Università Iuav di Venezia
Dipartimento di Culture del Progetto
Quaderni della ricerca
Durabilità
Longue durée
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Quaderni della ricerca
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: febbraio 2014
Durabilità
Longue durée
a cura di MariaAntonia Barucco
Settore scientifico-disciplinare
ICAR/12 Tecnologia dell’Architettura
ICAR/14 Composizione Architettonica
Unità di ricerca
Città, Sostenibilità e Tecnologia
Indice
11 Introduzione
12 La lunga durata del progetto e la sostenibilità
Benno Albrecht
32 La città africana del futuro
Patrizia Montini Zimolo
48 L’Ecofondaco
Roberta Albiero
60 Architettura usa e getta
Valeria Tatano
76 Innovazione semantica
MariaAntonia Barucco
96 L’ultimo edificio sulla terra
Massimo Rossetti
116 L’innovazione nell’edilizia
MariaAntonia Barucco, Massimo Rossetti, Valeria Tatano
126 Profilo degli Autori
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Introduzione
Questa raccolta di saggi descrive l’Architettura per la Sostenibilità affrontando la dimensione teorica e culturale che è oggi poco trattata dal dibattito internazionale.
L’architettura per la Sostenibilità è un progetto, di tempo lungo e di vita utile di lunga
durata. L’aspetto “umanistico” della Sostenibilità caratterizza il lavoro dell’unità di ricerca, i
docenti illustreranno i temi delle ricerche in atto.
La sostenibilità è responsabilità sull’uso delle risorse. I temi sul tappeto sono oggi diversi
per scala temporale e dimensionale e per portata. Non sono più legati, come in passato
anche recente, al comportamento tra uomo e uomo ma dal rapporto d’interdipendenza tra
umanità e natura. Dall’etica basata sui rapporti interpersonali, e di conseguenza di breve
termine, bisogna passare, oggi nell’epoca della tecnica onnipotente, ad una concezione
dell’agire che assume valore etico collettivo. Questo a causa delle proporzioni dei cambiamenti che oggi è possibile indurre alla biosfera e un agire che bisogna impostare con
estensioni spaziali e temporali completamente nuove.
L’architettura oggi si configura come la disciplina depositaria dell’assunzione della responsabilità nella cura del mondo fisico, della sua difesa e della comprensione dei risultati
e delle cause dei fenomeni di trasformazione. L’architettura assume nuovo valore etico
fondante ed è responsabile del diverso rapporto fiduciario tra azioni umane e natura.
Questa responsabilità si esplica su una apertura temporale di lunga durata. In questo
senso ha valore la cura da assumersi oggi per le “generazioni future” che è uno dei temi
teoricamente fondanti le politiche della sostenibilità. Il compito dell’architettura include la
“natura” in senso globale. Questa è la novità di atteggiamento espressa dalla progettazione
sostenibile che pretende di definire e di controllare le interferenze e le perturbazione degli
equilibri biotici messi in essere dalle invitabili trasformazioni date dalla presenza dell’uomo
su questo pianeta.
E’ una svolta che si ripercuote inevitabilmente nello spazio disciplinare ed inesorabilmente
sulle tecniche di controllo, previsione e definizione delle trasformazioni indotte dall’uomo
sulla superficie terrestre.
I correttivi tecnici e culturali al disastro ambientale che è sotto gli occhi di tutti noi posso
essere filtrati attraverso la figura mentale della durata.
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LA LUNGA DURATA DEL PROGETTO
E LA SOSTENIBILITA’
Benno Albrecht
La formulazione contemporanea dell’idea di “Sostenibilità” cambia dimensioni temporali ed
etiche cui bisogna riferirsi e implica differente concezione temporale. Una differente concezione dei tempi delle trasformazioni dell’ambiente coinvolge necessariamente differenti
strumenti culturali, di giudizio, di progetto, amministrativi.
Si tratta di riconsiderare il sistema di valori e delle priorità che determinano le scelte progettuali e d’impostare una progettazione non solo per oggi ma che deve tener conto anche
del domani e delle generazioni che verranno. E’ la capacità di scelta ponderata dell’allocazione delle risorse tra diversi fini alternativi, che comporta diverse strategie di amministrazione e cura del capitale naturale. La progettazione per la sostenibilità deve economizzare e
razionalizzare gli sforzi, in modo da garantire la possibilità che i risparmi siano equamente
distribuiti. Il tempo, rappresentato dalle generazioni future, e l’atteggiamento etico,
rappresentato dalla lotta alla povertà, ad ogni spreco e dispersione di energie, diventano con
prepotenza ed orgoglio culturale un parametro essenziale di progetto.
Ogni oggetto fisico o organismo che, a causa della sua azione e della sua esistenza,
deteriora il proprio ambiente fisico, distrugge se stesso. La sua azione sull’ambiente deve
essere di lunga durata e permettere, durevolmente, la coesistenza d’altri abitanti dello
stesso ambiente. Per questo la ricerca di un tempo “durevole” è uno dei presupposti della
Sostenibilità. La progettazione per la sostenibilità guarda con attenzione la definizione di
norme di tempo lungo per stabilire un “governo di leggi e non di uomini”1. Un governo delle
regole contro quello degli interessi organizzati è il primo presupposto del riconoscimento
della libertà individuale e dell’eguaglianza politica del vivere associato e civile.
La progettazione per la sostenibilità contiene previsioni di tempo lungo e di futuro, dove ogni
progetto non si configura come utopia, come sistema di previsione di nuovi accadimenti, ma
come tecnica critica del presente che dimostra i futuri percorribili. Sono progetti a scenari
che guardano le previsioni di tempo lungo al 2050 o al 2100, che prevedono edifici polivalenti e flessibili o proprio modificabili. Allo stesso modo bisogna considerare il valore della
permanenza, ogni progetto “sostenibile” non può prescindere da una considerazione sul
valore intrinseco del passato, perché “lo sguardo proiettato nel futuro è lo stesso sguardo
che risveglia il passato e scopre il senso della realtà nel presente”2.
E’ proprio il tempo lungo quello che descrive le trasformazioni dell’ambiente e oggi si
avverte una collisione tra il tempo lungo della natura ed il tempo breve degli uomini e della
loro capacità di previsione.
01. J. Adam, 7th “Novanglus” letter, the Gazette, Boston, 1774.
02. E. Paci, Diario fenomenologico, Bompiani, Milano, 1973. Pag. 23.
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Nella concezione sostenibile del tempo sono contrapposti il tempo della trasformazione
veloce, che è spesso non cosciente, a quello lento e progressivo della trasformazione lenta,
della metamorfosi che, per presupposto, è inerente e fa parte della natura di quanto viene
trasformato.
E’ un tempo che riunisce storia umana e storia naturale all’interno di uno stesso processo e
permette di intenderle come unità e che si contrappone al tempo progressivo che vede non
collegati gli accadimenti ambientali e quelli antropici.
I tempi delle metamorfosi delle città e del territorio sono lunghi e sul lungo periodo si
misura e si è misurata storicamente la costruzione e l’adeguamento degli impianti urbani.
Il tempo dà valore alla stratificazione, fisica e dei saperi, ad una cultura dello spazio non
omogeneizzante, che agisce sulle differenze strutturali dei diversi meccanismi di metamorfosi delle realtà fisiche.
Il tempo lungo diventa cultura progettuale, cultura dello spazio localizzato, con tutte le
implicazioni strategiche, amministrative e tecniche che questo comporta. L’adeguamento ed
il perfezionamento dell’ambiente e della città diventa un processo progettuale da innescare,
una strategia da percorrere. La sostenibilità in architettura ha proprio come presupposto
quello di varare strategie e progetti di lunga durata, pensati sul lungo periodo.
E’ perciò necessario disporre ed approntare mezzi e luoghi dove confrontare, individuare,
analizzare molteplici e distinte “storie del futuro”, significa unire diversi attori e diverse
conoscenze per intraprendere percorsi di critica delle modellazioni di previsione.
La ricerca è un complesso processo di attività deduttive ed induttive, d’invenzione e confronto di dati. La ricerca scientifica nel campo dell’architettura mira a determinare le strategie
adatte alla risoluzioni di problemi: una vasta gamma di problemi fisici, ambientali, umani.
L’invenzione produce lo scarto qualitativo ed innovativo della ricerca e la bellezza del risultato è la verifica e la garanzia del raggiungimento di un obiettivo positivo. Infatti “Urbanistica e architettura divengono discipline del tempo in un’accezione forse diversa da quella di
altre discipline: del tempo come relazione delle cose che cambiano a ritmi differenti”3.
Vi è una corrispondenza coincidente e simmetrica tra attenzioni ambientali e cultura del
tempo lungo. La sostenibilità è un pensiero di Lunga Durata e di un’architettura della lunga
durata, della longue durée.
Henri Bergson (1859-1944) mostra l’esistenza di ritmi e sequenze temporali di diversa durata
e frutto di tempi plurimi, una sovrapposizione e moltiplicazione di diversi livelli di percezione
e di senso, ma anche una comprensione della delicatezza dei rapporti ambientali.
03. B. Secchi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Bari, 2005. Pag. 38 .
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Infatti: “l’umanità geme quasi schiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. E’ ad essa, infatti che spetta decidere prima di
tutto se vuol continuare a vivere. All’umanità tocca poi domandarsi se vuol soltanto vivere, o
anche produrre lo sforzo necessario perché persino sul nostro pianeta refrattario si compia
la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei”4.
Comprendere l’esistenza di complesse interrelazioni tra uomo ed ambiente e che l’ambiente
è fortemente umanizzato apre la strada al possibilismo geografico di Paul Vidal de La
Blache (1845-1918), che ha dato vita alla geografia regionale, all’approccio della scuola
degli Annales. Proprio nella rivista “Les Annales” compare con evidenza l’importanza della
descrizione delle trasformazioni geografiche e le loro ripercussioni sugli eventi storici. La
longue durée della concezione storica di Fernand Braudel (1902-1985) è diventata strumento
di lettura del presente, in cui è avvenuta l’accelerazione delle trasformazioni dell’ambiente,
che apre la possibilità della comprensione dei sistemi d’interazione, contrasto, scontro, tra
tempi dell’uomo e tempi della natura.
Il paleoclimatologo William Ruddiman5 evidenzia che i forti cambiamenti climatici
riscontrati in epoca industriale determinando un picco della curva, e iniziano quando l’uomo
incomincia a coltivare. E’ la scoperta dell’agricoltura, del disboscamento che ne consegue,
che dà inizio al susseguirsi di cambiamenti climatici, inizia un meccanismo di cui oggi
vediamo le conseguenze esasperate dall’uso dei combustibili fossili.
Sappiamo che la nascita del pensiero progettuale inizia con l’agricoltura, in quanto, con la
selezione delle specie e quindi con la preparazione del terreno e il controllo delle acque per
l’irrigazione, è la prima trasformazione cosciente dell’ambiente naturale6.
La coltivazione agricola e la gestione del bosco, implicano l’organizzazione degli sforzi di una
collettività, presuppongono una capacità di previsione che va aldilà della vita di un singolo
individuo ed esige progetti di lunga durata, i cui effetti si manifesteranno dopo lungo tempo.
L’acquisizione delle prospettive di lunga durata produce una trasformazione psicologica
definitiva, comporta nozioni nuove sull’ereditarietà, sulla successione, sulla distinzione tra
proprietà private e collettive. Rappresenta l’essenza dei valori legati all’eredità intergenerazionale. Insieme all’agricoltura compare l’architettura in senso proprio, cioè l’abilità di
conoscere e modellare il territorio abitato. Questa capacità di prevedere ed organizzare gli
sforzi per trasformare un luogo in maniera più consona alle esigenze dell’uomo è ciò che
chiamiamo “progetto”.
04. H. Bergson, Les Deux Sources de la morale et de la religion, in Oeuvres, Paris, Edition du Centenaire/PUF, 1959, pag.
1245, nel capitolo Mécanique et mystique. Uso la traduzione di Matteo Perrini.
05. W. F. Ruddiman, L’aratro, la peste, il petrolio: l’impatto umano sul clima, Università Bocconi, Milano, 2007, che riprende il
titolo del fortunato libro di Jared Diamond. Vedi anche M. Williams, Deforesting the Earth: From Prehistory to Global Crisis,
University of Chicago Press, 2003
06. Ipotesi discussa in B. Albrecht, L. Benevolo, Le origini dell’architettura, Laterza, Bari, 2002.
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Il tempo corto è quello del cronista o del giornalista7, quello della progettazione di lunga
durata è simboleggiato, nel pensiero della sostenibilità, dalle gestione accorta e di tempo
lungo della foresta.
L’uomo come agente climatico e produttore di effetti di lunga durata e di grande impatto
sull’ambiente è una coscienza che viene da lontano, è una storia che va da Teofrasto (371
a.C. - 287 a.C.) a Alberto Magno di Bollstädt. (1206-1280).
Questa considerazione diventa operativa nel campo del disegno del territorio e delle strategie di collocazione delle opere dell’uomo con John Evelyn (1620-1706), che nel 1661 aveva
proposto una strategia per purificare l’aria già contaminata di Londra attraverso una serie
d’anelli d’aree verdi piene di piante aromatiche8. Sviluppa anche un’ipotesi di ri-forestazione
del paese per rifornire di legno la Royal Navy, perché “le meravigliose foreste di querce
dell’Inghilterra erano state sacrificate alla ferriera”9. Evelyn, che è un ricco proprietario
terriero, s’interessa allo stesso tempo d’architettura e di giardini e propone uno dei piani per
la ricostruzione di Londra nel 1666.
Nello stesso tempo l’Ordonnance di Colbert del 1669, per la salvaguardia delle foreste
reali, è un importante episodio di presa di coscienza e raziocinio dei rapporti tra uomo e
risorse naturali. L’Ordonnance è mirata alla razionalizzazione della produzione di legname
ma contiene un pensiero sulla responsabilità intergenerazionale: “Non è sufficiente avere
restaurato l’ordine e la disciplina, se una buona normativa non può garantire di dare i suoi
frutti ai posteri”10.
E’ l’esempio che è possibile mettere a regime e razionalizzare un sistema multiplo di relazioni, leggi, diritti, abitudini per favorire la riproduzione della foresta ed il suo uso nel tempo
lungo, che resta da sfondo a tutte le proposte di controllo del territorio a scala vasta.
Le foreste erano una fonte primaria d’energia e legno per ogni tipo di costruzione, di terra
o di mare, ed il loro uso saggio comportava anche ragionamenti attorno al valore della loro
cura.
Il primo uso della parola “sostenibilità”, in termini simili al significato odierno, fu fatto probabilmente da Hans Carl von Carlowitz (1645-1714) che propose, nel suo libro Sylvicultura
Oeconomica del 1713, un nachhaltende Nutzung, uso sostenibile, delle risorse forestali11.
07. F. Braudel, La larga duración, in Revista Académica de Relaciones Internacionales, N. 5 Novembre 2006, pag. 5.
08. J. Evelyn, Fumifugium; or, the inconvenience of the aer and smoake of London, Humphries, [ 1661] 1772.
09. L. Mumford, Technics and Civilization,Harcourt Brace & Co. 1934, tradotto in italiano in Tecnica e cultura, Il Saggiatore,
Milano, 2005, pag. 99.
10. M. Devèze, Une admirable réforme administrative - La grande réformation des forêts royales sous Colbert (1661-1680).
Seconde et troisième parties, Annales de l’école nationale des eaux et forêts et de la station de recherches et expériences,
ENEF, Vol. 19, N° 2, 1962, p. 169-296. Pag. 237.
11. Sulla silvicultura come prodromo della sostenibilità U. Grober, Deep roots – A conceptual history of ‘sustainable development’ (Nachhaltigkeit), Best.-Nr., pp 2002-007 Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung, (WZB), February 2007.
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Nachhaltigkeit è Sostenibilità in tedesco, letteralmente durevole, esprime la capacità di
controllo nel corso del tempo, come il termine francese durabilité, trajnost in sloveno e
l’olandese duurzaamheid12.
Il territorio è fonte prioritaria di ricchezza e valore, deve essere curato, progettato e razionalizzato, ma la città, che è improduttiva e spreco per definizione, deve essere confinata,
delimitata e separata nettamente. La città, bersaglio principe delle critiche fisiocratiche,
deve essere resa un luogo “naturale”, progettata come se fosse una foresta per dissolverla
nella natura.
Marc-Antoine Laugier (1713-1769) nel Essai del 1753, dopo aver ritrovato l’origine di “ogni
magnificenza architettonica” nella petite cabane rustique, tenta di riportare concettualmente anche la città ad un fenomeno naturale, la foresta, ma dominato e ridisegnato
dall’uomo: “Bisogna considerare una città come una foresta: le vie della prima sono le
strade della seconda e debbono essere tracciate in modo analogo”13.
La critica alla realtà urbana deve essere naturalizzata per poter sopravvivere, trasportata
dall’inorganico all’organico. L’utopia sociale, che è in debito con il pensiero fisiocratico,
corrisponde anche alla fiducia illimitata nella capacità di modellazione e di cura dell’ambiente, come dimostra il più accanito seguace del Furierismo, Albert Brisbane (1809–1890),
che nel 1840 affermava che il destino sulla terra degli uomini, “terrestrial”, era quello di
“sorvegliare il pianeta che è un vasto dominio affidato alla loro cura e che il fine ultimo di
questa cura è abbellirlo ed adornarlo.
Questo obiettivo presuppone una generale e perfetta coltivazione della sua superficie,
fertilizzare i deserti, bonificare le paludi e gli acquitrini, coprire le montagne con foreste,
regolare le acque – in breve, adornare ed abbellire il mondo in ogni modo con la loro forza
ed intelligenza”14. George Barrell Emerson (1797-1881), lontano cugino di Ralph Waldo
Emerson, intraprese un’anticipatrice battaglia in difesa delle foreste del Massachusetts15.
Per lui l’agire deve essere conforme alla natura e a questo rapporto organico corrisponde
un’etica di vita che diventa evidente e si educa attraverso la scoperta ed il contatto fisico
con la natura. Fu il primo ambasciatore degli Stati Uniti d’America nel nuovo Regno d’Italia,
George Perkins Marsh (1801-1882) a proporre una nuova, preveggente ed anticipatrice
consapevolezza del pericoloso influsso dell’uomo sull’ambiente.
12. Vedi J. A. Du Pisani, Sustainable development – historical roots of the concept , in Environmental Sciences, June 2006;
3(2): pag. 83 – 96, pag. 85.
13. M. Laugier, Essai sur l’Architecture, Parigi 1753, qui riportato nella traduzione italiana a cura di V. Ugo, Saggio Sull’Architettura, Aestetica ed., Palermo, 1987, pag 145.
14. A. Brisbane, Social destiny of man, C.F. Stollmeyer, 1840, pagg. 239 – 240.
15. A Report on the Threes and Shrubs growing naturally in Massachussets, Boston, 1850; un altro cugino era William Ralph
Emerson (1833-1917) noto architetto.
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Marsh scrive il testo precursore degli studi sul rapporto complesso e conflittuale tra uomo
e natura, sulla perturbazione dell’ordine geografico da parte dell’uomo. Marsh descrive i
fenomeni e gli effetti della desertificazione, della progressione delle dune e della messa in
crisi dei cicli dell’acqua, dell’erosione dei suoli e delle inondazioni, della deforestazione e
dell’azione della vegetazione sulla temperatura, dell’estinzione delle specie animali e vegetali. Marsh coglie il ruolo della vegetazione nel ciclo climatico, propone strumenti operativi
di mitigazione, cita esempi virtuosi e strategie efficaci d’attenzione per l’ambiente e parla di
“economia vegetale” per descrivere la vita della foresta.
