Giovanni Boccaccio
Il comento alla Divina Commedia e gli altri
scritti intorno a Dante
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante
AUTORE: Boccaccio, Giovanni
TRADUTTORE:
CURATORE: Guerri, Domenico (1880-1934)
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TRATTO DA: "Opere volgari
Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante",
di Giovanni Boccaccio;
a cura di Domenico Guerri;
collezione Scrittori d'Italia, 85;
Tre volumi;
Laterza Editore;
Bari, 1918
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 giugno 2007
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
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SCRITTORI D'ITALIA
G. BOCCACCIO
OPERE VOLGARI
XII
GIOVANNI BOCCACCIO
IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI
DOMENICO GUERRI
VOLUME PRIMO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918
3
A
PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI
4
I
VITA DI DANTE
I
PROPOSIZIONE
Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato, e le cui sacratissime
leggi sono ancora alli presenti uomini chiara testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che
dicono alcuni, spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due piedi;
de' quali, con matura gravitá, affermava essere il destro il non lasciare alcun difetto commesso
impunito, e il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose giá
dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si servava, senza niun dubbio quella
republica, che 'l faceva, convenire andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue,
quasi certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.
Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole sentenzia e
apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente di celebre
sepultura, e tal fiata di triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali
onori e purgazioni la assiria, la macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate,
con l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de' quali in cosí alti
esempli, non solamente da' successori presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male
seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede l'ambizione; per che, sí
come e io e ciascun altro che a ciò con occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima
afflizione d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsi e a' sommi ofici e
guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il
giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: percioché noi, piú bassa
turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, ma non della colpa partecipi. E, comeché con
infinite ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose verificare, per
meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio principale intento, una sola mi fia assai avere
raccontata (né questa fia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri.
Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto per vertú e per scienzia e per buone
operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se
in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi
meriti apparecchiati.
Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di futura ruina
manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento,
alienazione de' paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con
false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre
sepulte e la sparta prole per l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre iniquitá
fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio, che veggono tutto, non dovrebbe
quest'una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che
sia onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il presente mondo del sentiero
uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono, contro la sopra toccata sentenzia
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di Solone, sanza cadere stiamo in piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per
lunga usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire, o è speziale miracolo,
nel quale, per li meriti d'alcuno nostro passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o
è la sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale se a lungo andare non
seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto
piú grave tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, come che impunite ci
paiono le mal fatte cose, quelle non solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando,
d'amendarle ingegnarci; conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciola
parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú, Dante Alighieri fu grandissima, e per
questo, sí come ciascun altro cittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tanta cosa
non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá, quello ch'essa dovea verso lui
magnificamente fare, non avendolo fatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia
sepoltura, delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le mie forze, ma con
lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di queste darò, accioché igualmente, e in tutto e in
parte, non si possa dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata ingrata. E
scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché piú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro
fiorentino idioma, accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere, non discordi,
quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette: cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi,
i costumi; raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé sí chiaro ha renduto
a' futuri, che forse non meno tenebre che splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia
di mio intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in ciascun'altra cosa, da ciascun
piú savio, lá dove io difettuosamente parlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga,
umilemente priego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, come sappiamo, che al presente
aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole mano.
II
PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che l'antiche istorie e la comune
opinione de' presenti pare che vogliano, ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo
aumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente cominciò a ciascun
circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli
alti inizi di mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo molti secoli da
Attila, crudelissimo re de' vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi
tutti o la maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá di sangue o per
qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al
trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione di
Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo magno, allora
clementissimo re de' franceschi; piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla
reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da quegli medesimi che prima
conditori n'erano stati, come che in picciol cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a
Roma la fe' reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche reliquie, che si
trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.
Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della reedificazione, partitore delle
abitazioni e delle strade, e datore al nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la
fama, vi venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e nominato da tutti
Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o
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dall'amore della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al quale forse vide nel
futuro dovere essere il cielo favorevole, o da altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne
perpetuo cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non picciola né poco laudevole
schiatta: li quali, l'antico sopranome de' loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome
di colui che quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli Elisei. De' quali di
tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e
per senno ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella sua giovanezza fu
data da' suo' maggior per isposa una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e
per costumi, come per nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei generò piú
figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di
fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo
poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse Alighieri. Il valore di costui fu cagione
a quegli che discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli Alighieri; il
che ancora dura infino a questo giorno. Del quale, comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti
figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu
Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non
guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo;
comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed oggi, per lo effetto seguíto, sia
manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde
prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo
tempo, nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e dell'onde della chiara fonte, le
parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo piú, ma
uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né
guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno figliuolo, il quale di
comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché
ottimamente, sí come si vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante, che a' nostri
seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno
delle muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata;
per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí
meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che
Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.
III
SUOI STUDI
Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante il romano imperio per
la morte di Federigo giá detto, negli anni della salutifera incarnazione del Re dell'universo
MCCLXV, sedente Urbano papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa da
assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora correa. Ma, quale che ella si
fosse, lasciando stare il ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della futura
gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua puerizia, avendo giá li primi elementi delle
lettere impresi, non, secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciullesche lascivie e agli
ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nella propia patria tutta la sua puerizia con istudio
continuo diede alle liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo insieme con
gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi, alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si
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dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le transitorie
ricchezze, liberamente si diede a volere aver piena notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso
dimostramento di quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio, d'Orazio, d'Ovidio,
di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora,
altamente cantando, s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso a suo
tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere vane o semplici favole o
maraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o
filosofiche avere nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale
filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano intere; partendo i tempi debitamente, le
istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,
d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra
piú cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,
tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle
profonditá altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto
lontano, percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né alcun altro corporale
disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere della divina essenzia e dell'altre separate
intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varie etadi
varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in vari studi sotto vari dottori le comprese.
Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propia patria, e di quella, sí
come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò a Bologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a
Parigi, dove, con tanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che
ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di tanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò
altissimi titoli: percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» e molti «teologo»,
mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piú gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto
sono state maggiori, giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso mare
costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimente e' venti contrari, pervenisse al
salutevole porto de' chiarissimi titoli giá narrati.
IV
IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di sollecitudine e tranquillitá
d'animo disiderare, e massimamente gli speculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si
diede tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio della sua vita infino all'ultimo
della morte, Dante ebbe fierissima e importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica,
esilio e povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitá queste si traggon dietro: le
quali, accioché piú appaia della loro gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.
V
AMORE PER BEATRICE
Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti la terra, e tutta per la
varietá de' fiori mescolati fra le verdi frondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli
uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare; per la qual
cosa, infra gli altri per avventura, Folco Portinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il
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primo dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a festeggiare, infra li quali
era il giá nominato Alighieri. Al quale, sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,
sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora finito, seguito avea; e quivi
mescolato tra gli altri della sua etá, de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa del
festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etá poteva operare, puerilmente si
diede con gli altri a trastullare. Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco, il
cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioè Beatrice, la nominasse, la cui etá
era forse d'otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste che il suo picciolo tempo non
richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti. Costei
adunque, tale quale io la disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo
primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancoraché
fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno
innanzi, mai, mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno il sa; ma, o
conformitá di complessioni o di costumi o speziale influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí
come noi per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale allegrezza,
per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti,
ampliarsi e divenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa che piace; è certo
questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua pargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore.
Ma, lasciando stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etá multiplicarono l'amorose
fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per
la qual cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunque credeva potere
vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesse attignere ogni suo bene e intera consolazione.
Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per aggiugnimento di stipa fare le
fiamme minori? Quanti e quali fossero li pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime
poi in piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimo in parte il dimostra nella
sua Vita nova, e però piú distesamente non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non
detto trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui fu noto il suo disio, si ragiona,
onestissimo fu questo amore, né mai apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno
libidinoso appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia al mondo presente,
del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, e abituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata
alla sua lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí come cosa rarissima, chi
amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo poté il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire,
quanto si dee potere estimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno? Certo, non
poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore di quello, argomento a ciò prendendo dalle
cose leggiadramente nel fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché li suoi
ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certo io nol consento, se io non volessi giá
affermare l'ornato parlare essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.
VI
DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in questo mondo; e, se
niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita è quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo
che noi abbiamo, lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a non essere sanza
difficultá ci conduce; né da questo gentilezza, ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è
privilegiata; della quale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altrui morte provare
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che per la sua. Era quasi nel fine del suo vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí
come piacque a Colui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce, n'andò a quella
gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata. Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta
afflizione, in tante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti ed amici niuna fine a
quelle credettero altra che solamente la morte; e questa estimarono dover essere in brieve, vedendo
lui a niun conforto, a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano alle notte iguali e
agli giorni le notti; delle quali niuna ora si trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa
quantitá di lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acqua surgente, in tanto
che piú si maravigliarono donde tanto umore egli avesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come
noi veggiamo, per lunga usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel tempo
ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti mesi apparò a ricordarsi, senza
lagrime, Beatrice esser morta, e con piú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione,
a conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra cosa, rendere la perduta donna.
Per la qual cosa con piú pazienza s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari di
spazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giá erano alla loro fine vicini,
cominciarono in gran parte a partirsi sanza tornare.
Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentiva dentro, e sí per lo non
avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e
quasi tutto trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo aspetto, nonché negli
amici, ma eziandio in ciascun altro che il vedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli
poco, mentre questa vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si lasciasse.
Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti stare attenti a' suoi
conforti; li quali, come alquanto videro le lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto
dare sosta al faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono a sollecitare lo
sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie
chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al
suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, accioché del tutto non solamente
de' dolori il traessero, ma il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie;
accioché, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, cosí di letizia gli fosse la
nuovamente acquistata. E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle
ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gli scoprirono. E, accioché io
particularmente non tocchi ciascuna cosa, dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in
mezzo, al ragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.
VII
DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti mortali, quanto sono le
riuscite in assai cose contrarie a' vostri avvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che
del dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocenti arene di Libia a
rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi, nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico
s'ingegnerá di cacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossa col ghiaccio o
con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con nuova moglie crederá l'amorose tribulazion
mitigare. Non conoscono quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra
passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle sue forze, se egli ha ferma radice
presa nel cuore di colui che ha lungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza è
giovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse volte dannose. Ma da ritornare è al
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proposito, e da concedere al presente che cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fare
obliare.
Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metterá in mille molto maggiori
e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se non che per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará
disiderare di tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo addivenire a' piú, li
quali o per uscire o per essere tratti d'alcune fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui
ammogliati; né prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che la pruova,
sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha data esperienza. Dierono gli parenti e gli amici
moglie a Dante, perché le lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché le lagrime
passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosa fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si
spegnesse, nuove cose e assai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne' santi
studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re e con qualunque altri altissimi prencipi
ragionava, disputava co' filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosce ascoltando,
mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è con costoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto
da cosí celebre compagnia, gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma lodare. Egli, costumato, quante
volte la volgar turba gli rincresceva, di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vedere
quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sono in terra, quali sieno le cagioni
delle cose, o premeditare alcune invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li
futuri facessero lui morto viver per fama; ora non solamente dalle contemplazioni dolci è tolto
quante volte voglia ne viene alla nuova donna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia
male a cosí fatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di
sospirare, secondo che le passioni dolci e amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non
che delle maggiori cose, ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'l
mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore, la tristizia esser del suo odio
estimando.
Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, a conversare, e
ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciare stare la sollecitudine nuova e gravissima,
la quale si conviene avere a' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano i
vestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze, le quali le donne si fanno a
credere essere al ben vivere opportune; onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere;
onde vengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a' parenti delle novelle spose, a
quegli che vogliono che esse credano da loro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima
non conosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si possono. Chi dubita che della sua
donna, che ella sia bella o non bella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi
dubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcuno con la sua bellezza, altri con
la sua nobiltá, e tale con maravigliose lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza
infestissimamente combatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano, malagevolmente
da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non bisogna d'essere presa piú che una volta, a
fare sé infame e i mariti dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fia sozza,
assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tosto rincrescere; che dunque dell'altre possiamo
pensare, se non che, non che esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare da
coloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio? Onde le loro ire nascono, né
alcuna fiera è piú né tanto crudele quanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé
commette ad alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare a tutte.
Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essi sieno tutti contrari alla
pace e al riposo degli uomini, io tirerò in troppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo,
quasi a tutte generale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ogni menomo servo
ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; per che estimano, se ben fanno, non altra sorte esser
la lor che d'un servo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, male adoperando, non
vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio io andare dimostrando particularmente quello che
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gli piú sanno? Io giudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghe donne. Chi
non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui, di cui debbono esser, comperate, le
prenda, se non la moglie, accioché prima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende,
la conviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortuna gliele concede. E se le cose
che di sopra son dette son vere (che il sa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori
nascondano le camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitá trapassi le mura sono
reputati diletti. Certo io non affermo queste cose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero
sia che, o simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta da lei partitosi, che per
consolazione de' suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che
lá dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egli insieme con lei fosse
parente. Né creda alcuno che io per le su dette cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre
moglie; anzi il lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a' ricchi stolti, a'
signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.
VIII
OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE
Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di dietro. La familiar cura trasse
Dante alla publica, nella quale tanto l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti
sono, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate redine, quasi tutto al
governo di quella si diede; e fugli tanto in ciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a
niuna si rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si faceva, niuna guerra
publica s'imprendeva, e brievemente niuna diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si
pigliava, s'egli in ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede, in lui ogni
speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Ma la Fortuna,
volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmo
della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine al principio recò a lui, in lei
fidantesi di soperchio.
IX
COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, e,
con l'operazioni di sagacissimi e avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto
che alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della sottoposta. A volere riducere a
unitá il partito corpo della sua republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia in brieve tempo tornano al niente,
e le picciole per la concordia crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, e
conobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio, prima propose di lasciar del
tutto ogni publico oficio e vivere seco privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano
favor popolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre a questo, se tempo gli
occorresse, molto piú di bene potere operare per la sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande,
che a sé privato e da quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori, quanto
sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non gli ha!): il maturo uomo e nel santo
seno della filosofia allevato, nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i cadimenti
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de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni, delle province e delle cittá e li furiosi impeti
della Fortuna, niun altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tua dolcezza
guardare.
Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana pompa dei publici
ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una terza parte tenere, la quale, giustissima,
l'ingiustizia dell'altre due abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nella quale, secondo
il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia; operando continuamente ciò che salutevole alla sua
patria e a' cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangon vinti dalle forze del
cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora che sanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno
divenivan maggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini, piú volte si venne
all'arme con intendimento di por fine alla lor lite col fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non
vedevano sé con quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piú volte fatta
pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e dell'altra; venuto il tempo che gli occulti
consigli della minacciante fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso
rapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, di maravigliosi e d'astuti consigli
esser forte e di grandissima moltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò, che
ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro, se non il cercare con fuga la loro
salute; co' quali insieme Dante, in un momento prostrato della sommitá del reggimento della sua
cittá, non solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questa cacciata non molti
dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle case de' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi
che i vittoriosi ebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti i prencipi de' loro
avversari, e con loro, non come de' minori ma quasi principale, Dante, sí come capitali nemici della
republica dannati a perpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, o alienati a'
vincitori.
X
SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO
Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria! questo merito riportò
Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via le discordie cittadine! questo merito riportò Dante
dell'avere con ogni sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoi cittadini! Per che
assai manifestamente appare quanto sieno vòti di veritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa
in essi avere. Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta, ogni affezione
cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza cagione legittima, senza offesa, senza peccato,
da quel romore, il quale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infino alle stelle, è
furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu la marmorea statua fattagli ad eterna
memoria della sua virtú! con queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria scritto in
tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendute grazie de' suoi benefici! Chi sará
dunque colui che, a queste cose guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare
sciancata?
Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu continuamente ripresa,
ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo, Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri
antichi valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della memoria caduti, questo
ricente caso ti faccia con piú temperate redine correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno
stabilita che la popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio che quello che
a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui
eterni splendori, nella cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la stabilitá di Colui
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che lui e le altre cose con ragione muove; accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie
cose, in lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo ingannati.
XI
LA VITA DEL POETA ESULE
SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale egli non solamente era
cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con
l'altra famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro, percioché di consanguinitá la
sapeva ad alcuno de' prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto,
andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della
sua dote dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli
figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con industria disusata gli convenia
il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú
duri a lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la
tornata! Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a
messer Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte
Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli
della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la
loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova,
e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata,
e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata,
passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi; e quivi
tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie
ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo studiosamente
spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di
Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato imperadore.
Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle,
e giá con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dover
essere vincitore; prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare,
comeché a lui la sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di fiorentini e di lor
parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio
di Brescia, accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi nemici;
mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la
possessione e il dominio di tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il
trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furon grandissime, e
assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo
'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo cammino. E come che in una parte e
in altra piú cose facesse, assai ne ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo
avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e
massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino,
se ne andò in Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava.
XII
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DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá di Romagna, uno nobile
cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta; il quale, ne' liberali studi ammaestrato,
sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri
avanzavano. Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in Romagna (avendo egli
lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo
e d'onorarlo. Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo, considerata qual sia a'
valorosi la vergogna del domandare, e con proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia
a Dante quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco li piacesse di dover
essere. Concorrendo adunque i due voleri a un medesimo fine, e del domandato e del domandatore,
e piacendo sommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parte il bisogno
strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, se n'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal
signore di quella ricevuto, e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente le
cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne, anzi infino a l'ultimo della vita di
lui.
XIII
SUA PERSEVERANZA AL LAVORO
Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la
lusinghevole gloria de' publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con
le lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da' sacri studi; percioché, sí come
si vederá dove appresso partitamente dell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di
qualunque fu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersi esercitato. E se,
obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti e quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza
d'ingegno e di perseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare ch'esso fosse
divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno
molti? Certo, io non so; ma se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno iddio.
XIV
GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE
Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare mai in Firenze
(comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto la protezione del grazioso signore; e quivi con le
sue dimostrazioni fece piú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio
giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero tra' greci
o Virgilio tra' latini. Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi trovata
fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero delle sillabe e dalla consonanza delle
parti estreme in fuori, di farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in
leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto con essa ogni alta
materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro.
Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giá nel mezzo o presso del
cinquantesimo sesto suo anno infermato, e secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico
sacramento umilmente e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa da
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lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; del mese di settembre negli anni di Cristo
MCCCXXI, nel dí che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
grandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti gli altri cittadini ravignani, al suo
Creatore rendé il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua
nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le miserie della
presente vita, ora lietissimamente vive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.
XV
SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI
Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici sopra uno funebre
letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de'
frati minori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi
con publico pianto seguitolo, in una arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato
alla casa nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sí a
commendazione dell'alta scienzia e della vertú del defunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li
quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, se lo stato e la
vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo, che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse
memorevole renduto a' futuri, quella l'avrebbe fatto.
XVI
GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu manifesto ad alquanti, li
quali in quel tempo erano in poesí solennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la sua
sofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenzia da loro al morto poeta, sí per
captare la grazia e l'amore del signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi, li
quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lode facessero la posteritá certa chi dentro
da essa giacesse; e al magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della fortuna non
dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna; per la qual cosa e il fare il sepolcro e il
porvi li mandati versi si rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, e
veggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensando le presenti cose per me
scritte, comeché sepoltura non sieno corporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetue
conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole quegli aggiugnere a queste
cose. Ma, percioché piú che quegli che l'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero
ne' marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosser da scrivere; per che, tutti
meco esaminatigli, per arte e per intendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine da
maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran poeta, e di Dante stato
singularissimo amico; li quali sono questi appresso scritti:
XVII
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EPITAFIO
Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophia sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
distribuit, laicis rhetoricisque modis.
Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
Atropos heu laetum livida rupit opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium, vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter septem Numinis annis,
ad sua septembris idibus astra redit.
XVIII
RIMPROVERO AI FIORENTINI
Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo
cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o
poscia tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal consigliata ti scusi; ché, tornata,
cessate l'ire, la tranquillitá dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti rincresca lo
stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa
dire, come da uomo che ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli essere
gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale non hai vicina cittá che di simile si possa
esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di quali
eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le
tue bellezze, cosa fragile e caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno nota
nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad esistenza sempre riguarda. Deh!
gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,
continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la quale un tempo nobilitata fu
dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e
niente vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali, percioché di molti loro avoli si
ricordano, vogliono dentro da te della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con
tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la tua, e da coloro, le cui sentenzie
hanno fondamento debito e stabile fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda
con alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo reputata savia come tu
se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non
imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro laudevoli opere son famose? Atene, la
quale fu l'uno degli occhi di Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per iscienzia,
per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de' suoi re;
Smirna, a noi reverenda in perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio
Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro, tutte insieme, qualora piú
gloriose furono, non si vergognarono né dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino
poeta Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece con argomenti forte la
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sua intenzione, che ancora la quistion vive; né è certo donde si fosse, perché parimente di cotal
cittadino cosí l'una come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è piú
alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta
reverenzia, e sí è appo tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in molti
privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che, non ostante che il padre di lui fosse
lutifigolo, esso di tutti loro sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di
Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro sufficienzia fanno quistione.
L'esemplo di queste non t'era vergogna di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere
state e vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi
conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina
ritenitrici eterne del nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual cechitá adombrata, hai voluto
tenere altro cammino, e quasi molto da te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi
i Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli Scipioni con le loro magnifiche
opere ti facessero famosa e in te fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma l'hai da te cacciato, sbandito
e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo
servigio. Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato al tuo disonesto
appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto
se nelle mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato. Morto è il tuo
Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente, del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato
da non ricordare, che la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque se' di
sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e
ingiuste persecuzioni porre fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi aspettar di vederlo giammai, se non quel
dí, nel quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e punite.
Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di qualunque è che muoia,
come si crede, comincia a tornare in te medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a
vergognarti d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir madre e non piú
inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo; concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu
rifiutasti, anzi cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua
cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e
proterva fossi, egli sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che per le
sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre
fiorentino, quantunque l'esilio fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti
prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquitá ostinata? sará in te meno
d'umanitá che ne' barbari, li quali troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti
raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l mondo creda te
essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma: certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli
avoli simiglianti. Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto Ettore,
ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo che alcuni pare che credano, feciono
da Linterno venire l'ossa del primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E
come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e Scipione liberatore non
solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire
di Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non dessero luogo alla
scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá
non imitasti, amenda al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o fittizia
sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani, li quali ancora in Piettola onorano la
povera casetta e i campi che fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea trasportate, non avesse
comandato quello luogo dove poste l'avea, volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra
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cosa pianse lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo Ovidio; e cosí di
Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque di volere essere del tuo Dante guardiana;
raddomandalo; mostra questa umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te
medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato. Raddomandalo. Io son certo
ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua
innata crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa
sentire, che quello di Dante si potesse partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna, molto piú
per etá veneranda di te; e comeché la sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua
giovanezza troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro di santissimi corpi,
né niuna parte in essa si calca, dove su per reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque
disidererebbe di tornare a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino
la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da l'altra, non
altramenti che facessero le fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso
sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro reliquie, e similemente i
corpi di molti magnifici imperadori e d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere
virtuose, ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue dote, conceduto d'essere
perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come è il corpo di colui, le cui opere tengono in
ammirazione tutto il mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è tanta
l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine, quasi
sdegnando che dove ella sia per l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo primo.
E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi onori lieta si glori tra' futuri.
XIX
BREVE RICAPITOLAZIONE
Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita faticata da' vari studi; e,
percioché assai convenevolemente le sue fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il
miserabile esilio e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate, giudico sia da
pervenire a mostrare della statura del corpo, dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati
nella sua vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di nota, compilate da
esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine quanta di sopra brievemente è dichiarata.
XX
FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura etá fu pervenuto,
andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in
quell'abito che era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli
occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e
il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e
pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle
sue opere, e massimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli intitola Inferno, ed esso
conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando egli davanti a una porta dove piú donne
sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse
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udita, disse all'altre donne: - Vedete colui che va nell'inferno, e torna quando gli piace, e qua su
reca novelle di coloro che lá giú sono? - Alla quale una dell'altre rispose semplicemente: - In veritá
tu déi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo
che è lá giú? - Le quali parole udendo egli dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle
donne venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinione fossero, sorridendo
alquanto, passò avanti.
Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e in tutti piú che
alcun altro cortese e civile.
Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinate e sí in non trapassare il
segno della necessitá, quel prendendo; né alcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li
dilicati lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li quali gran parte del
loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenzia apparare;
affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.
Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse;
intanto che piú volte e la sua famiglia e la donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate,
ciò mettessero in non calere.
Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce conveniente alla
materia di che diceva; non pertanto, lá dove si richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con
ottima e pronta prolazione.
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que'
tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto
tirato compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá mostrato. Questo
amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore del suo ingegno a dovere, prima imitando,
divenir dicitore in volgare; poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di
gloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò ciascuno suo contemporaneo,
ma in tanto la dilucidò e fece bella, che molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi
d'essere esperti.
Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti, accioché le sue contemplazioni
non gli fossero interrotte; e se pure alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso
tra gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai infino a tanto che egli o
fermata o dannata la sua imaginazione avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte
volte, essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e in altre parti, domandato,
gli avvenne.
Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si disponea, in tanto che
niuna novitá che s'udisse, da quegli il poteva rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede
raccontano di questo darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra l'altre in Siena, e
avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti
promessogli, e tra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non avendo per
avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca che davanti allo speziale era, si pose col
petto, e, messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché poco
appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna general festa de' sanesi si
cominciasse da gentili giovani e facesse una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da'
circustanti (sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol farsi), e altre cose
assai v'avvenissero da dover tirare altrui a vedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di
giovani; mai non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare gli occhi dal libro:
anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi
sommariamente compreso, che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il domandavano
come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festa come davanti a lui s'era fatta, sé niente
averne sentito; per che alla prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'
dimandanti.
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Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima e di perspicace
intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione de quolibet che
nelle scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse
materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse,
e ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine,
sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i
circustanti fu reputata.
D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come le sue opere troppo piú
manifestano agl'intendenti che non potrebbono fare le mie lettere.
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla sua inclita virtú non si
sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E
per questa vaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia, veggendo, comeché la
filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e
esserne per lo mondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole a ciascuno, e li
poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo inusitato e pomposo onore della coronazione
dell'alloro poter pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il suo disiderio
veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortuna graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in
Firenze, nella quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare; accioché quivi,
dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi medesimo per la coronazione prendesse il
secondo. Ma cosí andò che, quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni parte,
ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea pigliare (la quale non iscienzia accresce,
ma è dell'acquistata certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non doveva
essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza il molto disiderato onore avere, si morí.
Ma, percioché spessa quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta, e donde sia
questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati i poeti, e da pochi pare essere stato mostrato;
mi piace qui di fare alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari, tornando, come
piú tosto potrò, al proposito.
XXI
DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse, ardentissima fu di
conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La
quale veggendo il cielo muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo ordine e
diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá dovere essere alcuna cosa, dalla quale
tutte queste cose procedessero, e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia da niun'altra
potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta, s'immaginarono quella, la quale
«divinitá» ovvero «deitá» nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome di questa suprema potenzia,
ampissime ed egregie case, le quali ancora estimarono fossero da separare cosí di nome, come di
forma separate erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e nominaronle
«templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar] ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra
mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per maturitá, per etá e per
abito, piú che gli altri uomini, reverendi; gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in
rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue, e a'
servigi di quella vasellamenti d'oro e mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai
pertinenti a' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenzia tacito onore o quasi
mutolo non si facesse, parve loro che con parole d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro
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necessitá rendere propizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra cosa di
nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero parole
degne di ragionare dinanzi alla divinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a
questo, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi
numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed esquisita e nuova convenne che si
facesse. La qual forma li greci appellano «poetes»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
fatto fosse s'appellasse «poesis»; e quegli, che ciò facessero o cotale modo di parlare usassono, si
chiamassero «poeti».
Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per consequente de' poeti,
comeché altri n'assegnino altre ragioni, forse buone: ma questa mi piace piú.
Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a diverse invenzioni nel
mondo multiplicante per apparere; e dove i primi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti
molte esserne, comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il principato; le quali
molte vollero che fossero il Sole, la Luna, Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti,
dagli loro effetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero a mostrare ogni cosa utile
agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá essere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti.
Alle quali tutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentemente cominciarono
diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta
della sua contrada maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge, ché non
l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della quale piú uno che un altro era dotato;
dando alla loro vita e alli loro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo con
le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e a chiamarsi re; e mostrarsi alla
plebe e con servi e con ornamenti non usati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e
ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza troppa difficultá avvenia;
percioché a' rozzi popoli parevano, cosí vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non
fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede di quelle a
impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli li quali non vi si
sarebbono potuti con forza costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri, li loro
avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose
non si poterono comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliare la loro fama, sí
per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a
ciascuno; quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione contrario, con fizioni varie e
maestrevoli, male da' grossi oggi non che a quel tempo intese, facevano credere quello che li
prencipi volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati
fingevano, quello medesimo stile che nel vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi
usato. Da questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli degl'iddii; donde nacque il
cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con
quegli degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra dette, uficio ed esercizio di
ciascuno poeta. E percioché molti non intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che
solamente un fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere teologia
dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si coronino i poeti.
XXII
DIFESA DELLA POESIA
Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggiermente
potremo vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le
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vestigie dello Spirito santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di
molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito
tempo per opera, senza alcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi
ragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dallo imitato, sotto
coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano
o che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che, come che ad uno fine
l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del trattare, al che piú guarda al presente
l'animo mio, ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le parole. Il
quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir si puote, cioè che essa in un
medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'ora coll'uno
gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde li pargoletti nutrichi, e in
occulto serva quello onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese.
Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano e profondo, nel quale il piccioletto
agnello con gli piè vada, e il grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare
delle cose proposte.
Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna
istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre
maniere assai, mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose
occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto,
per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e
resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti
nelle loro opere, le quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando con
trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni
delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accioché pervenire
possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non
conosceano, somma salute credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel
quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra
creatura fu pura, e che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per la visione veduta da
Nabucodonosor, nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare
tutte le preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra, dovere summergersi; e la
cristiana religione, nata di questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti
veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem dichiarare.
Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e quegli, fuori che
quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale fizione farci sentire, se non per Saturno il
tempo, nel quale ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di tutte
corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove,
cioè l'elemento del fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere, mediante la
quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento
dell'acqua; e il quarto e ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che alcuno altro
elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in
lupo: moralmente volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule, l'uomo
diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente operando, come Licaone fece, quantunque
egli paia uomo, nel vero si può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto piú
simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per avarizia, le quali a lupo sono molto
conformi, si finge in lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campi
elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá di Dite, per la quale prendo
l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi, tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,
seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che in Dite ci farieno trarupare. Io
lascio il tritare con piú particulari esposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe e
potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli ne divenissero e piú facessero forte il mio
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argomento, dubito non mi tirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e che io
non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quello ch'è detto, assai si dovrebbe
comprendere la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto
dico quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna parte: percioché il
suggetto della sacra teologia è la divina veritá, quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli
uomini. Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne
suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed erronee e contra la cristiana religione. Ma,
percioché alcuni disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna veritá
consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole dovevano la loro sofficienzia
mostrare e a' mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
ragionamento.
Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia, quelle d'Ezechiel e
degli altri del Vecchio Testamento con divina penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu
principio né sará fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, piene agl'intendenti di
mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto
nella corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole
da non potere dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in
quanto la loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei passare; conoscendo
che, mentre che essi mattamente gli poeti riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare
quello Spirito, il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto intendo di
soddisfargli.
Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere alquanto piú di dolcezza che
quella che vien senz'affanno. La veritá piana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e
passa nella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piú grata, e perciò meglio si
conservasse, li poeti sotto cose molto ad essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole
fecero, piú che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li quali né le dimostrazion
filosofiche, né le persuasioni avevano potuto a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo
ch'essi sieno stati uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non sappiendo che, gli
giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel
frutto nascoso, e d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi apparenti. Ma
torniamo dove lasciammo.
Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il
suggetto; anzi dico piú, che la teologia niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che
poetica fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando
drago e quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo?
che altro suonano le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi alieno? il
quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo «allegoria». Dunque bene appare, non
solamente la poesí essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie parole
meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma credasi ad Aristotile, degnissimo
testimonio a ogni gran cosa, il quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi
teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perché a' poeti solamente,
tra gli scienziati, l'onore della corona dell'alloro conceduto fosse.
XXIII
DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte, li greci si crede che sieno
quegli alli quali primieramente la filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi
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trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose assai, per le quali essi oltre a ogni altra
nazione divennero famosi e reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la
santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta; e accioché la loro republica, la
quale piú che altra allora fioriva, diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i
meriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra gli altri meriti stabiliti da
loro a chi bene adoperasse, fu questo il precipuo: di coronare in publico, e con publico
consentimento, di frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e gl'imperadori, li quali
vittoriosamente avessero la republica aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui
per la cui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da cui le divine eran trattate.
E comeché di questo onore li greci fossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria e
l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e ancora, almeno nelle
coronazioni de' poeti, comeché rarissimamente avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú
il lauro che altra fronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.
XXIV
ORIGINE DI QUESTA USANZA
Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e in lauro convertita,
essendo Febo e il primo autore e fautore de' poeti stato e similmente triunfatore, per amore a quelle
frondi portato, di quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato preso esempio
dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da Febo fu prima fatto, cagione di tale
coronazione e di tai frondi infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale opinione
non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttavia me muove altra ragione, la quale è
questa. Secondo che vogliono coloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro natura
investigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha tre laudevoli e notevoli molto: la prima si è,
come noi veggiamo, che mai egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non si
truova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro leggiamo essere avvenuto; la
terza, che egli è odorifero molto, sí come noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichi
inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e de' vittoriosi imperadori. E
primieramente la perpetua viriditá di queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere,
cioè di coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre dovere stare in vita.
Appresso estimarono l'opere di questi cotali essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia,
né la folgore della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai queste potere
fulminare, se non come quello albero fulminava la celeste folgore. E oltre a questo diceano queste
opere de' giá detti per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a chi
l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e odorose. Laonde meritamente si
confaceva la corona di cotai frondi, piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto
vedere possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro Dante era ardentissimo
disideratore di tale onore ovvero di cotale testimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali
degni si fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde, intrando in questo, ci
dipartimmo.
XXV
CARATTERE DI DANTE
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Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e disdegnoso molto; tanto che,
cercandosi per alcun suo amico, il quale ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse
ritornare in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava, né trovandosi a
ciò alcun modo con coloro li quali il governo della republica allora aveano nelle mani, se non uno,
il quale era questo: che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna solennitá
publica fosse misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per conseguente libero
e fuori d'ogni condennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogli convenirsi e usarsi in
qualunque e depressi e infami uomini, e non in altri: per che oltre al suo maggiore disiderio,
preelesse di stare in esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno laudevole di
magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l'ardente disio del ritornare per via meno che
degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato!
Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che li suoi
contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente,
mentre ch'egli era con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,
conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato, mediante Bonifazio papa
ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra cittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di
Francia, il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere a questo fatto tutti li
prencipi della setta, con la quale esso tenea; e quivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si
dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto papa a dovere
ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con concordia della setta, la quale reggeva, far venire.
E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per tutti detto che Dante
fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto sopra a sé stato, disse: - Se io vo, chi rimane? se io
rimango, chi va?, - quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero.
Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito, e
però, passando avanti, il lascio stare.
Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitá fortissimo: solo in una
cosa non so se io mi dica fu impaziente o animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio
fu, troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non volea che di lui per altrui si
credesse. E accioché a qual parte fosse cosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere
alquanto piú oltre scrivendo.
Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasi tutta Toscana e
Lombardia in due parti dividersi: delle quali, onde cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si
chiamò e chiama «parte guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia
furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse
eletto per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita, se
bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte le cittá italiche sostennero di
gravissime pressure e mutamenti; e intra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome e
dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli maggiori di Dante per guelfi da'
ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i
freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato è, non da' ghibellini ma da'
guelfi, e veggendo sé non potere ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'
guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno in servigio della sua memoria è
che publichissima cosa è in Romagna, lui ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte
e dannante la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le pietre l'avrebbe condotto,
non avendo taciuto. E con questa animositá si visse infino alla morte.
Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di cotanto uomo; ma il
cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli
in lui, mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo adunque mi scuso,
il quale per avventura me scrivente con isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo
mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne'
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maturi. Il quale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che
commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sará tra' mortali giusto giudice a
condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le
femmine in noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la
vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre cose assai continuamente per loro ne' cuori degli
uomini procuranti; e che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule per
Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetiche cose sono, molti di poco sentimento le
dirien favole; ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo
piú che una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamento fattogli dalla propia
bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse,
solamente veduta Bersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, e adultero prima
e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse
comandato? E Salomone, al cui senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina s'inginocchiò e adorò Baalim?
Che fece Erode? che altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e
tali non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può passare il nostro poeta. E
questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili avere contato.
XXVI
DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE
Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali fare ordinata memoria
credo che sia convenevole, accioché né alcuno delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura
intitolate l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi
nel suo ventesimosesto anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe
operette, sí come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente
belle; di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare
l'avean mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli d'avere
questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua etá,
è egli assai bello e piacevole, e massimamente a' volgari.
Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá del governo della
republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede,
qual fosse la vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come fossero pochi i disvianti
da quello e di quanto onore degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta
confusione; dannando gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne
nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando
la sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi
onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è mostrato, egli aveva a ogni
studio preposta la poesia, poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato
quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò
che davanti premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua
diversitá, la vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da'
vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa; quella in tre libri, dal mordere la viziosa
cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale tutto
intitolò Comedia. De' quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per rittimi, sí come
chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí
bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno atto riprendere. Quanto
sottilmente egli in esso poetasse pertutto, coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il
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possono vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo comprendere,
e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti
degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati racchiudere, non essere
stato possibile in picciolo spazio avere al suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da
molti e vari casi della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia stato agitato
(come di sopra mostrato è che fu Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto
lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá, non ostante
questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare
d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá della prima parte di quello,
la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come
gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti non fatta;
sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale
egli e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e
signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone
niuna cosa contraria la fortuna potere operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla
possa dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando
fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che
tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta vendetta,
corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione, non
sappiendo che si fossero, lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo
dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli
tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo
d'alto intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò sí per lo bello e pulito e
ornato stile del dire, sí per la profonditá del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli
pareva sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sí ancora
per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E,
dolendosi quella essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a qual fine
fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan,
mandargli, accioché, se possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo
dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese
scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai
intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui
opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese
che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto principio. - Certo - disse Dante, - io mi
credea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per
questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio sopravvenute, del tutto
avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me
gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria il primo proposito, e
procederò secondo che data mi fia la grazia. - E reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la
fantasia lasciata, seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai manifestamente, chi
ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo che molti
estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá
de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa,
mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta
publicare la potesse. Egli era suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea, quegli,
prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale
egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la
ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e
quegli avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
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lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e discepoli, piú volte e in piú mesi, fra
ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti
residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto
prestato al mondo ch'egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú
cercare, non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per
persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna
opera, accioché imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto piú che l'altro
fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma
gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non
saputi trovare.
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente
discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino
all'ora che noi chiamiamo «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi
vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a
questo, gli pareva ancora domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera
vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare.
A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: - Sí, io la compie' -; e quinci gli parea che 'l
prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita
vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: - Egli è qui quello che voi tanto avete cercato. - E
questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa
affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva
segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa,
restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono
una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel muro una finestretta da niuno
di loro mai piú veduta, né saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per
l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state vi fossero; e quelle
pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati.
Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima gli mandarono a
messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l'opera,
in molti anni compilata, si vide finita.
Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una quistione cosí fatta: che
conciofossecosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí
alta materia e sí notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse;
perché non piú tosto in versi latini, come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda
rispondere, tra molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la prima è per
fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri italiani: conoscendo che, se metricamente in
latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto utile; scrivendo
in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da' letterati, e
mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di
sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il
mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente da' prencipi e
dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine
opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco pregio divenute, ma quasi
da' piú disprezzate; avendo egli incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in
questa guisa:
Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
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spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt
pro meritis cuicumque suis, ecc.
il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla bocca di coloro che ancora il
latte suggano, in istile atto a' moderni sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi
uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte,
cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era
mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello
Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui
averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa
altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran fatto che solenne
investigazione ne bisogni.
Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo imperadore fece un libro in
latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in
tre libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di
necessitá essere imperio; la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi
procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda quistione. Nel
terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e
non mediante alcuno suo vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer Beltrando cardinale del
Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la
cagione fu però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de' romani, e
venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in
Roma, fece contra gli ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara,
papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi
della sua autoritá quistione, egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé
molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino
allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e
li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi; il detto cardinale, non
essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche
contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'autore a eterna infamia
e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere
fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e
con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le quali furono intitolate e
mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di
sopra altra volta è fatta menzione.
Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue canzoni
distese, comeché egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il cominciò, di commentarle
tutte, benché poi, o per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse, piú
commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò Convivio, assai bella e laudevole operetta.
Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa latina, il quale egli
intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire
in rima; e comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere in ciò comporre
quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non
appariscono che due solamente.
Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino, delle quali ancora
appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre
a quelle che nella sua Vita Nova appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial menzione al
presente.
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In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il chiarissimo uomo quella parte
del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare: opere troppo piú a Dio e agli
uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo termine, cioè il divenire
ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve
particella di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche
annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del
ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta certo non
avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici addivenire, che per l'usargli diventan
piú chiari, cosí avverrá del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá piú
lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli l'esser lasciato fare, senza volere, con
riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.
XXVII
RICAPITOLAZIONE
Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e' costumi, e quali sieno
l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa,
facendo transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ben so,
per molti altri molto meglio e piú discretamente si saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú
non gli è richiesto. Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a un altro, che
meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi forse, se io in parte alcuna ho errato, darò
materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno truovo averlo
fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una particella, nel processo promessa di questa
operetta, mi resta a dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui era gravida,
veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente saprò e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine
al ragionare.
XXVIII
ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo alloro, allato a una chiara
fontana partorire un figliuolo, il quale di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle
bache di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran pastore e vago molto delle
frondi di quello alloro sotto il quale era; alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli
cadesse; e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere. Dalla qual maraviglia
la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di lui piú avanti, il dolce sonno.
XXIX
SPIEGAZIONE DEL SOGNO
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La divina bontá, la quale ab aeterno, sí come presente ogni cosa futura previde, suole, da
sua propra benignitá mossa, qualora la natura, sua generale ministra, è per producere alcuno
inusitato effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno o in sogno o in altra
maniera farci avveduti, accioché dalla predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza
consistere nel Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione, se ben si
riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel mondo. E a quale
persona la poteva egli fare che con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che della
cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna. Mostrollo dunque a lei, e quello
ch'egli a lei mostrasse ci è giá manifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse con
piú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un figliuolo, e certo cosí fece ella
infra picciolo termine dalla veduta visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il
partorisce, è da vedere.
Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertú e influenzia de' corpi
superiori gl'inferiori e producersi e nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata
non resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia piú possente nel grado che
sopra l'orizzonte sale in quella ora che alcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi
secondo le sue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro, sotto il quale alla
donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la disposizione del cielo
la quale fu nella sua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenzia poetica
dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore di Febo, e delle cui fronde li poeti sono usi di
coronarsi, come di sopra è giá mostrato assai.
Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli effetti da cosí fatta
disposizione di cielo, quale è mostrata, giá proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro
dottrine, da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro Dante.
Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse, niuna altra cosa giudico che
sia da intendere se non l'ubertá della filosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla
ubertá nascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dalle copiose ragioni
dimostrative, che terrena ubertá si possono dire, prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí
come il cibo non può bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può alcuna
scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici dimostramenti non v'è ordinata e
disposta. Per che ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la filosofia, disporre
nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come
giá è detto, con tutta la sua sollecitudine studiava.
Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo ingegno, in quanto
subitamente; il quale fu tanto e tale, che in brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che
opportuno era a divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò bisognosi. E sí come
assai leggermente ciascuno può comprendere, due maniere sono di pastori: l'una sono pastori
corporali, l'altra spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la prima è quella di
coloro che volgarmente da tutti sono appellati «pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o
di qualunque altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla sollecitudine de'
quali convegnono essere e pasciuti e guardati e governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e
degli altri suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire di due maniere, delle
quali l'una è quella di coloro li quali pascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono
i prelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime labili di qualunque
sotto il governo a ciascuno ordinato dimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o
leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo ciò che loro pare o non tanto
chiaro mostrato o omesso, informano e l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali
generalmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Di questa maniera di pastori
subitamente, cioè in poco tempo, divenne il nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre
opere compilate da lui, riguardisi la sua Comedia, la quale con la dolcezza e bellezza del testo
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pasce non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi
sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e pasce gli solenni intelletti.
Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha nutricato, niun'altra cosa ne
mostra che l'ardente disiderio avuto da lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per
nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali frondi mentre ch'egli piú
ardentemente disiderava, lui dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello
cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di
sopra è detto, gli avvenne quando piú la sua laureazione disiava.
Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un paone; per lo qual
mutamento assai bene la sua posteritá comprendere possiamo, la quale, come che nell'altre sue
opere stea, sommamente vive nella sua Comedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è
conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altra si guarderanno. Il paone tra l'altre sue
propietá, per quello che appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna angelica, e in
quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha
voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile.
Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comedia del nostra poeta; ma, percioché acconciamente
l'ordine posto di quelle non si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altra le verrò
adattando, e comincerommi da l'ultima.
Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del paone, percioché esso, o
morale o teologo che tu il déi a quale parte piú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la
quale non solamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca, maggiore odore della
sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti. E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero,
se la presente materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne agl'intendenti.
Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», non perché io sappia se
cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo
che gli angeli volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra questi nostri
uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quella del paone, imagino loro cosí doverle avere
fatte; e però non quelle da queste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello è
l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si cuopre, intendo la bellezza della
peregrina istoria, che nella superficie della lettera della Comedia suona: sí come l'essere disceso in
inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna
del purgatorio, udite le lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi salito in
paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da
alcuno piú non fu pensata non che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono il paone
avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosí provvedutamente distinguono le varietá del trattato
opportune, come gli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette. Dunque bene è
d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose ottimamente
alla Comedia del nostro autore si confanno, percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo
si sostenga, cosí prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si
sostenga: e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a
rispetto dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è sozzo, comeché egli sia
piú che gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il
quale nelle commedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono che vuole dire
«comedia».
Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come che la soavitá delle parole
del nostro poeta sia molta quanto alla prima apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle
dentro ragguarderá, ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quando con
invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de' preteriti gastiga? Qual voce è piú
orrida che quella del gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'ora colle sue
dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual cosa quanto in questo adopera,
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tanto veramente orrida voce si può dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto paone, sí come credere si
puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla cara madre.
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere assai
superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni. Primierarmente, perché forse la
sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
principale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienzia ci fosse stata e la materia
l'avesse patito, era ben fatto da me non essere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di me
sofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto n'è, quanto
a me dee convenevolmente bastare, e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.
XXX
CONCLUSIONE
La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò la proda partendosi dallo
opposito lito: e comeché il peleggio sia stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e
tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono da rendere grazie a Colui
che felice vento ha prestato alle sue vele. Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con
quella affezione che io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno, ma quelle
che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'l suo valore.
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II
REDAZIONI COMPENDIOSE
DELLA VITA DI DANTE
(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
AVVERTENZA
Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sono riferite a piè di pagina.
I
PROPOSIZIONE
Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, e le cui sacratissime
leggi sono ancora testimonianza dell'antica giustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono
alcuni, usato talvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due piedi; de' quali
con maturitá affermava essere il destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro
ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senza dubbio da
quel piè la republica zoppicare.
Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichi popoli, alcuna volta di
deitá, altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o
d'altra spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito agrissime pene a'
colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria, la macedonica e ultimamente la romana republica
aumentate, con l'opere li fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de' quali non
solamente da' successor presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono mal seguite, ma in tanto
s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosa
occultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato al chiarissimo uomo Dante Alighieri,
uomo di sangue nobile, ragguardevole per scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso
onore. Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia intenzione di volere
insistere con debite riprensioni, ma piú tosto in quella parte, che le mie piccole forze possono,
quella emendare; percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] son cittadino, e agli onor
d'essa mi conosco in solido obbligato.
Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valoroso cittadino magnificamente
operare, accioché in tutto non sia detto noi esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con
istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spenta l'usanza, né all'altra
basterieno le mie facultadi, ma con povere lettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione
che d'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assai umile e leggiero, peroché
piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante
medesimo usò nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le quali esso di sé
onestamente tacette, cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo
appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri. Il che accioché
compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui, il quale di spezial grazia lui trasse, come
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leggiamo, per sí alta scala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloria del suo
santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegno mio.
II
PATRIA E MAGGIORI DI DANTE
Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generale opinione de' presenti,
ebbe inizio da' romani; e in processo di tempo aumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente
parendo, o contrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero, non dopo molti secoli
da Attila, crudelissimo re de' vandali e general guastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini
uccisi, quella ridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimo anno, e Carlomagno,
clementissimo re de' franceschi, essendo all'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per
propio movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da alcuni, che il detto Carlo alla
reedificazione della detta cittá l'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'erano
stati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola, quanto poterono, sí come ancora
appare, a Roma la fêr simigliante, seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de'
discendenti degli antichi scacciati si potêr ritrovare.
Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori un giovane, per origine
de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che che cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo
cittadino; del quale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'antico cognome ritennero,
ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio, prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di
tempo in tempo e d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere per arme e per
senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; il quale per isposa ebbe una donzella nata degli
Aldighieri di Ferrara, della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altri nominati si
fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare il nome de'
suoi maggiori, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,
rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, che disceser di lui, di lasciare il titolo
degli Elisei e di cognominarsi degli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti e de'
nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondo imperadore, uno ne nacque, il quale dal
suo avolo nominato fu Alighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questi nella sua
donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone. Né pretermise il nostro signore Iddio,
che alla madre nel sonno non dimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso e
non curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui, che nascer doveva di lei,
chiarissimamente si manifestò, sí come con la grazia di Dio mostreremo vicino al fine della
presente operetta.
Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futura chiarezza della nostra
cittá, e di pari consentimento il padre ed ella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il
nominaron Dante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere di maravigliosa
dottrina datore.
III
SUOI STUDI
Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante il romano
imperio per la morte di Federigo, negli anni della salutifera incarnazione del Re dell'universo
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MCCLXV, sedente Urbano papa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna: lieta,
dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nella sua puerizia cominciò a dare, a chi
avesse a ciò riguardato, manifesti segni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata
ogni pueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto si diede alle liberali arti, e, in
quelle giá divenuto esperto, non alle lucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di
guadagnare s'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua fama tratto, alle
speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare, era dal ciel produtto, a vedere con aguto
intelletto e le fizioni e l'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, non trovandogli
semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimo divenne di tutti, e massimamente de' piú
famosi. E, come giá è detto, conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, come
molti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche aver nascosti, accioché
piena notizia n'avesse, e alle istorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giá
divenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza del conoscere la veritá delle cose,
la vaghezza del piú sapere, a voler investigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere
delle celestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudine tutto si diede. Né questi studi
in picciol tempo sí feciono, né senza grandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola
s'acquistò il frutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'l suo alto intelletto
disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempo vi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non
gli parve grave l'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria di sé, disputando,
piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di
tanti e sí fatti studi non ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: percioché alcuni assai
chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro», altri l'appellavan «filosofo», e di tali
furono che «teologo» il nominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí come
ancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piú gloriosa quanto le forze del vinto
sono state maggiori, giudico esser convenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare
costui, ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente le traverse onde e i contrari venti
vincendo, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimi titoli giá narrati.
IV
IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI
Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudine disiderare e
tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a' quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in
quanto la possibilitá permetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo
inizio della sua puerizia infino allo stremo della sua vita, Dante ebbe fierissima e importabile
passion d'amore. Ebbe oltre a ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sieno dello
studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della re familiare e oltre a ciò della republica, e,
sopr'a tutte queste, lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altre particulari
noie, che queste si tirano appresso. Le quali, per mostrare quanta in sé superficialmente di gravezza
portassono e accioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudico convenevole sia
alquanto piú distesamente spiegarle.
V
AMORE PER BEATRICE
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Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come il dolce tempo della
primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno per distinte compagnie festeggiare. Per la qual
cosa infra gli altri Folco Portinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoi vicini
nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era il sopradetto Alighieri; e lui, sí come far
sogliono i piccoli figliuoli i lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante, la cui
etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altri della sua etá, che nella casa erano,
puerilmente si diede a trastullare.
Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la quale di tempo non passava
l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne' suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue
parole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La quale riguardando Dante e una e
altra volta, con tanta affezione, ancor che fanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai
altro sopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté né cacciare. E, lasciando stare
de' puerili accidenti il ragionare, non solamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno
l'amore, non avendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di veder costei, gli fu in
piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amare lagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come
egli in parte nella sua Vita nuova dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosí fatti
amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirlo da trapassare. Fu questo amor di
Dante onestissimo, qual che delle parti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque,
almeno dalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola, niun cenno, niun
sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne vide giammai. Che piú? Dal viso di questa giovine
donna, la quale non Bice, ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nel petto
suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Delle quali, sí come manifestamente appare,
in sonetti, ballate e canzoni e altri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamente
compose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta di gran lunga la fama a'
dicitor passati, mise in opinion molti che niuno nel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse
avanzare.
VI
DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE
Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal non potere aver veduto,
quanto il concupiscibile appetito disiderava, il grazioso viso della sua donna; ma troppo piú
ponderosi gliele serbava quella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'l doveva
privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suo vigesimoquarto anno la bellissima
Beatrice, piacque a Colui che tutto puote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua
eterna gloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne il nostro Dante, che, oltre a'
sospiri e a' pianti continui, assai de' suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono.
Lunghe furono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni conforto datogli tenne gli
orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempo maturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e
facendo alquanto la passion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordare che morta
fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchi a' conforti; ed essendo lungamente stato
rinchiuso, incominciò ad apparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionato il
nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri obietti in piú matura etá troviam
lui sovente aver sospirato, e massimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,
la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo della sua vita, nell'alpi di Casentino
per una alpigina, la quale, se mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, per
qualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose in rima.
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VII
MATRIMONIO DI DANTE
Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificar può ciascuno che a tal
passione è soggiaciuto; percioché, poi che con lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di
chi nel principio non l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niuna meditazione, niuno
appetito in quella patisce che stea se non quelle sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti
queste siano e come contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sí manifesto mi
pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a piú chiarirlo.
A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché, poi che, allenate le
lagrime della morte di Beatrice, diede agli amici suoi alcuna speranza della sua vita, incontanente
loro entrò nell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se ne potesse cacciare,
che, benché partita del mondo fosse, gli avea nel petto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui
a ciò inclinato, senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.
Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio; e questo avverrá
perché non considereranno quanto pericolo porti lo spegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a
Dante l'amore, il quale a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse volte noioso e
grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero, alcuna dolce speranza, qualche dilettevole
imaginazion ne traeva; dove della compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'l
pruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senza intermission non si trae. Ma lasciamo
star quello che la moglie in qualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la
presente materia richiede.
VIII
DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO
Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puote apparire a' riguardanti.
Rincresce spesse volte a' filosofanti la turba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in
alcuna solitaria parte della sua casa, sé contra sé con la considerazion trasportando, talvolta
ragguarda quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali, quali sieno delle cose le
prime cagioni; e talvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi col pensiero, con
Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altri disputerá della veritá d'alcuna conclusione
acutissimamente; e spesse fiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la corteccia d'alcuna
poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto sia diverso lo 'ntrinseco dalla crosta
riguarderá. Né fia che non avvenga, quando vorrá, che gl'imperadori eccelsi, i potentissimi re e
prencipi gloriosi con lui nella solitudine non si convengano, e con lui ragionino de' governamenti
publici, dell'arti delle guerre e dei mutamenti della fortuna. Alle quali eccelse e piacevoli cose
sopravverrá la donna e, cacciata via la contemplazion laudevole e tanta e tal compagnia, biasimerá
il suo star solitario e 'l suo pensiero, e spesse volte, sospicando, dirá questo non solergli avvenire
avanti ch'ella a lui venisse, e però assai manifestamente apparire lui esser di lei pessimamente
contento. E, postasi quivi a sedere, non prima si leverá che, esaminati i pensieri del marito, lui di
piacevolissima considerazione in noiosa turbazione avrá recato. Che dirò dell'odio ch'elle portano a'
libri, qualora alcuno ne veggiono aprire? che delle notturne vigilie, non solamente utili, ma
opportune agli studianti? Tutto a' suoi diletti quel tempo esser tolto, lagrimando, confermano.
Lascio le notturne battaglie, li loro costumi gravi a sostenere, la spesa inestimabile che nelli loro
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ornamenti richeggiono: tutte cose, quanto esser possono, avverse a' contemplativi pensieri. Che dirò
se gelosia v'interviene? che, se cruccio che per lunghezza si converta in odio? Io corro troppo
questa materia, percioché bastar dee agl'intendenti averne superficialmente toccato. Ma, chenti che
l'altre si sieno, accioché io quando che sia mi riduca al proposito, tal fu quella che a Dante fu data,
che, da lei una volta partitosi, né volle mai dove ella fosse tornare, né che ella andasse lá dove egli
fosse. Né creda alcuno che io per le sudette cose voglia conchiuder gli uomini non dover tôrre
moglie; anzi il lodo, ma non a tutti. I filosofanti, che 'l mio giudicio in questo seguiteranno,
lasceranno lo sposarsi a' ricchi stolti e a' signori e similmente ai lavoratori; ed essi con la filosofia si
diletteranno, molto piú piacevole e migliore sposa che alcuna altra.
IX
CURE FAMILIARI E PUBBLICHE
Tirò appresso di sé lo stimolo della moglie al nostro poeta un'altra quasi inevitabil gravezza,
e questa fu la sollecitudine d'allevare i figliuoli, percioché in brieve tempo padre di famiglia
divenne; e, strignendolo la domestica cura, quel tempo, che alle eccelse meditazioni, soluto, soleva
prestare, costretto da necessitá, conveniva che egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salari
delle nutrici venire, i vestimenti de' figliuoli, e l'altre cose opportune a chi piú secondo la opinion
del vulgo che secondo la filosofica veritá convien che viva. Il che quanto d'impedimento alli suoi
studi prestasse, assai leggermente conoscer si dee da ciascuno.
Da questa per avventura ne gli nacque una maggiore; percioché l'altiero animo avendo le
minor cose in fastidio, e per le maggiori estimando quelle potersi cessare, dalla familiar cura
transvolò alla publica: nella qual tanto e subitamente sí l'avvilupparono i vani onori, che, senza
guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate redine, messa la filosofia in oblio,
quasi tutto della republica con gli altri cittadin piú solenni al governo si diede. E fugli tanto in ciò
alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte le maggior cose occorrenti la sua diliberazion
s'attendeva. In lui tutta la publica fede, in lui tutta la speranza publica, in lui sommariamente le
divine cose e l'umane parevano esser fermate. Che questa gloria vana, questa pompa, questo vento
fallace gonfi maravigliosamente i petti de' mortali; e gli atti e portamenti di coloro, che ne'
reggimenti delle cittá son maggiori, e il fervente appetito, che di quegli hanno generalmente gli
stolti, assai leggermente agli occhi de' savi il possono dimostrare. E come si dee credere che intra
tanto tumulto, intra tanto rivolgimento di cose, quanto dee continuamente essere nelle gonfiate
menti de' presidenti, deano potere aver luogo le considerazion filosofiche, le quali, come giá detto
è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuositá fu il nostro Dante inviluppato piú anni, e
tanto piú che un altro, quanto il suo disiderio tutto tirava al ben publico, dove quello degli altri o
della maggior parte tirannescamente al privato badava: per che, oltre all'altre sollecitudini, in
continua battaglia esser gli conveniva. Ma la fortuna, volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni
umano stato, assai diverso fine pose al principio. Al qual voler dimostrare, un pochetto s'amplierá la
novella.
X
COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE
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Era ne' tempi del glorioso stato del nostro poeta la fiorentina cittadinanza in due parti
perversissimamente divisa, alle quali parti riducere ad unitá Dante invano si faticò molte volte. Di
che poi che s'accorse, prima seco propose, posto giú ogni uficio publico, di viver seco
privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tratto e dal favor popolesco, e ancora dalle persuasioni
de' maggiori, sperando di potere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene adoperare, lasciò la
disposizione utile e perseverando seguitò la dannosa. E, accorgendosi che per se medesimo non
poteva una terza parte tenere, la quale, giusta, la ingiustizia dell'altre due abbattesse, con quella
s'accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era meno di malvagitá. E, aumentandosi per vari
accidenti continuamente gli odii delle parti, e il tempo vegnendo che gli occulti consigli della
minacciante fortuna si doveano scoprire, nacque una voce per tutta la cittá: la parte avversa a
quella, con la qual Dante teneva, grandissima multitudine d'armati in disfacimento de' loro
avversari aver nelle case loro. La qual cosa creduta spaventò sí i collegati di Dante, che, ogni altro
consiglio abbandonato che di fuggire, non cacciati s'usciron dalla cittá e, con loro insieme, Dante.
Né molti dí trapassarono che, avendo i lor nemici il reggimento tutto della cittá, come nemici
publici tutti quegli, che fuggiti s'erano, furono in perpetuo esilio dannati, e i lor beni ridotti in
publico o conceduti a' vincitori.
XI
LA VITA DEL POETA ESULE
SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO
Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di Dante, e da' suoi cittadini le sue pietose fatiche
questo merito riportaro. Lasciati adunque la moglie e i piccioli figliuoli nelle mani della fortuna, e
uscito di quella cittá, nella qual mai tornar non dovea, sperando in brieve dovere essere la ritornata,
piú anni per Toscana e per Lombardia, quasi da estrema povertá costretto, gravissimi sdegni
portando nel petto, s'andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggí a Verona. Quivi dal signor della
terra e ricevuto e onorato fu volentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempo
fu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese Moruello Malespina in Lunigiana. E
ancora per alcuno spazio fu co' signori della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino. Quindi n'andò a
Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si ritornò a Verona. Ma, essendo giá dopo la
sua partita di Firenze piú anni passati, né apparendo alcuna via da potere in quella tornare,
ingannato trovandosi del suo avviso, e quasi del mai dovervi tornar disperandosi, si dispose del
tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come poté se n'andò a Parigi, accioché, quivi a suo
potere studiando, alla filosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea, restituisse.
Udí adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non senza gran disagio delle cose opportune
alla vita. Da questo il tolse una speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forza d'Arrigo
di Luzimborgo imperadore. Per che, lasciati gli studi e in Italia tornatosi, e con certi rubelli de'
fiorentini congiuntosi, con loro insieme con prieghi, con lettere e con ambasciate s'ingegnò di
rimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia e di conducerlo intorno alla sua cittá, estimando
quella contro a lui non potersi tenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso essere
stato vano. Assediò Arrigo la cittá di Fiorenza; e ultimamente, vana vedendo la stanza, se ne partí e,
non dopo molto tempo passando di questa vita, ogni speranza ruppe nel nostro poeta, il quale in
Romagna se ne passò, dove l'ultimo suo dí, il quale alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava.
XII
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DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA
Era in que' tempi signor di Ravenna, antichissima cittá di Romagna, un nobile cavaliere, il
cui nome era Guido Novel da Polenta, ne' liberali studi ammaestrato e amatore degli scenziati
uomini. Il quale, udendo Dante, cui per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperato
essersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi nel domandare, con liberale
animo si fece incontro al suo bisogno, e lui, di ció volonteroso, onorevolmente ricevette e tenne,
infino all'ultimo dí di lui.
Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrari agli studi fosse infestato il
nostro poeta. Il quale né gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né la
sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici, né il súbito e impetuoso
mutamento della fortuna, né le faticose circuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile
povertá, tutte imbolatrici di tempo agli studianti, non poterono con le lor forze vincere, né dal
principale intento rimuovere, cioè da' sacri studi della filosofia, sí come assai chiaramente
dimostrano l'opere che da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studi de' quali non
bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve? che coloro, a' quali è riposo continuo, e a'
quali l'ampie facultá senza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloro che,
soluti da moglie e da figliuoli, liberi posson vacare a' lor piaceri? De' quali assai sono che, se ad
agio non sedessero, o udissero un mormorio, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, né
scrivere, se non stasse il gomito riposato. Certo niuna altra cosa potranno dire, se non che il nostro
poeta, e per gli impeti superati e per l'acquistata scienza, sia di doppia corona da onorare. Ma da
ritornare è alla intralasciata materia.
XIII
MORTE DI DANTE
Abitò adunque Dante in Ravenna piú anni nella grazia di quel signore, e quivi a molti
dimostrò la ragione del dire in rima, la quale maravigliosamente esaltò. Ed essendo giá al
cinquantesimosesto anno della sua etá pervenuto, infermò, e come fedel cristiano riconciliatosi, per
vera contrizione e confessione delle colpe commesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni
di Cristo MCCCXXI, il dí che la esaltazione della santa Croce si celebra, passò della presente vita.
La cui anima creder possiamo essere stata nelle braccia della sua nobile Beatrice ricevuta e
presentata nel cospetto di Dio, accioché quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatiche
passate.
Fu la morte del nostro poeta al magnifico cavaliere assai gravosa. Il quale, fatto il corpo del
defunto ornare d'ornamenti poetici, e quello porre sopra un funebre letto, sopra gli omeri de' piú
eccellenti ravignani il fece alla chiesa de' frati minori, con quello onore che a tanto uomo si
conveniva, portare, e quivi in una arca lapidea seppellire, con animo di fargli una egregia e notabile
sepoltura. Quindi alla casa, nella quale era Dante prima abitato, tornandosi, secondo il ravignan
costume, esso medesimo, a commendazione del trapassato poeta e a consolazione de' figliuoli e
degli amici che dopo lui rimanieno, fece uno esquisito e lungo sermone. Ma poi, infra brieve spazio
essendogli tolto lo Stato, cessò il proponimento della magnifica sepoltura; per la qual cosa ancora
in quella arca, dove fu posto, le venerabili ossa dimorano.
XIV
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GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE
Furono in que' tempi piú uomini nell'arte metrica ammaestrati, li quali, sentendo che far si
dovea al corpo di Dante una mirabile sepoltura, fecero versi per porre in quella, testificanti e la
scienza e alcun de' piú memorabili casi di Dante, de' quali niun vi si pose per lo sopradetto
accidente. Nondimeno, piú tempo poi, me ne furono monstrati: de' quali alquanti, fattine dal
maestro Giovanni del Virgilio, sí come piú laudevoli al mio giudicio, ne elessi; ed estimando questa
operetta quello testificare, che in parte avrebbe fatto la sepoltura, di porglici diliberai come segue:
Theologus Dantes nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophia sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
distribuit, laicis rhetoricisque modis.
Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
Atropos heu! laetum livida rupit opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium, vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter septem Numinis annis,
ad sua septembris idibus astra redit.
XV
RIMPROVERO AI FIORENTINI
Sogliono gli odii nella morte degli odiati finirsi; il che nel trapassamento di Dante non si
trovò avvenire. L'ostinata malivolenza de' suoi cittadini nella sua rigidezza stette ferma; niuna
publica lagrima gli fu conceduta, né alcuno uficio funebre fatto. Nella qual pertinacia assai
manifestamente sí dimostrò, i fiorentini tanto essere dal cognoscimento della scienzia rimoti, che
fra loro niuna distinzion fosse da un vilissimo calzolaio ad un solenne poeta. Ma essi con la lor
superbia rimangansi; e noi, avendo gli affanni dimostrati di Dante e il suo fine, all'altre cose che di
lui, oltre alle dette, dir si possono, ci volgiamo.
XVI
FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE
Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle
grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto
curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e
sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona (essendo giá
divulgata per tutto la fama delle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che,
passando egli davanti ad una porta, dove piú donne sedevano, una di quelle pianamente, non però
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tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse all'altre donne: - Vedete colui che va
in inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giú sono! - Alla quale
semplicemente una dell'altre rispose: - In veritá egli dee cosí essere: non vedi tu come egli ha la
barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è lá giú? - Di che Dante, perché da
pura credenza venir lo sentia, sorridendo passò avanti.
Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l'abito conveniente alla maturitá, e il suo
andare grave e mansueto, e ne' domestici costumi e ne' publici mirabilmente fu composto e civile.
Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno piú vigilante di lui e negli studi e in
qualunque altra sollecitudine il pugnesse.
Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo fosse.
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, per vaghezza di quegli,
quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoi contemporanei fu dimestico.
Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostrato di sopra.
Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo che lor poteva concedere,
fu assiduo molto.
Fu ancora Dante di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima, come piú volte nelle
disputazioni in Parigi e altrove mostrò.
Fu similmente d'intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e, secondo che le sue opere
dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili e pellegrine assai.
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura piú che non si appartiene a savio uomo.
Ma qual vita è tanto umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? Questa vaghezza credo
che cagion gli fosse d'amare sopra ogni altro studio quel della poesia, accioché per lei al pomposo e
inusitato onore della coronazion pervenisse. Il quale senza fallo, sí come degno n'è, avrebbe
ricevuto, se fermato nell'animo non avesse di quello non prendere in altra parte, che nella sua patria
e sopra il fonte nel quale il battesimo avea ricevuto; ma dallo esilio impedito e dalla morte
prevenuto, nol fece. Ma, peroché spessa quistion si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il
poeta, e donde questo nome venuto, e perché di lauro sieno coronati i poeti, e da pochi pare esser
mostrato, mi piace qui di fare alcuna transgressione, nella quale questo alquanto dichiari, e quindi
prestamente tornare al proposito.
