LAVORARE:
CON LE MANI, CON LE
MACCHINE E CON LA SCIENZA
Da quando l’uomo ha cessato di essere cacciatore e
raccoglitore, all’alba della storia, ha incominciato a
trovare necessità di fondare villaggi in cui abitare
per sorvegliare i pascoli delle proprie bestie e i
propri raccolti. Al contadino si è dovuto affiancare
l’artigiano che con il proprio lavoro procurava gli
utensili e gli attrezzi, che costruiva i mobili per la
casa, che provvedeva a costruirsi le macchine per
fabbricarsi il cibo e gli oggetti essenziali per la vita.
Di queste trasformazioni sociali avvenute intorno ai
diecimila-ottomila anni prima di Cristo, ma forse
anche qualche millennio più tardi per le popolazioni
delle montagne, che impiegarono millenni per essere
accettate completamente e per entrare nel patrimonio
culturale di tutti, ricche sono le leggende che
racchiudono profonde innovazioni tecnologiche e
scientifiche, come già lo erano state la scoperta del
fuoco o dell’aratro.
Ancora una Selvana.
Il sentiero che da Sarentino porta a Meltina,
passa per il Putzen Joch, dove ancora oggi si
possono vedere i Putzen-Mandeln, mucchietti di
sassi posti lì da sempre. Un tempo in questo luogo si
trovava un laghetto e nel mezzo di questo laghetto si
trovava un masso sotto il quale si apriva una
fenditura.
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Le montagne e l’acqua
Ora quelle acque limpide si sono sperse ed è
rimasto uno stagno paludoso. Nel tempo in cui il
lago rea ancora un lago, un vecchio contadino
spesso prendeva la via per Sarentino perché portava
il fieno, ne aveva in abbondanza, a vendere in quella
valle. Quando il contadino, la mattina presto o di
sera all’Ave Maria, conduceva il suo cavallo verso
casa, vedeva spesso da lontano bellissime fanciulle
che ridevano, cantavano e danzavano sul prato
intorno al laghetto. Ma appena le fanciulle udivano
lo scalpitio del cavallo, plitsch-platsch, saltavano in
acqua e sulla superficie rimanevano solo piccoli
cerchi, come quando si gettano dei sassolini. Un
giorno tornando a casa di malumore, perché non
aveva potuto trovare una serva, neanche pagandola
oro, passando per il laghetto, le rivide. Appena viste
le fanciulle che cantavano e danzavano, pensò: Guarda queste damigelle che non hanno proprio
niente da fare, se mi riuscisse di afferrarne una, mi
sarebbe di aiuto! ma come prenderla? – Questo pensiero non gli dava pace. fino a che, finalmente,
arrivò dal Lebenbauer, che era una testa fina, al
quale raccontò tutto. Questi ne capiva più di tutti gli
altri e poi posse-deva un libretto di magie. Sentita la
storia, si ritirò nella sua stanza e, consultato il libro
magico, uscì con questa formula: «Se vuoi catturare
una fanciulla del lago, devi prendere due buoi cos’
neri da non trovare su di loro nemmeno un peluzzo
bianco, poi li farai condurre dal tuo servo su, oltre il
laghetto, però lì dove non potranno vederti. Tu
andrai prima dell’Ave Maria, a nasconderti vicino al
lago, dietro un sasso o un albero. Appena vedrai le
ninfe balzare dall’acqua, vieni fuori e acchiappane
una, mettendole un rosario benedetto al collo. Così
non potrà mai più scappare e avrai la miglior serva
di tutto il circondario». Al mercato il contadino
comperò due buoi neri come il carbone, pagandoli
cari, perché questi buoi sono buoni per ogni lavoro.
[...] Il sole era già calato [...] fuori dall’acqua
vennero le fanciulle [...] Con un balzo il contadino
uscì da dietro il sasso, traversò il prato e acciuffò
una fanciulla per i capelli [...] Così la ninfa servì per
molti anni in casa del contadino e tutto quello che
faceva riusciva per il meglio [...]
(da: Bruna Dal Lago, Storie di magia. Errabonda cultura
lunare fra le custodi del tempo promesso nelle Valli Ladine,
Roma: Lato Side, 1979.)
44
Vittorio Marchis
Il mito delle ninfe dei boschi e dei monti che
sostituiscono il duro lavoro della donna è molto
antico e già un poeta greco, i cui versi sono raccolti
nell’Antologia Palatina (IX, 418), Antipatro di Tessalonica, così cantava:
“Macinatrici accordate riposo alle mani; dormite,
dormite, anche se all’alba di già cantano i galli.