L’azione geografica dell’uomo ha contribuito a modellare la forma della superficie terrestre,
“è certo che la distruzione delle foreste, il prosciugamento dei laghi e delle paludi, e le
operazioni dell’agricoltura e delle arti industriali tendono a produrre più o meno grandi
mutamenti nelle condizioni igrometriche, termometriche, elettriche e chimiche dell’atmosfera”16 ed aggiunge che “è certo infine che le miriadi di forme della vita vegetale ed animale,
le quali coprivano la terra quando l’uomo comparve sul teatro di una natura le armonie della
quale egli era destinato a disturbare, sono state, dalla sua azione, cambiate molto nella
proporzione numerica, talvolta anche modificate nella forma e nei prodotti, e tal’altra anche
interamente estirpate”17.
Tratta del “traslocamento, modificazione ed estirpamento delle specie vegetali ed animali”,
per Marsh la vita organica è guardata come agente geologico e geografico. Dedica molto
spazio allo studio della foresta, perché “la distruzione dei boschi dunque fu al prima conquista geografica dell’uomo, il suo primo turbamento dell’armonia della natura”18. Classifica gli
effetti dei disboscamenti.
La foresta è un sistema organico, in stabile ma precario equilibrio, da trattare e progettare con cura, dove vige un rapporto di tempo lungo tra uso delle foreste e responsabilità
intergenerazionale: “Altre volte le foreste sono state protette dalle leggi siccome necessarie
per allevare i cervi e cinghiali per la caccia, e tal’altra anche risparmiate collo scopo più
ragionevole di conservare una provvista di legname da costruzione e da bruciare per le
generazioni future”19. E’ una precauzione normativa intergenerazionale che s’immerge nella
profondità della storia.
16. G. P. Marsh, L’ uomo e la natura : ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, Franco Angeli, Milano,1988,
pag.14.
17. Ibidem, pag.14-15
18. Ibidem, pag.154, tutto il capitolo III è dedicato alla foresta, problematica molto sentita in America Settentrionale.
19. Ibidem, pag.310.
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Marsh ricorda nel suo libro che una delle più antiche prove del rispetto pubblico per i boschi
e del loro opportuno, oggi diremmo sostenibile, governo si può far risalire alla tradizione
ebraica, attribuita a Giosuè che emana dieci statuti che danno regole precise per prevenire
le “depredazioni sregolate”20.
“Quando cingerai d’assedio una città per lungo tempo, per espugnarla e conquistarla, non
ne distruggerai gli alberi colpendoli con la scure; ne mangerai il frutto, ma non li taglierai,
perché l’albero della campagna è forse un uomo, per essere coinvolto nell’assedio? Soltanto
potrai distruggere e recidere gli alberi che saprai non essere alberi da frutto, per costruire
opere d’assedio contro la città che è in guerra con te, finché non sia caduta”21.
Rileva che i risentimenti politici sono la causa delle “crociate contro le foreste”, che
seguirono la Rivoluzione francese, come contropartita fisica alle vessazioni subite per tanto
tempo dalle popolazioni. I codici forestali dei sovrani medievali, le “coutumes”, gli usi locali
del feudalesimo, servivano a proteggere la selvaggina per la caccia dei nobili, non la vita dei
sudditi, che erano messi a morte anche solo se uccidevano una lepre, per questo la foresta
si associava mentalmente ed era il simbolo tangibile degli abusi e dei privilegi feudali22.
Gli USA da dove Marsh proviene sono un paese che passa attraverso una timber famine, la
carestia del legname, che poi sarà tamponata dal Timber Culture Act del 1873 e ribadito dal
Forest Reserve Act del 189123.
Il libro di Marsh ha influenzato concretamente il pensiero dei preservationists e anche
la legislazione americana, dall’atto del Colorado del 1876 sulla protezione delle foreste,
all’istituzione dei Parchi Nazionali, fino al Forest Reserve Act del 1891 e più in generale il
Conservation Movement24.
20. Ibidem, pag.310, nota 2 dove cita Arthur Penrhyn Stanley (1815-1881), che era Dean of Westminster, ed il suo libro
Lectures on the History of Jewish Church, London, 1863, parte I pag. 271, che riporta il testo del giurista John Selden (1584
-1654), De Jure naturali et gentium libro VI e Johann Albert Fabricius (1668-1736), Codex Pseudepigraphus, Vet. Testamenti,
i, 874. Riporta anche i provvedimenti tratti dalle leggi del legislatore indiano Manu ( Manou) al riguardo, citati da Alfredo
Maury, Les foréts de la Gaule, pag. 9. Entrambi autori sono citati da Ralph Waldo Emerson in Society and Solitude Twelve
Chapters, [1870] edizione del 1904, nella nota 2 di pag. 192, a pag. 406.
21. La Sacra Bibbia, Deuteronomio 20,19-20, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Casale Monferrato, Alessandria,
2002, Edizioni Piemme, pag. 185.
22. G. P. Marsh, L’ uomo e la natura : ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, Franco Angeli, Milano,1988,
pag.311
23. S. Stoll, The Great Delusion: A Mad Inventor, Death in the Tropics, and the Utopian Origins of Economic Growth, Hill and
Wang, 2008, pag. 142-143
24. Sull’influenza del pensiero di Marsh vedi: D. Lowenthal, Nature and morality from George Perkins Marsh to the millennium, Journal of Historical Geography, 26, 1 (2000) 3–27.
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I grandi architetti paesaggisti, Frederick Law Olmsted (1822-1903) e Horace Shaler Cleveland (1814-1900)25, i protagonisti del Park Movement, sono i “buoni esempi”, le applicazioni
operative del pensiero espresso da Marsh e mostrano concretamente, dice Lewis Mumford,
che le potenzialità della terra non devono essere violate26.
Molti esempi che Marsh porta nel libro riguardano la geografia fisica del Bel Paese, dove
intrattiene stretti rapporti con il modo intellettuale, e dove vi rimase dal 1861 fino alla sua
morte nel 1882 a Vallombrosa, una foresta protetta, proprio dove ha sede l’Istituto Forestale
d’Italia27.
Le conseguenze di lungo periodo di un uso sconsiderato del patrimonio forestale sono
chiare a Annibale di Saluzzo (1776-1852), che studia nel 1845 in termini di difesa militare
la conformazione fisica delle Alpi, ma giunge alla considerazione che: “L’azione prodotta
dall’atterramento delle foreste è spesse volte sensibile anche sul clima di lontane regioni
talmente, che l’esistenza o la mancanza di esse possono cagionare straordinari fenomeni.
In conseguenza della distruzione di varie selve del Tirolo italiano e di alcune poste sul
monte Baldo, il Veronese, il Vicentino, e parte del Bresciano soffrono venti gagliardi ed
una frequente ed incomoda variazione dei climi. Il Piemonte, impoverito delle foreste che
signoreggiavano i propri monti, prova la stessa calamità.
Pel taglio dei boschi sugli Appennini, il scirocco domina grandemente sulla sponda destra
del Po, nel Parmigiano e parte della Lombardia, e guasta messi e le vigne rovinando qualche
volta per intero i prodotti d’una stagione.
Da questi atterramenti continuati lungo la stessa catena vuolsi ripetere da alcuno il
Cambiamento di temperatura a tal segno operatosi nel Modenese e nel Reggiano, che in
varii comuni, ove la forza de’ venti reggevano per lo passato i tetti di paglia, ora vi bastano
appena le tegole; in altri ove erano le tegole, non sono oggidì sufficienti i lastroni, e
finalmente in certi luoghi delle stesse provincie non lontane da quelle accennate, le biade e
le uve sorreggono a stento l’impeto dell’australe e del libeccio”28.
25. Cleveland cita Marsh in H. W. Shaler Cleveland, Landscape architecture, as applied to the wants of the West: with an
essay on forest planting on the Great Plains, 1873, University of Massachusetts Press, 2002, pag. 104.
26. E’ la posizione di Lewis Mumford in L. Mumford, The Browns Decades pubblicato nel 1931, tradotto in italiano
“Architettura e cultura in America dalla guerra civile all’ultima frontiera:The Brown Decades: A Study of the Arts in America,
1865-1895”, Marsilio, Padova, 1977, a cura di Francesco Dal Co, pag. 82.
27. Sui rapporti con le esperienze di trasformazione del territorio, i pensatori e geografi italiani e quelle di Marsh vedi M.Hall,
Earth repair: a transatlantic history of environmental restoration University of Virginia Press, 2005. Nature and History in
Modern Italy a cura di M. Armiero e M. Hall, con una prefazione di Dinald Worster, Athens, Ohio University Press, 2010.
28. A. di Saluzzo, Le Alpi che cingono l’Italia considerate militarmente cosi nell’antica come nella presente loro condizione,
tipografia di Enrico Mussano, Torino, 1845, Pag. 370-371.
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L’opera di Marsh ed i lavori dei suoi contemporanei, come Carlo Siemoni (Karl Siemon),
l’economista Gerolamo Boccardo, gli studi sulla storia dell’arte forestale di Giuseppe Adolfo
di Bérenger (1815-1895), il fondatore della scienza forestale italiana, colui che analizza la
storia del buon ordinamento dei boschi veneti, e le analisi di Antonio Salvagnoli Marchetti,
hanno ripercussioni operative nella legislazione italiana: viene varata la legge n. 3917
del 20 giugno 1877 sul divieto del disboscamento dei terreni, al di sopra del limite della
vegetazione del castagno29.
Bisogna ricordare che l’ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto del 1745 impose
la conservazione allo stesso tempo delle antichità di Taormina e dei boschi del Carpineto
sancendo per la prima volta il rapporto tra tutela del paesaggio e dei beni artistici.
29. M. Hall, 1998. “Restoring the Countryside: George Perkins Marsh and the Italian Land Ethic (1861-1882).” Environment
and History 4(1) 1998: 91-103. Sulla storia dell’ambiente in Italia vedi M. Armiero & M. Hall, eds., Nature and History in
Modern Italy. Athens: Ohio University Press, 2010.
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Adolfo di Bérenger mostra che fin dal VII secolo, la Repubblica di Venezia doveva intrattenere complesse relazioni per garantire la salvaguardia e lo sfruttamento dei suoi boschi.
Bérenger ci rammenta che “l’antico regime dei veneziani non considerava i boschi oggetto
di centrale amministrazione bensì centrale di direzione tecnica, e questa superiore a quella;
a differenza del metodo ed uso odierno, in cui, posposta la direzione tecnica delle foreste,
questa soggiace alla pressione amministrativa; le quali non di rado procedono in senso di
mire che lottano fra loro; stante che la direzione tecnica mira ad operazioni di spesa e di
lontano profitto; e l’amministrativa a risparmi di spesa, ed a profitti solleciti”30.
Non è un’utopia tecnocratica incentrata su di una correttezza dell’amministrazione tale da
poter sostituire la politica, luogo del confronto degli interessi particolari31.
30. A. di Bérenger , Saggio storico della legislazione Veneta forestale dal sec. VII al XIX, Venezia, 1863, Libreria della Fenice
Giusto Ebhardt, pag. 85).
31. N. Urbinati, La tradizione politica italiana, in Liberal-socialisti, il futuro di una tradizione a cura di N. Urbinati e Monique
Canto-Sperber, 2004, Marsilio Venezia., pagg. 71-96 , pag. 75 .
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E’ invece la definizione di un ambito tecnico adatto alla custodia dei valori collettivi, ereditari, trans-generazionali e inalienabili, che deve essere amministrato, e gestito tecnicamente
pro-tempore nel presente e trasmesso alle scelte future.
Il limite delle risorse, carbonifere ma anche forestali, della Gran Bretagna è l’oggetto degli
studi di William Stanley Jevons (1835-1882). “L’aumento del commercio ha minacciato di
spogliare l’Inghilterra delle foreste che sono state considerate un ornamento del paese,
così come sono essenziali per la nostra propria sicurezza, visto che forniscono il legname
di quercia per la nostra marina”32. E’ in campo economico che la “nozione di limite delle
risorse”, il limite fisico dello sviluppo economico, diventa argomento per la speculazione
operativa e per un dibattito complesso ed articolato. Da queste considerazioni si dipartono
concezioni sull’economia delle risorse da molti riconosciute come le vere ispiratrici delle
attuali politiche ambientali ed ecologiche.
Il fisico Rudolf Clausius (1822–1888), sviluppa il secondo principio della termodinamica, ossia ogni trasformazione reale è una trasformazione irreversibile perché l’entropia
aumenta. Nel 1885 pubblica un libretto dal titolo, “Sulle riserve di energia in natura e sulla
loro valorizzazione per il bene dell’umanità”, dove esorta a non consumare combustibile più
di quanto si produce attraverso lo sviluppo delle foreste ed ammonisce che “oggi ci stiamo
comportando come eredi scialacquatori. Si estrae dal suolo quanto la forza umana e i mezzi
tecnici consentono, e quel che viene estratto è consumato come se fosse inesauribile”33.
Il limite, la possibilità di esaurire risorse, la comprensione che anche la terra ha un termine
di sopportazione è una nozione da cui deriva il concetto di capacità di carico, carrying
capacity, che è la capacità massima di un ambiente e delle sue risorse limitate a sopportare
l’esistenza di un dato numero di individui.
Proprio John Ruskin (1819-1900) già nel 1849 afferma che ”la terra l’abbiamo ricevuta in
consegna, non è in nostro possesso”34. Ruskin poi prosegue: “L’idea dell’abnegazione per
amore dei posteri, l’idea di vivere oggi in economia per il bene dei nostri debitori che devono
ancora nascere, di piantare oggi foreste perchè i nostri posteri ne possano godere l’ombra, o
di far sorgere città perchè vi abitino i popoli del futuro; questa idea, secondo me, non trova
32. W. S. Jevons, The coal question: an enquiry concerning the progress of the Nation, and the probable exhaustion of our
coal-mines, Macmillan, 1865, pag. 177.
33. R. Clausius, Über die Energievorräte der Natur und ihre Verwertung zum Nutzen der Menschheit, Max Cohen & Sohn,
Bonn, 1885, citato in J. Martinez-Alier, Economia ecologica: energia, ambiente, società; con Klaus Sclüpmann, presentazione
di M. Bresso, Garzanti, Milano, 1991, pag. 111.
34. J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, [1849], tradotto in italiano in Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book,
Milano, 1988, pag. 218, che è basato sull’edizione del 1880, è l’aforisma numero 29 della Lampada della Memoria.
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mai spazio con qualche successo tra i motivi che pubblicamente riconosciamo a moventi
delle nostre faticose azioni”35.
La conseguenza è che Ruskin riserva all’architettura un compito d’alto lignaggio, di salvezza
e d’espiazione: “L’unica influenza che possa in qualche modo prendere il posto di quella
delle foreste e dei campi in un mondo come questo, è la forza dell’antica Architettura”36.
Ruskin chiarisce: “Ogni azione umana guadagna in onore, grazia, in ogni forma di autentica
grandezza, se guarda le cose che devono venire.” La conseguenza per l’architettura è
evidente: “Pertanto quando costruiamo, pensiamo che stiamo costruendo per sempre. E non
facciamolo per la nostra soddisfazione di oggi, né per la sola utilità del momento”37. Il brano
prosegue: “che la nostra opera sia tale da far sì che i nostri discendenti ce ne ringrazino, e
pensiamo, mentre posiamo pietra su pietra, che verrà il tempo in cui quelle pietre saranno
tenute per sacre perché sono state le nostre mani a toccarle, e pensiamo anche che gli uomini diranno, guardando la fatica e il materiale lavorato di cui sono fatte: “Guarda! Questo
l’ha fatto vostro padre per voi!”.
E’ l’affermazione del valore della “durata” e della permanenza dell’architettura, in forma
evocativa e di memoria collettiva. Il patto tra le diverse generazioni per un futuro degno è
allo stesso tempo l’aver coscienza del valore delle azioni del passato e la necessità della
conservazione dei beni materiali agibili per il futuro. La conservazione delle risorse, ma
anche del passato, è detta in francese durabilité, che descrive, rispetto al nostro termine
sostenibilità, il rapporto di tempo ed uso di una risorsa, e non a caso il termine d’architettura sostenibile è tradotto in architecture durable.
Joseph Beuys durante la mostra Documenta 7 di Kassel nel 1982 imposta il programma
delle 7000 Eichen, delle settemila querce, un rimboschimento globale visto come nuova
forma di redenzione, per mostrare che “l’idea è trasformare il mondo in una grande foresta,
rendere città e ambienti simili alla foresta”38.
Immagini tratte dalla Ericson Collection, ca 1855-1930, Humboldt State University Library, Arcara CA.
35. John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, [1849], tradotto in italiano in Le sette lampade dell’architettura, Jaca
Book, Milano, 1988, pag. 218, che è basato sull’edizione del 1880, dove è citato all’Aforisma 29.
36. E’ compreso nell’aforisma numero 30, paragrafo XX di John Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, Milano,
1988, pag. 230.
37. John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Smith, Elder and Co., London,1849, pag. 170-172, paragrafi IX-X, tradotto
in italiano in Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, Milano, 1988, pag. 219. Vedi un’altra traduzione di questo passo
in Giovanni Leoni, Opere, John Ruskin; a cura di Giovanni Leoni, Laterza, Bari, 1987, pag. 292-293.
38. Richard Demarco, “Conversations with Artists” Studio International 195, no. 996, Settembre 1982, 46.
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Jaca Book, Milano, 1988.
_Richard Demarco, “Conversations with Artists” Studio International 195, no. 996, Settembre 1982.
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LA CITTA’ AFRICANA
DEL FUTURO
L’agglomerato rurale come modello di sviluppo urbano
alternativo alle megalopoli e nuove forme dell’edificio pubblico
Patrizia Montini Zimolo
L’interesse verso il continente africano affonda in una lunga tradizione di studi urbani che
caratterizza l’Università IUAV di Venezia, da sempre attenta a registrare le trasformazioni
della città nei suoi processi di crescita, e nella traduzione di questi cambiamenti in momenti
di riflessione, ricerca, formazione. Non è un caso se lo Iuav nel 2002 ha inaugurato il
primo corso in Italia di Laurea Magistrale in Architettura Sostenibile, avviando una serie di
attività, specialmente legate all’ultimo livello della formazione –all’interno di un processo
di internazionalizzazione sempre più ampio. La ricerca universitaria svolta agli ultimi gradi
della didattica (Laboratori Magistrale, Dottorato, Workshop e Tirocini) si configura come il
luogo più adatto e votato per verificare ipotesi di modellazione del futuro, per superare la
frammentazione dei saperi e per educare alla responsabilità delle generazioni a venire.
Progettare in una terra come l’Africa richiede la capacità di misurare pratiche e strategie
d’intervento per rideclinare il termine stesso di sostenibiltà in un paese che si muove con
modalità di crescita - spazio - e livelli di sviluppo - tempo - ben diversi da quelli occidentali.
Confrontarsi con questi territori implica, la necessità di dotarsi di strumenti altri da quelli
tipici della disciplina - climatologia e antropologia, in primis - assumendo una complessità
che va oltre il semplice manufatto architettonico e creando connessioni multiple sia a
livello locale che globale.
Sviluppo delle vecchie città, costruzione di nuove architetture, di nuove città: una realtà
in continua evoluzione e mutamento, avvenimenti che non potranno non avere rilevanti
conseguenze sull’architettura nel suo insieme e che non potranno essere del tutto normati
seguendo modalità già conosciute.
