non aveva importanza, in fondo. Non gli importava quanti ragazzi si avvicinassero a Jenny. Soltanto
uno lo preoccupava, e quello avrebbe fatto bene a stare
attento.
Anche se non poteva più averla, l’avrebbe protetta.
Quando Julian fosse tornato a cercare Jenny – non se:
Tom era sicuro che prima o poi lo avrebbe fatto – tentando ancora una volta di far leva sulla sua innocenza,
lui sarebbe stato lì per impedirglielo. Non sapeva assolutamente come, ma lo avrebbe fermato.
A costo della propria vita.
E se l’Uomo Ombra avesse spinto Jenny a odiarlo,
pazienza. Un giorno lei l’avrebbe ringraziato.
Muovendosi silenziosamente e con decisione, seguì
la testa color rame e quella d’oro verso la palestra.
Forse era solo la sua immaginazione, ma aveva la stra-
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na sensazione che anche qualcos’altro stesse seguendo
le due ragazze.
Raggiunsero il Centro a bordo di due auto: Jenny e
Audrey con la piccola Alfa Spider rossa di quest’ultima, Dee e Michael con il Maggiolino Volkswagen di
lui. Mentre entrava, Jenny fece appello al proprio coraggio.
Ma per quanto si sforzasse, vedere la parete coperta
di immagini di Summer era sempre uno shock.
Ce n’erano centinaia. Non solo volantini e manifesti.
I genitori della scomparsa avevano portato anche decine di fotografie per mostrare la figlia da diverse angolazioni, o forse soltanto per ricordare alla gente il motivo di tanto lavoro e di tutto il materiale inviato per
posta. Qualcuno aveva fatto un ingrandimento di una
foto, trasformandola in una specie di mostruoso tabellone pubblicitario in cui i morbidi riccioli biondi di
Summer misuravano un metro e mezzo e i suoi occhi
color glicine li fissavano come quelli di Dio.
«Dov’è il tuo Tom?», chiese a Jenny una delle volontarie. Era una studentessa del college e si informava
sempre su di lui.
«Non lo so», rispose lei, secca. Era la stessa domanda
che la tormentava fin dall’ora di pranzo.
«Se fossi in te, lo saprei. Un fusto simile lo terrei d’occhio...». Jenny smise di ascoltare. Come al solito, desiderava andarsene dal Centro prima possibile. Era un
luogo pieno di persone cordiali, zelanti e premurose,
che diffondevano speranza e ottimismo... ed era una
pagliacciata.
Jenny osservò con un senso di nausea la grande map-
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pa sulla parete, che indicava in quali aree erano già
stati distribuiti i volantini e in quali no. Finse di studiarla, benché sapesse già dove sarebbe andata. Se la
Fanciulla Che Piangeva era amica di P.C., doveva abitare vicino a lui.
Quasi non si accorse della porta che si apriva, lasciando entrare un volontario che sussurrò: «C’è la medium
che ha telefonato. Quella di Beverly Hills».
«Da’ un’occhiata a quella Mercedes», disse Michael.
Jenny si voltò e vide una donna con capelli biondo
ghiaccio e catene d’oro dall’aria costosa. Nello stesso
momento, la sensitiva vide lei e rimase senza fiato.
Con gli occhi spalancati, le si avvicinò finché il suo
profumo Giorgio si sovrappose al Chloé Narcisse di Audrey.
«Tu», mormorò fissandola intensamente, «tu li hai
visti. Quelli dell’Altra Parte».
Jenny rimase come paralizzata. Folgorata.
«Ho un messaggio per voi», aggiunse la medium.
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Questo libro è un`opera di fantasia. Nomi