Cerere impose alle Ninfe dall’acque il lavoro: d’un
balzo si lanciano esse al sommo vertice d’una rota e
fan che l’asse giri: comunicava questa il suo moto ai
raggi ed alle cave macine dei Nisèi. Siamo all’età
dell’oro tornati di nuovo, se i doni di Demetra
possiamo gustar senza fatica.”
Le ninfe rappresentano l’acqua dei ruscelli che se
debitamente incanalata e guidata può far girare le
ruote dei mulini e così aiutare grandemente nelle
fatiche quotidiane. La storia che Bruna Dal Lago ci
ha raccontato ci ricorda come l’impiego delle prime
macchine nella società contadina fu davvero un
qualcosa di magico, e come tale dovette essere accompagnata da uno stretto rapporto con la religione.
Gli antichi chiamavano in causa Cerere, la dea della
natura e delle stagioni, dei raccolti e della prosperità.
Nel racconto la vicenda è riportata a tempi più vicini
a noi e la corona del rosario è simbolo di questo
legame religioso. Anche i due buoi neri indicano che
per ogni innovazione è necessario investire dei denari e anche lavorare con attenzione e saggezza.
Il mulino fu invenzione antica ma ebbe diffusione solo
nel medioevo
45
Le montagne e l’acqua
Gli acquedotti sono
all’origine delle civiltà
La storia continuerà, ma noi ci fermiamo qui e
lasciamo alla curiosità dei lettori e delle lettrici il
gusto di trovare altre vicende ad essa parallele.
Il mulino fu un’invenzione antica, nota al mondo
romano che trovò più economico l’impiego degli
animali e degli schiavi per muovere le proprie macchine e le macine da grano in particolare. Solo nel
Medioevo la ruota idraulica, ad asse orizzontale
soprattutto in pianura e ad asse verticale con pale a
cucchiaio in montagna dove l’acqua è più scarsa, ma
cade con maggiore violenza e velocità, trovò una
diffusione massiccia e capillare. Alla fine del
Medioevo si può affermare che ogni comunità in
Italia possedesse almeno una ruota idraulica, o
potesse disporre dei suoi servigi in un paese vicino.
La ruota idraulica fu un’innovazione così importante
come lo è stato nel XX secolo l’automobile e come
oggi lo sta diventando il computer domestico.
I mulini a cucchiaio, ad asse verticale, avevano le
macine direttamente poste alla sommità dell’albero e
lo spessore del gioco tra la pietra dormiente e quella
giratoria era regolata agendo su un cuneo posto sotto
il cuscinetto di supporto dell’albero. La velocità si
variava aprendo o chiudendo una piccola paratoia
sul canale di arrivo dell’acqua. Le palette, in numero
di quattro o cinque, come si è già detto, erano a
forma di cucchiaio, intagliate nel legno. L’essenza
ideale per i mulini, soprattutto nelle loro parti più
direttamente a contatto con l’acqua, era quella del
castagno selvatico. Questo legno, ricco di tannino,
ha una particolare resistenza all’acqua e non
marcisce anche se rimane immerso in essa.
Così descrive la struttura di queste macchine
Francesco di Giorgio, un ingegnere senese del
Quattrocento
famoso
per
avere
innovato
l’architettura militare e idraulica al tempo dei duchi
di Montefeltro.
“Ora dirò della cisterne, cole, condotti, tomboli,
docci, canali e altre cave e cammini sotterranei, e in
che modo l’acque vive o pluviali da purgare e
condurre sieno, perché in nelli edifizii e al vitto
dell’uomo necessarie. In prima le cisterne in molti
modi son da fare
46
Vittorio Marchis
sicondo l’antiche e nuove formazioni. In prima è da
cavare la larghezza e profondità del suo diamitro
sicondo la opportunità del luogo. E quanto maggior
vaso serà, tanto l’acqua in esso si mantiene, e molto
meglio serà, ché per gran pelago corrompar non
può. Sia il diamitro piè venti e in bassezza piè
cinquanta. E sel terreno denso fusse debbasi tutta
intorno armare, dipoi cavata serà, sopra del fondo
un muro di grossezza d’un piè o di mezzo piè. E sia
distanzia infral muro el terreno un piè, in nella
quale distanzia e vano di composizione di ghiara e
calcina si riempi, overo di terra creta confetta e che
lì dentro bene stretta sia. E sopra del muro, se
bisogno fusse, di buono smalto o calcestruzzo
diligentemente rivestito. El fondo suo sopra del
terreno di mestura di ghiara calcata e battuta, e
sopra dessa di minuti testi di calcestruzzo misti. E
sopra dessi un altro battuto di ghiara; dipoi, con
calcestruzzo rivestito sia bene diffregato con lardo o
olio sicondo si richiede, el simile del citernone farai.