Non c’è solo uno spazio ma anche un tempo diverso che unisce storia umana e storia naturale, all’interno di uno stesso percorso. Un’architettura originale e al tempo stesso radicata
al luogo, che necessita di assumere come una componente del progetto il tempo della
trasformazione e della mutazione delle forme. In un autentico rapporto che si instaura con Il
paesaggio, l’intensità della luce, il clima, i colori delle pietre, della terra e del cielo, i materiali al di fuori di un carattere standard (buono per ogni luogo e per ogni stagione) corollari
decisivi della bellezza di edifici fatti non per durare ma per assolvere a necessità semplici
e mutevoli. Non possiamo dimenticare che le forme tradizionali dell’edilizia africana sono
rurali, di scala limitata e domestica. Poche sono le costruzioni “monumentali” : i villaggi
sulla roccia Dogon, il recinto in pietra dello Zimbawe, i palazzi reali del Benin.
La forte pressione demografica e migratoria richiede l’introduzione di nuovi modi di rigenerazione urbana e di miglioramento della città esistente, ritrovando una perduta alleanza tra
uomo e natura, impostata non solo sulla difesa e salvaguardia di un bene comune deturpato
Immagine 01. Palazzo di Ghèzo: l’area del tempio.
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e in via di scomparsa, ma intesa come ricerca di un modo più consapevole
dell’uomo di stare e abitare la terra.
Progettare significa prima di tutto conoscere, conoscere usi e modalità di
occupazione del suolo con caratteri propri della tradizionale dispersione
africana che rispecchiano i modi di vivere della comunità. Nel contesto
poi dell’Africa sub-sahariana, dove l’insediamento informale autocostruito
rappresenta la norma, le strategie di controllo impositivo proprie del piano di
matrice occidentale tendono a perdere la loro efficacia. Anzi, questa libertà
dell’aggregazione deve essere assunta come componente nella forma dei
nuovi agglomerati abitativi per arrivare a proporre un’idea di “intensità urbana” più generale, una strategia di densificazione sostenibile applicabile in
terra d’ Africa. Il risultato è piuttosto la messa a punto di quartieri autonomi,
che nascono per gemmazione rispetto al nucleo centrale e agli agglomerati
esistenti, destinati a moltiplicarsi nel tempo per dimensione e identità.
L’interesse si sposta dalle megalopoli all’agglomerazione rurale, proponendo
un modo di abitare legato alla comunità, alla natura, alla produzione agricola, assimilabile alla dimensione del villaggio, contrastando il fallimento del
modello di crescita delle grandi metropoli con periferie e bidonville ricche di
degrado sociale e miseria, ritrovando una perduta alleanza tra uomo e natura,
impostata non solo sulla difesa e salvaguardia di un bene comune deturpato
e in via di scomparsa, ma intesa come ricerca di un modo più consapevole
dell’uomo di stare e abitare la terra. É questo un modo per incominciare a
risolvere i problemi di sopravvivenza, innestando un economia autosufficiente e frenando il processo di migrazione in atto dalla campagna con il
conseguente fenomeno di sovrappopolamento e di crescita incontrollata
delle grandi conurbazioni, ma è anche la proposta di un modello di sviluppo
alternativo a un concetto di pianificazione esportato da altri mondi.
Troppo spesso inoltre i manufatti architettonici africani finiscono con
l’appiattirsi nel ritorno alle forme prodotte nella riproposizione dei paradigmi
dominanti nell’occidente. E’ urgente la creazione di una struttura della
formazione strettamente legata alla ricerca, che liberi gli stilemi locali e
determini un “rinascimento” quale sostanza di cose sperate della gente
dell’Africa. L’incontro con l’architettura europea ha lasciato ben poco di
interessante, proponendo soluzioni brutalmente tecniche o affidandosi a un
Immagine 02. Carta del Dahomey e Dipendenze, da Hubert 1908
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folklorismo scadente preso dalle tradizioni locali che, per problemi architettonici e dimensioni (dal grande al piccolo) troppo grande e troppo piccolo, che sentiamo sconosciuti a
tutte le scale. Il progetto d’architettura deve dar voce a un modo diverso di abitare realizzato
con pochi mezzi, con un controllo delle risorse che garantisca da una parte la conservazione
di un patrimonio ambientale unico e dall’altro l’uso di energie naturali dando luogo ad un
originale mix di soluzioni che tenga insieme la ricca cultura d’origine con le possibilità
tecniche offerte dal nostro tempo. Il progetto si misura con una cultura che è ancora
fortemente legata alla natura, al simbolo, al mito, in un continuo processo di traduzione e
trasposizione, per arrivare alla costruzione di edifici improntati ad una nuova sobrietà, senza
rinunciare a introdurre la ricchezza e complessità di nuovi materiali e tecnologie, adattate
ad una situazione climatica, geografica e culturale completamente diversa.
Ma in questo passaggio avvengono molte cose, nuove forme si aggiungono a quelle già date,
ridisegnando una geografia del territorio africano.
Immagine 03. 04. Cantiere del polo scolastico a Zomai, Benin, 2012,
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E’ inevitabile e auspicabile che ci sia un intreccio tra culture. La capacità di creare cose
nuove, combinando tradizioni differenti, è già riscontrabile in diverse località africane,
anche con l’estensione e il ricorso alla produzione artigianale di decorazioni, grafie, batike,
sculture che vengono incorporate nel progetto.
Ci troviamo di fronte a nuove domande per cui non abbiamo ancora risposte preconfezionate. COME si fa ad incorporare la qualità africana negli edifici? COME progettare edifici che
corrispondano ai nostri mezzi ma che non siano edifici sorpassati al mutare delle abitudini?
COME impiegare l’industralizzazione per fornire ambienti più flessibili, tenendo presente i
mutamenti?
Non esiste un’architettura africana chiaramente definibile come tale anche perchè i
problemi più urgenti, per esempio dare un’abitazione a grandi masse di individui, richiedono
le risorse della pratica e dell’esperienza internazionali. Le esperienze già concluse in questo
campo sono testimoni dell’importanza di continuare a sviluppare una nuova dimensione
delle tecniche e degli strumenti diversamente articolati del progetto (a tutte le scale di-
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mensionali che sentiamo sconosciute ma grandi e importanti) è questo uno dei temi centrali
su cui si misurerà la nostra disciplina, nella sua capacità di invenzione e rinnovamento
in questo secolo. Ciò non significa l’importazione di quello che viene fatto in Europa o in
America, con qualche concessioni alle condizioni locali (v. colonialismo mediterraneo) fatto
di verande, in legno e poi in ghisa, lunghi balconi coperti, grigliate in legno (v. international
style) fatto di brise soleil appicicati ai vetri.
Questa parte dell’Africa è alla ricerca di una propria identità sia a livello sociale che a
livello architettonico.
I nostri sistemi educativi dovrebbero spingere a considerare le culture diverse e lontane non
come qualcosa di esterno da cui assorbire al più alcune parole chiave, ma come protagoniste alla pari in un processo comune di formazione che insegni a maneggiare nuovi codici,
concetti, categorie, riferimenti culturali.
Immagine 05. Planimetria Palazzo reale di Porto Novo
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Essere stranieri in un mondo sempre più caratterizzato da un pluralismo culturale significa
incoraggiare le diversità, educare a parlare più lingue senza rinunciare a profondere nel
nostro operare la ricchezza della lingua d’origine, poter utilizzare aspetti di una diversa
cultura, avere relazioni con essa, anche senza avere la presunzione di comprenderla del
tutto. L’esplorazione è un’indagine che ci permette di spostare l’attenzione dal progetto al
processo, all’interpretazione delle relazioni sempre mutevoli tra soggetti e luoghi, società e
contesti urbani. L’interesse è rivolto a questi luoghi della “trasformazione”, luoghi cioè dove
si può dare il cambiamento e la “mutazione” in altre forme di convivenza, meno squilibrata
e più sostenibile. Tutto può convivere se viene fatto con intelligenza e passione, e sopratutto
con lo scopo di favorire la sperimentazione di nuovi metodi di conoscenza, convivenza e
progettazione.
Immagine 06. Esempio di disposizione delle abitazioni nel quartiere Ahuanmongao, Ganvié
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Ri-generare senza frontiere
Progetto Hwange – Zimbabwe, Realizzazione di un “College” orfanatrofio con una scuola
professionale e spazi ricreativi, Architetti Senza Frontiere Veneto, IUAV, 2013
Durante l’ workshop è stato affrontato il progetto di un “College” orfanatrofio con una
scuola professionale e spazi ricreativi a servizio di adolescenti e giovani (educazione
secondaria) nel territorio di Hwange, Zimbabwe. Il masterplan generale è stato elaborato nel
periodo precedente al workshop, in modo da consentire un approfondimento specifico nella
progettazione dei singoli edifici circa i temi legati all’aspetto architettonico e alle tecniche
di costruzione locale.
Nella cultura africana non c’è una grande distanza tra l’architettura domestica e i grandi
complessi sacri o civili. I nuovi luoghi pubblici si distribuiscono al di fuori dell’edificato dando di volta in volta un carattere particolare all’abitato e costruendo un catalogo di tipologie
che sommano in una nuova composizione spazi più o meno conosciuti dalla nostra cultura
andando a disegnare i nuovi luoghi della comunità, con i suoi dentro e fuori, con le sue corti,
cortili, alberi, orti e recinti.
Immagine 07. Le aule studio all’aperto
Immagine 08. L’area dei salesiani e il progetto del nuovo college
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Atelier Magistrale Architettura Sostenibile, 2013/2014
Luogo della sperimentazione progettuale è la città di Materi, nord del Benin, un centro
di medie dimensioni provvisto di un piano regolatore recente che prevede un’espansione
urbana di notevole importanza per la vicinanza con la strada che collega il centro Africa con
il mare, e la prossimità col parco naturale di Pendjari.
Obbiettivo del nuovo piano regolatore è contribuire al miglioramento delle condizioni di vita
nei quartieri degradati di oggi assorbendone la popolazione e introducendo un disegno di
sviluppo del territorio sostenibile. Che significa potenziare e concentrare gli insediamenti
lungo grandi aree di espansione intorno al “centro” del agglomerato già esistente, introducendo strategie territoriali di contenimento delle metropoli in crescita e di individuazione di
fasce di espansione residenziale, luoghi di aggregazione e di nuove attrezzature.
Immagine 09. I dormitori per gli alunni
Immagine 10. Villaggio rurale a nord del Benin
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In sintonia con tali obbiettivi il risultato è la messa a punto di quartieri autonomi rispetto al
nucleo centrale e agli agglomerati esistenti, siano essi residenziali, destinati a moltiplicarsi
nel tempo per dimensione e identità, commerciali o turistici. Punto di partenza per controllare l’espansione della città torna ad essere l’unità minima della stanza/alloggio su cui si
articola il mondo africano. Andando oltre un’idea consolidata, la “casa” non è mai intesa
come un concetto statico, ma come un processo per “addizione” di stanze. Bisogna ricordare
che gran parte della popolazione che abiterà le nuove espansioni proviene dai territori rurali
circostanti e che i nuovi “quartieri” dovranno tradurre usi e modalità di occupazione del
suolo propri della tradizionale dispersione africana.
In una composizione del tutto originale gli edifici pubblici si distribuiscono lungo l’edificato
dando di volta in volta un carattere particolare all’abitato e disegnano i nuovi luoghi
Immagine 11. Cotonou, capitale del Benin
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riconoscibili della città africana. Potremmo parlare del “carattere insediativo “ delle nuove
attrezzature che danno origine ad un diverso disegno e gerarchia degli spazi aperti. Edifici
pubblici il più delle volte estranei alla nostra cultura per il genere di attività che dovranno
ospitare e per l’ibridazione di spazi dell’abitare con spazi collettivi. Basta fare un semplice
elenco delle attrezzature richieste per renderci conto della distanza che esiste nel modo di
pensare, vivere e intendere l’edificio pubblico: magazzini per le derrate alimentari, spazi per
lo stoccaggio e la rifregerazione, orti, fabbricato per ospitare le cooperative di agricoltori
e il centro di formazione artigianale, cui è connessa un’area per l’estrazione del fango e la
produzione dei mattoni in terra cruda, scuole primarie, spazi sportivi all’aperto, municipio,
urban center. Tutti spazi di una nuova città che si sviluppano e si trasformano in stretta
sintonia con la sua crescita.
La fattibilità dei progetti e la sostenibilità delle strategie “veneziane” verranno poi vagliate
modificate e ridisegnate in loco coinvolgendo come protagonisti di un processo comune
di formazione gli abitanti, i docenti, gli studenti italiani e beninesi, la popolazione e i
rappresentanti di governo di Materi. Il progetto diventa così uno strumento di modificazione
della realtà, un processo che parte in questi luoghi della “trasformazione” dalla interpretazione delle relazioni sempre mutevoli tra soggetti e luoghi, società e contesti urbani. Fine
ultimo dell’attività di tirocinio “sul campo”, aprile 2014, è fornire delle risposte condivise e
appropriate per la costruzione della città africana contemporanea.
Immagine 12. Foto aerea dell’area di Materi
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L’ECOFONDACO
Prototipi sostenibili per una piattaforma della
città mediterranea
Roberta Albiero
Premessa
Il Mediterraneo non è soltanto un’espressione geografica, bensì un gigantesco incubatore di
culture distinte, interrelate, contaminate, stratificate.
Da sempre regno di viaggiatori - commercianti, guerrieri, pellegrini, marinai, ambasciatori,
vagabondi – e dotato di carattere dinamico, anche nei momenti apparentemente più
stagnanti, denso di scambi e spostamenti, che hanno reso necessaria l’introduzione di
infrastrutture materiali di supporto per le attività, il sostentamento, la sicurezza e, infine, il
divertimento.
Come scrive Fernand Braudel, non ci sarebbero state rotte se non ci fossero stati luoghi di
sosta. Il fondaco ha costituito nei secoli la risposta fisica a tali esigenze. Una vera e propria
rete infrastrutturale, costituita da numerosi fondaci, ha segnato la storia e l’evoluzione
fisica e culturale del Mediterraneo.
Le trasformazioni economiche, politiche e sociali in atto ne confermano il ruolo centrale,
non solo da un punto di vista geografico ma, soprattutto, dal punto di vista culturale. Alle
attività di commercio si affiancano oggi, in modo preponderante, gli scambi culturali e
umanitari, riconfermandone la centralità e il ruolo di network per le popolazioni che vi si
affacciano.
Il Mediterraneo può, allora, essere considerato come uno spazio della multiculturalità e
della interconnessione.
Grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie lo scambio non si limita alle merci materiali ma
diventa scambio di merci immateriali. La cultura e la conoscenza sono le nuove merci che il
fondaco, in quanto luogo della multiculturalità, contiene ed emette.
Il fondaco come piattaforma della cultura mediterranea
Pandocheion, funduq e fondaco
Il prototipo per un fondaco contemporaneo, che chiameremo ecofondaco, oggetto della
ricerca in corso, reinterpreta la struttura del tipo storico a partire dalle tre modalità
attraverso le quali esso si è manifestato nella cultura greca, islamica e cristiana, in un arco
temporale compreso tra il secondo e il diciottesimo secolo.
Queste tre modalità, pur presentando differenze e specificità legate ai luoghi e alle culture,
mostrano aspetti comuni, quali le funzioni di accoglienza per i viaggiatori, di deposito per
Immagine 01. Esempi di Fondaci, Funduq e Caravanserragli
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le merci e, inoltre, il ruolo centrale nello scambio delle stesse e, ancora, delle idee che,
insieme alle mercanzie, si spostavano lunghe le rotte del Mediterraneo.
La prima forma conosciuta, il pandocheion greco, che etimologicamente sta a significare
“luogo nel quale tutti sono accettati”, era luogo di incontro e ospitalità aperto a tutte
le provenienze e religioni. Simile a una struttura recettivo-alberghiera, il pandocheion
accoglieva stranieri e viaggiatori di passaggio, favorendo l’interscambio culturale sebbene, a
volte, godesse della fama di luogo di dubbia moralità.
Dal V-VI secolo al XII secolo il fondaco, dalla cultura greca passa nella cultura islamica e
diviene funduq, avamposto strategico per il commercio che coniugava aspetti funzionali,
culturali e rappresentativi. L’accesso previlegiato garantito ai commercianti ne fa una
struttura dal forte ruolo economico e politico per il controllo dei traffici. Tuttavia il funduq
mantiene la funzione assistenziale e di accoglienza del pandocheion seppur in presenza di
un controllo e un’organizzazione più efficienti.
Il fondaco cristiano medievale, a partire dal XIII secolo, riveste un ruolo assimilabile a quello
di un consolato, contrassegnato da una chiusura e settorializzazione maggiore, che spesso
individua nel fattore etnico il carattere discriminante e di separazione di un gruppo sociale.
Noti sono i fondaci veneziani, ubicati nei punti di maggiore accessibilità, in prossimità dei
porti più rilevanti o, all’interno del sistema lagunare, sui canali di maggiore importanza.
Nonostante le differenze che connotano storicamente l’evoluzione dei tre tipi di fondaco,
dal punto di vista architettonico sono evidenti alcune permanenze. Le tre strutture fisiche,
infatti, nascono in modo analogo lungo le vie marittime, le rotte carovaniere o nei nuclei
urbani nei quali tali rotte si incrociavano. Essi si sviluppavano come un organismo a corte,
generalmente disposto su due livelli. Gli ambienti del piano terra, disposti attorno ad un
vuoto, erano deputati allo stoccaggio delle merci, e al ricovero degli animali. Al livello
superiore erano situate le camere per gli ospiti. Una serie di attrezzature utilizzate dai mercanti (pozzi, forni, ghiacciaie) erano create e mantenute grazie al contributo che essi stessi
versavano per l’usufrutto. Per questo i fondaci potevano essere considerati come comunità
autofinanziate.
Al carattere di chiusura fisica del fondaco storico, quello contemporaneo contrappone
caratteristiche di apertura, porosità, replicabilità e flessibilità in genere.
E’ spazio condiviso, piattaforma immateriale per la crescita collettiva, dove la multiculturalità è il vero valore da condividere.
Immagine 02. Scenario locale e globale, il Mediterraneo come spazio di multiculturalità e Mazara del Vallo come nodo della
rete
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Oceano
Atlantico
Toledo
Cordoba
Siviglia
Malaga
Tarifa
Ceuta
Salé
Valencia
Denia
Mar Mediterraneo
Granada
Bougie
Almeria
Consta tine
Tlemcen
Fez
Tunisi
Sus
Qayrawan
Boné
Sfax
Monastir
Al-Mahadiya
Gabes
Mar Mediterraneo
Tripoli
Marrakesh
10-15 SECOLO FUNDUQ
11
E’ un incubatore per le diverse religioni che vi convivono, luogo di apprendimento, di formazione e informazione e, infine, luogo di accadimenti culturali.
Oltre a rapportarsi con l’ambiente secondo i paradigmi della sostenibilità, esso promuove
uno sviluppo territoriale sostenibile fondato sulla conoscenza delle specificità produttive dei
luoghi e sull’idea di turismo consapevole e sostenibile.
Il fondaco contemporaneo è inteso come spazio polifunzionale, pensato in termini di flessibilità, sostenibilità urbana ed energetica. Esso comprende spazi aperti e coperti per eventi
culturali e artistici, concerti, mercati; spazi multimediali interattivi; spazi per il co-working;
aule e laboratori per attività didattiche e di incontro, dedicate ai bambini e ad attività
produttive; spazi per la ristorazione e l’educazione gastronomica; spazi per il commercio di
prodotti locali e artigianali; spazi dell’accoglienza dotati di spazi comuni.