XVII
DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA
La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse, ardentissima fu di
conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La
quale veggendo il ciel moversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene aver certo ordine e
diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá dovere essere alcuna cosa, dalla quale
tutte queste cose procedessero e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenza da niuna altra
potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta, s'imaginaron quella, la quale
«divinitá» ovvero «deitá» appellarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenzia di questa suprema potenza, ampissime
ed egregie case, le quali ancora estimaron fossero da separare cosí di nome, come di forma separate
erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitano; e nominaronle «templi». E similmente
avvisaron doversi ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana sollecitudine rimoti,
solamente a' divini servigi vacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini,
reverendi; li quali appellaron «sacerdoti». E oltre a questo, in rappresentamento della imaginata
essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue, e a' servigi di quelle vasellamenti d'oro e
mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti a' sacrifici stabiliti per loro. E
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accioché a questa cotal potenzia tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con
parole d'alto suono essa deitá fosse da umiliare e alle loro necessitá render propizia. E cosí come
essi estimarono questa eccedere ogni altra cosa di nobiltá, cosí vollono che, di lungi ad ogni plebeio
o publico stile di parlare, si trovasser parole degne di proferire dinanzi alla divinitá, nelle quali,
oltre alle sue lode, si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, accioché queste parole potessero
avere piú d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri, corrispondenti per brevitá e per
lunghezza a certi tempi ordinati, composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il
rincrescimento e la noia; e questo non in volgar forma o usitata, come dicemmo, ma con artificiosa
ed esquisita di modi e di vocaboli, convenne che si facesse. La qual forma, cioè di parlare esquisito,
li greci appellan «poetes»; laonde nacque, che quello parlare, che in cotal modo fatto fosse,
«poesie» s'appellasse; e quegli, che ciò facessero o cotal modo di parlare usassero, si chiamasson
«poeti».
Questa adunque fu la prima origine della poesia e del suo nome, e per conseguente de' poeti,
come che altri n'assegnino altre ragioni forse buone: ma questa mi piace piú.
Adunque questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a diverse
invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e, dove i primi una sola deitá adoravano,
stoltamente mostrarono a' segnenti esserne molte, comeché quella una dicessero, oltre ad ogni altra,
ottenere il principato. Tra le quali molte, mostrarono essere il Sole, la Luna, Saturno, Giove e
qualunque altro pianeto, la loro erronea dimostrazion roborando da' loro effetti. E da questi vennero
a mostrare, ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, in sé occulta deitá conservare;
alle quali tutte e versi e onori e sacrifici divini s'ordinarono. E poi susseguentemente avendo giá
cominciato diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno e chi con un altro, a farsi, sopra la
moltitudine indòtta della sua contrada, maggiori e a chiamarsi «re» e mostrarsi alla plebe con servi
e con ornamenti, e a farsi ubbidire, e talvolta a farsí come Dio adorare; li quali, non fidandosi tanto
delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i
suggetti e a strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli, li quali non vi si sarebbon con le
forze recati. E, oltre a questo, diedono opera a deificare li lor padri, li loro avoli, li lor maggiori, o a
dimostrare sé figliuoli degli iddii, accioché piú fosson temuti e avuti in reverenza dal vulgo. Le
quali cose non si poterono commodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliar la lor
fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí ancora per suadere agl'intendenti il
virtuosamente operare, quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzion contrario, con
fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi, oggi non che a quel tempo, intese, facean credere quello
che i prencipi voleano si credesse; servando nelli nuovi iddii e negli uomini, li quali degli iddii nati
fingevano, quello medesimo stilo che in quello, che vero Iddio primieramente credettero, usavano.
Da questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli degl'iddii: donde nacque il cantare
con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli degli
iddii. Per che si può delle predette cose comprendere uficio essere del poeta alcuna veritá sotto
fabulosa fizion nascondere con ornate ed esquisite parole. E, percioché molti ignoranti credono la
poesia niuna altra cosa essere, che semplicemente un favoloso e ornato parlare; oltre al promesso,
mi piace brievemente mostrare la poesí esser teologia, o, piú propiamente parlando, quanto piú può
simigliante di quella, prima che io vegna a dichiarare perché di lauro si coronino i poeti.
XVIII
CHE LA POESIA È SIMIGLIANTE ALLA TEOLOGIA
Se noi vorrem por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggermente
potrem vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto all'umano ingegno è possibile, le pedate
dello Spirito santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i suo'
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altissimi segreti rivelò a' futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera,
senza alcun velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi riguarderem bene le loro opere,
accioché lo imitatore non paresse diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che
stato era, o che fosse al lor tempo presente, o che disideravano, o che presumevano che nel futuro
dovesse avvenire, discrissono. Per che, comeché ad un fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse,
ma solo al modo del trattare, quello del poetico stilo dir si potrebbe che della sacra Scrittura dice
Gregorio, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quello
sottoposto; e cosí ad un'ora con l'uno li savi esercita e con l'altro li semplici riconforta, e ha in
publico donde li pargoli nutrichi, e in occulto serva quello onde assai le menti dei sublimi
intenditori con ammirazione tenga sospese. Percioché pare essere un fiume piano e profondo, nel
quale il piccioletto agnello con gli piè vada e il grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da
verificar sono le cose predette con alcune dimostrazioni.
XIX
DIMOSTRAZIONE DELLA PREDETTA SENTENZA
Intende la divina Scrittura, l'esplicazion della quale insieme con essa noi «teologia»
appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando con lo
'ntendimento d'alcuna lamentazione, e in altre maniere assai, mostrarci molti secoli avanti esser
dallo Spirito santo a' futuri nunziato l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di
quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni
altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e
morendo e risurgendo ci aperse, lungamente stata serrata per la colpa del primo uomo. Cosí i poeti
nelle loro invenzioni, quando con fizioni di vari iddii, quando con trasformazioni d'uomini in varie
forme e quando con leggiadre persuasioni ne mostrarono, sotto la corteccia di quelle, le cagioni
delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi e che fuggir dobbiamo e che seguire, accioché pervenir
possiamo, virtuosamente operando, a Dio; il quale essi, che lui non debitamente conoscieno,
somma salute credeano. Volle lo Spirito santo monstrare nel rubo verdissimo, nel quale Moisé vide,
quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che
dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi per la concezione, né per lo
parto del Verbo del Padre in alcuna parte diminuire. Volle per la visione veduta da Nabucdonosor,
nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita poi in un monte, mostrare tutte le
religioni, leggi e dottrine delle preterite etá dalla dottrina di Cristo, il qual fu ed è viva pietra,
[dovere essere sommerse; e la cristiana religione, nata di questa pietra,] divenire una cosa grande,
immobile e perpetua, sí come li monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia l'eccidio
futuro di Ierusalem dichiarare, e quello, per la sua ingratitudine e crudeltá in Cristo, avvenire.
Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno aver molti figliuoli, e quegli, fuor che quattro,
divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tal fizion farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel
quale ogni cosa si produce; e come ella in esso è prodotta, cosí in esso, di tutto corrompitore, viene
al niente. I quattro figliuoli dal tempo non divorati sono i quattro elementi, li quali niuna
diminuzione avere per lunghezza di tempo veggiamo. Similmente fingono li nostri poeti Ercule
d'uomo essere in Dio transformato, e Licaone re d'Arcadia transmutato in lupo: nulla altro volendo
mostrarci, se non che, virtuosamente operando come fece Ercule, l'uomo diventa Iddio per
participazione; e viziosamente operando, come Licaon fece, cade in infamia, e, quantunque nel
primo aspetto paia uomo, quella bestia è dinominato, i vizi della quale sono a' suoi simiglianti:
Licaone, percioché rapace e avaro e ingluvioso fu, vizi familiarissimi al lupo, in lupo transformato
si disse. Li nostri poeti ancora discrissero mirabile la bellezza de' campi elisi, e in quegli dissono
dopo la morte l'anime de' pietosi uomini e valenti abitare: per li quali il cristiano uomo meritamente
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potrá intendere la dolcezza del paradiso solamente alle pietose anime conceduta. E, oltre a ciò,
oscura ed orrida e nel centro della terra finsero la cittá di Dite, e quivi sotto vari tormenti l'anime
de' crudeli e malvagi uomini tormentarsi: per la quale chi sará che non prenda l'amaritudine dello
'nferno e i supplici de' dannati tanto quanto piú esser possono rimoti da Dio? Nelle quali fizioni
assai chiaro mostrano d'ingegnarsi, con la bellezza dell'uno, di trar gli uomini a virtuosamente
operare per acquistarlo, e, con la oscuritá dell'altro, spaventargli, accioché per paura di quella si
ritraggano da' vizi e seguitin le virtú. Io lascio il tritare con piú particulari esposizioni queste cose,
per non lasciarmi sí oltre nella transgression trasportare, che la principale materia patisca1, e per
venire a dimostrare perché di lauro si coronino i poeti.
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fidandomi ancora che gl'intendenti, per quello che detto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomento
aggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro la teologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi
concetti con simile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero che il subietto della sacra teologia e quello
della poesia de' poeti gentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nasconde che vera, ove questa assai
erronee e contrarie alla cristiana religione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, peroché quella fu dettata dallo
Spirito santo, il quale è tutto veritá, e questa fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quello Spirito o non
ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.
XIXbis
PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI
Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancora un pochetto intorno a questo
ragionamento non mi avessero ritirato. Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vedere poeta (o, se
veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hanno voluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori,
con ampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè le opere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo
le lor favole essere opere puerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi erano uomini d'altissimo sentimento,
in altra maniera che favoleggiando dovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella di molti volere
delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti i meriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi
cotali, senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima faccia avere niuna consonanza col vero. Ma, se per
questo elle sono da dannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelle di Ezechiel, che dell'altre del
vecchio Testamento, scritte con divina penna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, percioché somiglianza di
vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno, come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherá
gli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora che basti per risposta alla seconda opposizione a questi
giudici senza legge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoi alti misteri dato sotto coverta, accioché
le gran cose poste con troppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono in vilipensione, e che la veritá, con
fatica e perspicacitá d'ingegno tratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara e piú e con piú diletto
entrasse nella memoria del trovatore; perché saranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avranno nascosi gli
alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fatti degli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.
Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltre a ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere
queste: o per imitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non erano ammaestrati. Ma di questo non mi pare
da dovere far troppo agra quistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tosto il suo giudicio séguiti che
l'altrui; e però piú tosto si potrá dimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pare che rispondere si
possa questa utile essere stata, dove i nostri giudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote essere questa.
Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sono diversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare la
dottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogistica dimostrazione ha potuto far comprendere il vero
d'alcuna conclusione; la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Che dunque con questi cotali
varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo, niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, che nulla
crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti. Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che la
dottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favole correranno, non estimando sotto quella alcuna
particella di filosofia potersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Di questi cotali, non è dubbio,
giá assai, dalla novitá delle favole mossi, divennero investigatori della veritá e domestici della filosofia, del cui nome
altra volta aveano avuto paura. In questi cotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo del loro trattare,
il qual per certo, a chi non lo intende, non può dare altro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo al
presente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coronino d'alloro. Tra l'altre genti ecc.
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DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI
Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, i greci si crede che fosser quegli
li quali d'essi trassero la dottrina militare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori; e,
tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principio della presente operetta discritta; la
quale ottimamente e lungo tempo servarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,
considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publico consentimento ordinarono che,
per piú degno guidardon che alcuno altro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, li
poeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de' lor poemi, e, oltre a ciò,
gl'imperadori dopo la vittoria avuta de' nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando
dovere d'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cose publiche erano e servate e
aumentate, e colui per li cui versi le ben fatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La quale
remunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a' latini, e ancora, e massimamente
nelle coronazioni de' poeti, come che rarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal
coronazion piú l'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia2, pare la ragion questa.
Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hanno investigate, il lauro, sí come
noi medesimi veggiamo, giammai verdezza non perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i
greci intendere la perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fanno degni. Appresso
affermano li predetti investigatori non trovarsi il lauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno
altro albero non si crede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere di coloro, che di
quello si coronano, esser di tanta potenza dotate da Dio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore
della lunghezza del tempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potere offuscare, rodere
o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quello che noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro
essere odorifero molto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui, che degnamente
se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziose e odorifere di laudevole fama3. E perciò era
non senza cagione il nostro Dante, sí come merito poeta, di questa laurea disioso. Della quale
percioché assai avem parlato, estimo sia onesto di tornare al proposito.
XXI
CARATTERE DI DANTE
Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animo altiero e disdegnoso
molto: tanto che, cercandosi per alcuno amico come egli potesse in Firenze tornare, né altro modo
trovandosi, se non che egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fosse misericordievolmente
offerto a San Giovanni, calcato ogni fervente disio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che
colui, che nel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.
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non dovrá parere a udire rincrescevole.
Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue
vittorie, e i poeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origine avuta: la quale opinione non mi spiace, né
niego cosí poter essere stato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che vogliono coloro, ecc.
3
Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gli aggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la
cui pianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunque persona n'avesse alla testa legate e dormisse,
vedrebbe veracissimi sogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero i nostri maggiori una
dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede. Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle quali solamente
gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenzie mai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse
stato presente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati, parendo quella essere stata specie di
divinazione, furono chiamati «vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare, a mostrare la
proprietá della divinazione, nella quale paiono al lauro simiglianti. E perciò, ecc.
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Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, che essendo egli glorioso nel
colmo del reggimento della republica, e ragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna
gran bisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipe dell'ambasciata fosse Dante, ed
egli a ciò in presenza di tutti quegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che, soprastando
egli alla risposta, alcun disse: - Che pensi? - Alle quali parole egli rispose: - Penso: se io vo, chi
rimane? e se io rimango, chi va? - quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cui tutti gli
altri valessero.
Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no si fosse, in una fu
impazientissimo: egli infino al cominciamento del suo esilio, come i suoi passati, stato guelfissimo,
non essendogli aperta la via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino, che ogni
femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avesse voluto, ragionando di parte e la guelfa
preponendo alla ghibellina, l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,
che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.
Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiara fama di cotanto uomo;
ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede, percioché, se nelle cose meno
laudevoli mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo adunque mi
scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso occhio d'alta parte del ciel mi riguarda.
Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo
mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne'
maturi. E questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, e all'opere da lui
composte vegniamo.
XXII
LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA»
INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONE DI QUESTA OPERA
Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le quali si crede la prima un
libretto volgare, che egli intitola Vita Nuova: nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli
accidenti dimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.
Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della sua cittá, e veggendo in
gran parte qual fosse la vita degli uomini, quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de'
luoghi sublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevol pensiero che a' compor
lo 'ndusse la Comedia. E, lungamente avendo premeditato quello che in essa volesse descrivere, in
fiorentino idioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tosto vedere il fine, come
esso per avventura imaginò; percioché, mentre egli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di
quello sette canti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne il gravoso accidente
della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli, quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se
medesimo, piú anni con diversi amici e signori andò vagando.
Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne adunque che alcun
parente di lui. cercando per alcuna scrittura in forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel
tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta
vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio, nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li
quali con ammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove erano sottrattigli, gli
portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi
famosissimo dicitore in rima, e gliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lo
bello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sotto la ornata corteccia delle parole gli
pareva sentire, senza fallo quegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essere rimasa
imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante in quel tempo essere appresso il
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marchese Moruello Malespina, non a lui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, e
mandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti, e molto
seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali
Dante riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciar
senza debito fine sí alto principio. - Certo - disse Dante - io mi credea nella ruina delle mie cose
questi con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questa credenza, e sí per la moltitudine
delle fatiche sopravvenute per lo mio esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,
abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voi aggrada, io cercherò di
rivocare nella mia memoria la imaginazione di ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi
fia, cosí avanti procederò. - Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata fantasia ritrovata;
la qual seguitando, cosí cominciò:
Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;
dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa
riconoscere.
Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo che molti stimano,
senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi
sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,
interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tutto il publicasse il sopraggiunse
la morte. Egli era suo costume, come sei o otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli
vedesse, mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro uomo in reverenza avea;
e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copia a chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele
tutti, fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fatti avesse, avvenne che
senza farne alcuna memoria si morí; né, piú volte cercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per
che Iacopo e Piero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati che l'opera terminasser del
padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma una mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era
fervente, apparita, lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, ma mostrò dove
fossero li tredici canti tanto da lor cercati.
Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino, lungamente stato
discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede, che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del
suo maestro, venne una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa sua Iacopo di
Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'ora avere nel sonno veduto Dante suo padre,
vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale
gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita, non della nostra.
Per che, oltre a questo, gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avanti il suo
passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non
potuto trovare. A questo gli pareva similemente udir per risposta: - Sí, io la compie'; - e quinci gli
parea che il prendesse per mano, e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in
questa vita vivea, e toccando una parte di quella, diceva: - Egli è qui quello che voi tanto avete
cercato. - E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual
cosa affermava sé non esser potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
insieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria avea
segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa,
comeché ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nella quale Dante quando
morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essa stava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo
n'andarono, e quivi trovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passato continuamente
veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata, vidon nel muro una finestretta da niun di loro
mai piú veduta, né saputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte per l'umiditá del
muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa
purgate, vider segnate per numeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimi della
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Comedia: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele, insieme li tredici canti, che alla
Comedia mancavan, ritrovâr tutti. Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanza
dell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera gli ricongiunson, come
si convenía; e in cotal maniera l'opera, in molti anni compilata, si vide finita.
XXIII
PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE
A CHI EGLI LA DEDICÒ
Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta: che,
conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande
opera e di sí alta materia, come la sua Comedia appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nel
fiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Alla quale si può cosí rispondere.
Aveva Dante la sua opera cominciata per versi in questa guisa:
Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
pro meritis cuicumque suis, ecc.
Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, e massimamente da'
prencipi, a' quali si soleano le poetiche opere intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e,
oltre a ciò, veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni poeti venute in non
calere e quasi rifiutate da tutti, estimando non dover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e
prese partito di farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni dei prencipi odierni;
e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece che noi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non
sarebbe seguito: che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a' non letterati diede
alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò in brevissimo tempo grandissima fama, e
maravigliosamente onorò il fiorentino idioma.
Questo libro della Comedia, secondo che ragionano alcuni, intitolò egli a tre solennissimi
italiani: la prima parte di quello, cioè lo 'Nferno, ad Uguiccion della Faggiuola, il quale allora in
Toscana era signor di Pisa; la seconda, cioè il Purgatorio, al marchese Moruello Malespina; la
terza, cioè il Paradiso, a Federico terzo, re di Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto
a messer Can della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne di mandar prima a lui
quello che composto avea che ad alcuno altro.
XXIV
ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE
Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo imperadore un libro in
latina prosa, nel quale, in tre libri distinto, prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore,
e che Roma di ragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritá dello 'mperio
procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del quale percioché usati furono in favore di
Lodovico duca di Baviera contro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa
ventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per la Chiesa di Roma legato in
Lombardia, dannato sí come contenente cose eretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol
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dovesse. E se un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, e messer Ostagio
da Polenta, li quali amenduni appresso del legato eran grandi, non avessero al furor del legato
obviato, egli avrebbe nella cittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante4.
Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le quali furono intitolate e
mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.
Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a quelle che nella sua Vita
nuova si leggono.
E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopra tutte di farlo, compose
uno scritto in fiorentin volgare, il quale nominò Convivio, assai bella e laudevole operetta.
Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa latina, il quale egli intitolò
De vulgari eloquentia; e comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e
terminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte soprappreso, o che perduti sien gli
altri, piú non appariscon che i due primi.
In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò il chiarissimo uomo quella parte del
suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare: opere troppo piú a Dio e agli
uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimo fine, cioè di divenir ricchi,
quasi nelle ricchezze ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve
particella d'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche annullerá;
e il tempo, nel quale ogni cosa si suol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del
ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il che del nostro poeta certo non
avverrá; anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari
diventano ognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo, tanto piú chiaro e piú
lucente diventerá.
XXV
SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE
Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e' costumi, e quali sieno
l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa,
facendo transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ma la mia
fatica non è ancora al suo fine venuta, rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè
il sogno della madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e il significato di quello: nel quale
se un pochetto mi stendessi, priego pazientemente il sófferino i lettori.
Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella gravidezza, della
quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, le parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno
altissimo alloro, allato a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le pareva il piú
pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e bere disiderosamente dell'acqua di quella fontana;
e da questo cibo nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, e nella vista
grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi di quello alloro, le cui bache l'avean nutricato;
e, sforzandosi d'aver di quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che egli cadesse; e,
aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di lui le pareva vedere un bellissimo paone
esser levato. Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe il
dolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché, recitatolo a molti, neuno ne
4
Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. Oltre a questi ecc.
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fosse, che quello per quel comprendesse che seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú
leggiermente conoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare5.
Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esser de' poeti ornamento,
per quello dalla donna veduto intendere la disposizion celeste esser stata atta, nella concezion di
Dante, a dover producere un poeta.
L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevano nudrito, assai
chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi di Dante; percioché, sí come il corpo si
nutrica e cresce del cibo, cosí gl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E le
bache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare che i frutti della poesia nati, li quali
sono i libri da' poeti composti, e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.
Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suo figliuolo, niuna altra
cosa credo che voglia significare se non il copioso e abbondantissimo seno della filosofia, del
quale, ciò che compor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto è ordinatore e
disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí la filosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con
la sua dottrina è ottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, come di sopra
mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse, e intender compiutamente l'altrui, il
nostro poeta bevve piú tempo digestivo e salutevole beveraggio.
Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno ne mostra, per la quale in
brieve tempo divenne tanto e tale, che non solamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a
mostrare agli altri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori due maniere: corporali e
spirituali6. I corporali sono i pastor silvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali sono i prelati e'
sacerdoti e similmente i dottori, in qualunque facultá de' quali il nostro Dante fu uno.
5
Opinione è degli astrolagi e di molti filosofi naturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori, quali che
essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno, secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna o
alcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negli uomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi
tra molti ne vedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcuna dimostrazione, sospinto solamente da uno
istinto naturale, divenire ottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussono d'intorno, non gli potrebbono
insegnare tenere un martello in mano, non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per molta consuetudine
dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, come in suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, si
tornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse il canto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá
a disegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazione il fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro,
dove in qualunque altra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò io della varietá delle singolari
disposizioni degli uomini dicendo, se non quello che il nostro poeta medesimo ne dice: Un ci nasce Solone, ed altro
Xerse, altri Melchisedech, ed altri quello che, volando per l'aere, il figlio perse? Appare adunque varie constellazioni a
varie cose disporre gli ingegni degli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la sua principale affezione, assai
bene si conoscerá il cielo nella sua nativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perché l'alloro, come davanti
avemo mostrato, è quello albero, le cui frondi testimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamente
possiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e la disposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la
precipua affezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramente n'ha dimostrato quello che appresso la
nativitá di Dante è seguito. L'essersi colui, ecc.
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Li corporali similmente sono di due qualitá, l'una delle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore, gli
buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sono gl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia e in
pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare onde vengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a'
figliuoli. Li spirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: delle quali è l'una quella di coloro che pascono
l'anime de' viventi di cibo spirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, i predicatori e i sacerdoti, nella cui
custodia sono commesse l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora; l'altra è quella di
coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestrati prima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questa
maniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra
essere il desiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e il premio dello avere alcuna cosa poetica
composta, è l'onore che per la corona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quando piú a ciò si sforzava;
il quale cadere niuna altra cosa fu se non quel cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che a lui
avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente la laureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in
luogo di lui vide levarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo i
futuri surgono l'opere sue. E perciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di Scipione Affricano,
abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; in luogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, le
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Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostra essere stato il disiderio
della laureazione, nel quale mentre si faticava cadde, cioè morí.
E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender si dee che, dopo alla morte
di ciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante
abbiamo la sua Comedia, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Il paone, secondo
che comprendere si può, ha queste proprietá: che la sua carne è odorifera e incorruttibile; la sua
penna è angelica, e in quella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura; e, oltre a
ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con la Comedia del nostro poeta ottimamente si
convengono.
Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinseco senso della Comedia,
e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, si troverá essere semplice e immutabile veritá, non di
gentilizio puzzo spiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dalla religione di
quella scordante.
Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento occhi. Certo io non vidi mai
alcuno angelo; ma, udendo che voli, estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra
questi nostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá di loro, imagino che cosí la
debbiano aver fatta, e però non da queste le loro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per
quelle, delle quali questo paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che appare nella lettera
della Comedia; e il cambiare del color di quella, secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna
altra cosa esser sento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e in altra, leggendola,
si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderá i cento canti di quella, ne' quali ella cosí è
ordinata e distinta e ornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggono nel
paone?
Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose ottimamente alla Comedia del
nostro autor si confanno; percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí
prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il
parlare volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto
dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senza dubbio sozzo. L'andar
quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo, il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come
color sanno che intendon che vuol dir «comedia».
Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale, comeché la soavitá
delle parole del nostro poeta paia e sia molta, nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá,
ottimamente conoscerá confarsi con la voce della Comedia, e massimamente dove con acerbissime
invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamente procedendo, d'alcuni altri morde le colpe o
gastiga i miseri peccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, e massimamente a
colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoi appetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del
riprensore. Per la qual cosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu, vivendo,
pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come creder si puote essere stato per divina
spirazione nel sonno mostrato alla cara madre7.
XXVI
loro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzia loro nel cospetto di que' che vivono; e cosí in luogo
di Dante ecc.
7
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e
questo per piú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c'era;
appresso, posto che stata ci fosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altra materia congiunta;
ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata, e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, non essere
detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piú vago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. La mia picciola
barca, ecc.
54
CONCLUSIONE
La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò la proda partendosi dallo
apposito lito; e, comeché il peleggio sia stato piccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò
che senza impedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felice vento ha prestato alle
sue vele. Al Quale con quella umiltá e divozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si
converrieno, ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.
55
III
COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"
PROEMIO
[Lez. I]
«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá, quantunque di molti
privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia, nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna,
quantunque menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina grazia. La qual
cosa gli antichi valenti uomini e' moderni considerando, a quella supplicemente addomandare e con
ogni divozione a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra operazione,
pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla qual cosa dee ciascuno senza alcuna
difficultá divenire, leggendo quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del
prologo del suo Timeo, per sé dicendo: «Nam cum omnibus mos sit et quasi quaedam religio, qui
vel de maximis rebus, vel de minimis aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto
nos aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem praestaturi sumus, invocare
divinam opem, nisi plane quodam saevo furore atque implacabili raptemur amentia?». E, se
Platone confessa sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo di me
presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno piccolo e la memoria labile? E
spezialmente, sottentrando a peso molto maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare
l'artificioso testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi sotto il poetico velo
della Commedia del nostro Dante; e massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile
perspicacitá, come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre ogni
considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque, accioché quello che io debbo dire
sia onore e gloria dell'altissimo nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti
che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad invocare il suo aiuto; molto piú
della sua benignitá fidandomi che d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar
dovemo, poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi che nel secondo
del suo Eneida scrive Virgilio:
Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,
da deinde auxilium, pater, ecc.
[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne presti della sua grazia,
avanti che alla lettera del testo si venga, estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si
soglion cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la primiera è di mostrare
quante e quali sieno le cause di questo libro; la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual
parte di filosofia sia il presente libro supposto.]
[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la efficiente e la finale. La
materiale è, nella presente opera, doppia, cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia
una medesima cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro quello del senso
allegorico, li quali nel presente libro amenduni sono, sí come manifestamente apparirá nel processo.
56
È adunque il suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte de' corpi
semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a quello, tutto il processo della presente opera
intende. Il suggetto secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio meritando e
dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire obbligato. La causa formale è similmente
doppia, percio-* *ch'egli è la forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è divisa
in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima divisione è quella secondo la quale tutta
l'opera si divide, cioè in tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna delle
tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella secondo la quale ciascun canto si divide in
rittimi. La forma, o vero il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e transuntivo;
e con questo, difinitivo, divisivo, probativo, reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è
esso medesimo autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso, dove del titolo
del libro parleremo. La causa finale della presente opera è: rimuovere quegli che nella presente vita
vivono, dallo stato della miseria, allo stato della felicitá.]
[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del presente libro, il quale
secondo alcuni è questo: «Incomincia la Commedia di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro,
seguendo piú la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano le cantiche della
Commedia di Dante Alighieri fiorentino». La quale, percioché, come detto è, è in tre parti divisa,
dice il titolo di questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche della
Commedia di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare dovere il titolo di tutta l'opera essere:
«Cominciano le cantiche della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]
[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli scrittori, e verremo a quello
per che all'autore dové parere di doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,
percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi da tutti è usitato. E ad evidenzia
di questo, secondo il mio giudicio, è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra
certe dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá di queste, con debita e
misurata proporzione congiunta, e quello poi appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli
che in latino scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa, volgarmente dettano:
componendo i lor versi, secondo la diversa qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi,
intra se medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí come nel presente trattato
veggiamo che, essendo tutti i rittimi d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per che pare che a questi cotali
versi, o opere composte per versi, quello nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno,
come davanti dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti canti è
composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé contenente piú canti.]
[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato «commedia». A notizia della
qual cosa è da sapere che le poetiche narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia,
satira e commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella sola, che al presente
titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando
primieramente dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de' comici, il quale
pare molto essere differente da quello che l'autore serva in questo libro. Dicono adunque
primieramente mal convenirsi le cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché
«commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da «comos,», che in latino viene a dire
«villa», e «odos», che viene a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse
materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o conservazione di lor bestiame, o
di lor bassi e rozzi innamoramenti e costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le
cose narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone eccellenti, di singulari e
notabili operazioni degli uomini viziosi e virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli
angeli e della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e rimesso, accioché alla
materia sia conforme; quello che della presente opera dir non si può; percioché, quantunque in
volgare scritto sia, nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato e
leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle femmine. Non dico però che, se in
57
versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e
piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar latino che nel materno.]
[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non introducere se
medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie persone, che in diversi luoghi e tempi e per
diverse cagioni deduce a parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema
impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del commedo, l'autore spessissime
volte, e quasi sempre, or di sé or d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non
s'usano comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema assunto appartengono;
dove in questo libro si pongono comparazioni infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente
non fanno al principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si raccontano, cose che
per avventura mai non furono, quantunque non sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere
state non possano: la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i peccatori, che ne'
lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che nella grazia di Dio trapassano, essere elevati
all'eterna gloria, è, secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a tutto questo, i
commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie «scene»; percioché, recitando li commedi
quelle nel luogo detto «scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie persone a
ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da quelli che prima avevano parlato e fatto
alcun atto, e in forma di quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e
ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama «canti» le parti della sua
Commedia. E cosí, accioché fine pognamo agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non
convenirsi a questo libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente
dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come talvolta ad alcuno di alcuna sua
opera è avvenuto; conciosiacosaché esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica
il chiami commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia commedia cantar
non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo
uomo fosse l'autore, lui non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono, ma
al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato, figurativamente parlando. Il tutto della commedia
è (per quello che per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può comprendere): che la
commedia abbia turbolento principio e pieno di romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella
finisca in pace e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro presente: percioché
egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria,
la quale hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che cosí fatto nome si possa di
ragion convenire a questo libro.
[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non pure in questo libro, ma in
ciascun altro pare di necessitá di doversi sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente
fede a chi non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «Qui misere credit, creditur esse miser».
E qual cosa è piú misera che credere al patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o
all'eretico della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua professione favelli.
Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo
quanta fede sia da prestare alle loro parole.]
[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne testimonia, Dante Alighieri, per
ischiatta nobile uomo della nostra cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni
infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della qual non si può convenevolmente
parlare che con essa non si ragioni de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella
patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente s'avanzò; percioché, oltre alla prima
arte, fu, secondo che appresso si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere
appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere stato astrolago, e quello esser
non si può senza arismetrica e geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita filosofia morale in Firenze,
e quella maravigliosamente bene avere saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse
nell'undicesimo canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra di quelle
58
parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi voglia per questa s'intenda la filosofia morale
in singularitá essere stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli autori poetici, e
studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole
che si senta per li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il quale in quella
scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu, quantunque a questi studi attendesse, senza
grandissimi stimoli, datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo «amore»: e
similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici, a' quali ardentemente attese, infino al
tempo che, per paura di peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta seguivano,
convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo alquanti anni circuita Italia, credendosi
trovar modo a ritornare nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi, e quivi
ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e
una e altra volta certi atti scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime
laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna riduttosi, avendo giá il
cinquantesimosesto anno della sua etá compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e
alle sue fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori seppellito, senza aver preso
alcun titolo o onore di maestrato, sí come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,
com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo del Paradiso. Ma al suo
disiderio prevenne la morte, come detto è. I suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi
laudevoli tutti; ma, percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello, non curo al
presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana mente riguardate saranno, mi pare esser certo
che assai dicevole testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata nella sua
Commedia da lui recitata.]
[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per
se medesimo si dimostra; percioché ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle
cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato Dante. E che
costui ne desse volentieri, l'effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha
messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole
utilitá si trova da ciascuno che non caritevole ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli
parve eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta sua fatica, con lunghe
vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non parve a lui dovere essere contento che questo nome da'
suoi parenti gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono; per dimostrar
quello essergli per disposizion celeste imposto, a due eccellentissime persone in questo suo libro si
fa nominare; delle quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale carro del
celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di purgatorio, intende essere la sacra teologia,
dalla quale si dee credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme questo, cioè che
egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare
in quella parte del trentesimo canto del Purgatorio, nel quale essa, parlandogli, gli dice: «Dante,
perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se ella di questo nome non lo avesse conosciuto
degno, o non l'avrebbe nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò, soggiugnendo,
per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá registrarsi il nome suo, e questo ancora,
accioché paia lui a tal termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza
Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle terrene cose, valere alle divine.
L'altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio
di nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante,
essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la
testimonianza di Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del Paradiso, lá dove Adamo gli
dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo basti intorno al titolo avere scritto.]
[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a qual parte di filosofia sia
sottoposto il presente libro; il quale, secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero
etica: percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo, non è perciò per cagione
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di speculazione ciò posto, ma per cagion dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di
trattare.]
[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica particolare che segue, cioè:
«Incomincia il primo canto dello 'Nferno». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la
varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura sopravverranno, il mio poco ingegno
e la debolezza della mia memoria, intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per
ignoranza mi venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá, che per non detta
sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della santa Chiesa me ne sommetto.]
[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello 'Nferno»: intorno alla
quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada
in esso, qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si chiama che «inferno». E
primieramente dico ch'egli è inferno: il che per molte autoritá della Scrittura si pruova, e
primieramente per Isaia, il quale dice: «Dilatavit infernus animam suam, et aperuit os suum absque
ullo termino»; e Vergilio nel sesto dell'Eneida dice: «Inferni ianua regis»; e Iob: «In
profundissimum infernum descendet anima mea». Per le quali autoritá appare essere inferno.]
[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso della Scrittura sacra che
ne sieno tre, de' quali i santi chiamano l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore;
vogliendo che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e di peccati. E di questo
parlando, dice il salmista: «Circumdederunt me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me»;
e in altra parte dice: «Descendant in infernum viventes»; quasi voglia dire «nelle miserie della
presente vita».]
[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo inferno essere nel cuore de'
mortali; e, in ciò dilatando la fizione, dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono
essere Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo per lui la insaziabilitá de'
nostri disidèri, li quali saziare né empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare
l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca; volendo per questo che lá
dove entra la cupiditá delle ricchezze, degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non
n'esce mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo questo cane essere stato
tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo
tratta fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo inferno essere Carone
nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose
disiderate e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il quale per vari spazi le
nostre volontá e le nostre speranze d'un termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i
vari tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore trasportate. Dicono, oltre a ciò,
sedere in questo inferno Minos, Eaco e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime
che in quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono, percioché grandissimi legisti
furono e giusti uomini: per loro intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra
mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di quelle col morso suo ci affligge
e tormenta. E appresso, a quali pene ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]
[Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose il figliuolo per cibo
davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo
per costui la qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non ardisce toccarne, e cosí
in cose assai patisce disagio, potendosene adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è
interpretato secondo Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non vogliono
de' loro tesori se non vedergli.]
[Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo, secondo che alcuni
vogliono, segretario di Giove e di Giunone, richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in
forma di sè gli pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i centauri; e Giove il
dannò a questa pena in inferno, che egli fosse legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai
non ristesse di volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li quali sono
disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia occupano, la quale ha sembianza di regno, che per
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Giunone s'intende; e di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè gli
uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro a' piaceri de' popoli: ed hanno i
tiranni questa pena, che sono sempre in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte
sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le serpi s'intendono.]
[Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente richiese Latona, dicono lui da
Apollo essere stato allo 'nferno dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e
quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli che d'alto e splendido luogo
sono gittati in basso stato, li quali sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come
tornar possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono lasciati, che essi sono
rientrati nell'altra; e cosí senza requie s'affliggono.]
[Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse uccisi i mariti, esser
dannate ad empier d'acqua certi vasi senza fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano
invano: volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali, avendosi la ragion
sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor guida, come è il marito) intendono con loro artifici far
quello che giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi, farsi belle; di che
segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la
effeminata sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito sodisfare all'altrui
libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma, accioché io non vada per tutte le pene in quello
discritte, che sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i poeti gentili.]
[Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere vicino alla
superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo limbo, e la santa Scrittura talvolta il
chiama il seno d'Abraam: e questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso
essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di questo mostra il nostro autore sentire,
dove pon quegli o che non peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma
questo è differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano, disideravano e speravano, e
venne la loro salute, e quegli, che l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]
[Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo di pene eterne date a'
dannati. E di questo dice il Vangelo: «Mortuus est dives, et sepultus est in inferno». Ed il salmista:
«In inferno autem quis confitebitur tibi?». E che questo sia, si legge nel Vangelio, in quella parte
ove il ricco seppellito in inferno, vedendo sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che
intinga il dito minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E di questo inferno
tratta similmente il nostro autore dal quinto canto in giú.]
[Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno; conciosiacosaché
l'autore quella, nel principio del terzo canto, scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra:
della qual cosa appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare essere de' piú
antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel libro undicesimo della sua Odissea, Ulisse per
mare essere stato mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere da Tiresia
tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere pervenuto appo certi popoli, li quali chiama
scizi, dove alcuna luce di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il quale in
molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo nel sesto del suo Eneida l'entrata dello
'nferno essere appo il lago d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:
Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,
scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;
quam super haud ullae poterant impune volantes
tendere iter pennis: talis sese halitus atris
faucibus effundens supera ad convexa ferebat:
unde locum Graii dixerunt nomine Avernum, ecc.
E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla in inferno. Stazio, nel
primo del suo Thebaidos, dice questo luogo essere in una isola non guari lontana da quella
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estremitá d'Acaia, la quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «Traenaron»: e di quindi
dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel mondo Tesifone, pregata da lui a
mettere discordia tra Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:
.......illa per umbras,
et caligantes animarum examine campos
Traenareae limen petit irremeabile portae, ecc.
E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, in tragoedia Herculis furentis, dove dice
Cerbero infernal cane essere stato tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro,
dicendo cosí:
Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor
percussit oculos lucis, ecc.
Pomponio Mela, nel primo libro della sua Cosmografia, dice questo luogo essere appo i
popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel mare maggiore, scrivendo in questa forma: «In eo
primum Mariatidinei urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea vocitatur. Id
famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum
Cerberum existimant», ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello affermando
con favole non assai convenienti alle femminelle.]
[La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale, discrive l'autore essere
a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la
bocca di sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello, aggirandosi l'uomo intorno al voto
del corno a guisa che l'uomo fa in queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,
discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto allo spazio della via onde si
scende, essere in parte cavernoso e in parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali
appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi discriva scogli e alcuni valichi e
fiumi, li quali non potrebbono per lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]
[Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de' peccatori, le quali l'ira di Dio
hanno meritata, e in sé gli tormenta e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro
eterna prigione.]
[Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale averne piú appo i
poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel sesto dell'Eneida si legge, il chiama Averno,
dove dice:
Tros Anchisiades, facilis descensus Averni.
E nominasi questo luogo Averno, ab «a», quod est «sine», «vernus», quod est «laetitia»:
cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:
.......tum Tartarus ipse
bis patet in praeceps, ecc.
E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i miseri in questo
ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite
nel preallegato libro, dove dice:
Perque domos Ditis vacuas, et inania regna.
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Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite, cioè ricco e abbondante;
percioché in questo luogo grandissima moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo
similmente Orco nel libro spesse volte allegato, dove scrive:
Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci.
Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel processo apparirá.
Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro, dicendo:
Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes.
E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli s'accosta molto co' suoi
supplici a coloro, li quali miseramente riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo
Baratro, come appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove dice: «Cotal di
quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo,
nella parte superiore ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come
nell'Apocalisse si legge ove dice: «Bestia quae ascendet de abysso, faciet adversus illos bellum»; e
in altra parte: «Data est illi clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi». Il qual nome significa
«profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti al presente aver narrati questi.]
[Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si vegna, pare doversi rimuovere
un dubbio, il quale spesse volte giá è stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è
questo. Dicono adunque questi cotali: - Secondo che ciascun ragiona, Dante fu litteratissimo uomo,
e se egli fu litterato, come si dispuose egli a comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è,
in volgare? - A' quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu eruditissimo
uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama, come generalmente siam tutti. Cominciò il
presente libro in versi latini, cosí:
Ultima regna canam fluido contermina mundo,
spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
pro meritis cuicumque suis, ecc.
E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo: e il consiglio, che il
mosse, fu manifestamente conoscere i liberali studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da'
prencipi e da' signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e rendere famosi i
poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani
d'uomini plebei e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e per
conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si sommettea. Di che gli parve dovere il suo
poema fare conforme, almeno nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali se
alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino, tantosto il fanno trasformare in
volgare: donde prese argomento che, se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino
sarebbe schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari scrisse, come veggiamo. Questo
soluto, ne resta venire ecc., ut supra.]
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CANTO PRIMO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. II]
[Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle divisioni. Dividesi adunque il
presente volume in tre parti principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo l'ha
diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al presente, si divide in due parti, in proemio e
trattato. La seconda comincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide in due: nella
prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La
seconda comincia quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autore tre cose:
primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso mostra donde gli nascesse speranza di
potersi partire di quel luogo; ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di
quello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza quivi: «Ed ecco quasi».]
[Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad evidenzia di questo
principio è da sapere, la vita de' mortali è, massimamente di quegli li quali a quel termine
divengono, il quale pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque alquanti, e
pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come per lo salmista si comprende nel salmo
ottantanovesimo, dove dice: «Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in
ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et amplius eorum, labor et dolor»;
e perciò colui il quale perviene a trentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita.
Ed è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infino al mezzo si salga, e dal
mezzo infino all'altra estremitá si discenda; e questo è stimato, percioché infino all'etá di
trentacinque anni, o in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel termine
passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che l'autore pervenuto fosse, quando prima
s'accorse del suo errore. E che egli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi ragionasse
un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da Ravenna, il quale fu uno de' piú intimi
amici e servidori che Dante avesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli
nella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato il cinquantesimosesto anno, quanto
dal preterito maggio aveva infino a quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo
1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei, restano trentacinque; e
cotanti anni avea nel 1300, quando mostra d'avere la presente opera incominciata. Per che appare
ottimamente la sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dello spazio, «di
nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando, «per una selva oscura»; a differenza
d'alcune selve, che sono dilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la diritta via era
smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non era entrato in questa selva, ma per
ismarrimento.]
[«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è cosa dura», quasi voglia
dire impossibile, «esta selva selvaggia e aspra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice
prima che ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna umana abitazione, e
per conseguente essere orribile; dice appresso ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli
alberi e de' virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e ravvolti, contessuti e
intrecciati intra se stessi, e similemente piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordine
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cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosa e malagevole ad andare per quella;
e in quanto dice «forte», dichiara lo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di
quelli, essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori uscirne. E questo dice esser
tanto, «Che nel pensier», cioè nella rammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura».
Umano costume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de' pericoli ne' quali
l'uomo è stato.]
[«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è piú morte». Ed è la
morte, secondo il filosofo, l'ultima delle cose terribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad
ogni estremo pericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara che quella
selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara, cioè ispaventevole ed intricata: le quali
cose prestano amaritudine gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai».
Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che egli alcun bene trovasse in una selva
tanto orribile quanto egli ha mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime qual
bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovato da lui convenirsi trarre di sotto alla
corteccia litterale; e perciò, dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che qui
voglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene, «ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e
questo altresí si conoscerá nell'allegoria.]
[«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostra l'autore donde gli nascesse
speranza di potersi partire di quel luogo, e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe
alcuno domandare: - Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, come v'entrastú entro? - A che
egli risponde sé non saperlo, e assegna la ragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto,
Che la verace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare, «abbandonai».]
«Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi, «appiè d'un colle
giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava», finiva, «quella valle», nella quale era questa selva
oscura, «Che m'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e vidi le sue spalle»,
cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre sono quasi la piú alta parte della persona nostra,
«Coperte giá de' raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti. E perciò dice del
sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso, e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o
qualunque altro, ha da questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienza si vede
negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la sua potenza, ma per singular dono del suo
Creatore, e hanne in tanta abbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudine di
raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffonde copiosamente la luce sua; e questi raggi,
sagliendo il sole dallo inferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpo della
terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono le sommitá de' monti. Per la qual cosa appare
qui che il giorno cominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi dove era, ed a
volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli venne speranza, rammemorandosi che la luce di
questo pianeto «mena diritto altrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il sole
sopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con miglior giudicio si dirizza lá dove andar vuole,
mediante la luce di costui.
E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta», cioè meno infesta,
«Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, [nel quale,
secondo l'oppinione di alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte perpetuo, si
ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per tutto il corpo si spande; ed è quella parte
ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passione della
paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passai con tanta pièta», cioè con tanta
afflizione, sí per la diritta via la quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre della
notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.
«E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata. «Uscito fuor del pelago
alla riva»: come colui il quale rompe in mare, che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla
riva, e «Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e in quel guatare, cognosce
molto meglio il pericolo del quale è scampato, che esso non cognosceva, mentre che in esso era,
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percioché allora, spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo che solo allo
scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vede quante cose poteano la sua salute impedire
e, quasi in esso fosse, molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattando sé alla
comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè che ancora scampato esser non gli parea,
ma come se nel pericolo fosse ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse indietro»,
come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirar lo passo», pericoloso della oscura selva,
«Che non lasciò giammai» uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamente
intendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che si chiama «iperbole», per la quale
non solamente alcuna volta si dice il vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, per
manifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare turbato, e
non s'arebbe immollate le piante de' piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè
che di quello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, se alcuno non avesse vivo
lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserne uscito, come sarebbe vivo?
«E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta, «Ripresi via per la piaggia
diserta»; e cosí mostra avere abbandonata la valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera
andando, «Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costume di coloro che
salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú basso rimane.]
«Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza parte dimostra l'autore qual cosa
fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di quel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la
fierezza delle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro nel pericolo del quale
era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed ecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa,
su per la quale salir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e presta molto,
Che di pel maculato era coperta».
Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía dinanzi al volto». Appresso dice
che questo stargli sempre davanti, che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte
salir volea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».
«Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí, quando egli era da questa
bestia impedito, e la qualitá della stagione dell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio
«del mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora non si vedeano se non nella
sommitá del monte. «E 'l sol montava 'n su», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione,
vegnendo dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in compagnia, «Ch'eran con
lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spirito santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo,
«quelle cose belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bella e leggiadra
discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Ad evidenzia della quale è da sapere che gli antichi
filosofi caldei, e appresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazione conobbero il
movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmente quello che per gli movimenti de' corpi
superiori negl'inferiori ne seguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole in
diverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano le qualitá dell'anno, e queste qualitá
essere quattro, cioè quelle che noi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual
fosse nel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste, divisero in quattro parti eguali. E
poi, perché sentirono ciascuna di queste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzo sentire
della natura del principio e della fine; ciascuna di queste quattro parti divisero in tre parti equali; e
cosí fu da loro la via del sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E, accioché
l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono in ciascuna parte alcun animale [ornato di
certa quantitá di stelle, ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del quale fosse
conforme agli effetti di quella parte, nella quale con la immaginazione il figuravano. E, percioché la
prima qualitá dell'anno estimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principio dell'anno; e
cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole questa primavera veniva, vollero che fosse la
prima parte della via del sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete; nel
principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e posto il corpo del sole. E perciò,
volendo l'autore dimostrare per questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole
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saliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle le quali eran con lui, quando il
divino Amore lui e l'altre cose belle creò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato
hanno; volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose la mano alla presente
opera, è circa al principio della primavera; e cosí fu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente
fantasia entrò a dí 25 di marzo.]
«Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'ora del tempo e la dolce
stagione m'era cagione a sperar bene di quella fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di
quella fiera la gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar bene la gaetta pelle di
quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne
muta. Reassumendo adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperar m'era
cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaetta pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita
molto è la pelle della lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar» di dovere
ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea di prendere, se potuto avesse, con una corda
la quale cinta avea, secondo che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto
sedicesimo, dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai, alcuna volta, Prender
la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo», cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la
primavera.
Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria sopra la lonza l'ora
del mattino e la stagion della primavera? Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di
ferocitá essere negli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmente tutti rendere
affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del tempo gli soglia render innamorati piú che
alcun altra stagion del tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per venere,
esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua natura lussuriosissimo animale: e cosí
pare che di quello, di che si conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali bruti, è credibile negli uomini
similemente in questo tempo crescere il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire
le tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura, nel tempo lucido veggono
come possano l'arti del loro ingegno usare a vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti
fuggire. E il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla compression sanguinea, e però
in quella il sangue è piú chiaro, piú caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci
per avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.
«Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non mi desse La vista»,
cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me
venesse» (e cosí appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo cammino di salire al
monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il
faceva meritamente da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne temesse», in
quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone, indietro si traeva, il quale è atto di chi
fugge. Con questo mostrava, impropriamente parlando, di aver paura di lui.
«Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire impediva) «che di tutte brame
Pareva carca nella sua magrezza». Brama è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché
oltremodo pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la magrezza sua, della
quale noi prosumiamo quello animale, in cui la veggiamo, esser male stato pasciuto, e per
conseguente magro e indi bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose. «Questa»
lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura ch'uscía di sua vista», cioè era sí
orribile nello aspetto, che ella porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di
poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea veduti i raggi del sole.
«E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne dimostra l'autore qual
divenisse per lo impedimento pórtogli da questa bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o
altro, «che volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo face», qual che sia
la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne' quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange
e s'attrista; Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice esser animale senza
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pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che
venendomi incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire, «a poco a poco»,
tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol tace», cioè nella oscura selva, della quale io era
uscito. Ed è questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa l'autore pur qui, ma
ancora in altre parti in questa opera, sí come nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni
luce muto». Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno luogo, de' quai dice
qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser
muto, propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un dimonio addosso, e
quello era muto): ma questo modo di parlare si scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia».
Vuole adunque dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il ripignea lá dove il sol
non luce, cioè in quella oscuritá, la quale egli disiderava di fuggire.
«Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la seconda parte di questo
canto, nella quale l'autor dimostra il soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in
questa parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio quivi apparitogli,
quantunque nol conoscesse; appresso, senza nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è;
poi l'autore, estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la benivolenza sua, e mostragli
di quello che egli teme; oltre a ciò, Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di
lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore priega Virgilio che gli mostri
quello che detto gli ha; ultimamente, movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda
quivi: «Ed egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta quivi: «A te conviene»; la
quinta quivi: «Ed io a lui: - Poeta»; la sesta quivi: «Allor si mosse».
Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in basso loco», cioè
nella valle della quale era cominciato a partire, «Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo
silenzio parea fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí rasciutta la via del
polmone, dal quale la prolazione si muove, che le parole non ne possono uscire sonore e chiare,
come fanno quando in quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo silenzio, per
alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta umiditá viscosa in questa via, che similemente
rende l'uomo meno espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non è. [Ma non
credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio
essere intralasciati giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o divenuta piú
oscura che esser non solea.]
[«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran diserto», cioè per quella
tenebrosa valle, meritamente chiamata dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto,
e priva di luce; «-Miserere di me - gridai a lui». Sí come molte volte gl'impauriti e sbigottiti usano,
per essere del loro avvenuto caso soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile
bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui gridando: - Abbi misericordia di me, quasi dicendo: - Aiutami, - come piú innanzi si dichiarerá.]
«- Qual che tu sii, od ombra od uomo certo». - Non conosceva quivi l'autore, per lo
impedimento della paura, se costui, che apparito gli era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che
spirito; e in questo parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo de' poeti; e
questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che
alcun corpo faccia. E, percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e come
l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che ella abbia, quando talvolta
n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del Purgatorio,
non curo qui di farne piú luogo sermone.
«Risposemi: - Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi costui fosse che
apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose spettanti al domandato. Dice adunque «non
uomo», a dimostrare che l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno dall'altro,
non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima per sé; e in quanto dice «uomo giá fui»,
mostra sé essere spirito giá stato congiunto con corpo.
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«E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima si manifesta dalla regione
nella quale nacque, in quanto dice, «furon lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di
Virgilio lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre diversi vasi di terra; e la
madre di lui, secondo che dice Servio Sopra l'«Eneida», quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice
adunque che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia situata tra 'l monte
Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia,
da' galli che quella occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse, quella
parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che seguirono Antenore troiano dopo il
disfacimento di Troia. La cagione perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola
di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano, chiamati dalle barbe grandi e da'
capegli, li quali s'intorcevano davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo
lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in Ungheria, e in quella stettero
nel torno di quarantasei anni; poi, a' tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per
lui un suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di Sofia, moglie di
Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle
femmine sue, sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe venuto, percioché
egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di
diversi frutti, con una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale allora era re
de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi popoli venissero ad abitare quel paese, ove
quegli frutti nascevano. Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete, lasciata
Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari, in Gallia con tutti i suoi maschi e
femmine, piccoli e grandi, ne venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto il
paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono Lombardia, il qual nome infino
a' nostri dí persevera.
«Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma, percioché d'essa si
tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente, qui non curo di piú scriverne.
«Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi egli fosse dal tempo
della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio
Cesare, la qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della dettatura di Giulio
nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua
morte: dove Eusebio, in libro De temporibus, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio
d'Ottaviano Cesare...8, che fu avanti la nativitá di Cristo da quattordici o quindici anni; e il predetto
Eusebio scrive, nel detto libro, della sua nativitá cosí: «Virgilius Maro in vico Andes, haud longe a
Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus»; il quale anno fu avanti che Giulio Cesare occupasse
la dettatura (la qual tenne quattro anni e parte del quinto) bene venti anni.
«E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno disposto e acuto agli studi,
primieramente studiò a Cremona, e di quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e,
avendo lo 'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto d'Ottaviano accetti, se
n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente
dimorando, sí come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima composto la
Buccolica, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi paterni, li quali a Mantova erano stati
conceduti ad un centurione chiamato Arrio, compose la Georgica. Poi, sí come Macrobio in libro
Saturnaliorum scrive, mostra mentre che scrisse l'Eneida si stesse in villa: il dove non dice, ma, per
quello che delle sue ossa fece Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e
prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E portò tanto amore a quella cittá
che, essendo solennissimo astrolago, vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia;
percioché, essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche, di zenzare e di
tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta costellazione che, postala sopra il muro della
cittá, verso quella parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano, mai, mentre
8
In bianco nei codd. [Ed.].
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star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano. Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il
quale avea a far sano ogni cavallo che avesse i dolori, o altra naturale infermitá, avendo tre volte
menatolo d'intorno a questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle quali l'una
piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato
della porta, e l'altra dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua vicenda a
Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli passava dalla parte della porta dove era
posta quella che piagnea, mai non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il
recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava dall'altra parte, dove era quella
che rideva, di presente spacciava la bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma
che egli talvolta vi usasse, questo è credibile.
«Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per nazione della gente
Ottavia, anticamente cittadina di Velletri, d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare,
nacque; il quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli lasciò questo nome di
Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti tutti coloro li quali avevano congiurato contro a
Giulio Cesare, e finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e molte nazioni
aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti ambasciadori indiani e di Scizia, genti
ancora appena da' romani conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,
oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad Antonio; parendo a' romani
questo essere maravigliosa cosa, il vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual
cosa egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della republica commesso, e
tenendo ragionamento di doverlo cognominare Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore
fu cognominato Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo libro si fa di lui
menzione, per questa credo assai sia detto. Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché,
quantunque crudel giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e buono per
la republica.
«Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii, «quia dii gentium
daemonia»: «bugiardi» gli chiama, percioché il demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è
padre di menzogna.
[Lez.III]
«Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta» piú all'autore; [intorno
al qual nome, chiamato da molti e conosciuto da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque
da vedere donde avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e che onore sia
retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da invidia che da altro sentimento ammaestrati,
questo nome «poeta» venire da un verbo detto «poio pois», il quale, secondo che li grammatici
vogliono, vuol tanto dire, quanto «fingo fingis»: il qual «fingo» ha piú significazioni; percioché egli
sta per «comporre», per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque che
dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal detto verbo «poio» viene questo
nome «poeta»; e percioché quello suona «poio» che «fingo», lasciati stare gli altri significati di
«fingo», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire», conchiudendo, vogliono che «poeta» e
«mentitore» sieno una medesima cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto
possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di sterminargli del mondo, nel
cospetto del non intendente vulgo gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle
cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso papa De filio prodigo questa
parola: «Carmina poëtarum sunt cibus daemoniorum»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita
fronte contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti le parole della
Filosofia a Boezio, dove dice: - «Quis - inquit - has scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit
accedere, quae dolores eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
venenis?» - E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a nemici della repubblica,
contro ad essi l'oppongono.]
70
[Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima parte, cioè donde
avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza della qual cosa è da sapere, secondo che il mio
padre e maestro messer Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa, gli
antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e mutamento appo noi de' tempi dell'anno,
e per altri assai evidenti argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con perpetua
ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra loro gli ebbero edificati templi, e
ordinati sacerdoti e sacrifici; estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi
sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e ancora i lor prieghi a Dio si
contenessero; e conoscendo non esser degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi,
l'uno amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo: costituirono che i sacerdoti,
li quali eletti e sommi uomini erano, queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono;
e, per farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini, artificiosamente le composero in
versi. E perché in quelle si contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa notizia
non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli sotto fabuloso velame. Il qual modo
di parlare appo gli antichi greci fu appellato «poetes»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito
parlare»; e da «poetes» venne il nome del «poeta», il qual nulla altra cosa suona che «esquisito
parlatore». E quegli, che prima trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E,
perché ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non solamente «poeti», ma
«teologi»; e per le opere di costoro dice Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E,
se bene si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare differenti da' profeti, ne' quali
leggiamo, sotto velamento di parole nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina
potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero che si legge, il quale credo tutto
esser vero, sí come da verace dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza
d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i loro errori estimavan vero, sotto
il velame delle favole ascosero. Ma i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il
loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove fingessero cose spettanti alla
divinitá e alla fede cristiana: la qual cosa assai bene si può cognoscere per la Buccolica del mio
eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e aprirá, non con invidia, ma
con caritevole discrezione, troverá sotto alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti;
e similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo apparirá. E cosí si cognoscerá i
poeti non essere mentitori, come gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]
[Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai chiaro si può
comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso e ornato parlare: il che avere sempre fatto i
valorosi poeti si troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto, è da intendere
sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di quegli tali poeti; percioché il poeta gentile,
al quale niuna notizia fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle sue
fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava esser vere; percioché, se altro che
quello, che vero avesse istimato, avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]
[E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma eziandio esaltatori dell'opere
de' valorosi uomini, per li quali li stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a ciò,
quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente furono grandissimi commendatori
delle virtú e vituperatori de' vizi: estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo la vittoria d'alcuna loro laudevole
impresa, in comporre alcun singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che, come
l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da conservare la lor fama. Le fatiche de'
quali, se molto laudevoli non fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse quella ad un poeta conceduta,
ch'egli concedette ad Affricano, a Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni
uomini: la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno avvedutamente gli biasimano.
E se per avventura volesson dire: - Noi gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali
sono da schifare sí come erronee; - direi che da tollerar fosse, se Platone, Aristotile, Ipocrate,
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Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai, cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente
schifati; il che non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular malivolenzia il faccia
fare.]
[Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte contro a' poeti.]
[Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da esser cacciati delle
cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La qual cosa negare non si può che Plato nel libro della
sua Republica non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno loro queste
cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e avanti, e poi perseverò lungamente, ed
eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del
popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste cose, state
perpetrate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e
queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale era
constituita nel mezzo del teatro, stando dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le
femmine, della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio di udire, quanto di vedere
i giuochi che dalla recitazione del commedo procedevano; i quali erano in questa forma: che una
spezie di buffoni, chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti degli uomini,
uscivano di quella scena, informati dal commedo in quegli abiti ch'erano convenienti a quelle
persone, gli atti delle quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti che fossero,
secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché spesso vi si facevano intorno agli adultèri,
che i commedi recitavano, di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle femmine,
riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i buon costumi e le menti sane si
corrompevano, e ad ogni disonestá discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone,
considerando, se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e meritamente, questi
cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle
sentimento, che creda che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è dalle
leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello estremo de' suoi dí, ogni altro studio
lasciato, ferventissimamente studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo
scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i costumi de' romani, giá
cominciati a divenire grandi. Chi crederá ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale,
acerrimi riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il venerabile mio maestro messer
Francesco Petrarca, la cui vita e i cui costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro
autore, la cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti cacciasse, cui riceverá
egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá
questa obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli sí gran calca fatta da'
poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come
detto è, in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni usanza d'uomini; e,
se investigando si verrá, questo medesimo si troverá di molti altri.]
[Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «Daemonum cibus sunt carmina
poëtarum». Le quali parole senza alcun dubbio son vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola
letto, avrebbe potuto vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella
figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de' giudei, la qual dice che, avendo
raso il capo, e posti giú i vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita per via
di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la figura intesa, avrebbero quelle
parole contro a' poeti allegate. E, accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la
figura posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio dice dover fare, se non,
una purgazione del paganesimo o d'altra setta fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio
venir de' giudei: e cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i versi de' poeti
non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da' fedeli cristiani usare. E questa purgazione
per la grazia di Dio si può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san Silvestro,
diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá e sollecitudine dei papi e degli altri
ecclesiastici pastori, scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par questa
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poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e laudevoli rimasi, congiugnere con ogni
cristiano.]
[Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta pistola attende molto) che
il prete o il monaco, o qual altro religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario
posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino oficio detto, non è peccare in
Spirito santo il vedere gli onesti versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú
religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi ritroverebbero questo cibo, il quale dicono
de' demòni, non solamente non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per
avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato e gustato da Fulgenzio,
dottore e pontefice cattolico, sí come appare in quello libro, il quale esso appella delle Mitologiae,
da lui con elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E similmente troverebbono
sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con
solerte vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun volesse, non puote;
conciosiacosaché spessissime volte questo santo uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri
poeti; né quasi mai nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]
[Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo, maravigliosamente
ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi
non intendono, con tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che quasi paia
nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro fermata. E, se essi non credono questo,
veggano, tra gli altri suoi libri, il prologo del libro il quale egli chiama Hebraicarum quaestionum,
e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se esso spessissime volte, quasi suoi assertori,
induce Virgilio e Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti. Leggano, oltre a
questo, quella facundissima epistola da lui scritta a sant'Agostino, e cerchino se in essa
l'ammaestrato uomo pone i poeti nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
confondere.]
[Appresso, se essi nol sanno, leggano negli Atti degli apostoli e troveranno se Paolo, vaso
d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in
fastidio, disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi, d'usare la testimonianza de'
poeti; e in altra parte avere usato il testimonio di Menandro comico poeta, quando disse:
«Corrumpunt mores bonos colloquia mala». E similmente, se io bene mi ricordo, egli allega un
verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si potrebbe dire contro a questi sprezzatori de'
poeti, quando dice: «Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri». E cosí colui, il
quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello, che questi piú santi di lui vogliono, cioè
esser peccato o abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a tutto questo,
cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita, discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú
Cristo, nel libro il quale compose Della celeste gerarchia. Esso dice e proseguita e pruova la divina
teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra l'altre cose cosí: «Etenim valde artificialiter
theologia poëticis sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram, ut dictum
est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali reductione providens, et ad ipsum reformans
anagogicas sanctas Scripturas»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma seguitano. E
ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali io potrei inducere incontro a questi nemici del
poetico nome, non esso medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica
dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte allo stilo comico? Non esso
medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè:
«Durum est tibi contra stimulum calcitrare»? Ma sia di lungi da me che io creda Cristo queste
parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio prendesse. Assai mi basta a confermare la mia
intenzione, il nostro Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia prolata giá per la
bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che
adunque diranno questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il nome poetico?
Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente dannare, se non che co' versi poetici non si
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guadagnan danari, che credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel petto,
perché a' loro desidèri non sono conformi.]
[Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran parte deono esser rotte, se a
quel si riguarda che alla sentenza di Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia
abbia cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e disoneste, e i conforti delle
quali conducono chi l'ascolta, non a sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa
errare chi reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun dubbio vero la filosofia
esser venerabile maestra di tutte le scienze e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove
Boezio giaceva della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto ricevuto, egli, sí
come impaziente, avendo per quello cacciata da sé ogni conoscenza del vero, non attendeva colla
considerazione a trovare i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni della
presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non liberasson lui, ma il mostrassero afflitto
molto, e per conseguente mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla filosofica veritá, la cui opera è di
sanare, non di lusingare il passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi dolere,
insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa proceduto; e, peroché questo è esercizio
de' comici di sopra detti (a fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,
chiama la Filosofia queste muse «meretriculae scenicae», non perché ella creda le muse esser
meretrici, ma per vituperare con questo vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le
induce. Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il fabbro fa piú tosto con esso
un coltello, col quale s'uccidono gli uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi
abile a ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E che le Muse sieno qui
istrumento adoperante secondo il giudicio dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il
dimostra la Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato, quando dice: Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè
alla onestá e alla integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli mostrerò la veritá, la
quale egli al presente non conosce, sí come uomo passionato e afflitto. - Nelle quali parole si può
comprendere non essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici disonesti e degli
elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare.
Non adunque nel disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia «meretricule»,
sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto esercizio l'adoperano.]
[Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in altra parte piú
distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo averne detto al presente, e alla nostra impresa
ne ritorniamo. Fu adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le sue opere
e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]
[Lez. IV]
«E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»; e la ragione in parte
si dimostrò, dove di sopra si disse perché «cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si
puote aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno esser mossa la ragione
perché «cantare» si dicono i versi poetici, che da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e'
nobili giovani greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e questi loro canti e
suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni
odierne sono, anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli operazioni da
valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere nella fine del primo dell'Eneida di Virgilio,
dove, dopo la notabile cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli errori del
sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e degli altri animali, e donde fosse l'origine
delle piove e del fuoco, e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i poetici versi si
cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé composte dice «cantai». Il qual non solamente
compuose l'Eneida, ma molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'Ostirina, l'Ethna, il
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Culice, la Priapea, il Cathalecthon, le Dire, gli Epigrammati, la Copa, il Moreto e altri; ma sopra
tutti fu l'Eneida, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da Napoli, e andandone ad
Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il detto Eneida, quello lasciò a due suoi amici valenti
poeti, cioè a Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti la tornata sua
morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo a Brandizio morto, senza potere esser
pervenuto ad Atene, e Tucca e Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza d'Ottaviano; e perciò,
raccontata a lui la intenzion di Virgilio, ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna
cagione, ma il correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non v'aggiugnessero, e, se vi
trovasser cosa da doverne sottrarre, potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte
recare le sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato di vivere, il fece
seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli, lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché
esso quivi giacesse morto, dove gli era dilettato di vivere.]
«Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio nel primo dell'Eneida fa
ad Ilioneo dire alla reina Dido queste parole:
Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
nec pietate fuit, nec bello maior et armis,
nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della schiatta de' re di Troia,
figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco, figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice,
«che venne da Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto, alla quale è di
ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia,
cosí dinominata da Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu una cittá di
Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá reale, e quella, secondo che Pomponio Mela
scrive nel primo della sua Cosmografia, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa e
disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo e de' suoi predecessori.
E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore, dicendo: - «Ma tu perché
ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella selva, della quale partito ti se'; - e quinci segue e fanne
un'altra: - «Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e cagion di tutta gioia?». Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa seconda, nella qual dissi
che con ammirazion l'autore rispondeva, e, col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua
benivolenza. E, rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte non sale, e il
suo aiuto addimanda, e dice: - «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte, Che spande di parlar sí largo
fiume?». - Commendalo qui l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo simigliante
ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte». Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo
veduto in sí miserabile luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del viso
prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si può prendere il tutto per la parte,
cioè tutto il viso per la fronte. - «O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio è tutto il
nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono
stati, un esempio, il quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce dirizza i
passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo. «Vagliami il lungo studio e il grande amore».
Poi che l'autore ha poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo bisogno, ora il
priega per li meriti di se medesimo, per li quali estima Virgilio sí come obbligatogli il debba
aiutare, e dice: «Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere l'opera di
Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l grande amore». E per questo intende
mostrare un atto caritativo, che fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha fatto cercare il tuo volume»,
l'Eneida.
«Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio chiamandolo «maestro», «e
'l mio autore». In altra parte si legge «signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui,
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umiliandosi, vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore aiutare. «Tu se' solo colui
da cui io tolsi», cioè presi, «il bello stilo», del trattato, e massimamente dello 'Nferno, «che m'ha
fatto onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo solecismo.
«Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto, «per cui io mi volsi», dal
salire al dilettoso monte. E qui gli risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo:
«Aiutami da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui veramente esser saggio, il
quale non solamente è saggio nel suo segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le vene e' polsi quando dal
sangue abbandonate sono, il che avviene quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue
si ritrae a lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo rimane vacuo di sangue, e
freddo e palido.