Le cole desse cisterne son così da fare che’l
compruvio del tetto i docci, condotti o canali colla
lora dependenzia messi sieno, e con un vacuo
pilastro venghi dal pavimento dessa cola alla
sommità del tetto dove i canali nella loro vacuità
l’ac-qua metteranno. In tal modo adattati o di
piombo o di legno, marmi o altra pietra, over di
terra fatti. E che al tempo della state sopra del
pilastro l’entrata dell’acqua levar si possi, perché
quando l’acqua sopra de caldi tetti viene, andando
nella cisterna, per quella calidità si corrompe e
molti verminuzzi genera.
Similmente se per caso in alcuna rocca, città o
castello alcuna vena da condurre fusse o per canali
o condotti, faccinsi i tomboli o condotti colle loro
commensure le quali di mestura come partitamente
discriveremo. Poniamo che una fonte in un monte
sia e tu al castello condurre la volessi, e infra esso e
la fonte fusse alcuno interposto monte o valle in
nella quale scendare e salire el canale bisognasse;
debbi in nel fondo e angolo infraduo monti
interposto fare una galazza di piei quattro o cinque
in nella sua larghezza e altezza, in nella quale
l’entrata e uscita del canale o condotto si riferisca.
E se per essi cammini acque alcune a fonti
condurre vorremo, e perché in nel corrir loro
menano limo,
47
Le montagne e l’acqua
rena e altre diverse malizie e grossezze, ordinisi le
galazze e cole presso alle fontane, le quali così fatte
seranno. Piglierai quella longhezza che a te pare e
quella in tre parti sie divisa, cioè in tre galazze. La
prima sia piena di grossa e levata ghiara e dal canto
di sopra l’entrata dell’acqua,la siconda vacua, e per
lo fondo l’acqua entrar vi possa, la terza di
minutissima ghiara. E sopra dessa l’entrata della
vacua galazza. E nel fondo, all’altezza d’un piè,
l’uscita del canal che nella fonte mette.”
Povere tecnologie per ingegnose macchine
(da: Francesco di Giorgio, Trattati di architettura ingegneria
e arte militare, sec. XV)
Dalla ruota “a ritrecine” alla turbina idraulica Pelton formalmente il passo è breve, ma ci sono voluti
più di cinque secoli per trovare la ragione di questo
processo evolutivo. La scoperta della dinamo prima,
quindi quella dell’alternatore e del motore elettrico a
corrente alternata per opera di Galileo Ferraris non
solo hanno permesso di generare meccanicamente
l’energia elettrica, ma soprattutto di trasportarla a
grandi distanze dal luogo in cui veniva generata.
Solo così è potuta crescere l’infrastrut-tura di
distribuzione di questa forma di energia che ci
sembra così naturale e di cui non possiamo più fare a
meno. L’Italia, per la sua scarsezza di combustibili
fossili e per la ricchezza delle acque delle sue
montagne, sin dai primi anni del Novecento ha
incominciato a costruire dighe, invasi artificiali,
condotte forzate e centrali idroelettriche. Così in un
rendiconto al Regio Istituto Lombardo nel 1916,
scriveva Giuseppe Colombo, uno dei padri storici
del Politecnico di Milano:
Delle invenzioni senza numero alle quali hanno
condotto i progressi scientifici del mezzo secolo
trascorso dal 1865 a oggi, quella le cui conseguenze
hanno più stupito il mondo e hanno avuto la più
grande influenza sul progresso dell’attività umana
fu senza dubbio l’invenzione della dinamo che ha
permesso di utilizzare l’energia comunque ottenuta,
alla produzione della corrente elettrica. […]
Gaulard inventore genialissimo ma quasi ignorato ,
espone a Torino, nel
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Vittorio Marchis
1884, il primo trasformatore, base della grande
industria elettrica d’oggigiorno, e ne fa la prima
prova sulla linea Torino-Lanzo, mostrando che colla
trasformazione da basso ad alto potenziale diventi
possibile trasportare correnti alternate alle più
grandi distanze […] col sistema trifase e coi motori
a campo rotante del nostro compianto Galileo
Ferraris. In Italia se ne fa la prima applicazione da
Roma a Tivoli nel 1892, seguita nel 1898 da quella
di Paderno sull’Adda, che fu la più grande
installazione del tempo. […] L’aspetto stesso delle
regioni ricche d’acqua è cambiato. Non più selve di
camini, corsi d’acqua indigati ad ogni passo,
piccole officine rimaste invariate per generazioni di
proprietari. I corsi d’acqua sono sbarrati nelle alte
valli da dighe colossali; ivi migliaia e centinaia di
cavalli di forza sono raccolti da perfetti motori e
sono condotte a centinaia di chilometri di distanza e
distribuite per produrre le cose necessarie alla vita
e servire ai trasporti. reti di fili e di cavi trasmettenti
l’energia elettrica sovrastano le campagne […]
Nulla si perde, neppure l’energia notturna perché
cogli alti sbarramenti fra i monti si trattiene entro
vasti serbatoi, veri laghi artificiali, l’acqua fluente
della notte, per utilizzarla tutta; e così anche le
risorse idrauliche, così grandi nella nostra Italia,
coronata dalle alte Alpi nevose e percorsa dagli
Appennini, potranno essere tutte utilizzate un giorno
al cento per cento.