Tre modelli spaziali
L’idea di fondaco presuppone uno sviluppo secondo diversi modelli architettonici che
possono venire adottati con differenti declinazioni in relazione alle mutevoli condizioni
contestuali. Sono state individuate tre modalità spaziali:
1. il recinto
2. il tessuto denso della città araba
3. l’edificio a piastra della modernità
Immagine 03. Localizzazione dei fondaci nel mediterraneo
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VeneziaVenezia
PadovaPadova
Parma
Parma
Atlantico
Atlantico
GenovaGenova
Modena
Modena
SavonaSavona
San Gilles
San Gilles
Lucca Lucca
Prato Prato
montpellier
montpellier
Pisa PisaFirenzeFirenze
AnconaAncona
Narbonne
Narbonne
Siena Siena
RagusaRagusa
Marsiglia
Marsiglia
Leon Leon
PescaraPescara
TermoliTermoli
Sulmona
Sulmona
Manfredonia
Manfredonia
Lucera
Lucera
Barletta
Barletta
Zaragoza
Zaragoza
Gaeta Gaeta
Barcellona
Barcellona
Trani
Napoli Napoli Trani
Melfi Bari
Melfi Bari
TortosaTortosa
Amalfi Amalfi
Ischia Ischia
Bitonto
SalernoSalernoBitonto
Burriana
Burriana
ToledoToledo
Valencia
Valencia
Denia Denia
Lativa Lativa
Onteniente
Onteniente
Biar Biar
Palermo
Palermo
Messina
Messina
MurciaMurciaDego Dego
Mar Mediterraneo
Mar Mediterraneo
Lorca Lorca
Cordoba
Cordoba
SivigliaSivigliaGranada
Granada
Siracusa
Siracusa
MalagaMalaga
Jerez Jerez
Oceano
Oceano
Mar Mediterraneo
Mar Mediterraneo
1-15 11-15
SECOLO
SECOLO
FONDACI
FONDACI
Prototipo per un ecofondaco sostenibile a Venezia
L’obiettivo della ricerca è lo studio di un prototipo di ecofondaco, Questo, in quanto archetipo, ripropone, reinterpretandola, una struttura storica fondamentale del sistema insediativo
veneziano, mentre mira, in termini di ricerca, alla predisposizione di un prototipo flessibile
e ripetibile della cultura mediterranea. L’ecofondaco è basato, nella sua concezione, su due
componenti: una con caratteristiche di permanenza , l’altra, di impermanenza. Congiuntamente esse danno luogo a un modello modificabile e adattabile a contesti differenti ubicati
in ambito mediterraneo. Uno smart building, nel quale si integrano caratteri materiali e immateriali con l’apporto delle potenzialità delle nuove tecnologie multimediatiche e l’utilizzo
di sistemi costruttivi sostenibili.
L’ecofondaco, inteso come piattaforma e unità extranazionale capace di fare dialogare
culture diverse, è un’entità complessa a servizio della globalizzazione che stimola il
dialogo umanistico e tecnologico. Nel nuovo fondaco la merce di scambio è la cultura e la
comunicazione.
L’ecofondaco è, dunque, il luogo dove si incontrano il pensiero materiale e immateriale,
multiculturale, oltre i confini territoriali. Esso rimanda all’antico, ma sempre contemporaneo, concetto di “accoglienza”, ovvero a uno spazio fluido, attento all’ambiente che lo
ospita, flessibile, sicuro, economico in termini di gestione e realizzazione, ma che, altresì,
tiene conto delle nuove tecnologie multimediali.
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E’ anche uno spazio culturale per l’esposizione sia fisica che virtuale dell’arte e dell’ambiente, dedicato all’energia vitale della rigenerazione, espressa dalle opere derivanti da “riciclo”
o dai materiali ecosostenibili, utilizzati da artisti e designers; un luogo che esplora i nuovi
linguaggi della bioarchitettura dove materia e visioni convivono.
Aspetti progettuali
L’ecofondaco, come il suo antenato storico, è il luogo per eccellenza deputato all’accoglienza e all’ospitalità, allo scambio di cultura, di idee, di saperi condivisi e da condividere.
Una sorta di “bacino” informativo educazionale dell’equilibrio vitale tra terra e mare, nel
quale i fiumi, come arterie vitali, fanno fluire nel fondaco le energie produttive del territorio,
ricevendone in cambio riflussi culturali e storici e visibilità internazionale.
Gli aspetti considerati nello studio progettuale del prototipo sono:
_Il riconoscimento delle potenzialità del contesto
_Le soluzioni avanzate dal punto di vista tecnologico incluse le tecnologie immateriali
_Il dialogo scientifico e sociale
_La produzione di energia
_La gestione dei rifiuti
_La gestione acqua e fognature
Gli spazi, all’interno dell’ecofondaco, sono organizzati attorno a un patio/giardino (implicito
richiamo all’archetipo spaziale dell’antica domus romana con impluvium), sono costruiti e
arredati in maniera ecosostenibile. Il patio rappresenta una parte integrante dell’architettura, che contribuisce a rendere gli spazi dell’abitare un luogo umanizzato nel quale la natura
riveste un ruolo importante. Il progetto è pensato in termini di sostenibilità economica
poiché i vari ambienti di cui si compone funzionano anche da spazi espositivi per le aziende,
gli eco-artisti e gli eco-designers.
Caratteristiche costruttive
Per la costruzione dell’involucro esterno e delle pareti interne dell’ecofondaco espositivo,
saranno impiegati moduli assemblabili e materiali rigenerati (riciclati) ed ecosostenibili. Il
manufatto, realizzato a secco, sarà modificabile, espandibile e disassemblabile e, pertanto,
potrà essere rimontato in un altro contesto.
Verrà promossa, mediante audio/video interattivi (con proiezioni a parete e su touchscreen),
Immagini 04-07. Progetti selezionati dai laboratori integrati di progettazione del corso di laurea magistrale di Paesaggio e
Sostenibilità
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la conoscenza dell’ambiente, degli oggetti quotidianamente vengono utilizzati e dell’Arte,
allo scopo di creare coscienza e responsabilità etica nei confronti di ciò che viene prodotto
e rapporto tra il prima e il dopo nella vita del manufatto (dall’abitazione all’oggetto) e del
ciclo di vita di materia ed energia che lo stesso assorbe e consuma, ossia la dimensione
ecologica.
Localizzazione
L’ecofondaco sarà collocato a Venezia, nel parco di San Giuliano, che rappresenta una porta
di Venezia, elemento del sistema d’acqua che connette la terraferma e il capoluogo lagunare
e al tempo stesso, luogo di riqualificazione biotica del contesto di “fronte laguna”.
Il fondaco di Mazara del Vallo
Una prima sperimentazione progettuale sul tema del fondaco come archetipo/prototipo
dell’architettura mediterranea, è stata condotta a Mazara del Vallo, luogo strategico per posizione geografica,proteso verso il nord-Africa e nodo di una rete immateriale che si estende
a tutto il Mediterraneo, connettendo saperi e realtà differenti.
Il progetto per un ecofondaco, condotto con gli studenti dei laboratori integrati di progettazione del corso di laurea magitrale di Paesaggio e Sostenibilità, si è confrontato con le
aspettative e le iniziative già attivate dall’Amministrazione pubblica, che ha visto importanti
risultati sul piano politico e sociale, finalizzate alla sperimentazione di un modello avanzato
di convivenza. La forte presenza di comunità straniere, tunisina in primis, ha posto già da
alcuni anni il problema della coesistenza e della multiculturalità laddove il recupero per fasi
dei quartieri arabi degradati rappresenta una strategia vincente di riuso urbano.
L’ecofondaco, situato su un’area prospiciente il lungomare, presenta I caratteri già enunciati;
dal punto di vista funzionale si pone come edificio polifunzionale e flessibile nel quale gli
aspetti materiali si integrano alle component immateriali. Da un punto di vista costruttivo
esso si articola attorno a due principi costitutivi: l’hardware, intesa come quella parte
legata alla durabilità e alla permanenza, e il software, inteso come componente impermanente, coniugata con l’utilizzo di tecnologie informatiche e multimediali. Questa dimensione
immateriale, alla quale è affidata, mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie mediatiche, la
produzione di cultura, formazione e informazione, a livello locale e globale, fa dell’ecofondaco una struttura porosa che si espande ben oltre i suoi limiti fisici.
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ARCHITETTURA
USA E GETTA
Valeria Tatano
“Comprare una lavatrice è un atto politico, l’unica vera forma di politica che
ci rimane al giorno d’oggi.”
J.G. Ballard, Regno a venire1
La mia lavatrice è durata dodici anni, all’incirca quanto lavastoviglie e frigorifero. Molto
meno i vari computer, così come stampanti e cellulari con cui ho lavorato fin dalla loro
diffusione. Ma il primato spetta al tostapane: ne ho rottamati cinque in quindici anni e il
dato mi inquieta perché mia madre usa lo stesso da cinquanta e il suo funziona benissimo.
La desolante velocità con cui elettrodomestici e apparati tecnologici si usurano o si rompono, insieme alla difficoltà e spesso impossibilità con cui si scopre che è meno dispendioso
comprarne di nuovi piuttosto che farli aggiustare, ha un nome preciso: obsolescenza
programmata, espressione che definisce un particolare approccio economico e politico al
mondo produttivo.
Quasi tutti gli oggetti tecnologici che utilizziamo nella vita quotidiana hanno una durata
predeterminata, in modo che il loro impiego sia limitato nel tempo e che una volta rotti se
ne debbano acquistare di nuovi. “Il punto di partenza dell’obsolescenza programmata è la
dipendenza del nostro sistema produttivo dalla crescita”, scrive Latouche, “la nostra società
ha legato il suo destino a un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata. Che lo
vogliamo o no, siamo condannati a produrre e a consumare sempre di più.”2
Pubblicità e mode alimentano il bisogno di ‘cose’ o la convinzione di tale bisogno, favorendo
quella società dei consumi cui ci illudiamo di non appartenere, ma dalla quale pochi si
sottraggono.
Produciamo e consumiamo oggetti sempre nuovi, o presunti tali, che la spinta innovatrice
migliora progressivamente facendoli risultare ‘vecchi’ anche se immessi sul mercato solo
da pochi anni.
Il fenomeno, sviluppatosi nella prima metà del 1900 e affermatosi pochi decenni dopo, non
è limitato a elettrodomestici e oggetti di uso comune ma si allarga ad ambiti più vasti, interessati a varie forme di obsolescenza: tecnica, psicologica e pianificata. La prima riguarda
l’invecchiamento di oggetti e macchine dovuto al sopraggiungere di altri con prestazioni migliori, quasi che ogni innovazione funzionale o adattiva possa determinare la sostituzione dei
prodotti precedenti. L’obsolescenza psicologica è legata alla capacità di creare un bisogno,
senza che questo esista davvero. Raffinate tecniche di advertising tentano di convincere e
01. J.G. Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 221. Tit. orig. Kingdom come, 2006.
02. S. Latouche, Usa e getta. Le follie dell’obsolescenza programmata, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p. 14. Tit. orig. Bon
pour la casse. Les déraisons de l’obsolescence programmée, 2012.
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orientare il grande pubblico verso nuovi prodotti, non così diversi dai precedenti, ma rendendoli desiderabili ne attivano la necessità di possesso. Infine l’obsolescenza programmata,
la cui applicazione stabilisce la durata effettiva di un prodotto, in modo che a una data
prestabilita quel prodotto si deteriori a tal punto da renderne necessaria la sostituzione.
Una con-fusione tipica del nostro tempo: siamo costretti a sostituire oggetti che sono stati
programmati per tradirci, e ne cambiamo deliberatamente altri che potrebbero funzionare
ancora benissimo, per il desiderio di possedere qualcosa di nuovo e di diverso dal precedente.
L’espressione obsolescenza programmata, applicata al campo edilizio, presenta un altro significato, molto diverso dal precedente. L’obsolescenza di un edificio è intesa infatti come la
perdita progressiva di funzionalità e di efficienza di parti o dell’intera opera e rappresenta la
conseguenza di una serie di fattori connessi a un naturale processo di invecchiamento degli
elementi che lo compongono, a fattori patologici, o a una diminuzione dei livelli prestazionali dei materiali e dei sistemi con cui l’edificio è stato realizzato3.
L’obsolescenza programmata in edilizia è dunque lo studio e la programmazione di tutte le
azioni tecniche che si possono compiere per prevedere tale invecchiamento e intervenire nel
corso del tempo attraverso opere di manutenzione.
Due espressioni identiche si pongono obiettivi opposti, e non solo perché la prima si
riferisce al campo degli elettrodomestici e degli oggetti tecnologici e la seconda al mondo
dell’architettura. Non è l’ordine di grandezza a dividere i due approcci, ma il diverso principio
da cui derivano.
L’obsolescenza programmata prevalentemente riferita alle ‘cose’ domina la tecnica in esse
contenuta stabilendone la durata, e assoggettandola a un fine di utilità la usa come mezzo
per giungere a un profitto. L’obsolescenza programmata prevalentemente riferita agli edifici
studia e progetta la tecnica in modo che essa possa mantenere inalterate il più a lungo
possibile le prestazioni che garantisce.
La presenza di una programmazione ‘positiva’, attraverso i cui strumenti operativi sia
possibile prolungare l’efficienza di un edificio o delle sue parti, proiettandola se non verso
l’eternità almeno verso una lunga vita, in contrasto con il senso e le definizioni introdotte
in precedenza, non costituisce però una discriminante assoluta tra il mondo dell’immobile
e quello degli oggetti di consumo. L’architettura è tutt’altro che immune dalla possibilità
di essere progettata con una durata prefissata, concepita per essere consumabile entro un
arco temporale.
03. C. Molinari, Procedimenti e metodi della manutenzione edilizia, Sistemi Editoriali, Napoli, 2002.
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Soprattutto, l’architettura oggi non è esente dal pericolo che la sua obsolescenza venga
determinata sulla base di considerazioni di natura economica piuttosto che funzionale, come
avviene per l’architettura effimera o temporanea. Questa, infatti, accetta come premessa di
occupare uno spazio e un tempo destinato a rinnovarsi di continuo, garantendo attraverso
una ‘breve durata’ soluzioni a necessità che possono trovare definizione proprio all’interno
del loro esaurirsi.
Sono effimere le costruzioni in paper tube di Shigeru Ban, ideate come soluzioni per l’emergenza e destinate a svolgere la loro funzione per un tempo definito, obiettivo che i tubi di
cartone assolvono impiegando una materia riciclata e riciclabile.
Sono effimeri i padiglioni della Serpentine Gallery di Londra, che dal 2000 si alternano
all’interno dei Kensington Gardens con linguaggi propri degli autori e sistemi facilmente
smontabili. Disassemblabili, ma non sempre transitori nell’essenza della materia che li
costituisce, dal momento che in alcuni casi i materiali impiegati presentano una energia
incorporata, o embodied energy, elevata e incoerente con la durata prevista4.
Come a dire che sarebbe da rivedere anche la definizione di ‘effimero’, perché non è più
sufficiente smontare un edificio per sancirne la fine. Il ciclo di vita dei materiali di cui è
composto è molto più lungo delle esili tracce lasciate sul terreno una volta tolto dalla sua
collocazione, diversamente dall’energia incorporata negli elementi che lo costituiscono.
L’idea di una durata programmata per un’architettura non transitoria nella funzione e di un
destino già segnato ha precedenti non distanti da noi. Risultava chiaramente espressa, ad
esempio, nel progetto per la Plug-in City di Peter Cook del 1964, che prevedeva quarant’anni
di utilizzo per la megastruttura principale, e solo tre per le unità minime come cucine e bagni. Un’architettura intesa come inno al movimento, che consacrava l’impiego dell’automobile e spingeva al cambiamento continuo doveva presupporre che il mutamento coinvolgesse
l’architettura stessa.
Un esempio di “distruzione creatrice”, avrebbe detto l’economista Schumpeter5, che mirava a
liberare terreno, rinnovare le costruzioni, risvegliare energie le cui tracce erano presenti nelle teorie di Le Corbusier quando ipotizzava abitazioni che non avrebbero più esibito ricchezza
e opulenza ma si sarebbero trasformate in uno “strumento come l’automobile”.
04. L’embodied energy della Serpentine Gallery del 2002, opera di Toyo Ito, realizzata con una struttura in acciaio e pannelli
di rivestimento in alluminio e vetro, è molto elevata, ed è dovuta in particolare all’impiego dell’alluminio per un edificio con
un ciclo di vita di soli 4 mesi. Si veda la tesi di laurea di Margherita Ferrari, Progettare con Joule. Considerazioni in merito al
rapporto tempi-costi delle architetture temporanee, a.a. 2012-2013, Relatore M.A. Barucco.
05. La distruzione creatrice è, secondo le teorie dell’economista austriaco J.Schumpeter, alla base dello sviluppo economico
basato sull’imprenditore-innovatore che deve superare vecchi metodi produttivi, tecnologie e conoscenze proponendone
di nuovi. Questo pensiero, applicato all’architettura, è sviluppato in: N. Emery, “Distruzione creatrice e metabolismo del
costruire: Schumpeter e la città”, in Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano, 2011, pp. 197-231.
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E proprio all’automobile, che ci siamo abituati a sostituire con un modello più innovativo,
nel design e nelle performance, si avvicina la casa, che “non sarà più una entità arcaica,
pesantemente radicata al suolo da fondamenta profonde, costruita per ‘durare’, e alla cui
devozione sono stati fondati da lungo tempo il culto della famiglia, della razza, eccetera.”6
L’abitazione, almeno per la società europea, è ancora un bene immobile e permanente, ma
per altri edifici la durata programmata è divenuta un ricorrente tema progettuale, calcolata
per valutare le possibili criticità (economiche) dovute alle opere di manutenzione necessarie
a mantenerli in efficienza. La Portcullis House di Norman Foster, nuova sede del parlamento
inglese, è pensata per un ciclo utile di 120 anni, tempo dopo il quale sarà più conveniente
smontarla piuttosto che effettuare interventi di manutenzione per rispondere all’usura che
subirà. Così come una valutazione sulla redditività del ‘prodotto’ è legata alle scelte costruttive del Millennium Dome di Richard Rogers, sempre nella capitale inglese, progettato
per durare venticinque anni ed essere poi smontato e sostituito.
06. Le Corbusier, Verso una architettura, a cura di P.L. Cerri e P. Nicolin, Longanesi & C, Milano, ed. 1992, p. 193.
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Edifici che le generazioni future non vedranno, ma che nella loro assenza esprimeranno una
civiltà che nella sostituzione veloce di parti di città rischia di lasciare segni incompleti della
propria cultura materiale7. Tracce frammentarie e contraddittorie, perché a volte gli edifici
non durano neppure il tempo di essere utilizzati.
Negli Stati Uniti si demoliscono anche abitazioni recenti, abbandonate dai proprietari che
non sono riusciti a pagare il mutuo, messe in vendita da banche e assicurazioni che le
hanno acquisite come rimborso del debito contratto. Rimaste invendute, non sono state
considerate interessanti a tal punto da volerle riqualificare per migliorare gli standard e
reinserirle sul mercato. I nuovi proprietari hanno preferito demolirle e costruire ex novo su
terreni che dopo la crisi costano meno, impiegando tecniche costruttive più economiche e
vicine ai temi del risparmio energetico8.
In Spagna, dopo la “burbuja del ladrillo” del 2008 che ha lasciato invenduto un patrimonio
di ottocentomila abitazioni, si è deciso di demolire tutti gli edifici incompleti, divenuti di
07. R. De Fusco, “Il problema dell’usa-e-getta”, in Il gusto. Come convenzione storica in arte, architettura e design, Alinea,
Firenze, 2010, pp. 165-168.
08. M. Gaggi, “Ricetta anticrisi? La casa «usa e getta»”, in Corriere della sera del 28 Maggio 2010.
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proprietà della banca pubblica intervenuta per salvare gli istituti di credito. Una scelta dovuta alla mancanza di fondi per ultimare le opere e soprattutto a evitare le spese di gestione
per tentare di far ripartire un mercato che non si è ripreso dal crollo dei prezzi9.