- «A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa l'autore due cose: prima
dichiara ciò che Virgilio dice della natura di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli
dimostra Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di quello luogo
pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo me'». Dice dunque: - «A te convien tenere
altro viaggio», che quello il quale di tenere ti sforzi, - «rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi vide,
- Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio», come di sopra è dimostrato. E,
seguendo, Virgilio gli dice la cagione perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché
quella bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando misericordia, «Non lascia altrui
passar per la sua via», non della lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in
una maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura sí malvagia e ria, Che mai
non empie la bramosa voglia» del divorare, «Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole
Virgilio per queste parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere nell'autore, dicendo:
- Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la fame grande, egli potrá avvenire che ella
prenderá alcuno animale e pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero; - il qual
avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che pria».
«Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne. Questo è fuori
dell'uso della natura di qualunque animale, congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma
con alcuno assai bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col leopardo e la lupa col
cane. E questo non è da dubitare che l'autore non sapesse; per che, avendol posto, assai bene
possiam comprendere l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la lettera, e
cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in inferno: la sposizione delle quali cose a
suo tempo riserberemo. «E piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá». È il
veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de' quali veltri dice, come appare,
doverne venire uno, «che la fará morir con doglia».
«Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né peltro». Peltro è una
spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere
cibi de' cani; e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica la lettera. «E sua
nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro vilissima spezie di panno, come ciascun sa
manifestamente.
«Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama «ironia», per vocabolo
contrario mostrando quello che egli intende di dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi
tutto 'l dí usiamo, dicendo d'un pessimo uomo: - Or questi è il buono uomo; - d'un traditore: Questi è il leale uomo; - e simili cose. Dice adunque: «Di quella umile», cioè superba, «Italia fia
salute». È Italia una gran provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di Dardano
(del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto), terminata dall'Alpi e dal mare
Tirreno e dall'Adriano, contenente in sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di
questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la vergine Camilla».
Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo dell'Eneida, figliuola di
Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí
la madre, piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era nel nome di Casmilla,
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sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per
certe divisioni de' privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non avendo spazio
di potere alcun altra cosa prendere, prese questa piccola sua figliuola e una lancia, e con essa,
essendo dai privernati seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si chiamava
Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto molto, e sé veggendo convenirgli lasciar
la fanciulla, se notando il volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa fanciulla
in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di lá dal fiume e poi esso notando passarlo.
Per che, legatola e dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei botandola, se
ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e
dall'altra parte trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in certe selve vicine,
allevò questa sua figliuola alle poppe d'una cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una
faretra alle spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare e gittar le pietre
con la rombola, e correr dietro agli animali [e i suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi.
Ne' quali esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in correre di tanta
velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio,
iperbolicamente parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza immollarsi le
piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne
volle udire, ma, virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era stata allevata e di
cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di
Turno con Enea, da Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove un dí,
fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una saetta nella poppa da uno che avea nome
Arruns; della qual fedita essa morí incontanente.
«Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani troiani, li quali in Italia
aveano seguito Enea. Ed essendo insieme con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del
campo d'Enea, il quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli circunvicini,
avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose Ascanio, per téma di non poter sofferire la
forza di Turno, di far sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di tornare in
soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo
occultamente da Eurialo; percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un
garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí fare che Eurialo nol sentisse;
per la qual cosa convenne che Eurialo andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio,
convenendo loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e trovandogli tutti dormire,
n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li
quali uccisi aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una grande quantitá di
nemici, li quali come Niso vide, tantosto si ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé
Eurialo; ma egli era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser seco si avvide.
Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando
addietro, cominciò a gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e uccidesson
lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse: essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e
cosí amenduni quivi morti rimasero.
«Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale d'Amata, moglie di
Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data
Lavina sua figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui, sdegnato, avea mosso
guerra ad Enea, e per questo molte battaglie aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive
nel fine del dodicesimo dell'Eneida, soprastandogli Enea in una singular battaglia stata fra loro, e
veggendogli cinto il balteo, il qua1e era stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante
perdono, uccise.
E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte d'Italia intenda, cioè di quella
lá dove è Roma, con alcune piccole circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco
il voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio cessò però la romana
superbia, perseverando in essa la sede apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose
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mano alla presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque altiero signor fosse
molto, parve per avventura ancor molto piú all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né
alle domande fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.
«Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè estermineralla del mondo,
«Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente
si può intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché manifesto sia in inferno
non generarsi lupi, e perciò di quello non poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa
vita menare.
«Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta, dice l'autore il consiglio
preso da Virgilio per sua salute, e, secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee
trattare in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la natura di questa lupa che
t'impedisce, «per lo tuo me', penso e discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E
trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo eterno», cioè per lo 'nferno e per lo
purgatorio, i quali son luoghi eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in
quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli spiriti dolenti, Che la
seconda morte ciascun grida»; cioè la morte dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la
prima, essi l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le pene, che
sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi tengono che, quantunque essi la spiritual
morte domandino, non perciò, potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non
vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar la seconda morte, sí come
noi mortali spesse volte chiamiamo la prima; la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a
nostro potere la fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú spezie di morte,
delle quali è la prima quella della quale tutti corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte
di miseria, la qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta tribulazione e angoscia
sono: e questo è quello che ciascun dannato grida, non dimandandola, ma dolendosi.]
«E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice «contenti», percioché
quella penitenza, che non si facesse con contentamento d'animo di colui che la facesse, non
varrebbe alcuna cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il tempo della
penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti, «se tu vorrai salire», però che sono in cielo,
«Anima fia a ciò di me piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella di Stazio
poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá del monte di purgatorio, sopra la riva del
fiume di Lete, come nel trentesimo canto del Purgatorio si legge.] «Ché quello imperador», cioè
Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui ribellante», non seguendola, «alla sua legge»,
a' suoi comandamenti, «Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte parti
impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto
seggio», reale. «O felice colui, cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono. «Io cominciai: - Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il consiglio di Virgilio, e
approvandolo, lo scongiura che quivi il meni, dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè
Gesú Cristo, «che tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel quale al
presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá ove or dicesti», cioè in inferno e in
purgatorio, «Sí ch'i' vegga la porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il vicario di
san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere, «cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle
pene eterne. «Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo disposto a quello di
che è richiesto, che senza eccezione il mette ad esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei,
che dissi esser partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni dietro», cioè il
seguitai.
II
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SENSO ALLEGORICO
[Lez. V]
«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di Dio, è quello, che
secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da tornarsi al principio di questo canto, e quello che
sotto la rozza corteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e dichiarare. Intorno
alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi si potrebbe forse meritamente dire le parole che
l'autore medesimo dice nel secondo canto del Paradiso, cioè: «Que' gloriosi che passâro a Colco,
Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giason fatto bifolco». Percioché allora per effetto
potrete vedere quanto d'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico, oltre alla stima
che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntelletto il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il
velo del favoloso discrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta soavitá riposta, in
guisa che senza difficultá aver non si puote; e direte: - Perché non diedono i poeti la loro dottrina
libera e aperta ed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne potesse prendere
frutto piú tosto? - In risponsione della qual cosa si possono due ragioni dimostrare: e la prima può
esser questa.
Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, il discreto uomo non tenerle
in piazza, ma sotto il piú forte serrame c'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e
ad alquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa, accioché il troppo farne
copia non faccia quelle divenire piú vili. Il che per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in
ogni altra cosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del quale alcuna cosa sí bella, non
che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara muoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine
impostogli; pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogni terrena cosa vivifica,
accresce e nutrica e al suo fine conduce: il quale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco
prezzato, ma son di quegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non seguiti,
non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire che sia piú cara, piú da gradire e
meglio da riporre e da guardare, che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
della divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgo divenissero, in poco tempo ne
seguirebbe che sarebbon pregiati meno che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole
delle femminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, gli alti segreti della divina
mente nascose, come noi possiam vedere, nelle figure del Vecchio Testamento, nelle Visioni di certi
profeti, e ancora nell'Apocalissi di Giovanni evangelista, sotto parole tanto nella prima faccia
differenti dal vero e meno conformi nell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser non
potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli umani ingegni seguir la divinitá,
con ogni arte s'ingegnarono di seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sotto
favoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, non divenissero vili ad ogni uomo,
aperte lasciandole. Il che assai bene pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro De somnio
Scipionis, cosí dicendo: «De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra se, nec ut
oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam esse naturae apertam nudamque
expositionem sui: quae, sicut vulgaribus hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine
operimentoque subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari. Sic ipsa
mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis nudam rerum talium natura se
praebeat, sed summatibus tantum viris, sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint
reliqui ad venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum», ecc.
La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultá s'acquista, piacer piú
e guardarsi meglio che quello che senza alcuna fatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá
rimase a' nostri giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio esser molta
malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al fabuloso parlare, dee seguire essere
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incomparabile diletto, a colui che, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente
ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza nell'animo, la quale quasi con
legame indissolubile ferma, nella memoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che
senza alcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosí leggiermente si parte. Di che
séguita che dell'avere faticato s'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienza
vòto.
[La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcun dubbio sia li cieli, i
pianeti e le stelle esser ministri della divina potenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi
inferiori generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e quegli nutrire e nel lor
fine menargli. E, percioché essi corpi superiori sono in continuo moto e in diversi modi si
congiungono e si separano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lor prodotti in diversi
tempi e in materie diverse, debbano esser diversi e a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti
la diversitá degli aspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altro somigli; e
similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente essere, eziandio naturalmente, diversi negli
uomini. Dalla qual cosa mosso, dice il nostro autore nel Paradiso:
Un ci nasce Solone, ed altro Serse,
altri Melchisedech, ed altri quello
che, volando per l'aere, il figlio perse.
E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale cognosce una universitá,
come è quella dell'umana generazione, non poter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E
perciò, accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce atto a filosofia, alcuno ad
astrologia, alcuno a poesia e alcuni altri ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita,
quanto può e sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia alle nostre anime, le quali
esso immediate crea, data la ragione e il libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli,
ciascun può far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gli uomini quello a che essi sono
atti nati. Laonde quegli che al poetico oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro
che quello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficio s'appartiene quello che di sopra
è detto, se egli in quello laudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. E perciò
non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosa la veritá, ma piú tosto si dolga della
sua negligenza, per la quale e' perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avere
ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere a questa parte risposto.
Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono, nasconditore, come si vede, di cosí
cara gioia, come è la cattolica veritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si
può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi. De' quali è il primo senso
quello il quale egli ha nelle cose significate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella
esposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e cosí è. Il secondo senso è
allegorico o vero morale, il quale, accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò
in questi versi: «In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo barbaro: facta est Iudea
sanctificatio eius, Israël potestas eius». Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona
solamente, vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israel d'Egitto al tempo di Moisé;
e se noi guarderemo alla alligoria, vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e
se noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la conversione dell'anima nostra dal
pianto e dalla miseria del peccato allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,
vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla corruzione della presente servitudine
alla libertá della gloria eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per vari nomi
appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici», conciosiacosaché essi sieno diversi dal
senso litterale o vero istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabolo greco, detto
«aileon», il quale in latino suona «alieno», ovvero diverso; e perciò dissi questo libro esser
poliseno, percioché tutti questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in assai
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parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmo del presente libro dir quello che
san Gregorio dice, nel proemio de' suoi Morali, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «Sacra
Scriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemque sermone dum narrat textum
prodit mysterium, et sic mysterio sapientes exercet, sic superficie simplices refovet. Habet in
publico unde parvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium in admiratione suspendat.
Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita dixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et
elephans natet», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccia litterale, con quella
insieme narriamo il misterio delle cose divine e umane, sotto quella artificiosamente nascose, e in
questa maniera intorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intorno alla dolcezza
testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora tanto non sentono, che essi possano al senso
allegorico trapassare: cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
gl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda con ammirazione le menti
de' piú provetti. E ancora, quantunque alla Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non
in quanto di quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente parlando, dir si può di
questo, quello esserne che san Gregorio afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e
profondo, nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si possono i rozzi
dilettare e i gran valenti uomini esercitare.
Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata, cioè come quegli, che
di minor sentimento sono, si possano intorno al senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e
nudrire e le lor forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla quale si possano
gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si fará aprendo quello che sotto la crosta della lettera
sta nascoso. Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte del presente
canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder quello che il nostro autore voglia sentire per lo
sonno, il quale dice che ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; la seconda, come noi
in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse la diritta via la quale per questo sonno dice d'avere
smarrita; la quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi che esso avesse la
diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la
sesta, quello che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto dimostra esser
quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perché piú nel principio del dí che ad altra ora scriva
d'essersi ravveduto; la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del sole apparitigli e per lo
monte nella sommitá del quale gli apparvero; la nona, quello che esso senta per la considerazione
avuta, poi che alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentire per le tre
bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, queste vedute, procederemo alla seconda parte
del presente canto.
La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il senso allegorico, nascoso sotto
la lettera della prima parte di questo canto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire
per lo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrasse nell'oscura selva. Ad evidenzia
della quale è da sapere che 'l sonno, che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è
sonno corporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due maniere distinguere. Delle
quali l'una è naturale, e puossi dire esser quella la quale naturalmente in noi si richiede in
nudrimento e conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasi oziose rende
tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e le intellettive, percioché, perseverante esso, né
sentiamo né intendiamo alcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura ha
preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazione delle virtú faticate nella vigilia e
in conforto della vegetativa virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi
medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamente diremo nel principio del quarto
canto del presente libro. L'altra maniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporal
potenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire o potere o sapere, immobili
giacciamo, e giaceremo infino al dí novissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,
quando dice: «Cum dederit dilectis suis somnum».
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Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima, sottoposta la ragione a'
carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze temporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente
diventa, e del tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna cosa a nostra salute
operare. E questo è quel sonno, dal quale ne richiama san Paolo, dicendo: «Hora est iam nos de
somno surgere». E questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale è quando
ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il salmista dice: «Surgite postquam
sederitis, qui manducatis panem doloris»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «Surge, qui dormis, et
exurge a mortuis, et illuminabit te Christus». E talvolta avviene per sola benignitá di Dio che noi ci
risvegliamo, e, riconosciuti i nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ci
riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, a lui riconciliati, ripognamo,
mediante la sua grazia, la ragione, sí come donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia
dell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando e discacciando da noi.
Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentre che ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo,
ne sopraggiugne l'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altra passiamo, lá dove,
non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno coi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li
quali si dicon «dormire nel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,
conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste la gloria de' beati. È adunque questo
sonno mentale quello del quale il nostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,
ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, è veramente legato, e ismarrisce, anzi
perde la via della veritá, alla quale in eterno non può ritornare.
La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questo sonno mentale ci
leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li quali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla
nostra sensualitá, pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de' modi, il
quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostra puerizia, noi il piú dirizziamo i piedi,
cioè le nostre affezioni, in questi lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che la
ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o non ci sciogliamo da quegli, o non
senza grande difficultá, volendo, ce ne sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con
ogni sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá, come detto è, è tenera e nuova e
vaga, e la sensualitá è in essa fortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,
secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale quella etá è inchinevole, par
che prenda inizio la nostra ruina. E la ragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli
vaghi del cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; e gustando, come spesso
avviene, le saporite e dilicate vivande e i vini esquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto
a quello che non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciulli sieno, ad aver men
cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleano satisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi
desiderano e domandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questo nella etá piú piena
procedendo, quasí come da naturale ordine tirati, nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la
quale non solamente i giovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con tante e tali
lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosa etá dell'adolescenza sodisfare, con ogni
pensiero e con ardentissima affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non altrimenti assai sovente
ornandosi, che se vender si volessono al mercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza
denari esercitar pienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari, e, per quegli
ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni disonesto guadagno si dispongono, e
quinci giucatori, ladri, barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú piena
d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la grandigia de' re, de' signori, de' gran
cittadini, di quegli s'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi divengono. Le quali
cose, e altre molte, cosí successivamente, e talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e
abituate in noi, nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon sí stretti, che,
quasi convertite in natura, per romore che fatto ci sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose
accioché a' lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lor figliuoli, ecc.
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(vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il principio). [Né è mia intenzione il modo da
addormentare i miseri nel sonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli avversari
nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta etá adoppiano: ma perciò mi piacque far
singular menzione di questa, perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giú l'abito
preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvolta dal peccare, con molta meno difficultá
v'è rivocato colui che abituato vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa
memoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.
La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la via la quale l'autore dice
d'avere per questo sonno smarrita. Egli è il vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che
a porto di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dice nell'Evangelio: «Ego sum via,
veritas et vita»; e questa via tante volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la può
ritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre iniquitá dai piaceri di Dio ne
trasviano, mostrandoci nelle cose labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per
la quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo: «Beatus vir qui non abiit in
consilio impiorum, et in via peccatorum non stetit», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «Viam
iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei». Chiamasi ancora la vita presente «via»; e di
questa dice il salmista: «Beati immaculati in via»; e in altra parte: «De torrente in via bibit».
Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare, la prima è quella per la
quale, se la gloria eterna vogliamo, ci conviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale
nel sonno de' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato, lusinghevolmente sottentrano
i vizi, e cominciano in etá nella quale pienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí
come questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che pienamente della origine
delle sue colpe si possa ricordare? Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e,
quel passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si mettono.
La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qual cosa potesse esser quella
che l'autor movesse a ravvedersi che esso avesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun
dubbio, si dee credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non ci amiamo noi
medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:
Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
carior est homo illis, quam sibi, ecc.
Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale l'autore tócco si
movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la mente sua era legata, e a ravvedersi in qual
pericolo fosse l'anima sua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser quattro
grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra salute: delle quali la prima è chiamata grazia
«operante», della quale dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; la
seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice san Paolo medesimo: «La grazia di
Dio non fu in me vacua»; la terza grazia si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «Et
misericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae»; la quarta grazia si chiama
«salvante», della quale si legge nell'Evangelio: «De plenitudine eius omnes accepimus gratiam per
gratiam». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí come nel Libro della sapienza
si scrive: «Verte ipsum, et non erit»; e san Paolo dice: «Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux
in Domino». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e di ciò dice il salmo: «Ibunt
de virtute in virtutem». La terza, cioè la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale
dice l'Evangelio: «Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit»; nell'Apocalissi si legge:
«Quicumque vicerit, dabo ei edere de ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei»; e in altra parte
nell'Apocalissi medesimo: «Quicumque vicerit, faciam illum columnam in templo Dei mei». La
quarta, cioè la salvante, secondo i meriti guiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «Quid hic
statis quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabo vobis»; e san Paolo:
«ut recipiat unusquisque secundum ea quae fecit». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto
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parlato, percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare, piú diffusamente se ne
vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al presente. E dico che la prima grazia senza alcun
merito di colui che la riceve si dona; di che dice san Paolo: «Non secundum opera quae fecimus
nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit». Le qualitá delle quali grazie considerate,
assai manifestamente appare la prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (e
similemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fu conceduta da Dio, per la quale esso il
suo misero stato conobbe.
Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio i peccatori con questa sua
grazia? Le maniere son molte, percioché a tanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a
quello che egli volesse adoperare. Dice il salmista: «Dixit et facta sunt: mandavit et creata sunt».
Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le menti di coloro che di questa grazia hanno
bisogno, sí come noi leggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro e san
Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal sonno e dal mentale, quello seguí, e
gli errori del paganesimo tutti da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo toccamento, che esso divenne
subitamente, di lupo, agnello e vaso di elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi
messaggeri, sí come fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulterio commesso in
Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale,
piangendo, e in quel salmo allora da lui composto, cioè «Miserere mei, Deus», la sua misericordia
addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e similemente Ezechia re, nunziatagli per
comandamento di Dio da Isaia profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.
Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gli uomini, sentendosi affliggere
nella perdita de' figliuoli e delle possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'uscire della via delle tenebre e
tornare alla luce. E quantunque saper non possiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la
maniera con la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonno mentale, credesi
nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco; giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la
presente opera incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di dover
perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di dovere nelle proprie cose ricever danno. Per la
qual cosa, da questa grazia operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cose
presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e di pericoli, e nulla altra cosa in sé aver
fermezza se non il servire e amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola
della ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, e cominciò a conoscere la miseria dello
stato de' peccati, e ad avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericolo esso fosse
lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.
La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della nostra vita che in altra
etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa è da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in
due modi. L'un modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale; il quale mezzo
è dirittamente quel punto che igualmente è distante a due estremitá. Verbigrazia: egli è una verga
lunga due braccia, cioè dall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che il mezzo
puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitá cominciandosi e andando verso l'altra la
lunghezza d'un braccio, lá dove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo
ancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa, quando alcun cerchio discriviamo;
percioché questo in ogni parte del cerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda
maniera del mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra due estremi, o infra la
circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di Tamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un
fiume posto nel mezzo tra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem essere nel
mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo puntale, e ciò, come i geometri
sanno, non è vero. E perciò in questa parte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona
sua, per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era di etá di trentacinque
anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra, quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove
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l'aveva la ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli si sia, può avvenire,
anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la via della veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la
grazia di Dio, il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autore si ravveggono,
intender questo mezzo quello spazio che è posto in fra il dí della nostra nativitá e il dí della morte.
E puossi quel mezzo il quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de' trentacinque anni,
moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni corporale virtú è a sua perfezion venuta; e
cosí, in qualunque tempo l'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si può
dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí nella buona disposizione, aiutato
dalla grazia cooperante, perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altra in
un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al suo fine di venire.
La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello ch'egli intendesse per quella
selva oscura e malagevole nella quale dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io
posso comprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella quale ciascun peccatore
cade ed entra, sí tosto come cade in peccato mortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella
il dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioè piena d'ignoranza (il che assai
chiaro ne mostra Isaia quando dice: «Erravimus a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis»),
considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se in loro fosse alcuna luce di
sapienza, non è alcun dubbio che non cercasson tantosto d'uscirne. E chi è piú ignorante che colui il
quale, potendo schifare il fare contro a' comandamenti del suo Creatore (ché può ciascun che
vuole), si lascia tirare alle lusinghe della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che pure,
veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza, avendo la via, d'uscirne, ma, aggiugnendo
l'una colpa sopra l'altra, piú se medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso il suo
intelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice, oltre a ciò, questa selva essere «selvaggia»,
sí come del tutto strana da ogni abitazione umana: percioché nella prigion del diavolo, nella quale
noi medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanitá, né pietá, né clemenzia, anzi è piena di
crudelitá, di bestialitá e di iniquitá. Né osta il dire: egli v'abitano gli uomini peccatori; percioché
questo non è vero; ché, come l'uomo ha commesso il peccato, egli diventa quella bestia, li cui
costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia: colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere,
percioché la lussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventa porco, quantunque
effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo, perché il lupo è rapacissimo animale: e cosí
quello luogo è salvatico, sí come privato d'ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per le
spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de' peccati, li quali, continuamente dai
morsi della coscienza infestati, dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quanto
tenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati, li quali, poi che nel profondo
delle colpe caduti sono, della divina misericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli
orecchi alli ammonimenti de' giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, per queste qualitá, a colui
il qual è tócco dalla divina grazia, ella pare (e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la
morte eternale, nella quale alcuna dolcezza non s'aspetta giammai.
Nondimeno dice l'autore alcun bene aver trovato in essa. Per lo qual bene niun'altra cosa
credo che sia da intendere, altro che la misericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne' giusti
s'adoperi; e cosí ne' peccatori è tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcun nostro merito né
lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, del peccato commesso. Ella adunque è quella, che,
nella oscuritá della nostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova presta a non
guardare a' difetti commessi, ma solamente alla buona affezione di chi a lei rivolger si vuole per
doverla ricevere; questa è quella, la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ci ritira. Della
quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna, l'autore dice di voler trattare, sí come fa nel
libro secondo della presente Commedia, nel quale pienamente si posson comprendere e la sua
santissima liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori, quantunque essi abbiano incontro ad essa
operato.
La settima cosa dissi era da vedere perché piú nel principio del dí scriva l'autore d'essersi
ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno a questa parte dire, quanto gli uomini involti ne' peccati
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dimorano, tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; la quale, come la notte
toglie il poter conoscere o vedere le cose, quantunque nel cospetto ci sieno, cosí toglie il
cognoscere il vero dal falso e le cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene che la grazia di
Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta, cosí comincia a tornar la luce della conoscenza
di Dio e di se medesimo e del suo stato; e ognora che la luce apparisce, è di necessitá che le tenebre
della notte cessino; ed in quella ora che le tenebre cessano, sí come manifestamente appare, è
principio del dí, e massimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza, sollecitato e
sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Osea profeta in persona di Cristo: «In tribulatione sua
mane consurgent ad me». Ed il peccatore d'altra parte, come agli occhi dell'intelletto gli apparisce
la divina luce, giá le sue malvage operazioni cominciando a cognoscere, può dire quelle parole del
salmista: «Mane adstabo tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es». Dunque
congruamente finge l'autore di mattina essere stato questo ravvedimento, per lo quale si conobbe
essere nella oscura selva dei peccati e della ignoranza.
L'ottava cosa dissi era da vedere quello che l'autor vuol intendere per lo sole che sopra il
monte vide e per lo monte. Per li monti intende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli; e questo,
percioché, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole materiale surgente, cosí gli
apostoli furono i primi che ricevettero i raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il
quale è veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che viene in questo mondo. E
che esso sia vero sole, per molte ragioni si dimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E,
secondo che io estimo, nell'autore, sentita la grazia di Dio, venne quel desiderio, il quale si dee
credere che vegna in ciascuno il quale quella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le
colpe sue, e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorsegli nella mente alcuna
dottrina non potergli in questo suo disiderio satisfare, come l'apostolica; rammemorandosi delle
parole del salmista, dove, parlando di loro, dice: «Non sunt loquelae, neque sermones, quorum non
audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum».
E però, fuggendo la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, come talvolta disse il
salmista: «Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi»; volendo in questo dire che
egli levasse gli occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla quale sperava dovere
avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questa speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la
sommitá di questo monte coperta de' raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che essa dottrina
apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo, il quale veramente mena altrui diritto per ogni
calle; cioè, da che che colpa l'uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E che la dottrina
degli apostoli sia santa e veramente piena de' doni dello Spirito santo, appare per le parole d'Isaia,
dove dice: «Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae et intellectus, spiritus
consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis, et replebit cum spiritus timoris Domini». Per
che l'autore, e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiato davanti, dove prender lo
voglia, puote meritamente sperare, e, sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il
fanno dimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltre a ciò, veggendo sopra
questo monte il sole scacciatore delle tenebre eterne, e il quale è toglitore de' peccati, sí come noi di
lui leggiamo: «Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi»; puote ancora maggiormente sperar
salute, sospinto dalle parole d'Isaia, il quale dice: «Vobis, qui timetis Deum, orietur sol iustitiae». E
perciò meritamente l'autore, conosciuto, lá dove era, esser valle di miseria, sí si sforza di partir di
quella e di voler salire al monte, cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote liberare
ciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello 'nferno.
[Lez. VI]
La nona cosa, la qual dissi considerar si volea, era quello che l'autor sentisse per la
considerazione avuta, poi che alquanto la paura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del
pericolo, nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la quale dobbiamo intendere il
primiero atto dell'animo di colui che la passata miseria della sua vita comincia a cognoscere. Il
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quale veramente non è altro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di
sentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano essere state quelle cose che in
quelle miserie l'avrebbono, ciascuna per se medesima, potuto far morire di perpetua morte: e
massimamente cognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti benefici ha ricevuti,
cognoscendo la sua giustizia, la quale, passato il tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può,
come quella de' mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né corromper con doni o con
eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione si levan presti coloro, li quali invano non
ricevono la divina grazia, e per la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice
«diserta», percioché ancora è sterile e senza alcun virtuoso frutto l'anima di colui che pure ora ora
comincia a partirsi della via del peccato.
La decima cosa, la quale da essere cercata dissi, è quello che noi dobbiamo sentire per le tre
bestie, le quali l'autor mostra che impedivano il suo cammino. [Ed intorno a questo è da considerare
queste bestie altrimenti doversi intendere avendo riguardo solamente all'autore, e altrimenti avendo
riguardo generalmente a ciascun peccatore, che vuole alla via della veritá ritornare, percioché non
ogni uomo igualmente è da una medesima passione impedito: e perciò avviso l'autor ponesse quello
che a lui sentiva s'appartenesse e di che piú si conosceva passionato. E però primieramente quello
dirò ch'io sentirò per queste tre bestie appartenere all'autore; poi, se niuna cosa v'avrò da mutare per
riducerle al senso spettante all'universitá dei peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].
Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato di lasciare la valle oscura e
di salire al monte luminoso e chiaro, cioè alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre
bestie quelle che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un leone e una lupa. Le
quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia
di tutti, par che si debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della lussuria, e per lo
leone il vizio della superbia, e per la lupa il vizio dell'avarizia. E, percioché io non intendo di
partirmi dal parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi animali a' detti vizi si
possono appropriare; e poi, se all'autore parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di
ciascuno.
Sono adunque nella lonza, tra l'altre molte, quattro singolari proprietá: ella primieramente è
leggierissima del corpo, tanto, o piú, quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è
leccata, piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è maravigliosamente vaga del sangue
del becco; ultimamente, ella è di sua natura crudelissimo animale.
Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente conformi al vizio
della carne: percioché la sua leggerezza è a dimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che
con l'appetito o che attualmente con esso vizio s'inviscano; imperoché essi alcuna volta ardon tutti,
da fervente disiderio della cosa amata accesi, e alcun'altra son piú freddi che la neve, cessando
punto la speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e lamentansi e
piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamente diventano umili; ora turbati garrono e
gridano, e di presente mitigati lusingano. Le quali levitá ottimamente discrive Plauto in una sua
commedia chiamata Cistellaria, dove un giovane, piú che uopo non gli era, invescato in questa
pania, dice cosí:
Credo ego amorem primum apud homines carnificinam commentum, hanc ego de me
coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes homines supero, atque antideo
cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior, agitor, stimulor, vexor vi amoris totus, miser. Exanimor,
feror, differor, distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum, ibi non sum: ubi non
sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt. Quod lubet, non lubet iam id continuo. Ita me
amor lassum animi ludificat, fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur: quod dat, non dat:
deludit: modo quod suasit, dissuadet: quod dissuasit, itidem ostentat. Maritimis moribus mecum
expelitur: ita meum frangit amantem animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihi ulla abest
perdito pernities, ecc.
Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e salta tosto d'una cosa in
un'altra: un muover d'occhi, un atto vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una
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lusinga, d'uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; e ora avendo a schifo questa che
piacque, e ora desiderando quella che ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della
lor mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero affabile, mai piú non veduto,
subitamente dimenticò il lungamente e molto amato Sicheo; assai bene verificando quello che
l'autore, nel Purgatorio, delle femmine dice:
Per lei, assai di lieve si comprende
quanto in femmina fuoco d'amor dura,
se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende.
Giasone dell'amor d'Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e, lei abbandonata, poi si
rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze e disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza
di questa bestia co' miseri libidinosi dimostrano.
Appresso, la pelle sua leccata e di macchie dipinta, non meno che la predetta, si confá co'
costumi de' lascivi; percioché quegli, gli quali da tal passione son faticati, quanto possono, o per
pigliare o per tenere, si studiano di piacere; per la qual cosa s'adornano di vestimenti vari,
pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi, tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano,
spendono, gittano, e, dove di parer piú begli e piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente di
disoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e' prese e fu preso Paris da Elena; con
queste armi mise Dalila nelle mani de' suoi nemici Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra
Cesare.
E, oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue del becco. Intorno alla
qual cosa si dee intendere in questo dimostrarsi l'appetito corrotto di coloro li quali in questa
bruttura si mescolano: percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale, cosí, per l'usare
questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qual cosa alcuni miseramente, credendosi in cotal
guisa sviluppare, non accorgendosene, s'inviluppano; percioché non questo, come gli altri vizi, per
continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che ottimamente dimostrarono i poeti nella
scrizione della battaglia d'Ercule e d'Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale e olido, del
quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la vaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e
abbominevole atto venereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo 'ntelletto umano, che
se non fosse che la natura ha in quello posto maraviglioso diletto, accioché l'umana specie per non
generare non venga meno, io sono d'opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa il fuggirebbe.
E la dilettazione, la quale questa bestia ha del sangue del becco, assai chiaro dimostra l'appetito che
ciascuna delle parti di quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine di quello
disonesto atto; nel quale il sangue de' miseri dannosamente tante volte, quante per altro che per
generare si versa, non meno biasimevolmente, che se in una fetida sentina si gittasse, si perde.
Senza che, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, i membri ne diventan tremuli, e
la nodosa podagra, con gravissima noia di chi l'ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto; e
cosí non solamente se n'offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la persona. Per questo
convenne a Gaio Antonio, poste giú l'armi, militare con l'animo dietro a Catellina; e, come che piú
non me ne ridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non ne sieno stati cosí copiosí
come veggiamo l'odierno.
Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltá è da intendere la
crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú con lui si dimesticano e congiungono, le piú
delle volte conduce a crudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe donne,
mentre senz'alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito, hanno giá la lor morte, dopo
faticosa infermitá, avacciata? Quanti ancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente
disiderio di pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Il non potere aspettare
Demofonte, suo amico, condusse Fillide ad impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad
Artabano medo vittoria sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone altro
che il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua moglie?
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Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenza carnale, la quale,
lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle mortali dolcezze ch'ella porge, facendosi incontro
alla sensualitá umana, qualora l'animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa partir si vuole e
alle divine cose tornarsi, con non piccola forza s'ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal
volto; quasi voglia dire: rammemorando tutte quelle persone che giá sono state amate, tutti quegli
atti, tutte le parole che giá sono state piaciute; le lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con
pietoso aspetto ricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa castitá, questo
proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perdere quello che mai non dee potere
recuperare. Con li quali conforti, e altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell'Eneida mostra
Virgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla gloriosa impresa rivolgerlo, come giá
assai dal buon principio hanno rivolti al doloroso fine d'eterna perdizione.
Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo fare nelle abbandonate tenebre
ritornare; il quale dall'ora del tempo e dalla dolce stagione prese speranza di vincere questo vizio
oppostosi alla sua salute. Per la quale ora del principio del dí credo sia da prendere l'ora o 'l tempo
nel quale Cristo prese carne umana; il quale prender di carne, fu senza alcun dubbio il principio
della nostra salute il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio con la nostra umanitá, il
principio del tempo accettevole, il quale per tante migliaia d'anni fu aspettato. E questo, percioché
in quel proprio dí fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí come apparirá appresso, il nostro
autore dice sé essere risentito dal sonno mortale. E cosí vuole adunque l'autore darne a vedere che,
di ciò ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui, senza la quale non si
puote avere d'alcun vizio vittoria. La stagione del tempo similmente gli die' buona speranza,
conoscendo che in quella stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via alla nostra
salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umana generazione abbattuto: per che sperar si
dovea di poter similmente abbattere i suoi ministri.
La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu un leone, il quale dissi essere
inteso per la superbia, alla quale, come egli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá,
a quelle del vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace ma temerario; e appresso è rapace
e soprastante; ed è ancora altisono nel ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine
che l'odono: e, come che assai piú ce n'abbia, queste tre bastino a mostrare per lui ottimamente
potersi intendere il vizio della superbia.
Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario; percioché, senza misurare
le forze sue, non è alcuno animale sí forte (che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non
presuma d'assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato indietro. Ed Aristotile nel
terzo dell'Etica, lá dove parla della fortezza, dice che l'esser temerario è vizio, in quanto il
temerario presume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s'appartiene. E questo vizio è il
presumere alcuno di combattere con due o con tre o con piú; conciosiacosaché ciascuno debba
credere uno poter quanto un altro, e con quell'uno mettersi a combattere è ardire e segno di
fortezza; dove l'andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá. In questo l'uomo superbo è
simigliante al leone, percioché il disiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che
cosa non è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a lui non si convenga, sol che
egli creda per quello essere reputato magnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti
regni, molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolo d'esser cacciato di paradiso
con tutti i suoi seguaci; questa fu cagione a Capaneo d'esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe
in terra; questa fu cagione a Golia d'essere ucciso da David, come la Scrittura ne dice.
Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa è quanto piú può propria del
superbo, al quale, quantunque ricco sia, non soffera l'animo d'esser contento al suo, ma
continuamente prieme e oppressa i minori, ruba l'avere, occupa le possessioni, batte e ferisce i
resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d'ogni nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare
agli altri, estimando per questo lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piú eccellente
animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re di Numidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato
nel Tevero; e Iezzabel ad essere della torre sospinta, e da' cavalli e da' carri e dagli uomini
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scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e Antioco re d'Asia e di Siria essere oltre
al monte Tauro da' romani rilegato.
Similemente dissi che il leone era altisono nel ruggir suo e ch'egli spaventa le bestie
circunstanti; il che Amos profeta dice: «Leo rugiet, quis non timebit?». Al qual romore il vizio della
superbia è evidentissimamente simigliante, in quanto l'uomo superbo sempre usa parole altiere,
spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre parla di sé e de' suoi gran fatti, e dilettasi e
vuole che altri ne parli; quello estimando d'essere che i paurosi ragionano per piacergli. Per la qual
bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo per divina operazione ingannato, lasciato il solio reale,
n'andò a pascer l'erbe ne' boschi; Simon mago cadde d'aria e fiaccossi la coscia; Roboam, re de'
giudei, de' dodici tribi d'Israel ne perdé nove.
Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi dover potere per lo leone,
al nostro autore apparito, intendere il vizio della superbia, la quale all'uomo, che da lei e dall'altre
nequizie si vuol partire e tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agli occhi della mente,
non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli che, dove egli la sua maggioranza, il suo
altiero stato abbandoni, egli diverrá un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosa chiamato,
e intra' suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, e da coloro, li quali esso ha giá premuti,
offeso e scalpitato, rubato e spogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá, quando
vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, la potenza del levare in alto e d'abbassare
secondo il suo volere, la pompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcun dubbio
hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide di cadere, e per conseguente a farle
ritirare indietro dalla laudevole impresa. Ma a queste due, dice l'autore essere ancora ad impedire il
suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l'altre due, averlo spaventato e ripintolo
indietro.
La terza bestia, che davanti all'autore si parò, fu una lupa, fiero animale e orribile, il quale,
come davanti dissi, è inteso per l'avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell'altre due
abbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio conformatole, il mostreranno.
Manifesta cosa è la lupa essere animale famelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo
viene, nel quale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro continuamente, a quello il
quale piú misero di tutti le pare, gli altri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale
sospettissimo, continuo si guarda d'intorno, e quasi in parte alcuna non si rende sicuro, credo dalla
coscienza sua medesima accusato.
Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel medesimo essere l'uomo
avaro; percioché, quantunque l'uomo avaro abbia quello che gli bisogna, onestamente e in
qualunque guisa ragunato, forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel
contento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in ciascun suo esercizio piú
che mai si mostra affamato; e, per sodisfare a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna
disonestá, niuna falsitá o altra nequizia, nella qual'e' non si mettesse. Per la qual cosa Virgilio, nel
terzo dell'Eneida, fieramente la sgrida, dicendo:
... Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames?
Secondariamente il vizio dell'avarizia si mette in uomini cattivi e pusillanimi; il che appare,
in quanto in alcun valente uomo o magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno cosí, le loro
operazioni il dimostrano. Metterassi l'avaro in una piccola casetta, e in quella, in continua dieta per
non spendere, dimorando senza muoversi, dieci e venti anni presterá ad usura, vestirá male e
calzerá peggio, rifiuterá gli onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de' suoi acquisti esser
signore, esso diventa de' suoi tesori vilissimo servo; e, quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto
tien gli occhi piú diritti all'altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sé esser povero, e
mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni della fortuna tristissima parte, quanto l'animo suo sia
piccolo e misero manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere l'avarizia
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accompagnarsi con la piú misera condizione d'uomini che si trovi, come la lupa col piú tristo de'
lupi si congiugne.
Appresso questo, dissi il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa esser l'avaro, i suoi
costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amico non comunica la quantitá de' suoi beni,
sospicando non la gran quantitá palesata gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niuna fede
presta all'altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli sia parlato per sottrargli alcuna cosa; in
niuna parte estima essere assai sicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme non
per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, né riposata alcuna notte; ogni
piccol movimento di qualunque menomo animale suspica non andamento sia di ladroni; e, non
fidandosi delle casse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chi potrebbe assai
pienamente narrare i sospetti de' miseri avari, li quali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá
hanno tesi ad altrui?
E perciò, dovendo bastare quello che detto n'è, credo assai convenientemente l'avarizia o
l'avaro convenirsi alla lupa, la quale piena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonesti
guadagni e l'altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere in miglior via ritornare. E nel
cuore gli mette cotali pensieri: - Che fai tu, misero? ove vuo' tu andare? da qual parte comincerai tu
a rendere i furti, le ruberie e le baratterie e i denari in mille modi male acquistati? vuo' tu lasciare
quello che tu hai, per quello che tu non sai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo
perduto, quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degli uomini? come faranno i
figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame? come fará la tua bella donna, e tu, misero, come
farai? Tu diventerai favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere né udire. Tu
puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo' tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai
avuto. Egli sará il meglio che tu attenda a guadagnare. E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa per sudducimento e opera del
dimonio, il quale alla nostra salute sempre s'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e,
avuta poco a prezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per conseguente in eterna
perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai c'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli
altri vizi invecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciò furono verissimi
testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo, prima lei abbandonarono che essa da loro,
vivendo, fosse abbandonata.
[Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagione di resistenza e di
paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi tre animali significhino in altri assai, che, dal
vizio partendosi, vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla quale queste tre
bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è a tutti comune, che alli tre nostri principali
nemici, cioè la carne, il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo il leone, e
'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano e stanno intenti alla nostra dannazione.
La carne ne lusinga con la dolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il veleno infernale,
il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosí quasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò
velenati, miseramente moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita di stare
attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «Vigilate, et orate: spiritus quidem promptus, caro
autem infirma». E san Paolo similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «Spiritus
concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum»; vogliendone per questo ammaestrare che
noi siamo e avveduti e forti a resistere alle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne
para dinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli stati e la pompa secolare, gli onori
e la peritura gloria; nascondendo sotto la sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le
guerre, l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai, senza le quali né pigliare né
tenere si possono queste preeminenze, questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e
ciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eterna beatitudine. Susseguentemente il dimonio,
rapacissimo ed insaziabile divoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, ne
minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della sua via usciremo; attorniandoci
sempre con agguati, non forse da quelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue
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dimostrazioni assai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina misericordia, a volontaria morte
c'induce: e cosí impedisce tanto chi vuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne
il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e le noie che preparate e date da'
nostri nemici ne sono, e il nostro ben volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia
della lettera l'autore ne dimostra.]
«Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questo canto è stato
dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore aver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir
di quello, e tornare alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltre a ciò, quali
sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via impediscono: in questa parte dimostra il divino
aiuto al suo scampo mandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, esso possa quel
cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute. E come questo mandato gli fosse, piú
distintamente si mostrerá nel canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo,
coloro i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti della persona; cosí creder
dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitá del peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua
sanitá. E, come il nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non si puote, né
muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dal peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto
della divina clemenza non può cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autore di
mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietá diritti a' nostri bisogni, ne mandi
la sua seconda grazia, cioè la cooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiam
forza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le nostre colpe, nel timor di
Dio torniamo, e della terza grazia, perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.
Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versi intende, sentendo per
Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui prende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per
iscienza, e sí ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò, percioché Virgilio,
quantunque con altro senso, in parte trattò quella medesima materia, la quale egli intende di
trattare; e ancora, percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poeta che alcuno
altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcun altro, percioché egli tra' latini ottiene il
principato.
E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte dove l'anima sua, timida di
non essere dalle lusinghe e dagli spaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo delle
miserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senza consiglio alcuno e senza
conforto.
Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, lá dove bisogno será, nella
presente opera s'intenda per la ragione a noi conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati
«animali razionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella quale si dee credere questa
seconda grazia ricevere e abitare, conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a
cooperare con l'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a guidare ogni nostra
operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da
noi lasciata esser donna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le nostre colpe,
la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion tace e diventa mutola, non comanda, non dispon
piú secondo il suo consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della sensualitá era
nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nel primo muover delle sue parole paresse «fioca».
Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta la sensualitá, risurge e torna
nella sua sedia e manifestasi alla destituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ogni
virtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni sua opportunitá: [e, avanti ad
ogni altra cosa, fa in se medesima maravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire a
Cristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lascia dallo spaventamento dei vizi
sospignere allo 'nferno. Della qual cosa segue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia
l'avarizia, e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale e laudevole virtú, ella fia
scacciata, superata e vinta, e in inferno rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita
promessa all'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per la sua opera, l'anime,
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create ad essere beate, fossero laggiú traboccate, onde ella era stata menata]. E di questo séguita
che, poiché, per lo impedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli era tolta, che a
lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscir della via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire
la ragione, dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo si leggono.
Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendo uscire dello stato della
miseria e ritornar nella grazia, tenere il cammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere.
E la ragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare quello che detto è,
primieramente conoscere le colpe sue; alle quali, conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio
siano quelle colpe punite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio, il quale è
principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo timore di Dio incontanente fa seguire
nelle nostre menti contrizione e pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da quella] alla satisfazione, dopo la
quale si sale alla gloria, come possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro
autore tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne può la nostra ragion
dimostrare; percioché tutti sono atti civili e morali e reduttibili agli spirituali.
[Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien qui luogo della grazia
cooperante, gli dá, cioè che egli per lo 'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a
rispetto de' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e, tra quegli, considerati quegli
che la nostra ragione, le leggi positive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee
ciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol, merita pena, e qual pena secondo
le leggi temporali e secondo l'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore
dell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fatte pentendosi, venga a vedere coloro
che son contenti nel fuoco, cioè nell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida
della teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non può comprendere, salga purgato
delle offese all'eterna beatitudine.] Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questo
primo canto.
Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzi l'animo ciascuno che il
presente libro legge, e quella disidera di sapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per
quello veltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, per quello che io abbia potuto
comprendere, sí per le parole dell'autore, sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale
ha alcun sentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazion celeste, la quale dee
negli uomini generalmente impriemere la vertú della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora
persevera quella del vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nel Purgatorio, dove
dice:
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di quaggiú trasmutarsi,
quando verrá, per cui questa disceda?
cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il vizio dell'avarizia. [Or non so io, se questo
dovere avvenire, l'autore ne' moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altra coniettura
ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaro i costumi degli uomini mutarsi e d'una
parte in altra trasportarsi. Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancora dell'altre, lo
'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re, fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri,
sotto i medi e sotto i persi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, le quali, come
prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono, e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia;
e poi da Alessandro re di Macedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde la scienza, la
religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo i latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui
paiono andate inver' ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che il cielo ne
minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventura potrá, se piacer fia di Dio, di questa
costellazione che l'autor dice, avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene
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che quaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcuno uomo, o per piú; par
l'autore qui sentire che per uno si debbano gli alti effetti di questa impression dimostrare: il quale
metaforice chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí contrari all'avarizia, come
il veltro di sua natura è contrario al lupo.
E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua debba essere tra
feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale muove tutto il dubbio che nella presente discrizion
si contiene. La qual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò in questa sarò piú
recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de' miei.
Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendere Cristo, e la sua venuta
dovere esser nell'estremo giudicio, ed egli dovere allora esser salute di quella umile Italia, della
quale nella esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma questa opinione a
niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è signore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non
prende i suoi movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra creatura, seguitano il
suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e, quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra
nuova, e non saranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver luogo; e la
venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia né d'altra parte, percioché solo la giustizia avrá
luogo, e alla misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tutti saranno in perpetuo
rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo non dee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro
dee nascere. Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito, quasi e' nacque tra feltro
e feltro, cioè della Vergine Maria, che era povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa
ragione non procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, nei tempi che
nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umane grandissima; né poi si vede, non che
essere scacciata, ma né mancata. Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:
egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, che era di reale progenie. E se dire
volessono: ella era povera; la povertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;
percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali poverissimi, e ricchissimi di
virtú e di santitá. Perché dich'io tante parole? Questa ragione non procede in alcuno atto.
Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potere avvenire, secondo la potenza
conceduta alle stelle, che alcuno, poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il
che paiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questa spezie di panno è, oltre ad ogni
altra, vilissima), potrebbe per virtú e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta
eccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a magnificenza, senza avere in
alcuno atto animo o appetito ad alcuno acquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare
abbominazione il vizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose appartenenti
alla magnificenzia, e la costellazione del cielo essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o
potrá, muovere gli animi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie, e per
conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed, essendo salute di quella umile
Italia, la qual giá fu capo del mondo, e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver
potenza, sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni parte discacciatala, la
rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in abusione, o vogliam dire in quella parte dove gli
altri vizi son tutti, e donde ella< primieramente surse intra' mortali. E, a roborare questa loro
oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioè quegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li
poeti si truovano essere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne' quali questi beni
temporali dicon che eran tutti comuni; e per conseguente, se questo fu, anche dover essere che
questi sotto il governo d'alcuno altro uomo sarebbono.
Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno del «tra feltro e
feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé estimare la dimostrazione di questa mutazione,
cioè del permutarsi i costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá, doversi
cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá dove estimano essere adunate le maggiori
[ricchezze e] moltitudini di tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E la
ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono essere antico costume degli
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imperadori dei tartari (le magnificenze de' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo,
essere da alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contrada dov'e' muore, una pezza di
feltro, e colui che la porta andar gridando: - Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta
di tutti i suoi tesori; - e, poi che questa grida è andata, in questo feltro inviluppano il morto corpo di
quello imperadore; e cosí senza alcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí:
questo veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa costellazione, nascerá in
Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnante alcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro
adoperato nella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella sua morte adoperare.
Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbono avere alcuna similitudine di vero; la quale non
è mia intenzione di volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto dicono quegli
imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran che istimino, dall'abbondanza dei tesori
riservati, essendo sparti, doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichi cominciare. Il
che mi pare piú tosto da ridere che da credere: percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará,
non avrebbe forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, che sempre sopra la terra
ne sono. Che dunque piú? Tenga di questo ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me
credo, quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, si trasmuteranno in meglio i nostri
costumi. E questo, quanto sopra il primo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro
che piú sentono che io non faccio].
Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, non solamente in questo libro,
ma eziandio in ogni altro [e ne' divini], ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé
alcun sentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendo nel precedente canto ad
ogni parola altro sentimento dato che il litterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere
difettuosamente da me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'l dicesse,
questi cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché in ciascuna figurata scrittura si
pongono parole che hanno a nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non
ascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possan consistere: sí come per
esemplo si può dimostrare in assai parti nella presente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La
sesta compagnia in duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»? che molte
altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, come potrá seguire l'ordine della dimostrazione che
l'autore intende di fare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono? Se ogni
parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere, di soperchio avrebbe san Girolamo
detto nel proemio dell'Apocalissi, e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
son le parole; conciosiacosaché nell'Apocalissi per eccellenzia quello si creda avvenire, che in alcun
altro libro della Sacra Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda non ogni
parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo Agostino nel libro Dell'eterna
Ierusalem, dicendo: «Non omnia, quae gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed
propter illa, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra proscinditur; sed, ut hoc
fieri possit, etiam caetera aratri membra sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi
vasis musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera in compagibus
organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea, quae percussa resonant, his
connectuntur», ecc. E perciò estimo che molto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente
opinare quello che manifestamente si può riprovare; e quinci prendere certezza, se alcuna cosa
allegorizzando è omessa, quella non per negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia
l'allegoria, essere stata intralasciata.
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CANTO SECONDO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. VII]
«Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parte seconda di questa prima
cantica chiamata Inferno, nella qual dissi l'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si
potesse in diverse maniere dividere, questa sola intendo che basti per universale, cioè dividersi in
tante parti, quanti canti seguitano; percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente dagli
altri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continua l'autore al precedente; nella
seconda, secondo il costume poetico, fa la sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un
dubbio; nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore, rassicurato, dice di
volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultima l'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in
cammino. La seconda comincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Io cominciai: Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; la quinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta
quivi: «E poi che mosso fue».
Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché, avendo detto nella
fine del precedente canto sé esser mosso dietro a Virgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella
quale si mossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare del sole all'occidente;
«e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, la qual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che
appare null'altra cosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questo è quello che è
cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, al levarsi di quello, sempre la notte fugge,
Pronapide, greco poeta e maestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gli astrologi
questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio il quale si contiene tra il levare del sole e
l'occultare; e la ragione è, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo il dividono in
dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturale è di ventiquattro ore equali, e in questo è
notte congiunta col dí; ma dinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida. E
chiamasi dí da «Dios» graece, il quale in latino viene a dire «Iddio»; percioché, come Iddio sempre
in ogni cosa buona ne giova e aiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. E
potrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male ha in odio la luce.] E mostra, per
questa discrizione del farsi notte, che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di quel dí,
in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar con Virgilio.
«Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro». Dimostrane qui l'autore una delle
operazioni della notte, la quale l'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete degli animali,
degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempo al riposo non si prestasse, non sarebbe
alcuno animale che nelle sue operazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno
«toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io sol uno». Par che qui sia un vizio, il
qual si chiama «inculcatio», cioè porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino,
come qui sono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non può essere se non solo;
ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del parlare, il quale pare aver prescritto questo modo
di parlare, contro al vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo» fosse nome
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adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, e cosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava
a sostener la guerra», cioè la fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che far dovea
(in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí della pietate», cioè della compassione, la quale
aspetta d'avere vedendo l'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco si purgano. Ed in
questo dimostra l'anima dovere esser faticata, percioché essa è dalle passioni, che dalle cose
esteriori vengono, gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancor gravata dalle
passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «la mente», cioè la potenza memorativa, «che
non erra»; e questo dice, percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa non temeva
dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.
«O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la sua invocazione, secondo il
costume poetico. Usano i poeti in pochi versi dire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di
trattare in tutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loro invocazione. E cosí fa Virgilio nel
principio del suo Eneida:
... at nunc horrentia Martis
arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris, ecc.;
e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:
Musa, mihi causas memora; quo numine laeso, ecc.
E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:
In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora;
ed incontanente invoca, dicendo:
...dii coeptis, nam vos mutastis et illas,
aspirate meis, ecc.
E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommaria intenzion loro; e cosí,
nel principio della sua Odissea, fece Omero, li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio,
dicendo:
Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae,
qui mores hominum multorum vidit, et urbes.
Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarca fece nel principio
della sua Africa, dicendo:
Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum,
musa, virum referas.
Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come in ciascuna cosa fa, che a quello
d'alcun altro; percioché, avendo sotto brevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in
tutto il libro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogo eterno», ecc.; qui fa la sua
invocazione, dicendo: «O muse, o alto ingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca
adunque in questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra è mostrato far gli altri
poeti: per che pare di dover dichiarare che cosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio;
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e questo, sí per piú pienamente dar lo intelletto del presente testo, e sí ancora perché in piú parti del
presente libro se ne fará menzione.]
[È adunque da sapere, secondo che i poeti fingono, che le muse son nove, e furono figliuole
di Giove e della Memoria: e la ragione perché questo sia da' poeti, fingendo, detto, è questa. Piace
ad Isodoro, cristiano e santissimo uomo e pontefice, nel libro Delle etimologie, che, percioché il
suono delle predette muse è cosa sensibile, e che nel preterito passa, e impriemesi nella memoria,
però essere da' poeti dette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io, a maggior dichiarazione di
questo sentimento, estimo che sia cosí da dire: che, conciosiacosaché da Dio sia ogni scienzia,
come nel principio del libro Della sapienza si legge, e non basti a ricever quella solamente l'avere
inteso, ma che, a farla in noi essere scienza, sia di necessitá le cose intese commendare alla
memoria, e cosí divenire in noi scienza (il che l'autore appresso assai bene ne dimostra, lá dove
dice:
Apri la mente a quel ch'io ti paleso,
e fermal dentro, ché non fa scienza,
senza lo ritenere, avere inteso);
dobbiamo, e possiam dire, queste muse, cioè scienza, in noi giá abituata per lo intelletto e per la
memoria, potersi dire figliuole di Giove, cioè di Dio Padre e della Memoria. E dico Giove doversi
intendere qui Iddio Padre, percioché alcuno altro nome non so piú conveniente a Dio Padre che
questo. E la ragione è che Giove si chiama in latino Iupiter, il qual noi intendiamo «iuvans pater»:
il qual nome, se ben vorremo riguardare, ad alcun altro che a Dio Padre dirittamente non
s'appartiene, percioché esso solo dirittamente si può dir padre; percioché, essendo senza avere
avuto padre, è delle cose eterne, ed eziando dell'altre, unico e vero creatore e padre; e, oltre a ciò,
ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, né si può senza il suo aiuto alcuna cosa
perfettamente ad effetto recare: e cosí, quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina,
possiamo e dobbiamo di Dio onnipotente intendere. Cosí adunque, ritornando al proposito,
meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le muse essere state figliuole, in quanto egli è
vero dimostratore della ragione di qualunque cosa; le quali sue dimostrazioni, servate nella
memoria, fanno scienza ne' mortali, per la quale qui, largamente prendendo, s'intendono le muse: e
cosí sará la memoria, ricevitrice e ritenitrice di questo santo seme, e poi riducitrice, quasi
partoritrice, madre delle muse. Le quali dice il predetto Isidoro, nel libro preallegato, esser
nominate «a quaerendo», cioè da «cercare»; percioché per esse, sí come gli antichi vogliono, si
cerca la ragione de' versi e la modulazione della voce; e per questo, per derivazione, viene dal nome
loro questo nome di «musica», la quale è scienza di sapere moderare le voci. E da questa ragione si
può prendere la cagione perché piú se l'hanno i poeti appropriate e fatte familiari che alcun'altra
maniera di scientifici.]
[Son queste muse in numero nove. E perché elle sieno nove, si sforza di mostrare Macrobio
nel secondo libro Super somnio Scipionis, equiparando quelle a' canti delle otto spere del cielo,
vogliendo poi la nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e otto i cieli;
aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo, non che dall'altre genti; ma eziandio
dagli uomini di villa sapersi, percioché da loro sono le muse chiamate «camene», quasi «canene»,
dal «cantare» cosí nominate.]
[E, accioché voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo, dovete sapere che fu
oppinione di Pitagora e di altri filosofi, che ciascun cielo, di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette
de' sette pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire, qual piú aguto e qual piú
grave, sí, per divino artificio, di debiti tempi misurati, che, insieme concordando, facevano una
soavissima melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual noi, per l'udirla
continuo, non ci curiamo, né vi riguardiamo. Ma questa oppinione di Pitagora con manifeste
ragioni è riprovata da Aristotile.]
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[Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue Mitologie altra ragione, dicendo per
queste nove muse doversi intendere la formazione perfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si
forma da quattro denti, li quali la lingua percuote quando l'uomo parla; de' quali, se alcun
mancasse, parrebbe che piú tosto si mandasse fuori un sufolo che voce. Appresso questo, dice
formarsi la voce dalle due nostre labbra, le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la
comoditá delle nostre parole; e cosí la lingua, col suo piegamento e circunflessione, essere a modo
che un plettro, il quale formi lo spirito vocale; e quindi essere opportuno il palato, per la concavitá
del quale si proffera il suono. E ultimamente, accioché nove cose sieno, s'aggiugne la canna della
gola, la qual presta il corso spirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, percioché da molti si
dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti che servatore del concento al canto delle
predette cose, è dal detto Fulgenzio aggiunto il polmone, il quale, a guisa d'un mantaco, le cose
concette manda fuori e rivoca dentro. E, non volendo che in cosí riposto segreto della natura a lui
solamente paia di dovere esser prestata fede di cosí esquisita ragione, induce per testimoni
Anassimandro lampsaceno e Zenofane eracleopolita, li quali conferma queste cose avere scritte ne'
libri loro; aggiugnendo ancora queste medesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate,
sí come da Pisandro fisico, e da Eussimene in quel libro il quale egli chiama Thelugumenon.]
[Appresso, il detto Fulgenzio ad altro intelletto e piú divulgato disegna gli effetti di queste
muse, i loro nomi ponendo e quello per ciascuno in particularitá si debba intendere. E cosí la prima
nomina Clio, e per questa vuole s'intenda il primo pensiero d'apparare; percioché «Clios» in greco
viene a dire «fama» in latino; e nullo è che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere
prolungare la dignitá della fama sua: e per questa cagione è chiamata la prima Clio, cioè «pensiero
di cercare scienza». La seconda è in greco chiamata Euterpe, la quale in latino vuol dire «bene
dilettante», accioché primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia il dilettarsi in quello che tu
cerchi. La terza è appellata Melpomene quasi «melempio comene» cioè «facente stare la
meditazione»; accioché primieramente sia il volere, e appresso che quello ti diletti che tu vuogli, e,
oltre a ciò, perseverare, meditando quello che tu disideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacitá,
quasí come l'uom dicesse «Tithonlia», cioè «pognente cosa che germini». La quinta si chiama
Polimnia, quasi «poliumneemen», cioè «cosa che faccia molta memoria»; percioché noi diciamo
che, dopo la capacitá, è necessaria la memoria. La sesta è chiamata Erato cioè «eurun comenon», il
qual noi in latino diciamo «trovatore del simile»; percioché, dopo la scienza e dopo la memoria, è
giusta cosa che l'uomo di suo trovi alcuna cosa simile. La settima si chiama Tersicore, cioè
«dilettante ammaestramento»: adunque, appresso la invenzione, bisogna che l'uomo discerna e
giudichi quello che esso truovi. L'ottava si chiama Urania, cioè «celestiale»; percioché, dopo l'aver
giudicato, elegge l'uomo quello che egli debba dire e quello che egli debba rifiutare; percioché lo
eleggere quello che sia utile e rifiutare quello che sia caduco e disutile, è atto di celestiale ingegno.
La nona è chiamata Calliope, cioè «ottima voce». Sará dunque l'ordine questo: primieramente
volere la dottrina; appresso dilettarsi in quello che l'uom vuole; poi perseverare in quello che
diletta; e, oltre a ciò, prendere quello in che si dee perseverare; e quinci ricordarsi di quello che
l'uom prende; appresso trovare del suo cosa simigliante a quello di che l'uom si ricorda; dopo
questo, giudicar di quello di che l'uom si ricorda; e cosí eleggere quello di che si giudichi; e
ultimamente profferere bene quello che l'uomo avrá eletto.]
[Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si può comprendere che cagione
muova i poeti ad invocare il loro aiuto. Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano
dinominare da «moys», che in latino viene a dire «acqua». E questo vogliono, percioché il
comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione e la composta esaminare, si sogliano con meno
difficultá fare su per la riva di un bel fiume o d'alcun chiaro fonte che in altra parte, quasi il
riguardar dell'acqua abbia alle predette cose e muovere e incitar gl'ingegni. E questo par che
vogliano prendere da ciò che Cadmo re di Tebe, sedendo sopra il fonte chiamato Ippocrene, trovò
le figure delle lettere greche, le quali essi ancora usano; come che da Palamede poi, e ancora da
Pittagora, ve ne fossero alcune aggiunte; e quivi similemente meditò la loro composizione insieme,
accioché, secondo quello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse; affermando
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ancora molti fonti, secondo l'antico errore, essere stati alle muse consecrati, sí come il fonte
Castalio, il fonte Aganippe ed altri, questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero gl'ingegni
umani piú pronti alle meditazioni che in alcun'altra parte.]
«O alto ingegno.» È l'ingegno dell'uomo una forza intrinseca dell'animo, per la quale noi
spesse volte troviamo di nuovo quello che mai da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere
sovente fatto l'autore in questo libro si trova, percioché, quantunque Omero e, appresso lui, Virgilio
dello scendere in inferno scrivessero, ancora che in alcuna parte gli abbia l'autore imitati nello
'Nferno, nelle piú delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale peroché alcuno altro
scrittore non si truova che in quella forma trattato n'abbia, assai manifestamente possiam vedere
della forza del suo ingegno questa invenzione e il modo del procedere essere premuto.
«Or m'aiutate»: percioché mi bisogna a questo punto la 'nventiva, e 'l modo del procedere, e
la sonoritá dello stilo.
«O mente». Non bastando solo lo 'ngegno, per la cui forza le pellegrine inventive si
truovano, invoca ancora la mente sua, accioché, per l'opera di lei, quello possa servare e poi
raccontare, che avrá trovato. [Ed è questa mente, secondo che Papia scrive, la piú nobile parte della
nostra anima, dalla quale procede l'intelligenzia, e per la quale l'uomo è detto fatto alla immagine di
Dio; o è l'anima stessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati. Ella è allora
chiamata «anima», quando ella vivifica il corpo; ella è chiamata «animo», quando ella alcuna cosa
vuole; ella è chiamata «ragione», quando ella alcuna cosa dirittamente giudica; ella è chiamata
«spirito», quando ella spira; ella è chiamata «senso», quando ella alcuna cosa sente; ella è chiamata
«mente», quando ella sa ed intende.] Questa sta nella piú eccelsa parte dell'anima, e perciò è
chiamata mente, perché ella si ricorda. Per lo quale effetto qui il suo aiuto invoca l'autore;
percioché, se in questo la mente non l'aiutasse, invano sarebbe disceso o discenderebbe a vedere
tante cose e cosí diverse, quanto per opera della mente ne scrive.
«Che scrivesti», cioè in te raccogliesti, «ciò ch'i' vidi», nel cammino da me fatto, «Qui»,
cioè nella presente opera, «si parrá la tua nobilitate», cioè la tua sufficienza in conservare;
percioché la nobilitate della cosa consiste molto nello esercitar bene e compiutamente quello che al
suo uficio appartiene.
«Io cominciai: - Poeta». In questa terza parte del presente canto dissi che l'autore moveva un
dubbio a Virgilio: il quale, mosso da pusillanimitá mostra di temere di mettersi nel cammino, il
quale Virgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare; e dice: «Io cominciai», a dire: «Poeta», Virgilio, «che mi guidi, Guarda», cioè esamina, «la mia virtú», cioè la mia forza, «s'ella è
possente», a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino e malagevole, per lo quale tu di' di
volermi menare, fia di necessitá di sofferire; e fa' questo, «Prima che all'alto passo», cioè d'entrare
in inferno, «tu mi fidi», tu mi commetta. Quasi voglia dire: - Io vorrei per avventura ad ora tornare
indietro ch'io non potrei. «Tu dici». Qui vuole l'autore levar via una risposta, la qual Virgilio, sí come egli avvisava,
gli avrebbe potuta fare, cioè di dire: - Non puo' tu venire, o non credi poter, lá dove andò Enea e
ancora lá dove andò san Paolo? - E comincia: «Tu dici», nel sesto libro del tuo Eneida, «che di
Silvio lo parente», cioè padre.
Ebbe Enea due figliuoli, de' quali fu l'uno chiamato Iulio Ascanio, e questo ebbe di Creusa,
figliuola di Priamo re di Troia; e l'altro ebbe nome Iulio Silvio Postumo, il quale Lavinia, figliuola
del re Latino, essendo rimasa gravida d'Enea, partorí dopo la morte d'Enea in una selva. Per la qual
cosa ella il cognominò Silvio; e Postumo fu chiamato, percioché dopo la umazione del padre, cioè
poi che 'l padre fu messo sotterra, era nato: e cosí si chiamano tutti quelli che dopo la morte de'
padri loro nascono.
«Corruttibile ancora», cioè ancora vivo (percioché chiunque nella presente vita vive è
corruttibile, cioè atto a corruzione), «ad immortale», cioè eterno, «secolo», cioè mondo.
«Secolo», secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo di cento anni, secondo il
romano uso: ma in questa parte non lo 'ntende l'autore per ispazio di tempo, ma, seguendo l'uso del
parlare fiorentino, nel quale, volendo dire «in questo mondo», spesso si dice «in questo secolo»,
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rivolgendo il nome del tempo in nome del luogo dove il tempo s'usa, cioè nel mondo, chiama
«secolo» l'altro mondo, cioè lo 'nferno, il quale noi similmente assai spesso chiamiamo «l'altro
mondo», il che la sacra Scrittura similemente fa alcuna volta. [Il quale del presente mondo dicendo,
dice san Paolo: «Pie et iuste viventes in hoc saeculo»; e dell'altra vita parlando: «Nescimus in quos
fines saeculi devenerunt».]
«Andò, e fu sensibilmente»: volendo per questo s'intenda Enea, non per visione o per
contemplazione essere andato in inferno, ma col vero corpo sensibilmente. E questo prende l'autore
da ciò che Virgilio scrive nel sesto dell'Eneida, nel qual dice che, essendo Enea, poi che di Cicilia
si partí, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assai tranquillo mare, dando per avventura riposo a'
suoi compagni, e disideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione gli dovesse avvenire;
essendo andato al lago d'Averno, dove avea udito essere l'oraculo della sibilla cumana ed essa
altresí, la pregò che in inferno il menasse al padre; e, dietro alla sua guida, vivo e con l'arme
discese: e, per quello passando, pervenne ne' campi Elisi, lá dove quegli, che in istato di
beatitudine, erano secondo l'antico errore. E perciò dice l'autore che egli andò «sensibilmente».
«Perché, se l'avversario d'ogni male», cioè Iddio, «Cortese fu», di lasciarlo andare senza
alcuna offensione, non è maraviglia, «pensando l'alto effetto Che uscir dovea di lui», cioè d'Enea,
«e 'l chi, e 'l quale», [cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore. De' quali ciascun fu da molto,
e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatore della imperial dignitá; percioché, quantunque
Cesare non fosse imperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo, dopo i re cacciati di Roma, il
quale recò nelle sue mani violentemente tutto il governo della republica. Del quale occupamento
seguí il triumvirato di Ottaviano e de' compagni; e da quello, essendo da Ottaviano, per loro
bestialitá, posti giú dell'uficio del triumvirato Marco Antonio e Marco Lepido, e rimaso egli solo
triumviro, ne seguí, o per tacita forza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di
Roma, l'essergli il governo della republica commesso, quando cognominato fu Augusto; dopo il
quale sempre fu servato poi, uno dopo l'altro, essere in quella dignitá sustituiti e chiamati
imperadori. E risponde qui l'autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire: - Come déi tu, che
se' cristiano, credere che Iddio fosse piú liberale ad un pagano di lasciarlo andare vivo in inferno,
che a te? - A che egli e nelle parole predette risponde e in quelle che seguono, dicendo:]
«Non pare indegno» l'avere Iddio sostenuto l'andata d'Enea «ad uomo d'intelletto», il cui
giudicio è ragionevole e giusto, e massimamente avendo riguardo «Ch'ei», Enea, «fu dell'alma»,
cioè eccelsa, «Roma», la quale tutto il mondo si sottomise, «e dello 'mpero», cioè della signoria di
Roma, o vogliam dire della dignitá spettante a quelli che noi chiamiamo imperadori, de' quali fu il
primo Ottaviano, disceso per molti mezzi della schiatta d'Enea, «Nell'empireo ciel», cioè nel cielo
della luce dove si crede essere il solio della divina maestá; [e chiamasi «empireo», cioè igneo,
percioché «pir» in greco, viene a dire «fuoco» in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi
«empireo», percioché egli arde tutto di perfetta caritá;] «per padre eletto». Vuol per questo sentir
l'autore per divina disposizione essere d'Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per
li suoi successori.