Non esiste miniera lontano
da un torrente
Ogni scienza ha riflessi nella tecnologia che le
corrisponde, la quale spesso precede la conoscenza
sistematica e organizzata. Ma se ogni conoscenza di
per sé non è né buona né cattiva, le sue applicazioni
devono trovare equilibrio nei contesti che le
circondano e con cui devono armonizzarsi. Un’etica
dell’ingegneria è necessaria non per fini moralistici,
ma per il rispetto di tutte le componenti che
interagendo non devono entrare in situazioni
conflittuali. Quando invece prevalgono gli interessi
personali o anche solo la trascuratezza e l’incuria,
allora possono scatenarsi le catastrofi. Molto si è
detto, scritto e anche recitato intorno alla tragedia
del Vajont. Con una scelta forse un po’ fuori dal
convenzionale si preferisce lasciare ogni
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Le montagne e l’acqua
commento alla Diga di Erri De Luca, un nostro
poeta contemporaneo, nato in Campania e noto ben
oltre le Alpi.
Dietro a opere gigantesche
stanno enormi rischi e benefici
Chiasso di acque nei cieli, “Hamòn màim bashamàim”. Così un profeta intese la voce che grondava
su di lui da un acquario di stelle. Ascolta un altro
chiasso, una montagna intera che sfracella sopra
l’invaso di una diga. Era di notte, aggredite dal
crollo esplosero le acque verso l’alto a strappare le
case di Erto e Casso dai pendii a meridione e poi di
nuovo in giù, acque su acque, oltre la muragliasgabello a sradicare a valle Longarone, lago fiume e
tempesta di Vajont, duemila nostri spenti. Ascolta il
tuffo del sangue quando l’amore stringe:
moltiplicalo per il quadrato delle stelle fisse, per il
grido del capretto sgozzato ogni Pasquanatale, per
la sega del fulmine e il piccone del tuono,
aggiungilo agli schianti del bosco cancellato, larici,
abeti, càrpini, betulle, cervi, gufi, lepri, martore,
uova, ali, zampe, artigli stritolati: e poi dividi per il
silenzio di un minuto dopo. Non giocare con l’acqua, non chiuderla, frenarla, è lei che scherza
dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini, e
vasche di saline. È alleata col cielo e il sottosuolo,
ha catapulte, macchine d’assedio, ha la pazienza e il
tempo: passerai pure tu, specie di viceré del mondo,
bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte
fino a metterle fretta. (da: Opera sull’acqua e altre
poesie, Torino: Einaudi, 2004, p. 14)
Acqua e ghiaccio: stazioni meteorologiche e glaciologiche, telerilevamento e sistemi informativi
satellitari, marcatori di variazioni ambientali e poli
tecnologici sono alcune delle parole che più frequentemente affollano le pagine dei giornali specia
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Vittorio Marchis
listici che ci aggiornano dei più recenti progressi
delle tecnoscienze. Anche la montagna si deve
attrezzare, perché rispetto della natura significa
anche non dimenticare ciò che accade intorno e un
isolazionismo protettivo non giova a mantenere in
queste regioni i giovani, che inevitabilmente sono
attratti dalle seduzioni della città e della società di
massa. La soluzione potrebbe arrivare proprio dalle
nuove tecnologie dell’informazione perché proprio
esse, a differenza della grande industria non hanno
bisogno né di grandi spazi né di grandi risorse
energetiche. In molti casi è solo necessaria una linea
dati a larga banda e alta velocità di trasmissione.