Demolizioni con motivazioni molto distanti da quelle di natura sociale che erano alla base
dell’abbattimento delle Vele di Scampia10, ad esempio, o di Pruitt-Igoe11, le cui immagini
vengono filmate e fissate nelle sequenze che Godfrey Reggio sceglie per Koyaanisqatsi12,
con un senso opposto rispetto a quello assunto dalle demolizioni degli ultimi anni, divenute
occasioni da spettacolarizzare. L’abbattimento del casinò di Las Vegas, preceduto da fuochi
d’artificio e festeggiamenti, è stato trasformato da operazione di ingegneria in imponente
evento mediatico, un fenomeno già rilevato da Franco La Cecla quando a proposito di New
York evidenziava come il business non fosse più costruire ma distruggere13 tanto che la più
grande impresa edilizia statunitense è in realtà un’impresa di demolizioni14.
Situazioni legate a cause e ragioni distinte in cui la variabile ‘tempo’ può essere fissata dal
progetto o subita, ma che conducono a una riflessione ricorrente nel dibattito architettonico: “l’architettura contemporanea non mira all’eternità ma al presente, un presente,
tuttavia, insuperabile. Essa non anela all’eternità di un sogno di pietra ma a un presente
‘sostituibile’ all’infinito”15. In questa affermazione, tratta da Rovine e macerie di Marc
Augé, è individuabile anche una responsabilità di quel senso del tempo limitato al presente
che pare contraddistinguere modernità e presente, l’idea che vi siano materiali eterni per
condizione intrinseca e altri che non lo siano: solo il ‘sogno di pietra’ parrebbe garantire
infatti l’eternità.
Ma gli involucri multimediali, le pelli mutevoli e i rivestimenti di facciata deperiscono velocemente e dolorosamente sia che siano costruiti con la pietra che con la plastica, perché
invecchiano nella materia e nell’espressività formale.
Di qualsiasi materiale siano fatti, invecchiano edifici pubblici e privati. Di qualsiasi materiale siano fatti si sostituiscono i negozi-immagine, dagli Apple store ai fashion store delle
archistar, agli outlet village e ai centri commerciali della grande distribuzione.
Appare come un’architettura usata e gettata, suo malgrado, anche quella abbandonata,
lasciata alle incurie del tempo, privata delle cure dell’uomo: tradita.
09. E. Livini, “Mattone, linea dura in Spagna: abbattere le case invendute”, in Repubblica del 30 Ottobre 2013.
10. Tre delle sette vele originarie sono state demolite tra il 1997 e il 2003.
11. Edificato nel 1956 e demolito il 15 Luglio 1972, data che per Charles Jencks segna la fine del Movimento Moderno.
12. Il documentario è del 1982, commentato dalla potente musica di Philip Glass.
13. F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 39.
14. L’impresa è la CDI, Controlled Demolition Incorpored, e le operazioni di demolizione che effettua sono diventante una
serie televisiva intitolata Demolition Dynasty, prodotta dal National Geographic Channel.
15. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 92. Tit. orig. Le temps en ruines, Paris,
2003.
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Accolta con enfasi al suo esordio, celebrata, e poi lasciata a se stessa per mutati obiettivi
o per errori di valutazione su un possibile riutilizzo. Ne è un triste esempio il padiglione di
Alvaro Siza per l’Expo di Lisbona del 1998 che illustra questo testo. Le pietre di rivestimento
rotte, le macchie di umidità, gli infissi sverniciati ci ricordano che le costruzioni hanno bisogno di manutenzione costante e che l’assenza di funzionamento le deteriora più dell’usura
dovuta al suo impiego.
Ma l’alternativa a una costante attenzione manutentiva non può essere la facile sostituzione, il veloce ricambio che la spregiudicatezza delle logiche del sistema produttivo ci sta
abituando a considerare normale, e che porta al fenomeno dell’obsolescenza programmata
come soluzione per alimentare il consumismo, anche architettonico.
“Gli edifici odierni sono disegnati per essere demoliti non appena hanno finito di svolgere
la loro funzione o hanno perso valore”, dal momento che è l’economia a fissare la data di
scadenza, sostiene Moneo, sottolineando come i materiali usati nella costruzione sembrino
rafforzare tale visione perchè “le tecniche architettoniche, invece di essere divenute più
durevoli, sono paradossalmente più effimere.”16
Considerando i casi citati di demolizioni di edifici non ancora completati l’affermazione
appare persino ottimista, ma non del tutto condivisibile per quanto riguarda la responsabilità attribuita alle tecniche.
Negli ultimi venti anni si sono diffusi sistemi costruttivi che hanno modificato l’idea
tradizionale di una costruzione massiva basata sull’impiego di materiali quali calcestruzzo e
laterizio posti in opera ‘a umido’. Durevoli anche perché difficili da demolire.
Le tecnologie stratificate a secco, ad esempio, costituite da strati diversi, ognuno dotato
di prestazioni specifiche, vengono assemblate ‘a secco’ mediante lo stesso procedimento
con cui può avvenire il loro disassemblaggio, in modo da poter riciclare i singoli materiali o
ricollocarli eventualmente altrove.
Si devono considerare “effimere” queste tecniche per la loro caratteristica di poter essere
svitate o sbullonate piuttosto che abbattute con la dinamite?
Sono “effimere” le facciate ventilate, i rivestimenti lapidei esterni, le pareti in cartongesso e
una lunga serie di sistemi che sono divenuti elementi del vocabolario costruttivo contemporaneo?
Il comportamento in esercizio non soddisfacente che in alcune situazioni questi sistemi
hanno dimostrato non è da imputarsi alla tecnica in sé, a una scarsa qualità intrinseca,
quanto a situazioni specifiche che possono essere generate da cause diverse. Incuria,
degrado, scarsa manutenzione, cattiva qualità dei materiali, cattiva esecuzione delle opere
in cantiere, errori di progettazione…
16. R. Moneo, L’altra modernità. Considerazioni sul futuro dell’architettura, Marinotti Edizioni, Milano, 2012, p. 45.
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Una lunga serie di motivi possono essere alla base del fallimento di un’opera, anche se era
stata progettata per durare. Cause e responsabilità del “rapidissimo logorio” che colpisce
i quartieri moderni non possono essere circoscritti all’ambito delle tecniche17. Lo aveva
indicato bene Koenig quando parlando dell’invecchiamento dell’architettura moderna non si
riferiva a quello fisico, ma al “livellamento” e alla “neutralizzazione dell’immagine architettonica”, svanita a tal punto da farla risultare priva di ogni potere designativo e qualificativo
dello spazio. “Essa non significa più niente spiritualmente in quanto, impiegando le strutture ed i materiali senza la precauzione con la quale essi venivano un tempo impiegati, si
toglie loro ogni sostanza espressiva ed ogni relazione col soggetto (con lo spazio interno).”18
La mancanza di “precauzione”, legata originariamente all’ambito della materia come parte
costituiva del progetto e limitata a esso, è divenuta in seguito assenza di coscienza ambientale, atteggiamento presente bel oltre il campo dell’architettura, che ha contraddistinto
secoli di indiscriminato sfruttamento del pianeta e delle sue risorse.
Oggi non è più sufficiente conoscere le caratteristiche chimiche e fisiche di un materiale per
selezionarlo, per legarlo alla costruzione e alla sorte di un’architettura. È invece indispensabile che ogni scelta sia consapevole delle ripercussioni che produrrà sull’ambiente,
valutando i processi di lavorazione ‘dalla culla alla tomba’, allargando il campo di indagine
all’intero ciclo di vita di un prodotto, alle sue relazioni con l’ambiente, prima durante e dopo
il suo uso. Un compito faticoso, che richiede conoscenza e aggiornamento professionale, ma
ormai ineludibile.
Una necessità di competenze ed esperienze che consentano al progettista di impiegare al
meglio le opzioni costruttive disponibili, usando la tecnica come strumento per raggiungere
il fine prefissato, in modo che il progetto non ne venga sopraffatto. La tecnica, che ha
acquisito un ruolo predominante in molti campi della nostra vita oltre che nell’architettura,
si è trasformata infatti da strumento in fine stesso dell’architettura con ripercussioni le cui
criticità sono ampiamente condivisibili ma che non devono diventare alibi all’assenza del
progetto19.
Lo spazio che essa ha via via occupato è da imputarsi anche alla rinuncia all’esercizio
espressivo della forma, sostituito spesso dalla pura esibizione tecnica, che non è ascrivibile
al solo sviluppo scientifico e produttivo da cui questa è stata interessata. La “distruzione
creatrice” appartiene alle logiche del capitalismo e oggi coinvolge tanto il tavolo del progettista quanto le tavole di cantiere.
17. “La rapidità con cui invecchiano i moderni quartieri operai di tutte le città del mondo è davvero incredibile. (…) La loro
non è una decorosa vecchiaia, ma un rapidissimo logorio.” Joseph Roth, Le città bianche, Adelphi, Milano, 1986, p. 23.
18. G.K. Koenig, L’invecchiamento dell’architettura moderna ed altre dodici note, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Terza
edizione 2007, p. 20.
19. Il ruolo dominante della tecnica nella società moderna, che da mezzo si è trasformato in fine, è stato ampiamente
discusso da filosofi e progettisti, Galimberti e Gregotti tra i molti.
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I sistemi costruttivi possono essere in alcuni casi i “colpevoli” dell’usura materica
dell’architettura, ma come si è visto più forme di obsolescenza la coinvolgono. Ciò a cui si
assiste con maggiore frequenza è l’invecchiamento dell’immagine degli edifici più che della
loro struttura. A usurarsi non sono muri e finestre ma l’espressività di quei muri e di quelle
finestre. Invecchiano velocemente le facciate dei mediabuilding, impegnate a trasmettere
informazioni e figure che appartengono al mondo dei mass media prima che a quello
dell’architettura.
Invecchiano precocemente tutti quegli edifici che scelgono di esprimersi con un linguaggio
legato alle mode, siano esse di natura formale o costruttiva20. Architetture emozionali come
uno spot pubblicitario, impattivo ma fugace.
Edifici consumabili alla stregua di merce deperibile, usurabili non solo sul piano tecnico,
ma percettivo, perché l’immagine dell’architettura si logora con la stessa velocità con cui
consumiamo gli oggetti, offerti alla fame vorace di un pubblico abituato all’alternanza e alla
sostituzione.
Il “consumo dell’architettura come immagine tende in questa veste a eclissare la firmitas”,
scrive Gregotti “non solo nel senso della costruzione quanto in quello della permanenza
della forma specifica, come fondamento dell’opera e come offerta all’interpretazione.”21
Gli obiettivi dell’obsolescenza programmata riferita agli oggetti tecnologici e le premesse
di alcune architetture contemporanee che accettano la breve durata non più legata alla
temporaneità funzionale del progetto, ma alla temporaneità espressiva, paiono muoversi su
un terreno comune.
Non si tratta solo di “ideologismo o moralismo”22 rispetto ad un sistema economico che ha
mostrato con la crisi mondiale di questi anni i suoi limiti ma di salvaguardare l’architettura
come valore sociale, come segno delle capacità dell’uomo di creare bellezza e armonia per
tutti. Perchè l’architettura “non è affatto qualcosa di innocuo”23, come oggi non lo è più
neppure l’acquisto di una lavatrice.
20. Possiamo inserire nell’idea di moda anche l’utilizzo di alcuni materiali, ad esempio negli ultimi anni il largo impiego del
Corten con funzione di rivestimento.
21. V. Gregotti, “Metafore di eternità”, in Tre forme di architettura moderna, Einaudi, Torino, 2011, p. 102.
22. Sul tema dell’usa e getta legato al design Renato De Fusco scrive: “Quanto al rapporto tra questa complessa fenomenologia dell’utilizzo e il consumismo, è necessario finalmente sgombrare il campo dall’ideologismo e moralismo che continua
ad accompagnare quest’ultimo. Col tempo abbiamo acquistato la consapevolezza che lo si può correggere ma non eliminare
perché deve coesistere con la produttività. Ci piaccia o meno, questa è la condizione della società attuale e tale sarà
certamente anche in futuro. L’abbandono di questa via è inconciliabile con lo sviluppo e produrrebbe una disoccupazione più
grave di quella che già oggi registriamo come uno dei maggiori problemi sociali e quale principale pericolo imputabile alla
tecnoscienza.” Tratto da “Il problema dell’usa-e-getta”, in Il gusto. Come convenzione storica in arte, architettura e design,
Alinea, Firenze, 2010, pp. 165-168.
23. N. Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’architettura, Casagrande, Bellinzona. 2007, p. 20.
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Linee di ricerca
Le riflessioni che precedono nascono e si innestano nelle linee di ricerca condotte negli ultimi anni e fanno riferimento a tematiche che vanno inquadrate in un contesto di interesse più
generale: il progetto ‘consapevole’, inteso quale sfondo di senso e di necessità dell’architettura contemporanea, non limitato alle questioni della sostenibilità. Temi che coinvolgono la
disciplina della Tecnologia dell’architettura intesa quale elemento attivo del progetto e della
sua realizzabilità costruttiva, ruolo che in una università centrata sul progetto assume il
significato di portare competenze e interessi ‘dentro’ quel progetto, dentro il suo farsi, seppure nella simulazione didattica. Una tecnologia rivolta al nuovo, alla produzione industriale
e al ruolo che materiali, tecniche e sistemi costruttivi possono svolgere nell’architettura
contemporanea.
Le attività di ricerca degli ultimi cinque anni che rientrano nelle tematiche dell’unità sono
articolate in alcuni ambiti che tengono conto anche delle modalità organizzative del lavoro
svolto e possono essere indicate attraverso alcune parole chiave:
- Innovazione nel settore dell’edilizia
- Rivestimenti vegetali, Cool roof, Green roof
Il primo ambito viene presentato nel paragrafo relativo all’Innovazione nell’edilizia, dal
momento che coinvolge più ricercatori all’interno delle attività svolte, il secondo viene
illustrato di seguito.
Rivestimenti vegetali
Il tema dei rivestimenti vegetali, in particolare per quanto attiene alle facciate verdi, è stato
affrontato a partire dal 2008 e ha avuto come primo risultato la pubblicazione di un libro:
Verde. Naturalizzare in verticale (Maggioli, Rimini, 2008), che definisce le questioni tecniche
e progettuali collegate all’impiego di rivestimenti naturali, a cui hanno fanno seguito numerosi approfondimenti e alcune campagne di rilevamento delle potenzialità isolanti, condotte
con i colleghi del FisTec, il Laboratorio di fisica tecnica ambientale dello IUAV.
In particolare i dati raccolti attraverso le campagne di monitoraggio hanno consentito di
delineare gli effetti isolanti garantiti dalla presenza di verde rampicante su pareti verticali,
sia nel caso di pareti low tech, cioè rampicanti fatti crescere in aderenza ai muri, sia high
tech, sistemi in cui le radici delle piante sono collocate su pannelli applicati alle pareti.
Attraverso i dati raccolti si è potuto appurare, ad esempio, che le temperature superficiali
di pareti rivolte a Sud, non rivestite, risultano in generale più alte di molti gradi rispetto a
quelle con protezione verde, elemento interessante che conferma la validità di impiegare la
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vegetazione con funzione schermante all’interno delle strategie di progetto, ribadita dalla
presenza in molti regolamenti edilizi “sostenibili” di indicazioni che ne sollecitano l’impiego.
I dati e le informazioni raccolte dimostrano che i rivestimenti vegetali possono essere integrati con altre scelte costruttive, contribuendo in modo efficace alla qualità complessiva del
progetto, soprattutto perché i benefici apportati non si limitano alle questioni energetiche
ma coinvolgono temi ambientali più ampi (ad esempio l’eliminazione delle polveri sottili),
anche se non possono intendersi come sostitutivi di sistemi di isolamento termico o di
schermatura solare, anche a fronte dell’imprevedibilità del comportamento degli elementi
naturali del tempo.
Cool roof e Green roof
Le ricerche condotte nel campo delle isole di calore, espressione che identifica una differenza di temperatura tra aree urbanizzate e aree adibite a uso rurale, si sono concentrate sullo
studio del fenomeno in alcune aree italiane, in particolare attraverso il monitoraggio di aree
urbane del territorio veneto: Padova e Mestre. L’obiettivo era dimostrare i vantaggi esogeni
ed endogeni di tali tecnologie, ascrivibili tanto alla scala dell’edificio quanto a quella territoriale e hanno portato a risultati che indicano l’esistenza di temperature più alte nei centri
urbani, anche se il caso veneto, densamente urbanizzato e legato al fenomeno della città
diffusa, presenta specificità molto diverse da quelli riportati nella letteratura scientifica
statunitense.
La simulazione è stata effettuata mediante il software ENVI-MET, un programma di
modellazione matematica in grado di simulare il comportamento di un modello climatico
tridimensionale a livello di micro-scala urbana24.
I risultati derivanti dalla simulazione con cool color, in particolare il confronto tra le temperature dell’aria esterna tra la simulazione reale e quella cool, evidenzia come l’adozione di
superfici cool sia in grado di mitigare la temperatura dell’aria esterna di quasi 1 °C durante
l’orario di maggior soleggiamento dimostrando la potenziale capacità di limitare, seppur
leggermente, il fenomeno dell’isola di calore urbana.
Un’ulteriore verifica, realizzata sulla stessa area campione, ha previsto l’inserimento contemporaneo di rivestimenti cool e di aree verdi, e ha portato a una riduzione tra i 3 a 4 °C,
dimostrando come strategie congiunte possano produrre limitazioni dell’innalzamento delle
temperature molto più elevate.
24. La simulazione è stata svolta da Filippo Spinazzè per le tesi di laurea magistrale in Architettura. Cfr. F. Spinazzè, “L’isola
di calore urbana. Strategie passive di mitigazione”, Università IUAV di Venezia, 2012-2013, relatori: F. Peron, V. Tatano.
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Ricerche straniere mettono però in evidenza che gli attuali materiali e rivestimenti impiegati
nelle coperture, diversamente da quelli utilizzati nelle coperture tradizionali, presentano una
durata limitata nel tempo, perdendo con gli anni le loro prestazioni. Questo elemento indica
che utilizzare una singola strategia di intervento, svincolata da considerazioni progettuali di
carattere più ampio (ad esempio la collocazione e l’orientamento di un edificio), rischia di
non risolvere il problema25.
I risultati di queste ricerche e i dati raccolti sono stati interpretati e presentati in pubblicazioni scientifiche, illustrati nella didattica come relazione diretta e continua tra ricerca e
insegnamento, e restituiti attraverso la divulgazione a un pubblico più vasto.
Gli attuali sistemi di valutazione della ricerca universitaria disdegnano ogni forma di
comunicazione che non avvenga all’interno di una sfera autoreferenziale, mentre molte
delle nostre attività hanno necessità di essere ampiamente con-divise al di fuori del mondo
accademico per diventare patrimonio di conoscenza e di cultura tecnica comune.
La ricerca ha bisogno di contaminarsi, di trovare interlocutori diversi che attivino un sano e
vitale percorso dialettico, oggi semplificato dalle possibilità del web. Per questo risultano
molto interessanti anche le esperienza delle attività in convenzione, e gli assegni di ricerca
FSE in partenariato con le aziende, che si focalizzano su obiettivi prestabiliti da committenti
esterni, a volte apparentemente distanti dalle ricerche accademiche e invece occasioni di
approfondimento e confronto con l’operatività del fare.
25. Akbari H. et al. (2005), Aging and Weathering of Cool Roofing Membranes, First International Conference on Passive and
LowEnergy Cooling for the Built Environment, Athens, Greece, May 17.