E dice qui Enea esser padre di Roma e dello 'mperio, percioché quegli che di lui nacquero
per sedici re, infino a Numitore, che fu l'ultimo della schiatta d'Enea, regnarono in Alba per ispazio
di quattrocento ventiquattro anni. Poi, essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio, fratello di
Numitore, piú giovane d'etá, tolto a Numitore il regno, fece uccidere un figliuolo di Numitore
chiamato Lauso; e per torre ad Ilia speranza di figliuoli, la fece vergine vestale, alle quali era pena
d'essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate. Nondimeno questa Ilia, come che ella si
facesse, [o con cui ella si giacesse,] ella ingravidò, e partorí due figliuoli ad un parto, dei quali l'uno
fu chiamato Romolo e l'altro Remulo: li quali, essendo giá, per comandamento di Amulio, Ilia stata
sotterrata viva, furono gittati, da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, al quale,
perché cresciuto era, non si poteva andare, ma alla riva: e 'l fiume scemato, ed essi trovati vivi da
una chiamata Acca Laurenzia, moglie d'un pastore del re, chiamato Faustulo, furono raccolti e
nutricati, niente sappiendone il re, e cosí nominati da Faustolo. Li quali cresciuti, ed avendo reale
animo, ed essendo pastori e capitani e maggiori di ladroni e d'uomini violenti, ed avendo da
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Faustulo sentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro, fu l'un di loro preso e menato
davanti dal re e accusato; e l'altro, attendendo il re ad udire la querela, feritolo di dietro, l'uccise, e a
Numitore loro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi, tornatisene lá dove allevati
erano stati, fecero quella cittá, la qual, da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo. Per
la qual cosa appare Enea essere stato padre di Roma.
Appresso, partitosi Iulio Proculo, il quale fu bisnipote di Iulio Silvio e di Romulo, re d'Alba,
e discendente, come detto è, d'Enea, e venutosene con Romolo ad abitare a Roma; quivi fondò la
famiglia de' Giuli secondo che Eusebio, in libro Temporum, dice: li quali poi in Roma, per continue
successioni perseverando, infino a Gaio Iulio Cesare pervennero. Il quale, non avendo alcun
figliuolo, s'adottò in figliuolo Ottaviano Ottavio [li cui antichi, secondo che dice Svetonio, De XII
Caesaribus, furono di Velletri], figliuolo d'una sua sirocchia carnale, chiamata Iulia: ed in costui
poi fu di pari consentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto, commesso il
governo della republica, e fu cognominato Augusto; e fu il primo imperadore, e de' discendenti di
Enea. E cosí Enea fu similmente padre dello 'mperio, cioè della dignitá imperiale.
«La quale», cioè Roma, «e 'l quale», imperio, «a voler dir lo vero, Fûr stabiliti», ordinati per
evidenzia da Dio, «per lo loco santo», cioè per la sedia apostolica, «U' siede il successor», cioè il
papa, «del maggior Piero», cioè di san Piero apostolo, il quale chiama «maggiore» per la dignitá
papale e a differenza di piú altri santi uomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto e
ordinato da Dio, appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo Costantino imperadore,
mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma e la imperial sedia al papa, e andossene in
Costantinopoli; e oltre a questo, ordinò e fe' i suoi successori sempre con la loro potenza esser
presti contro a ciascheduno il quale infestasse o turbasse la quiete della Chiesa di Dio e dei pastori
di quella: per che meritamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo 'mperio per lo santo luogo
dell'apostolica sede. E però conoscendo Iddio, al quale nulla cosa è nascosa, questo, non è da
maravigliare se esso fu cortese ad Enea di lasciarlo andare in inferno; e massimamente sappiendo
che esso dovea laggiú udir cose, le quali l'animerebbero a dover dare opera a quello di che dovea
questo seguire.
E poi soggiugne l'autore: «Per questa andata», di Enea in inferno, «onde», cioè della quale,
«tu mi dái vanto», cioè promessione, dicendo di menarmi laggiú (benché in alcuni libri si legge:
«Per questa andata, onde tu gli dái vanto», ad Enea, commendandolo ed estollendolo per quella, lá
ove tu di' nel sesto dell'Eneida:
Noctes atque dies patet atri ianua Ditis
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
Dis geniti potuere:
per le quali parole estimo migliore questa seconda lettera che la prima), «Intese cose», Enea, «che
furon cagione Di sua vittoria», in quanto, riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso
all'impresa contro a Turno re de' rutuli, del quale avuto vittoria, e giá in Italia divenuto potente, ne
seguí l'effetto che poco avanti si legge, cioè «del papale ammanto». Vuol qui l'autore per parte
s'intenda il tutto, cioè per lo papale ammanto tutta l'autoritá papale. Ed è da intender qui che egli in
quelle cose che da Anchise intese, come Virgilio nel sesto dell'Eneida mostra, cominciando quivi:
Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
gloria, ecc.,
non udí cosa alcuna del papale ammanto, ma udí cose le quali poi in processo di tempo,
come detto è, furon cagione che Roma divenisse sedia del papa, come lungamente giá fu.
102
«Andovvi poi», cioè lungo tempo dopo Enea, «il vaso d'elezione», cioè san Paolo, il quale
non andò in inferno come Enea, ma fu rapito in paradiso, lá dove tu di' che io andrò se io vorrò. La
qual cosa è vera, sí come egli medesimo testimonia, affermando sé aver vedute cose delle quali non
è lecito agli uomini di favellare: e percioché Iddio l'aveva eletto per vaso dello Spirito santo,
conoscendo il frutto che delle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di cosí fatta
andata gli fu cortese, e massimamente considerando che egli v'andò, «Per recarne», quaggiú tra noi,
«conforto a quella fede», cristiana, «Ch'è principio alla via di salvazione». E questo è certissimo,
peroché, non possendosi gli alti segreti della divinitá per alcuna nostra ragione conoscere, è di
necessitá, innanzi ad ogni altra cosa, che per fede si credano. Sí che ben dice l'autore la fede
cattolica esser principio alla via di salvazione; alla quale, ancora debole e fredda nelle menti di
molti giá cristiani divenuti, san Paolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò molto
conforto, riscaldando colle sue predicazioni e con l'epistole le menti fredde e quasi ancora dubitanti.
«Ma io perché venirvi?» ne' luoghi ne' quali tu mi prometti di menarmi, quasi dica: - per
qual mio merito? - «o chi 'l concede?», cioè che io in questi luoghi debba venire; volendo per
questo intendere, come appresso dimostra, esser temeraria cosa l'andare in alcun segreto luogo,
senza alcun merito o senza licenza.
«Io non Enea», al quale Iddio fu cortese per le ragioni giá mostrate. Chi Enea fosse, ancora
che a molti sia noto, nondimeno piú distesamente si dirá appresso nel quarto canto di questo libro, e
però, quanto è al presente, basti quello che detto n'è.
«Io non Paolo sono». San Paolo fu del tribo di Beniamin, e fu per patria di Tarso cittá di
Cilicia: [e avanti che divenisse cristiano, fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu
ferventissimo perseguitore de' cristiani. Poi, chiamato da Dio al suo servigio, fu mirabilissimo
dottore, e con le sue predicazioni molte nazioni convertí al cristianesimo, molti pericoli e molte
avversitá di mare e di terra e d'uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente, imperante
Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio; e, percioché era cittadino di Roma, gli fu
tagliata la testa, e non fu, come san Piero, crocefisso. Di costui predisse Iacob, molte centinaia
d'anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e del quale egli doveva discendere: «Beniamin,
lupus rapax, mane devorat praedam et vespere dividit spolia». Il quale vaticinio appartenere a san
Paolo assai chiaramente si vede, percioché esso fu lupo rapace: e la mattina, cioè nella sua
giovanezza, divorò la preda, cioè uccise i cristiani; e al vespro, cioè nella sua etá piú matura,
divenuto servidore a Cristo, divise le spoglie.] Il quale da Dio fu eletto per conforto della nostra
fede.
«Me degno a ciò». Quasi voglia dire: perché io non sia Enea né san Paolo, io potrei per
alcun altro gran merito credere d'esser degno di venirvi, ma io non so; e, per questo, d'esser di venir
degno «né io né altri il crede».
Appresso questo, conchiude al dubbio suo, dicendo: «Per che», cioè per non esserne degno,
«se del venire», lá dove tu mi vuoi menare, «io m'abbandono», cioè mi metto in avventura, «Temo
che la venuta», mia, «non sia folle», cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbe seguire.
E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a dover guardare al dubbio il quale egli muove,
in quanto dice: «Se' savio, e», per questo, «intendi me' ch'i' non ragiono», cioè che io non ti so dire.
- E, appresso questo, per una comparazione liberamente apre l'animo suo dicendo: «E quale è quei
che disvuol», cioè non vuole, «ciò ch'e' volle», poco avanti, «E per nuovi pensier», sopravvenuti,
«cangia proposta», quello che prima avea proposto di fare, «Sí che dal cominciar tutto si tolle; Tal
mi fec'io in quella oscura costa»; percioché mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fossero
del luogo oscuro, nel quale destandosi s'era trovato. «Per che, pensando»; mostra la cagione perché
divenuto era tale, quale è colui il quale disvuole ciò ch'e' volle, e dice che, pensando non fosse il
suo andare pericoloso, «consumai», cioè finii, «l'impresa», che fatta avea di seguir Virgilio. «Che
fu, nel cominciar, cotanto tosta», cioè súbita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a
Virgilio, come nel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.
[Lez. VIII]
103
- «Se io ho ben la tua parola intesa» - In questa quarta parte del presente canto, dimostra
l'autore qual fosse la risposta fattagli da Virgilio: nella qual discrive come e da cui e perché e donde
Virgilio fosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque: «Rispuose», a me, «del
magnanimo quell'ombra», cioè quell'anima di Virgilio, il quale cognomina «magnanimo», e
meritamente, percioché, sí come Aristotile nel quarto della sua Etica dimostra, colui è da dire
«magnanimo», il quale si fa degno d'imprendere e d'adoperare le gran cose. La qual cosa
maravigliosamente bene fece Virgilio in quello esercizio, il quale alla sua facultá s'apparteneva:
percioché primieramente, con lungo studio e con vigilanza, si fece degno di dover potere
sicuramente ogni alta materia imprendere, per dovere d'essa in sublime stilo trattare; e, fattosene col
bene adoperare degno, non dubitò d'imprenderla e di proseguirla e recarla a perfezione. E ciò si fu
di cantare d'Enea e delle sue magnifiche opere, in onore d'Ottaviano Cesare: le quali in sí fatto e sí
eccelso stilo ne discrisse, che né prima era stato, né fu poi alcun latino poeta che v'aggiugnesse. «Se io ho ben la tua parola intesa», cioè il tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso,
«L'anima tua è da viltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, la quale non che le
maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nel quale ella si pon, si convengono, non ardisce
d'imprendere. «La qual», viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrata
impresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepida oppinione, «Come», ingombra, «falso
veder», parendo una cosa per un'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nella virtú
fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta), «bestia quand'ombra», cioè
adombra, e temendo non vuole piú avanti andare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale
molte fiate ingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorata impresa
l'arivolve».
Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove detto t'ho, «accioché tu ti
solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tenga piú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel
ch'io intesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbi compassion di te.
«Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nella profonditá dello 'nferno,
né nella profonda miseria de' supplici piú gravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in
gloria, ma in alcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poi segue Virgilio: ed
essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella». Dove, per mostrare piú degna colei che il
chiamò, le pone tre epiteti: prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasi
tutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; e dimostrasi per questo la
condizione di costei non esser servile. Dice, oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è
singular dono della natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile e poco durabile,
nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato; senza che egli è pure alcun segno di benivole
stelle operatesi nella concezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non mai sogliono
i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcuna altra grazia accompagnato: per la qual
cosa paiono piú venerabili quelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso dice che
era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali debbano potere muovere a' suoi
comandamenti qualunque persona richiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna
cosa, se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; e dé' si credere lui esser
grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Le quali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo,
conoscendo, dice: ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, come ella mi
chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa donna esser degna di reverenza,
quando tanto uomo, quanto Virgilio fu, si proffera a lei.
Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra, dicendo: «Lucevan gli
occhi suoi piú che la stella». Dé'si qui intendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di
questa donna alla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir», questa donna,
«soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprende la qualitá dell'animo di colui che favella
dovere essere riposata, non mossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'atto
dell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave e riposato. «Con angelica voce»
104
aggiugne un'altra cosa, mirabilmente opportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora
né meno che alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci fra noi sono chiamate
«angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisce Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di
lei, percioché estimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato. «In sua
favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio fosse mantovano. Ed in ciò
n'ammaestra alcuno non dovere la sua original favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò
nol costrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi, dove che s'andassero, o
ambasciadori o in altri ufici, mai in altro idioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che
alcuno, di che che nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la romana. Per la qual
cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovani ad imprendere quello linguaggio, accioché
intendesser quello e in quello sapessero e proporre e rispondere.
Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire: - Come sai tu che questa donna parlasse
fiorentino? - A che si può rispondere apparire in piú luoghi, in questo volume, Beatrice essere stata
una gentildonna fiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e per questo
comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.
E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nel presente libro si fa menzione,
non pare indegna cosa alquanto manifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,
intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di lei allegoricamente favelli. Fu adunque
questa donna (secondo la relazione di fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per
consanguinitá strettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico
cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre la nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu
chiamata Bice; ed egli acconciamente il testimonia nel Paradiso, lá dove dice: «Ma quella
reverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu di costumi e d'onestá laudevole
quanto donna esser debba e possa, e di bellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un
cavaliere de' Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etá passò di
questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fu questa donna maravigliosamente amata
dall'autore. Né cominciò questo amore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,
essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come egli medesimo testimonia nel principio
della sua Vita nuova, prima piacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestá
perseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed in onor di lei giá compose; e,
secondo che egli nella fine della sua Vita Nuova scrive, esso in onor di lei a comporre la presente
opera si dispose; e come appare e qui e in altre parti, assai maravigliosamente l'onora.
- «O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice essergli state dette da questa
donna, nelle quali la donna, con tre commendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo ed
ubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque, quantunque eccellente uomo e
onorevole, titolo è da disiderare, percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;
quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'esser cortese, se non nel donare il suo ad
altrui; «mantovana», il che la donna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire e dica,
e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioè persevera. E questa è la seconda cosa
per la quale la donna si vuol fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.
[È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stata operata, o si creda essere
stata, da alcuno, sí come noi sentiamo e ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano,
della laudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di simiglianti: la qual finge
Virgilio, nel quarto del suo Eneida, essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado,
e lei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qual si racconta una cotal favola,
che, conciofossecosaché, per desiderio d'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani,
uomini giganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che tutti i figliuoli della Terra, li
quali inimicavan Giove, furon dal detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terra
commossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei non fossero arme contro a cosí
possenti nemici, accioché con quelle forze, le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii
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facesse, costretto il ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate operazioni
degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegato libro discrive, e dice:
Fama, malum quo non aliud velocius ullum, ecc.,
seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e nella prima tema è piccola, ma
poi se medesima lieva in alto, e quindi va su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra'
nuvoli; e ch'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è un mostro orribile e grande; e
quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi n'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante
bocche le quali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tiene levati; e vola la notte
per lo mezzo del cielo e per l'ombra della terra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede
ragguardatrice sopra la sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de' composti mali,
come rapportatrice del vero.]
[Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo le fizion poetiche discritte,
non aprissi quello che essi sotto questa crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico
adunque che gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è da intendere intorno ad
alcuna cosa l'operazion delle stelle, le quali gli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo
riguardo alla loro eternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Le quali stelle e
corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro attribuita dal creatore di quelle, adoperano in
noi secondo le disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questo avviene che il
fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è aumentato, conciosiacosaché colui che
invecchia sia diminuito, e conciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfetto
governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso giudicio de' mortali pare che
abbino, sí come adirati, fatte, come quando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore,
un caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed egregio cavaliere: e
per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni uomini, pare che come adirati contro a loro
faccino.]
[Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li quali si doveano perpetuare;
ma che di questo séguita che la Terra se ne commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo
di terra, e in terra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e fama di lui, la quale
sia vendicatrice della sua futura morte; accioché, quando quello avverrá che i corpi superiori
facciano venire al suo fine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandio non volendo i
corpi superiori), il nome suo e la fama delle sue operazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in
quanto dice questa nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo, percioché, quantunque
grandi sien l'opere delle quali ella nasce, nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a
spandersi. Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosa vuol dire se non essa
divenire in piú ampio favellio delle genti; o vogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne'
ragionamenti delle genti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra, intende il poeta
lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette il capo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere
mescolarsi ne' ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e i piè veloci assai
manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'una parte in un'altra; e per gli occhi, li quali le
discrive molti, sente agli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E lei non tacer
mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o in un luogo o in un altro; lei non dormir
mai, e volar la notte per lo mezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intendere si
debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, per li suoi rapportamenti vari e
molti, metter tremore ne' popoli, e per conseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri
fare stare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura di distinguere il vero dal falso, è
contenta di rapportare ciò che ella ode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata per
dovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, per alcun'altra cosa non credo esser stato
fitto se non per dimostrare le vendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro fare a'
grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire in infamia, e per conseguente in
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disgrazia delle genti. Figliuola della Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra si
fanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire da questo: per lo non sapersi
donde il piú delle volte nasca il principio del ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si
sapesse, direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]
La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto piaccia, sopra a tutti
gli altri piacque a' gentili, li quali non avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale
Iddio concede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li quali virtuosamente adoperavano, a
fine d'acquistar fama il facevano, e quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.
Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva far benivolo
Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá», questa tua fama, «mentre il mondo
lontana», ponendo qui il presente tempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá»,
cioè si prolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è questa terza cosa quella
che piú piace a coloro li quali fama acquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,
estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtú di colui che guadagnata l'ha.
Ed in questo la donna gli compiace, in quanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,
dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere stato per sua grandissima virtú
degno d'eterna fama.
[Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piú parti nel processo se ne
fará, e di sopra abbiamo scritta la sua origine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú
procediamo, che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dove nelle cose seguenti
menzione se ne fará, s'intenda in che differenti sieno; e questo dico, percioché giá alcuni
indifferentemente posero l'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che non sapevano la
differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale ad alcuno in presenza si fa, o meritato o non
meritato che l'abbia; come che il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a Scipione
Africano, il quale avendo magnificamente per la republica contro a Cartagine adoperato, tornando a
Roma, gli fu preparato il carro triunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano, che
eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú di colui che il riceveva s'acquistava. A
dimostrazione della qual cosa è da sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo
che dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa in Sicilia, e botato in questa
guerra un tempio alla Virtú e all'Onore, fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non
potersi un tempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quello avvenisse, non si
saprebbe a quale delle due deitá ordinare i sacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato
che a ciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatti congiunti insieme in questa
guisa: che nel tempio fatto in reverenza dell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della
Virtú non s'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non si poteva acquistare se non
per operazion di virtú. È, oltre a questo, fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono,
ma per alcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, o forse per la loro etá: questi
sono, andando, messi innanzi, posti nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», come
l'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si dicono lui essendo assente; percioché, se
lui presente si dicessero, non laude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fatte
cose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si dicono, e l'essere con ammirazione
della moltitudine riguardati e mostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciato
Tarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendo vinto Giugurta e sconfitti i
cimbri e i téutoni. «Fama» è quello ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun
valente uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro li quali in nota messe
l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secoli continuando; come ancora e udiamo e leggiamo
tutto il dí di Pompeo magno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e di
simiglianti.]
[Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendo questa donna captata la
benivolenzia di Vergilio, gli comincia a dichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè
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Dante, il quale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente avea amata; e però, sí
come l'autore nel Purgatorio dice:
amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
sol che la fiamma sua paresse fuore,
mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal quale onesto amore è di necessitá
essere stata generata onesta e laudevole amistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da
virtú causata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, di lui parlando, il chiama
«suo amico». E qui non senza cagione, lasciato stare il proprio nome, il chiama la donna «amico»:
la quale è per dimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia molto all'animo e per
mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghi suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei.
E aggiugne «e non della ventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore; e
questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, il quale intende di richiedere che
l'aiuti, percioché degl'infelici si vuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di
sopra è piú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle quali di sopra dicemmo, «Sí»,
cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», a ritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle
bestie.
«E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso», di lui, «levata, Per quel
ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia. E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di
Virgilio; e appresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parola ornata»
(commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nel persuadere quello che il parlatore
crede opportuno), «E con ciò che è mestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che
l'impediscono, «sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».
E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io son Beatrice che ti faccio
andare». E, detto il suo nome, gli dice onde ella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché
Virgilio conosca molto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcuno de' luoghi
graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non è altra cosa che dolore e miseria. E dice:
«Vegno del luogo», cioè di paradiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che di
paradiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandi sono le forze dell'amore: «Aquae
multae non potuerunt extinguere charitatem»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi
fa parlare» e pregarti.
Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, come persona che guiderdone
non aspetta della fatica, si dimostra verso lui dovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al
Signor mio», cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»: - e cosí non una volta, ma molte, nella
multiplicazion delle quali si mostrerá esserle stato gratissimo il servigio da lui ricevuto. E
quantunque questo guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute di Virgilio,
pur si dee credere piacergli; e questo è, percioché s'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli
uomini favelli, quanto maggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nel
cospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?
«Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e (supple) dissi: - «O donna di
virtú, sola per cui», cioè per cui sola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo
genere che noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltre a ciò, in tanto, che essi
divengono atti a cognoscere e cognoscono Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni
contento», cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», il quale è quel della luna,
che, percioché piú che alcun altro è vicino alla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e
perciò ha i suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali gli elementi ed ogni cosa
elementata si contiene, e ancora i demòni e l'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima
razionale e libera, trapassa l'uomo d'eccellenza.
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«Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assai graziosamente
disposto al comandamento della donna, mostrando che egli non solamente disidera d'ubbidirla
prestamente, ma dice: «Che l'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». E
però segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica: assai hai detto, ed io son presto.
Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che non ti guardi Dallo
scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá e di pene eterne. E chiamasi «centro» quel
punto il quale fa quella parte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo: e
però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendo riguardo alla grandissima larghezza
della circunferenza del cielo e alla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,
qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo, «ove tornar tu ardi», cioè
ardentemente disideri.
Al quale Beatrice dice cosí: - «Da poi che vuoi saper cotanto addentro», cioè sí profonda ed
occulta cosa, «Dirotti brevemente - mi rispose - Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo
carcere cieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di fare altrui male». Sí come
Aristotile nel terzo dell'Etica vuole, il non temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni,
gl'incendi e' diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è atto di bestiale e di
temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere non possono, come sarebbe che l'uomo temesse
una lepre o il volato d'una quaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e
rimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente, dicendo esser da temere le cose
che possono nuocere. «Dell'altre no», cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non
debbon metter paura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.
E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son da Dio; sua mercé»: quasi
dica: non per mio merito; fatta «tale», cioè beata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia
grande, non puote offendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mi tange», cioè non
mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiamma d'esto incendio», il quale è qui. E per questa
parola nota quegli del limbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dica quelli, che nel
limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Non m'assale», cioè non mi si appressa.
«Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo proprio movimento mandare
Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divina disposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa
che dall'ordine della divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna è lassú nel Ciel,
che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo da credere che in cielo sia, o possa essere alcuno
rammarichío, ma conviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlare dimostrativo, a fare
intendere gli effetti spirituali; e percioché l'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio,
venne da una clemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcuno rammarichío; e
però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioè mostrare una affezione dell'impedimento
dell'autore, come qui tra noi mostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io ti
mando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile e fermo, «giudicio», cioè
disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo, «frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde,
cacciate talvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terra chiuse, e quivi frangendo
s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta la divina disposizione, infino a tanto che di manifestarla
bisogni.
«Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suo dimando», cioè nel suo
priego. Il senso di questa lettera, quantunque alquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui
mostrare essere litterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «E disse», questa
donna: - «Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»; percioché è in grandissima tribulazione, per la paura
la quale ha delle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te lo raccomando»; - volendo
dire, poiché suo fedele era, che ella nel suo scampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun
crudele, Si mosse», udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'antica Rachele».
Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglie d'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale
storia alquanto piú distesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro. «Disse: Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi voglia per questo intendere essere vere, e non
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lusinghevoli né fittizie, le parole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei che t'amò
tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa, «Ch'uscí per te della volgare schiera?»,
cioè, che per piacerti, lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni laudevoli. «Non odi
tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto», il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la
morte, che 'l combatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura di sé il combattono e
conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama «fiumana» quello orribile luogo nel quale
l'autore era da quelle bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure induca la
fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è di tanta forza, che dir si può «ove», sopra la
quale, «'l mar non ha vanto?» - cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piú
pericoloso di quella.
«Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lor pro», loro utilitá, «ed a
fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente, «dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno,
«del mio beato scanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomi del tuo
parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo il suo parlare essere onesto, il che di
certi altri poeti non si può dire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e quei che
udito l'hanno», - e servato nella mente; percioché l'avere udito senza averlo servato, e poi ad
esecuzione in alcuno laudevole atto non messo, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in
queste poche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciò per quello faccia ancora
piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.
«Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che detto t'ho, «Gli occhi lucenti
lagrimosi volse», per avventura verso il cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a
Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion si dimostra, dimostrandosi ancora
un atto d'amante, e massimamente di donna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale
disiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere ardentissimo. Per la
qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece del venir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta,
dove tu rovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi voglia dire che altrimenti non
sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè a quella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte»,
sovra 'l qual tu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, se davanti parata non ti si
fosse, in brieve spazio saresti potuto sopra il monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a
volervi sú pervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.
«Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» di seguirmi; e reitera la
interrogativa, per pungere piú l'animo dell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá»,
quanta tu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioè chiami colla falsa
estimazione, la qual fai delle cose esteriori; «Perché ardire e franchezza non hai?». E
massimamente: «Poi che tali tre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donna
gentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudine di te e procuran la tua salute,
«nella corte del cielo», nella quale sussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente
l'addomandi; e, oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede, se tanto amore hai
portato e porti alle mie opere (come davanti dicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore»,
ecc.), «tanto ben ti promette?» - cioè di conducerti salvamente in parte, della qual tu potrai, se tu
vorrai, salire alla gloria eterna.
«Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questo canto, nella quale l'autore,
per una comparazione, dimostra il perduto ardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice
adunque cosí: «Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo. Chinati, e chiusi»;
percioché, partendosi il sole, ogni pianta naturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in
una che in un'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo, tutti, come il sole
comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'l sol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la
terra. E dice «imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, come paiono le cose
bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gli teneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»;
percioché, avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno chinare, ma, come il sole
punto gli riscalda, tutti si drizzano, «aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,
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quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nel cuor venuta; «E tanto buono ardire
al cuor mi corse», per li conforti di Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca»,
forte e disposta ad ogni affanno: - «O pietosa colei», cioè Beatrice, «che mi soccorse», col
sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese, che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti
porse!»; percioché, dove venuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderio il
cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtili conforti e vere dimostrazioni, «Ch'io
son tornato nel primo proposto», cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non si
potrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'l guidato in un volere. «Tu duca»,
quanto è nell'andare, «tu signore», quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro», quanto è al dimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e il solvere de' dubbi.
«Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta ed ultima parte di questo canto,
nella quale l'autore mostra come da capo riprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio,
«per lo cammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogo né albergo né
abitazione alcuna si trovava.
II
SENSO ALLEGORICO
«Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla ragione, nella fine del
precedente canto, qual via al peccatore tener gli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi
della miseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosi esso messo dietro alla
ragione in cammino, per continuarsi alle predette cose, discrive l'autore, nel principio di questo
secondo canto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual dice essere stata nel principio
della notte. Sono adunque, intorno alla allegoria del presente canto, principalmente da considerare
tre cose: delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale esso di notte cominci il suo
cammino; appresso è da vedere donde potesse nascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale
muove a Virgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, e perché del limbo, a
venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo, assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si
rimovesse la viltá sua.
È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, che dissi essere da
considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tócco dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di
conoscimento ricevuto, ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per quello in
pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di ritornare alla via della veritá e d'acquistare salute,
e per questo messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno stata desta; non esser
perciò incontanente tornato nello stato della grazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in
quella tornar si possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo: «Domine, deduc
me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige in cospectu tuo viam meam»; e, oltre a questo, fare
alcune altre cose, secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altra volta ho detto,
il conoscere pienamente i difetti della vita passata, e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle
braccia rimettersene della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare. E, questo
fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato della grazia di Dio tornato, e le sue buone opere
essere accettevoli e piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino a tanto che in
questa grazia non è il peccatore ritornato, non può andare per la via della luce, ma va per le tenebre
notturno. E perciò, per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatore ingegnarsi di fare
ogni atto meritorio: far limosine, l'opere della misericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e
simili cose adoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salute non vagliano, sono
nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente e piú prestamente menare a meritare e ad avere
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la divina grazia.] E perciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancora non l'ha, ne
dimostra il principio del suo cammino cominciarsi di notte.
Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione in cammino, donde potesse
nascere in esso la viltá d'animo, la qual dimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla
ragione: nel quale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia non esser tornato,
e per questo aver avuto in lui forza il sospettare de' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti
avviene che, in se medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione disputano; e di questo,
considerata la nostra fragilitá, non ci dobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione
può esser questa. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel mutamento d'uno
stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e stare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato
nel quale si trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcun dubbio che, stando
l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta il può muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra
pendere. Avviene adunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccolti sono, quantunque
vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santi i suoi consigli, nondimeno d'altra parte,
ascoltando le lusinghe della blanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a poco a
poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare, non fermato ancora da alcun
forte proponimento, intiepidiscono e divengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi
nemici, sé non dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo stato della penitenza
richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiuto cacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i
passi e nella nostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se le pronte e vere
dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto e confortato a seguitar l'impresa.
Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e perché del limbo, a
venire in aiuto dell'autore: alla qual dimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assai
manifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Dio tócco, si desta e vede la miseria
nella quale le sue colpe l'hanno condotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quanto
mortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disideri fuggire il pericolo e ricorrere alla
sua salute: il che, non che l'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questo
assai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principio della presente opera, in quanto,
desto e conosciuto il suo malvagio stato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare
di pervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale dee essere quello che ciascuno, il
quale questo disidera, dee, sí come piú presto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra
dovere essere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrere all'altre cose necessarie
alla salute come a quella; e, come che ancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa
non va avanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi per esperienza veggiamo,
percioché, incontanente che alcuna cosa sinistra veggiamo contro a noi muoversi, subitamente
preghiamo per lo divino aiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autore in
quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidi le sue spalle»; percioché atto è di
coloro, li quali adorano, levare il viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezione
dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni, ne sollecita Gesú Cristo
nell'Evangelio, dove dice: «Pulsate et aperietur vobis, petite et dabitur vobis». È il vero che
l'orazione almeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; percioché chi non ha fede in
colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa fare quello che gli è domandato, non pare orare, anzi
tentare e schernire. La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femmina cananea, la
quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimeno tanta fede ebbe in Gesú Cristo, che
istantissimamente il pregò che liberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendole
da Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma e costante di perseverare nel priego
incominciato. Alla quale avendo Cristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli e
darlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola la sua fede, continuò nel pregare. E,
avendo affermato quello, che Cristo avea detto, esser vero, disse: - Signor mio, e i cani, che si
allevano nella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor loro. - Volendo per
questo dire: - Io cognosco che io non sono del popol tuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non
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debbo il pane de' tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua; non mi negare
quello che a' cani si concede, cioè delle miche che caggiono dalla mensa tua. - La cui ferma fede
conoscendo Cristo, non le volle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
addomandata; ma, rivolto a lei, disse: - Femmina, grande è la fede tua: va', e cosí sia fatto come tu
hai creduto. - E quella ora fu dal dimonio liberata la figliuola di lei.
Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete, con istanzia;
percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non perché la liberalitá sua sia minore, o men
volentieri faccia l'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e accioché piú
caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo. Vuole ancora l'orazione esser umile,
percioché alcuna nobiltá di sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenza
d'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare un attimo. L'umiltá sola è quella che
l'impenna, e falla infine sopra le stelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo e
della terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: e come che assai in ciascuna cosa
che l'uom vorrá riguardare appaia, nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione;
percioché non real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltá riguardò in quella
Vergine, nella quale Egli, di cielo in terra discendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come
essa medesima Vergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «Respexit humilitatem ancillae
suae»; per che da questa parola degnamente essa medesima segue: «Deposuit potentes de sede et
exaltavit humiles».
Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per la salute sua: la quale, sí
come esso medesimo scrive, salí in cielo nel cospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come
vedere abbiam potuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata da sé la superbia,
ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi credere la pietosa e divota orazione guidata
dall'umiltá essere ricevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il figliuol prodigo dal
pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne dimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello
sagginato, fece parare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e fece festa di avere
racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva aver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre
aver fatto in cielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá ritornare, il quale del
tutto partito se n'era e ogni sua grazia avea dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere
averne fatta gli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra un peccatore che torni a
penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta dunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi,
dolendosi del malvagio stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella priega
scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia e, come suo fedele e che ha di lei
bisogno, a lei il raccomanda. E cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la divina clemenza, la divina
misericordia, la divina benignitá, la qual veramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun
crudele né pietá né misericordia si trova giammai.
Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandasse misericordia, per la
qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella grazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la
indegnitá e la iniquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio, che, se la sua
misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci potrebbe nel suo amore ritornare.
Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore aver prestati benignamente gli
orecchi della sua divinitá a' prieghi fatti dall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè
la divina misericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in atto il priego
ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi la grazia salvificante o vogliam dire
beatificante s'intende, alla salute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina mente
procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú della orazione, la quale, fatta in
terra, adopera in cielo: il che qui manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato;
percioché la forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio, nel quale esso
Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umile orazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio,
al peccatore, in luogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamente misericordia, ma
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ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenire a salvazione. Che adunque avviene? Che, per
lo desiderio della salute sua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muove Virgilio del
limbo: il quale qui si prende per la ragione, per la quale noi siamo detti «animali razionali», o
vogliam dire, per la grazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme; conciosiacosaché
alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove la grazia cooperante mandatane da Dio si debba
piú tosto ricevere che nella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la grazia operante ben
ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noi insieme adoperi.
E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come giá dicemmo, esser
due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro il minore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in
due suoi libri, de' quali il primo è intitolato Megacosmo da due nomi greci, cioè da «mega», che in
latino viene a dire «maggiore», e da «cosmos», che in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è
chiamato Microcosmo, da «micros», greco, che in latino viene a dire «minore», e «cosmos», che
vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra il detto Bernardo il maggior mondo esser questo il
quale noi abitiamo, e che noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,
nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi tutti o quasi tutti gli accidenti che
nel maggior mondo sono. Ed è del maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha
sopra di sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o la estrema superficie della
terra che noi vogliam dire. E, quantunque l'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio
essere nel limbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere che quindi fosse mossa la
ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo del mondo minore, cioè dalla piú eminente parte
dell'uomo, la quale è il cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non il cranio e
la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione. E questo, percioché ad essa è stata
commessa la guardia di tutto il corpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimenti
della nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cose nocive dall'utili. E convenevole
cosa è che colui al quale è commessa la guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte
di quella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa emergente, e a quelle cose,
che fossero avverse alla cosa la qual guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi:
la qual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella superiore parte di noi. Oltre a
questo, come il savio re pone il suo real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser
di maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via le sedizioni e i movimenti
inimichevoli, fu di bisogno la ragione esser posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che
in tutto il rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostra testa son gli occhi, gli
orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi del corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della
ragione. E perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assai dannose, dove dalla
ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. E questa sedia della ragione essere nel nostro
cerebro, e perché quivi, ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primo
dell'Eneida, dove dice:
Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro, ecc.,
e, appresso a questo, in piú altri versi.
È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo, la ragione, e quindi
la muove la grazia salvificante in soccorso del peccatore. Il quale movimento non si dee altro
intendere se non un rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta l'aveano
l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedi delle loro scellerate operazioni tenendo,
aveano occupata la sedia sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficio
esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fioca dimostrava la lunghezza della sua
servitudine: e, cosí rilevatala, in essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarrito
intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi, quante volte ci ravveggiamo delle
nostre disoneste operazioni, tante per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non
siamo quanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragion perduta, siamo divenuti
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quegli animali bruti, a' quali, come altra volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altra
dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetiche fizioni, quando ne dicono alcuno
uomo essersi trasformato in lupo, alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. E
come la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sedia rimessa, fatta donna e consultrice e
aiutatrice del peccatore, il toglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hanno tolta la
corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E «corta» dice, percioché agli uomini, li quali in
istato d'innocenzia vivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista ne mostra, lá
dove dice: «Quis ascendet in montem Domini, aut quis stabit in loco sancto eius?». E rispondendo
alla domanda, quello n'afferma che io dico, dicendo: «Innocens manibus et mundo corde, qui non
accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo»; ma a coloro diventa molto lunga, i
quali ne' peccati miseramente vivono. E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di
quegli, i quali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran di disperarsi; mostrando
loro come, per loro [l']umile orazione, la misericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per
loro nel cospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affanno metter si possano,
avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro e in loro aiuto e consiglio.
Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno: - A che era di bisogno che la grazia
salvificante movesse o rilevasse la ragione nell'autore? - Alla qual domanda è la risposta
prontissima. Vuole cosí la ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi non
possiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi primieramente non cognosciamo
il fine al qual noi dobbiamo adoperare; percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti,
e di quindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentemente deono seguire. Come
comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico la sua medicina, se prima il cirugico non vede il
malore, il fisico l'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a' venti, se esso
primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual contrada esso voglia pervenire? Come fará
l'architetto fondare un edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente non sa che
spezie d'edificio debba esser quello che far si dee? Conciosiacosaché altra forma e altro maestro
voglia un tempio che un palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È adunque
di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamo alcuno nostro atto in opera. E
perciò, se ben guarderemo, se il disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificante
causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possan perducere; e di queste nostre
operazioni conviene che sia dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la prima cosa
causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra in persona di Beatrice venire a muover
Virgilio. E questo scendere non si dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá
di Dio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, è causativa di questo
rilevamento della ragione, in quanto in essa sta il concedere la grazia salvificante. Adunque,
avvicinandosi alla conclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in lui ritornata, e per
gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da' malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e
cacciata da sé; riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forza smarrita, e nel
primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ogni fatica per acquistar salute disposto, con la
ragione insieme riprende il cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizione
allegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che creda queste cose, quantunque
mostrino nel descriversi aver certe interposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la
dimostrata interposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, e d'aver veduto ciò che
l'autore dee nello 'nferno vedere, e di pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo,
quasi in un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore della caritá ferventissimo e
intero, come di molti abbiam giá letto essere stato.
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CANTO TERZO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. IX]
«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta l'autore come alla porta
dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi
miseramente afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi questo canto in
due parti: nella prima mostra come alla prima porta dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse
da Virgilio menato; nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e vedesse. E
comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».
Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del precedente canto ha
detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino, dice dove pervenne, cioè alla prima porta
dell'entrata d'inferno; sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va nella cittá
dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo per li dannati spiriti li quali dentro vi sono;
della qual cittá, percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto ottavo, qui
non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno dolore», al quale dannati sono coloro li
quali muoiono nell'ira di Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché alcuna
potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali meritamente si posson dir perduti.
«Giustizia mosse», a farmi: e la giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò
eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto piú si potea, e perciò, nel centro
della terra gittatolo, quivi la sua prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti
quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina
Potestate», cioè Iddio Padre, al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il
Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo Spirito santo, il quale è
perfettissima caritá, igualmente moventesi dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta
essere stata fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa Iddio offenda queste tre
persone, e perciò da tutte e tre essere quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco
sono dannati.
«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí mostra questo luogo essere
stato prima creato da Dio che fosse creato l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che
fosse creato poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono eterni. [E percioché come
parte degli angioli peccarono, che peccarono prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di
presente creato questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano questo aere
tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú distesamente alquanto si dirá.] E in quanto
l'autore dice qui «eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso si fa:
percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se non a quella la quale non ebbe principio
né dee aver fine, e questa è solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da Dio
immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano, percioché ebber principio, non si
deono propriamente parlando dire «eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera
creata da Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che immediatamente fu o sará
creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «quia in inferno
116
nulla est redemptio», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come fece de' santi padri, li quali
ne trasse quando giá risuscitato da morte spogliò il limbo.
«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla qualitá del luogo nel quale
per quella porta s'andava, «Vid'io scritte al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in
inferno s'entrava; «Perch'io» (supple) dissi: - «Maestro», Virgilio; e ben fa qui a chiamarlo
«maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il
senso lor», cioè quello che dir vogliono, «m'è duro», - cioè malagevole ad intendere.
«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose, «come persona accorta», cioè intendente:
- «Qui», cioè in questa entrata, «si convien lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si
convien ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua
dentro. E son queste parole prese dal sesto dell'Eneida, dove la Sibilla dice ad Enea:
Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo.
«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del quale vicino al fine del
primo canto gli disse; «Che vederai le genti dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben
dell'intelletto», - cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il ben dell'intelletto è la veritá, per la
quale tutti per diverse vie ci fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].
«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi confortai». Qui assai
manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle
dubbiose cose; e dice che dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto e
sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui riguardano assai leggiermente
impauriscono e diventano vili: come noi leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso
di Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago Trasimeno essere state sconfitte.
Dice adunque di sé l'autore che, vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si
confortò tutto.
«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi mortali manifestar
non si possono, percioché cosí i tormenti, come i tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose
spirituali e invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle, secondo che mostrar si
possono per iscritture e per ammaestramenti di santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.
«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte del presente canto, nella
qual dissi che si discrivea quello che l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E
dividesi questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti dolorosamente dolersi; nella
seconda gli dichiara Virgilio chi questi sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la
pena dalla quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute molte anime correre
ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo fiume pervenuto, e non averlo voluto passare
dall'altra parte un nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta gli apre Virgilio
perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della
terra e poi da un baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed egli a me: Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a
riguardare»; la quinta quivi: «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio, - disse»; la settima
ed ultima quivi: «Finito questo».
Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno, «sospiri, e pianti».
«Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed
usino per quel pianto che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni spezie di
dolore e massimamente a quello che con altissime voci e dolorose si dimostra; «Risonavan per
l'aere senza stelle», cioè oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne
lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel cominciamento del secondo
canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue», cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni
dell'universo, le quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli, come son qui tra
noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che garrino e gridino, quando piú amichevolmente
117
favellano; «parole di dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il profferere, il
quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale
si sogliono molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno; «Voci alte», per le
punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per lo molto gridare affiocare; «e suon di man»,
come soglion far le femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali cose
intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè
una confusione; «il qual s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto l'aere
percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo luogo s'aggiri e prenda moto
circulare; «Sempre in quell'aria, senza tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro
accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore, per una breve comparazione,
il moto di quel tumulto, come sopra dissi, esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo
talvolta muovere in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo massimamente
avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere
alcuno ordinato movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata parte, ma
essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in alto, pervenuta alla freddezza d'alcun
nuvolo, e da quella a parte a parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende moto
circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in quella parte dove generato è, intanto
che in una medesima piazza noi il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la
esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per certi intervalli far queste
circulazioni sopra la terra. E questo vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama
«tifone» nella sua Meteora, dove chi vuole può pienamente vedere di questa materia.
«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè intorniata; e questo dice per lo
moto circulare di quel tumulto; «Dissi: - Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E
che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?», - secondo che le loro voci manifestano.
«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara Virgilio all'autore chi
sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Questo
misero modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime triste di coloro, Che
visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia operazione, percioché, quantunque buone non
fossero, erano intorno a sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di parlare, e
perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza lodo», cioè senza fama, percioché, come
del loro male adoperare è detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.
Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene, questa mi pare quella
maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo «mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che
abbiano alcun senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore spento, che
cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi si stanno freddi e rimessi, ed il piú del
tempo oziosi, quantunque talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare; di
che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza infamia e senza lodo».
«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro» [si dice propriamente
un'adunazion d'uomini, li quali in figura di cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello
luogo nel quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di mezzo cerchio: e qui si
potrebbe prendere per ciascuno di questi due significati, percioché, considerato il movimento di
questi spiriti, il quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir «coro»; e se per
altro significato il vorrem prendere, quello di costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a
modo di coro, ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo» il chiama per
la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con queste anime de' cattivi, le quali con loro son
mischiate; e in tanto sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo della
rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza diliberare di tenersi con Dio come
doveano, o di seguire il Lucifero come non doveano.
«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè «aggelos», il quale
in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore» o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il
diavolo fanno, cioè d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico d'angeli
118
ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti dimòni [e, secondo che alcun santo vuole,
questo nome non è loro attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro fatta da
Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito beato].
«Che non furon ribelli», (supple) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma per sé fôro»: non tenner
costoro né con Dio né col diavolo.
[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da sapere non essere
state che due maniere di angeli, sí come il Maestro ne dimostra nel secondo delle Sentenzie, e di
queste due l'una non peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò, tutta fu
gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso propinquo alla terra riempié; e questo
affermano i santi esserne pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose turbazioni
che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi dicono noi essere tentati e stimolati, e venire
quelle illusioni dalle quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono nondimeno
talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad infestare e tormentare l'anime dei dannati;
affermando questi cotali spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza essere
racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia questi malvagi angeli essere di due spezie
divisi: delle quali vuole l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie, che men
peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e percioché la giustizia di Dio secondo piú e
meno punisce, non intende costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno
rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]
E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo: «Cacciangli i cieli», da sé: e
segue incontanente la ragione perché, cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono
bellissimi, ed intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula di colpa non si
truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se non purissima, ed essi furono purissimi creati
da Dio; per che segue, se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi
maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga, essi gli scacciano e
dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo
futuro, percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie degli angeli esser tre,
la qual cosa sarebbe contro alla cattolica veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e'
sono in inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E appresso mostra la cagione
perché dal profondo inferno ricevuti non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,
angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber d'elli», - veggendoli in quel medesimo
supplicio ch'essi [saranno]. E cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli
non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale non patisce che di cosa alcuna
quegli spiriti maledetti possano avere alleggiamento della pena loro.
«Ed io: - Maestro», (supple) dissi, «che è tanto greve», cioè qual tormento, «A lor, che
lamentar gli fa sí forte?» - cioè sí amaramente. «Rispose», cioè Virgilio: - «Dicerolti molto breve».
E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno speranza di morte»,
percioché manifesto è loro l'anime essere eterne; «E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito,
«è tanto bassa», cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in eterno, e su nel
mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno come se stati non fossero; «Che invidiosi son
d'ogni altra sorte», di peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che chiaro
comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di ciascuno, quantunque misero, invidiosi
sono, conciosiacosaché invidia non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di
loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della lettera del precedente canto]
«il mondo», cioè il costume de' mondani, il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser
non lassa», percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia gli sdegna»; e
questo percioché le loro opere non furon tali, che impetrar misericordia per quelle sapessero o
potessero, per la quale sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí dolorose, che
giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle
per mentacattaggine forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia quivi,
come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente vissero. [E questa seconda cagione è
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troppo piú ponderosa che la primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire quanto
la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come l'altre anime de' peccatori, non vanno a
passare il fiume d'Acheronte, quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non
ragioniam di lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti è un perder tempo;
«ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e, guardando, «passa» - e lasciagli stare. E questo
riguardare gli concede Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de' riguardati, li
quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da alcuno veduta o conosciuta.
«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui discrive la qualitá della
loro afflizione, per la quale sí amaramente si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro
andando, «correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí velocemente, «Che d'ogni posa
mi pareva indegna. E dietro le venia», a questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di
gente», d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io avessi veduto questo, «Che
morte tanta n'avesse disfatta», cioè uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi, resta questa composizione
dell'anima e del corpo, le quali insieme fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale
dipartimento, colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.
«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non nomina, percioché, se
egli il nominasse, qualche fama o infamia gli darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra
ha detto, cioè: «Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi l'ombra di colui,
Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la
quale dice da lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo per
santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto,
rifiutando il papato. E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo
egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in Abruzzo sopra Selmona in atto
eremitico, egli fu eletto papa in Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il
suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando messer Benedetto Gatano
cardinale, uomo avvedutissimo e di grande animo e disideroso del papato, astutamente operando,
gl'incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio, poiché a ciò
sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la
notte voci s'udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati da Dio fossero,
dicevano: - Renunzia, Celestino! renunzia, Celestino! - Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota,
ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale gli disse: - Il
modo sará questo, che voi farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle mani
de' suoi cardinali renunziare il papato. - Il quale come a doverla fare il vide disposto, essendo essi
in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa poco
davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni forza
della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso
facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual cosa
il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni, ordinato
questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato: e il
dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa, venuto co' papali ornamenti in
concistoro, in presenza de' suoi cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.
Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato
Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo, percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere
nel detto frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto
frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi,
secondo che alcuni affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne
altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di
Fumone, e quivi tennelo mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola fuori
della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa profondissima, accioché alcuno non
curasse di trarne giammai il corpo suo.
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Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in questa parte superiore dello
'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui
avere errato e detto contro a quello articolo che si canta nel Simbolo, cioè: «Et in unam sanctam
catholicam et apostolicam Ecclesiam»; in quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha
diliberato, cioè questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo, il mette tra'
dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che, quando l'autore entrò in questo cammino, il
quale egli discrive, e nel qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá il
gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato; percioché, sí come apparirá nel
vigesimoprimo canto di questo libro, l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo
uomo fu canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni vigesimosecondo: e però,
infino a quel dí che canonizzato fu, fu lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí
come è di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per conseguente l'autore non fece
contro al predetto articolo, ma farebbe oggi chi credesse quello esser vero.
Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice che fece il gran rifiuto,
essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il quale, essendo primogenito di Isac, come nel Genesi si legge,
percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal ventre della madre; ed aspettando
a lui, per questa ragione, la benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli
tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo desiderio di mangiare, trovò
Iacob suo fratello avere innanzi una minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e
domandogliele: Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle ragioni della sua
primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò
ogni sua ragione e concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender d'Esaú, e lui
vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel
Genesi si legge, Esaú fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e fu
grande e potente uomo e padre di molte nazioni.
«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi», dalla sua viltá, «e certo
fui, Che questa», che cosí correva dietro a quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti
ed a' nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace l'uomo il quale
s'esercita sempre in bene adoperare, «quia non sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod
bonum est»; cosí dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si esercitano in
male adoperare.
«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de' gentili, li quali nelle
piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli,
qual buona e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá, scioccamente prendevano;
laonde quelli che malo augurio avevano, erano chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo
noi suona «sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è ad operazioni
spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i
dannati, i quali non solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo; «e stimolati
molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi», cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le
vespe, «rigavan lor di sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la faccia
dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si discerne quello che l'uom vuole: e cosí
si diriverá da «volo vis», che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da fastidiosi
vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime de' miseri cattivi.
«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della suddivisione della seconda
parte di questo canto, nella quale, poi che discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte
anime tutte correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che a riguardare oltre
mi diedi», cioè piú avanti: il general costume degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti
siam vaghi di veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi; «Vidi gente alla
riva d'un gran fiume, Perch'io dissi: - Maestro», a Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e'
sono», quegli ch'io veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí pronte», cioè
volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume», - cioè per lo non chiaro lume; percioché, sí come
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l'esser fioco impedisce la chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della luce. «Ed
egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose: - «Le cose», delle quali tu domandi, «ti fien cónte»,
cioè manifeste, «Quando fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera d'Acheronte». Secondo che scrive Pronapide nel suo Protocosmo, Acheronte è un fiume infernale, il quale
dice che in una spelunca, la quale è nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio;
e, vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se ne discese in inferno. Sotto
questa fizione è da intendere questo: come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con
Saturno, e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di Celio, percioché confortato
avea Saturno che non rendesse il regno a Titano. temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente,
quanto piú esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E poi, sentendo che
Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la moglie di prigione, non altrimenti che la femmina
depone il peso del ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove occulta
dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico lieta. E da questo dolor posto giú fu
data la materia alla fizione: quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al luogo
del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a dimostrare la quantitá essere stata
grande del dolore. Ma il nostro autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá
nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume e gli altri infernali nascere di
gocciole d'acqua che caggiono di fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e degli altri.
«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli fosse grave», cioè noioso,
«Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.
«Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del presente canto, nella
quale l'autore mostra un dimonio venire verso loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver
voluto passare. Ed è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'Eneida scrive:
Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, ecc.
per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave Un vecchio bianco per
antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto,
percioché la gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori dipingono
Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere, percioché lo spirito essendo cosa
incorporea, non può d'alcun colore esser colorato;] «Gridando: - Guai a voi, anime prave!», cioè
malvage. «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in perpetuo quindi non
dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo
e 'n gielo. E tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore, «Pártiti da cotesti, che
son morti»; - quasi voglia dire: percioché con loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide
ch'io non mi partiva», per suo comandamento, «Disse: - per altra via», che per questa, «per altri
porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve
legno», cioè nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di navilio, e
massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien
che ti porti», - cioè ti valichi.
«E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui: - Carón». Questo Carón, secondo che Crisippo scrisse, fu
figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola sará il significato nella esposizione allegorica) ed è
posto a questo uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte, come qui appare.
«Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la cagione per la quale gli mostra non doversi
crucciare, dicendo: «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e dov'e' si
vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella divina mente, percioché Iddio può ciò che
vuole; «e piú non dimandare»; - quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a te si
dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle parole da Virgilio dette, «fûr quete»,
cioè quetate, senza alcuna cosa piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida
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palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra chiama «fiume», e questo fa di
licenza poetica, per la quale spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel
cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui, che il fiume è acqua e la
palude è acqua, e talvolta in alcuna parte corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude
che fiume. «Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella torbidezza sia nera
ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.
«Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di cammino, «e nude», di
consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e
dibattéro i denti», come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio di quella
tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole crude», dette da Carón di sopra («Io vegno
per menarvi all'altra riva» ecc.).
«Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il bestiale costume di molti
uomini che, quando attendono o hanno alcuna cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente
cominciano a bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono, si debba
diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le
madri, li quali principio e cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú
tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima; «il luogo», (supple)
bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di
lor semenza», cioè bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati furono, «e di
lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte
quante insieme»; quinci appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva
malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme», percioché tutti dichinan
quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè
ardenti e focosi; «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con remo», cioè con
quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i marinai chiamano «remo», «qualunque», di
quelle anime, «s'adagia», a sedere o in altra guisa.
«Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo «autunno», da mezzo
settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin
che 'l ramo», sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i vestimenti, li quali, la
stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del
sesto libro dell'Eneida, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme d'Adamo», il quale fu il
primo nostro padre, e del quale noi siamo tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come
sono i santi uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí come sono i
peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si
raccoglie nella nave di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una ad una»,
quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti, «com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo
pasto mostratogli.
«Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E avanti che sien», queste
che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte,
«nuova schiera», cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo dimostra l'autore
continuamente molti morirne sopra il circuito della terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira
di Dio, «quia multi sunt vocati, pauci vero electi».
- «Figliuol mio, - disse» In questa sesta parte della suddivisione gli apre Virgilio la cagione
perché Caron non l'ha voluto passare, e perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E
dice: - «Figliuol mio»; - mostra in questa parola Virgilio paterna affezione all'autore; «disse il
maestro cortese». Ben dice «maestro», percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio
della domanda fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io sappia» ecc., e
coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono e debbon esser chiamati «maestri».
«Cortese» il chiama, percioché continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu liberale. «Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion nell'ira di Dio», li quali son quegli
che [senza contrizione, senza confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci
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nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati commessi, si muoiono; [e diconsi
morire nell'ira di Dio, in quanto la sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti
della cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono, «qui», a questo fiume,
«d'ogni paese», di levante e d'occidente e di ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a
trapassar lo rio», cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del verso. E
séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina giustizia gli sprona», cioè gli
costringe, «Sí che la téma», la quale hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto
a quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima buona», cioè che al cielo
dovesse ritornare, come déi tu, che non vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si
duole, e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir suona», - avendo intesa la
cagione del suo rammarichio.
[Lez. X]
«Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione del presente canto,
nella quale l'autore mostra sé, per un tremore della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice
adunque: «Finito questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza dell'anime a
trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna». «Campagna» sono luoghi piani e larghi, i
quali ivi non si dee credere che sieno, ma usa il vocabolo largamente, auctoritate poëtica; e dé'si
intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad intendere che era, qual che si fosse, o
montuoso o piano: «Tremò sí forte».
Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché l'autore niente ponga
senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a'
dannati, che a coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci, se noi
riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio si truova alcun agnolo, il quale,
lietamente cantando, conforta chi sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun
demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí come il monte del purgatorio,
quando alcuna anima purgata sale al cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il
tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e ringraziano Iddio, che a sé
quella anima beata chiama; cosí in inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle
trasportate da Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa l'anime dannate, che
ciò sentono, intendendo venire anime ad accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si
contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa parte sentire, come che non sia
cosa nuova, le parti intrinseche e cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere
che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.
«Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor mi bagna». Suole
talvolta agli uomini subitamente spaventati, rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore,
sentendolo temere, il sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono pallidi e
deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute dalla passione della paura, mandano per li
pori fuori talvolta un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti predette non
recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli
morisse; e forse perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per paura il
sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri in guisa che mai poi operare non gli
hanno potuti (e dicono i meno savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura
anche se ne son morti.
«La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti pianti che in quella si fanno,
o per l'umiditá, la quale è nella concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni
della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente accostata alla terra fredda, è fatta
in forma di lacrime, e cosí si può dire l'inferno essere lacrimoso.
«Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad Aristotile piace nel
secondo della Meteora, d'esalazioni calde e secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi
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o da alcun freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so. Estimo che 'l
tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare che vi sia, causi alcuno impeto il quale
muova quello aere, e l'aere mosso paia vento.
«Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la natura soglia producere
sotterra, e perciò è verisimile quello movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a
questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche vampa di fuoco, la quale in
forma di un baleno apparve all'autore. «La qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è,
per questo, avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere stato tanto, che
quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come l'uom cui sonno piglia».
II
SENSO ALLEGORICO
«Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto si continua l'autore alle
cose dette nella fine del precedente, lá dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione,
sé avere la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento primo, e cosí, dietro alla
ragione, essere rientrato nel cammino da dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad
eterna salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello inferno essere pervenuto. E
sono intorno al senso allegorico di questo canto da considerare tre cose: la prima è quello che
l'autore voglia intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio dato a' cattivi
con la colpa loro; la terza, quello che l'autore voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo
nocchiere, ed, oltre a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai convenientemente
s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.
Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta, la quale l'autor discrive,
e alla ampiezza di quella, e similmente all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere
quella essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica nell'Evangelio: «Intrate
per angustam portam, quia lata et spatiosa via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui
intrant per eam»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna. Ed è questa via
ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e quello essere assoluto da ogni strettezza di
regola; il che delle virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro estremi. L'essere
senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo,
possibile d'entrare nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si può per
l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta larghezza distendersi, che, in qualunque parte
del mondo l'uomo pecca, trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla superbia
dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare la fronte contro a Colui che creato
l'avea, né mai piú si richiuse.
Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi della ragione, nel vestibulo
della perdizione eterna vede i cattivi e inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una
insegna aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da vespe, e il sangue di
questi dolenti esser ricevuto da putridi vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita
dimostrati ne sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella della inerzia,
veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma ancora a' diavoli dispiacere: e per questo
siamo ammaestrati a guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che igualmente
a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo vizio consistere in una freddezza d'animo,
la quale, occupate non solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene coloro, ne'
quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che, brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli
possa ad alcuno atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali, anzi come
vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in questo pare loro, per quel che comprender si
125
possa, sentire alcun diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa esser non
puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la gravezza del misero corpo consenziente alla
viltá dell'animo, avendo quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine della
coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno nella lor misera vita aver seguito,
ora senza pro seco dicendo: - Cosí dovremmo aver fatto; - non tardi né lenti, ma correndo,
seguitano quel segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo lor
vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel cerchio non è alcun principio né
fine, cosí questa lor fatica non debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il
vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li quali continuamente li
trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da intendere per la memoria di due loro singulari
miserie, nelle quali nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una nel brutto e
sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra nell'oziosamente vivere. [E queste si deono
intendere, percioché i mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e questi
intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la quale ora conoscono e dispiace loro e,
dispiacendo, senza pro gli affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la pena
con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino similmente corrotte, e l'asino essere
inerte, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture delle vespe,
amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il morso doloroso della rimembranza della
loro oziositá, dalla quale sono dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade
dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto, ha a rammemorare a questi
dolenti che il sangue generato dalla digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e
sostenne in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose assai bene pare si
conformi con la colpa la pena di costoro. E questo basti de' cattivi aver detto.
Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e per lo nocchiere e per lo
caso, che a lui addivenne, voglia sentire. [E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è
di mostrare come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo mostra convenirsi
fare passando il fiume, il quale in due maniere trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione,
discrive. Delle quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come detto è, esso
trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti sono. E però, avanti che della seconda
maniera tocchiamo, è da vedere quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere,
che per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque s'adagia.]
Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la quale ottimamente dir
si può simile ad un fiume; percioché, sí come il fiume corre continuo, sempre declinando, senza
mai in su ritornare; cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con velocissimo corso
declina verso la morte, senza mai indietro rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per
la divina Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «Omnes morimur et quasi aquae dilabimur in
terram, quae non revertuntur». Sono, oltre a ciò, i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando
per forza di venti, tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché alcuna volta
addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo e divegnamo superbi, e non ricappiendo
in noi, e non essendo a' nostri termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi
vicini talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi trabocchiamo, e
similemente siamo da diversi impeti della fortuna fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E,
come il fiume volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del nostro petto
continuamente rivolgiamo gravissime e noiose sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro
circunvoluzioni talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la circunvoluzione
de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte
afflizioni porgono, cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual cosa, per quel
medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si chiama, il quale è Acheronte, che tanto
suona in latino, quanto «cosa senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla presente
vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con veritá possa dire sé avere avuto
giammai un dí intero senza mille angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave,
126
nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È manifesta cosa di legni leggieri
comporsi le navi, e quelle, senza molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si
possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili, non altrimenti per la presente
vita trasvolano, che facciano sopra l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano
coloro, li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in perpetua perdizione gli
conducono: come per essa dice l'autore, che Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.
È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón, bianco per antico pelo, il
quale nella lettera dicemmo essere stato figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai
apertamente veder si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo, cioè del
profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre cose, e non essendo avanti la creazione del
mondo alcuna luce sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del mondo erano,
produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí distinti, come nel principio del Genesi si
legge; e quinci, perché nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo della Notte,
cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, Sopra l'«Eneida» di Virgilio, dice esser «'Charon'
quasi 'chronos'»; e questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice esser «bianco
per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della vecchiezza degli uomini, nella quale noi
divegnamo canuti: e per questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo spazio
stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo si comprende in libro Temporum
d'Eusebio, egli è, dalla creazione del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel
torno. E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote il tempo esser quello
che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve, e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro
nascimento levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e trasportalo all'altra riva,
cioè al dí della morte. È vero che egli è qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono
nell'ira di Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal vita finiscono nella
grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e
quella essere eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché l'eternitá non patisce
alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si può dir cosí, percioché di questa vita vanno in
morte perpetua: e perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o di dí lo
spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte perpetua fu a' dannati morte, in quanto
finirono questa vita, la quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno beata stata
a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte perpetua son trapassati.
[Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di questo nocchiere. È il
remo un bastone lungo, col quale il nocchiere fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza
d'un luogo ad un altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le quali
s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle
cose temporali son tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e dalla qualitá
delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la
notte o in pensieri o in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie
operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che riposo prendere possano, ma elle
non lasciano altrui avere spazio di respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste,
lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le grandi imprese de' re, de' principi
e de' signori, riguardate con l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi continuamente
siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora
in una parte e ora in un 'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non lettere, ma
volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli
tien sospesi a' lor navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano
delle merca-* *tanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan loro, tanti fan loro mutare animi e
consigli. Chi potrebbe esplicare quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali
rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna scrittura è che appieno gli
potesse mostrare. E cosí i dolenti, che hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che
perir debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui trapassati alla perpetua.]
127
La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote esser questa: percioché
egli non potrebbe ancora conducer l'autore alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non
sia l'ultimo dí dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio l'autore non essere in
disposizione ch'egli volesse passare per dover di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro
della divina giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar similmente quegli
che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí come l'autore andava. E però gli dice: - «Piú lieve
legno convien che ti porti»; - volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú lieve, piú
lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú lievi, le quali talvolta si posson por giuso
(come puote l'uomo, che vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno non si
posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si muore. E non è da credere che
attualmente l'autore in inferno andasse, o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui
e altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa maniera parlare, accioché
essi con minore difficultá possano dalle cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali
per opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina volontá bisogno d'alcuno
uficiale: basta in lei semplicemente il volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí
come dice il salmista: «Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt». Ma questo noi non
comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non ne fosse posto dinanzi quello che Iddio
dispone e adopera, sí come nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal tempo
menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati. [E cosí possiam questa maniera, del
passare in inferno, dire che sia per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale esser
non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da questa sentenza dannati sono, hanno
il fiume valicato, in rem iudicatam sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna
cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque scioccamente Origene, per altro
prudentissimo e grandissimo letterato uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere,
non che d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e menarnegli in vita
eterna.]
[La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il fiume d'Acheronte, par che
l'autore voglia qui essere per una spezie di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale
nostro Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato mortale, sia incontanente
messo nella prigione del diavolo; ma nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere
commesso quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole riconoscere, e per
penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá;
e, dove riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere stare in quella
prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo, e all'unghie del diavolo di nostra volontá la
gola porgiamo. La qual cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]
Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo intendere, che «La
terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che
balenò una luce vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí come è il
vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre fugge. E questo splendore dice essere stato
balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita nasca
questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito, reca seco ammirazione, e poi
subitamente si converte in nulla, sí come noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé
sono e testé non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza, che spesse volte
occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta affezione disiderati sono, che, lasciata la debita
notizia di Dio e dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le malvagie operazioni, si
trascorre in essi. Di che assai appare a questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi
cadere nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è soprappreso dal sonno. E
fa in questo l'autore debita comparazione: percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella
infernal morte si caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto l'uomo si
può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí come nel principio del seguente canto
mostra l'autore d'essere stato desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire essere
128
stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio del primo canto del presente libro
dicemmo che Domeneddio toccava i peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la
mandava. E meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo dicemmo, l'autore per
lo sonno non essersi accorto come nella prigion del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il
fiume d'Acheronte; ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai leggiermente
conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio avervelo trasportato. E questo trasportamento
sarebbe stoltizia a credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come spiritualmente
intender si dee noi per lo peccato divenir servi del diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa
forma trapassano in inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però uscirne per
tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché per lo peccato non si può di peccato uscire,
come quegli farebbono che per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene
uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che la penitenza. E a pervenire a
questa via mostra l'autore essergli convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte
opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi riguardiam bene, il conduce a piè
del monte della penitenza, dove trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
129
INDICE
I
VITA DI DANTE
I. Proposizione
II. Patria e maggiori di Dante
III. Suoi studi
IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi
V. Amore per Beatrice
VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice
VII. Digressione sul matrimonio
VIII. Opposte vicende della vita pubblica di Dante
IX. Come la lotta delle parti lo coinvolse
X. Si maledice all'ingiusta condanna dell'esilio
XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo settimo
XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta
XIII. Sua perseveranza al lavoro
XIV. Grandezza del poeta volgare. Sua morte
XV. Sepoltura e onori funebri
XVI. Gara di poeti per l'epitafio di Dante
XVII. Epitafio
XVIII. Rimprovero ai fiorentini
XIX. Breve ricapitolazione
XX. Fattezze e costumi di Dante
XXI. Digressione sull'origine della poesia
XXII. Difesa della poesia
XXIII. Dell'alloro conceduto ai poeti
XXIV. Origine di questa usanza
XXV. Carattere di Dante
XXVI. Delle opere composte da Dante
XXVII. Ricapitolazione
XXVIII. Ancora il sogno della madre di Dante
XXIX. Spiegazione del sogno
XXX. Conclusione
II
REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)
Avvertenza
I. Proposizione
II. Patria e maggiori di Dante
III. Suoi studi
IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi
V. Amore per Beatrice
130
VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice
VII. Matrimonio di Dante
VIII. Digressione sul matrimonio
IX. Cure familiari e pubbliche
X. Come la lotta delle parti lo coinvolse
XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo settimo
XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta
XIII. Morte di Dante
XIV. Gara di poeti per l'epitafio di Dante
XV. Rimprovero ai fiorentini
XVI. Fattezze e costumi di Dante
XVII. Digressione sull'origine della poesia
XVIII. Che la poesia è simigliante alla teologia
XIX. Dimostrazione della predetta sentenza
XIX bis. Perché i poeti nascondono il vero sotto fizioni
XX. Dell'alloro conceduto ai poeti
XXI. Carattere di Dante
XXII. La «Vita nuova» e la «Commedia». Incidenti occorsi nella composizione di questa
opera
XXIII. Perché Dante compose la «Commedia» in volgare. A chi egli la dedicò
XXIV. Altre opere composte da Dante
XXV. Spiegazione del sogno della madre di Dante
XXVI. Conclusione
III
COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
Proemio
Canto primo:
I. Senso letterale
II. Senso allegorico
Canto secondo:
I. Senso letterale
II. Senso allegorico
Canto terzo:
I. Senso letterale
II. Senso allegorico
131
SCRITTORI D'ITALIA
G. BOCCACCIO
OPERE VOLGARI
XIII
GIOVANNI BOCCACCIO
IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI
DOMENICO GUERRI
VOLUME SECONDO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918
132
III
CONTINUAZIONE
DEL
COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"
133
CANTO QUARTO
SENSO LETTERALE
[Lez. XI]
«Ruppemi l'alto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente canto, sí come usato è
l'autore, alle cose dette nella fine del precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto
come un vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento, il fece cadere, come
l'uomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di questo, dimostra come questo suo sonno
gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il
sonno e come nello 'nferno si ritrovasse; nella seconda, procedendo dietro a Virgilio, racconta sé
avere molti spiriti veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E questa
seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».
Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona violenza, volendo
in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è
senza cagione, la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza a' comandamenti e
a' piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia da' ministri della giustizia punito nell'altra.
«L'alto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un costrignimento del caldo
interiore e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un
riposo delle virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual, volendo i suoi effetti
mostrare, scrive Ovidio cosí:
Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc.
E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, in tragedia Herculis
furentis, dove dice:
..... tuque o domitor,
somne, malorum, requies animi,
pars humanae melior vitae,
volucer, matris genus Astreae,
frater durae languidae Mortis,
veris miscens falsa, futuri
certus et idem pessimus auctor:
pater o rerum, portus vitae,
lucis requies noctisque comes,
qui par regi famuloque venis,
placidus, fessum lenisque fovens:
pavidum Leti genus humanum
cogis longam discere mortem, ecc.
Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la camera e il letto e la sua
famiglia, se quella per avventura alcun disiderasse.
134
«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi chiamiamo
«fronte», e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in questo luogo intende l'autore, percioché nel capo
dimora il sonno causato da' vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per l'arterie al cerebro.
«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce da' nuvoli, quando sono per violenza
rotti; e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí
come Aristotile mostra nel terzo libro della sua Meteora; percioché, essendo l'esalazioni calde e
secche dalle fredde e umide circundate, sforzandosi quelle d'uscir fuori e queste di ritenerle,
avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle s'accendono, e, per quella virtú
aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá, ch'ella si rompe, ed in quel rompere fa il
suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della
esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual cosa intervenir non può in
quello luogo dove l'autore disegna che era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che
possano tuono causare: per che assai chiaro puote apparere l'autore per questo «tuono» intendere
altro che quello che la lettera suona, sí come giá è stato mostrato nell'allegoria del precedente canto.
«Sí, ch'io mi riscossi, Come persona ch'è per forza desta». E in queste parole mostra ancor
l'autore gli atti infernali tutti essere violenti. «E l'occhio riposato». Dice «riposato» percioché prima
invano si faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore
dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché non solamente l'occhio, ma ciascun altro senso
n'è incerto di sé divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra l'autore il suo reducere
i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le parti circustanti: ed a questo segue la cagione
perché ciò fece, cioè «Per conoscer lo loco, dov'io fossi», percioché quello non gli pareva dove il
sonno l'avea preso.
«Vero è»: qui dimostra d'aver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual fosse,
dicendo «che in sulla proda io mi trovai», cosí desto, «Della valle d'abisso dolorosa», sopra la quale
come esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente canto mostrato: «Che tuono
accoglie d'infiniti guai», cioè un romore tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura»,
all'apparenza, «profonda era», all'esistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre all'oscuritá, era
noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo,
«a fondo», cioè verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna cosa vi
vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza delle tenebre e della nebbia.
- «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte del presente canto
dimostra l'autore per una medesima colpa, cioè per non avere avuto battesimo, tre maniere di genti
essere dannate; e questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere de' predetti;
nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda quivi: «Non lasciavam l'andar», ecc. Nella
prima parte l'autore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti di sopra
dette, e pone delle due, delle quali l'una dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, l'altra dice
essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio gli
solve. E comincia questa seconda quivi: - «Dimmi maestro mio», ecc.
Dice adunque cosí: - «Or discendiam», percioché in quel luogo sempre infino al centro si
diclina; «quaggiú nel cieco mondo», - cioè in inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché
alcuna natural luce non v'è: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto», cioè pallido oltre
l'usato. È il vero che l'uomo impallidisce per l'una delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella
quale intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e l'altre evacuazioni, le quali vanno a tôrre il
vivido colore), o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo
giú, impallidí per compassione. - «Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai secondo», - cioè mi
seguirai; volendo, per questo ordine dell'andare, renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va
davanti, trova prima ogni ostacolo, il quale l'andare impedisce, e quello rimuove, se egli è buono e
valoroso duca.
«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto», riguardandolo nel viso, «Dissi: Come verrò», io appresso, «se tu», che vai avanti ed ha'mi fatto vedere di menarmi salvamente,
«paventi», cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come nel primo canto
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appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel secondo canto, dove tu dell'animo cacciasti la
viltá sopravvenutavi. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse: - «L'angoscia delle genti», onorevoli e d'alta fama,
«Che son quaggiú», in questo primo cerchio dello 'nferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora,
«Quella pietá», cioè compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi che sia
per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo: percioché tu senti te pauroso, tu
estimi da questo mio colore che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per
compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.
«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché la via lunga ne
sospigne» - a dover andare. «Cosí si mise», procedendo, «e cosí mi fe' entrare», seguendolo io,
«Nel primo cerchio», cioè nel limbo, «che l'Abisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.
«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non avea
pianto mai», cioè d'altro, «che di sospiri». È il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da
alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non
facesse, potrebbe l'angoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e tanto gonfiare d'intorno a lui, che ella
potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
dell'angoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con
impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che
l'aura eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura» un soave movimento
d'aere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in
inferno, anzi v'è ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»),
«facevan», gl'impeti de' sospiri, «tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.
«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque quelle
anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il
quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non
per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice.
«Che avean le turbe», cioè moltitudini, «ch'eran grandi, D'infanti», cioè di pargoli, li quali «infanti»
si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che perfettamente potesson parlare (e questa è
l'una delle due maniere di genti, delle quali dissi che l'autor trattava in questa parte), «e di femmine
e di viri», cioè d'uomini (e questa è l'altra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi
morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali
una medesima cosa direi loro essere e gl'infanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice:
«D'infanti e di femmine e di viri», non mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi
moverebbe sarebbe questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella presente
vita gl'infanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno, al supplicio, in quella etá, cioè in quello
poco o nullo conoscimento; anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che
è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione del conoscimento credo sia
lor data in tormento e in noia, e non in alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare
il vogliamo, è conceduto.]
«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che domandar
dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne meritamente addomandare, o forse per
assicurarlo al domandare; percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto
pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio
l'essere domandato, per che poi d'alcuna cosa domandato non l'avea) «a me» disse: - «Tu non
dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso fa come il
buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli
si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che l'uditore addomandar dovea, e dice: «Or vo' che sappi,
avanti che piú andi, Ch'e' non peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e s'egli hanno mercedi», cioè
se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene
avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perch'e' non ebber battesmo». E
questo n'è assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «Amen, amen,
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dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest intrare in regnum Dei». È
adunque il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del
quale tutti, nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti
eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla
nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí come qui afferma l'autore. «Ch'è parte della fede,
che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella, percioché gli articoli
della fede son dodici, de' quali dodici è il battesimo uno.
Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove,
dicendo: «E se pur fûr», costoro de' quali noi parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che
Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il
battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son perduti, perché «Non adorar
debitamente Iddio». E in tanto non l'adoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di
Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra
redenzione; non sentirono de' comandamenti dati da lui al popol suo, ne' quali, ben intesi, stava la
salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma
adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e
onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io medesmo»: percioché
Virgilio, sí come in libro Temporum d'Eusebio si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il
battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta di Cristo nella
Vergine, per quello che comprender si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un
sermone Della nativitá di Cristo, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata ne' versi scritti nella
quarta egloga della sua Buccolica, dove dice:
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
iam nova progenies caelo delabitur alto.
De' quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e,
se pure son di quegli che 'l sentono (e per avventura santo Augustino medesimo), non credono lui
avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico
disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo popolo, accioché tutta la
gente non perisse». Non adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al
cristianesmo salvarsi.]
«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non
avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per
avere contro alle morali o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in
perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio»: - il quale disio non
è altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria de' beati. E come che molto faticosa cosa sia
il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile l'ardentemente disiderare e
non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò,
quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo
ch'ella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna
intermissione.
«Gran duol mi prese al cuor quando l'intesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di
molto valore», stati intorno agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando
co' cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato d'alte mura, «che in quel limbo», cioè in
quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello
astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i
gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio,
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percioché quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi»,
dall'ardore del lor desiderio.
- «Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della prima parte della
seconda division principale, nella quale l'autore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele
solve. Dice adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore». - Assai l'onora l'autore per farselo
benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che fatto non avea alla dimanda fattagli nel
precedente canto: dopo la quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed intende,
in questa domanda, non di voler sapere de' santi padri che da Cristo ne furon tratti, che dobbiam
credere il sapea, ma per ciò fa la domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta
fu per la venuta di Cristo, alcun altro n'uscí mai: quasi per questo voglia farsi benivolo Virgilio,
dandogli intenzione occultamente che, se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi
fosse, egli s'ingegnerebbe d'adoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a salute.] «Comincia' io,
per volere esser certo Di quella fede, che vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che
per la nostra fede n'è porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene i santi padri. [Il che,
quantunque creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura n'è scritto, son
nondimeno di quegli che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non credo
che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla fede debita alle Scritture; e però cosí le
cose passate, come quelle che venir debbono, senza cercarne testimonianza d'alcuno, si vogliono
fermamente credere e semplicemente confessare]. - «Uscicci mai», di questo luogo, «alcuno, o per
suo merto», cioè per l'avere con intera pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per l'avere sí
nella mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse salute: «O per l'altrui»,
opera, [o fatta o che far si possa per l'avvenire,] «che poi fosse beato?» - uscendo di qui e sagliendo
in vita eterna.
«Ed e'», cioè Virgilio, «che 'ntese il mio parlar coverto», cioè intorno a quella parte, per la
quale io, tacitamente intendendo, faceva la domanda generale, «Rispose: - Io era nuovo in questo
stato». Dice «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia d'anni v'erano stati, dov'egli stato non
v'era oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino
alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi
venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol
conobbe. E meritamente dice «possente», percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare,
che alcun altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo,
oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era, questo possente, «Con segno di vittoria
incoronato». Non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al
limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto, che il luogo di sua natura
oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive che «habitantibus in umbra mortis lux orta
est eis».
«Trasseci l'ombra del primo parente», cioè d'Adamo. [Adamo fu, sí come noi leggiamo nel
principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto dí creato da Dio, e fu creato del limo della
terra in quella parte del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò nel viso, e in quel soffiare
mise nel petto suo l'anima dotata di libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era
immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e secondo che i santi
credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di
trentatré anni. E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé intelletto, volontá
e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro, dove essendosi addormentato, nostro Signore non del
capo né de' piedi, ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di perfetta etá. La
quale come Adamo desto vide, disse: - Questa è osso dell'ossa mie, e per costei lascerá l'uomo il
padre e la madre, ed accosterassi alla moglie. - La qual'è tratta dal suo costato, per darne ad
intendere che per compagna, non per donna né per serva dell'uomo, l'avea prodotta Iddio; e ad
Adamo non per sollecitudine perpetua e guerra senza pace e senza triegua, come l'odierne mogli
odo che sono, ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte le cose, le
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quali nel paradiso erano, usassero, sí come produtte al lor piacere, ma del frutto d'uno albero solo, il
qual v'era, cioè di quello «della scienza del bene e del male», s'astenessero, percioché, se di quello
gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma
l'antico nostro nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere quelle sedie, le
quali per la ruina sua e de' suoi compagni evacuate erano, presa forma di serpente, disse ad Eva
che, s'ella mangiasse del frutto proibito, ella non morrebbe, ma s'aprirebbero gli occhi suoi e
saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito,
e datone ad Adamo, incontanente s'apersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano ignudi: e
fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio,
furono cacciati di paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú figliuoli e
figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, d'etá di novecentotrenta anni si morí.]
[Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno: - Tu hai detto davanti che ciò, che
Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque
non fu immortale? - A questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che Iddio senza
mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle creature semplici, sí come furono e sono gli
angioli, li quali sono semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li quali tutti
sono di semplice materia creati: ma l'uomo non fu cosí; anzi fu creato di materia composta, sí come
è d'anima e di corpo, e perciò non è perpetuo come sono le predette creature. - Ma quinci può
sorgere un'altra obiezione, e dirsi: egli è vero che l'uomo è composto d'anima e di corpo, e queste
due cose amendue furon create da Dio; perch'è dunque l'anima perpetua, e 'l corpo mortale? Dirò
allora l'anima essere stata da Dio composta di materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo
non cosí; percioché non fu composto del semplice elemento della terra, senza alcuna mistura d'altro
elemento, sí come d'acqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura
dell'uomo, fu adunque fatta del limo della terra, avente alcuna mistura d'acqua. Non che io non
creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le
cose, ma la commistione de' corpi ne mostra quegli essere stati fatti di materia composta: e perciò,
quantunque in perpetuo viva l'anima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di
quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa corruzione e morte de' corpi
con la inobbedienza acquistata, avendolo Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe
qui dire alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che peccarono, perché non
divenner mortali? Alla quale obiezione è assai risposto di sopra: percioché, di semplice materia
creati, non posson morire, se non come l'anima nostra, la quale, quantunque peccasse col corpo
d'Adamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo, al quale, sí come a cosa atta a
ricevere la morte, ella era stata minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime
ingegno che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio, si vuole ricorrere, a'
teologi ed a' sufficientissimi litterati, la scienza de' quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni
si distende.]
«D'Abél, suo figlio», cioè d'Adam. Questi si crede che fosse il primiero uomo che morí,
ucciso da Cain suo fratello per invidia. Leggesi nel Genesi Caino, il quale fu il primo figliuolo
d'Adam, essersi dato all'agricoltura, e Abél, similmente figliuol d'Adam e che appresso a Cain
nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato a far, prima che alcuni altri, de'
frutti delle loro fatiche sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per far
sacrificio, d'eleggere le piú cattive biade, o che avessero le spighe vòte, o che fossero per altro
accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio,
come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel fuoco non andava diritto verso
il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva,
sempre eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello sacrificava: di che
seguiva che, essendo il sacrificio d'Abél accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente
verso il cielo. La qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al fratello;
e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non prendendosene Abél guardia, Caino il
ferí in su la testa d'un bastone ed ucciselo.
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«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio l'opere degli uomini sopra la terra, e per
questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di
riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse un'arca e come
dentro v'entrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il
quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra 'l crescere e scemare perseverò nel torno di
dieci mesi. Ed essendo pervenuta l'arca, la qual notava sopra l'acque, sopra le montagne d'Ermenia,
e non movendosi piú per l'acque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra l'arca,
mandò fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo d'ulivo in
becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dell'arca, fece
sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto del vino,
inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto. Il quale, di
lui beffatosi, il disse a' fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero il padre; ed
egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed essendo vivuto novecentocinquanta anni
nella grazia di Dio, passò di questa vita.
«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re
d'Egitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei maschi fossero uccisi, e le femmine servate,
avvenne che, percioché bello figliuolo era paruto alla madre, non l'uccise, ma servollo tre mesi
occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto un picciolo vasello di giunchi e quello
imbiutato di bitume, sí che passarvi l'acqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e l'acqua
menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che divenisse. Ed essendo per
ventura la figliuola di Faraone con le sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo
vasello, e, fattolo prendere ad una delle sue femmine, l'aperse, e, trovatovi dentro il picciol
fanciullo che piangea, disse: - Questi dee essere de' figliuoli delle ebree. - Allora la fanciulla, che il
vasello seguiva, disse: - Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che il balisca? - A cui la
donna disse: - Va'. - Ed ella andò e menò la madre medesima, la quale, come cresciuto l'ebbe, il
rendé alla donna, la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dall'acqua», e a modo che figliuolo se
l'adottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, percioch'egli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re,
se n'andò in Madian, e quivi co' sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una
fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e
comandògli che liberasse il popolo d'Israel della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non
volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed ultimamente,
comandato agli ebrei che quelle cose, che accattar potessero dagli egizi, e' prendessero e
seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in
via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei
erano dodici tribi, ed in tante s'aperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono
salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso,
come passati furono gli ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo
diserto, e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero loro dal cielo coturnici;
e percossa da Moisé con la verga una pietra, subitamente n'uscí per divino miracolo un fiume
d'acqua di soavissimo sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo, esso ordinò
loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio; ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e
similemente le vittime e gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro quistioni;
e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da
Dio due tavole, nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del
monte, diede al popolo: e però il soprannomina l'autore «legista». Alfine, dopo molte fatiche, morí
nella terra di Moab, essendo d'etá di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab
di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua sepoltura.
«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá de' caldei, l'anno
quarantatré del regno di Nino, re d'Assiria. Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua
moglie, venne in Canaan, e qui, essendo giá d'etá di novantanove anni, avendo prima d'Agar, serva
egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come annunziato gli fu dai tre li quali gli
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apparvero nella valle di Mambre, un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio
che gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando esso un fascio di legne in collo,
e Abraam il fuoco e 'l coltello in mano, n'andò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il
figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento d'Iddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un
montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle,
veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che, vinti i re
di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a
Melchisedech, re e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare a' suoi
discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale, essendo giá d'etá di centosettantacinque
anni, morí, e fu da' figliuoli seppellito nel campo d'Efron de' figliuoli di Soar Itteo della regione di
Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara, sua moglie, da' figliuoli di Het.
È costui chiamato «patriarca», da «pater», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a
dire «principe»: e cosí resulta «principe de' padri».
«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e levato giovane da guardare
le pecore del padre, percioché ammaestrato era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il
quale esso col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta gli dava; ed
essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo, il quale aveva statura di gigante, e lui con
la fionda, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ond'egli meritò la
grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie. Racquistò l'arca foederis, la quale al
popolo d'Israel era stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga
persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio; ultimamente, essendo da' filistei
stato sconfitto Saul e' figliuoli in Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo
coronato re. E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli, e invecchiato molto,
si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo figliuolo.
«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre
uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di
lenti, la quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso di Mesopotamia,
dove, dopo la morte d'Isaac, per paura d'Esaú fuggito s'era, sí come nel Genesi si legge, tutta una
notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quell'uomo esser
vinto, venendo l'aurora, disse quell'uomo: - Lasciami. - Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se
da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso rispose: - Io
son chiamato Iacob. - E quell'uomo disse: - Non fia cosí: il tuo nome sará Israel, percioché, se tu se'
forte contro Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini. - E, toccatogli il nervo
dell'anca, gliele indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i
giudei non mangiano di nervo.
«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo d'Abraam, «e co' suoi nati», cioè di Iacob, li
quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e da' quali li dodici tribi d'Israel ebbero origine,
e ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.
«E con Rachele, per cui tanto fe'». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca, sua
madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra
di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a
primogenito, per paura di lui se n'andò in Mesopotamia a Laban, fratello di Rebecca, sua madre. Il
quale Laban avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di
servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie
Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel
essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata data(9) Laban, messa la notte preterita nel
letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che
l'usanza della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú etá
fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo, similemente Rachel. Di che
(9)
Nell'originale "da". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
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convenutisi insieme che esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban
conceduta Rachel. E questo è quello che l'autore intende, quando dice: «Rachele, per cui tanto fe'»,
cioè tanto tempo serví.
Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli e' figliuoli e'
nipoti di partirsi del paese di Cananea e d'andarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale
esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto de' granai di
Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio d'etá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo
suo con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i figliuoli che,
quando da Dio vicitati fossero e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi l'ossa sue ne
portassero.
«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli altri
profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella
quale è vera e perpetua beatitudine. «E vo' che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi che costoro
beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;» - e ciò era per lo peccato del primo parente, il
quale ancora non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quegli, che
bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso
doveano venire e bene adoperare, la porta del paradiso.
[Lez. XII]
«Non lasciavam l'andar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto,
nella quale l'autore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli
spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa l'autore quattro cose: nella prima dice
sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu,
tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual
vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La
seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi:
«La sesta compagnia».
Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «l'andar, perch'ei dicessi», cioè ragionasse;
«Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva
voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello
luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono d'alberi.
«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non c'eravam molto dilungati, «Di qua dal sonno»,
il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»;
ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna
lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è
buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dell'autore. «Quando io vidi un
fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte d'una spera, cioè d'un corpo ritondo
come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre
vincía». Qui non vuole altro dir l'autore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre,
alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava
quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per
gran cose conosciuti fossero.
«Di lungi n'eravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», n'eravamo lontani,
«che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno,
«Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale
eravamo.
- «O tu», Virgilio; e domanda qui l'autore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli,
che passati sono, non l'hanno: «che onori», col ben sapere l'una e col bene esercitar l'altra, «ogni
scienza ed arte». [Capta qui l'autore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui
essere onoratore di scienza e d'arte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto
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dell'Etica d'Aristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera
differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori;
scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa
propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza
speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe
infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo
colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma l'intelletto si dee propriamente alle
proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui
l'autore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e
maestrevolmente operandole, sí come appare ne' suoi libri, ne' quali esso agl'intelligenti si dimostra
ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si
dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione de' suoi poemi o alle parti di
quegli si richiede, usando in essi l'artificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá
hanno richiesto; e questo appartiene all'arte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente
queste lode dall'autore attribuite gli sono.]
«Questi chi sono, c'hanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del
verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li
quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?» - in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che
passati sono, non hanno.
«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me: - L'onrata», cioè l'onorata, «nominanza»; puossi qui
«nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí
nelle scritture degli antichi, e sí ancora ne' ragionamenti de' moderni, raccordati sono; «Grazia»,
singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati
abbiamo. - [Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia
si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi,
de' quali l'autor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica
umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro
buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono l'eterna gloria, la quale Iddio concede per
merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non
fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la 'ntenzion di
Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita;
per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro,
acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]
«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual
mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre
Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è
la voce propriamente dell'uomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni
altra cosa per la bocca dell'uomo, o d'alcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o
sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu
per me», cioè da me, «udita», cosí fatta: - «Onorate l'altissimo poeta»; e questa, per quello che poi
segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si
fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente
si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato
davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «L'ombra sua», cioè di Virgilio, «torna,
ch'era dipartita», - quando andò al soccorso dell'autore, come di sopra è dimostrato.
«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grand'ombre», non di statura,
ma grandi per dignitá, «a noi venire», come l'uno amico va a ricoglier l'altro, quando d'alcuna parte
torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti,
dimostra l'autore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è
de' maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con
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eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa,
mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.
«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire: - Mira colui con quella spada in mano». È la
spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare l'autore ad intendere di che materia colui,
che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il
primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che,
chi dopo lui scritto n'ha, l'abbia avuto da lui. «Che vien dinanzi a' tre», poeti che 'l seguono, «sí
come sire», cioè signore e maggiore.
«Egli è Omero poeta sovrano». Dell'origine, della vita e degli studi d'Omero, secondo che
diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun
altro: nelle scritture del quale si legge che Omero fu d'umile nazione; percioché in Ismirna, in que'
tempi nobile cittá d'Asia, il padre di lui in publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre
fu venditrice d'erbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i
suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero
che, per la sua singular sufficienza in poesí, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber
quistione della sua origine, affermando ciascuna d'esse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere
stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E
alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia
fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse
seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura,
ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero de' loro iddii stato
fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia d'anni. Fu nondimeno
dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato,
dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza
che gli altri dell'altre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:
Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,
dicendo d'Omero.
Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto
da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: - Colui che al
presente nasce morrá cieco; - e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto
ab «o», che in latino viene a dire «io», e «mi», che in latino viene a dire «non», ed «ero», che in
latino viene a dire «veggio»: e cosí tutt'insieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo
apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la
madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un
poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi
di Grecia, seguendo i famosi studi, se n'andò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e
filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra
ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e
quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che
componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, de' quali si
trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta
delle battaglie de' greci e de' troiani infino alla morte d'Ettore, mirabilmente commendando Achille.
Compose similmente l'Odissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori d'Ulisse, li
quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle
laude degl'iddii, il cui titolo non mi ricorda d'aver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel
quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane e' topi, la qual non finse senza
maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion degl'iddii, e
composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú
altri infino in tredici, de' quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza
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degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi
nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la
sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di
Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed
essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e
carissima per ornamento di pietre e di perle; e co' suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il
quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse l'opere del detto Alessandro, come cosa mirabile
riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna
altra da servare in cosí caro vasello. Non v'ebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale
ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí
preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada d'Omero: e cosí a servar
questo libro fu deputata.
[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco
sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza che ne fosse cagione, il
suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni.
Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che potesse dare le spese ad un
fanticello che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era
volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca
barba e con pochi capelli; di mansueto animo e d'onesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò,
alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra l'altre, essendo in Atene ed avendo parte della
sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva
scritto gl'iddii l'un contro all'altro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i
velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie degl'iddii Omero s'intendesse: e per questo,
credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella
cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio
l'avrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare,
percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel
quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla altra cosa
essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno d'Atene, quasi
sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma sillaba
d'un suo verso, e che esso co' suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la
sua gente d'arme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi
metterlo in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in
parte alcuna dalla libertá dell'animo suo, il fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]
[Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione; percioché,
essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno
scoglio si stavano, forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se preso avessero,
intendendo seco medesimo de' pesci. Costoro risposero che quegli, che presi aveano, avean perduti,
e quegli, che presi non aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo i
pescatori potuto pescare, come loro usanza è, s'erano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi
e purgati di que' vermini che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli
aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi ne' vestimenti rimasi, ne portavan seco.
Omero, udita la risposta de' pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava
sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel cader percosse, e
di quella percossa il terzo dí appresso si morí. Alcuni voglion dire che, non potendo intender la
risposta fattagli da' pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della quale in
pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito; onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa
in Atene, in quella onorevolmente il seppellirono].
Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia, né fu pure appo i greci in
sommo pregio, ma ancora appo i latini in tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova
essere stato maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue Quistioni
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tusculane scrive Tullio cosí di lui: «Traditum est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam,
non poësin videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna
quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse
non viderit, nos ut videremus effecerit?», ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in
molte cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui il nostro
autore il chiama «poeta sovrano».
[Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare padre d'ogni virtú,
secondo l'opinione d'alcuni, ne' tempi che Melanto regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in
Alba. Eratostene dice che egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere stato
dopo l'emigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di Lacedemonia e Latino Silvio re
d'Alba. Altri voglion che fosse dopo questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba
Silvio re d'Alba. Filocoro dice che egli fu a' tempi di Archippo, il quale era appo gli ateniesi nel
supremo maestrato, cioè centonovanta anni dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu
corrente la ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento di Troia.
Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano Omero essere stato avanti che Roma
fosse fatta, centoventiquattro anni: e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento
anni, regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del quale per ciò cosí
particulare investigazion del suo tempo ho fatta, perché comprender si possa, poi tanti valenti
uomini di lui scrissero, quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non per
la sua preeminenza singulare].
[Lez. XIII]
«L'altro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai umile e depressa,
percioché egli fu figliuolo d'uomo libertino: e «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati
figliuoli d'alcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e chiamavansi questi
cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia, e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse
fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi ricordi; ma uomo
d'altissima scienza e di profonda fu, e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per
quello che comprender si possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia
d'Ottavian Cesare, e fugli conceduto d'essere dell'ordine equestre, il quale in Roma a que' tempi era
venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e singularmente usò l'amistá di
Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella
di Virgilio e d'alcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile de' versi
lirici, il quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni
avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san Geronimo scrive nel
proemio libri Temporum d'Eusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici
fu da' salmisti composto il salterio. E questo stile usò Orazio in un suo libro, il quale è nominato
Ode. Compose, oltre a ciò, un libro chiamato Poetria, nel quale egli ammaestra coloro, li quali a
poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir debbono e di quello da che si debbon
guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle Pistole e nei
Sermoni, fu acerrimo riprenditore de' vizi; per la qual cosa meritò d'essere chiamato poeta «satiro».
Altri libri de' suoi, che i quattro predetti, non credo si truovino. Morí in Roma d'etá di
cinquantasette anni, secondo Eusebio dice in libro Temporum, l'anno trentasei dello 'mperio
d'Ottaviano Augusto.
«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di Sulmona in Abruzzo, sí
come egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama De tristibus, testimonia, dicendo:
Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui decies distat ab Urbe novem.
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E, secondo che Eusebio in libro Temporum dice, egli nacque nella patria sua il primo anno
del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua
fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della scienza. Per la qual
cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge,
sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi
poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere
alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual
cosa esso dice nel detto libro:
Quidquid conabar scribere, versus erat.
Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
Saepe pater dixit: - Studium quid inutile temptas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes. Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e, divenuto in
ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria, se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto,
dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto all'ordine
equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo
«cavalleria»; e, oltre a ciò, fu sommamente nell'amore de' romani giovani.
Compose costui piú libri, essendo in Roma, de' quali fu il primo quello che chiamiamo
l'Epistole. Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama Liber amorum, altri il
chiamano Sine titulo: e può l'un titolo e l'altro avere, percioché d'alcun'altra cosa non parla che di
suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina
Corinna; e puossi dire similmente Sine titulo, percioché d'alcuna materia continuata, della quale si
possa intitolare, non favella, ma alquanti versi d'una e alquanti d'un'altra, e cosí possiamo dir di
pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis, cioè de'
dí ne' quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste e'
dí solenni degl'iddii de' romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri
calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non
esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il
quale è partito in tre, e chiamasi De arte amandi, dove egli insegna e a' giovani ed alle fanciulle
amare. E, oltre a questo, ne fece un altro, il quale intitolò De remedio, dove egli s'ingegna
d'insegnare disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale
stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi
esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro De
tristibus, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio d'emendarlo.
Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione d'Ottaviano, per
comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar
maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa
isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d'un fiume de' colchi, il quale si
chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello De tristibus,
in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibin. Composevi quello che egli
intitola De Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come egli scrive nel libro
De tristibus, mostra fosse l'una delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:
Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error.
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La prima adunque dice che fu l'aver veduta alcuna cosa d'Ottavian Cesare, la quale esso
Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro,
dicendo:
Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?
Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere,
quivi:
Alterius facti culpa silenda mihi est.
La seconda cagione dice che fu l'avere composto il libro De arte amandi, il quale pareva
molto dover adoperare contro a' buon costumi de' giovani e delle donne di Roma. E di questo nel
detto libro si duol molto, e quanto può s'ingegna di mostrare questo peccato non aver meritata
quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie
d'Ottaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá
d'etá di cinquantotto anni, l'anno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum
scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a
Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi
incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far motto e festa,
che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il costrinse a morire.
«E l'ultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, fu
Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai
chiaro. Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela e d'Atilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, sí
come nel libro Delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto
presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché si legge che, avendo
egli alcuna volta con gli amici suoi conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: - Che
dite? mancaci cosa alcuna ad essere equale al Culice? - Culice fu un libretto metrico, il quale
compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da
comparare all'Eneida: e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici
compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che s'intendesse se alcuna cosa pareva loro
che al suo lavoro mancasse ad essere equale all'Eneida; della qual cosa esso maravigliosamente se
medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in
tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e
furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero de' poeti,
affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la
cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella
sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si
conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico d'Omero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta,
o il comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro d'Orazio o di Persio o di Giovenale, con quello de'
quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come ch'e' si trattasse, maravigliosa
eccellenza d'ingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato
essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con
molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito scrive,
una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti
che alcun de' congiurati nominar volesse; non solamente alcuno n'aspettò per non accusare se
medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i tormentatori, ma, come domandato
fu se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò
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d'avere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual cosa morto giá Lucio
Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si
fece in un bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori
divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui
d'uno uom d'arme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli a' circustanti
raccontò, ed in quegli l'ultime sue parole e la vita finirono.
«Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene», cioè si confá o è
conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè quella che dice che udí: «Onorate l'altissimo
poeta». Nella qual voce «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome
dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi quattro è cosí chiamato poeta
come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di
loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle
battaglie fatte a Troia e degli errori d'Ulisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e
trasformazioni, Lucano le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la venuta
d'Enea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re de' rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno
bene». Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono d'una
medesima professione, come costoro erano con Virgilio.
«Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi Virgilio congiunto con
loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene a dire «convocazione» in latino, percioché per essa
son convocati coloro li quali disiderano sotto l'audienza de' piú savi apprendere; il qual vocabolo,
conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che l'autore mostra di voler sentire, cioè non
adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed
intender per la «convocazione» i «convocati». «Di que' signor», cioè maestri e maggiori,
«dell'altissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa,
sí come nelle parole seguenti l'autor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila vola». Cioè,
come l'aquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il canto poetico, e massimamente quello di questi
poeti, vola sopra ogni altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in fuori
avesse fatto: il che, posto che d'alcuni, non credo di tutti si verificasse.
«E poi ch'egli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per l'atto seguitone, che
dice si volson verso lui «con salutevol cenno», che essi ragionassero dell'autore, domandando gli
altri Virgilio chi fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando l'autore
molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano coloro de' quali parlano, se giá non
fossono evidentemente uomini infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
salutevol cenno, E 'l mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi, come colui al quale dilettava
uomini di tanta autoritá aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso
commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice, «sorrise», la qual molti
prenderebbono non per essersi rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del
tutto non è da credere, percioché l'autore non l'avrebbe scritto, né è verisimile il dottore farsi beffe
de' suoi uditori; conciosiacosaché nell'ingegno de' buoni uditori consista gran parte dell'onor del
dottore; ma senza alcun dubbio puose l'autore quella parola «sorrise» avvedutamente, e la ragione
può esser questa. È il riso solamente all'umana spezie conceduto: alcun altro animale non è che
rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché l'uomo, non solamente parlando, ma ancora
per quello mostri l'intrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente, molto piú che per le
parole, si dimostra per lo riso. È il vero che questo riso non in una medesima maniera l'usano gli
stolti che fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte un riso grasso e
sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar gli occhi e ampliar la gola e doler gli
emuntori del cerebro e le parti interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma i
savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e
di questo scintilla per gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non
è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, l'autore aver detto Virgilio, come savio, aver
sorriso di quello che a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando
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alcuna cosa scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir «sorridere», anzi è
«ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia d'animo, per la qual ci sforziamo di volere
frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci dispiace.
«E piú d'onore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo contenti solamente ad
averlo salutato. E l'onor che gli fecero fu questo: «Che e' mi fecer della loro schiera», cioè mi
dichiariron fra loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno
che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne
onore. «Sí ch'io fui sesto tra cotanto senno», cioè tra' cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai
essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché sarebbe paruto troppo superbo
parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa parola l'autor di iattanza, dicendo ad alcuno non
star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di se
medesimo la veritá alcuna volta sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi d'alcun
suo laudevole merito alcuna fiata. E questo n'è assai dichiarato per Virgilio pel primo dell'Eneida,
laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non
sapendo in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei
domandato chi egli fosse, il fa rispondere:
Sum pius Aeneas, fama super aethera notus.
Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a dimostrare Enea essere
stato in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon
costume? Certo no: Né è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo? Che,
considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá, rispondendo, di commendar se
medesimo; percioché, se di sé quivi avesse taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in
quanto non sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago, della sovvenzione
de' paesani: il quale non è dubbio niuno, che, avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non
rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama conosciuto,
avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá
aiutino i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo,
cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in terra lavati i piedi a' suoi
discepoli, tra l'altre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste parole: - «Voi mi
chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché io sono». - Direm noi in questo Cristo aver
peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in questo né in
altra cosa peccò giammai colui che era toglitore de' peccati, e che col suo preziosissimo sangue
lavò le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece; percioché, se
cosí fatto non avesse, non avrebbe dato l'esempio dell'umiltá a' suoi discepoli, il quale lavando loro
i piedi aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro maestro e signore, come
il chiamavano. Il che assai si vede per le parole seguenti dove dice: - «E se io, il quale voi chiamate
Maestro e Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete voi l'uno all'altro
lavare i piedi. Io v'ho dato l'esempio. Come io ho fatto a voi, e cosí similmente fate voi», - ecc.
Adunque è talvolta di necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto
peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse l'autore.
[Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente opera, però convenirsi
cognoscere e sapere chi stato fosse l'autore d'alcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle
cose dette da lui, la qual molto pende dall'autoritá d'esso. E perciò qui l'autore, dovendo in questo
suo trattato poeticamente scrivere dello stato dell'anime dopo la morte temporale, accioché prestata
gli sia fede, di necessitá confessa qui esser da' poeti dichiarato poeta.]
«Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della seconda principale, nella
quale esso dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi
spiriti, e di quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque poeti ed io,
«infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il
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quale vinceva emisperio di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello», cioè onesto,
«Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose, «colá dov'era». Intorno a queste parole sono
alcuni che si sforzano d'indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi
par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che l'autore il volle tacere?
«Venimmo a piè d'un nobile castello», cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato d'alte mura,
Difeso intorno», cioè circundato, «d'un bel fiumicello». «Questo», fiumicello, «passammo come
terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello
avea, come sette cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate le sette
porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da intendere il castello e la verdura, percioché
né edificio alcun v'è, né alcun'erba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere puote
intrare.
«Genti v'avea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive l'autor primieramente alcuno
de' lor costumi e modi, per li quali comprender si puote loro esser persone di grande autoritá, e
appresso ne nomina una parte. Dice adunque: «Genti v'avea», in quel luogo, «con occhi tardi e
gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá dell'animo, percioché coloro, li quali
muovono la luce dell'occhio soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
cuoprono, dimostrano l'animo loro esser pesato ne' consigli, e non corrente nelle diliberazioni. «Di
grande autoritá ne' lor sembianti», in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e
grasso riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan rado», percioché nel molto
parlare, se necessitá non richiede, e ancora nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá;
«con voci soavi», percioché il gridare e l'elevar la voce soperchio si manifesta piú tosto abbondanza
di caldezza di cuore che modestia d'animo. «Traemmoci cosí dall'un de' canti», cioè dall'una delle
parti di quel luogo. E son prese queste parole dell'autore da Virgilio nel sesto dell'Eneida, ove dice:
Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
adversos legere, et venientum discere vultus, ecc.
«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del pari, non si
può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.
«Colá diritto, sopra 'l verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice «verde»,
percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca verdura», per che appare che il luogo era
erboso; la qual cosa, come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione
allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli
spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni
magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti, «in me stesso n'esalto», cioè me ne reputo in
me medesimo esser maggiore.
[Lez. XIV]
«I' vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere che l'autore intenda, fu
figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono.
De' quali l'uno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui
nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso
levante, persevera molte giornate. L'altro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi,
oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di
Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui
essere stato il padre d'Elettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove
maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei
sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione:
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le quali sette sirocchie, secondo le favole de' poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere
trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro. Delle quali
scrive Ovidio nel suo De fastis cosí:
Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
quae septem dici, sex tamen esse solent.
Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
nam Steropen Marti concubuisse ferunt,
Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
Maian et Electron Taygetenque lovi:
septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
Poenitet: et facti sola pudore latet.
Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
non tulit, ante oculos opposuitque manum.
Secondo gli astrologi, l'una di queste sette stelle è nebulosa, e però come l'altre non
apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo, in libro De imagine mundi, dice
che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantitá, percioché
«plion» in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli
tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè all'entrata di marzo. Il
numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola, percioché, essendo simili in numero
alle predette sette stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e,
perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state
trasportate in cielo. L'avere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine,
queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali
per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento d'umido. Che esse abbiano nutrito
Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta s'intende per lo elemento del fuoco e dell'aere,
e se nell'aere umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse, l'aere non
potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata: adunque l'umiditá di queste stelle, che è molta,
è cagione di questa sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di Corito, re
della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui denominata fosse. E sono di quegli che
vogliono questo Corito essere quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa
intenzione forse agevolmente s'adatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n» al nome di Corito,
fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni e permutazioni di lettere essere ne' nomi antichi fatte
sovente si truovano.
Essendo adunque costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí tre figliuoli, Dardano
e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per
questo saranno di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non solamente dall'autor
posta sia, ma ancora perché la prima nominata: della qual cosa può essere la cagion questa. Volle,
per quello che io estimo, l'autore porre qui il fondamento primo della troiana progenie (e per
conseguente de' discendenti d'Enea) e della famiglia de' Iulii, le quali, o vogliam dir la quale, piú
che alcun'altra è stata reputata splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in piú
secoli è perseverata ne' suoi successori: percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si
comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano,
figliuolo d'Elettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in
Numitore, padre d'Ilia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo
d'Agrippa Silvio, che de' discendenti d'Enea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale
furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E d'altra parte, secondo che alcuni si
fanno a credere, essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il disfacimento
d'Ilione, certi figliuoli d'Ettore essersene andati in Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata
Sicambria; e de' lor discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e pervenuti
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infino sopra il Reno, il quale Germania divide da' Galli; e appresso, dopo piú centinaia d'anni,
dietro a due giovani reali di quella schiatta discesi, de' quali l'un dicono essere stato chiamato
Francone e l'altro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data origine e principio alla
progenie de' reali di Francia: e cosí infino a' nostri dí voglion dire che pervenuta sia.
Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se l'autore voleva il principio di cosí nobile e cosí
antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito il marito di questa Elettra? A che si può cosí
rispondere: perché, conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo d'Elettra,
cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito
o di Giove: e però, non avendo questo certo, volle porre l'autore inizio di questa progenie colei di
cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano fosse stato figliuol di Giove
nacque da questo: che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra
Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi
e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia,
provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del
reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; a' suoi cittadini diede ottime e
laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non
essere stato figliuolo d'uomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni erano molto
conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano,
secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, a' tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in
Frigia pervenne l'anno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí adunque quello che prima era
certo, cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la
madre, come detto è, puose in questo luogo primiera.
«Con molti compagni.» Questi estimo erano de' discesi di lei, tra' quali ne furono alquanti,
piú che gli altri famosi e laudevoli uomini. De' quali compagni ne nomina l'autore alcuno, dicendo:
«Tra' quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di Troia, e d'Ecuba. Costui si
crede che fosse in fatti d'arme e forza corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí
appare nella Iliada d'Omero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie avute de' greci, avvenne
che, avendo Achille, ad istanzia de' prieghi di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a
Patrocolo, suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse l'armi sue, e Patrocolo con esse in
dosso essendo disceso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere
Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, l'uccise, e spogliògli
quelle armi, e, quasi d'Achille tronfando, se ne tornò con esse nella cittá. La qual cosa avendo
Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente
animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combatté e, ultimamente
vintolo, l'uccise. E tanto poté in lui l'odio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo, che,
spogliatogli l'armi, e legato il morto corpo dietro al carro suo, tre volte intorno intorno alla cittá
d'Ilione lo strascinò: e quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura, infino a
tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua tenda, quello con grandissimo tesoro e
molte care gioie ricomperò, e, portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di
tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.
«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, d'Anchise troiano e di Venere,
e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di
Troia, splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie, e di lei ebbe un figliuolo
chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris
quando egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non pertanto valorosamente
contro a' greci combatté molte volte per la salute della patria, e tra l'altre si mise una volta a
combattere con Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli
ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai greci, in luogo di guiderdone gli fu
conceduto di potersi, con quella quantitá d'uomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e
andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali Paris era
primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e
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similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa Creusa, lasciato il
troiano lito, primieramente trapassò in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò
Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come Iddio, sí come Tito
Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi, sospettando di Polinestore re, il quale
dislealmente per avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la sua
compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove
Anchise morí appo la cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato co' suoi amici
sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta,
in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo
trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio
di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno
Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago d'Averno,
ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá
dove è oggi la cittá di Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa fondò
quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto nella foce del Tevero, ed essendogli,
secondo che dice Servio, venuto meno il lume d'una stella, la quale dice essere stata Venere, estimò
dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e su per lo fiume salito con le sue
navi, lá dove è oggi Roma, fu da Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da
Latino re de' laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la quale primieramente
aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re de' rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno
e lui, e molte battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno. Ma alcuni altri
sentono altrimenti.
Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio che Caton dice che,
andando i compagni d'Enea predando appo Lauro Lavinio, s'incominciò a combattere, ed in quella
battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo
Enea avuta vittoria de' rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel
detto fiume e in quello annegò, né mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente
tocca Virgilio nel quarto dell'Eneida, dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:
At bello audacis populi vexatus, et armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
auxilium imploret, videatque indigna suorum
funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
Hoc precor, ecc.
E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo
dell'Eneida finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma
d'Enea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi d'Enea, e infino in su le navi essere stata seguitata da
Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga d'Enea, e
che, quivi morto, esso cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada
deificato e chiamato Giove indigete.
«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso d'Enea,
come di sopra è dimostrato, e d'Aurelia, discesa della schiatta d'Anco Marcio, re de' romani. Né fu,
come si dice, denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il
tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio in libro Duodecim Caesarum dice, quando
egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele: - Io non tornerò a te se non pontefice
massimo; - e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato
Cesare, percioché ad un de' suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse:
e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello
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lato de' Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per
madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece
in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e
divenne nella disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed
esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed
essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel
tempio d'Ercole avendo veduta la statua d'Alessandro macedonio, seco si dolse, dicendo:
Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso,
da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui
aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine
sempre s'ingegnò d'esser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande d'amici in
Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato,
per dieci anni fu in continue guerre con que' popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in
Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú
battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una
legge fatta da Pompeo, gli fu negato l'un de' due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito s'era, infino a Brandizio, e di
quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re d'Egitto,
gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella
cui amicizia congiunto s'era, concedette il reame, quasi in guiderdone dell'adulterio commesso.
Quindi n'andò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di
Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a Gneo Pompeo,
figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso e'
suoi contro a' pompeiani, e' fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale spezie
di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in
Roma, dove trionfò de' galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse Plinio, in libro De
naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro
romano non avvenne d'essere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in
quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, né, fuorché in
una, si trovò esser perdente: e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che
di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere, sotto la sua condotta, in
alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
diverse parti combattendo, essere stati uccisi de' nemici dalla sua gente un milione e cento novanta
due [centinaia di] migliaia d'uomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle
guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo e' suoi seguaci furono. Per la qual cosa
meritamente dice l'autore: «Cesare armato».
Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non fosse,
in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina
aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu grandissimo
perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise,
ma a molti, senza addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie
in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto; percioché, secondo che scrive Svetonio, egli
nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio,
Lollia d'Aulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte l'altre,
amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli
avesse. Usò ancora l'amicizie d'alcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede,
re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re de' mauri, e Cleopatra, reina d'Egitto, e altre. Né
furon questi suoi adultèri taciuti in parte da' suoi militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico
fu da molti cantato: - Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; - ed altri dicevano: - Ecco
Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare. - Ed,
oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu detto da molti: - Romani, guardate le vostre donne,
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noi vi rimeniamo il calvo adultero. - E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole: - Tu
comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui l'hai preso in prestanza. Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare,
contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei
mesi stendere l'uficio del dettatore. Ed appartenendo all'autoritá del senato il conceder l'uso della
laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva;
la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa
dignitá perseverando, ed essendo a molti de' senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato
avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, d'esser re; per la qual
cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso da' parti,
ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse ne' libri
sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che
Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima a' senatori ad udire. E, come che essi servassero
occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro
aveano fra sé ragionato: e perciò gl'idi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare,
sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte
precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in
su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il
senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto,
principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La
qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni
dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed
essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui
ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che
da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie
giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo l'antico costume, un
rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe
in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta,
che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il
suo vero nome sia «Giulia».
[Lez. XV]
«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare;
ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto
ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza
d'animo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo
l'autore, o colui da cui l'ebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí
avere avuti fatti ragionevolmente.
«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente
libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui l'autore per la sua virginitá e per la
sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non
femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.
«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dell'amazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza
volere o compagnia o signoria d'uomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú
reine lungo tempo signoreggiarono parte d'Asia e talora d'Europa. La origine delle quali fu questa,
secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia.
Essendo cacciati di Scizia, quasi ne' tempi di Nino, re d'Assiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale
schiatta, per divisione la quale era tra' nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi
avendone seco menata insieme con le lor mogli e' figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad
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un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti
anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne
che, per occulto trattato de' popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli de' quali,
veggendo essere aggiunto al loro esilio l'esser private de' mariti, preson l'armi, e con fiero animo
andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro
terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il
difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio co' popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá
dell'animo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, a' quali si
maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa
deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali
con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro
mariti, nella morte degli altri da torno tutte d'uno animo cospirarono. E per forza d'arme, con quegli
che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo
modo, che a parte a parte andavano a giacere co' vicini uomini, e come gravide si sentivano, si
tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine
guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad
alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica
continua l'esercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero,
essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le
privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun
filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del
sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non v'ingrossava la poppa. E da questa
privazione dell'una delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè
«Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo,
quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro
imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta
reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor
di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò d'aver alcuna figliuola di lui, e, per accattare l'amore e la
benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro a' greci venne in aiuto de' troiani.
Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá
morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu
uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da
lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre n'hanno un solo.
«Dall'altra parte», forse a rincontro a' nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re de' laurenti
e figliuolo di Fauno re, de' discendenti di Saturno, e d'una ninfa laurente, chiamata Marica, sí come
Virgilio nell'Eneida dice:
... Rex arva Latinus et urbes
iam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
accepimus.
Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della
figliuola, in questa forma: che, tornando Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo
nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E
cosí non di Fauno, ma d'Ercule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio Sopra Virgilio dice che,
secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo
d'Ulisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto
di lui, cioè di Latino, «Solis avi specimen», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto
Servio (percioché la ragione de' tempi non procede, percioché Latino era giá vecchio, quando
Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati
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piú Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie, cosí similmente sono
gli antichi scrittori discordanti della madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito de'
minturnesi, allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:
...et innantem Maricae
littoribus tenuisse Lirim;
e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché
gl'iddii locali, secondo l'erronea opinion degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni
dicono Marica esser Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto
«Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere
essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re de' laurenti, ne' tempi che
Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re d'Ardea e zia di Turno, sí come
per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice
che Pallanzia, figliuola d'Evandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono alcuni, ricevette
Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un forestiere,
del quale dovea mirabile succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá
promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che dice
Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.
«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e d'Amata e
moglie d'Enea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il
quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore, secondo
che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e partorí al tempo debito un figliuolo, il
quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma
poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella
andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto
femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in etá da
sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro Temporum dice che costei dopo la morte d'Enea si
rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato
Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.
«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma,
percioché egli fu d'una famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre
di lui fu sorella di Tarquino Superbo, re de' romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire
contro a' congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e cosí visse buona pezza,
portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i
matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi il vedesse, e con
questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il
quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora avvenne
che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor
compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole,
in virtú e in costumi preponeva la sua a tutte l'altre femmine; e, non finendosi la quistione per
parole, presero per partito d'andarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne
trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcun'altra; e
cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e
far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti d'arme e a campo; e di quindi
n'andarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la
donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro
insieme filare e far quello che a buona donna e valente s'apparteneva di fare: per che fu reputato che
costei fosse piú da lodare che alcuna dell'altre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli
altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e
seco medesimo commendatala molto, entratagli nell'anima la bellezza e l'onestá di lei, seco
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medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire alcuna
cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed
onorato, considerato la condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che
tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente n'andò lá dove Lucrezia
dormiva, e postale la mano in sul petto, disse: - Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se
tu farai motto alcuno, pensa ch'io t'ucciderò di presente. - Ma per questo non tacendo Lucrezia, la
quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir non voleva, le disse: - Se tu non farai il piacer
mio, io t'ucciderò, e appresso di te ucciderò uno de' tuoi servi, e a tutti dirò che io t'abbia uccisa,
percioché col tuo servo in adulterio t'abbia trovata. - Queste parole spaventarono la donna, seco
pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere stata
adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si
consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.
Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e
d'amaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino,
suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nell'aspetto, la domandò
Collatino: - Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose nostre? - A cui Lucrezia rispose: Che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma d'altro uomo che
di te. - E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino era stato la passata notte adoperato.
Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dell'accidente forte turbati fossero, nondimeno la
cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò
non avesse consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto a' vestimenti un
coltello, disse: - Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai
sará, che per esempio di Lucrezia diventi impudica. - E detto questo, e posto il petto sopra la punta
del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si
morí. Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere l'indegnitá del
fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando l'iniquitá di Sesto Tarquino, e di molte
ingiurie accusando il re e' figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto,
estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta
Lucrezia, con una gran brigata de' collazi n'andò a Roma, lasciando che l'un de' due rimasi
andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava,
piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dell'innocente donna e ad odio de'
Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte
e il disfacimento del re e de' figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu
sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re e' figliuoli, a Roma
venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che
minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del
re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú d'uno
anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu l'uno Bruto e l'altro Collatino. E, sentendo,
in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re e'
figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con
verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò
essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato di ritornare per trattato
in Roma, ragunata da una parte e d'altra gente d'arme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale
uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi tra' due eserciti cominciata la battaglia,
avvenne che Arruns, l'uno de' figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la
battaglia degli altri, gridò: - Questi è colui che m'ha del regno cacciato; - e drizzato il cavallo e la
lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte n'andò verso lui. Il
quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso lui dirizzatosi con
la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni
morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria de' nemici, con grandissimo pianto
ne recarono in Roma il corpo di Bruto, lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e
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ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia, fu amarissimamente
pianto, e poi, secondo l'uso di que' tempi, onorevolmente fu seppellito.
«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.
«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune storie sono, le quali io
abbia vedute, che guari menzione faccian di lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere
stata onesta e venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia, lei essere stata
moglie, non una sola volta, ma due, di Catone uticense. Il quale avendola la prima volta menata a
casa, generò in lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro servar vita celibe e
fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò,
immaginando non dovere per l'etá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi
maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale
non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio,
e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su l'aurora
picchiò all'uscio di Catone, e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per moglie;
che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro che solamente il nome d'esser moglie
di Catone, e sotto l'ombra di questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di
Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione ritoltala, senza alcuna altra
solennitá osservare, e mentre visse servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella
lui per suo marito.
«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di Cinna, giá
quattro volte stato consolo; la quale, lasciata Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie.
E fu costei moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che, essendo delle
comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo marito, rispersi di sangue (il che,
secondo che alcuni scrivono, era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli l'animale, che
sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo sangue macchiatolo); come prima
Giulia gli vide, temendo non alcuna violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da
grave dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che nel ventre avea, e quindi
morirsi.
«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato l'autore dalla consonanza dei
futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma
della famiglia de' Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con
Giuba, re de' numidi, seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei
primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso da' parti e a cui fu l'oro fondato messo giú
per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente
donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre
cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era
stata, ne' pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano
manifesta, con lui dell'isola di Lesbo partitasi, n'andò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini
di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma d'intera
fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.
«E solo in parte vidi 'l Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione
assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e
ammaestratissimo in fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di
cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né in ciò fu contento solamente alle
relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse,
e massimamente intra' cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici.
E fu per setta de' seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le sue
leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne
raccontano assai. Fu pietoso signore e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E,
percioché egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si nomineranno,
estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva l'autore.
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«Poi ch'io alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi il
maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a
filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».
Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico d'Aminta, re di Macedonia, e poi
di Filippo, suo figliuolo e padre d'Alessandro; la madre del quale fu chiamata Efestide: li quali
Nicomaco ed Efestide vogliono alcuni esser discesi di Macaone e d'Asclepiade, discendenti
d'Esculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu, dicono essere stato figliuolo
d'Apollo, iddio della medicina. E dicono alcuni lui essere stato d'una cittá chiamata Stagira, la
quale, se io ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma in Trazia: le quali
due province è vero che insieme confinano, per che, essendo in su i confini la cittá, forse
agevolmente s'è potuto errare a dinominarla piú dell'una provincia che dell'altra. Fu costui
primieramente, dopo l'avere apprese le liberali arti, ammaestrato ne' libri poetici. E credesi che il
primo libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri
d'Omero, e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi
vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in que' tempi
famosissimo filosofo; e, lui morto, s'accostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne, e sotto
lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí per l'eccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato
studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta Platone alla
sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse: - L'intelletto non c'è, sordo è
l'auditorio. - Visse appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, de' quali parte
ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di quegli scrisse e compose molti libri.
Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione
di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né meno in quella apparve facondo,
che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti
morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi: Etica, Politica ed Iconomica; né
delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò,
trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua
Metafisica appare. E, brevemente, egli fu il principio e 'l fondamento di quella setta di filosofi, i
quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano d'apporgli, cioè che egli
facesse ardere i libri di Platone: la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto
pregio e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri. Li quali non ha molto
tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica
greca in un grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco Petrarca. È
il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo lungo tempo sotto il velamento d'una
nuvola d'invidia di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti
uomini la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella
medesima si dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che
prima, rotta la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che, oggi, quasi altra
filosofia che la sua non è dagl'intendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo
all'etá di sessantatré anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di stomaco.
«Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e similmente credo
facciano tutti quegli che a' nostri dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e
maggior di tutti.
«Quivi vid'io», appresso d'Aristotile, «Socrate».
Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima condizione di parenti
disceso, percioché, sí come scrive Valerio Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica De patientia,
il padre suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe nome Fenarete, il cui
uficio era aiutare le donne ne' parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo
che dice Papia, alquanto tempo s'esercitò nell'arte del padre. Poi, lasciata l'arte paterna, divenne
discepolo d'una femmina chiamata Diutima, secondo che si legge nel libro De vitis philosophorum;
ma santo Agostino, nel libro ottavo De civitate Dei, scrive che egli fu uditore d'Archelao, il quale
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era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire
pienamente esperto degl'intrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli ammaestramenti
de' piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni tusculane: e
in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato quasi un
terrestre oracolo dell'umana sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente
Calcidio Sopra il primo libro del Timeo di Platone, e come Agostino nel libro ottavo della Cittá di
Dio, egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama «iddio
di Socrate» in un libro che di ciò compose: il quale molte cose gl'insegnò e in ciò che egli aveva a
fare l'ammaestrò. Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli uomini, ma
eziandio da Apolline, il quale gli antichi ne' loro errori credettero essere iddio della sapienza,
giudicato sapientissimo. Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli fosse
nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel
libro secondo Noctium Atticarum, lui essere usato di stare dal cominciamento d'un dí infino al
principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col corpo, e senza volgere gli occhi o 'l
viso dal luogo al quale nel principio della meditazione gli poneva.
Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque in iscienza
continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si faceva; e da lui, secondo che
Girolamo scrive nella sua trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia, nacque
quel proverbio, il quale poi per molti s'è detto, cioè «hoc scio, quod nescio». E, oltre a questo,
essendo tanto e sí venerabile filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò.
Esso, tra l'altre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la colletta dagli uditori suoi, ed essi
tutti dandogli volentieri non solamente il debito, secondo l'uso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
giovane ma d'alto ingegno, lasciò andar ogn'uomo a pagar questo debito, e non andandone piú
alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di Socrate e disse: - Maestro, io non ho al mondo cosa
alcuna che ti dare per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che io ti do piú
che dato non t'ha alcun altro che qui sia; percioché non ce n'è alcuno che tanto donato t'abbia, che
alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me t'ho dato, cosa alcuna non è rimasa. - Al quale
Socrate umilmente rispose: - Eschilo, il tuo dono m'è molto piú caro che alcuno altro che da costoro
mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a
costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto
m'hai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per
mio, tanto fa' che tu abbi me per tuo. - Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò le
cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto piú che un viso.
Il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dell'una delle due mogli che
avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il dí e la notte egualmente, con perturbazioni e
con romori era da lei stimolato; la qual tanto piú nella sua ira s'accendeva, quanto lui piú paziente
vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da Alcibiade, nobilissimo giovane d'Atene,
secondo che scrive Aula Gellio in libro undecimo Noctium Atticarum, perché egli non la mandava
via, conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dell'ingiurie
dimestiche fattegli da Santippe egli aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste
cose, le quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un
dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della casa gli versò sopra la testa un vaso d'acqua putrida e
brutta; il quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, null'altra cosa disse: - Io sapeva bene
che dopo tanti tuoni doveva piovere. Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore,
assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico; il che detto a Socrate, disse: - Questi può
esser savio uomo d'aver lasciata l'arte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli
uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre. - Era, oltre a ciò, usato di prender piacere di
vedere le due sue mogli per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e
massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso camuso, le spalle
pelose e le gambe storte, e appresso la viltá dell'animo loro; e il farle venire a zuffa insieme era
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qualora egli volea, sol che un poco d'amore piú all'una che all'altra mostrasse; di che esse una volta
accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro
indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel
riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a
Lucillo, dicendo: «Platone e Aristotile, e l'altra turba tutta de' savi uomini, piú da' costumi di
Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto
che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai
infermò, né parte d'alcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo animo la povertá, intanto che,
non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse, ma ancora i doni da' grandi uomini
offertigli ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti musici di corda: di
che alcuno maravigliandosi gli disse: - Maestro, che è questo? aver veduti gli alti effetti della
natura, e ora discendere alle menome cose musicali? - Al quale egli dimostrò sé estimare esser
meglio d'avere tardi apparata quella arte che morire senza averla saputa. Né in alcuna etá poté
sofferire d'essere ozioso; percioché, secondo scrive Tullio nel libro De senectute, egli era giá d'etá
di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli appellò Panaletico.
Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente
cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza gl'iddii li
quali gli ateniesi adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile animale esser
degno di molta maggior venerazione che gl'iddii degli ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava,
era che gli animali erano opera della natura, gl'iddii degli ateniesi erano opera delle mani degli
uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dover riformare lo
stato della cittá e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion mossi,
sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li loro iddii essere da onorare e che Atene
dalla lor deitá e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá d'etá di
novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo
coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò l'animo suo inducere, gli mandarono in un nappo
un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua
salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con
quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e
dolendosi ch'egli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo: - Dunque vorresti tu, stolta
femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga
che io giustamente condannato sia. - E, bevuto la venenata composizione, molte cose a' suoi amici,
che d'intorno gli erano, parlò dell'eternitá dell'anima. Ma, appressandosi giá l'ora della morte, per la
forza del veleno che al cuore s'avvicinava, il dimandò uno de' suoi discepoli, chiamato Trifone,
quello che esso voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto
agli altri, disse: - Lungamente m'ha invano ascoltato Trifone. - E poi disse: - Se, poi che l'anima
mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare
estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire. - Né guari stette
che egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi in memoria e
in sembianza di lui fare una statua d'oro, e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate,
secondo che nelle Istorie scolastiche si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re
Assuero.
[Lez. XVI]
«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo d'Aristone, uomo
di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che alcuni affermano, esso fu de' discendenti
del chiaro legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E volendo
Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco
e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo libro della
Filosofia scrivono, finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una sembianza
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d'Apolline; volendo che per questo s'intendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi
estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale
fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza
e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La
qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata.
Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate
api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle,
senza d'alcuna cosa offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che Aristone
lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina l'ammaestrasse, parve nel sonno a
Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che
da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser
quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il
quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si può comprendere essere
stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza.
Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo.
Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di
Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato
dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa
fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è
ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che a' tempi ch'e' romani erano nel colmo del lor
principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la
sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo
temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla
alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine,
alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da
ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni altra prepose,
estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né
d'umana pompa curandosi, visse infino nell'etá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a
Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí,
lasciati appresso di sé molti de' suoi uditori solennissimi filosofi.
«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli stanno».
«Democrito» (supple) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di
ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il
suo esercito, che scrive Giustino fosse un milione d'uomini d'arme. Dopo la morte del quale,
Democrito, dato tutto a' filosofici studi, riserbatasi di sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il
rimanente donò al popolo d'Atene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso, secondo
che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini
fare; e, domandato alcuna volta della cagione, rispose: - Io rido della sciocchezza di tutti quegli li
quali io veggio, percioché io m'accorgo che con l'animo e col corpo tutti faticano intorno a cose,
che né onor né fama lor posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora. - Costui, percioché
estimò il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studi per poter
liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché
il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne.
E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse d'averlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per
quello, era d'uno piú che l'usato accompagnato, e questo era un fanciul che 'l guidava: benché
Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta d'Asclepiade, il quale
fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile
ingegno, quantunque de' princípi delle cose tenesse un'opinione strana e varia da tutte quelle degli
altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dall'uno de' due princípi, o da odio o da amore: e
poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva
chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non
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secondo la diliberazione d'alcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo,
nascere. E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da
nimico, si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa
materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo d'amore e d'amistá». E cosí teneva questi esser
due princípi formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo, costui grandissimo
magico, e dopo Zoroaste, re de' batriani, trovatore di questa iniqua arte, molto l'aumentò e insegnò.
Dice adunque per le predette opinioni l'autor di lui «che'l mondo a caso pone» esser creato e fatto, e
senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel quinto libro delle Quistioni tusculane dice:
«Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona, mala,
aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et sine varietate colorum
licebat vivere beate, sine notione rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu
oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem
omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret».
«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma lui
essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui
essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere,
cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per
sostegno della sua vecchiezza e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso
gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata,
primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e de' templi; poi, trovato un doglio di
terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una
casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a
tramontana, e cosí avea l'aere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí
aveva tutto 'l dí i raggi del sole che 'l riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore
agli uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva
fare in publico; ed eziandio i congiungimenti de' matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare
nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe
della setta de' cinici.
Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli; per che non sará altro
che utile l'averne alcuna raccontata. Dice Seneca, nel libro quinto de' Benefici, che Alessandro, re di
Macedonia, s'ingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con grandissimi doni e profferte
molte volte il fece sollicitare: le quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior
signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che egli poteva rifiutare, che quello che
Alessandro gli avesse potuto donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto
alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole, e offerendosi a lui se alcuna cosa
volesse, gli rispose che quello, che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli
togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio, tiranno di Siragusa, molto
cercato d'averlo, né mai venir fatto gli era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a
considerare l'incendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad una fonte presso
a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato Aristippo, al quale Dionisio facea molto
onore, e, veggendo Diogene gli disse: - Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti
bisognerebbe al presente lavare coteste lattughe; - quasi volesse dire: - Tu averesti de' fanti e de'
servidori, che te le laverebbono. - A cui Diogene subitamente rispose: - Aristippo, se tu volessi
lavar delle lattughe come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio. - Altra volta, essendo per
avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il viso turpissimo, a vedere una sua bella
casa, la quale era ornatissima di dipinture e d'oro e d'altre care cose, e non che le mura e' palchi, ma
eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, s'accostò a colui che menato l'aveva e
sputògli nel viso. Per che quegli, che presenti erano, dissero: - Perché hai tu fatto cosí, Diogene? A' quali Diogene prestamente rispose: - Percioché io non vedeva in questa casa parte alcuna cosí
vile, come quella nella quale sputato ho. - Oltre a ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro
dell'Ira, avvenne che, leggendo Diogene del vizio dell'ira, un giovane gli sputò nel viso. Di che
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Diogene prudentemente e con pazienza portando l'ingiuria, niun'altra cosa disse, se non: - Io non
m'adiro, ma io dubito se sará bisogno o no d'adirarsi. - Di che questo medesimo, tiratosi in bocca
uno sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale sputo poi che Diogene
ebbe forbito, disse: - Per certo coloro, che dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati. Fu, secondo che Aulo Gellio scrive in primo libro Noctium Atticarum, Diogene una volta preso: e,
volendolo colui, che preso l'aveva, vendere, venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa
sapeva servire. Al quale Diogene rispose: - Io so comandare agli uomini liberi. - E, accioché noi
trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo
libro delle Quistioni tusculane, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale si morí, fu
domandato da alcuno de' discepoli suoi, quello che voleva si facesse, poi che egli fosse morto, del
corpo suo. Subitamente rispose: - Gittatelo al fosso. - Alla qual risposta colui, che domandato avea,
seguí: - Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche e gli uccelli ti manuchino? - Al
quale Diogene rispose: - Pommi allato il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli. - A cui
questo addimandante disse: - O come gli caccerai, che non gli sentirai? - Disse allora Diogene: - Se
io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché e' mi mangino? - E cosí si morí: il dove non so.
«Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore di Anassimene e famoso
filosofo. Percioché sostener non poteva i costumi e le maniere de' trenta tiranni, li quali in Atene
erano, si fuggí d'Atene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la signoria de' predetti durò.
Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate da'
pruni e da malvage piante, disse: - Se io avessi voluto guardar queste, io avrei perduto me. - Questi
nella morte d'un suo figliuolo, assai della sua fortezza d'animo e della sua scienza mostrò;
percioché essendogli nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò: - Niuna cosa nuova o
da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva che colui, che di me era nato, era mortale. Ed essendo infermo di quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla cittá, fu
domandato se gli piacesse d'essere portato a morire nella cittá. Rispose che di ciò egli non curava,
percioché egli sapeva che altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla cittá in
inferno.
«E Tale». Tale fu asiano, figliuolo d'uno che si chiamò Essamite, sí come Eusebio scrive in
libro Temporum; e, secondo che Pomponio Mela dice nel primo libro della Cosmografia, egli fu
d'una cittá chiamata Mileto, la quale fu in una provincia d'Asia, chiamata Ionia: e, sí come santo
Agostino dice nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli fu prencipe de' filosofi ioni, e fu
massimamente ammirabile in quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli predisse. E, secondo che alcuni
vogliono, essa fu il primo che conobbe la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la
qual noi chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò l'ordine, il quale ancora servano i
marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua opinione che l'acqua fosse principio di tutte le
cose, e da essa tutti gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano
procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra. E, percioché esso fu de' primi
filosofi di Grecia e, avanti che il nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei
altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo da' pescatori presa
pescando, e tratta di mare, una tavola d'oro, ed essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e
per conseguente mandata a lui; fu di tanta e sí discreta umiltá, che ricevere non la volle, ma la
mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni scrivono, d'aver moglie, e ciò dice che
faceva per non avere ad amare i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e
forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri lasciando, essendo giá d'etá di
settantotto anni, morí. Ma, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, pare che egli vivesse
anni novantadue. Fiorí ne' tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia l'imperio de' medi.
«Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo piú per difetto del
tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine degli uomini, che negligentemente servano le
scritture, che perché egli solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova che
istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano lui essere stato ottimo cantatore,
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ed il suo canto avere avuta tanta di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad
un suo nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale per avventura allora in
quella parte cantava, per la quale il giovane seguiva il suo nemico, dimenticato l'odio, si ritenne ad
ascoltarlo. Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna di Mongibello in
Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco, e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso
dal fuoco. Fiorí regnante Artaserse.
«Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di lui altro nella mente non
ho, se non che quegli libri, li quali egli compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze
scritti da lui, che pochi eran coloro li quali potessero de' suoi testi trar frutto; per la qual cosa fu
cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove,
non trovai mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di Democrito.
E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, de' quali ciascuno fu nominato Zenone; ma,
percioché qui non si può comprendere di quale l'autor si voglia dire, brievemente diremo
d'amenduni. Fu adunque l'uno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace e in
quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá vivere, avendo all'altrui miseria compassione,
se ne andò a Girgenti in Cicilia, in que' tempi da miserabile servitudine oppressa, soprastantele la
crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua
scienza. Ed essendosi accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol
consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della citta infiammò in
disiderio di libertá. La qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone,
e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio
eran partefici. De' quali Zenone alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che
piú col tiranno eran congiunti, e ne' quali esso piú si fidava: e in tal guisa renduti gli amici suoi
sospetti a Falaris, fieramente cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá de' giovani
circustanti: e quantunque d'etá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue parole i cuori de' giovani di
Gergenti, che, mosso il popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá
racquistâro. E questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.
L'altro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una medesima costanza di
animo alla precedente n'ho che raccontare. Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio
Massimo scrive nel terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale, per
forza di tormenti, s'ingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua
morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati,
disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma essere di necessitá che
alquanto in disparte si traessero. Per che, cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per l'orecchio
co' denti, né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli da' circustanti amici del
tiranno ucciso fosse.
«E vidi 'l buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dell'erbe; e che esso intenda
dell'erbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale intorno a quelle fu maravigliosamente
ammaestrato: «Dioscoride dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse, non lessi
giammai; e di lui niun'altra cosa ho che dire, se non che esso compuose un libro, nel quale
ordinatamente discrisse la forma di ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come
fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i frutti di ciascuna e come
il nome, e similmente la virtú di quelle.
«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, in libro Divinarum institutionum in gentiles
scrive, fu figliuolo d'Apolline e di Calliope musa, e a costui scrive Rabano, in libro Originum, che
Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea composta: la quale esso Orfeo
si dolcemente sonò, secondo che i poeti scrivono, che egli faceva muovere le selve de' luoghi loro,
e faceva fermare il corso de' fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli diventar mansuete. Di costui,
nel quarto della Georgica, racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata
Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore tirata, la prese per moglie. La
quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando
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insieme con certe fanciulle su per la riva d'un fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per la
qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo, pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso
nell'erba; per che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di
che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò
dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sé, ma ancora
facesse all'anime de' dannati dimenticare la pena de' lor tormenti, Proserpina, reina d'inferno,
mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro rivolgere a
riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si
rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto
disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere
che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé;
laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei perduta avea, di mai piú non
volerne alcun'altra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, sí come dice Ovidio,
avendo il matrimonio di molt'altre, che il domandavano, ricusato, cominciò a confortare gli altri
uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono fieramente ad avere in
odio; e multiplicò in tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco, che si
chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, co' marroni e co' rastri e con altri stromenti da
lavorar la terra l'uccisono e isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nell'Ebro, infino
nell'isola di Lesbo furono dall'acque menate: e, volendo un serpente divorare la testa, da Apolline
fu convertito in pietra: e la sua cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra l'altre
imagini celestiali.
Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere stato di Tracia, e nato
d'una gente chiamata «cicona»: e secondo che Solino, De mirabilibus mundi, afferma, questi cotali
ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di loro. E fu costui,
secondo che molti stimano, di que' primi sacerdoti che furono ordinati in que' tempi, che prima si
cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque
il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto, che in qual parte esso
voleva, aveva forza di volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo Tebaida,
egli fu di que' nobili uomini, li quali furono chiamati argonauti, che passarono con Giasone al
Colco: e fu trovatore di certi sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di
Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale
introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra
un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la
frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora
chiamati «orfichi», ne' quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio
che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo quegli di Tracia avendo
comandato questi sacrifici farsi da' cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural
difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva fatto a
fine di torle in quel tempo dalle commistioni degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia
abominabile, ma ancora dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando questo
essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad
Orfeo, e lui, che di ciò non si prendeva guardia, co' marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro.
Fiorí costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte, e appo i latini Fauno, padre
di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva esserne stato un altro molto più antico di costui, il
quale, essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito di
parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio in libro Temporum scriva questo Museo,
figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo d'Orfeo.
«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine fu d'Arpino, cittá non
lontana da Aquino, anticamente stata di que' popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili
parenti, percioché si legge li suoi passati essere stati re della lor cittá. Questi, giovanetto, venne a
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Roma; e giá in eloquenza valendo molto, avendo l'animo gentile, sempre s'accostò a' più nobili
uomini di Roma. I suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in quegli fosse
ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni altro preterito, e, per quello che insino a
questo di veder si possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli ancora
giovinetto compose in rettorica l'Arte vecchia e la Nuova. Poi, più maturo, compose in questa
medesima facultá un libro chiamato De oratore, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in
retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici libri, sí come quello De officiis, Delle
quistion tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus, De re
publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis,
De topicis ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria:
e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre. Divenne per la sua industria in
Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu
fatto dell'ordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da
Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la
congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano,
essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò,
mandato in esilio da' romani, e poi, finito l'anno, rivocato e con mirabile onore ricevuto. E,
sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed essendo in ogni parte i pompeiani
vinti da Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, né però fu privato dell'ordine senatorio. Ultimamente
fu di quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove Cesare fu ucciso; per la
qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola de'
proscritti da Antonio triumviro, il quale fieramente l'odiava, se n'andò a Gaeta. Dove pianamente
dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di capitale pericolo
liberato, pregò Marco Antonio che gli concedesse di perseguirlo e d'ucciderlo: ed ottenutolo, lui nel
campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e la destra mano, con esse se
ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella testa che la sua avea liberata da morte.
«Lino» (supple) vidi. Lino fu tebano, uomo d'altissimo ingegno e in musica ammaestrato
molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno
di quegli primi poeti teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro d'Ercole; e fu a' tempi
di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e Steleno appo gli argivi; e perseverò
insino al tempo che Atreo e Tieste regnarono in Micena ed Egeo in Atene.
«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza d'un altro Seneca,
il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo appresso di lui, il quale (essendo il nome di
questo «morale» Lucio Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo;
percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che Seneca morale scrivesse. Fu
adunque, questo Seneca, spagnuolo, della cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei
quali l'uno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e l'altro Lucio Anneo Mela, padre di Lucano) da Gneo
Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni dicono, furono menati a Roma, e quivi furono
in onorevole stato; e massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse, venuto in
disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nell'isola di Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi,
avendo Claudio fatta uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e presa in
luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di
Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; a' prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e
restituito ne' suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale
in grandissimo colmo divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore d'un famoso filosofo in
que' tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte facultá solennissimo
divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú
commendabile, in quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua
dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, sí come il libro De
beneficiis, quello De ira, quello De clementia a Nerone, quello De tranquillitate animi, quello De
remediis fortuitorum, quello De quaestionibus naturalibus, quello De quatuor virtutibus, quello De
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consolatione ad Elviam e altri piú. Ma sopra tutti fu quello Delle pistole a Lucillo, nel quale, senza
alcun dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e
quello ancora che si chiama Le declamazioni. Compose, oltre a questi, un altro, secondo che alcuni
vogliono, il quale è molto piú poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in
quello discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da Mercurio in inferno.
E che esso questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi
presto, percioché egli ebbe fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui; e
quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua poca laudevol vita.
Ma, poi che Claudio, per lo 'nganno d'Agrippina, sua moglie, fu morto dal veleno, datogli
mangiare ne' boleti, e per l'astuzia di lei posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di
Claudio; Nerone, figliuolo adottivo del detto Claudio e d'Agrippina e discepolo di questo Seneca, fu
fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio multiplicò molto la grandezza e la
ricchezza di Seneca, la quale men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia
carnale di Britannico e sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente
apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata
Poppeia Sabina, la qual più anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era
prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad
istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca
non, co' suoi consigli, l'animo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono
sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare la
'nvidia portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in
povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e
lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nell'animo non avea, ciò, che egli rifiutava,
ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del
tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia de'
clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.
Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti de'
senatori e da più altri dell'ordine equestre, e da' centurioni e da altri cittadini, essendo di quella
prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire,
non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagitá e come uomo che era
disideroso d'adoperare crudelmente la sua potenza co' ferri. Ed essendo per ventura di que' dí,
secondo che scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue Storie, tornato Seneca di
campagna, s'era rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno
d'una coorte pretoria, approssimandosi giá l'ora tarda, andò e quella intorniò d'uomini d'arme, ed
entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina sua moglie, e con due de' suoi amici mangiare. E
mangiando egli, gli manifestò il comandamento fattogli dall'imperadore, cioè: uno, chiamato
Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed esso essersi in nome di Pisone
rammaricato perché da poterlo visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò
scusato, che fatto l'avea per cagione della sua infermitá e per disiderio di riposo; e che esso non
avea avuta alcuna cagione per la quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e
che il suo ingegno non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo non era
alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca
che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale
Nerone domandò se Seneca s'apprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver
veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli
comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli s'eleggesse la morte. Il quale tornatovi,
non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno de' centurioni, che gli dicesse l'ultima
necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole
del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò Seneca, voltosi a' suoi amici,
molte cose disse, e, poiché negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
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lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò era la immagine della vita sua,
della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli
arti e della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora con piú intenta
dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in fermezza d'animo: domandògli dove i
comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione
intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di Nerone; e che niun'altra
cosa gli restava a fare, avendo la madre e 'l fratello uccisi, se non d'uccidere il suo maestro e colui
che allevato l'avea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con forte animo
portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle braccia,
e appresso, percioché il sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene delle
gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli bastaron le forze
di poter parlare, fatti venire scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che
dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi troppo la morte, pregò
Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli desse veleno, il quale egli
lungamente davanti s'aveva apparecchiato. Il quale preso, né d'alcuna cosa offendendolo, per li
membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore trapassare; si fece
alla fine mettere in un bagno d'acqua molto calda, nel quale entrando, con le mani, que' servi che
piú prossimani gli erano, presa dell'acqua, risperse. Da' quali fu udita questa voce: che esso quello
liquore sacrificava a Giove liberatore. E poco appresso dal vapore caldo dell'acqua fu ucciso, e
senza alcuna pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico, arso il corpo suo.
Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio Flavio aveva co'
centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per
opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che l'imperio fosse dato a
Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú fosse stato eletto all'altezza del
principato.
Ma, come che l'autore in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai
certo, se questa opinione sia da seguire o no: conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da
Seneca a san Paolo e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistá,
quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno nell'ultima di quelle, essere parole scritte da san
Paolo, le quali, bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E se
esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché tra' dannati annoverar si debba non
veggio: senza che, a confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui
da san Girolamo in libro Virorum illustrium, nel quale scrive cosí: «Lucius Annaeus Seneca
Cordubensis, Focionis stoici discipulus, et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem
non ponerem in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis
Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus, cum esset Neronis magister, et illius temporis
potentissimus, optare se dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic ante
biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est».
[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua salute, quasi l'ultimo atto
della vita sua, quando, entrando nel piú caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove
liberatore; parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che esso, il quale,
quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi chiamano «flaminis», non essendo
rigenerato secondo il comune uso de' cristiani nel battesimo dell'acqua e dello Spirito santo,
quell'acqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il quale
veramente fu liberatore dell'umana generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il
nome di Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a lui e non
ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col
sacramento visibile, come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello crederne che gli
pare.]
[Lez. XVII]
171
«Euclide geometra» (supple) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né di che parenti
disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo, nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui
essere stato contemporaneo di Platone, e, percioché insino ne' nostri dí è perseverata la fama sua,
puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro filosofo trapassato. Esso adunque
compose il libro delle Teoremate in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
ottimamente scritto.
«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che opinione è di
molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato di que' re d'Egitto, percioché molti ve n'ebbe
con questo nome; e altri credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché
alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la incarnazione di nostro Signore,
cioè a' tempi d'Adriano imperadore, sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in
que' tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma di provincia romana
si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo
astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venir doveano, esso piú libri
compose, tra' quali fu l'Almagesto, il Quadripartito, e 'l Centiloquio, e molte tavole a dovere con le
lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi de' pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in
Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.
«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano in libro XVIII Originum scrive, fu figliuolo
d'Asclepio, e regnante Artaserse, re di Persia, nacque nell'isola di Coo; e per assiduo studio divenne
gran filosofo e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un fisonomo
veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di
grossissimo ingegno: la qual cosa egli confessò esser vera, ma che l'astinenza l'avea fatto casto, e
l'assiduitá dello studio l'avea fatto ingegnoso. E veramente fu egli ingegnoso, percioché esso fu
colui il quale per forza d'ingegno ritrovò la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da
sapere che Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui, investigate le virtú
dell'erbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il
quale, ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella ampliò
molto; ed essendo avvenuto il caso d'Ippolito, figliuolo di Teseo, re d'Atene, che, fuggendo la sua
ira, da' cavalli che il suo carro tiravano, spaventati da' pesci chiamati «vecchi marini», li quali di
terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, pe' luoghi petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e
in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui morto: per l'arte e sollecitudine di questo
Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una folgore,
morisse, diceva ogn'uomo perciò lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove s'era turbato
che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama
degli sciocchi, fu del tutto interdetta l'arte della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro
ventinovesimo De historia naturali, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata
nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce e
consecrata ad Esculapio. E dice Rabano, nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di
cinquecento anni; e cosí costui, d'arte cosí opportuna all'umana generazione si può dire essere stato
prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle Questioni del Genesi che, avendo una
femmina partorito un bel figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita sí
come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura nella camera
sua fosse alcuna dipintura simile; la qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione
avuta di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo, fu di movimento ed
eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava
la terra. Visse novantacinque anni, e poi si morí.
[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo; anzi
dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e d'alta letteratura famoso, e massimamente in
medicina. Altro non ne so.]
172
«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove primieramente fu trovato il
fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove
primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu scienziatissimo uomo,
secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo
nome; e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al
tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e dicono che egli visse al tempo di
Nerone e degli altri imperadori, che appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti
ebbe anni ottantasette, finío la vita sua.
«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna; altri dicono che egli fu
spagnuolo. Uomo d'eccellente ingegno, intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia
naturale e metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che quasi apparve insino al
suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi
a quella d'ogni altro filosofo preposta. «Che 'l gran comento feo»: sopra i libri d'Aristotile. Ed è
intra lo «scritto» e 'l «comento», che sopra l'opera d'alcuni autori si fanno, questa differenza: che lo
scritto procede per divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento prende solo
le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e dilucida: e cosí è fatto quello d'Averrois.
Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particula, è da
rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può muovere: e dico che in questo
canto pare che l'autore a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio quali
sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali che non peccâro: «e s'egli hanno
mercedi, Non basta», ecc. E poi ne nomina l'autore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare loro essere stati peccatori, sí
come Ovidio, il quale, quantunque assai cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il
suo libro, il quale è intitolato Sine titulo, assai chiaro può vedere lui essere stato quasi piú che alcun
altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli compuose De arte amandi,
dá egli pessima e disonesta dottrina a' lettori. Appresso, è ancora di questi Lucano, il quale, come
mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e,
quantunque iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue
tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di
volere esser punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo
che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i
piú che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento d'Ilione sua cittá; il che, oltre alla turpe
operazione, è gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è, fu
incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò l'onestá; rubò e votò l'erario publico
de' romani, e, oltre a ciò, tirannicamente occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne
occupata. Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna fosse, nondimeno
se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora
il Saladino, il quale, come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo, adoperando
e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello. E questi peccati, li quali io dico che ne'
predetti furono, mostra l'autore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere appresso
puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, l'autore a se medesimo contradire.
Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere: essere di necessitá i
meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan
comprendere: e queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama che, non
essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle cose
le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, l'autore quasi altra gente
non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso quello che dir vuole.
Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda che egli alcun de' nominati vedesse, né in
inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, s'intenda essere in quello luogo qualunque è
stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e
Lucrezia e gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dall'autore, intende esso autore questi cotali in
173
questo luogo si prendan solamente per virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le
colpe, quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque fu in opera simile a
Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato, e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in
alcune cose peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.
«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti uomini che io vidi in quel
luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti
ritrarre non può, dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti, «il lungo
tema», di voler discrivere l'universale stato degli spiriti dannati, di que' che si purgano e de' beati:
«Che molte volte», non solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che vedute
ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien meno». E ciò non è maraviglia,
percioché, volendo appieno raccontare le particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque
piccola sia, si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.
«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale
della suddivisione del presente canto, dimostra l'autore come, partiti da' quattro poeti, procedettero
avanti, e dice: «La sesta compagnia», cioè de' sei poeti, d'Omero e di Orazio e degli altri, «in due»,
cioè poeti, in Virgilio e nell'autore, «si scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella
per la quale venuti eravamo, «mi mena 'l savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta», aura; percioché,
come assai è nelle precedenti cose apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio;
«nell'aura che trema», sí come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori. «E
vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che luca», cioè faccia lume.
II
SENSO ALLEGORICO
[«Ruppemi l'alto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso allegorico del
precedente canto con quella di questo nella fine del precedente, è dimostrata in quanto, avendo di
sopra mostrato come talvolta l'uomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi e per
conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo dimostra come, per quello, nella
prigione del diavolo si ritruovi; e di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in lui
mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal mortal sonno, e fatto ravvedere lá
dove per lo peccato è pervenuto, cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga con disiderio alla penitenza,
seguendo la ragione, procede e vede, dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di
Dio è punita nel primo cerchio dello 'nferno. E questa, come assai è manifestato nel testo, dico che
è il peccato originale, il quale, per lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio
pena ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel mondo; per questo
peccato fu l'umana spezie cacciata di paradiso; per questo peccato son sempre poi gli uomini stati e
saranno, mentre durerá il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo peccato
Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo n'aperse la porta del paradiso,
lungamente stata serrata.]
[Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale s'aspetta di tôr via il
peccato originale, quelli, che in questo cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro
innocenti sieno, e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è qui da sapere il
battesimo essere di quattro maniere. La prima delle quali è il battesimo della prefigurazione, nel
quale insieme con Moisé furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo dice san
Paolo: «Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare transierunt: et omnes in Moyse
baptizati sunt, in nube et mare». La seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale
attualmente ne' suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice nell'Evangelio a' suoi
174
discepoli: «Euntes ergo, docete omnes gentes, et baptizate eos», ecc. La terza maniera si chiama
«flaminis», cioè di spirito: e di questa parla l'Evangelio dove dice: «Super quem videris Spiritum
descendentem et manentem: hic est qui baptizat». E di questa spezie di battesimo credo esser
battezzati quegli, se alcuni ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa usitato, e
non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come cristiani veramente battezzati, né per
alcuna cosa posson presumere che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «sanguinis», e
di questa dice l'Evangelio: «Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor, usque dum
perficiatur?» E in questo credo esser battezzati coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo,
s'avacciano di pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare, e in questo
avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli uccidono, o altro caso, avanti che al luogo
destinato possan venire. Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: Esodo: «Divisa est
aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris». Nel secondo son battezzati quegli li quali
noi chiamiamo rinati, de' quali dice l'Evangelio: «Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit».
Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono, e di questi dice l'Evangelio:
«Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum». Nel quarto
sono battezzati i martiri, de' quali similmente dice l'Evangelio: «Calicem quidem meum bibetis»,
ecc. E se in quegli, che in questo cerchio dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve n'è, se non
fosse giá Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che d'alcuno di questi battesimi battezzato
fosse.]
Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per difetto di speranza puniti; la
qual pena assai pare che si confaccia al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di
gusto commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori si punisce; cioè per
dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che con esso in questo mondo muoiono, menano amara
vita nell'altro: e come i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire, cosí qui
sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati d'ogni speranza di mai doverlo vedere;
e come la disonesta speranza gli sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui l'onesta
nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire l'afflizione recata in loro dal martíre. E, oltre
a ciò, come quello per noi non fu commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri
parenti; punito non è, in quegli ne' quali la sua infezione persevera, per alcuna pena impressa in
loro per alcuno esteriore ministro della giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di
piccola gravezza o poco cocente, cioè il dolersi co' sospiri, senza speranza d'alcuno futuro o
disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la
dimostrerebbono intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai ci puote essere
manifesto alcuni essere stati che, ferventemente disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo
che questi spiriti, de' quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno esser lor
tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto dolor divenuti, che essi, stoltamente
eleggendo per molto minor pena la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente,
trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se morir potessono gli spiriti, come
non possono, assai in quella estrema miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli
che alcuno de' sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre maniere distingue, cioè in
pargoli e in uomini e femmine non famose, e come son tutti coloro li quali esso nominatamente
discrive.] [Intorno alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini a' quali non pare che in questa
parte l'autore senta tanto bene, cioè in quanto mostra opinare una medesima pena convenirsi per lo
peccato originale a quegli li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a quella
pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove, par che sia questa: che i primi, cioè
gli uomini, pare che, dalla ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio, e
cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol fecero, non pare che la ignoranza gli
scusi, come fa coloro li quali anzi l'etá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in
ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che l'autore abbia tanto bene opinato.]
[Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente ne' quali dee essere
intera cognizione, e per etá e per ingegno, non scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo
175
quella essere stata redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia: «Milvus
in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël autem me non cognovit». Per che
meritamente segue agl'ignoranti quello che san Paolo dice: «Ignorans, ignorabitur», e
massimamente a quegli de' quali pare che senta il salmista, dove dice: «Noluit intelligere, ut bonum
ageret». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a questi cotali, li quali di conoscere Iddio
non si son curati, né l'hanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará
nell'estremo giudizio detto da Cristo: «Non novi vos, discedite a me, operarii iniquitatis». La qual
cosa accioché avvenir non possa, con ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere
Iddio, e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna maniera scusarsi.]
[Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia riprensibile: e dico «ogni
ignoranza», percioché questi signori giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere,
tra ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza facti» ed alcun'altra «ignoranza iuris». E
vogliono che ignoranza facti sia quella d'alcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
pervenuta alla notizia degli uomini: verbi gratia, il papa col collegio de' suoi fratelli cardinali
segretamente avranno per legge fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per
alcuna cagione non vada né mandi in alcuna terra d'alcuno infedele; e, stante questa legge ancor
secreta, questo o quel mercatante v'andranno o vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza,
che è ignoranza facti, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe manifestamente
fuor d'ogni ragione, percioché gli uomini non sanno indovinare.]
[Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam sapere quello che il
papa s'abbia fatto, né prima dobbiamo il suo secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia
manifestare. Ma, poi che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala, e per li suoi
messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare e predicare; senza dubbio non può alcun dire che
il non saperlo il debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando non si dica
cosa che essi non voglian sapere, si partono de' luoghi dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi
credono essere scusati per dire e per giurare: - Io non fui mai in parte dove questa proibizion si
facesse; - percioché a ciascun s'appartiene di stare attento d'investigare e di sapere i comandamenti
de' suoi maggiori, e quegli con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta,
cioè che a' nominati dall'autore, conciosiacosaché per ignoranza iscusati non sieno, si convenga piú
grieve pena che a quegli che per la piccola etá cercar non poterono d'avere la notizia di Dio, e di
seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si possa rispondere e mostrare
in loro essere stata ignoranza facti, e per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E
che ne' nominati dall'autore e ne' simili fosse ignoranza facti, si può in questa maniera
comprendere.]
[Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura cognoscere, molte
centinaia d'anni prima lavato dal diluvio universale, che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E
la moltitudine della gente da Noé procreata e da' figliuoli, era ampliata molto, e in diversi popoli
s'era sparta sopra la faccia della terra: e non solamente la terra continua, ma ancora molte isole
aveva ripiene, e ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui il quale in
prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava ottima e laudevole, quantunque molti
pessimamente estimassono. Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni, che
piú di sentimento cominciarono a prendere «a naturali», una brieve legge aggiunsero, cioè: - Non
far quello ad altrui, che tu non volessi che fosse fatto a te. - E da questa nacque un modo di vivere
piú universale, il quale essi chiamarono «ius gentium»: per lo quale assai oneste cose si servavano
diligentemente tra l'universitá de' popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e
secondo quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano alcune divine leggi,
per l'ammaestramento delle quali essi onoravano e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora
perseverano molte nazioni.]
[Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad alcun popolo dare, dalle
quali non solamente il popolo, al quale dare le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo,
potesse prender regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della sua
176
amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che fare intendeva nel seme suo: né a lui
perciò alcune singulari leggi diede, se non in tanto che, a distinzione de' suoi discendenti dagli altri
popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò e persevera in quegli che de' suoi
discendenti si dicono. E questa medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti
d'Abraam. Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in grandissima
moltitudine cresciuti, per piú centinaia d'anni servato il rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto
la servitudine delli re d'Egitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi delle piú
care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e menògli ne' diserti d'Arabia: e quivi
dimorando ancora senza legge, se non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro s'usava;
Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due tavole gli diede Iddio scritta
la legge, la qual voleva servasse il popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria
legge, che mai infino a quel tempo stato non v'era. E questo fu, secondo Eusebio in libro
Temporum, regnante appo gli assiri Ascadis, l'anno del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo
gli ateniesi, l'anno quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu l'anno del mondo
tremilaseicentottantadue, ne' quali tempi nacque d'Iside Epafo in Egitto, e il tempio d'Apollo Delio
fu edificato da Cristone. Quindi, morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza
cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto, e intra sé il divisono, e poi per
certo tempo possederono: e secondo la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in
continue guerre co' vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime avversitá e
tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome acquistassero, non fu perciò di tanta fama,
che guari per lo mondo si dilatasse: e quanto essi erano da' riti degli altri uomini separati, tanto
dall'altre nazioni erano reputati da meno.]
[Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali sotto l'arbitrio loro, o sotto
quelle leggi che essi medesimi si dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per
le leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge data a Moisé, qual maraviglia
è se, abituati in quella maniera di vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello
che Iddio s'avesse detto o fatto con Abraam, o co' suoi successori, o con Moisé nelle solitudini del
mondo, né poi ancora col popolo suo? Conciofossecosaché quegli, a' quali de' fatti de' giudei
pervenne alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé per uomo magico e
seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si dee credere che a loro fossero andate le nazioni
strane a consigliarsi della divinitá e de' beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto que' furti e
sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della futura incarnazion del Figliuolo e della
resurrezione: questo credo io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
Isaia: «Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit?» E se quelle leggi e
quelle operazioni di Dio, che noi tutto il dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi
singulari amici d'adoperare; come il dee aver saputo l'indiano, come lo spagnuolo, come l'etiopo o il
sauromata, a' quali per alcuno mai significato non fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual
giustizia dannerá la loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza facti, la
qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso, presupposto che alcuna altra nazione
avesse voluto dagli ebrei sapere questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, l'avrebbe
ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto che essi ebrei, essendo
lungamente stati pasciuti di manna, e udendo gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro
liberazione avean veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui essere
stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate le lor piaghe, da' serpenti del luogo
dove erano, ricevute, tutti guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva, e di
quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan però interamente fede, ma, or con una
ritrosia, or con un'altra, non facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della
quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro d'ariento, contro al
comandamento suo quello adorarono, onorarono e magnificarono per loro Iddio?]
[Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro annunziasse e chiamassegli
ad obbidienza della sua legge. E chi dubita che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non
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dover venire non chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan d'udire i suoi
comandamenti e d'ubbidirlo? Se forse volesse alcun dire: - Iona fu mandato da Dio a Ninive; - ma
esso non andò ad ammaestrargli della legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si
disfarebbe. E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono reputati bestie;
estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe
lasciati venire in quella miseria; e perciò creduti non erano: e' non pare che dubitar si debba che non
fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non fecero gli ebrei. E questo pare si possa
comprendere da ciò che seguí, quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella
celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo, che
illuminato voglia essere: la quale avendo esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata,
mandò per l'universo i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita eterna ogni nazione. Né
furon chiamati ne' diserti o nelle solitudini arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice
di loro il salmista; «Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In
omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum». E queste nel cospetto de'
re, de' prencipi, de' tiranni, e nelle cittá grandissime, nelle piazze, ne' templi, nelle convenzioni e
adunanze de' popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le nazion gentili e con intera
mente senza alcune ritrosie prestaron fede alla dottrina de' chiamatori: e non solamente vi prestaron
fede, ma per quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia intollerabili, e alla
morte temporale, senza alcuna paura e con ferma speranza della futura gloria. E cosí si può credere
avrebber fatto, se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non furono, come altra
volta è detto, essi non si dovevano né potevano indovinare.]
[Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti d'adorargli e d'onorargli, che i lor
padri, li loro amici, i loro vicini e' loro sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene
adoperare, eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello che egli non conosce.
E, seguendo il predetto rito d'adorare Iddio, furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e
moralmente vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze, l'ozio, la
concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni altra operazione meritamente biasimevole;
esercitandosi ciascuno di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben fare alla
republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo con lunghe fatiche e con gran pericoli della
propria vita. E cosí si dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di Cristo,
per la vita celestiale e per l'eterna gloria. Ma a doversi di ciò informare non potevan salire in cielo:
né in terra era chi lor ne dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]
[Se forse volessero alcuni dire: - Cosí come per forza d'ingegno essi adoperarono di
conoscere i segreti riposti nel seno della natura e la cagion delle cose, e per saper queste seguivan
gli studi caldei, gli egizi, gl'italici e gli altri quantunque lontani; e cosí per conoscere il vero Iddio si
dovean faticare, e andar cercando quegli che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di
ciò gli ammaestrassero - potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto gli ebrei dover esser
maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan tra le nazioni del mondo d'alcuna preeminenza, né
onorato il popolo ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, de' greci, degli affricani e
ultimamente de' romani; anzi si vedea un piccol popolo pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate
operazioni, e ogni dí essere da' caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in cattivitá e in
servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta
tutte abbattute e desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla loro religion si
toglieva, e per questo essendo avuti in derisione, non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano,
oltre a questo, gli ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei e altra
maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non potevano le nazioni lontane
discernere. Né è da dubitare che molto di fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]
[Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che Cristo per li suoi
messaggeri la legge, da lui data, essere stata data manifestasse, se non quello che davanti è stato
detto, cioè che la loro ignoranza, sí come ignoranza facti, si debba potere scusare? E perciò, se per
altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che quella che semplicemente per lo peccato
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originale è data a coloro, li quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che
par che san Paolo voglia, quando scrive: «Servus nesciens vel ignorans voluntatem Domini sui et
non faciens, vapulabit paucis»; e in altra parte: «Facilius consequutus sum veniam, quoniam
ignorans feci».]
[De ignorantia iuris non dico cosí; percioché, come di sopra dissi, come la legge, la quale a
ciascuno appartiene, è promulgata e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la
ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e supina, e apparire aperto, colui
che ciò non sa, nol sa, perché non l'ha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica
predicata per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro virtuosamente
vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la sua ignoranza, non dee a simil pena esser
punito con gl'innocenti, ma a molto piú agra. E di questi cotali pone l'autore alquanti, come è
Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali io confesso, tra gli altri
dall'autor nominati, non doversi debitamente nominare, percioché di loro si può dir quello che
scrive san Paolo: «A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur», ecc. E il salmista:
«Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non exaudirent voces», ecc. E di questi
meritamente si dice quella parola, che di sopra contro agl'ignoranti è allegata da san Paolo:
«ignorans ignorabitur», e similmente l'altre autoritá quivi poste. Nondimeno, che che qui per me
detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto alla cattolica veritá, né alla sentenza de' piú
savi.]
[Lez. XVIII]
Resta a vedere quello che l'autore abbia voluto per lo castello difeso da sette alte mura e da
un bel fiumicello, e per lo prato della verdura che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti
entrato v'è. E, secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono della maestá della
filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo, cioè in su la circunferenza della terra:
conciosiacosaché queste due spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie de'
beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i naturali effetti de' cieli nella terra e
gli atti degli uomini: per la cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini e
di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si
conviene tenere il cammino il quale l'autore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale circunda
questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose, dimora; e passarlo come terra dura,
accioché nell'acqua di quello non si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per
questo bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze, i mondani onori e le
mondane preeminenze, le quali sono nella prima apparenza splendide e belle, quantunque in
esistenza oscure e tenebrose si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che
non debitamente l'amano o guardano o spendono o esercitano. E come l'acqua spesse volte è a'
nostri sensi dilettevole, cosí queste sono agl'ingegni e agl'intelletti nocevoli; e cosí sono flusse e
labili come è l'acqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno; oggi sono, e doman non
sono; oggi sono in questo luogo e doman in quell'altro; oggi piacciono e domane spiacciono. E
chiama l'autor quest'acqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad intendere queste
cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa.
E perciò, chi vuole pervenire all'altezza della fama filosofica, gli convien passar questo fiumicello
non con delicatezze, non con morbidezze, non con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con
lunghi sonni e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente scacciate e rimosse da
sé, ma senza bagnarsi i piedi in quest'acqua, cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover
l'affezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria Cammillo,
Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per la filosofica eminenza Diogene,
Democrito, Anassagora e i lor simili: li quali, scalpitate co' piedi le ricchezze, ed avutele a vile e
disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche degli studi, delle virtú e delle
scienze: e, passato il fiumicello, cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè
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con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar quella via, [per la quale] alle
filosofiche operazioni e perfezion si perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che
entrò con que' savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le quali molti intendono esser
quelle con le quali i demòni ingannano gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non
osava, al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri che' liberi uomini: o vogliam
dire che liberali si chiamano, percioché elle rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, ne'
quali senza esse intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i predetti poeti, se
con intera mente si riguarderanno i libri loro, ne' quali, quantunque esplicitamente le regole,
spettanti a dover dare la dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, e' vi si truovano le
conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si solvono i dubbi li quali intorno alle
regole posson cadere. È nondimeno da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo
vuol divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne alcuna perfettamente è del
tutto opportuno, sí come al filosofo la grammatica e la dialettica, al poeta e all'oratore la
grammatica e la rettorica: poi sapere dell'altre i princípi, e sapergli bene, è assai a ciascuno.
Entrò adunque l'autore, per gli effetti delle liberali arti, con questi cinque dottori (co' quali si
dee intendere ciascun altro entrare, il qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel
prato della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè da' valenti uomini, e
massimamente da' poeti, gli son dimostrati coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la
fama, la quale ancora è verde. E dissi «massimamente da' poeti», percioché di queste cosí fatte
dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui il quale col suo artificio sa
perpetuare i nomi de' valenti uomini, e le glorie degl'imperadori e de' popoli: e questi sono i poeti,
de' quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e l'opere de' valenti uomini e delle
valorose donne. La qual cosa quantunque facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con
cosí fiorito, con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti i poeti; li quali in
questa parte l'autore intende per la perseverante dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i
nomi e l'opere di coloro che son degni di laude.
Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini d'arme e le donne con
coloro li quali per filosofia son famosi? Al quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro
atto laudevole, che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa è a credere che
alcuno imperadore possa il suo esercito guidare ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da
accamparsi, trovare le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose opportune
all'eserciti, guardarsi dalle insidie, prender l'ordine o dare al combattere una cittá, ad assalire i
nemici, al venire alla battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare è fondata e stabilita sopra i
discreti consigli della filosofia, li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno tritamente, tutti dal discreto
filosofo in sillogistica forma si riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina
militar furono, co' filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in quella spezie de' loro esercizi vi
si pongono. Cosí ancora le donne, le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici
domestici discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non gli fanno. E
dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre nelle scuole, non sempre nelle
disputazioni leggersi e intendersi filosofia. Ella si legge spessissimamente ne' petti degli uomini e
delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo stato, alla sua qualitá: e di
questo pensiero trarrá l'onor suo, oltre ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nell'amor del
marito, nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare; trarrá ancora di questo
pensiero appartenersi a lei di guardare e di servare con ogni vigilanza quello che il marito,
faticando di fuori, acquisterá e recherá in casa; d'allevare con diligenza i figliuoli, d'ammaestrargli,
costumargli; e similmente intorno alle cose opportune dar ordine a' servi e all'altre cose simili. Che
leggerá piú a costei nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella iconomica le
dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno adoperato e adoperano, non indegnamente,
secondo il grado loro, co' filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece
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l'autor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose donne in compagnia de'
solenni filosafi.
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CANTO QUINTO
I
SENSO LETTERALE
«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come negli altri superiori, si
continua l'autore alle precedenti cose: e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed
egli, partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori di quel luogo luminoso, in
parte dove alcuna luce non era; e quinci nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne
mostra come nel secondo cerchio dello 'nferno discendesse. E fa l'autore in questo canto sei cose:
esso primieramente, come detto è, si continua alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia;
nella seconda parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe de' peccatori; nella
terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e in che supplicio; nella quarta nomina alquanti
de' peccatori in quella pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi puniti
sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar gli seguisse. La seconda comincia
quivi: «Stavvi Minos»; la terza quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la
quinta quivi: «Poscia ch'io ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che l'uno spirto». Comincia
adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da que' quattro savi, seguitando per altra via
Virgilio, «del cerchio primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello 'nferno; e mostra
appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio, «che men luoco cinghia», cioè gira. E
davanti è mostrata la cagion perché: la quale è percioché la forma dello 'nferno è ritonda, e, quanto
piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che ella diviene aguta in sul centro della
terra. «E tanto ha piú dolor», in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in sí
fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè a trar guai: quello che nel superior
cerchio, come mostrato è, non avvenia; per che, s'egli è questo luogo minore di circunferenza che il
superiore, egli è molto maggior di pena. «Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella
quale l'autor mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe de' peccatori; e in questo
séguita l'autore lo stilo incominciato di sopra, cioè di trovare ad ogni entrata di cerchio alcun
demonio. Di sopra all'entrare del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui
trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i peccatori che in quel luogo
vengono, percioché Carón, di sopra, forte quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole,
gridando: - «Guai a voi, anime prave», ecc.; - nell'entrata di questo cerchio, Minos gli spaventa
ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e ringhia»; e cosí ancora ne' cerchi seguenti
troveremo. Dice adunque: «Stavvi Minos», cioè in su l'entrata di quel cerchio secondo. Questo
Minos dicono i poeti ch'egli fu figliuolo di Giove e d'Europa, e ciò essere in tal maniera avvenuto
che, essendo Europa, figliuola d'Agenore, re de' fenici, i quali abitarono il lito della Soría e fu la
loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con operazion di Mercurio, secondo che da
Giove gli era stato imposto, fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle
pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli avesse: quivi essendosi Giove
trasformato in un tauro bianchissimo e bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e
mansueto si mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine piacere,
primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo per le corna e menarselo appresso;
poi, cresciuto l'ardire in lei, dal disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove,
soavemente portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare, e, quando tempo
gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine, paurosa di non cader nell'acqua, attenendosi forte
alle corna, quanto piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando, il toro da
quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi, ripresa la sua vera forma d'uomo, giacque
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con lei, e in processo di tempo n'ebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos,
divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata Pasife, figliuola del Sole, e
di lei gerrerò figliuoli e figliuole, intra' quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
ne' giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza oltre ad ogni altro valoroso,
percioché ogni uomo vincea, fu per invidia dagli ateniesi e da' megaresi ucciso. Per la qual cosa
Minos, avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e d'uomini d'arme per andare a vendicarlo,
e volendo, avanti che andasse, sagrificare al padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli
antichi crede a essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual fosse degna de'
suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere
potesse. Il quale come Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello per che
ricevuto l'avea, il volle piú tosto preporre a' suoi armenti, per averne allievi, che ucciderlo per ostia;
e, fatto il sacrificio d'un altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i megaresi, e
quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re de' megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi
grandissima guerra agli ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise e a
detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra l'altre cose imponendo loro che ogni anno gli
dovesson mandare in Creti sette liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui
che vincitor fosse ne' giuochi palestrici, li quali in anniversario d'Androgeo avea constituiti. Ma, in
questo mezzo tempo che esso gli ateniesi guerreggiava, avvenne, e per l'ira conceputa da Giove
contro a Minos, e per l'odio il quale Venere portava a tutta la schiatta del Sole, il quale il suo
adulterio e di Marte aveva fatto palese, che Pasife s'innamorò del bel toro, il qual Minos s'avea
riservato, senza averlo sacrificato al padre che mandato gliel'avea; e per opera ed ingegno di Dedalo
giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta ad una della quale il toro mostrava tra l'altre di
dilettarsi molto; e di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e mezzo
toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria della vittoria acquistata da Minos.
Nondimeno esso fece prendere Dedalo ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione
del laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non fu fatto come disegnato
l'abbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di mura, per li quali andando senza volgersi,
infallibilmente si perveniva nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe l'uom senza
dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro cavato, e tutto fatto ad abituri
quadri a modo che camere, e ciascuna di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i
quali vanno ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti andare, che l'uomo
vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire, se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo
essendo ad Atene venuto per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che per
tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che Ovidio scrive, con certe arti
mostrategli da Adriana, figliuola di Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol
servigio liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò Adriana e Fedra,
figliuole di Minos. E Dedalo d'altra parte, fatte alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne
volò in Cicilia, e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano incontanente il
seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che Aristotile scrive nella Politica, fu dalle
figliuole di Crocalo ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date a' cretensi, e
con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti, fingendo, dissero lui essere giudice in inferno.
E di lui scrive cosí Virgilio:
Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum
conciliumque vocat, vitasque et crimina discit, ecc.
Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette s'abbia la veritá dell'istoria di Minos, par di
necessitá di rimuover la corteccia di quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá
piú della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime n'è parte mescolata.
Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire gli armenti d'Agenore
dalla montagna alla marina, alcuna eloquente persona mandata come mezzana da Giove ad Europa;
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e, per la forza della eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina, dove
Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su una sua nave a ciò menata, la quale
o era chiamata «tauro», o avea per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi
navicanti, li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun segno; e cosí ne fu
trasportata in Creti, dove essa partorí i detti figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono
che, essendo ella in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza avere avuto
alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in que' tempi re di Creti, secondo che scrive Eusebio in
libro Temporum, la prese per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, de' quali di sopra è detto. E, se cosí
fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser figliuolo di Giove, o per ampliar la
gloria della sua progenie, o perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale noi
chiamiamo Giove. Ed esso, tra l'altre sue condizioni, ebbe questa, che esso fu a' sudditi equale e
diritto uomo, e servò severissimamente giustizia in tutti, e diede leggi a' cretensi, le quali mai piú
avute non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo se n'andava in una spelunca,
e in quella, poi che composto avea ciò che immaginava esser bene e utilitá de' sudditi suoi, uscendo
fuori, mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto da Giove suo padre:
donde per avventura seguí, per questa astuzia, che esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da
lui composte furono avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo d'Asterio non pare
che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli apparisca Asterio aver regnato in
Creti ne' tempi che Danao regnò in Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré,
e la guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in Atene, che fu intorno agli
anni del mondo tremilanovecentosessanta. Ed è Minos per ciò stato detto da' poeti esser giudice in
inferno, percioché noi mortali, avendo rispetto a' corpi superiori, ci possiam dire essere in inferno:
ed esso, come detto è, appo i mortali compose le leggi, e rendé ragione a' domandanti; nelle quali
cose esso esercitò uficio di giudice.
Le vestigie de' quali imitando l'autore, qui per giudice ed esaminatore delle colpe il pone
appo quegli d'inferno, dicendo che egli sta quivi «orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice:
«e ringhia». Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo albergo s'appressi.
«Esamina le colpe» dell'anime di coloro che laggiú caggiono. E qui comincia l'autore a discrivere
l'uficio di questo Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo esser posto
per giudice, percioché a' giudici appartiene l'esaminare delle cose commesse. E séguita:
«nell'entrata». E qui discrive il luogo conveniente a quell'ufizio, accioché alcuna non possa passare,
senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita qui l'autore l'ordine giudiciario;
percioché primieramente conviene che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la
esaminazione giudichi quello che la legge o talora l'equitá vuole; e, dopo il giudicio dato, quello
mandi ad esecuzione che avrá giudicato. E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad
esecuzion sia mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere una
dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che ad esecuzion si mandi, in quanto dice:
«secondo ch'avvinghia», cioè secondo il numero delle volte ch'egli dá dintorno alla persona la coda
sua.
Ora, percioché all'autore pare aver molto succintamente discritto l'uficio di questo Minos,
per farlo piú chiaro, reassume e dice: «Dico», reassumendo, «che, quando l'anima mal nata», cioè
del peccator dannato («quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille»), «Gli vien dinanzi»,
a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta s'apre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe.
La qual cosa, cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non potrebbe fare,
percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli occhi che veggiam noi, ma prestamente e
senza alcun velame veggion ciò che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata»,
cioè Minos; dimostrando in lui essere, tra l'altre, una delle condizioni opportune a coloro che
preposti sono al giudicio delle colpe d'alcuno, cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e
le qualitá di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede qual luogo d'inferno è da
essa», cioè quale supplicio infernale sia conveniente alla sua colpa.
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«Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia messa». È qui da sapere
lo 'nferno, secondo che al nostro autor piace, esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende
verso il centro, cioè verso il profondo dell'inferno, piú sono i cerchi stretti e i tormenti maggiori. E,
percioché la faccenda di costui è grande intorno all'esaminare e al giudicar che fa singularmente di
ciascuna anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di doversi cingere con
la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi, esso vuole che l'anima da lui esaminata sia infra
l'inferno messa: e, mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole attende
alla esaminazione.
«Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è, la quantitá di
quegli che muoiono nell'ira di Dio è molta: e queste cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente
l'una appresso all'altra, come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e poi son giú vòlte», in inferno
ne' luoghi diterminati da' ministri di questo giudice.
- «O tu che vieni». Qui dimostra l'autore questo Minos, sotto spezie di parole amichevoli,
averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che vieni al doloroso ospizio» dello 'nferno, - «Disse
Minos a me, quando mi vide», esser vivo, «Lasciando l'atto», cioè l'esercizio, «di cotanto offizio»,
quanto è l'avere ad esaminare e a giudicare tutte l'anime de' dannati: - «Guarda com'entri», quasi
voglia dire che chi entra in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»: volendo
che l'autore per queste parole intenda non esser discrezione il mettersi per sua salute dietro ad
alcuno che se medesimo non abbia saputo salvare. Quasi voglia dire: - Virgilio non ha saputo salvar
sé, dunque come credi tu che egli salvi te? - Sentiva giá questo dimonio per la natura sua, la quale,
come che per lo peccato da lui commesso fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che
l'autor non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso dimonio l'avrebbe
volentieri frastornato. «Non t'inganni l'ampiezza dell'entrare», - la quale è libera ed espedita a tutti
quegli che dentro entrar ci vogliono, ma l'uscire non è cosí. E par qui che questo dimonio
amichevolmente e con fede consigli l'autore; il che non suole esser di lor natura, e nel vero non è.
Non dico perciò che essi alcuna volta non deano de' consigli che paiono buoni e utili; ma essi non
sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a salutevol fine, ma, per farsi
piú ampio luogo, nella mente di chi crede loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è
con somma cautela da guardarsi da' consigli de' malvagi uomini, percioché, quanto miglior paiono,
piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed inganno.
Poi séguita: «E 'l duca mio a lui: - Perché pur gride?» Non poté sostener Virgilio di
lasciargli compiere l'orazione, conoscendo che egli non consigliava l'autore a buon fine; ma
sentendo l'autore, forse per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con parole
alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di spaventarlo? «Non impedire», con
questo tuo sgridare, «il suo fatale andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.
E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si dichiarerá appresso nel
nono canto sopra quelle parole: «Che giova nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente
alcuna cosa dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio in libro De consolatione
ditermina, fato non è altro che disposizione della divina mente intorno alle cose presenti e future. E
questo medesimo par sentire santo Agostino nel quinto De civitate Dei; il quale, poi che in questa
conclusione è venuto, dice queste parole: «Sententiam tene, linguam comprime»; volendo che noi
tegnamo la sentenza, ma schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione. E
questo non fu ne' suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché allora venendo moltitudine di
gentili alla fede cattolica, e però ancor tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in
quanto si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero avere in rivocare negli
errori lasciati i gentili, ancora non molto fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri
vocaboli, li quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni e nelle loro
scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e sí ferma ne' petti nostri la dottrina evangelica,
che senza sospetto si può tra' savi ogni vocabolo usare.
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«Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria di te e degli altri
dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la
qual sola puote ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»; - quasi dica: - A te non s'appartiene di
sapere che si muova la divinitá a voler questo. «Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella qual dissi si conteneva
qual peccato in questo secondo cerchio si punisca e in qual supplicio; alla quale mostra l'autore,
avendo Virgilio posto silenzio a Minos, d'esser pervenuto. E, percioché infino a questo luogo era
venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora
incomincian le dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá de' pianti, le quali si facevano al suo
audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote»,
percioché, essendo l'aere percosso dalle voci dolenti de' tormentati, è di necessitá che egli si muova,
e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova, delle quali era la sensualitá
dell'autore che quivi vivendo si trovava.
«Io venni in luogo d'ogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè risuona, questo
luogo, per lo ravvolgimento delle strida e de' pianti, il suono de' quali raccolto insieme, fa un
rumore simile a quello che noi diciamo che mugghia il mare ne' tempi tempestosi, e però dice:
«come fa 'l mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto», cioè infestato. Il che assai volte
addiviene, che la contrarietá de' venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»: e, percioché da sé non ha
proprio vocabolo, è preso un vocabolo a discriver quel romore che piú verisimilmente gli si
confaccia, e questo è «mugghiare», il quale è proprio de' buoi; ma percioché è un suono confuso e
orribile, par che assai convenientemente s'adatti al romor del mare.
«La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nell'usitato parlar delle genti è un
vento impetuoso, forte, il qual percuote e rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io
comprendo bene, chiama Aristotile nella Meteora «enephias», il quale è causato da esalazioni calde
e secche levantesi dalla terra e saglienti in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad
alcuna nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con impeto, divengon vento, non
solamente impetuoso, ma eziandio valido e potente di tanta forza, che, per quella parte dove
discorre, egli abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide uomini e animali. È
il vero che questo non è universale, né dura molto; anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa d'una
striscia discorre, e quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a tanto che infra
poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che l'autor voglia sentire per questa «bufera»:
e benché nella concavitá della terra questo vento causar non si possa, de'si intendere in questo
luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato perpetuo. Dice adunque: «che
mai non resta», di soffiare, come fa quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la
sua rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»: per questi effetti si può
comprendere, questa bufera esser quel vento che detto è, cioè enephias; «gli molesta», cioè gli
tormenta. E in questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio dato all'anime,
le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon pena.
Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso e forte vento,
«Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla ruina», che dall'impeto di questo vento
procede, «Quivi le strida», comincian grandissime, «il compianto e 'l lamento», de' miseri;
«Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra la quantitá grandissima e
acerba dell'afflizione de' dolenti che questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove
che essi bestemmiano Iddio.
«Intesi ch'a cosí fatto tormento». Qui, poi che l'autore ha posta la qualitá del tormento,
dichiara quali sieno i peccatori a' quali questo tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee
credere, «che a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator carnali, Che la
ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E, come che questo si possa d'ogni peccatore
intendere, percioché alcun peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá;
vuol nondimeno l'autore che, per quel vocabolo «carnali», s'intenda singularmente per li lussuriosi.
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Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende l'autore per una comparazione discrivere
in che maniera in questo luogo. sieno i peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal
bufera, e dice che, come «l'ali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo tempo», cioè nel
mezzo dell'autunno, nel qual tempo usano gli stornelli e molti altri uccelli, secondo lor natura, di
convenirsi insieme e di passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in quelle ne
vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme: «Cosí quel fiato», cioè quella bufera,
ne porta «gli spiriti mali», cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di lá, di
giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, l'uno contro all'altro nello scontrarsi
crudelmente percotendo. E oltre a questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta
mai», questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè d'avere alcuna volta riposo, «ma»
ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor pena», che quella la quale hanno percotendosi
insieme.
«E come i grú». Qui per un'altra comparazione ne discrive una brigata di quegli spiriti
dannati aver veduti venire verso quella parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel
vento menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor lai», cioè lor versi. Ed è
questo vocabolo preso, cioè «lai», per parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in
forma di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé», medesimi volando, «lunga
riga», percioché stendono il collo, il quale essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali
similmente hanno lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vid'io venir» spirti, li quali facevan
lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla
detta bufera. «Per ch'io dissi: - Maestro, chi son quelle Genti, che l'aura nera sí gastiga?»- cioè
tormenta, impetuosamente portandole.
- «La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella qual dissi che
l'autore nominava alquanti degli spiriti dannati a questa pena. Dice adunque: - «La prima di color»,
che cosí son portati, e «di cui novelle Tu vuo' saper» -, cioè la condizione e la cagione perché a
questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta - Fu imperadrice di molte favelle», cioè fu
donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí
rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno a ciò che a quel vizio apparteneva,
«fe' licito», cioè concedette che lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece
«in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché questa legge cosí abominevole
fece, cioè, «Per tôrre», per levar via «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue
disoneste operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il vizio nel quale
condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge», appo molti antichi istoriografi, «Che
succedette a Nino», suo marito, dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino
visse.
Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali fossero le sue
operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis
si fosse per nazione, non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere stata
figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli assiri, per lo testimonio di molti
istoriografi appare. Concepette costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
Ninia; ed avendosi giá Nino per forza d'arme soggiogata quasi tutta Asia, ed ultimamente ucciso
Zoroastre e' battri, suoi sudditi, avvenne che, fedito nella coscia d'una saetta, si morí. Per la qual
cosa la donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí grande imperio, e di tanta e
cosí strana gente e nuovamente acquistato, pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover
potere reggere i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, s'aveva con armi sottomessi e alla sua
obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in alcune cose era simile al figliuolo, e
massimamente in ciò che esso ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e
similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del figliuolo, presentare agli
eserciti del padre. E, per poter meglio celare l'effigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la
quale essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi velamenti. E, accioché la
novitá dell'abito non avesse a generare alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero,
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comandò a tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo sé esser Ninia, se
medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo acquistata real maestá, severissimamente servò la
disciplina militare, e con virile animo ardí non solamente di servare lo 'mperio acquistato da Nino,
ma ancora d'accrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo debba poter sofferire, perdonando, si
sottomise Etiopia, e assalí India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era stato
insino a quel tempo ardito d'entrar con arme. Ed essendole in molte cose ben succeduto del suo
ardire, non dubitò di manifestarsi esser Semiramis, e non Ninia, a' suoi eserciti. Essa, oltre alle
predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot edificata, e veggendola in
grandissima diminuzione divenuta, a quella tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di
mirabile grossezza, d'altezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e posto tutto il suo imperio
in riposo, tutta si diede alla lascivia carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per
piacere. E, tra l'altre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le trecce, avvenne che, avendo
ella giá composta l'una, le fu raccontato che Babillonia le s'era ribellata e venuta nella signoria d'un
suo figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato stare il componimento
delle sue trecce, e i pettini e gli specchi gittati via, prese subitamente l'armi, e, convocati i suoi
eserciti, con velocissimo corso n'andò a Babillonia, e quella assediò; né mai dall'assedio si mosse,
infino a tanto che presa l'ebbe e rivocata sotto la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale
ancora fatta non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí animosa operazione,
per molte centinaia d'anni testimoniò una statua grandissima fatta di bronzo, d'una femmina la
quale dall'un de' lati avea i capelli sciolti, e dall'altro composti in una treccia, la quale nella piazza
di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile operazione, molte altre ne fece degne di
loda, le quali tutte bruttò e disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che l'antichitá
testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli giovani, li quali essa
eleggeva al suo disonesto servigio, poi che quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli
faceva uccidere. Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri, i parti
conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che affermano, lei in questo scellerato
servigio aver tirato il figliuolo: e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo
servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento, il quale gli uomini fra noi
usano a ricoprire le parti inferiori, e di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave
fermatolo. Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto il figliuolo, che
il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni, l'uccise. Alcuni altri dicono esser vero che il
figliuolo l'uccidesse, ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o perché
egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera di lei il privasse del regno.
Appresso, pur di lei seguendo, dice l'autore: «Tenne la terra, che 'l soldan corregge», la
quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia, non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis
fece restaurare, ma da una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale d'Egitto, la quale
edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella assalí Egitto. Se ella l'occupò o no, non
so.
«L'altra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che s'ancise amorosa», cioè
amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.
Vuole l'autore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei essere Didone, figliuola
che fu del re Belo di Tiro, la istoria della quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu
primieramente Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re de' fenici. Il quale Belo,
venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani de' suoi sudditi, li
quali in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era, diêro per moglie ad
Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba, il quale era sacerdote d'Ercule, il quale
sacerdozio era, dopo il reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente s'amarono.
Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa Sicheo, il quale era ricchissimo,
temendo l'avarizia del cognato, ogni suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto
all'orecchie di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare, e, per averle,
fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte
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del marito, temendo di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni feminea
tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata Didone, avendo tratti nella sua sentenza
certi nobili uomini de' fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi navili del
fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del luogo dove era andar se ne volesse al
fratello, nascosamente in quegli fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi, quegli
che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle navi sacchi pieni di rena e guardarli
bene. Ed essendo con coloro, li quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto
mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero gittati in mare. E, come questo fu
fatto, convenuti tutti insieme i marinai e gli altri, lagrimando disse: - Io, facendo gittare in mare
tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale io ho lungamente disiderata.
Ma io ho compassione a voi, carissimi amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito
punto, che, come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli fará crudelmente
me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua
potenza, io vi prometto di non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno. - La qual cosa udendo i
miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria, nondimeno, temendo forte la
crudeltá di Pigmaleone, agevolmente s'accordarono a doverla seguire in qualunque parte ella
diliberasse di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi a ponente,
pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina trovarono, persolventi secondo il costume
loro li primi gustamenti di Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli de' giovani che con lei
erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito nel sonno un sacerdote di
Giove, che in quella contrada era, con tutta la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime
cose dover seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi partitasi, e pervenuta
nel lito affricano, costeggiando la marina de' massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi,
dove ella poco appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo esser sicuro alle
navi, per dare alcun riposo a' marinai faticati, prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale
per disiderio di vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate, cominciarono
a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro essere a grado a' paesani, ed essendone
ancora confortati da quegli d'Utica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque
Didone udisse per alcuni, che seguita l'avevano, Pigmaleone fieramente minacciarla; di niuna cosa
spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E, accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler
fare, non piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da quegli della
contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta dividere, assai piú che alcuno estimato non
avrebbe, occupò di terreno. E, quivi fatti e' fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò
Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i compagni adoperassono, a tutti
fece mostrare i tesori, li quali essi credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le
mura della cittá, le torri e' templi, il porto e gli edifici cittadini saliron su, e apparve non solamente
la cittá esser bella, ma ancora potente e a difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il modo
del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata reina. Ed essendo per Affrica
sparta la fama della sua bellezza e della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re
de' mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio d'averla per moglie; e, fatti alcuno
de' principi di Cartagine chiamare, la dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse,
esso disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo il fermo proposito di lei di
sempre servar castitá, temetton forte le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone,
domandantene, ciò che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare la vita e i
costumi barbari e d'apprendere quegli de' fenici. Perciò voleva alquanti di loro che in ciò
l'ammaestrassero; e, dove questi non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E
però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con lui andar si volesse, temevan
forte non quello avvenisse che il re minacciava. Non s'accorse la reina dell'astuzia, la quale usavano
coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse: - O nobili cittadini, che miseria di cuore è la
vostra? Non sapete voi che noi nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino
colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il richiede, non si dispone con grande
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animo alla morte per la salute della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di
voi rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá. - Come i nobili uomini udirono questa
riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano,
e iscoperserle la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina ebbe udita, cosí
s'accorse se medesima avere contro a sé data la sentenzia e approvato il maritaggio; e seco
medesima si dolse, né ardí d'opporsi allo 'nganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
seco prese quel consiglio che all'onestá della sua pudicizia le parve di bisogno, e rispose che, se
termine le fosse dato, che ella andrebbe volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto
a dovere andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta parte della cittá fece comporre un
rogo, il quale estimarono i cittadini ella facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola
l'animo di Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di vestimento bruno,
e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e,
aspettante tutta la moltitudine de' cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse di sotto a'
vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato Sicheo, disse: - O ottimi cittadini, cosí come
voi volete, io vado al mio marito. - E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con
grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata, versando il castissimo sangue,
passò di questa vita.
Virgilio non dice cosí, ma scrive nello Eneida che, avendo Pigmaleone occultamente ucciso
Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone, Sicheo l'apparve una notte in sogno, e revelolle
ciò che Pigmaleone avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la confortò che ella si
partisse di quel paese. Per la qual cosa ella prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far
Cartagine, Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a Cartagine, dove egli
fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta,
si partí per venire in Italia: di che ella per dolore s'uccise. La quale opinione per reverenza di
Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse. Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno
dopo il disfacimento di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu distrutta l'anno
del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il detto Eusebio scrive essere opinione d'alcuni,
Cartagine essere stata fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola, dopo Troia
disfatta, centoquarantatrè anni, che fu l'anno del mondo quattromilacentosessantatré. E in altra parte
scrive essere stata fatta da Didone l'anno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora appresso,
senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine essere stata fatta l'anno del mondo
quattromilatrecentoquarantasette. De' quali tempi, alcuno non è conveniente co' tempi d'Enea: e
perciò non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio in libro Saturnaliorum del tutto il
contradice, mostrando la forza dell'eloquenza esser tanta, che ella aveva potuto far sospettar coloro
che sapevano la storia certa di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu
adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo, s'uccise. Ma l'autore séguita
qui, come in assai cose fa, l'opinion di Virgilio, e per questo si convien sostenere.
«Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo l'autore aver posto questo aggettivo a costei, a
differenza di piú altre Cleopatre che furono, delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí
viziata di questo vizio, come costei, della qual qui intende.
Cleopatras fu reina d'Egitto e, per molti re medianti, trasse origine da Tolomeo, figliuolo di
Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re d'Egitto.
Altri dicono il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re d'Egitto, il quale, essendo
amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a
morte, lasciò, al tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il maggior de'
figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie Cleopatra, sua sirocchia, e di piú dí che
l'altra, insieme dopo la morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione. Ma,
ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e fratello fece morir di veleno, e sola
tenne il reame. Ma, avendo giá Pompeo magno quasi tutta l'Asia costretta ad ubbidire a' romani,
venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor fratello, ancora assai giovinetto.
Della qual cosa indegnata Cleopatra, come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa,
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avvenne che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto uccidere in Egitto,
e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria, e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello,
amenduni gli fece davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti al quale
dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran fidanza, percioché bella femmina fu,
ornata di reali vestimenti comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli occhi e con
gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che, avendo Cesare piú notti comuni avute con lei,
ed essendo giá il giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno, che in
aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il reame d'Egitto, menatane Arsinoe,
sirocchia di Cleopatra, accioché per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque
Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si diede che dar si possa disonesta
femmina: e, disiderosa di ragunar tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne
amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi d'Egitto e le sagre case spogliò di vasellamenti, di
statue e di tesori. Apresso questo, essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da
Ottaviano e da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in forma d'onorario: e
lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni
altra cosa, accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere Arsinoe, sua
sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo
giá invescato nella sua dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e d'Arabia, li quali col
suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande ad Antonio, non gliele diede, ma, per
soddisfarla alquanto, le diede di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato
Antonio, il quale andava in Partia, infino al fiume d'Eufrate, e tornandosene, ne venne per Siria,
dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco davanti per opera d'Antonio stato coronato di
quel reame: lá dove ella non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua
dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli sottrarre il reame di Siria. Di
che accorgendosi Erode, per levare da dosso ad Antonio l'ignominia di costei, diliberò d'ucciderla;
ma, dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò tornare in Egitto. Dove dopo
alquanto ricevuto Antonio, il quale in fuga da' parti s'era tornato, essendo in lei l'ardor cresciuto del
signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio di Roma, e Antonio fu tanto
bestiale che egli gliele promise. Ed essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e
Ottaviano, per l'avere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia d'Ottaviano, e presa per moglie
Cleopatra, prepararono una grande armata navale, ornata con vele di porpore e con altri assai arredi
preziosissimi, e, sú montátivi, n'andarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere provare la fortuna del mare. Nel
quale parendo giá Ottaviano dover vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
la vela d'oro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale incontanente Antonio, gittati via
della sua nave tutti gli ornamenti pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto
a dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo molto le lor forze
diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace, le quali non potendo avere, disperatosi entrò
nel luogo dove erano usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi presa
Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter pigliare Ottaviano, con che
primieramente Cesare e Antonio presi avea, e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che
servata era da Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá d'animo sofferendo di dover divenire
spettaculo de' romani, vestendosi i reali ornamenti, lá se n'entrò dove il suo Antonio giaceva morto,
e, postasi a giacere allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose una spezie di
serpenti, chiamati «ypnali», il veleno de' quali ha ad inducer sonno, e a far dormendo morire il
trafitto: e cosí addormentata si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di
ritenerla in vita, fatti venir alcuni di que' popoli che si chiamano «psilli», e fatto lor porre la bocca
alle pugniture del braccio, e tirar fuori l'avvelenato sangue da' serpenti; ma ciò fu fatica perduta,
percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.
Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta, e d'altra spezie di
morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non, nell'apparecchiamento della guerra contro ad
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Ottaviano, Cleopatra con la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato di bere
né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad altrui: di che essendosi Cleopatra
avveduta, a farlo chiaro della sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il dí
davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e in trastullo Antonio, e tanto
procedette col trastullo della festa, che ella lo 'nvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea: e, volendolo Antonio bere, ella
il ritenne, e vietò che nol bevesse, e disse: - Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la
quale con queste tue disusate pregustazioni tu mostri d'aver sospetta: e però, se io potessi sofferire
che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo n'ho, e tu me n'hai data cagione; - e quindi
mostratogli lo 'nganno, il quale adoperato avea ne' fiori, dicono che Antonio la fece prendere e
guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a lui vietato che non bevesse; e
cosí lei vogliono esser morta. La prima opinione è piú vulgata: senza che, a quella s'aggiugne che,
avendo Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano comandò che
compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.
«Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto reo Tempo si volse»,
cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la
quale lunga dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena fu rapita al dí che
a Menelao fu restituita; percioché tanto stette Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero
nell'ultimo libro della sua Iliade dimostra, lá dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di Ettore, fa
dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni appo Priamo e' figliuoli, mai Ettore non
le avea detta una ingiuriosa parola. È il vero che di questi venti anni non fu l'assedio continuato
intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere li dieci primi essersi consumati
e nel raddomandare Elena, il che piú volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia
alla impresa contro a' troiani, e nel dar ordine e nel fare l'apparecchio delle cose opportune a tanta
guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto peggiori che i primi, percioché in essi furono
dintorno ad Ilione fatte molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo assai.
Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda, moglie di Tindaro, re
d'Oebalia, e lui dicono in forma di cigno, con lei bellissima donna e madre d'Elena, esser giaciuto,
narrando in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei essere stata figliuola di
Tindaro, re d'Oebalia, e di Leda, e sirocchia di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto
oltre ad ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la penna faticò il divino
ingegno d'Omero, ma ella ancora molti solenni dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi
stancò: e intra gli altri, sí come Tullio nel secondo dell'Arte vecchia scrive, fu Zeusis eracleate, il
quale per ingegno e per arte tutti i suoi contemporanei e molti de' predecessori trapassò. Questi,
condotto con grandissimo prezzo da' croteniesi a dover la sua effigie col pennello dimostrare, ogni
vigilanza pose, premendo con gran fatica d'animo tutte le forze dello 'ngegno suo; e, non avendo
alcun altro esemplo, a tanta operazione, che i versi d'Omero e la fama universale che della bellezza
di costei correa, aggiunse a questi due un esempio assai discreto: percioché primieramente si fece
mostrare tutti i be' fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi elesse cinque, e delle
bellezze de' visi loro e della statura e abitudine de' corpi, aiutato da' versi d'Omero, formò nella
mente sua una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto l'arte potè seguire l'ingegno, dipinse,
lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla posteritá per vera effigie d'Elena. Nel quale artificio,
forse si poté abbattere l'industrioso maestro alle lineature del viso, al colore e alla statura del corpo:
ma come possiam noi credere che il pennello e lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi,
la piacevolezza di tutto il viso, e l'affabilitá, e il celeste riso, e i movimenti vari della faccia, e la
decenza delle parole, e la qualitá degli atti? Il che adoperare è solamente oficio della natura. E,
percioché queste cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare la penna loro, la
finsero figliuola di Giove, accioché per questa divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse
essere il fulgore degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale la volantile e
aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente;
quanta fosse la soavitá della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia e della
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splendida fronte e della gola d'avorio, e le delizie del virginal petto, con le altre parti nascose da'
vestimenti. Da questa tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo d'Egeo, re d'Atene, tirato in
Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare, secondo il lor costume, nella palestra con gli
altri fanciulli di sua etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la troppo
tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure alquanto maculò la virginale onestá. Qui
si può muovere un dubbio, conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo s'accordino, che
Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser stato, ecc. Fu nondimeno poi
costei da Elettra, madre di Teseo, non essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi
fratelli, raddomandantila. Altri dicono che Teseo l'avea raccomandata a Proteo, re d'Egitto, e che
esso in assenza di Teseo l'aveva renduta a' fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura,
fu maritata a Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato in Creti, fu
da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in Troia, e, secondo che alcuni dicono, di
consentimento di lei. Altri dicono che ella fu dal detto Paris rapita d'un'isola chiamata Citerea, dove
ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume antico, vegghiava la notte nel tempio
dello dio, al quale il sacrificio faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che
affermano senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del vegghiare, e
come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come
di sopra dicemmo: ed essendo stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello: e, per
quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo l'ordine del trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione
e fatto sembiante d'andarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando vide il
tempo atto al disiderio de' greci, con un torchio acceso diede lor segno al venire; di che essi tornati,
e preso Ilione e disfatto, e ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri la
ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua volontá fu rapita; altri percioché
tenne al trattato, e diede il cenno a' greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia,
da noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo re onorevolmente ricevuti;
e, oltre a questo, essendo da diversi casi ritenuti, l'ottavo anno dopo la distruzione d'Ilione,
tornarono in Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua Odissea, che Telemaco, figliuolo di
Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa dir gli sapesse d'Ulisse, gli trovò far
festa e nozze grandissime, avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato
Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi ricorda aver trovato.