Bisognerebbe a questo punto aprire una porta su
scenari che forse ci farebbero invece deviare dagli
scopi di questa ricerca le cui finalità – lo ricordiamo
– devono soprattutto giungere a una fotografia del
presente e del passato. Ovviamente sempre con riferimento all’acqua che è il nostro cardine centrale.
Tra gli artifici che la nostra società ha costruito
per armonizzarsi con l’ambiente esistono anche i
regolamenti e le leggi. Sembra strano, a questo
punto, chiamare in causa amministratori e
legislatori, ma anche essi fanno parte del complesso
sistema di cui ci occupiamo. Scoprire i regolamenti
di uso delle acque, che in molti centri montani hanno
radici molto antiche, significa prendere coscienza
del contesto storico in cui si è sviluppata una
comunità montana.
Inoltre sempre più affollano i codici e le raccolte
delle norme i regolamenti e i criteri di valutazione e
uso di questa risorsa.
Il decreto 12 Novembre 1992 n. 542:
“Regolamento recante i criteri di valutazione delle
caratteristiche delle acque minerali naturali”, del
Ministero della Sanità, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 12 Gennaio 1993 indica i “Criteri di
valutazione per la revisione dei riconoscimenti delle
acque minerali naturali in commercio”. La
valutazione delle caratteristiche organolettiche,
fisiche, fisicochimiche, chimiche e microbiologiche
é stata basata sul Decreto legislativo 25-01-1992, n.
105: “Attuazione della direttiva 80/777/CEE relativa
alla
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Le montagne e l’acqua
Laghi d’acqua e di nebbie
utilizzazione e alla commercializzazione delle acque
minerali naturali”, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 17-02-1992.
Non bisogna spaventarsi né si corre il pericolo di
annoiarsi: anche solo la lettura dell’etichetta
incollata sopra una bottiglia di acqua minerale ci
aiuterà nella nostra avventurosa ricerca.
È questo un solo piccolo esempio per guardare
oltre gli archivi polverosi e rendersi conto che la
totalità della nostra società ci avvolge e non possiamo mai ragionare a compartimenti stagni. Non ci
sono separazioni insormontabili tra il dominio della
poesia e quello della scienza più avanzata.
Nel 1968 il Comitato Europeo del Consiglio
d’Europa per la salvaguardia della Natura e delle sue
risorse ha promulgato la Carta dell’acqua, articolata
in dodici punti essenziali. Concludere con questo
insieme di precetti sia di buon augurio e soprattutto
di speranza per un futuro più sostenibile di quello
che abbiamo oggi dinanzi.
Non c’è vita senza acqua. L’acqua è un bene
prezioso, indispensabile a tutte le attività umane.
Le disponibilità d’acqua dolce non sono
inesauribili. È indispensabile preservarle,
controllarle e se possibile accrescerle.
Alterare la qualità dell’acqua significa nuocere
alla vita dell’uomo e degli altri esseri viventi che
da essa dipendono.
La qualità dell’acqua deve essere tale da
soddisfare le esigenze delle utilizzazioni previste;
ma deve specialmente soddisfare le esigenze della
salute pubblica.
Quando l’acqua, dopo essere utilizzata, viene
restituita al suo ambiente naturale, essa non deve
compromettere i possibili usi, tanto pubblici che
privati, che di questo ambiente potranno essere
fatti.
La conservazione di un manto vegetale, di
preferenza forestale, è essenziale per la
salvaguardia delle risorse idriche.
Le risorse idriche devono formare oggetto di
inventario. La buona gestione dell’acqua deve
formare oggetto di un piano stabilito delle autorità
competenti.
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Vittorio Marchis
La salvaguardia dell’acqua implica un notevole
sforzo di ricerca scientifica, di formazione di
specialisti e di informazioni del pubblico.
L’acqua è patrimonio comune il cui valore deve
essere riconosciuto da tutti. Ciascuno ha il dovere di
economizzarla e di utilizzarla con cura.
La gestione delle risorse idriche essere
inquadrata nel bacino naturale, piuttosto che entro
frontiere amministrative e politiche.
L’acqua non ha frontiere. Essa è una risorsa
comune che necessita di una cooperazione
internazionale. (Consiglio d’Europa, La Carta dell’Acqua,
1968.)
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