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Principali risultati 2008-2013
_ V. Tatano (a cura di), Verde. Naturalizzare in verticale, Maggioli, Rimini, 2008.
_ V. Tatano, F. Peron, U. Mazzali, “Verde verticale: low-tech vs high-tech. Test di prova per
verificare gli effetti energetici dei sistemi di rivestimento”. in Atti del convegno Abitare il
futuro ... dopo Copenhagen, 13-14 Dicembre 2010, Clean, Napoli, 2010, pp. 1409-1418.
_ U. Mazzali, F. Peron. V. Tatano, “Il verde verticale. Effetti energetici di un sistema di
rivestimento”, in Il progetto sostenibile n. 27/2010, pp. 104-109.
_ V. Tatano, U. Mazzali, M. Olivieri, F. Peron, ”Thermal effects of creepers and turfgrass
wall cladding on building envelope”, in Cleantech for sustainable building, CISBAT 2011,
Lausanne, 14-16 settembre 2011, pp. 219-224.
_ A. Faresin, A. Musacchio, V. Tatano, Variazioni di identità, Riflessioni sull’uso dei materiali
nel progetto, Maggioli, Collana Politecnica, Rimini, 2011.
_ A. Musacchio, E. Carattin, Nuovi elementi di involucro a elevate prestazioni energetiche,
Università IUAV di Venezia, Venezia, 2012.
V. Tatano, M. Rossetti, Schermature solari. Evoluzione, progettazione e soluzioni tecniche, Maggioli, Collana Biblioteca di architettura, Rimini, 2012.
_ V. Tatano, E. Carattin, A. Musacchio, “Strategie di mitigazione del fenomeno delle isole di
calore in ambito urbano”, in F. Musco, E. Zancani (a cura di), Il clima cambia le città. Atti
della Conferenza sull’adattamento climatico in ambito urbano, Venezia 23-24 Maggio 2013,
e-book, Corila, Venezia, 2013, pp. 162-167.
_ V. Tatano, F. Spinazzè, F. Peron, M.M. De Maria, “Observations of the urban heat island
effect in outskirts of Venice”, Proceedings of CISBAT 2013 International Conference, 4-6
September 2013, EPFL Lausanne, Switzerland, Cleantech for Smart Cities & Buildings - From
Nano to Urban Scale.
_ F. Spinazzè, “L’isola di calore urbana. Strategie passive di mitigazione”, Tesi di laurea
magistrale, Università IUAV di Venezia, 2012-2013, relatori: F. Peron, V. Tatano.
Le immagini che illustrano il testo si riferiscono allo stato attuale del Padiglione portoghese realizzato per l’Expo di Lisbona
del 1998 da Álvaro Siza Vieira (Foto di Francesco Tronchin).
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INNOVAZIONE
SEMANTICA
Maria Antonia Barucco
Guardando ad una storia fatta di crescita e di depressione, come quella descritta della onde
di Kondratiev1, viene naturale collocare l’oggi in una crisi. Varie teorie leggono le onde di
Kondratiev (onde K) come causa, conseguenza o fatto autonomo rispetto alle piccole invenzioni ed innovazioni che scatenano rivoluzioni tecnologiche. La base delle teorie economiche
fondate sull’innovazione e sullo sviluppo definisce però una stretta relazione tra le onde K
e il paradigma di Schumpeter-Freeman-Perez2, descrivendo cinque onde, dalla rivoluzione
industriale ad oggi:
-Rivoluzione industriale
-Era del vapore e delle ferrovie
-Era dell’acciaio, dell’elettricità e dell’ingegneria pesante
-Era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa
-Era dell’informatica e delle telecomunicazioni
Vedendo che tra un’onda e l’altra (in media) passano 50 anni è bene lavorare a cosa può caratterizzare la tecnologia della prossima onda (aspettando o, più probabilmente, anticipando
il 2021, dato che pare che le onde abbiano una frequenza sempre più breve).
Gli evidenti disastri ambientali causati dalle attività produttive e i discussi dati sulla variazione del clima fondano con evidenza sociale e scientifica il tema dello sviluppo sostenibile.
La portata delle ricerche e l’interesse dell’opinione pubblica definiscono in modo più che
probabile il carattere della sesta onda K: la rivoluzione verde o, se è meglio parlare di
evoluzione, l’era della sostenibilità.
Nella storia della tecnologia dell’architettura i temi di una rivoluzione o di una evoluzione
delle tecniche di progettazione erano stati trattati in tempi in cui, se di sostenibilità si
parlava, certamente di sostenibilità ancora non se ne vendeva. Eduardo Vittoria scriveva che
l’obiettivo della ricerca è “mettere a punto una tecnologia fantastica che capta i flussi e riflussi del mondo naturale” (Vittoria, 1988), che consenta il confronto e il dialogo tra le varie
discipline al fine di dotare il mondo delle costruzioni “di una finalità di tipo ambientale”, per
una migliore “abitabilità” del mondo.
Immagine 01. La pagina 243 dell’Illustrated London News (del 14 marzo 1857) mostra il cavo atlantico pronto per essere
caricato sui velieri e disteso sul fondo dell’oceano Atlantico per consentire più agevoli comunicazioni tra Europa ed America.
01. Nikolaj Dmitrievi Kondratiev (1892-1938) è stato un economista sovietico. Lavorò per il regime come Ministro
dell’Approvvigionamento e, dopo la rivoluzione del 1917, si dedicò alla ricerca. Grazie all’impegno universitario e ai numerosi
viaggi all’estero, definì e pubblicò la teoria delle onde K. Il libro non piacque al partito comunista perché documentava
come nessuna costruzione partitica o economica potesse considerarsi perfetta ma fosse sostanzialmente un episodio
caratterizzante un’onda. In pratica: il comunismo non avrebbe condotto la Russia verso una continua e dorata crescita.
Questa teorizzazione portò Kondratiev ad otto anni di carcere; successivamente, cinque nuovi libri gli valsero la condanna
all’isolamento e alla fucilazione.
02. Joseph Schumpeter studiò i cicli economici in relazione alla loro frequenza (la frequenza delle onde). Christopher
Freeman e Carlota Perez lavorarono assieme allo studio dello sviluppo tecnologico, lui analizzandolo in termini più economici
e lei dal punto di vista più sociale.
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Il moltiplicarsi delle specializzazioni, dei prodotti e dei requisiti ha creato problematiche che
Nicola Sinopoli ha descritto spostando l’attenzione dalla tecnologia “visibile” in cantiere a
quella “invisibile” (1997), fatta dell’organizzazione e della comunicazione tra gli attori del
processo edilizio. Tale indirizzo orienta una parte delle ricerche di tecnologia dell’architettura allo studio dell’invisibile che, sull’onda dell’informatica e delle telecomunicazioni, porta
a quella che ho definito “innovazione semantica”.
L’innovazione semantica capta “i flussi e riflussi del mondo naturale”. Consente di smettere
di riflettere sulla determinazione ex post o ex ante della componente “tempo” (durabilità)
o “struttura” (firmitas) dell’ecocompatibilità del costruito. Colloca sulla rete la tecnologia
invisibile e ne fa la chiave per la progettazione di edifici per luoghi e per tempi futuri, ado-
Immagine 02. Onde K. Schema rielaborato a partire da Robert J. Shiller, Stock Market Data used in “Irrational Exuberance”,
Princeton University Press, 2005.
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perandosi affinché soddisfare i bisogni del presente non comprometta la possibilità delle
generazioni future di soddisfare i propri3. È impossibile descrivere il dettaglio di un’onda
K che deve ancora dichiararsi fattivamente su scala globale, qualche prima misurazione
economica è disponibile nelle ricerche degli economisti. Nonostante ciò è possibile, per un
architetto, coglierne alcuni segnali e trarne riflessioni, prefigurazioni4 e dunque strategie
per il progetto. Di seguito descrivo chi (prosumer), perché (practopia) e come (esperienza)
sviluppare il progetto durante l’auspicabile sesta onda K, in questa “fantastica innovazione
semantica” che è l’ecocompatibilità del costruito.
03. “Soddisfare i bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a
soddisfare i propri” (Brundtland, 1987).
04. Il prof. Longhi, durante una lezione tenuta nell’a.a. 2004-05, spiegò che “lo scopo non è assumere come focus del
progetto un ideale futuro, ma sviluppare molte diverse visioni del contesto di progetto”, In altre parole, “lo scopo principale
degli scenari non è vedere il futuro, ma evitare scelte sbagliate” Peter Swartz (1991).
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Prosumer
Il significato della parola prosumer è stato messo a punto da Marchal McLuhan Barrington
Nevitt nel 1972 ma è stato Alvin Toffler nel 1980 ad utilizzare effettivamente per primo questo termine e ad inserirlo nel linguaggio degli economisti (oltre che dei sociologi). Prosumer
è una crasi dei termini producer e consumer, indica un consumatore che è anche produttore
che, nell’atto stesso del consumare, contribuisce alla produzione5.
Toffler descrive la storia dell’uomo con quella che potremmo definire una linea del tempo
“con le onde” (che ha una certa somiglianza con le onde K): una prima ondata vede l’uomo
agricoltore, descritto dall’atto di produrre ciò che gli è necessario, una seconda ondata
vede l’uomo consumatore, impegnato in attività legate al commercio (o, meglio, dedito
alla costruzione del mercato), infine vi è il prosumer: il protagonista della terza onda è un
uomo che, svincolandosi dal classico ruolo passivo dell’utente, assume un ruolo più attivo
nel processo che coinvolge le fasi di creazione, produzione, distribuzione e consumo (di
qualunque bene, dall’informazione all’edilizia etc.).
Nel 2005 l’International Council for Research in Building and Construction (CIB)6 ha
organizzato il convegno mondiale Sustainable Building a Tokyo (SB05). La città, nel 2001,
aveva superato 12 milioni di abitanti7 e nel 2005 era ormai chiaro che la crescita repentina e
selvaggia stava segnando pesantemente la natura, definendo una megalopoli sconfinata, un
dedalo di vie e di nuovi quartieri nei quali si concentra il 10% della popolazione giapponese:
una città che la letteratura contemporanea descrive come iperattiva e violenta, coinvolta in
un processo di crescita tumultuosa e disordinata, una città dalla mappa indecifrabile8.
La sede del convegno non è stata casuale: negli ultimi anni le politiche che governano la
crescita di Tokyo sono state orientate verso una maggiore attenzione per l’ambiente. Tale
motivazione è esplicitata nello slogan della conferenza “action for sustainability” e dai
dibattiti susseguitesi sulle tematiche della sostenibilità a scala edilizia e urbana, delle
tecnologie e delle politiche di gestione e cooperazione.
Immagine 03. Un’immagine scattata nel febbraio del 2007 da Wilhelm Joys Andersen mostra la città di Tokyo coperta dallo
smog, In lontananza il centro della città e sulla sinistra si vede il Tokyo Dome (lo stadio polifunzionale).
05. Siamo noi quando, ad esempio, effettuiamo una ricerca in internet: come dei cacciatori andiamo in cerca di informazioni
e, spostandoci, lasciamo dietro di noi delle tracce. Le tracce del nostro passaggio nella rete rimangono registrate in quelli
che vengono chiamati “biscotti”: cookies (web cookie, tracking cookie, magic cookie). Alla fine della caccia probabilmente
saremo consumer soddisfatti di aver dato risposta alle nostre curiosità ma siamo sicuramente stati anche producer di
informazioni, informazioni utilissime per chi, ad esempio, si occupa di marketing e studia il comportamento dei consumer.
Essere prosumer significa anche maturare maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella rete, in modo tale che quella di
prosumer non sia una condizione ma, appunto, un ruolo consapevolmente gestito.
06. www.cibworld.nl (dicembre 2013)
07. Dati disponibili sul sito web ufficiale metropolitano Population of Tokyo, http://www.metro.tokyo.jp/ENGLISH/PROFILE/
overview03.htm (dicembre 2013).
08. Questa è la sensazione che trasmette Roland Barthes nel libro “L’Impero dei Segni” e il racconto di Kobo Abe “The
Ruined Map”.
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Da un lato “un impatto ambientale senza precedenti nella storia dell’umanità” (Rampini F.,
2006) e dall’altro “gli sforzi del governo metropolitano di Tokyo per trasformare la città in un
emblema di città sostenibile” (Kunihiro G., 2010).
Il prof. Kunihiro presenta nel 2009 il suo “Discorso di un architetto sulla sostenibilità”:
descrive il piano decennale di Tokyo volto a trasformare quella megalopoli sconfinata nella
città con il più basso carico ambientale al mondo. Kunihiro descrive il restauro del verde e
dei beni storici e architettonici, spiega il progetto per la foresta marina, la rete verde e della
nuova viabilità ma focalizza il suo intervento sul ruolo dell’architetto che “deve saper offrire
abilità e competenze nella comunicazione, coordinare e sintetizzare le i dee e i problemi
degli utenti e della comunità”; sottolinea inoltre che “gran parte del lavoro non sarà molto
visibile” perché sarà un lavoro fatto di condivisione delle esperienze e comunicazione aperta
e attiva. La popolazione mondiale ha superato la cifra di sette miliardi di persone e varie
stime attestano che più della metà delle popolazione mondiale è distribuita nelle città. L’opinione pubblica concorda sull’esigenza di tirare il freno d’emergenza sul consumo delle risorse naturali, con l’obiettivo di arrestare il processo di esaurimento delle risorse dette “non
rinnovabili”. Se si pensa al commercio come ad un’autostrada ci si accorge che il consumer
è stato dedito alla costruzione di svincoli, carreggiate e diramazioni di questa autostrada e
oggi tutte le forme di ampliamento stanno raggiungendo limiti obiettivi (pochi sono ancora
irraggiungibili). Le geopolitica già parla di “guerre ambientali”9 e gli studi dei recenti Nobel
per l’economia10 e per la pace11 cercano e spiegano come si potrebbe organizzare un “codice
della strada” che garantisca la viabilità degli autotreni e dei carretti, contemporaneamente,
senza schiacciare i piccoli prosumers.
La necessità imminente di agire con obiettivi comuni venne presentata dal CIB attraverso
uno schema di impostazione olistica che illustra il rapporto tra le scale del costruito (materiali, prodotti e componenti da costruzione, l’edificio nel complesso, infine il sito e il contesto urbano) e le possibili azioni riguardanti i processi della progettazione (pre-progettazione,
progettazione, post-progettazione). In accordo con la definizione di sviluppo sostenibile data
dall’Agenda 21 on Sustainable Buildings (CIB A21) il cardine della conferenza è incentrato
sulla diffusione a larga scala dei principi e delle pratiche sostenibili tra tutti gli attori del
processo edilizio e in tutti i Paesi, principalmente nei Paesi in via di sviluppo.
09. Le Nazioni Unite nel 1977 hanno firmato la Environmental Modification Convention definendo la guerra ambientale
come “l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale come il clima i fenomeni meteorologici gli equilibri
dell’atmosfera della ionosfera della magnetosfera le piattaforme tettoniche etc..., allo scopo di causare distruzioni fisiche,
economiche, psicosociali nei riguardi di un determinato obiettivo geofisico o una particolare popolazione”.
10. “Vivere in un’economia di mercato non è molto diverso dal parlare in prosa. Non è facile farne a meno, ma molto dipende
da quale prosa scegliamo di usare”. Amartya Sen, Identità e violenza, traduzione di Fabio Galimberti, Laterza, 2006 (cap. VII,
p. 139).
11. “Non è detto che ogni impresa debba necessariamente uniformarsi all’esclusivo obiettivo della ricerca del massimo
profitto, ed è qui che entra in scena il nuovo concetto di business sociale”. Muhammad Yunus, Un mondo senza povertà,
traduzione di Pietro Anelli, Feltrinelli, 2012 (cap. I, p. 34).
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La conferenza propone anche uno schema degli attori del processo edilizio, uno schema
che ha l’obiettivo di aggiornare quello precedentemente proposto dalla CIB A21. Al centro
dello schema viene messa la comunicazione tra i portatori di interesse in quanto, se questa
comunicazione avviene in modo efficace, secondo un buon “codice della strada”, i portatori
di interesse12 possono diventare prosumers. Lo schema degli attori del processo edilizio proposto dalla CIB A21 vedeva la costruzione e l’innovazione del costruito come risultati di una
sequenza di attori, ciascuno dei quali è influenzato ed influenza direttamente un elemento di
quello che appare come un flusso circolare di desideri, volontà, azioni e conseguenti scelte.
Lo schema proposto dal CIB nell’incontro SB05 cerca di scardinare la visione dei ruolo dei
producers (tecnici del settore edile) e del ruolo dei consumers degli edifici (utenti). Fare
perno sulla comunicazione anziché sulla sequenza di azioni significa portare al centro del
processo edilizio il discorso sulla sostenibilità (o durabilità, che dir si voglia): diveniamo
tutti utenti del costruito e siamo tutti responsabili dell’impatto degli edifici sull’ecosistema,
nel loro ciclo di vita13. Attraverso canali di comunicazione e modi d’espressione differenti
i prosumers possono influenzare lo sviluppo sostenibile delle costruzioni, facendo parte
del settore del business e dell’industria, sviluppando strutture per il governo, studiando e
facendo ricerca o, più diffusamente, essendo utenti attenti e dialoganti del mondo costruito
con il quale quotidianamente interagiscono. Il CIB spiega inoltre che per raggiungere la sostenibilità dell’attività costruttiva è necessaria la cooperazione tra i vari ruoli, rappresentata
dal logo dell’SB05 con il segno del WA, due ideogrammi che, assieme, significano armonia,
cordialità, simbiosi e pace. Il cerchio, utilizzato da solo, significa “senza fine”, “apertura”
e anche “bocca”14 ed è suggestivo pensare che in questo ideogramma vi sia un riferimento
al dialogo, all’apertura e alla comunicazione fondanti il pensiero dell’ecocompatibilità del
costruito, un dialogo volto a rispettare le locali caratteristiche e a condividere la responsabilità per poter affrontare le problematiche globali.
12. “Portatori d’interesse” è il termine italiano con cui si traduce la parola stakeholders, una parola composta da stake,
paletto, e holder, portatore. L’origine del termine inglese risale al 1983. In Oklahoma le autorità avevano escogitato un
particolare metodo per concedere appezzamenti di terreno ai pionieri delle carovane dirette ad Ovest: una competizione. Ogni
pioniere aveva diritto ad acquisire gratuitamente un pezzo di terra purché riuscisse a delimitarne per primo il perimetro con
quattro paletti. Chi arrivava dopo doveva addentrarsi di più nella prateria (nel territorio dei pellerossa). Quindi lo stakeholder
non era semplicemente “il portatore del picchetto” (dell’interesse): aveva un ruolo decisamente attivo nella definizione del
territorio (del suo sviluppo e, di conseguenza, della sua economia). Allo stesso modo il CIB chiede agli stakeholders un ruolo
attivo nel processo edilizio perché essi divengano prosumers e il progetto sia volto alla sostenibilità.
13. Stando allo schema del processo edilizio proposto dal CIB nel 2005, parlando dell’ecocompatibilità del costruito, l’ideazione e la progettazione di un edificio non vengono più concepiti come una progressione di eventi da controllare e misurare ma
divengono scelte frutto della simultaneità e della varietà degli interessi: questi aspetti e l’efficacia della loro comunicazione
divengono più importanti della processualità (le fasi operative della progettazione, costruzione, manutenzione, ristrutturazione e demolizione di un edificio).
14. Ringrazio la gentile Kyoko Yamamoto per avermi aiutato nella lettura e comprensione dei termini giapponesi
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Practopia
La practopia è diversa dall’utopia perché è fattibile, è una practical-utopia. Nella cultura
contemporanea è possibile individuare una tendenza alla fuga utopica dalla realtà ed è forse
ancora più evidente la paura di essere accusati di utopismo, una paura che diviene timore di
ragionare sul futuro.