«E vidi 'l grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine», della sua vita,
«combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio d'Apollo timbreo l'assalirono e uccisono; nel
quale Ecuba l'aveva occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli per
moglie Polissena.
[Lez. XIX]
Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze, ecc. non fu invitata la dea
della discordia, ecc.; e fu d'una cittá di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella Iliada, chiamata
Ptia: il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu portato in inferno, e,
accioché egli divenisse forte e paziente delle fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel
fiume, ovvero nell'onde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il quale teneva con
mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che lo allevasse. Il quale il nutricò, non in quella
forma che gli altri tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo solamente di
medolla d'ossa di bestie prese da lui; e questo faceva, accioché egli, per continuo esercizio, si
facesse forte e destro a sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere stato
nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e «chilos», che tanto vuol dire
quanto «cibo», quasi «uomo nutricato senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e
sonare certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata rapita da Paride Elena,
conoscendo per sue arti che gran guerra ne seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso,
s'ingegnò di schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente, e ancora fanciullo
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senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone il trasse, e portonnelo in una isola chiamata
Sciro, dove regnava un re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato
che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse una vergine, gliele diede che
il guardasse tra le figliuole. Ma questo non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di
Licomede, cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò, si giacque; e per la
comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad alcuna persona non manifestava quello essere che
essa avea conosciuto. E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un
figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero tutti fatta congiurazione contro a'
troiani, avendo per risponso avuto non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare
di lui, con la sagacitá d'Ulisse fu trovato e menato a Troia: dove andando, prese piú cittá di nemici e
grandissima preda, e una figliuola del sacerdote d'Apolline, la qual donò ad Agamennone, e
un'altra, che presa n'avea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto, per risponsi
degl'iddii, che Agamennone avesse la sua restituita al padre, tolse Briseida ad Achille: della qual
cosa turbato Achille, non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse combattere
contro a' troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente malmenati da' troiani, avendo egli
concedute le sue armi e il carro a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato
s'armò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo senza sepoltura dodici dí, e
ultimamente rendutolo a Priamo, e poi perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello
di Ettore, suspicò Ecuba costui non doverle alcuno de' figliuoli lasciare, per che con lui tenne
segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú
non prendere arme contro a' troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché ne'
tempi delle tregue veduta l'avea, ed eragli oltre ad ogni altra femmina paruta bella. Ed essendo
dunque esso in convenzione con Ecuba, secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò
una notte nel tempio d'Apollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura d'Ilione, credendosi quivi
trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso, gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed
essendo Paris mirabilmente ammaestrato nell'arte del saettare, aperto l'arco, il ferí d'una saetta nel
calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser ferito: per che Achille, fatta alcuna ma
piccola difesa, cadde e fu ucciso, e poi seppellito sopra l'uno de' promontori di Troia, chiamato
Sigeo.
«Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro, fu figliuolo di Priamo e
di Ecuba, del quale Tullio in libro De divinatione scrive che, essendo Ecuba pregna di quella
pregnezza della quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una facellina, la quale
ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece
domandare Apollo, il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea di questa
grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo comandò che il figliuolo che nascesse, ella
il facesse gittar via. Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un bel
fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento di Priamo, gittar via, ma il fece
occultamente dare a certi pastori del re, che l'allevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella
selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto grande, quivi primieramente
usò la dimestichezza d'una ninfa del luogo chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, de' quali
chiamò l'uno Dafne e l'altro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva, addivenne un
grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque persona con maravigliosa equitá decideva.
Per la qual cosa perduto quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris, quasi
«eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che Peleo menò per moglie Teti, e
alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa
non v'era stata chiamata, preso un pomo d'oro, vi scrisse sú che fosse dato alla piú degna, e gittollo
sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei,
sí come a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione grande, andarono per lo
giudicio a Giove, il quale Giove non volle dare, ma disse loro: - Andate in Ida, e quivi è un
giustissimo uomo chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna. - Per la qual cosa
le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi
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proposero davanti a lui la lor quistione, dicendo Giunone: - Io sono dea de' regni: se tu dirai me piú
degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di molti. - D'altra parte diceva Pallade: - Io
sono dea della sapienza: se tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere. - Venere
similemente diceva: - Io sono dea d'amore: se tu dai, come a piú degna, il pomo a me, io ti farò
avere l'amore e la grazia della piú bella donna del mondo. - Le quali udite da Paris, dopo alcuna
diliberazione, egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa, come appresso si
dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio dice essere stato da Nerone raccontato nella
sua Troica, fortissimo, intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a Troia, esso
vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi d'essere da lui stato vinto, credendo lui
essere un pastore, messo mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che Paris,
che giá da' suoi nutritori saputo l'avea, gridò forte: - Io son tuo fratello; - che ciò fosse vero provò,
mostrate le sue crepundie, le quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella
casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò, che, essendo per mandato
di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto spezie d'ambasciadore a raddomandare Esiona fu
mandato in Grecia; dove alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue Pistole, che esso fosse
ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in Lacedemonia venuto, non essendovi
Menelao, e di quindi alla fama della bellezza d'Elena essere andato in Isparten, e quella avere
combattuta il primo anno del regno d'Agamennone, non essendovi Castore né Polluce, fratelli di
Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano menata Ermione, figliuola di Menelao e
d'Elena. E cosí, avendo presa la cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i
tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual cosa assai elegantemente tôcca
Virgilio, quando dice:
Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter? ecc.
E per questo vogliono molti, preso da' greci Ilione, Elena aver meritato d'essere stata
ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú bella donna di Grecia, secondo la promessa di
Venere: la quale in Troia menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in lui,
avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa rapina congiurati i greci insieme,
vennero ad assediare Ilione: nel quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso
medesimo Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo d'Achille.
Séguita poi: «Tristano».
Tristano, secondo i romanzi de' franceschi, fu figliuolo del re Meliadus e nepote del re
Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti romanzi, prode uomo della persona e valoroso
cavaliere: e d'amore men che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per la qual
cosa fu fedito dal re Marco d'un dardo avvelenato. Laonde vedendosi morire, ed essendo la reina
andata a visitarlo, l'abbracciò, e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò il
cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del
re Artú e della Tavola ritonda, ed egli ancora fu de' cavalieri di quella Tavola.
«E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille», quasi molte, usando
quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»; «Ch'amor», cioè quella libidinosa passione, la qual
noi volgarmente chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte; percioché,
per quello morendo, onestamente morir non si puote.
«Poscia ch'io ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi che
l'autore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice: «Poscia ch'io ebbi il mio dottore
udito Nomar le donne antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui quasi
smarrito». In queste parole intende l'autore d'ammaestrarci che noi non dobbiamo con la
meditazione semplicemente visitar le pene de' dannati; ma, visitandole e conoscendole, e
conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla giustizia
son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover temere di non dovere in quella
dannazione pervenire, e compugnerci ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle
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cose adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via di salute. E usa l'autore di
mostrare di sentire alcuna passione, quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi
dove alcun peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E, avuta questa
passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai: - Poeta, volentieri Parlerei a que' due che 'nsieme
vanno», essendo da quella bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri», - cioè con
minor fatica volanti. «Ed egli a me: - Vedrai quando saranno», menati dal vento, «Piú presso a noi,
e tu allor gli prega, Per quell'amor, che i mena», qual che quello amor si sia, «ed e' verranno», qui,
da quell'amor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come 'l vento a noi gli piega, Muovi la
voce» - cioè priega come detto t'ho.
Per la qual cosa l'autore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a dire in questa guisa: - «O
anime affannate», dal tormento e dalla noia di questo vento, «Venite a noi parlar, s'altri nol niega»,
- cioè se voi potete.
«Quali colombe». Qui l'autore, per una comparazione, ne dichiara con quanta affezione
quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali colombe dal desio», di rivedere i figliuoli,
«chiamate», cioè incitate, «Con l'ali alzate», volando, «e ferme», con l'affezione, «al dolce nido»,
nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura per li figliuoli e per loro; «Vengon per
l'aer», verso il nido, «dal voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra guida
nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi due, «della schiera ov'è Dido», la qual di
sopra disse che andavano per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per l'aer
maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè sí potente, «fu l'affettuoso
grido», cioè priego (non si dee credere che l'autor gridasse). E venuti disson cosí: - «O animal
grazioso e benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente pregò; il che
laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri della divina giustizia rigidamente
comandare: «Che visitando vai per l'aer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo 'l mondo di
sanguigno», quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque toccò tinse di
color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è nemico, «il Re dell'universo», cioè Iddio,
«Noi pregheremmo lui per la tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi c'hai pietá del nostro mal
perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel ch'udire» da noi, «e che parlar ti piace» a noi, «Noi
udiremo», parlando tu, «e parleremo a vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai,
«Mentre che 'l vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non c'infesta.
[Lez. XX]
«Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza essere addomandata;
e ciò fa per mostrarsi piú pronta a' suoi piaceri. Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare
chi costei fosse, e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa nelle sue
seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei fu figliuola di messer Guido vecchio da
Polenta, signor di Ravenna e di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e composta la pace tra loro. La
quale accioché piú fermezza avesse, piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per
parentado; e 'l parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per moglie una sua
giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca, a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta.
Ed essendo questo ad alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a messer
Guido: - Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete modo ad alcuna parte, che in
questo parentado egli ve ne potrá seguire scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e
quanto ell'è d'altiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio sia perfetto, né voi
né altri potrá mai fare che ella il voglia per marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di
doverne tener questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci un de'
frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome di Gianciotto. - Era Gianciotto uomo di
gran sentimento, e speravasi dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa,
quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer Guido per genero piú tosto
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che alcuno de' suoi frategli. E, conoscendo quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter
avvenire, ordinò segretamente che cosí si facesse, come l'amico suo l'avea consigliato. Per che, al
tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto, con pieno mandato ad isposare madonna
Francesca. Era Polo bello e piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini
per la corte dell'abitazione di messer Guido, fu da una damigella di lá entro, che il conoscea,
dimostrato da un pertugio d'una finestra a madonna Francesca, dicendole: - Madonna, quegli è colui
che dee esser vostro marito; - e cosí si credea la buona femmina; di che madonna Francesca
incontanente in lui pose l'animo e l'amor suo. E fatto poi artificiosamente il contratto delle
sponsalizie, e andatane la donna a Rimino, non s'avvide prima dell'inganno, che essa vide la
mattina seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che si dee credere che ella,
vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò rimovesse dell'animo suo l'amore giá postovi verso Polo.
Col quale come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che l'autore ne scrive; il che
possibile è che cosí fosse. Ma io credo quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era
possibile ad essere avvenuto, ché io non credo che l'autore sapesse che cosí fosse. E perseverando
Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza, ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra
vicina per podestá, quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual cosa
avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui, e raccontògli ciò che della bisogna
sapea, promettendogli, quando volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente
turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto Polo entrare nella camera
da madonna Francesca, fu in quel punto menato all'uscio della camera, nella quale non potendo
entrare, ché serrata era dentro, chiamò di fuora la donna, e die' di petto nell'uscio. Per che da
madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per fuggire subitamente per una cateratta,
per la quale di quella camera si scendea in un'altra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo suo;
si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse ad aprire. Ma non avvenne come
avvisato avea, percioché, gittandosi giú, s'appiccò una falda d'un coretto, il quale egli avea indosso,
ad un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo giá la donna aperto a
Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro,
incontanente s'accorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno stocco in mano
correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene, accioché quello non avvenisse, corse oltre
presta, e misesi in mezzo tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo stocco in
mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che egli non avrebbe voluto, cioè che prima
passò lo stocco il petto della donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato
Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna, ritirato lo stocco da capo, ferí
Polo e ucciselo: e cosí amenduni lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi all'uficio suo.
Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente, seppelliti e in una medesima
sepoltura.
Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine cominciando: - «Siede», cioè dimora, «la
terra», cioè la cittá di Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia de' sabini,
quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata da' nipoti di Noé; «dove nata fui, Su
la marina», del mare Adriano, al quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare
che essa giá fosse in sul mare; «dove 'l Po discende». Nasce il Po nelle montagne che dividono
Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da
Appennino e dall'Alpi discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si divide in
due parti, delle quali l'una ne va verso Ferrara, e l'altra ad una villa di Ferrara chiamata Francolino:
e pervenuto a Ferrara, similemente si divide in due parti, delle quali l'una ne va verso Ravenna, e
diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro, mette in mare. «Per aver pace co'
seguaci sui», cioè co' fiumi che, mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi
mette in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.
«Amor, ch'al cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni il luogo donde fu, comincia a
mostrare la cagione della sua morte; e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé
dice essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia d'amore venga pienamente a dovere
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essere trattata nel secondo libro di questo volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna
piccola dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò. Piace ad Aristotile
esser tre spezie d'amore, cioè amore onesto, amore dilettevole e amore utile: e quell'amore, del
quale qui si fa menzione, è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che questo
amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu figliuolo di Marte e di Venere, sí
come Tullio nel libro De natura deorum testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime
forze, sí come per Seneca appare nella tragedia d'Ipolito, nella quale dice:
Et iubet caelo superos relicto
vultibus falsis habitare terras.
Thessali Phoebus pecoris magister
egit armentum, positoque plectro
impari tauros calamo vocavit.
Induit formas quotiens minores,
ipse, qui caelum nebulasque ducit?
Candidas ales modo movit alas, ecc.
E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga la
storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor
che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi corporei portata in
essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla
ricevere. Percioché, secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá d'alcuno, Marte si trovi esser nella casa
di Venere in Tauro o in Libra, e trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora
nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di
questo dice Alí nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella nativitá d'alcuno Venere
insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una
disposizione atta agl'innamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che,
cosí tosto come questo cotal vede alcuna femmina, la quale da' sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femmina piace, è portato alle virtú sensitive interiori, e questo
primieramente diviene alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella alla
memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella spezie di virtú, la quale è piú
nobile intra le virtú apprensive, cioè all'intelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle
spezie, sí come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile,
cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v'è, se egli avviene che per volontá
di colui, nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá di ritenere dentro
questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è
fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore ovvero
Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell'appetito sensitivo, e quivi in
varie cose adoperanti divien sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e a
far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna volta, essendo meno approvata
questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da
Venere generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra è detto, sono
alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale
attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe.
Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come vide colei, la quale
esso, secondo l'ordine detto di sopra, approvò, e dentro ritenne l'approbazione, subitamente fu da
amor passionato e preso. E de'si qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè flessibile, sí come
quello che era nato atto a ricevere quella passione: «ratto s'apprende», cioè prestamente v'è dentro
ricevuta e ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in compagnia di lei; e
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dice che il prese «Della bella persona», la quale io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa
fui: «e 'l modo», nel quale mi fu tolta, «ancor m'offende», cioè mi tormenta.
[Lez. XXI]
«Amor, ch'a null'amato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza dell'autore, non
avviene di questa spezie d'amore, ma avvien bene dell'amore onesto, come l'autore medesimo
mostra nel seguente libro nel canto ventiduesimo, dicendo:
amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fuore.
Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade volte soglia l'uomo
molto strettamente legarsi dell'amore di cosa, ch'è a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il
che quando avviene, può quel seguitare che l'autore dice,] conciosiacosaché naturalmente ogni
simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá i costumi e le maniere dell'amante
conformi alle sue, incontanente si dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí
non perdonerá l'amore all'amato, cioè ch'egli non faccia che questo amato ami chi ama lui. «Mi
prese del costui piacer», cioè del piacere di costui, o del piacere a costui: in che generalmente si
sforza ciascun che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza, «Che, come vedi,
ancor non m'abbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu fai, andar continovo con lui, puoi
comprendere che io l'amo, come io l'amai mentre vivevamo. [Ma] in questo l'autor séguita l'opinion
di Virgilio, il qual mostra nel sesto dell'Eneida, Sicheo perseverare nell'amor di Didone, dove dice:
Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sichaeus amorem, ecc.
[Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché la divina giustizia non
permette che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si
conformi, o gli porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente sarebbe
contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole, a se medesima compiacesse dello
stare in compagnia del suo amante.] «Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi
insieme e in un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del presente libro, cosí
chiamata da Caino figliuolo d'Adamo, il quale peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire
l'autore che egli sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal peccato
commise, dinomina l'autore quel cerchio da lui; e in quel si puniscono tutti coloro che i fratelli o
congiunti uccidono. E perciò dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise
lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci spense», - cioè uccise; percioché
morte non è altro che un privare, il qual si può dire «spegner di vita».
«Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna Francesca, parlante
per sé e per Polo.
«Da ch'io intesi quest'anime offense», sí dalla morte ricevuta e sí dal presente tormento,
«Chinai 'l viso», come colui fa, il quale ha udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che 'l
poeta mi disse: - Che pense?» - quasi volesse dire: E' si vuole attendere ad altro. «Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire: - «O lasso! Quanti dolci
sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa
che s'ama: «quanto disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al doloroso
passo!» - della morte.
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«Poi mi rivolsi a loro, e parla' io, E cominciai: - Francesca, i tuoi martíri», ne' quali io ti
veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio», cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo de' dolci
sospiri», cioè quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come», cioè in
qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli amanti temorosi e non lasciar loro, per
téma di non dispiacere, aprire il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te, «i
dubbiosi disiri?» - Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti, percioché, quantunque per molti
atti appaia che l'uno ami l'altro e l'altro l'uno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino
a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.
«Ed ella a me: - Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»: chiama «felice» il
tempo il quale aveva nella presente vita, per rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la
qual chiama «miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è: e questo assai
chiaro testimonia Boezio, in libro De consolatione, dicendo: «Summum infortunii genus est, fuisse
felicem»; «e ciò sa 'l tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della narrazion fatta da
Enea de' casi troiani a Didone e ancora nel dolore di Didone nella partita d'Enea, assai chiaramente
il dimostra. «Ma, se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro amore ha l'autore
mostrata di sopra quando dice: «Amar, ch'al cor gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda,
cioè dell'autore, madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella radice si disidera
e s'aspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui l'autore che il principio s'intenda per la fine: «Del
nostro amor tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei che piange e dice. Noi»,
cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli
cose raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel ch'io creda, piú composte a beneplacito che
secondo la veritá: e leggevamo «come amor lo strinse»; percioché ne' detti romanzi si scrive
Lancellotto essere stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del re Artú.
«Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive l'autore tre cose, ciascuna per se medesima potente
ad inducere a disonestamente adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere gli
amori d'alcuni, l'esser soli e l'esser senza sospetto d'alcuno impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci
sospinse», a riguardar l'un l'altro, «Quella lettura e scolorocci 'l viso»: cioè fececi tal volta venir
palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che, da alcuna cagion mossi, disiderano di dire
alcuna cosa, e poi temono e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo un
punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio mio; e questo fu «Quando
leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da
cotanto amante», quanto era Lancellotto, reputato in que' tempi il miglior cavalier del mondo.
«Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante».
Ottimamente discrive l'atto di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che,
quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si comprende che madonna
Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la prima volta il prendono.
«Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi ne' predetti romanzi che un prencipe
Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante, sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno
altro l'occulto amore di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti proceduto
che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale egli amava maravigliosamente, tratta un dí
in una sala a ragionamento seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire questo
amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando con la persona il poter questi due esser
veduti da alcuno altro della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí vuol questa
donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed ella, quello uficio adoperasse tra lor due,
che adoperò Galeotto tra Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui che
lo scrisse; percioché, se scritto non l'avesse, non ne potrebbe esser seguito quello che ne seguí.
«Quel giorno piú non vi leggemmo avante»: - assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo
essa, i lettor comprendano quello che dell'essere stata basciata da Polo seguitasse.
«Mentre che l'uno». Qui comincia la sesta e ultima particula del presente canto, nella quale
l'autore discrive quello che di quel ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che l'uno spirto», cioè
madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «L'altro piangeva», cioè Polo, «sí», cioè
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in tal maniera, «che di pietade», per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí
com'io morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta forza la
compassione, che pare ch'ella faccia cosí altrui struggere il cuore, come si strugge la neve al fuoco;
di che avviene che le forze sensibili si dileguano, e l'animali rifuggono nelle piú intrinseche parti
del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal suo sostegno, impalidito cade. E questa
compassione, come altra volta di sopra è detto, non ha tanto l'autore per gli spiriti uditi, quanto per
se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in quella dannazion dovere cadere, se di
quello, che giá in tal colpa ha commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale
egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.
II
SENSO ALLEGORICO
«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha il supplicio, il quale
sostengono coloro, li quali senza essere stati per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato
originale; procedendo piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá delle colpe
piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la divina giustizia dannati sieno coloro li quali in
esse colpe morirono. E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos gli
dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra in questo cerchio secondo esser
dannati que' peccatori, li quali, oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il
concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi cotali alquanti, accioché piú
pienamente si comprenda la sua intenzione.
Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona di Minos, la severitá
della divina giustizia. Intorno alla qual dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché
piú in questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia dimostrata; la seconda,
perché piú in persona di Minos che d'un altro.
Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra parte dimostrata, può
essere la ragion questa: è la giustizia virtú, la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e,
quantunque questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli uomini, nondimeno
sono alcune cose operate per gli uomini, delle quali ella del tutto è schifa d'intramettersi, estimando
ottimamente fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non le pare quelle cotali
cose, o meritorie o non meritorie che sieno, essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da
iniquitá di malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere degli animali, ne'
quali non è alcuna ragione. E queste cotali operazioni son quelle de' furiosi e de' mentacatti e de'
fanciulli e degl'ignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali fanno, non è potuta cadere
alcuna debita elezione, come detto è: e, dove elezione e volontá esser non può intorno all'adoperare,
non pare che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a questo luogo, se ben si
riguarda, non sono puniti alcuni altri, se non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o
ignoranti, come è dimostrato; intorno a' quali se la giustizia non s'interpone, era di soperchio e mal
conveniente averla tra loro, o di sopra a loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe
stata oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo luogo dimostrata, e' ne
seguivano altri inconvenienti. Primieramente pare che avessero potuto de' peccatori, che alle piú
profonde parti dello 'nferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi nelle parti
dell'inferno che state fossero superiori al luogo dove stata fosse posta la giustizia, e cosí non
sarebbono stati secondo le colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima
giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera d'Acheronte, similmente gli farebbe pronti a
discendere infino lá dove ella fosse, ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto
giú quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e cosí sentirebbono di
quelle pene che essi non hanno meritate: il che è contro agli effetti della giustizia. E però
201
ottimamente in questa parte la discrive l'autore, nella quale niuna cosa de' superiori s'impaccia; né
hanno, quelli che ne' cerchi piú alti esser debbono, a discender giuso; né può alcuno stare in forse di
sé; né ancora, sedendo ella in su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che
non gli convenga venire alla sua esaminazione.
È nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e per tutto distribuire
secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle fare alcuna esaminazione o inquisizione de' nostri
meriti o delle nostre colpe, come alla giustizia de' mortali bisogna; percioché, nel cospetto della
giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere sono presenti e conosciute da lei, ma ella
ancora vede e conosce e discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si possono
per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi a' nostri ingegni per alcuna sensata forma
dimostrare gli spirituali effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.
Resta a vedere perché piú in persona di Minos che d'alcun altro ministro infernale ne sia
dimostrata questa giustizia; [e con questo è da vedere quello che l'autore abbia voluto sentire in ciò
che egli fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi giudíci. E avanti all'altre
cose, pare,] richeggionsi ne' ministri della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai,
ma singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere prudente al ministro
della giustizia, accioché egli per la prudenza cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a
vedere quello che di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di minore
condizione che abbia offeso un principe, che un principe che abbia offeso un uomo di minor
condizione. Conviensi che egli conosca la qualitá de' tempi; percioché altrimenti è da punire un
uomo che muova o susciti un romore ne' tempi della guerra, quando gli stati delle cittá stanno
sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono in pace e in tranquillitá.
Conviensi che egli conosca la qualitá de' luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un
tempio o in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota e non molto
frequentata dall'usanza degli uomini. Conviensi, per la prudenza, che egli sappia discernere i
movimenti di quegli che peccano, di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili
cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a ciò posto fosse, non potrebbe
essere idoneo esecutore della giustizia. Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da
quello, che conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non priego, non amore,
non odio, non prezzo, non lusinga o cose simili a queste; percioché, dove da alcuna o da piú di
queste mosso fosse, mai giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto
ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser severo, e massimamente lá dove è
tolto luogo alla gratificazione. Puossi infra' processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri della
giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú all'una parte che all'altra esser grazioso; la qual cosa
nelle cose e ne' tempi debiti non è vizio, ma è segno d'equitá d'animo nel giudicante; fuori de' tempi
debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in servare strettamente l'ordine della
ragione, e di quello per cagione alcuna non uscire; e massimamente ne' giudici di Dio, il quale
insino allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua misericordia n'aspetta,
tempo prestandoci alla gratificazione, se prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo
voluti volgere, e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire, essendo la sua
sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá dee qui il ministro della sua giustizia quella
mandare ad esecuzione. Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere ne'
processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di lui da coloro li quali qual fosse la
sua vita conobbero. Che egli fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi a'
popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente, ridusse per sua industria a vivere
sotto il giogo della giustizia. Che egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da
quello che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del Minotauro, al quale,
quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui
e la sua cittá della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua severitá in Scilla,
figliuola di Niso, re de' megarensi, la quale, da disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle
braccia sue, tradí il padre, e fecel signor di Megara e a lui se n'andò; per la qual cosa, quantunque
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ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo fatto signore di Megara, da niuna di queste
cose mosso, lei, sí come ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si gettano i
patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo in leggi ridotti, quegli con tanta
costanza e con tanta severitá servò, che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma
egli riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa, dopo la sua morte,
estimarono gli uomini, ne' loro errori, lui essere appo l'anime d'inferno eletto a quel medesimo
ufficio esercitare tra loro che in questa vita tra' suoi esercitava, sí come nella esposizione letterale si
dimostrò.
Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos in questo luogo
figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina giustizia dimostri per lo ravvolgimento della
coda di Minos, intorno all'esecuzione de' suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda essere
l'ultimo membro e l'ultima parte del corpo di qualunque animale, al quale la natura l'ha conceduta;
e, quantunque ella serva a piú cose gli animali che l'hanno, alla presente materia non intende
l'autore altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della vita nostra, secondo la
qualitá della quale si forma il giudicio della divina giustizia: percioché, quantunque l'uomo sia
scelleratamente vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle malfatte cose, e con
buona compunzione e con puro cuore, si rivolge alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è
ricevuto da essa e giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli n'è dimostrato per la divina
Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il
quale avendo tutti i dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti all'ora della sua
morte, con contrito cuore, non dicendo altro che: - «Miserere mei, Domine, cum veneris in regnum
tuum», - il fece la misericordia di Dio degno d'udire dalla bocca di Cristo: - «Amen dico tibi, hodie
mecum eris in Paradiso»: - né è dubbio alcuno che a queste parole non seguisse l'effetto; e cosí
solamente all'ultima parte della vita, cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí
in contrario, essendo Giuda Scariotto stato de' discepoli di Cristo, e usato con lui, e avendo la sua
dottrina udita, quantunque male poi adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della
misericordia di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se medesimo dettò la
sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al profondo dello 'nferno a perpetue pene dannato.
Ciascheduno adunque con le colpe piú gravi, con le quali e' muore, del luogo il quale e' dee in
inferno avere, è dimostratore.]
[Lez. XXII]
Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá de' dannati in questo secondo cerchio, e
come alla qualitá della lor colpa sia conforme il supplicio, il quale l'autore ne dimostra essere lor
dato dalla divina giustizia.
Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i
lussuriosi. Intorno al vizio de' quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura
incita ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la natura avvedutamente,
accioché, per l'atto del coito, ciascuno animale generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di
quello; e, se questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto verrebber meno i
generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra e 'l mare di possessori. È vero che ell'ha in
ciascun altro animale, che nell'uomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non
perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né raffrenati sono: e questo è non
patire le femmine i congiugnimenti de' maschi loro se non alcuna volta l'anno, e questa non si
prolunga in molti dí, infra' quali le femmine si rendono benivole e amorevoli alli loro maschi e loro
si concedono; e, questo cotal tempo finito, o come conoscono sé aver conceputo, piú lor
dimestichezza non vogliono. Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli
conobbe animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando e quanto s'appartenesse
di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi ricorda d'aver letto che appo coloro, li quali
mondanamente vivono, alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una
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femmina: e questa fu una donna d'Arabia, reina de' palmireni, chiamata Zenobia, della qual si legge
mai ad Odenato, suo marito, essersi voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando
in ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei, piú accostare nol si lasciava
infino a tanto che ella non conosceva se conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo,
gli si concedeva un'altra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo 'l parto, piú
non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di questa reina, o come gli uomini in questo
usino il giudicio della ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove essi,
la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il quale essi veggiono la natura
aver posto agli animali bruti, in ciò che possono o sanno in contrario si sforzano.
Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale, quantunque avesse
tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne
erano, che di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a disiderare i suoi
abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli, per non esser cagione che alcuna casta mente la
sua onestá contaminasse con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si guastò,
rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto l'avessono le mani graziose della
natura. In veritá laudevole cosa fu questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i
moderni giovani fanno tutto il contrario: i costumi de' quali avere alquanto morsi, non fia loro per
avventura disutile, e potrá esser piacevole ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace
di lasciare stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo appo il barbiere in
farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina, in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger
quell'altro altrove, in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e azzimarsi,
allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica lasciandogli crescere, attrecciandogli,
avvolgendosegli alla testa, e talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto
chericile raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare epa del petto, non in su' lombi,
ma in su le natiche cignendosi; [come gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e a' calzamenti
portare le punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono le donne, e trarle
ne' lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e di quelle non mani, ma branche piú tosto d'orso
cacciare. Né vo' dire de' cappuccini, co' quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti si fanno, né
similmente della lascivia degli occhi, co' quali quasi sempre quel vanno tentando, che essi poi non
vorrebbero aver trovato. E lascerò stare gli atti, gli andamenti, e' portamenti, il cantare, il carolare, e
cosí le promesse e' doni, de' quali si può però piú tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti;
e a un solo lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia, percioché con gli
occhi offuscati di caligine infernal si riguardano, mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto
vituperevole, che non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale è di tutti i mali
confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel
cospetto delle donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse, guardandogli
alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che egli è maschio; e, se la cosa procede come
cominciato ha, non mi par da dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco
di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non sará da que' cotali differenza
alcuna da' bruti animali. Ingegnossi la natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in
quelle parti del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, que' membri dei quali mostrandogli ciascun
si dee vergognare; e, oltre a ciò, l'uso, della vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla
natura, secondo che ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli co' vestimenti, e quantunque
o necessitá o usanza l'altre parti del corpo scoperte patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che
i presenti giovani, che scoperte le sofferí. Gl'indiani, gli etiopi, i garamanti e gli altri popoli, i quali
sotto caldissimo cielo abitano, quantunque da soperchio caldo sforzati sieno d'andare ignudi, quelle
parti in alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dich'io gl'indiani e gli etiopi,
li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume? Quegli popoli, li quali abitano l'isole ritrovate
(gente, si può dire, [fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte, né costume
alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente vivono), di palme, delle quali abbondanti
sono, non so se io dica tessute o annodate piú tosto, fanno ostaculi, co' quali quelle parti
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nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati ne' liti, quantunque faticati e
percossi dall'onde sieno, nondimeno, non curandosi di tutto l'altro corpo perché ignudo sia, quella
parte, se con altro non hanno, s'ingegnano di ricoprire con le mani. I poveri uomini, a' quali
mancano i vestimenti, quella parte non patiscono che rimanga scoperta. I mentacatti e' furiosi e gli
ebbri, mentre che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che que' membri in aperto veduti
sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza, ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al
bestiale appetito e a' conforti del nemico dell'umana generazione sospignere, che non altramenti col
viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione avesser fatta o facessono.
Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume, ragioni vie piú vituperevoli
che non è il costume medesimo, dicendo primieramente: - Noi seguiamo l'usanze dell'altre nazioni:
cosí fanno gl'inghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi e' provenzali. - Non s'avveggono i miseri
quello che essi in questa loro trascutata ragion confessino. Solevano gl'italiani, mentre che le troppe
delicatezze non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge e' costumi e' modi del vivere a tutto il
mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá, la nostra preeminenza, il dominio e la potenza;
dov'e' segue, se dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi, da quegli che
furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi, dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana
vita non si servava, né sapeva, né saprebbe, se non quanto dagl'italiani fu lor dimostrata (il che è
assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo, confessiamo d'esser noi i servi, d'esser
coloro che viver non sappiamo se da loro non apprendiamo; e cosí d'aver loro per maggiori e per
piú nobili e per piú costumati. O miseri! non s'accorgono questi cotali da quanta gran viltá d'animo
proceda che un italiano séguiti i costumi di cosí fatte genti.
E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto costume tôrre i giovani,
ne' quali è il fervor del sangue e le forze, e' dovrebbe esser la grandezza dell'animo, se non un
giusto sdegno; non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi d'aver mai seguitato o
seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa adoperare, per la quale le nazion barbare
gloriar non si potessono d'esser nelle lor brutte invenzioni degl'italiani imitate.
Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono che i vestimenti lunghi
gl'impedivano e non gli lasciavano nelle cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano
e d'ogni ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro, li quali piú lunghi
portano i vestimenti, non sapessono quali e quante sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che
troppo sarebbe lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure alquante e
opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto co' panni lunghi? come i romani, li quali in
continue guerre, con l'arme in dosso ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra
che a costor facesser noia i panni lunghi, ne' quali erano in continovi e grandi esercizi. Ma forse
diranno questi cotali non esser di necessitá agli uomini, gli quali sono in fatti d'arme, l'avere i panni
corti, come a coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che vanno facendo
la mostra alle femmine che son maschi e ch'egli hanno le natiche tonde e grosse le cosce. O
dissensati! Solevansi i giovani vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e
oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse avessono con che, volentieri
nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun altro che i romani similmente gli portavano corti come
essi fanno. E nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova per scrittura che
io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli
quali essi discorrevano il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali fossero i
loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste io credo assai aver vedute, né mai
alcuna né armata né disarmata ne vidi, che, o da' vestimenti o dall'armadure, non fosse almeno
infino al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai manifestamente, si vede
che assai mal procede l'argomento che i panni lunghi impediscano.
E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io un'altra delle lor savie ragioni
non discriva, percioché estimano quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli d'ogni
loro disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne mostran loro con le poppe
il petto, accioché piú nella concupiscenza di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò,
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essi vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito medesimo incitare.
Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata, dove ella è abominevole tra' sensati. Ma non
pensano i miseri quanto scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé
ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli occhi chiusi, o che esse non
possano dalle oscene parti de' figliuoli esser mosse, come l'altre femmine si muovono;
conciosiacosaché la natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo all'onestá della
parentela. Nel vero io non l'ardirei affermare, quantunque giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò
ben di dire che, se ciò non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è cagione il
vituperevole costume de' figliuoli; né discrederò che, quel che posson muovere i disonesti figliuoli,
non si convenga talvolta terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non s'accorgono i
dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine disiderano di tirare, quello che
essi nelle sorelle, nelle cognate e nell'altre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte
caggiano ne' lacciuoli scioccamente tesi da loro, rade volte avviene che, da questo sospinte, non
saltino negli abbracciamenti d'uomini non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti
portamenti le sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle tenere menti delle
figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che
loro ancora non saria di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che, lasciamo stare
il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo, le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre de'
pensieri, ma le parole men che oneste de' non cauti padri aver loro prima strupatore che marito
trovato.
Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque biasimevole sia molto alle
donne mostrare con le poppe il petto, non sono perciò le poppe de' membri osceni e che nascondere
del tutto si deano; percioché, se di quegli fossono, non l'avrebbe la natura poste in cosí aperta e
patente parte del corpo come è il petto, anzi si sarebbe ingegnata d'occultarle, come gli altri fece.
Oltre a questo, le poppe sono a' sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle sieno quelle, onde
noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando i nostri primi parenti peccarono e cognobbero
la ignominia loro, non nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come Adam,
fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono quelle parti del corpo, le quali costoro
non si vergognano di mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di Dio, che
creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio si vergognano, né degli uomini.
[Similmente, quando i predetti di paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon
lor fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle fatti furon da lui, ma per
ricoprire le parti inferiori, delle quali, partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di
se medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro scostumaggine dir le
donne: - Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella nostra prima madre ricoperto dal vestimento
che Iddio ne fece; dove quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre. - ]
È vero che, quantunque il costume de' giovani nella parte mostrata biasimevole sia e villano,
non si scusa perciò la vanitá delle donne, le quali d'altra parte, non potendo nascondere il fervore
inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte s'ingegnano, in ciò ch'elle possono, di
quello adoperare che possa provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro
congiugnimenti. Elle si dipingono, elle s'adornano, elle si azzimano, e con cento varietá di fogge sé
ogni giorno trasformano; ballano, cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove
dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare i costumi.
Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio solo si vince
fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne il destano, il chiamano, e, se egli non volesse
venire, il tirano; non contenti solamente a' portamenti, ma con gli odori arabici, con le cortecce, con
le polveri, con le radici e con liquori orientali, con vini e con le vivande e con le morbidezze e con
gli ozi e con altre cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna assai mal grati
della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E cosí miseramente nella lussuria, abominevole
vizio, pervegnamo, la quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e contro
all'amor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora di noi medesimi e delle nostre
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cose la debita sollecitudine, sí come colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua l'ossa,
guasta lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa l'ingegno, debilita il vedere e ogni corporal forza
quasi a niente riduce. Ella è morte de' giovani e amica delle femmine, madre di bugie, nemica
d'onestá, guastamento di fede, conforto de' vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e
abominazione e vituperio de' vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere Nostro Signore
primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando piú che una moglie ad Adam, né ad Eva
piú che un marito, mostrò di volere che uno fosse contento d'una e una d'uno; il che poi nella legge
data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento vietando. E, non bastando
questo, per onestare il matrimonio e ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé
l'onestá publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole, e similemente i padri e'
figliuoli, e gli adultèri essendo stati proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i
fratelli e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai, cioè quegli li quali o per
consanguinitá o per affinitá parevano assai propinqui, i gradi con diligente dimostrazion
distinguendo; e con queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le femmine
le quali a' divini servigi avessero sagrate le nostre leggi. Dalle quali cose assai manifestamente si
può comprendere, quantunque in questa colpa caggendo per incontenenza molto s'offenda Iddio,
secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave. E perciò è da sapere esser
molte le spezie di questo peccato, ma, tra le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular
menzione, delle quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle distintamente
mostrare.]
[Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa spezie ha meno di
colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»; il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si
solea anticamente commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata, quantunque, a
differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle de' templi e de' reali palagi, e «fornici» eran
chiamate propriamente quelle le quali eran fatte a sostentamento de' gradi de' teatri; i quali teatri,
percioché la moltitudine degli uomini anticamente si ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li
quali in essi si faceano, prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare opera al
loro disonesto servigio con quegli a' quali piaceva: e cosí da quello luogo questa spezie di colpa
trasse questo nome, cioè «fornicazione».]
[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama
«stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da «stupore», in quanto, quando prese l'uso, non
solamente in vergine si commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono
sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente appo i romani; e però
pareva uno stupore che alcun fosse di tanta presunzione, che egli ardisse a violare una vergine
vestale. Oggi è questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo medesimo
vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte si commette, percioché non meno
stupore genera negli uditori aver con questa turpitudine maculata l'onestá del parentado che l'avere
viziata la verginitá d'alcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo peccato, percioché le
si toglie quello che mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il
danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]
[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o tra
soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie «adulterio»: e venne questo nome dall'effetto del vizio,
cioè «adulterium, alterius ventrem terens»: cioè l'adulterio è il priemere l'altrui ventre; percioché in
esso si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla
quale è premuto, ma del marito di lei.]
[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e
femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo «sacro» intendere quella
persona essere la quale ha sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi
questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura di Venere, la quale è da'
poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú
ornamenti, che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata «ceston», della quale
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scrive cosí Omero nella sua Iliada: «Et a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi
voluptaria onmia ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia, blanditiae, quae
furant intellectum, studiose licet scientium», ecc. E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere
paia dovere appartenere ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste nozze
celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa sua cintura detta «ceston», a
dimostrazione che quegli, li quali per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati l'uno
all'altro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente alla perpetuitá d'esso. E,
percioché Venere similmente va a' non legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che
quando ella va a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata «ceston»:
e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono «incesto», cioè fatta senza questo ceston: ma
questa generalitá è stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque l'altre sieno
gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente s'offenda Iddio, conciosiacosaché le persone a
lui sacrate di cosí vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il
commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato «stupro»; e per avventura
non senza sentimento s'aggiugne, percioché questo pare male da non potere in alcun tempo con
futuro matrimonio risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non si puote, cosí
tra' congiunti può mai intervenire matrimonio, dove nell'altre spezie potrebbe intervenire.]
[Commettesi ancora questo vizio, e nell'un sesso e nell'altro, contro alla natural legge
esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini
della quale in ciò dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha molto piú di
gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non dimostra l'autore che in questo cerchio si
punisca, anzi si punisce troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente libro.]
[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che l'una meriti
molto maggior pena che l'altra, non appare però nel supplicio attribuito al lussurioso l'autore
punirne una piú gravemente che un'altra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno le
pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente priemere coloro che piú
gravemente hanno commesso.]
Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che piú particulari sono,
dico che, percioché il peccato della carne è naturale. quantunque abbominevole e dannevole sia, e
cagione di molti mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta se n'aumenta la
generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio
dello 'nferno, il quale è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a Dio, vuole
l'autore questo peccato esser punito.
L'origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell'attitudine a questa
colpa datane da' cieli; la quale parrebbe ne dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la
ragione, la quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò. il libero
arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli piace. E, quantunque questa attitudine n'abbia a
rendere inchinevoli a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno, se 'l calor
naturale ed eziandio l'accidentale non accendessero, e, accendendo, confortassero l'appetito
concupiscibile desto dalle cose piaciute e inchinato dall'attitudine, non è da dubitare che la
concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che la sentenza di Terenzio
par che voglia, lá dove dice: «Sine Cerere et Baccho friget Venus».
Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia esser
punito e represso dalla frigiditá del vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro
che in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá contraria al caldo, il quale
conforta questo abbominevole appetito. E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere
da ciò che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la quale la causa: e il
vento è causato da nuvola frigidissima, e perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a
questo, e le cose inducenti all'atto libidinoso e la libidine, considerata la qualitá di questo vento,
oltre alla freddezza, sono ottimamente da lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone
il fervore impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per molte vigilie, per molto
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perdimento di tempo, per molto dispendio e per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali
se alcuna volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta né finisce il suo
disiderio d'aver copia di veder la cosa amata, d'aver copia di parlarle, d'aver copia d'abbracciarla e
di baciarla, se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne, accioché possa ogni
parte del corpo toccare, con ogni parte [essere tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello
miseramente consolarsi; mostrando, per questo, l'ultimo e il maggiore diletto di cosí miserabile
appetito stare nelle congiunzioni corporali, ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni
punisce la divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme l'una all'altra punisce;
percioché, dove la predetta fu molto disiderata e molto dilettevole a' corpi, cosí questa è odiata, e,
s'elle potesser, fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata
impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore e i movimenti del corpo con
fatica s'esercitarono, cotanto nello eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in
quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò a' disonesti congiugnimenti, in
quella medesima dolorosamente gli affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non
toccarsi, che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta, percioché l'impeto di
questa bufera, il quale in qua e in lá, e di giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza l'un
nell'altro riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a
comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo,
di congiugnersi disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non iscontrarsi. Le
quali cose se bene si considereranno, assai bene si vedrá l'autore far corrispondersi col peccato la
pena.
209
CANTO SESTO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. XXIII]
«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come ne' precedenti canti ha fatto, cosí in questo
si continua l'autore alle cose dette. Egli, nella fine del precedente canto, mostra come, per
compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel
principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo cerchio dello 'nferno. E fa in questo
canto l'autore cinque cose: nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che
Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse; nella terza pone come
trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú,
domandandone esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove l'autore un dubbio a Virgilio,
e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra l'autore dove pervenissero. La seconda comincia quivi:
«Quando ci scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta
quivi: «Noi aggirammo».
Discrive adunque l'autore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo, dicendo:
«Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente
canto è mostrato, «Dinanzi alla pietá de' due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che di
tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non
quegli li quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a sé, che
mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che quegli che di sopra avea veduti; «Mi
veggio intorno come ch'io mi muova», a destra o a sinistra, «E ch'io mi volga», in questa parte o in
quella, «e come che io mi guati».
«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai meno;
«maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro a' quali
addosso cade; «fredda», e per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere
coloro a' quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non l'è nuova», sempre cade d'un modo. E poi
discrive qual sia la qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve».
Come che queste tre cose, causate da' vapori caldi e umidi e da aere freddo, nell'aere si generino,
nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di
quegli che in questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per l'aer tenebroso si riversa»; e, oltre a
ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè queste tre cose.
«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane
ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello 'nferno, dicevano Plutone lui aver posto alla
porta dello 'nferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che l'autore qui il ponga a
tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo la qualitá della forma sua
dicendo: «Con tre gole», percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui
essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi è sommersa» sotto la grandine e
l'acqua e la neve. «Gli occhi ha vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E 'l
ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate le mani», per poter prendere e
arrappare: «Graffia gli spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra»,
graffiandogli.
«Urlar»; questo è proprio de' lupi, comeché e' cani ancora urlino spesso; «gli fa la pioggia»,
la qual continuamente cade loro addosso, «come cani. Dell'un de' lati fanno all'altro schermo»,
210
questi spiriti dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda la
pioggia; e perciò, come alquanto hanno dall'un lato ricevutala, cosí si volgon dall'altro, infino a
tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i miseri
profani».
«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto
all'uso comune d'ogni uomo, sí come alcun luogo, nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la
qual mentre vi fu, fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in altra
parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può dire, degli spiriti dannati, essere
stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era
con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la via della veritá, seguirono le
malvagitá e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono
rimasi profani.
«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale, sí come
ne' superiori cerchi è addivenuto all'autore d'essere stato con alcuna parola spaventato da' diavoli
presidenti a' cerchi, ne' quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto
spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i cani, quando uomo o altro animale
vogliono spaventare: innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso
Virgilio e verso lui dimostra qui l'autore, dicendo: «Quando ci scòrse», cioè ci vide venire,
«Cerbero, il gran vermo» (pone l'autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova,
cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati «vermini»),
«Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra è
dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo». Il
che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.
«E 'l duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè aperse le
sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura, «Prese la terra,
e con piene le pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»; «La gittò
dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre, come di sopra è mostrato.
E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra
quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane ch'abbaiando», cioè latrando, «agogna».
«Agognare» è propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro
mangiare alcuna cosa; quantunque s'usi in qualunque cosa l'uom vede con aspettazione disiderare;
ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta»,
sanza piú abbaiare, «poi che 'l pasto morde», cioè quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a
divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero,
che eran tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «L'anime», in quel cerchio dannate,
«sí, ch'esser vorrebber sorde», accioché udire nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio,
di lá dove egli nel sesto dell'Eneida scrive:
Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat, adverso recubans immanis in antro.
Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
melle soporatam et medicatis frugibus offam
obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
corripit obiectam, atque immania terga resolvit
fusus humi, totoque ingens extenditur antro, ecc.
«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale l'autore truova un
fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, d'alcune
cose addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per
l'ombre ch'adona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la quale in quel luogo era, come di
sopra è mostrato, «e ponevam le piante», de' piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».
211
Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in
questa opera tutti li mostra l'autore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dell'Eneida
fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose
che incorporee sono e i loro supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se
questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non
essere in esistenza, dicendo lor «vanitá, che par persona» e non è: il che come addivenga,
pienamente si mostrerá nel canto venticinquesimo del Purgatorio, dove questa materia si tratta.
«Elle», cioè quell'anime, «giacean per terra tutte quante, Fuor d'una, ch'a seder si levò», sí
che appare che anche questa una giaceva come l'altre, «ratto», cioè tosto, «Ch'ella ci vide passarsi
davante».
E disse cosí: - «O tu, che se' per questo inferno tratto», - cioè menato, «Mi disse, riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire: - Guatami, e vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi
dovresti riconoscere; - e la ragione è questa, che - «Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «ch'io
disfatto», - cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa composizione, che noi chiamiamo
«uomo», si disfá per lo partimento dell'anima; e cosí né ella che se ne va, né 'l corpo che rimane, è
piú uomo. E veramente nacque l'autore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico,
quantunque di costumi fossono strani.
«Ed io a lei», cioè a quella anima: - «L'angoscia, che tu hai», dal tormento nel quale tu se',
«Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor
«Sí, che non par ch'io ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi chi tu se', che 'n sí
dolente Luogo se' messo», come questo è, «e a sí fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che
s'altra è maggia», cioè maggiore, «nulla è sí spiacente». «Ed egli a me», rispuose cosí: - «La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu se', «ch'è piena
D'invidia», ed énne piena «sí, che giá trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella n'è sí piena, che ella
non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga
agli effetti, li quali dalla invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra l'altre invidie che in
Firenze erano, ve n'era una, la quale gittò molto danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla
quale era portata; e questa era la 'nvidia, la quale portava la famiglia de' Donati alla famiglia de'
Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no,
vedendosi tutto dí davanti, sí come vicini in cittá e in contado, la famiglia de' Cerchi, li quali in quei
tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento
della cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne
tanta che, com'è detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la
versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino, «in la vita serena», cioè in questa vita mortale,
la quale chiama «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.
[Lez. XXIV]
«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di corte;
ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della
gola, [era morditore di parole, e] le sue usanze erano sempre co' gentiliuomini e ricchi, e
massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali se
chiamato era a mangiare, v'andava, e similmente se invitato non era, esso medesimo s'invitava. Ed
era per questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo, egli era costumato
uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era
assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi,
alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto,
grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia «per
la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio
dell'inferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola
212
«dannosa colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí come piú
distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.
«Ed io anima trista»; e veramente è trista l'anima di chi a sí fatta perdizion viene, «non son
sola»; quasi voglia dire, non vorre' che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò
«Che tutte queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena stanno», che fo io,
e «Per simil colpa» - cioè per lo vizio della gola: «e», detto questo, «piú non fe' parola».
«Io gli risposi», cioè gli dissi: - «Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni per la dannosa
colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «ch'a lagrimar m'invita»: e mostra qui l'autore d'aver
compassione di lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di
domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar m'invita», non dice perciò che lacrimasse;
volendo, per questo, mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta
essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimorsione del
suo non pieno peccato ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno i
cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in que' tempi Firenze era tutta divisa in due
sètte, delle quali l'una si chiamavano Bianchi e l'altra Neri; ed era caporale della setta de' Bianchi
messer Vieri de' Cerchi, e di quella de' Neri messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta
da Pistoia, dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «S'alcun v'è
giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non alla singularitá d'alcuna setta; «e
dimmi la cagione, Perché l'ha tanta discordia assalita». - Domandalo adunque l'autore di tre cose,
alle quali Ciacco secondo l'ordine della domanda successivamente risponde.
«Ed egli a me» (supple) rispose alla prima: - «Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga riotta
di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme.
Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte, tutti
andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che, la sera di calendimaggio
milletrecento, faccendosi in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani
dell'una setta e dell'altra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e quivi
primieramente cominciarono l'una parte a sospignere l'altra, e da questo vennero a sconce parole, e
ultimamente, cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti a' ferri, molti
vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il
naso, di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio cominciamento,
percioché in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono
le dette sètte.
«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia», percioché messer Vieri
de' Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, e' suoi consorti, erano tutti ricchi e
agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno
a' costumi cittadineschi, percioché non erano accostanti all'usanze degli uomini, né gli
careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá l'altra»
parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni
ne fosser mandati dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli
uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende l'autor qui che la parte selvaggia, cioè
Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò
avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute da' Neri,
furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú gravi a' Neri che a' Bianchi, quanto
aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto de' Bianchi.
«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia»,
dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni;
percioché il sole circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto, li quali noi
chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè
il circuito intero d'un sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del sole,
che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché,
vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, n'andò messer Corso Donati in corte di Roma a papa
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Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno de'
reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo
d'Acquasparta cardinale e legato di papa non s'era potuta racconciare, non volendo i Bianchi
ubbidire al detto legato. Per li prieghi de' quali, non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri
con messer Corso, per la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale
ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il quale sotto nome di
paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali l'opere sue, che, a' dí 4 d'aprile 1302, tutti i caporali
di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean tenere, contro al detto
messer Carlo non comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati
furono da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella parte Nera. Appare
dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e l'altra sormontata.
[Nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani,
percioché in essa distesamente si pone.]
Séguita poi: «e che l'altra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come mostrato è
di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale
mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa
vogliono alcuni in questa discordia de' Bianchi e de' Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè
d'aver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace, avervi mandato
il cardinal d'Acquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché
l'animo tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da
messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo, sí come egli volle e
occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne,
come di sopra appare: e perciò l'autore dice essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera,
con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.
«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo tempo»
non è ancora venuto meno, «Tenendo l'altra», parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare
fuori di casa sua in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che n'adonti», cioè tu
Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella fu cacciato di
Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro
fanno alli quali pare ricever torto.
«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dall'autore dove di sopra
disse «s'alcun v'è giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine, v'ha due che son giusti. Quali questi
due si sieno, sarebbe grave lo 'ndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel
traggano, che voglion dire essere stato l'uno l'autor medesimo, e l'altro Guido Cavalcanti, il quale
era d'una medesima setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.
«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville c'hanno i cuori accesi». - Qui risponde
Ciacco alla terza domanda fatta dall'autore di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché l'ha tanta
discordia assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale era
grande in messer Vieri e ne' consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per
questo essendo male accostevoli a' cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia.
Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere stata invidia, la quale sente l'autore essere
stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era
grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole
avvenire; ché sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò,
v'era la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano,
portavano invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati
gl'ingegni e sospinti a trovar delle vie e de' modi, per li quali la discordia s'avanzò, e poi ne seguí
quello ch'è mostrato.] Il terzo vizio dice essere l'avarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che
non si conviene quello che l'uom possiede, e in disiderare piú che non bisogna altrui d'avere; e cosí
può essere stata, e nell'una parte e nell'altra, cagione di discordia: nell'una, cioè nella Bianca, della
quale erano caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero
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co' lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte
Nera, se stati fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia a' piú
ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro
non era di necessitá; il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita de' loro avversari. E
cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare.
«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo
«lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertá e di miseria e di pianto, e
tra gli altri all'autor medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo esilio.
[Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché singular
grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non
pare che convenientemente qui l'autore induca l'anima di Ciacco dannata a dover predire le cose, le
quali scrive gli predisse. Alla soluzione del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero
alcuna cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati
hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella loro
creazione certe grazie, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente conoscere che, quantunque
gli angeli, li quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine
privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro creazione avea loro
conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio,
percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e
per conseguente maggiore supplicio sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore l'anime nostre
perfette e simiglianti a sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire
a' beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute
da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da
Dio, sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la
memoria, l'eternitá e lo 'ntelletto, e in queste cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella
sua ira moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá, la quale
conceduta n'ha. E se questa rimane a' dannati, meritamente delle cose future si possono
addomandare, ed essi ne posson rispondere: per che non pare che l'autore inconvenientemente abbia
del futuro addomandata l'anima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute, pare che si
provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi: «Dixit Deus: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram». - E se fece egli questo, che il fece,
dunque abbiam noi le cose predette.]
[È il vero che queste cose furon concedute all'anima e non al corpo, percioché il corpo
nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché Domeneddio, come altra volta è
detto, non ha né mani né piedi né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma possan comprendere i misteri,
che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute all'anima, la quale esso per
ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è l'uomo, mentre ella sta congiunta col
corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come che tutti gli eserciti l'anima mentre viviamo,
nondimeno alcuni n'esercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne sia
conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo
oppressa da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser
divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto
dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra in libro De divinatione, in quanto, quasi alleviata
ne' sogni, ne dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a
Simonide poeta, volente d'una parte in un'altra navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della
sua anima nel sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal
mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo, vedere, e udire da lui: Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi d'andare, percioché ella perirá con
quegli che su vi fieno in questo viaggio. - Per la qual cosa Simonide s'astenne; né molti dí
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passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave esser perita. Non fu similemente non una
volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage che 'l figliuolo, il quale di Mandane, sua unica
figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio d'Asia? parendogli la prima volta che l'orina della
figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i
palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon
narrare infinite, le quali per certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer l'anima, né le potrebbe
mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato libro, mostra l'anima molto
della sua divinitá, quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il
corpo debole, piú pare che sia il vigor dell'anima, e massimamente in quanto, per l'essere le forze
corporali diminuite, non pare che possano gravar l'anima, come quando intere sono. E che l'anima
mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del corpo, s'è assai volte, non dormendo, ma
vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio, famoso filosofo, avere avuto, che
uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso
di sé morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi essere
ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano d'India, essendo salito, nella presenza
d'Alessandro, re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e
domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose: - Io ti vedrò di
qui a pochi dí; - e quindi, fatto accendere il rogo, si morí. Non istette guari che Alessandro morí in
Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in que' tempi io non era, io odo che in questa cittá
avvenne a molti nell'anno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini
dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de' loro amici, chi uno e chi due e chi piú
ne chiamò, dicendo: - vienne, tale e tale, - de' quali chiamati e nominati, assai, secondo l'ordine
tenuto dal chiamatore, s'eran morti e andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare
nell'anime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto noiata da gl'impedimenti corporali, e
nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo
esse ne' corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano intorno a questa lor divinitá dover
potere adoperare, quando del tutto da' corpi libere sono? E' non è dubbio che molto piú la debban
poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente l'autore aver domandata l'anima dannata, come
altra volta è stato detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio
moveano, volevan mostrare.]
[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in alcuna sua
consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma dobbiam credere che, se per virtú di questa
divinitá essa prevede alcuna felicitá d'alcuno, questo essere ad accrescimento della sua miseria, e
cosí il prevedere gl'infortuni, li quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.]
«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi: - «Ancor», oltre a ciò che detto m'hai, «vo' che
m'insegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti
«e 'l Tegghiaio», Aldobrandi, «che fûr sí degni» d'onore, quanto è al giudicio de' volgari, li quali
sempre secondo l'apparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono
o che importino; «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», de' Lamberti.
Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i loro
nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda l'autore, dimostrando poi in generalitá
degli altri.
«E gli altri», nostri cittadini, «che 'n ben far», corteseggiando e onorando altrui, non a ben
fare secondo Iddio, «poser gl'ingegni», cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu
il sai, «ove sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e fa' ch'io gli conosca»; quasi voglia
dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto
tormento, nel quale se', gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere Se 'l ciel gli
addolcia», cioè con dolcezza consola, «o l'inferno gli attosca», - cioè riempie d'amaritudine e di
tormento.
«E quegli» (supple) rispose: - «Ei son», coloro de' quali tu domandi, «tra l'anime piú nere».
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Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli, per
superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso; e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto
che noi non pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi pecchiamo,
incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú
pecchiamo, in maggiore oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, de' quali l'autore
domanda, essere tra «l'anime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne la cagione dicendo: «Diverse
colpe giú gli grava al fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della
sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá di Dite nel canto
decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e 'l Mosca, perché fu scismatico,
nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá, che non è la
gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo dell'inferno. «Se tanto scendi», quanto essi
son giuso, «gli potrai vedere».
«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia
l'amaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale
non è cosa alcuna, altro che piena d'angoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti ch'alla mente altrui
mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole, possiam comprendere quanta sia la
dolcezza della fama, la quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno
non l'ha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio lasciare, che egli non
addomandasse che l'autore di lui, tornato di qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti.
«Piú non ti dico», cioè d'altro non ti priego, «e piú non ti rispondo», - alle cose delle quali
domandato m'hai.
«Li diritti occhi», co' quali infino a quel punto guardato avea l'autore, «torse allora in
biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un
poco»: atto è di coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di vedere coloro che
davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con essa a par degli altri ciechi», cioè de' dannati a
quella medesima pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto hanno il
vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio.
«E 'l duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto: - «Piú non si desta», cioè non si rileva
piú; e cosí pare che, tra l'altre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per
alcuna cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare né parlare; «Di
qua dal suon dell'angelica tromba», cioè di qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da
Dio verrá, e con altissima voce, quasi sia una tromba, e' dirá: - «Surgite, mortui, et venite ad
iudicium»; - «Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il
Padre ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il
vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma
ciò non fia vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui
il quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla
sentenza. Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli
trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui che
meritamente gli riprende.]
E seguisce, al suono dell'angelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice
«rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata
guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne e sua
figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza, [sará loro in questo cortese, non per lor
bene o consolazione, ma accioché il corpo, il quale fu strumento dell'anima a commettere le colpe
per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá
quel che in eterno rimbomba», cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la
sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá a' dannati: - «Ite maledicti in ignem aeternum», - ecc., le
quali parole in eterno non caderanno della mente loro.
«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale l'autore
muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí
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ragionando, «trapassammo», lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dell'ombre e della pioggia», la
quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza ancora diveniva per la terra,
la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non
pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco la vita futura»,
cioè ragionando della futura vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione de' corpi, sí per le
parole passate, e sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dall'autore.
«Perch'io dissi: - Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, «esti
tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data
da Dio nell'ultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o saran sí cocenti»,
- come sono al presente?
«Ed egli a me» (supple) rispose: - «Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol, quanto
la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la doglienza». E questo ci è tutto il dí manifesto,
percioché noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e
saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e
spiacevoli; vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura,
dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e gl'incendi molte volte fattigli nella
persona: e cosí adunque, sí come séguita, dobbiam credere dovere avvenire a' dannati, quando i
corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.
«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera perfezion».
«Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa, la quale di non
perfetta divien perfetta: e, percioché ne' dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per
riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti, dice l'autore: «In vera perfezion
giammai non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in
quanto riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di
gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di
perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere
aspetta», - in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non
hanno o avranno infino al dí che i corpi riprenderanno.
«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale l'autor mostra dove
pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è
quello luogo, come molte volte è stato detto; «Parlando piú assai ch'io non ridico», pure intorno alla
vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si disgrada», per discendere nel quarto
cerchio dello 'nferno. «Quivi trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.
Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui
l'autore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá appresso, esso significa le
ricchezze terrene, le quali in tanto sono a' mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il
possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo nell'Evangelio: essere piú
malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dell'ago.
[Le quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che ad alcun dottor
piace, si deono intendere cosí: cioè essere in Ierusalem stata una porta chiamata Cruna d'ago, sí
piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato v'entrava.
E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè all'abbondante di qualunque sustanza,
ma in singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare
vogliono in paradiso, l'entrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro
entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche, ecc.]
II
SENSO ALLEGORICO
218
[Lez. XXV]
«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo canto l'autore, sí come di
sopra ha fatto negli altri, cosí si continua alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la
ragione, come i lussuriosi, li quali nell'ira di Dio muoiono, sieno dalla divina giustizia puniti; e
percioché la colpa della gola è piú grave che il peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione
della lussuria, e non e converso, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come il giudicio di
Dio con eterno supplicio punisca i golosi.
A detestazion de' quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello che sotto la
corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano cominceremo.
Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e, separate l'acque, e quelle,
oltre all'universal fonte, per molti fiumi su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, l'erbe e
gli animali, e di quegli riempiute l'acque, l'aere e le selve, tanto fu cortese a' nostri primi parenti,
che, non ostante che contro al suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse
di paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise alli lor piedi, sí come dice il
salmista: «Omnia subiecisti sub pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres
caeli, et pisces maris, qui perambulant semitas maris»; e, come queste, cosí molto maggiormente i
frutti prodotti dalla terra, di sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier
fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e visse innocua l'umana generazione
dopo 'l diluvio universale. I cibi della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era a' rozzi popoli
non men soave al gusto, che oggi sia a' golosi di qualunque piú morbido pane; le mele salvatiche, le
castagne, i fichi, le noci e mille spezie di frutti, de' quali cosí come spontanei producitori erano gli
alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a ciò, le radici dell'erbe, l'erbe
medesime piene d'infiniti, salutevoli non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle
pecore, delle capre, de' buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne, vestimenti e calzamenti,
senza alcun servigio di beccaro, di sarto o di calzolaio; oltre a ciò, l'api, sollecito animale, senza
alcuna ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la loro naturale piú tosto
che provocata sete saziavano le chiare fonti, i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a
queste prime genti le recenti ombre de' pini, delle querce, degli olmi e degli altri arbori
temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan via la noia de' ghiacci, delle brine, delle
nevi e dei freddi tempi; le spelunche de' monti, dalle mani della natura fabbricate, da' venti
impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e i fioriti e verdeggianti prati
dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero di guerra, di navicazione, di mercatanzia o d'arte gli
stimolava; ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata l'avea. Niuno
ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra loro bomere, né falce, né coltello, né
lancia. I loro esercizi erano intorno a' giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali alcun
comodo si vedeano. Era in que' tempi la pudicizia delle femmine salva e onorata; la vita in ciascuna
sua parte sobria e temperata e, senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; l'etá de' giovani
robusta e solida, e la vecchiezza de' lor maggiori venerabile e riposata. Non si sapeva che invidia si
fosse, non avarizia, non malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá ne' petti di tutti
abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá discrivono, «aurea» si potea chiamare.
Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò tacitamente ne' cuori
d'alcuni ad entrare l'ambizione, e quinci il disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne
Cerere, la quale appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il ricogliere il grano e
fare il pane: Bacco recò d'India il mescolare il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che
l'usato; e con appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le cortecce degli
alberi indiani, le radici e' sughi di certe piante, e quelle a mescolare insieme, e a confondere nel
mèle i sapori naturali, e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in
dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti ingegnosi, trovato modo di
tirare in terra con reti i gran pesci del mare, e di ritenere ne' boschi le fiere, e ancora d'ingannare gli
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uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la terra riposatasi lungamente,
cominciata a fendere, e 'l mare a solcar da' navili, e portare d'un luogo in un altro, e recare, i viziosi
princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí come piú atta a ciò, Asia sí per gli
artifici di Sardanapalo, re degli assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come lo
'ncendio suol comprender le parti circostanti, cosí l'Egitto, cosí la Grecia tutta comprese, in tanto
che giá non solamente ne' maggiori, ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e 'l vino, e in
ogni cosa lasciata l'antica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto questo veleno, agl'italiani
similmente pervenne; e credesi che di quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né
Quinzi né Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano; e giá era perfetta la
terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno, re d'Asia e di Siria, da Scipione asiatico, quando
primieramente il cuocere divenne, di mestiere, arte.
È intra 'l mestiere e l'arte questa differenza, che il mestiere è uno esercizio, nel quale niuna
opera manuale, che dallo 'ngegno proceda, s'adopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo
esercizio non fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere a' tempi che io
dico, ne' quali si metteva la carne nella caldaia, e quel servo della casa, il quale era meno utile agli
altri servigi, faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a poterla rompere e
tritar co' denti. Arte è quella intorno alla quale non solamente l'opera manuale, ma ancora lo
'ngegno e la 'ndustria dell'artefice s'adopera, sí come è il comporre una statua, dove, a doverla
proporzionare debitamente, si fatica molto lo 'ngegno; e sí come è il cuocere oggi, al quale non
basta far bollir la caldaia, ma vi si richiede l'artificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia
saporito, sia odorifero, sia bello all'occhio, non abbia alcun sapore noioso al gusto, come sarebbe o
troppo salato o troppo acetoso o troppo forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o
di fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.
Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in Roma, in che appare la
modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le ricchezze e' costumi asiatichi v'entrarono, con
grandissimo danno del romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che alcuni
credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si sparse per tutto, accioché i membri
dal capo non fosser diversi; e non che le ghiande e' salvatichi pomi e l'erbe o le fontane e' rivi
fossero in dispregio avute, ma e' furono ancora poco prezzati i familiari irritamenti della gola: e per
tutto si mandava per gli uccelli, per le cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di
lontano, tanto di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai a' golosi miseri l'avere i lacciuoli,
le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere
il ventre misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé e' loro deono corrompere,
fossero gli odori arabici, accioché, confortato il naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú
forte all'ingiurie de' vapori surgenti dallo stomaco, e l'appetito piú fervente al disiderio del
consumare. Né furono ancora contenti a' cibi soli, ma dove l'acqua solea salutiferamente spegner la
sete, trovati infiniti modi d'accenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie di vini
hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá de' terreni e delle regioni danno loro,
ancora con misture varie gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché piú lungo
spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno introdotto che ne' triclini, nelle sale, alle
mense sieno intromessi i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò, mille maniere
di confabulazioni ne' lor conviti, accioché la sete non cessi. Se i familiari ragionamenti venisser
meno, si ragiona, come Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo della luna,
della varietá degli elementi; e da questi subitamente si trasvá alle spezie de' beveraggi che usano
gl'indiani, alle qualitá de' vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore
de' galli, alla soavitá de' cretici: né passa intera alcuna novelletta di queste, che rinfrescare i vini e'
vasi non si comandi. Ed è tanto questa maladizione di secolo in secolo, d'etá in etá perseverata e
discesa, che infino a' nostri tempi, con molte maggior forze che ne' passati, è pervenuta; e, secondo
il mio giudicio, dove che abbia ella molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia,
dove ella con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa appo i toscani; e forse non
men che altrove appo i nostri cittadini nel tempo presente. Con dolore il dico: e, se l'autore non
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avesse solamente Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio, nominato,
forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume mi passerei. Questo, adunque, mi trae a
dimostrare la nostra dannosa colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro a' luoghi riposti
delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco insieme, e con gli altri,
s'avveggano e arrossino della disonestá la quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si
converrebbe, ma pure alcuna cosa ne dirò.
È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a me paia, l'eccesso della
gola, che quasi alcuno atto non ci si fa, né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a
bere non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici trangugiati, l'estorsioni
dell'arti e ne' sindacati, il mobile de' debitori dovuto alle vedove e a' pupilli, le limosine lasciate a'
poveri e alle fraternite, l'esecuzioni testamentarie, le quistioni arbitrarie, e a qualunque altra pietosa
cosa, non solamente i laici, ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si fa
come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto d'ogni convenevolezza trapassato il segno,
che gli apparati reali, le mense pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a dietro;
né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile, quantunque superba sia, si riguarda;
ogni modo, ogni misura, ogni convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi ne' nostri conviti le
confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini non d'una ma di molte maniere; e
son di quegli, che, senza vergogna, d'oro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con
industrioso artificio cotte. Lascio stare gl'intramessi, il numero delle vivande, [i savori] di sapori e
di color diversissimi, e le importabili some de' taglieri carichi di vivande tra poche persone messi,
le quali son tante e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra le quali poste
sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le
ribole, le malvagíe, le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or volesse Iddio
che solo a' principi della cittá questo inconveniente avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della
ignoranza sparta, che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori, queste medesime
magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In
queste cosí oneste e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri s'empiano,
come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come i cuori infiammino, assai leggier
cosa è da comprendere a chi vi vuole riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi
divengono intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua, millantavisi, dicevisi male
d'ogni uomo e di Dio; e talvolta, non potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che
faccia il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente s'è insaccato; e in queste medesime cosí
laudevoli cene s'ordina e solida lo stato della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi
l'opportunitá cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio de' savi rimanga. In
queste si condanna e assolve cui il vino conforta, o cui l'ampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e
coloro, a' quali i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o avvocati, le piú
delle volte ottengono nelle lor bisogne.
Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli da esso molto offeso
sia.
Ma, che che esso alle misere anime s'apparecchi nell'altra vita, è assai manifesto lui a' corpi
essere assai nocivo nella presente. Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che
l'usano, essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo, e innanzi tempo divenir
vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò
che dentro cacciato v'è per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto, convien che
rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi, tiene afflitti i miseri che la intrinseca
passion sentono, raffredda e contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali, per
ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan le giunture, creano le podagre, fanno
l'uom paralitico, fanno gli occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore, le
mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il fiato odibile e fetido; senza che essi, e
meritamente e senza modo, tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano. Per le
quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano, urlano e abbaiano come cani. Cosí
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adunque la rozza sobrietá, la rustica simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane,
gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie, ebrietá e tumultuosa miseria, come
dimostrato è. Per che possiam comprendere l'autore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa
della gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e a' publici danni e a'
privati, de' quali ella è per lo passato stata cagione.
I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi, gustarono del legno
proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo furon cacciati del paradiso, e noi con loro
insieme; e, oltre a ciò, per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e l'eterna, se Cristo
stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo
fratello, perdé la sua primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per l'avere con la sommitá d'una
verga, la quale aveva in mano, gustato d'un fiaro di mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della
morte dettata. Certi sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il dí seguente
tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello Evangelio, il qual continuo splendidamente
mangiava, fu seppellito in inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in far
festa, cosí furon da' greci presi; e quel, che l'arme e l'assedio sostenuto dieci anni non avean potuto
fare, feciono i cibi e 'l vino d'una cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle,
furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta gente d'Annibale, la quale né
il lungo cammino, né i freddi dell'Alpi, né l'armi de' romani non avean mai potuto vincere, da' cibi e
dal vino de' capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi. Noé, avendo gustato il vino
e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e
ischernito. Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole recato a giacer con
loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le
tempie, ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí, spazio di uccidere e
di tagliare insieme co' suoi compagni l'esercito di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne,
avendo molto bevuto, diede ampissimo spazio d'uccidersi a Iudit. E le figliuole di Prito, re degli
argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta bestialitá, che esse estimavano d'essere vacche.
Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola stati, conciosiacosaché io
conosca quegli essere infiniti? E perciò riducendosi verso la finale intenzione, come assai
comprender si puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali l'una pecca nel
disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali
senza intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di questi cotali, quasi come di
disutili animali, si dice che essi vivono per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa
spezie di gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro che al ventre non
serve. La seconda pecca nel disordinato diletto del bere, intorno al quale non solamente con ogni
sollecitudine cercano i dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano, non
avendo riguardo a quello che contro a questo nel Libro della Sapienza ammaestrati siamo, nel quale
si legge: «Ne intuearis vinum, cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo
mordebit, ut coluber». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie di gulosi maravigliandosi, Iob
dice: «Numquid potest quis gustare, quod gustatum affert mortem?» Né è dubbio alcuno la ebrietá
essere stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato. È questa gulositá
madre della lussuria, come assai chiaramente testifica Ieremia, dicendo: «Venter mero aestuans,
facile despumat in libidinem»; e Salomon dice: «Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa ebrietas;
quicumque in his delectabitur, non erit sapiens»; e san Paolo, volendoci far cauti contro alla forza
del vino, similmente ammaestrandoci, dice: «Nolite inebriari vino, in quo est luxuria». È ancora
questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi che ha il bevitore privato d'ogni
razional sentimento, apre e manifesta e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e
arcana: di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono tutto il dí. Ella è prodiga
gittatrice de' suoi beni e degli altrui, sorda alle riprensioni, e d'ogni laudabile costume guastatrice.
La terza maniera è de' golosi, li quali, in ciascheduna delle predette cose, fuori d'ogni misura
bevendo e mangiando e agognando, trapassano il segno della ragione; de' quali si può dire quella
parola di Iob: «Bibunt indignationem, quasi aquam». Ma, secondo che si legge nel salmo: «Amara
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erit potio bibentibus illam»; e come Seneca a Lucillo scrive nella ventiquattresima epistola: «Ipsae
voluptates in tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum torporem,
tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum omnium depravationes» ecc. Questi
adunque tutti ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori, abbaiatori,
cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi,
stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze sono;
vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli ne' pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi,
consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo de' sobri. E,
percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi guastano, non solamente a' sensati
uomini, ma ancora a Dio sono tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione
son giustamente dannati; e, secondo che l'autor ne dimostra, nel terzo cerchio dello 'nferno della
loro scellerata vita sono sotto debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú
chiaro come sia con la colpa conforme, n'è di necessitá di dimostrare brievemente.
Dice adunque l'autore che essi giacciono sopra il suolo della terra marcio, putrido, fetido e
fastidioso, non altrimenti che 'l porco giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre
addosso «grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione di gravissima
doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani: e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o
parla, giace poi senza parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro in perpetuo
sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre teste e altrettante gole, né mai ristá
d'abbaiare. E ha questo dimonio gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani
unghiate, e, oltre all'abbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri dannati, li quali, udendo il suo
continuo abbaiare, disiderano d'essere sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare
che la divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come essi, oziosi e gravi del
cibo e del vino, col ventre pieno giacquero in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare
convenirsi che, contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi giacciano in eterno
distesi, col loro spesso volgersi testificando i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá
di diverse torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari vini il misero gusto
appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine
grossa, che gli percuote, la cruditá degl'indigesti cibi, la quale, per non potere essi, per lo soperchio,
dallo stomaco esser cotti, generò ne' miseri l'aggroppamento de' nervi nelle giunture; e per l'acqua
tinta, non solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio de' quali similmente generò
in loro umori dannosi, i quali per le gambe, per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi
vivendo versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale non lucidi ma
invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati. E, cosí come essi non
furono contenti solamente alle dilicate vivande, né a' savorosi vini, né eziandio a' salsamenti spesso
escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dall'indiane spezie e dalle sabee odoriferi;
vuole la divina giustizia che essi sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in
luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che l'autore discrive. E appresso, come essi furono
detrattori, millantatori e maldicenti, cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di
tanto che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti, non altramenti che cani
abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti
Cerbero, il quale ha qui a disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di
quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo della dolcezza de' canti, li quali ne'
lor conviti usavano, abbiano il terribile suono delle sue gole, il quale gl'intuoni, e senza pro gli
faccia disiderare d'esser sordi.
Ma resta a vedere quello che l'autor voglia intendere per Cerbero, la qual cosa sotto assai
sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta è stato detto, fu cane di Plutone, re d'inferno, e
guardiano della porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi voleva, ma
uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, l'autore discrive per lui questo dannoso vizio
della gola, al quale intendimento assai bene si conforma l'etimologia del nome. Vuole, secondo che
piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «creon vorans», cioè «divorator di carne»; intorno alla
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qual cosa, come piú volte è detto di sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in
questo dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane», percioché ogni cane
naturalmente è guloso, né n'è alcuno che se troverá da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi
tanto che gli convien venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.
Per le tre gole canine di questo cane intende l'autore le tre spezie de' ghiotti poco davanti
disegnate; e in quanto dice questo demonio caninamente latrare, vuole esprimere l'uno de' due
costumi, o amenduni de' gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e 'l piú in male, e
massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente si può dire «latrar canino», in quanto
non espediscon bene le parole, per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi
sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa umiditá; e, oltre a ciò, percioché i
cani, se non è o per esser battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai; il
che avviene spesse volte de' gulosi, li quali come sentono o che impedimento sopravvegna, o che
veggano per caso diminuire quello che essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e
latrano. E, oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda sempre piú
all'osso che rode il compagno che a quello che esso medesimo divora, cosí i gulosi tengono non
meno gli occhi a' ghiotti bocconi che mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri
rimangono, che a quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di mangee e
divisatori di quelle.
E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol s'intenda un degli effetti della
gola ne' golosi, a' quali, per soperchio bere, i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri
nella testa, li quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e lagrimosi.
Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto mangiare non si possa fare
senza difficultá nettamente, e cosí, non potendosi, è di necessita ugnersi la barba o 'l mento o 'l
petto; e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio sia nera, percioché 'l piú
ogni unzione annerisce i peli, fuorché i canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e
dire che, conciosiacosaché per la barba s'intenda la nostra virilitá, la quale, quantunque per la barba
s'intenda, non perciò consiste in essa, ma nel vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto
l'uomo virtuosamente adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni di onore; dove
qui, per la virilitá divenuta nera, vuole l'autore s'intenda nella colpa della gola quella essere
depravata e divenuta malvagia.
Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il molto divorar de' gulosi, li
quali, con la quantitá grande del cibo, per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre
alla natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta dentro vi cacciano, che, non
sostenendolo la grandezza del tristo sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani
costretti a gittar fuori.
E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuol che s'intenda il distinguere e
il partire che fa il ghiotto delle vivande; e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa
vede che piú che alcuna altra gli piaccia.
Appresso, dove l'autor dice questo demonio non tener fermo alcun membro, vuol che
s'intenda la infermitá paralitica, la quale ne' gulosi si genera per li non bene digesti cibi nello
stomaco; o, secondo che alcuni altri vogliono, ne' bevitori per lo molto bere, e massimamente
senz'acqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare gl'incomposti movimenti
dell'ebbro.
Oltre a ciò, lá dove l'autore scrive che questo demonio, come gli vide, aperse le bocche e
mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro costume de' gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi
si mostrano; o intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la forza del cane,
dimostrarsi subitamente la forza de' golosi, la qual consiste in offendere i paurosi con mordaci
parole, alle quali fine por non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o bere.
La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per non avere a litigar della veritá con cosí
fatta gente, fa prestamente, volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come è
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detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio uomo fatto, cosí è al ghiotto
serrata la gola e posto silenzio. E in questo pare che si termini in questo canto l'allegoria.
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CANTO SETTIMO
I
SENSO LETTERALE
[Lez. XXVI]
- «Papé Satan, papé Satan aleppe», - ecc. Nel presente canto l'autore, sí come è usato ne'
passati, continuandosi alle cose precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello
'nferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra come discendesse nel quinto,
discrivendo quali colpe e nell'un cerchio e nell'altro si puniscano. E dividesi questo canto in due
parti principali: nella prima mostra l'autore esser puniti gli avari e' prodighi; nella seconda mostra
esser puniti gl'iracondi e gli accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo omai a
maggior pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi alle cose precedenti,
mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda
discrive qual pena avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi e' fossero; nella terza dimostra che
cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la
terza quivi: - «Maestro, - diss'io lui».
Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra, trovato Plutone,
«il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide, admirative cominciò a gridare, ed a invocare il
prencipe de' dimòni, dicendo: - «Papé».
Questo vocabolo è adverbium admirandi, e perciò, quando d'alcuna cosa ci maravigliamo,
usiamo questo vocabolo dicendo: «papé!». E da questo vocabolo si forma il nome del sommo
pontefice, cioè «papa», l'autoritá del quale è tanta, che ne' nostri intelletti genera ammirazione; e
non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale l'autoritá divina, e di tanto signore, quanto è
Iddio, il vicariato. E i greci ancora chiamavano i lor preti «papas», quasi «ammirabili»: e
ammirabili sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e 'l sangue del nostro
signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autoritá di sciogliere e di legare i peccatori che da loro si
confessano delle lor colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del quale siede
il vicario di san Pietro.
«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe de' demòni, e
suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario» o «trasgressore», percioché egli è
avversario della veritá, e nemico delle virtú de' santi uomini; e similmente si può vedere lui essere
stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella quale fu creato, ma per superbia
trapassò il segno del dover suo.
«Papé Satán». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare l'ammirazione esser
maggiore.
E seguita: «aleppe». «Alep» è la prima lettera dell'alfabeto de' giudei, la quale egli usano a
quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè «a»; ed è «alep» appo gli ebrei adverbium
dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima voce la quale esprime
il fanciullo come è nato, a dimostrazione che egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di
dolore e di miseria.
Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta, cioè che alcun vivo
uomo vada per lo 'nferno; e, temendo questo non sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore
il suo maggiore; e, accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam dire, seguendo
le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a
rapire Proserpina, reina di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e del
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luogo e degli uficiali di quello: veggendo l'autor vivo, né temer de' dimòni, ad un'ora si maraviglia e
teme, e però admirative, e dolendosi, chiama il prencipe suo.
«Cominciò Pluto», (supple) a dire o a gridare, «con la voce chioccia», cioè non chiara né
espedita, come il piú fanno coloro i quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò,
cominciò Pluto a gridare per ispaventar l'autore, sí come ne' cerchi superiori si son sforzati Minos e
Cerbero nell'entrata de' detti cerchi, accioché per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal
dare effetto alla sua buona intenzione.
[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che i poeti dicono, Plutone, il
quale i latini chiamano Dispiter, fu figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto
con Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e, secondo dice Eusebio in
libro Temporum, il nome suo fu Aidoneo. Fu costui dagli antichi chiamato re d'inferno, e la sua real
cittá dissero essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon Pilato diceva
essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di Cerere: de' quali quantunque qui siano assai
succintamente le fizioni descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché l'autore qui questo
Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si debbano lá dove l'altre allegorie si
parranno, quivi le riserberemo, e diffusamente con la grazia di Dio l'apriremo.]
«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual veramente quanto all'arti e
scienze mondane appartiene, tutto seppe: percioché, oltre all'arti liberali, egli seppe filosofia morale
e naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro uomo a' suoi tempi seppe
la scienza sacerdotale, la quale allora era in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi: - Non ti
noccia La sua paura», la quale egli o mostra d'avere in sé, o vuol mettere in te di sé; e dove della
paura di Plutone dica, vuol mostrare l'autore per ciò esser da Virgilio confortato, peroché
generalmente ogni fiero animale si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che
abbia della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura di Plutone esser quella della
quale poco avanti è detto: «ché poter ch'egli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia», - cioè
questo balzo.
«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto, «E disse: - Taci, maledetto
lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché s'intenda per lui il vizio dell'avarizia, al quale è preposto:
il qual vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto fu assai
pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia», la quale continuamente, con
inestinguibile ardore di piú avere, ti sollecita e infesta. «Non è senza cagion l'andare», di costui, «al
cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio ch'egli vada, «nell'alto», cioè in cielo,
«lá dove Michele», arcangelo, «Fe' la vendetta del superbo strupo», - cioè del Lucifero, il quale,
come nell'Apocalissi si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso, insieme co' suoi seguaci. E
chiamalo «strupo», quasi violatore col suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú
non era stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua superbia quello nella deitá
aver tentato, che nelle vergini tentano gli strupatori.
«Quali». Qui per una comparazione dimostra l'autore come la rabbia di Plutone vinta
cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le gonfiate vele», cioè che come le vele
gonfiate dal vento soperchio, «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che l'alber fiacca», cioè
l'albero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde a terra la fiera crudele», cioè
Plutone.
«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo canto, nella quale
l'autore dimostra qual pena abbiano i peccatori, li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi
essi sieno; e dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella quarta lacca»,
cioè parte d'inferno, cosí dinominandola per consonare alla precedente e alla seguente rima:
«Pigliando piú della dolente ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo; e,
accioché di qual ripa dica s'intenda, segue: «Che 'l mal», cioè le colpe e i peccati, «dell'universo»,
di tutto il mondo, «tutto insacca», cioè in sé insaccato riceve.
Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove travaglie?». Vuolsi
questa lettera intendere interrogative e con questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè
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ripone, «tante nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io viddi» in questo
luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa», cioè il nostro male adoperare peccando, «se
ne scipa»? cioè se ne confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena, o ne' morti
dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole mostrar l'autore di maravigliarsi per la
moltitudine.
Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo i peccatori nel
tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa l'onda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel
fare di Messina. Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e una punta di
Calavria, ch'è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra
chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a
tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da «pharos», che tanto suona in latino
quanto «divisione»; e per ciò è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che l'isola di
Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di
Cicilia dal monte Appennino, il quale è in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E
sono de' moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e la ragione, che a ciò
inducono, è che dicono vedersi manifestamente, in quella parte di questi due monti che si spartí,
grandissime pietre nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle d'Appennino a quelle che
sono in Peloro, ed e converso. E, come di sopra è detto, questo mare cosí stretto è impetuosissimo e
pericolosissimo molto: e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano [come è
libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi sospingono il mare impetuosamente
verso questo fare, e per questo fare verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso
Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni dí naturale, [che sospignendo la
forza de' venti marini il mare verso la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare
Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta forza si percuotono e
rompono, che quasi infino al cielo pare che le rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi
s'abbattesse ad essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora sospignendo i
venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il
mare Tirreno e il flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo è quello
che l'autore vuol dire: «Come fa l'onda..., Che si frange con quella in cui s'intoppa». [E sono in
questo mare due cose mostruose, delle quali l'una ciò che davanti le si para trangugia, e questo si
chiama Silla, ed è dalla parte d'Italia; l'altra si chiama Cariddi, e questa gitta fuori ciò che Silla ha
trangugiato; ma, secondo il vero, questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra
dissi l'onde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo percuotersi, par che sieno del
profondo gittate fuori da coloro che non veggiono la cagione della elevazione.]
Dice adunque l'autore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato, le due onde di due
diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E
questo intende in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto cerchio, «la gente
riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori, in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi,
come fanno l'onde predette.
«Lí», nel quarto cerchio, «vid'io gente, piú ch'altrove, troppa»; e di questo non si dee alcun
maravigliare, percioché pochi son quelli che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E
poi dice a qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E d'una parte e d'altra con
grand'urli», cioè a destra e a sinistra, miseramente per la fatica e per lo dolore urlando, sí come
appresso piú chiaro si dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del petto
(ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro», cioè l'un contro all'altro con questi
pesi, li quali per forza voltavano, «e poscia», che percossi s'erano, «pur lí», cioè in quello
medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel medesimo sentiero che
venuti erano: in questo voltare, «Gridando», quegli dell'una parte incontro all'altra: - «Perché
tieni?»; - e incontro a questa gridava l'altra: - «E perché burli?» - cioè getti via. «Cosí tornavan»,
come percossi s'erano e avean gridato, «per lo cerchio tetro».
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Appare per queste parole che 'l viaggio di costoro era circulare, e che, venuta l'una parte dal
mezzo del cerchio nella parte opposita, scontrava l'altra parte, la quale, partitasi dal medesimo
termine che essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette l'un contro all'altro le parole di sopra
dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e veniva al punto del cerchio donde prima partita s'era; e
quivi ancora con l'altra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e quelle medesime
parole l'un contro all'altro diceano; e cosí senza riposo continovavano questa loro angoscia,
volgendosi «per lo cerchio tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano «all'opposito punto» del
cerchio, a quello onde partiti s'erano, «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso»,
vituperevole, «metro», cioè: - «Perché tieni? - E perché burli?». - Il quale l'autore chiama «metro»,
non perché metro sia, ma largamente parlando, come il piú volgarmente si fa, ogni orazione [o
brieve o lunga] misurata o non misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «metros», graece, che
in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi poetici sono chiamati «metri»,
percioché misurati sono da alcuna misura, secondo la qualitá del verso.
«Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quand'era giunto», al punto del
mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il
quale a lui era dalla divina giustizia stabilito, «all'altra giostra», cioè percossa: e chiamala
«giostra», percioché a similitudine de' giostratori s'andavano a ferire e a percuotere insieme.
«Ed io, ch'avea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale portava a tanta fatica e a
tanto tormento, quanto quello era il quale nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la
compunzione per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di questa colpa esser
peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere
stato impedito dalla lupa, cioè dall'avarizia. E in questo è da comprendere invano esser da noi
conosciuti i vizi e' peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli o poco o molto, noi non abbiam
dolore e compunzione. Né osta il dire: come avea l'autore compunzione dell'essere avaro, che
ancora, come nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché qui usa l'autore
una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi: - Maestro mio». Qui domanda l'autore Virgilio che
gente questa sia, e per qual colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale è
qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro dubbio, dicendo: e, oltre a quel
che domandato t'ho, mi di' «e se tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra». - «Chercuti»
gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora comprendeva loro per quello
dovere esser cherici.
«Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli, che erano cosí a man
destra come a man sinistra, ditermina; e poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli
dall'autore, e dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente dicendo: - «Tutti
quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra, «fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come
color ci paiono, li quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini poste negli
occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora per accidente: per accidente avviene per
difetto le piú delle volte delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno avuti a
nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra a quella parte ove tengon la testa; o
esse medesime, come spesse volte fanno, stando loro sopra capo, gl'inducono a guatarsi indietro, e i
fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte dove il lume veggono, e, non
potendosi muovere, si sforzano e torcono le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente
rimuovono la luce, o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon guerci.
Questa spezie d'uomini, quantunque non sia del tutto reputata giusta, non ha pertanto tanta di
malizia quanta hanno coloro li quali guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono
reputati uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti avere il giudicio della
mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]
E però dice: - «Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e malvagio giudicio ebbero
nella mente loro intorno alle cose temporali, «in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura
nullo spendio fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani, lá dove esse eran da
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allargare, o essi l'allargaron troppo, lá dove eran da strignere; e cosí né nell'una parte né nell'altra
servarono alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in cui si convenia].
«Assai la voce lor chiaro l'abbaia», cioè il manifesta quando dicono: - «Perché tieni? - E perché
burli?», - usando questo vocabolo «abbaia» nell'anime de' miseri in detestazion di loro, il quale è
proprio de' cani; «Quando vengono a' due punti del cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono: «Perché tieni? - E perché burli?» -), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide, facendogli
tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon contrari. Le quali colpe vuole l'autore che sien
queste, avarizia e prodigalitá, delle quali l'una appresso egli apre, e l'altra per l'aver detto
«contraria» vuol che s'intenda, e dice:
«Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la cherica, la quale è
rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione
e reverenza di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata fatta da alcuni scellerati
uomini in segno di pazzia: percioché, non intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina,
e vedendolo ferventemente predicare dinanzi a' prencipi e a' popoli, li quali quella in odio aveano,
estimavano che egli questo facesse come uomo che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la
cherica si porti in segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano, sieno piú degni
che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona», percioché, rasa tutta l'altra parte del capo, un
sol cerchio di capelli vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda, come fa la
corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio portano, «clerici» da «cleros», graece, che in
latino suona quanto «uomini la sorte de' quali sia Iddio».]
«E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal quale, mediante san
Piero, hanno l'autoritá grandissima, la quale santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in
Purgatorio e in Paradiso, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la materia che
qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo nome papa venga, è poco avanti stato
mostrato. «Cardinali» è sublime nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la
chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali si chiamano «cardinali», non
sono però in preeminenza né in oficio né in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma,
percioché questi per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella chiesa di
Dio il sacro collegio de' settantadue discepoli, li quali per coaiutori degli apostoli furono
primieramente instituiti. E il cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al
papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro s'appartiene, insieme col papa, a diliberare le cose
spettanti alla salute universale de' cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che
sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette, son chiamati cardinali da questo
nome «cardo, cardinis», il quale ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si
volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e cosí da «cardo» vien
«cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono, da quella parte della porta, sopra la quale si volge
tutto l'uscio.]
«In cui», cioè ne' quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia, secondo Aristotile nel
quarto della sua Etica, la inferiore estremitá di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere,
ingiuriosamente si disidera l'altrui, o si tiene quello che l'uom possiede: della quale piú
distesamente diremo, dove discriveremo l'allegorico senso della parte presente di questo canto.
Questo vizio dice l'autore usare «il suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere
dove non si dee tenere, ne' cherici, ne' quali tutti intende per queste due maggiori qualitá nominate:
la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne
faccia molte parole.
E, avendo qui l'autore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in questo quarto cerchio si
punisce, cioè avarizia, vuol che s'intenda per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli
dispaia»), con questo vizio insieme punircisi l'opposito dell'avarizia, cioè la prodigalitá, la quale è il
superiore estremo di liberalitá: e come l'avarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene
e dar si dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando e come non si
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conviene; benché poco appresso l'autore alquanto piú apertamente dimostri sé intender qui punirsi
questi due vizi.
«Ed io: - Maestro, tra questi cotali», che tu mi di' che furon cherici, e ancora tra gli altri,
«Dovre' io ben riconoscere alcuni», percioché furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti,
come noi sappiamo che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due peccati
peccano (o vogliam dire: percioché l'autor peccò in avarizia, e l'un vizioso conosce l'altro); «Che
fûro», vivendo «immondi», cioè brutti e macolati, «di cotesti mali», - cioè d'avarizia e di
prodigalitá.
«Ed egli a me: - Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli altri tuoi raccogli. E
incontanente gli dice la cagione, seguendo: «La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata,
«che i fe' sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad ogni conoscenza»,
ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non degni d'alcun nome. «In eterno verranno alli due
cozzi», cioè a' due punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si percuotono.
«Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dall'un dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del
giudicio universale, «Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè la tenacitá,
la quale per lo pugno chiuso s'intende; «e questi», cioè i prodighi, «co' crin mozzi», [per li quali
crini mozzi similmente testificheranno la loro prodigalitá.]
[E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa: intendono i dottori,
moralmente, per li capelli le sustanze mondane, e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno
alcuno omore, né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono solamente alcuno
ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla natura; e cosí dirittamente sono le sustanze
temporali, le quali per sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dell'anime nostre,
ma prestano alcuno ornamento a' corpi; e perciò dirittamente sentono coloro, li quali intendono per
li capelli le predette sustanze. Risurgeranno adunque i prodighi co' crin mozzi,] a dimostrare come
essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro temporali ricchezze.
«Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno gli avari, «lo mondo
pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza, «Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno
dannati sono, «e» hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi insieme co'
pesi i quali volgono, e col rimproverarsi l'una parte all'altra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa
di costoro, «parole non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi voglia
dire che assai di sopra sia stato dimostrato.
«Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le parole sue, gli mostra
quanto sia vana la fatica di coloro, li quali tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni
temporali, e apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in costoro, «la corta
buffa», cioè la breve vanitá, «De' ben», cioè delle ricchezze e degli stati, «che son commessi alla
fortuna», secondo il volgar parlare delle genti, e ancora secondo l'opinion di molti; «Per che», cioè
per i quali beni, «l'umana gente si rabbuffa». Il significato di questo vocabolo «rabbuffa» par
ch'importi sempre alcuna cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è l'essersi l'uno uomo
accapigliato con l'altro, per la qual capiglia, i capelli son rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i
vestimenti talvolta: e però ne vuole l'autore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati, le guerre
e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini hanno insieme per li crediti, per l'ereditá,
per le occupazioni e per li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le fatiche
vane, che intorno all'acquisto delle ricchezze si mettono. E dice: «Ché tutto l'oro, ch'è sotto la
luna», cioè nel mondo, «O che fu giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che
di sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una», - non che trarla di questa perdizione.
Appare adunque in questo quanto sia utile e laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro
hanno posta tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro sollecitudine s'è
acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma solamente un poco di riposo in tanto affanno,
in quanto posti sono. Le quali parole udite da Virgilio muovono l'autore a fargli una domanda,
dicendo: - «Maestro - dissi lui, - or mi di' anche».
231
[Lez. XXVII]
Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto, nella quale l'autore scrive
come Virgilio gli dimostrasse che cosa sia fortuna, e però dice: - «Maestro, or mi di' anche»; quasi
dica: tu m'hai detto che tutto l'oro del mondo non potrebbe fare riposare una di queste anime, e per
questo m'hai mostrato quanto sia vana la fatica di coloro li quali, posta la speranza loro in questi
beni commessi alla fortuna, intorno all'acquistarne e all'adunarne si faticano; ma dimmi ancora:
«Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo de' beni che le son commessi, «Che è?» cioè che
cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra branche?», - cioè tra le mani e in sua podestá.
«E quegli a me», rispose dicendo: - «O creature sciocche. Quanta ignoranza è quella che
v'offende!», credendo come voi non dovete credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della
fortuna come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non donna in donargli, sí
come appare nelle parole seguenti. «Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche», cioè che tu ne senta
quello che ne sento io: e dice «ne 'mbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale, la quale
quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello 'ntelletto, il quale, rugumando ed
esaminando seco quello che per li sensi esteriori e poi per gl'interiori concepe, quel sugo fruttuoso
ne trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.
E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della fortuna, dicendo: «Colui, lo
cui saver tutto trascende», cioè Iddio, il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza
è stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e die' lor chi conduce». E in questo sente
l'autore con Aristotile, il quale tiene che ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con
ordine certo e perpetuo: e che l'autore questo senta, non solamente qui, ma in una delle sue canzone
distese dimostra, dicendo: «Voi, che, 'ntendendo, il terzo ciel movete» ecc. E queste cotali
intelligenzie muovono i cieli loro commessi da Dio, «Sí ch'ogni parte», della lor potenzia, «ad ogni
parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde, «Distribuendo igualmente la
luce». Dice «igualmente» non in quantitá, ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o
influenzia riceve; [«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono nelle
creature la potenzia loro.]
E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere i cieli e a
distribuire i loro effetti ne' corpi inferiori, cosí: «Similmente agli splendor mondani», cioè alle
ricchezze e agli stati e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che
permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè le ricchezze e gli onori temporali,
li quali chiama «beni vani», percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá; e
volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni vani «Di gente in gente», cioè
d'una nazione in un'altra, sí come noi leggiamo essere infinite volte avvenuto ne' tempi passati nelle
gran cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e l'imperio degli assiri esser trapassato ne'
medi, e de' medi ne' persi, e de' persi ne' greci, e de' greci ne' romani; e, lasciando stare gli antichi,
de' quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante, noi abbiamo veduto ne' nostri
dí la gloria e l'onore dell'armi e della magnificenza, e della Magna e de' franceschi, esser trapassata
negl'inghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma, ma, come in coloro è stata
trasportata, cosí ancora in brieve tempo si trasmuterá in altrui.
E segue: «e d'uno in altro sangue». La sentenza delle quali parole, quantunque una
medesima possa essere con la superiore, nondimeno, volendola a piú brieve permutazione e di
minor fatto deducere, possiam dire «d'una famiglia in un'altra», in quanto d'un medesimo sangue si
tengono quegli che d'una medesima famiglia sono; sí come, accioché le cose antiche pospognamo,
abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá nostra piena di queste trasmutazioni. Furon de' nostri
dí i Cerchi, i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che essi come volevano
guidavano le piccole cose e le grandi secondo il piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è
questa grandigia trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E cosí da quegli,
che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá in altri. E questo senza alcun fallo addiviene
«Oltre la difension de' senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono inducere
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infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai può a ciascuno esser manifesto i senni
degli uomini non valere a potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in
parole..
E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera», signoreggiando, «e l'altra
langue», servendo; e ciò avviene, «Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di
questa ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», a' sensi umani, «come in erba l'angue». Anguis
è una spezie di serpenti, la quale ha la pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita ne'
prati fra l'erbe; e percioché egli è con l'erbe d'un medesimo colore, rade volte fra quelle è prima
veduto che toccato e sentito. E cosí, dice l'autore, il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí
occulto a' sensi umani, ch'egli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a questo,
roborando ancora l'autore la predetta cagione, séguita:
«Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole pretendere che, ancora
che noi, o per industria o ancora per chiara dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che
il giudicio di questa ministra s'inchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno, possiamo a
quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e questo essere vero, s'è giá per molte
manifeste cose veduto. [Creso, re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da Ferrea,
ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re de' medi, in due sogni, che il figliuolo, il quale ancora non era
generato di Mandane, sua figliuola, il dovea privare dello 'mperio d'Asia: né gli giovò il maritarla
ad uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il figliuol natone alle fiere,
che quello non avvenisse giá nel consiglio di questa ministra fermato. Non poterono l'avere
cacciato del regno d'Alba in villa Numitore, d'avere ucciso Lauso, suo figliuolo, d'aver fatta vergine
vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non fosse del regno gittato, né restituitovi
Numitore. Infiniti sarebbono gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci
tirare all'attitudine dataci da' cieli: ma, se noi vorremo esser prudenti, e seguire il consiglio della
ragione, con la forza del libero arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice
Giovenale: «Nullum numen», ecc., percioché il seguir noi il desiderio concupiscibile, ne fa rimaner
vinti da' movimenti di questa ministra, ecc.]
E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica e persegue Suo
regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono quelle cose le quali da ordinato e discreto
fattore prodotte sono, sí come son queste terrene da ordinato movimento de' cieli produtte, secondo
la potenzia de' quali esse si permutano, non altramente che se da giudicio dato si movessero; e cosí
par questa ministra da singolare ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè le
cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè l'intelligenze, delle quali di sopra è
detto.
[E, in questa parte, l'autore, quanto piú può, secondo il costume poetico parla, li quali spesse
volte fanno le cose insensate, non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose
spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion nostre approprian deitá, e dánno
forma come se veramente cosa umana e corporea fossero; il che qui l'autore usa, mostrando la
fortuna aver sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi accidenti non
possano avvenire in quella cosa la quale qui l'autore nomina «fortuna», se poeticamente fingendo
non s'attribuiscono. Dalle quali fizioni è venuto che alcuni in forma d'una donna dipingono questo
nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota, sí come per Boezio, De
consolatione, appare. Ma chi le fascia gli occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come
appresso apparirá, ogni permutazion dí costei va a diterminato e veduto fine; e, se l'effetto di quella
non segue, non è per ignoranza dei causatori della permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui
in cui si dirizza, il quale avvedutamente quella ischifa.]
«Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali, «non hanno triegue», cioè
intermessione alcuna, sí come coloro che guerreggiano hanno ne' tempi delle triegue; e, percioché
nelle sue permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa esser veloce». E in
queste parole vuole intendere l'autore i movimenti di questa ministra continui essere di necessitá:
[le quali parole, non bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio si torrá via
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qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra pertenente, dimostrerò quello che intendo
essere questa fortuna.] «Sí spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce, «che
vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare vicendevolmente seguire: in quanto
alcuna volta veggiamo uno medesimo uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú
volte nella vita sua.
«Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle bestemmie e da'
rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí come uomini ben trattati da lei, «Dandole
biasmo a torto e mala voce», cioè ne' loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove
sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella s'è beata», cioè eterna, «e ciò
non ode», cioè le bestemmie e' rammarichii: «Con l'altre prime creature», cioè co' cieli e con le
intelligenzie separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si discrivono le sue veloci
circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e beata si gode», non curando di queste cose.
[Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa fortuna, della qual qui
l'autore domanda Virgilio; quantunque molte cose in dimostrarlo n'abbia dette l'autore, e,
conchiudendo, mostri di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo delle cose
temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú,
secondo che Iddio mi presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano, io
estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non l'universale effetto de' vari
movimenti de' cieli, li quali movimenti si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento
uniforme di quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará l'universale effetto
de' movimenti de' cieli causato dalla divina mente e per conseguente dato da essa amministratore e
ordinatore de' beni temporali, de' quali essi movimenti de' cieli sono causatori. E dicesi dato
ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo nome fortuna attribuito a questi
mutamenti delle cose, che perché alcun ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion de'
cieli. E percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia opinion de' filosofi il
causato, almeno in certe parti, esser simile al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante
il figliuolo al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che l'universale loro effetto, il quale
è intorno alle cose inferiori e temporali, similmente debba essere in continuo movimento: e se
l'universale effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in continuo movimento
saranno; e cosí seguirá le cose governate essere convenienti e conformi alla cosa che le governa,
causa e dispone; e per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data dal
governante. E percioché egli non par possibile cosa che gl'ingegni umani comprendano le
particularitá infinite di questo universale effetto de' cieli: sí come noi possiam comprendere nelle
continue fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque l'arte sia da sé vera e
da certi fondamenti fermata, nondimeno non paiono gl'ingegni umani essere di tanta capacitá che
essi possan comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né ancora
pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti de' corpi de' pianeti; e per conseguente
cognoscere né quello che il cielo dimostra dover producere, né quello che a ciò seguire o fuggire,
per avere o per fuggire quello che s'apparecchia, sia sofficiente né bastevole: e però ottimamente
dice l'autore i consigli umani non poter comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi,
operazioni di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni delle cose prodotte da'
cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro dai quali causate sono, né esse similmente possono avere
stabilita; e se i movimenti de' cieli son veloci, e le cose causate da loro seguono la similitudine del
causante, sará di necessitá questo loro effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi
sono; e seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo, cioè le rivoluzioni
continue e le permutazioni e delle gran cose e delle minori.]
[Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere alcune cose non
muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí come sono le cittá e simili cose, le quali lungo
tempo consistono: intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni de' cieli adoperare secondo la
disposizione delle cose, le quali esse operazioni de' cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile
e perpetua, e però non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini ella è
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messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano i cieli sopra questa materia tarda e
grave tardamente. Ma nondimeno, quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e
però le cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si muovono tardamente.
E nondimeno questo tardo movimento, considerata la natura della cosa che si muove, si può dire
veloce, ecc.]
[Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a beneplacito, come quasi a
tutte l'altre è stato posto; e, secondo che le cose secondo i nostri piaceri o contrarie n'avvengono, le
chiamiamo «buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi sciocchezza, i
gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la stimarono una singular deitá, in cui fosse
potenza di dar bene e male, secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e
ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la veritá, la sentenza di questi
versi:
/* Si Fortuna volet, fies de rhetore consul; si volet haec eadem, fies de consule rhetor, ecc.
*/
E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero, i romani piú che gli altri
vi peccarono. Nondimeno, quantunque di necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue
amministrazioni esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti delle cose
causate da' cieli, delle quali l'anime nostre non sono, percioché sopra i cieli son create da Dio e
infuse ne' corpi nostri, dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna necessitá in
noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non potenti contro a nostro piacere. Il che in assai
s'è potuto vedere, in Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il che
chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:
/* Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te, nos facimus, Fortuna, deam, caeloque
locamus. */
E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con l'appetito la sua
volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio, per lo quale n'è conceduto di potere scalpitare e
aver per nulla ogni sua potenza.]
[Adunque questo effetto universale de' movimenti de' cieli e delle loro operazioni, secondo
il mio piccolo conoscimento, credo si possa dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo
«fortuna», e la qual noi vogliamo esser ministra e duce de' beni temporali. E in questa opinione, se
io intendo tanto, mi par che fossero que' poeti, li quali sentirono che l'una delle tre sorelle chiamate
«parche», o fate che vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione e il
nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte attribuiscono, fosse questa Fortuna; e
quella, di queste tre, vogliono che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne
riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte. E questa, secondo la qualitá
della vita di ciascuno, il parer degli uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E
percioché, come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni e' mutamenti di ciascuno, assai
appare ciò non essere altro che l'universale effetto di tutti i cieli, da' quali questi movimenti, quanto
al corpo, son causati in noi.]
[E questa fortuna chiama l'autore «dea», poeticamente parlando, e secondo l'antico costume
de' gentili, li quali ogni cosa, la qual vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua,
deificavano, sí come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti, li quali tutti
chiamavano «dèi»: e però vuol l'autore sentire per questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il
quale tanto dobbiam credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli effetti li
quali producer veggiamo. Ora che che io m'abbia detto intorno a questa fortuna, intendo che, in
questo e in ogn'altra cosa, sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
[Lez. XXVIII]
«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda parte del presente
canto, nella quale l'autore fa tre cose: prima dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello
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'nferno, dove dice trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto cerchio
esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi; nella terza scrive come per lo cerchio
medesimo procedesse avanti. La seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi:
«Cosí girammo».
Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo ragionato della fortuna, e
però discendiamo «a maggior pièta», cioè a maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il
sollecita allo scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi mossi». Nelle quali
parole l'autore discrive che ora era della notte, e mostra che egli era passata mezza notte; percioché
ogni stella, la quale sovra l'orizzonte orientale della regione cominciava a salire in su il farsi sera
(come era quando si mossono, ed egli stesso il dimostra, dicendo: «Lo giorno se n'andava»), era
salita infino al cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano,
secondando il cielo il suo girare, a discendere verso l'orizzonte occidentale. E, fatta questa
discrizion dell'ora della notte, quasi per quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto,
subgiugne la seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e 'l troppo star si
vieta», cioè m'è proibito da Dio, per lo mandato del quale io vengo teco.
«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone «all'altra riva», cioè
alla parte opposita: e quivi pervennero «Sovr'una fonte che bolle», per divina arte, «e riversa»,
l'acqua cosí bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dell'acqua che essa fonte
riversa. «L'acqua», la qual questa fonte riversa, «era buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che
persa». È il perso un colore assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che il
color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano l'acque i colori, i sapori, i calori e
l'altre qualitá nel ventre della terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore;
«altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; l'olio petroio d'Allacone, l'acque di
Volterra, l'acque d'Ambra, l'acqua da Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia
dell'onde bige», cioè lunghesso l'acque bigie, come i compagni vanno l'uno lunghesso l'altro per un
cammino (e chiama quest'acqua oscura e nera «bigia», non volendo però per questo vocabolo
mostrarla men nera, ma, largamente parlando, lo 'ntende per nero); e cosí, andando con queste onde
bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè malvagia.
Poi segue: «Una palude fa, c'ha nome Stige, Questo tristo ruscel»; e vuolsi questa lettera
cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte
concava del luogo, donde l'acqua non aveva cosí tosto l'uscita, «c'ha nome Stige». E quinci dice:
quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è disceso», correndo, «Al piè delle malvage
piagge grige», le quali in quel cerchio sono.
[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono da' poeti, la quale essi dicono
essere una padule infernale, ed essere stata figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E,
secondo che dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice degli iddii del
cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono, quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come
dice Virgilio:
... Stigiamque paludem,
dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc.
E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di spergiurarsi, è per paura della
pena, la quale è che quale iddio, avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo
tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare» cioè dolcissimo e soave. E questa
onorificenzia vogliono esserle stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu
favorevole agl'iddii quando combatterono co' figliuoli di Titano, e vollesi piú tosto concedere a loro
che a' detti figliuoli di Titano.]
[L'allegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna al proposito, pure,
perché in parte e qui e altrove potrá esser utile, la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato
«tristizia», e perciò è detta figliuola d'Acheronte, il qual, come davanti è detto, viene a dire «senza
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allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è senza allegrezza, agevolmente divenga in
tristizia, anzi quasi par di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dall'essere senza allegrezza
nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par che proceda da ragion naturale, peroché,
conciosiacosaché tutte l'acque procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per
le parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della terra si versano; pare assai
conveniente dovere esser detto figliuolo della Terra ciò che esce del ventre suo, come l'acqua fa che
è in questa palude.]
[Che ella sia nutrice e albergatrice degl'iddii, non vollero i poeti senza cagione. Intorno al
qual senso è da sapere che sono due maniere di tristizia: o l'uomo s'attrista percioché egli non può a'
suoi dannosi desidèri pervenire; o l'uomo s'attrista cognoscendo che egli ha alcuna o molte cose
meno giustamente commesse. La prima spezie di tristizia non fu mai nutrice né albergatrice
degl'iddii, anzi è loro nimica e odiosa, intendendo gl'«iddii» per l'anime de' beati; ma la seconda fu
ed è nutrice degl'iddii, cioè di coloro li quali divengono iddii, cioè beati: percioché il dolersi e
l'attristarsi delle cose men che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per la
quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie ne mostrano; e noi cristiani, per
l'attristarci de' nostri peccati, n'andiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani.
Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio d'avere ottimamente sentito nel sesto del suo Eneida,
lá dove egli manda i perfidi e ostinati uomini in quella parte dello 'nferno, la quale esso chiama
Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali hanno sofferto tristizia e pena per le
lor colpe, mena ne' campi Elisi, cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie de' beati. O
vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono, gl'iddii, i quali costei nutrica e
alberga, essere il sole e le stelle, le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di
verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del zodiaco, la quale gli astrologhi
chiamano «solestizio antartico». Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti, esso
fa quello che gli astrologhi chiamano «zenit capitis»; e in questo tempo sono nutriti il sole e le
stelle dalla palude di Stige, secondo l'opinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi
superiori della umiditá de' vapori surgenti dall'acqua si pascessero; e appo questa palude di Stige,
mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá,
sia sotto la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli scrisse Delle cose sacre
d'Egitto, dicendo che la palude di Stige è appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando
appresso che non guari lontano da Siene, estrema parte d'Egitto verso il mezzodí, essere un luogo il
quale è chiamato da' greci «phile», il quale è tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo
essere una grandissima padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole e
faticoso, percioché è molto limosa e impedita da' giunchi, li quali essi chiamano «papiri», è
appellata Stige, percioché è cagion di tristizia, per la troppa fatica a' trapassanti.]
[Che gl'iddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion questa: noi siamo usati
di giurare per quelle cose le quali noi temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in
somma allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che temere; e questi cotali
sono gl'iddii, i quali i gentili dicevano esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare,
resta che giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la tristizia. E che chi si
spergiura sia privato del divin beveraggio, credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di
felice stato son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che bene avere
adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin beveraggio, cioè dalla felicitá,
nell'amaritudine della miseria.]
[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre non s'ha vittoria per far
festa, mangiare e bere, ballare o cantare, né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare
assiduo e faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in ispiare i mutamenti e gli
andamenti de' nemici, in por gli aguati, in prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun
dubbio hanno ad affligger l'uomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte della seconda
principale di questo canto, nella quale dimostra esser tormentati in questa padule bogliente
237
gl'iracundi e gli accidiosi. Dice adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso»,
cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella padule; e dice «fangose»,
percioché le padule sono generalmente tutte nelli lor fondi piene di loto e di fango, per l'acqua che
sta oziosa e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e perciò chi in esse si
mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor
dell'acqua, e sí ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean, non pur con
mano», battendo e offendendo l'un l'altro e se medesimi, «Ma con la testa», cozzando l'uno contro
l'altro, «e col petto», l'un contro all'altro impetuosamente scontrandosi, «e co' piedi», dandosi de'
calci, e «Troncandosi co' denti», le membra e la persona, «a brano a brano», cioè a pezzo a pezzo.
«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno che cosí si troncano, e
dice: - «Figlio, or vedi L'anime di color cui vinse l'ira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco vo'
che tu per certo credi Che sotto l'acqua», di questa padule, «ha gente che sospira», cioè che si
duole, «E», sospirando, «fanno pullular quest'acqua al summo». Noi diciamo nell'acqua «pullulare»
quelle gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare all'acqua, o per aere che vi sia sotto racchiusa
e esca fuori, o per acqua che di sotterra vi surga. «Come l'occhio», cioè il viso, «ti dice u' che
s'aggira»; e cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori, e per conseguente
dovere esser molta la gente, la quale sotto l'acqua sospirava o si doleva.
«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive de' fiumi
l'acqua torbida, quando il fiume viene scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e
di questa maniera sono quasi tutti i fondi de' paduli. Dice adunque che in questa belletta nel fondo
del padule sono fitti i peccatori, li quali «dicon: - Tristi fummo, Nell'aer dolce, che del sol
s'allegra», cioè si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso fummo», cioè il
vizio dell'accidia, il qual tiene gli uomini cosí intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti
nelle quali egli si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nell'aer dolce, qui «Or ci
attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta negra», - in quel fango di quella padule,
l'acqua della quale ha di sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera altresí,
in quanto ella suole sempre avere il color dell'acqua sotto la quale ella sta e che la mena.
«Quest'inno». Gl'«inni» son parole composte di certe spezie di versi, e contengono in sé le
laude divine, sí come appare nello Innario, il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio
canta ne' suoi uffici; ma in questa parte scrive l'autore il vocabolo, ma non l'effetto di quello,
percioché dove l'inno contiene la divina laude propriamente, quello che questi peccatori, piangendo
e dolendosi, dicono in modo d'inno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si gorgoglian nella
strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la qual muove dal polmone e vien sú insino al
palato, e quindi spiriamo e abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa,
non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le nostre parole piú simili al
gorgogliare, che fa talvolta uno uccello, che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno
la gola piena del fango e dell'acqua del padule, è di necessitá che essi si gorgoglino questo lor
doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi posson con parola intègra», perché è intrarotta
dalla superchia umiditá.
«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte principale, nella quale
l'autore dimostra il processo del loro andare, e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i
miseri peccatori che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda pozza
Grand'arco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa d'un arco. E chiamala «pozza», il quale è
proprio nome di piccole ragunanze d'acqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto a' poeti
(cioè d'usare un vocabolo per un altro), per la stretta legge de' versi, della quale uscir non osano. E
quinci dice che egli girarono, «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva l'acqua del padule, «e 'l
mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza», cioè a' peccatori, li quali erano in
quel padule: «Venimmo al piè d'una torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente
aggirato.
238
II
SENSO ALLEGORICO
[Lez. XXIX]
[«Papé Satan, papé Satan aleppe», ecc. Dimostrò l'autore nel precedente canto come la
ragione gli dimostrò qual fosse la colpa della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto
a' gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose precedenti, discrive come,
seguendo la ragione, gli fosse da lei dimostrato che cosa fosse il peccato dell'avarizia e similmente
quello della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che in esse erano vivuti e
morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti fossero: procedendo appresso in questo medesimo
canto, come, veduti questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate altre due
spezie di peccatori, cioè gl'iracundi e gli accidiosi, e il loro tormento. E però primieramente
vedremo, come di sopra si promise, quello che l'autore intenda per Plutone prencipe di questo
cerchio; e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi l'avaro; e poi che cosa sia prodigalitá, e in
che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si
confaccia al peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello dell'ira, e poi
quello dell'accidia, e qual pena agli accidiosi e agli iracundi data sia, e come essa si conformi alla
colpa.]
[Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere stati due Plutoni, de'
quali per avventura ciascuno potrebbe assai attamente servire a questo luogo, quantunque l'uno
molto meglio che l'altro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno, il quale
fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e con lei s'era congiunto, e di lei avea
ricevuto un figliuolo, il quale avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia a' tempi del re Ogigio, si trovò in
Creti un mercatante, il quale ebbe nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la
fertilitá stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella comperata a quel
pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non
solamente guasti i campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale per i tempi
passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne mal forniti a dover potere sovvenirne quegli
delle contrade dove stato era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e di quello
ebbe da' paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa, ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a
lui medesimo pareva uno stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò
Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone Plutone, per lo quale s'intendono le
ricchezze mondane, a tormentare coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá;
e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone intendere.]
[Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo altro, del quale si
legge che Plutone, il quale in latino è chiamato Dispiter, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il
cui nome fu Opis, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto con Glauca, sua
sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi
essere re dello 'nferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale assai cose scrive
Virgilio nel sesto dell'Eneida quivi:
Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, ecc.
E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel suo Thebaidos,
dicendo:
239
Forte sedens media regni infelicis in arce
dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
saevaque multisonas exercet poena catenas:
fata ferunt animas, ecc.
E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma, dove quello del sole ha
quattro ruote, disson questo averne pur tre, e chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre
cavalli, i nomi de' quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò, accioché senza
moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo
con maravigliose forze ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto, parve a
Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter trapassare infino in inferno la luce
del giorno; e perciò, venuto a procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando
d'intorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne veduta in un prato una vergine
chiamata Proserpina, la quale con altre vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava
le fiamme di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta l'ebbe, subitamente
s'innamorò della sua bellezza: e perciò, piegato il carro suo, n'andò in quella parte, e, presa
Proserpina, la quale di ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per moglie. E,
oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello
avere posto a guardia del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia d'Ercole
furente:
Post haec avari Ditis apparet domus.
Hic saevus umbras territat Stygius canis,
qui terna vasto capita concutiens sono
regnum tuetur: sordidum tabo caput
lambunt colubrae: viperis horrent iubae
longusque torta sibilat cauda draco.
Par ira formae, ecc.]
[Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone voglion molti, come altra
volta è stato detto, vegna tanto a dire quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in
latino suona tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato da' latini «Dispiter», quasi «padre delle
ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano in terra, o di sotterra si cavino, questo è
chiarissimo; ed «Opis» è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non solamente
«terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché le prime ricchezze, non essendo ancora
trovato l'oro, apparvero in parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale
primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente chiamato padre di Plutone.]
[Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data una cittá, la quale ha le
mura di ferro, e per guardia Tesifone; accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, a'
quali le ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro intorno alla guardia
e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice Virgilio non esser licito ad alcun giusto d'entrare:
Nulli fas casto sceleratum insistere limen;
accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza ingiustizia non potersi
fare.]
[Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono intendere l'angosce e l'ansietá
delle sollicitudini infinite, e ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le
ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati coloro li quali con aperta gola
240
intendono sempre a ragunarle; e per lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti
per lo mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro li quali e tirati e
sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e l'essere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra
cosa credo significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose future, nelle quali
coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser
tre, a dimostrarne di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per arricchire par che
sieno.]
[Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato «oscuro», per lo quale
s'intende l'oscura, cioè stolta, diliberazione d'acquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il
cupido, senza riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato Abaster, il quale tanto
viene a dire quanto «nero», accioché per questo si conosca il dolore e la tristizia de' discorrenti, li
quali spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e in paure grandissime. Il
caval terzo è nominato Novio, il qual tanto vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui
cognosciamo che per la paura de' pericoli, e ancora pe' casi sopravvegnenti, cade la speranza di
coloro che ferventissimamente disiderano d'acquistare, e cosí intiepidisce l'ardore il quale a ciò
stoltamente gli confortava.]
[Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa «abbondanza», e massimamente
qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui che co' ricchi non si fa, e spezialmente secondo il
giudicio del vulgo ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché esso quasi
sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo i ricchi si veggono, che quivi sia
abbondanza grandissima; dove in contrario, essendo le menti vòte, sí come l'avarizia procura, v'è
fame e gran penuria d'ogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si genera che laudevole o
degna di memoria sia.]
[Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e perciò essere detto lui
aver tre teste, per tre singulari proprietá, le quali erano in lui: egli era nel latrato d'alta voce e di
sonora, ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli prendeva, fortissimo.
Nondimeno, sotto la veritá di questo cane, sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è
detto «guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano intender le ricchezze, sí
come davanti è mostrato, non potremo piú dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non
l'avaro; e cosí per Cerbero sará da intendere l'avaro, al quale perciò sono tre teste discritte, a
dinotare tre spezie d'avari. Percioché alcuni sono li quali sí ardentemente disiderano l'oro, che essi
cupidamente in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché quello, che
acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin via; i quali, avvegnaché guardiani delle
ricchezze dir non si possano, nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è
quella di coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano d'ogni parte e in qualunque
maniera, accioché tengano e servino e guardino, e né a sé né ad altri dell'acquistato fanno pro o
utile alcuno. La terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o ingegno o fatica,
ma per opera de' suoi passati, ricchi divengono, e di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi
guardiani, che essi, non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano, né alcuno
ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire tristissimi e miseri guardiani di Dite.]
[I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da intendere per le tacite e
mordaci cure, le quali hanno questi cotali intorno all'acquistare e al guardare l'acquistato.]
[Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come appare nelle Verrine
di Tullio, quando dice: «Ut alter Orcus venisse Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem
rapuisse videbatur», ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è ricettatore delle
morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che che morte si muoia, e cosí l'avaro ogni
guadagno riceve di che che qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che per
Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo, sono le ricchezze e i malvagi
guardatori e spenditori di quelle: e cosí significherá questo dimonio il peccato e la cagion del
peccato, il quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]
241
[Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché l'allegoria, la quale io ho al
presente dato a questo cane infernale, cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi
nella esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui significare il vizio della gola, e
qui dimostro io per lui significare tre spezie d'avarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno
prenda ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili cose, cioè che una
medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e quattro sentimenti, secondo che la varietá del
luogo, dove si truova, richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate, mi piace
per alcuna figura, e per la varietá de' sensi di quella mostrarvelo.]
[Leggesi nel Genesi che il serpente venne ad Eva, e confortolla che assaggiasse del cibo il
quale l'era stato comandato che ella non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il
nemico della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa s'accordano. Similmente
scrive san Giovanni nell'Apocalissi che fu fatta una battaglia in cielo, come nell'esposizione litterale
fu detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per questo serpente similmente
s'intende, per tutti, il nemico nostro antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo
serpente intendersi(10) il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che, essendo il popolo
d'Israel venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte del diserto piena di serpenti, e che questi
serpenti trafiggevano e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano d'infermitá,
ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual cosa come Moisé sentí, per comandamento
di Dio fece un serpente di rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso, e
comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che trafitto fosse, mostrasse quella
puntura o quella piaga, che dal serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli
sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo serpente elevato esser Cristo, il
quale, nel mezzo del popolo ebraico elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe
delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni de' serpenti, cioè de' nemici nostri, fatte nelle
nostre anime: le quali come noi le mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la
contrizione e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati e guariti dalle
piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano. E fu questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo
due proprietá del rame, il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua passione
divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le punture della corona delle spine, per le
battiture delle verghe del ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e ne' piedi da' chiovi co' quali fu
confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu aperto con la lancia. Fu ancora questo
serpente sonoro, in quanto la sua dottrina infino agli estremi del mondo fu predicata e udita, e
ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una medesima figura avete il
serpente significar Cristo e 'l dimonio: Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]
[Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere significato Cristo, e
talora l'ostinazion del dimonio. Dice il salmista: «Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic
factus est in caput anguli»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi Cristo. Fu nella
edificazion del tempio di Salomone piú volte da' maestri che 'l muravano provato di mettere, tra
l'altre molte pietre che v'erano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a porla in parte
dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente, provandola ad un canto, il quale
congiugneva due diverse pareti del tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto,
e nella congiunzion de' due pareti. Vogliono adunque i dottori questi due pareti avere a significare
due popoli de' quali Cristo compuose il tempio suo, de' quali l'uno fu di parte de' giudei e l'altro fu
de' gentili, de' quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una chiesa. Significano ancora le due
pareti i due Testamenti, il Nuovo e 'l Vecchio, alla congiunzion de' quali solo Cristo fu sofficiente,
in quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon quelle che apersero i segreti
misteri del Vecchio Testamento, velati da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera
congiunse con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e cosí potete veder qui
per la pietra significarsi Cristo. Oltre a questo, si legge nell'Apocalissi: «Substulit angelus lapidem
(10)
Nell'originale "indendersi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
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quasi molarem et misit in mare», per la qual pietra vogliono i dottori, s'intendano i pessimi e
malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «Auferam eis cor lapideum», per la quale intendono i dottori la
durezza della infedelitá. E il salmista dice: «Descenderunt in profundum, quasi lapides»,
intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del peccato.]
[E però, senza por piú esempli, potete vedere, com'è detto, una medesima cosa avere diversi
sensi e diverse esposizioni: il che, come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí
similmente addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa e quando
un'altra.]
[Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li laici la Scrittura avere il
naso di cera, e perciò i predicatori e i dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora
in altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi l'ha di
diamante, del quale non si può levare, né vi si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí
come quella la quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo: ma puossi piú
tosto dire questi cotali avere il cuore, lo 'ntelletto e lo 'ngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi
incerati, e come son fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par loro sia
fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá de' sensi è quella che n'apre la veritá nascosa sotto
il velo delle cose sacre, la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad una
medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni maravigliare, se in altra parte
Cerbero significò il vizio della gola, e in questa gli s'attribuisce la guardia delle ricchezze.]
[Lez. XXX]
Ma, accioché noi alle spezie de' due peccati ci deduciamo, dico che, secondo che i poeti
scrivono, ne' tempi che Saturno regnò, fu una etá tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro
che allora vivevano, graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto, l'«etá
dell'oro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto umano essere stata virtuosa, intorno
all'appetito delle ricchezze del tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero, essere stati comuni a ciascheduno,
e perciò non essersi allora trovato alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio
servigio facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo alcuno che da alcun
termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno armento non era, che d'esser piú d'uno che d'un altro
si conoscesse; di niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata da alcuna
stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra cosa, per la quale apparer potesse alcuno in
singularitá avere appetito di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per
questo vogliono, e meritamente, in que' secoli il mondo avere avuta lieta pace e consolata, né alcun
vizio ancora esser potuto entrare nelle menti de' mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura
delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu ne' primi tempi per doverla seguire
e continuare, non è dubbio alcuno [che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i
vizi ne trasviano allo 'nferno] che noi, dopo riposata vita mortale, non fossimo similmente saliti
all'eterna. Ma, poi che, tra tanta simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
[essendone operatore il nemico dell'umana generazione,] furon questi due pronomi, «mio» e «tuo»,
seminati, tanto il santo ordine si turbò, che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere
in paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano ad accrescere il loro numero
in inferno.
Entrato adunque co' due pronomi il veleno pestifero, del voler ciascuno piú che per bisogno
non gli era, nelle menti degli uomini, si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere
nelle proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare l'abitazioni e a prezzolar le fatiche; e,
cacciata la pace e la tranquillitá dell'animo, entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni
superflui, le servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con onesta povertá
alcuni vincessero e scalpitassero un tempo l'ardente desiderio d'avere oltre al natural bisogno, non
poté però lungamente la vertú de' pochi adoperare, che il vizio de' molti non l'avanzasse. E, non
243
bastando all'insaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi nostri e nelle nostre mani dalla
natura, trovò lo 'ngegno umano nuove ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e,
pertugiati i monti e viscerata la terra, del ventre suo l'oro, l'ariento e gli altri metalli recarono suso
in alto; e similmente, pescando, delle profonditá de' fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le
pietre preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati, col sangue di pesci e coi
sughi dell'erbe trasformarono il color della lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa
mostrarono, la qual potesse non saziare, ma crescere il misero appetito de' mortali. Di che Boezio
nel secondo libro Della consolazione, fortemente dolendosi, dice:
Heu! primus qui fuit ille
auri qui pondera tecti
gemmasque latere volentes
pretiosa pericula fodit?
Ma, poiché lo splendor dell'oro, la chiaritá delle pietre orientali e la bellezza delle porpore
fu veduta, in tanto s'acceser gli animi ad averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via,
per qualunque sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo inconveniente, non
solamente ne' nostri giorni, ma giá sono migliaia di secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e
l'onesta povertá e i temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito acquisto siam
divenuti. Per la qual cosa l'umana caritá, la comune fede e gli esercizi laudevoli, non solamente
diminuiti, ma quasi del tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni astuzia e
con ogni sottigliezza s'è cercato e cerca continovo l'odio di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui
sopra ogni altra cosa amare, onorare e reverire, noi l'oro e l'ariento, i campi e l'umane sustanze in
luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo non saper por modo
all'appetito, e non sapere o non volere con ragione spendere l'acquistato, morendo ci convien qui
lasciare quello che noi ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare; e
col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla divina giustizia a voltare i
faticosi pesi, come l'autore ne dimostra, mandati siamo.
E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello che l'autore intende in
questa parte di dimostrare; e che l'uomo ancora si sappia con piú avvedimento dalla meglio
conosciuta colpa guardare: piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
brievemente, consista questo vizio.
È adunque l'avarizia, secondo che alcuni dicono, «auri cupiditas», cioè disiderio d'oro. San
Paolo dice (Ad Ephaesios, V): «Avaritia est idolorum servitus». E, secondo la sentenza d'Aristotile,
nel quarto dell'Etica, l'avarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non
si conviene. Che l'avarizia sia cupiditá d'oro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá
appresso; che ella sia un servire agl'idoli, seguendo la sentenza dell'apostolo, assai bene il dimostra
san Geronimo in una sua pistola a Rustico monaco, dove dice: «Æstimato malo pondere
peccatorum, levius alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat. Non
enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare,
cupide et inutiliter congregat: ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana
thuris offert creaturae, quae Deo debuit offerre, et ille non iudicetur idolatra, qui totum servitium
vitae suae, quod Deo debuit offerre, offert creaturae». Che ella sia difetto di non dare ove si
conviene, e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente trattato.
Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto disiderio s'accendono di
divenir ricchi, che il trapassar l'Alpi e le montagne e' fiumi, e navigando divenire alle nazioni
strane, tirati dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa; avendo del tutto in
dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche scrive a Lucillo, dove dice: «Magnae divitiae
sunt, lege naturae, composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis statuat:
non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque depellas, non est necesse superbis assidere
liminibus, nec supercilium grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria
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tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et appositam. Ad supervacua sudatur:
illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora
impingunt. Ad manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est». E se questi
cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero contenti di
pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale
appetito, il quale abbiamo infisso, d'avere, gli troverebbe; ma, percioché, a questo, modo non si sa
porre, tutti nel miserabile vizio trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il
vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile, quando a quelle che molti altri
tengono si riguarda.
Sono i piú sí offuscati dall'appetito concupiscibile, che ogni onestá, ogni ragione, ogni
dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via ragunare, non solamente piú che non bisogna ad
uno, ma ancora piú che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si dánno senza
alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e occupare con violenza l'altrui, altri ad
ingannare e fraudolentemente acquistare, e con altri esercizi simili, non piú d'infamia che di fama
curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali dice Tullio nel libro terzo Degli
offici: «Detrahere igitur alteri aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere,
magis est contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera, quae possunt
aut corpori accidere, aut rebus aeternis», ecc.
Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che prima facie vogliano e ingegninsi d'avere piú
che il bisogno non richiede, li quali sono a distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono
pessima spezie d'avari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione dire avari, né
sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato il dovere, con diligenzia s'ingegneranno di fare
che i lor campi loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta operazione,
quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú in assai cose commendabili si può poi a
luogo e a tempo adoperare. Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro arte,
alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna avanzin di questa, non sono perciò
da reputare avari. Altri s'ingegnano di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che
hanno prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque sia piú che quel che
bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro,
o per prezzo o per provvisione si fien messi al servigio d'alcun altro e con fede l'avranno servito: il
domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole che sia reputata avarizia.
È, oltre alla predetta, la seconda spezie d'avarizia, la quale consiste in difetto di dare dove e
quanto si conviene; e in questa quasi tutta l'universitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi
che per loro opera o per l'altrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci, che, non che pietá o
misericordia gli muova a sovvenire eziandio d'una piccola quantitá un bisognoso, ma a' figliuoli,
alle mogli e a se medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi né beono né
mangiano quanto il naturale uso disidera; e dell'altrui prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni
altri ne sono, li quali né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad
onorare.
Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o a' cassoni ferrati li loro tesori
fidano, ma, fatte profondissime fosse ne' luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai
sovente, come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non ne puote avere
alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro,
accioché alcuno bisogno non ne costringa a dimandar l'altrui, o a fare altra cosa che piú disonesta
fosse che l'avere ben guardato il suo. E di questi cotali sono alcuni piú da riprendere che alcuni
altri; sí come noi veggiamo spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se per sua industria o procaccio
ricco divenuto fosse: il che, oltre al vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe
avvenir quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno hanno ragunato quello
che essi poi con sollecitudine guardano; e ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama
le sue opere piú che l'altrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E di questi medesimi si
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posson dire essere i cherici, ne' quali è questo peccato tanto piú vituperevole, quanto con men
difficultá l'ampissime entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto pervenute
loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché i loro esercizi deono essere intorno alle
cose divine, all'opere della misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione,
digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri in disprezzare le cose temporali
e 'l mondo, e seguire con povertá le vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro
opere esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio il vede.
È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in un'altra, percioché l'essere
un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa alcuna, percioché l'etá del giovane è di sua natura
liberale, sí come quella che si vede forte e atante ne' bisogni sopravvegnenti, ed è piena di mille
speranze e d'altr
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comento alla Divina Commedia