La practopia si colloca tra la costruzione di prognosi fondate sulle attuali conoscenze certe
e il pensiero utopico che rifiuta il presente per rappresentare modelli ideali15. La practopia
non contrappone alla realtà dei modelli ideali ma pronostica gli sviluppi pratici della società
moderna, analizzando le congruenze delle reali tendenze di sviluppo. È una parola dalla forte
componente critico-pratica e, nella ricerca di metodologia, la practopia acquista legittimità
scientifica (Cerroni, 1991).
Immagine 04. Schema che illustra l’organizzazione degli attori del processo edilizio secondo le successive indicazioni del
convegno SB05 organizzato dal CIB e tenutosi a Tokyo nel 2005.
15. Anche se non esiste una netta linea di confine tra utopia e practopia è bene chiarire che esistono utopie dalla forte
componente critica e che ne esistono molte che ne sono prive. Non esiste, invece, una practopia senza una forte componente
critica.
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Forse è un’utopia che a Fujisawa, a 50 km da Tokyo, la Panasonic riuscirà a bonificare 19 ettari di terreno inquinato dalle sue ex-fabbriche e realizzerà mille abitazioni a zero emissioni.
Forse sbagliamo anche se rimaniamo romanticamente ad osservare il “rapidissimo logorio”
(Roth J., 1987) delle nostre periferie. La practopia può essere un’alternativa.
La practopia non progetta né il migliore né il peggiore dei mondi possibili ma un mondo che
sia attuabile e sia preferibile a quello che abbiamo. Una practopia mostra un’alternativa positiva, persino rivoluzionaria, ma collocata nell’ambito delle cose realisticamente possibili.
Il progetto sostenibile, indirizzato alle future generazioni, è influenzato dagli attuali sistemi
e richiede l’ideazione di sistemi diversi. Il progettista potrà lavorare ad una practopia se ogni
segno progettuale sarà riferito alle culture, alle aspirazioni, ai bisogni e ai desideri di ogni
abitante e può fare questo solo lavorando con i prosumers (e se egli stesso si considera
un prosumer). È necessaria progettazione strategica, elasticità delle formule organizzative,
competenza e creatività delle risorse umane.
Immagine 05. Ideogramma WA e logo della conferenza SB05. Il logo è accompagnato dalla seguente descrizione: Objectives
of SB05 Tokyo can be summarized as overall concept by a Japanese word WA, which represents “Harmony”, “Friendliness”,
“Symbiosis” and even “Peace”. We believe these notions, in conjunction with the word’s image - a “circle”, correspond directly to the basic idea of “Sustainable Building”, respecting local characteristics while simultaneously sharing responsibility
for global issues. All these considerations have been symbolically expressed in the logo.
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Per costruire un’adeguata visione dell’innovazione sono fondamentali la comprensione
dei bisogni e la traduzione di tali bisogni in applicazioni atte a soddisfarli16. La capacità di
comunicare fonda l’innovazione dell’ecocompatibilità.
Una comunicazione che non deve avvenire attraverso schegge di informazione super-specializzata ma deve consistere nell’esercizio, nelle ripetizioni, nelle revisioni e nella diffusione
delle conoscenze. In questo modo la comunicazione diventa informazione, funzionale al
miglioramento del progetto attraverso la partecipazione, attraverso il dialogo tra prosumers.
Una comunicazione che lavora per portare a maturità il progetto. Una maturità17 che dichiara
lo stretto rapporto tra il progetto e il tempo, cioè il misuratore per eccellenza, che sentenzierà sull’ecocompatibilità di quanto costruito.
Questi ragionamenti teorici hanno un risvolto molto pratico nella quotidianità della tecnologia dell’architettura: le informazioni che vengono fornite in merito ai prodotti da costruzione
per illustrare le loro caratteristiche di sostenibilità. Questo tipo di informazioni è regolato
dalle normative ISO18 e descrive i prodotti ma anche il processo con cui vengono realizzati,
commerciati, trasportati, messi in opera e smaltiti i prodotti, danno delle volte anche
informazioni anche in merito al loro corretto utilizzo e mantenimento funzionale. Per la
complessità e la valenza che assume questo genere di informazioni per il mercato edilizio,
l’impiego di certificazioni volontarie può essere definito “innovazione semantica”. Vale a dire
che, se è possibile distinguere le innovazioni che più prettamente coinvolgono il prodotto e
altre che riguardano il processo, è possibile allora individuare anche le innovazioni che vanno ad influire soprattutto sul significato che il prodotto o il processo hanno quando vengono
spiegati ed illustrati ai prosumers in virtù dell’esigenza di sostenibilità.
Il termine “innovazione semantica” è mutuato dal mondo del web e dall’innovazione che lo
sta percorrendo: il web 3.0 accumula dati in merito ai passaggi che avvengono tra le varie
Immagine 06. Un’immagine della presentazione tenuta dai dirigenti Panasonic nel maggio 2011: assieme ad altre otto
aziende si impegnano a bonificare un terreno di 19 ettari e costruire una nuova città, chiamata Fujisawa Sustainable Smart
Town (Fujisawa SST). Immagini ed infomrazioni ulteriori sono reperibili alla pagina internet http://news.panasonic.net/
archives/2011/0526_5407.html (dicembre 2013).
16. Si noti la somiglianza tra questa considerazione e la definizione di “requisito”: “traduzione di un’esigenza in fattori atti a
individuarne le condizioni di soddisfacimento da parte di un organismo edilizio o di sue parti spaziali o tecniche, in determinate condizioni d’uso e/o di sollecitazione” (UNI 10838:1999).
17. La parola “maturo” deriva dal latino maturus, una parola che è fortemente caratterizzata dalla radice mâ, che significa
misurare, e che ha qualcosa a che fare con il passare del tempo (mattina, mattutino, ...): la maturità è quindi una caratteristica che dipende dal tempo che scorre, dalla lentezza utile a fare le cose che devono durare a per molto tempo o che si
devono trasformare lungo un ampio lasso di tempo.
18. La norma EN UNI ISO 14001 specifica i requisiti di un sistema di gestione ambientale per consentire ad un’organizzazione
di sviluppare ed attuare una politica e degli obiettivi che tengano conto delle prescrizioni legali e delle altre prescrizioni che
l’organizzazione stessa sottoscrive e delle informazioni riguardanti gli aspetti ambientali significativi.
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pagine internet, catalogandoli in virtù di un numero elevatissimo (e in teoria infinito) di
tematiche, andando a costituire quella che viene definita dai tecnici del settore come una
sorta di “intelligenza collettiva” in grado di “pensare”, leggere e analizzare i documenti. In
pratica si tratta di un sistema di navigazione per concetti che vengono nel tempo ricordati
e messi in connessione tra loro; dunque non si userà più la ricerca per parole chiave e
potremo interrogare il web attraverso domande articolate che arricchiranno, nel tempo, la
memoria (o il pensiero, sostengono alcuni) del computer.
L’utilizzo del termine “semantica” per descrivere questa innovazione di internet apre un
dibattito: per i linguisti la semantica è la descrizione a posteriori degli usi della lingua,
mentre per i logici è la scelta a priori del rapporto tra un sostantivo come “pane” e un insieme qualsiasi di oggetti, siano pure biscotti. Su questa differenza si gioca oggi il destino del
termine “semantic web” in quanto la determinazione a priori o a posteriori del collegamento
tra parole e argomenti è, in sé, il cuore dell’innovazione.
L’aggettivo “semantica” in riferimento all’innovazione della sostenibilità pone, in aderenza
a tale dibattito, l’accento sull’insieme di nuovi significati che un prodotto offre, siano essi
determinati a priori e/o a posteriori. Il prodotto che è in una posizione vantaggiosa sul
mercato in virtù di un forte valore semantico può avere funzioni o costi paragonabili rispetto
a beni simili, ma soddisfa in misura superiore una serie di esigenze di altro tipo. Il prodotto,
più che “funzionare meglio”, ha “più senso”, cioè incontra meglio i valori del modello
socio-culturale legato alla sostenibilità.
Per un’azienda la dimostrazione della sostenibilità dei prodotti e dei processi produttivi
avviene prima attraverso la certificazione e poi con la comunicazione a tutti i soggetti
interessati. Il dialogo tra le parti è ancor più fondamentale se si considera la presenza degli
interessi delle aziende concorrenti e l’incertezza che deriva dalla lettura di un quadro estremamente complesso, in cui anche gli effetti ambientali non sono di facile determinazione19.
È importante che ogni attività afferente al comparto delle costruzioni, e che impatta con
l’ecosistema, possa essere basata sull’informazione e sul consenso, indipendentemente dal
fatto che sia la realizzazione di prodotti da costruzione, l’edificazione di unità residenziali
unifamiliari o la realizzazione di grandi progetti pubblici. Per ogni tipo di intervento esistono
iter burocratici e sistemi normativi volontari che consentono di descrivere la qualità e la
sostenibilità di ciascuna attività o di ciascuna costruzione. L’informazione, d’altra parte,
può anche essere uno strumento negativo se viene utilizzata o manipolata esulando dalla
19. A tali questioni, in via generale, sono riconducibili anche i problemi di gestione dei conflitti connessi alle grandi opere
pubbliche e alle infrastrutture (ad esempio la TAV, il passante di Mestre, gli inceneritori, la gestione delle fabbriche ad
alto impatto ambientale, ...), opere delle quali sono sempre molto complessi lo studio e la comunicazione degli impatti
ambientali in relazione con le prestazioni garantite: il problema nasce infatti nel momento in cui le parti non concordano
sull’analisi costi/benefici dell’opera.
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conformità fondata sui parametri che ne garantiscono il valore: in questo modo si alimenta
l’ambiguità e il conflitto. Il miglioramento degli strumenti e dei termini per fare innovazione
semantica migliorerà con la pratica, nel tempo, attraverso successive innovazioni incrementali, sviluppando esperienza. Un aspetto molto importante perché è la qualità dell’informazione (qualità dei contenuti e qualità della comunicazione) a determinare buona parte del
successo dell’innovazione, sia essa di prodotto o di processo.
Esperienza
La parola esperienza proviene dal sostantivo latino experientia, a sua volta derivato dal
verbo experiri (provare, sperimentare). Lo sperimentare per conoscere un aspetto della
realtà, nella tradizione filosofica, ha un’accezione strettamente legata al solo mondo
fisico, indicando cioè quel tipo di conoscenza che parte dell’attività dei sensi. Il linguaggio
comune ha però ampliato il significato della parola esperienza allargandone l’impiego alla
conoscenza del mondo che otteniamo nella vita quotidiana attraverso il rapporto con le cose
e gli altri, un ampliamento di significato fondamentale per rispondere alle problematiche
dell’epoca dei media. Avere esperienza vuol dire aver attraversato una serie di eventi che,
accumulati, hanno sviluppato un arricchimento interiore e una crescita morale.
Esperienza è anche la perizia che si raggiunge attraverso la consuetudine, lo svolgimento di
una professione o l’applicazione costante in una determinata tecnica. L’esperienza consente
di “valutare la qualità del proprio lavoro in quanto esperimento condiviso, risultato di un apprendimento collettivo per prove ed errori” (Sennett, 2008): l’esperienza consente di valutare
l’ecocompatibilità del progetto in quanto esperimento condiviso tra prosumers, risultato di
una practopia condotta attraverso un processo iterativo di informazione-decisione.
Che tipo di esperienza dobbiamo maturare per arrivare a tanto? I tedeschi distinguono due
tipi di esperienza: Erfahrung ed Erlebnis. Erlebnis è una parola che deriva da erleben in cui
er è una particella che indica il buon fine di un’azione e leben significa vivere: erlebnis è l’esperienza interiore, compiuta, consapevole. Erfahrung è invece l’esperienza concreta, fattiva,
legata a tutte le cose fatte e gestite, ad esempio l’esperienza lavorativa che porta a essere
esperti di un mestiere (un “buon fine”, dato che anche in questa parola c’è la particella er).
Tenere in considerazione la sensibilità e le abilità tecniche riporta il termine “durabilità” al
centro del progetto, sottolineando il valore del tempo lento che è richiesto dalla stratificazione delle esperienze, quel tempo che consente alla tecnica e alle sensazioni di radicarsi, e
consente ai progettisti di diventare abili a comunicare.
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A partire dalla ricostruzione postbellica l’Italia ha vissuto epoche in cui gli architetti erano
chiamati a rispondere all’emergenza abitativa20 e, successivamente, a quella qualitativa,
considerando l’intero processo edilizio21. L’evoluzione delle costruzioni e dei comportamenti
degli utenti portano ora alla ricerca di livelli di qualità superiori, che chiamiamo ecocompatibilità22. Parlando di ecocompatibilità ci si riferisce agli edifici in termini molto ampli,
riferendo cioè l’esigenza di ecocompatibilità non solo all’immobile ma anche a tutte le parti
materiali e alle azioni progettuali (e dunque immateriali o invisibili23) che lo compongono
dal momento della sua ideazione al momento della sua demolizione. Le tecnologie utilizzate
nella costruzione devono dunque essere “compatibili” rispetto ad un contesto fatto di acqua,
aria, terra e di un ambiente naturale ed umano che non deve essere distrutto al passare del
tempo. È fondamentale che il passaggio dall’astratto (idea progettuale) al concreto (edificio)
avvenga per tentativi e successivi avvicinamenti a sempre più alti livelli di qualità che non
necessariamente si interrompono una volta conseguito il raggiungimento dello standard
minimo definito dalla normativa. Ciribini nel 1984 descriveva una strategia pratica per il raggiungimento delle prescrizioni legali, dei traguardi economici e degli obiettivi ambientali che
si ritengono significativi in ciascun progetto. Tutto stava nell’applicare il metodo “iterativo o
ripetitivo di informazione-decisione” (Ciribini, 1984).
A conferma del valore delle considerazioni di Ciribini, nel novembre del 2004, la norma EN
ISO 14001 ha abbracciato il pensiero del professore descrivendo il metodo per migliorare
un processo industriale di produzione standardizzata. Ciribini definisce tale processo come
l’iterazione delle fasi di entrata, di operazione e di uscita dell’informazione che, attraverso
la sua elaborazione, diviene progetto. La practopia trova la sua effettiva applicazione
metodologica nel momento in cui i prosumers vengono coinvolti nel processo descritto e,
in particolare, nella fase “entrata”, utile al riconoscimento delle esigenze. Ciribini descrive
questa fase come quella in cui il progettista deve organizzare tre tipi di informazioni preliminari, informazioni che derivano dal dialogo con gli utenti che, interagendo con il progetto,
20. Con la legge 28 febbraio 1949, n. 43 il Parlamento approvò il “Progetto di legge per incrementare l’occupazione operaia,
agevolando la costruzione di case per i lavoratori”. Nei primi sette anni di vita verranno investiti complessivamente 334
miliardi di lire per la costruzione di 735.000 vani, corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla fine dei quattordici anni di durata del
piano, i vani realizzati saranno in totale circa 2.000.000, per un complesso di 355.000 alloggi.
21. Negli anni ‘90 le ricerche si concentrano sul “costo generalizzato”, pari alla sommatoria del costo di costruzione, al costo
d’esercizio e alle altre spese necessarie per garantire la qualità degli edifici durante tutta la durata del loro ciclo di vita
(Manfron, 2005)
22. L’ecocompatibilità è definita dalla norma UNI 11277 come la “compatibilità tra il contesto costruito e l’ambiente fisico
comprendente diverse categorie di impatto e le varie fasi del ciclo di vita dell’edificio”. La norma UNI 11277 è stata pubblicata nel 2008 ed è intitolata “Sostenibilità in edilizia - Esigenze e requisiti di ecocompatibilità dei progetti di edifici residenziali
e assimilabili, uffici e assimilabili, di nuova edificazione e ristrutturazione”.
23. “Che cos’è la tecnologia invisibile? Sono i saperi, l’organizzazione e l’intelligenza che concorrono alla realizzazione di un
progetto di architettura: i saperi che consentono di finalizzare materiali, macchine e procedimenti, l’organizzazione che fornisce strumenti utili per mettere insieme un gruppo di uomini in grado di concepirlo e costruirlo e l’intelligenza necessaria a
far si che esso sia ragionevolmente sicuro, appropriato e duraturo. La tecnologia invisibile, insomma, è quanto di immateriale
vi è in un processo produttivo e, in questo contesto, in quello di produzione di un’opera di architettura” (Sinopoli, 2002)
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progettano loro stessi e divengono prosumers: gli obiettivi dell’azione progettuale, derivati
dalle esigenze ed espressi come richieste prestazionali (requisiti); le risorse costituite dalle
conoscenze, dalle energie umane intellettuali e fisiche, dalle forniture di energia naturale
e artificiale e infine dai materiali e dalle tecnologie; i vincoli di carattere ambientale, normativo, tecnico, tecnologico e finanziario. La definizione dei vincoli di carattere ambientale
consente di stringere un legame ancor più forte tra progetto e prosumers: al punto 3 della
norma UNI 10838 si legge che la conformità ambientale è considerata una caratteristica
dell’ambiente interno degli edifici, vale a dire la “rispondenza di un elemento spaziale alle
specificazioni di prestazione ambientale” (UNI 10838.1999); a questa definizione è utile
far seguire quella di elemento spaziale, cioè la “porzione di spazio fruibile destinata allo
svolgimento delle attività di una unità ambientale” (UNI 10838.1999). Tale descrizione
di qualità ambientale connota una visione meno ampia della questione rispetto a quella
fondata sul principio di sostenibilità. Oggi infatti la qualità ambientale di un edificio è
avvertita in modo legato non solo alle prestazioni che gli organismi edilizi forniscono agli
utenti dell’immobile (utenza prima), ma anche all’utenza del contesto in cui l’immobile è
inserito e, infine, anche tutti coloro che vivono in un contesto ben più ampio ma ugualmente
segnato dalle conseguenze dei comportamenti riscontrabili nelle precedenti due categorie
di utenza. I prosumers coinvolti nella progettazione di una practopia edile, dunque, sono le
persone che abiteranno l’edificio ma anche “i sovrasistemi di cui il sistema edilizio fa parte”
(UNI 8289.1981).
Conclusioni
L’innovazione semantica sottolinea l’importanza del significato delle parole, delle frasi e
dei testi di cui si compone il condiviso desiderio di sostenibilità del costruito. Tale esigenza
diffusa porta a trasformare o ad inventare prodotti e processi per la costruzione degli edifici.
La semantica è il ramo della linguistica che si occupa dei fenomeni del linguaggio non
dal punto di vista fonetico e morfologico, ma guardando al loro significato. L’enciclopedia
italiana spiega che “un sistema logico può essere considerato da un punto di vista sintattico
come un puro calcolo formale di segni non interpretati, oppure esso può venire interpretato
ed i suoi segni possono assumere un significato” (Enciclopedia Italiana - III Appendice,
1961). Le forme e i modi che permettono tale interpretabilità sono il tema degli studi di
semantica.
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Leggere questa definizione con “gli occhiali dell’architetto” (avrebbe detto Kant) porta a
intendere il “sistema logico” come l’insieme di azioni che compongono il costruire. Un insieme di azioni che, sappiamo bene, non è frutto di “puro calcolo formale” ma del lavoro utile
a soddisfare esigenze all’interno di vincoli precisi, nel rispetto di una disponibilità di risorse
limitate, all’interno di un contesto specifico24. Costruire è, inoltre, un lavoro che viene
descritto attraverso dei segni (e dei disegni) che non possono rimanere “non interpretati” e
che vanno a costituire quel linguaggio condiviso tra i molti differenti soggetti che operano
lungo il processo edilizio e che caratterizzano la storia di ogni edificio, dalla sua ideazione
sino alla sua demolizione.
Linee di ricerca
La comunicazione delle prestazioni dei materiali da costruzione lega la tecnologia hard
dei prodotti con la tecnologia soft del processo. Quel processo edilizio che, nell’epoca
della comunicazione, è chiamato al confronto con un gran numero di portatori di interesse,
travalicando i consueti confini della produzione industriale o del cantiere.
Un analogo percorso di comunicazione descrive anche le prestazioni degli edifici: l’efficienza
energetica, i consumi idrici, l’inquinamento da agenti chimici e l’impatto ambientale sono
solo alcuni dei temi riassunti nei vari protocolli di certificazione della sostenibilità.
Immagine 07. Processi iterattivi progettuali di “informazione-decisione” (Ciribini) e “miglioramento continuo” (UNI EN ISO
14001.2004).
24. La norma UNI 10838.1993 definisce l’edificio come “l’insieme integrato di prodotti edilizi organizzati che deve soddisfare
alcune esigenze all’interno di vincoli ben precisi, nel rispetto di una disponibilità di risorse limitate all’interno di un contesto
specifico”.
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Queste basi hanno portato a sviluppare ricerche alla scala “microscopica” del processo
sotteso alla certificazione di peculiarità nella produzione dei materiali da costruzione:
l’embodied energy. Dall’altro lato sono state condotte anche ricerche a scala vasta, per
comprendere i modi e i contenuti della comunicazione dei desiderata e dei possibili efficientamenti sul patrimonio edilizio esistente dedicato ad housing sociale.
Il filone di ricerca ora aperto è il confronto con tecnologie “nuove”. Comunicare le caratteristiche di una tecnologia poco conosciuta in ambito europeo, potenzialmente vantaggiosa nei
Paesi in via di sviluppo: la tecnologia dell’acciaio sagomato a freddo. Una tecnologia inventata in un contesto relativamente vicino nel tempo e nello spazio (i primi usi sperimentali si
devono a Prouvé), divenuta innovativa grazie al contributo di culture differenti (la ricostruzione postbellica in Giappone) e oggi largamente impiegata in alcuni continenti (America ed
Oceania). Ogni trasformazione nella produzione, nell’utilizzo e nelle prestazioni comunica la
storia di una tecnologia e le potenzialità di future innovazioni, anche semantiche.
Immagine 08. Ogni anno il settimanale americano TIME assegna il premio “persona dell’anno”. Nel 2007 vince il Prosumer,
utente e generatore dei contenuti di internet.
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Bibliografia
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L’ULTIMO EDIFICIO
SULLA TERRA
Massimo Rossetti
Il titolo è preso dal più famoso “L’ultimo uomo sulla Terra”, film del 1964 con Vincent Price,
tratto da “I am legend”, seminale romanzo di Richard Matheson pubblicato dieci anni prima.
È la storia di un medico, apparentemente l’unico sopravvissuto a una pandemia che ha
quasi estinto il genere umano, che cerca disperatamente di trovare un vaccino per i pochi
non-morti che vagano per le strade, ridotti a uno stato di semi incoscienza. Uno scenario
drammatico, ma non del tutto impossibile1.
Chiedersi, invece, quale potrebbe essere “l’ultimo edificio sulla Terra” è una domanda senza
risposta. Per prima cosa, bisognerebbe definire in che senso “ultimo”. L’ultimo a essere realizzato? Oppure l’ultimo a rimanere in piedi? Ovviamente non c’è risposta. Ma è comunque
suggestivo immaginare quali potrebbero essere i caratteri di un “ultimo” edificio. Dando per
scontato che esso, come dovrà quasi sicuramente essere qualsiasi manufatto architettonico
che venga costruito sul pianeta nei prossimi decenni, sia un edificio sostenibile.
La direzione, infatti, verso una sostenibilità “pervasiva” (quindi non singoli, iconici edifici,
emblematici ma episodici portatori di innovazione tecnologica), quella di un’edilizia diffusa
ad altissima efficienza energetica, è ormai una strada obbligata. È opportuno però delimitare
il campo di pertinenza e definire alcuni fattori in presenza dei quali si possa realmente
parlare di edificio sostenibile. In altre parole, individuare dei requisiti connotanti che
possano disegnare, magari non in maniera totalmente esaustiva ma senza dubbio chiara, il
“recinto” entro il quale si può parlare, se non di un vero e proprio edificio, quantomeno di un
approccio a un costruire sostenibile. Di seguito proviamo a elencarne alcuni.
Un primo requisito, probabilmente il più riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale, riguarda l’efficienza energetica degli edifici, come riportato da numerosi studi recenti
(ENEA2, Commissione Europea3, BPIE4, IEA5), che hanno indicato questo come l’ambito con le
maggiori potenzialità e dove investire maggiori risorse. Come evidenziato anche dal ritorno
all’utilizzo di soluzioni quali i sistemi solari passivi, la ventilazione, il raffrescamento e
l’illuminazione naturali, quasi dimenticati in pieno XX secolo.
Un secondo requisito è individuabile nell’integrazione nei componenti edili dei dispositivi per
la generazione energetica da fonti rinnovabili, quali il fotovoltaico o il mini e micro eolico.
Immagine 01. Vincent Price in una scena de “L’ultimo uomo sulla Terra”, del 1964.
01. Lo studio del rischio di estinzione del genere umano non è fantascienza: si veda a proposito il lavoro del CSER, Centre for
the Study of Existential Risk, dell’Università di Cambridge (http://cser.org/). Ne fa parte, tra gli altri, Stephen Hawking.
02. ENEA, Rapporto energia e ambiente 2009-2010. L’Analisi.
03. Commissione Europea, Piano di efficienza energetica 2011, COM(2011) 109 definitivo.
04. BPIE (Building Performance Institute Europe), Europe’s buildings under the microscope. A country-by-country review of
the energy performance of buildings, 2011.
05. IEA (International Energy Agency), Energy Technology Perspectives 2012. Pathways to a Clean Energy System, OECD/IEA.
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L’utilizzo di fonti energetiche in loco, vale a dire nello stesso edificio o in prossimità di esso6,
rappresenta senza dubbio un importante contributo all’abbattimento delle emissioni di CO2;
le tecnologie attuali, inoltre, consentono di farlo in maniera “discreta”, dissimulando o
perfino mimetizzando i dispositivi nei prodotti da costruzione.
Un terzo requisito, infine, riguarda l’uso di materiali a bassa energia incorporata, derivati da
tecniche di produzione e lavorazione poco energivore e/o dall’utilizzo di materiali del luogo,
sui quali non gravino elevati costi energetici di trasporto7. L’utilizzo di materiali ad altissima
efficienza energetica, in grado di ridurre fortemente emissioni e consumi potrebbe, infatti,
essere vanificato se per la loro produzione e messa in opera venisse spesa una quantità di
energia superiore a quella che viene risparmiata nel corso della vita utile dell’edificio.
A questi tre ne andrebbe aggiunto un quarto, del quale senza dubbio non si parla ancora
abbastanza, che riguarda l’utenza: per l’esattezza, la capacità di utilizzare edifici con
determinate prestazioni energetiche. Il che porterebbe, dopo la certificazione ambientale dei
prodotti e dell’edificio, alla “certificazione dell’utenza” (le virgolette sono, per ora, dovute; si
tratterebbe, in concreto, di verificare l’attitudine dell’utenza alla corretta gestione di edifici
ad altissime prestazioni energetiche, pena il non utilizzo). Ma per ora limitiamoci agli edifici.
Questo, oggi. Il percorso verso la massima sostenibilità di un edificio cerca di coniugare
efficienza energetica, fonti rinnovabili, basso peso energetico dei materiali e, forse, un
adeguato livello di consapevolezza e preparazione da parte degli utenti. L’“impianto” di base
rimane però sempre lo stesso: l’edificio, come tutti lo conosciamo. Un po’ come ridurre
consumi ed emissioni di un’automobile che però funziona con lo stesso motore a scoppio di
150 anni fa.
Volendo quindi individuare una strada alternativa nel territorio della sostenibilità, è possibile vedere, magari in filigrana ma emergenti, idee delle quali si stanno gettando le basi,
anche tecniche, per una futura realizzazione. Scenari che non prevedono più solo il continuo
miglioramento prestazionale dell’edificio tradizionale, ma che, al contrario, ne propongono
quasi una nuova stirpe: una sorta di “fusione” tra componenti artificiali e naturali, tra
antropico e non-antropico, in cui non è chiaro dove finisca il primo e cominci il secondo.
Immagine 02. Fab Tree Hab, di Mitchell Joachim, Lara Gredem e Javier Arbona. Immagine: cortesia di Mitchell Joachim.
06. Come indicato anche all’articolo 2, comma 2, della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19
maggio 2010 sulla prestazione energetica nell’edilizia, che riguardo agli edifici a energia “quasi zero” dice: “il loro fabbisogno
energetico molto basso o quasi nullo dovrebbe essere coperto in misura molto significativa da energia da fonti rinnovabili,
compresa l’energia da fonti rinnovabili prodotta in loco o nelle vicinanze”.
07. Sul tema dell’energia incorporata nei materiali da costruzione si veda: G.P.Hammond e C.I.Jones, Embodied energy and
carbon in construction materials. Proceedings of the Institution of Civil Engineers – Energy, 2008, 161 (2), pp. 87-98.
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Per maggiore chiarezza, è bene fare alcuni esempi. Fab Tree Hab è un concept di Mitchell
Joachim, Lara Gredem e Javier Arbona, provenienti dall’MIT di Boston. Joachim, in particolare, è conosciuto per essere una delle quindici persone suggerite dalla rivista Wired con le
quali Barack Obama avrebbe dovuto parlare dopo la sua elezione, nel 20088.
È anche il co-fondatore di Terreform ONE (Open Network Ecology9), organizzazione no profit
che promuove lo smart design per le metropoli.
L’idea di Fab Tree Hab deriva dal pleaching, tecnica di giardinaggio con la quale si modifica
l’andamento di crescita dei rami di un albero10. Secondo il concept di Joachim, Gredem e
Arbona, modellando la direzione di crescita dei rami principali di un albero è possibile realizzare una struttura puntiforme che costituisca l’ossatura portante delle pareti perimetrali.
08. Si veda http://www.wired.com/politics/law/magazine/16-10/sl_intro.
09. http://terreform.org.
10. Un celebre esempio è la “Cattedrale vegetale”, opera dell’artista Giuliano Mauri, in Trentino.
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I tamponamenti sono realizzati in adobe, mentre all’esterno una fitta rete di rampicanti
riveste le pareti, schermando dall’irraggiamento diretto d’estate e permettendo d’inverno al
sole, grazie all’assenza delle foglie, di scaldare la parete e quindi per inerzia termica l’interno. Gli ambienti vengono finiti con uno strato di argilla liscia, con aperture collocate ad
altezze differenti, in modo da favorire il fenomeno della cross ventilation. Secondo le parole
dello stesso Joachim, “here traditional anthropocentric doctrines are overturned and human
life is subsumed within the terrestrial environs. Home, in this sense, becomes indistinct and
fits itself symbiotically into the surrounding ecosystem”11.
Anche il Biorock nasce da una tecnica collaudata. È Wolf Hilbertz, architetto e scienziato
marino, a concepirne l’idea nel 1974 e in seguito diffonderla assieme all’associazione Global
Coral Reef Alliance, quale strumento per la ripopolazione della barriera corallina.
Immagine 03. Rappresentazione del processo di crescita di Fab Tree Hab. Immagine: cortesia di Mitchell Joachim.
11. http://www.terreform.org/projects_habitat_fab.html
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Il Biorock si basa sull’utilizzo di una rete elettrosaldata immersa in mare, attraverso
la quale viene fatta passare una corrente a basso voltaggio che innesca il fenomeno
dell’accrezione, ovvero della solidificazione dei minerali sciolti nell’acqua (carbonato di
calcio e idrossido di magnesio in particolare). Col tempo, i coralli trovano nella stessa rete
avvolta nei minerali l’habitat ideale per la ricrescita. Da qui è nata la visione di Hilbertz,
Autopia Ampere: una città posizionata in mare aperto avente come scheletro portante
proprio il Biorock. Hilbertz aveva individuato le coste del Nord Africa come luogo ideale per
la realizzazione, spostando poi la scelta verso l’Oceano Indiano, presso il Saya de Malha
Bank, una vastissima piattaforma oceanica di circa 40.000 chilometri quadrati a nord-est
del Madagascar. Una città utopica, che essendo al di fuori dei confini nazionali sarebbe
stata soggetta solo alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Forse Autopia
Ampere rimarrà un sogno, ma le possibilità offerte dal Biorock sono comunque, secondo
Hilbertz, vastissime: “other applications for the electrochemical accretion process can be
seen readily: floating habitats and industrial islands, settlements on banks, shoals, and the
continental shelves, mariculture facilities, breakwaters, storage tanks, dams and jetties,
pipelines, bridges, tunnels, airports, beach solidifications and accretions, current diverters,
building components for use on land, sea walls, marinas, atoll closures, and power as well
as sedimentation generating facilities”12.
A Fab Tree Hab e Autopia Ampere si affianca il progetto Dune, dello svedese Magnus Larsson, che ha proposto alcuni anni fa un metodo per la solidificazione di circa 6.000 chilometri
di deserto del Sahara, progetto facente parte del programma “Great Green Wall”, iniziativa
nata nel 2007 dalla collaborazione tra 23 stati africani per realizzare una fascia verde tra
Mauritania e Gibuti allo scopo di fermare la desertificazione e lo spostamento delle dune
che progressivamente erodono terreno coltivabile e costringono allo spostamento interi
villaggi. L’idea di Larsson prevede la trasformazione della sabbia in arenaria tramite l’uso di
batteri, allo scopo di renderla sufficientemente solida da essere utilizzata come ambiente
costruito. I batteri sono non patogeni, quindi non presentano pericoli per gli esseri umani,
e muoiono una volta terminato il processo di trasformazione della sabbia in arenaria. Tre
gli scopi del progetto, con le parole dello stesso Larsson: “the sandstone wall that I’m proposing essentially does three things: it adds roughness to the texture of the dune surface,
Immagine 04. Un esempio di Biorock a circa un anno dalla sua messa in opera. (Immagine di Ari Spenhoff, in località
Sambirenteng, Bali, Indonesia).
Immagine 05. Una delle poche immagini di Autopia Ampere, di Wolf Hilbertz.
12. W. Hilbertz, Electrodeposition of minerals in sea water: experiments and applications, IEAA Journal of Oceanic Engineering, vol. OE-4, n. 3, luglio 1979. Per un approfondimento sul sistema Biorock si veda www.biorock.net e www.globalcoral.org.
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binding the grains; it provides a physical support structure for the trees; and it creates
habitable spaces inside of the sand dunes”13.
Visionari, certo. E forse perfino stravaganti. Ma la storia dell’architettura è piena di
sperimentazioni, più o meno fortunate (si pensi alla casa in plastica del 1972 di Mario
Scheichenbauer a Sesto San Giovanni, demolita solo pochi anni fa, o a “Villa Girasole” di
Angelo Invernizzi, realizzata nel 1935 a Marcellise, in provincia di Verona, solo per citarne
due) e di vere e proprie visioni (le opere di Archigram, Archizoom e Superstudio14). Progetti
che cercavano di evocare mondi possibili e perfino probabili, nella mente dei loro creatori;
non sempre però realmente fattibili. Oggi, nell’osservare i tanti progetti che parlano di futuro, sembra emergere da alcuni la ricerca di un qualcosa che fonda organico e inorganico,
partendo, spesso, da una base di fattibilità tecnica.
È possibile trovare un’analogia nel mondo della biologia. Sono sempre di più, infatti, gli
ausili o i dispositivi che sopperiscono a particolari deficit funzionali; numerosi tipi di innesti,
integrabili in un corpo che rimane comunque umano. Non si è in presenza – non ancora – di
una fusione tra l’elemento organico (il corpo) e l’elemento non organico (il dispositivo).
Eppure, nell’osservare i progetti di Joachim, Hilbertz e Larsson, non possono non venire
alla mente alcuni esempi, tratti anch’essi da arte, letteratura, cinema, di esseri viventi
composti da simbiosi di elementi organici e non. Le opere di HR Giger, artista svizzero noto
ai più come padre di Alien, rappresentano forse meglio di chiunque altro il senso di questo
concetto.
13. http://www.ted.com/talks/magnus_larsson_turning_dunes_into_architecture.html.
14. Si veda a riguardo il catalogo della mostra La città nuova. Oltre Sant’Elia. 1913 Cento anni di visioni urbane 2013, a cura
di M. De Michelis, tenutasi a Como dal 24 marzo al 14 luglio 2013.
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Nell’osservare i progetti visti prima, la direzione sembra la stessa. L’“ultima frontiera della
sostenibilità” potrebbe dunque essere quella di edifici che letteralmente fondano l’organico
e l’inorganico, l’antropico e il non-antropico, alla ricerca di una nuova identità tra organismi
viventi e manufatti artificiali. Questa, alla domanda di quale possa essere “l’ultimo edificio
sulla Terra”, potrebbe essere, se non una risposta, almeno una direzione.
Qualcosa di simile era già stato preconizzato da Kevin Kelly quando ebbe occasione, circa
venti anni fa, di commentare un esperimento ambizioso, quello di Biosphere 2, progetto di
ricerca collocato in Arizona che tra il 1991 e il 1993 (con un secondo tentativo nel 1994)
cercò di far convivere un gruppo di otto persone in un ambiente completamente separato
dal resto del mondo e totalmente autosufficiente. Gli esperimenti non portarono i risultati
attesi15, ma è interessante leggere cosa scrisse Kelly a proposito: “the glass spaceship
parked in the desert is called a biosphere because the logic of the Bios runs through it. The
logic of Bios (bio-logic, biology) is uniting the organic and the mechanical. In the factories
of bioengineering firms and in the chips of neural-net computers, the organic and the machine are merging. But nowhere is that marriage between the living and the manufactured
so clear as in the pod of the Bio2. Where does the synthetic coral reef end and the chanting
wave machine begin? Where does the waste-treatment marsh begin and the toilet plumbing
end? Is it the fans or the soil bugs that control the atmosphere?”16
La visione di Kelly prefigurava quindi uno scenario che a vent’anni di distanza non sembra né
utopico né fantascientifico, bensì realistico e perfino fattibile.
Immagine 06. Processo di insediamento di Dune di Magnus Larsson.
15. Biosphere 2 è da qualche anno proprietà della University of Arizona (b2science.org), che l’ha convertita in un centro di
ricerca.
16. K. Kelly, Out of control: the new biology of machines, social systems and the economic world, Perseus Books, 1995.
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Non altrettanto realistico sembra invece un altro scenario, anch’esso visionario e più volte
riproposto da cinema e letteratura, che toglierebbe ogni significato al termine “sostenibilità”: il pianeta Terra ricoperto da un’unica città, estesa a ogni latitudine e longitudine. Idea
ripresa tra gli altri da Italo Calvino, George Lucas, Isaac Asimov. Ne “Le città invisibili”,
Italo Calvino, tra le “città continue” descrive infatti Trude, e dice: “Perché venire a Trude?
mi chiedevo. E già volevo ripartire. – Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma
arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude
che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto”17. Diversi anni dopo,
George Lucas, nella saga di Star Wars, colloca il centro esatto della galassia su Coruscant,
interamente ricoperto da un’unica città. Ma l’idea da cui prese ispirazione risale a molti anni
prima, a Isaac Asimov, che nel ciclo della Fondazione parla di Trantor: “la sua urbanizzazione, con un incremento costante, aveva infine raggiunto il limite massimo. L’intera superficie
del pianeta, 75 milioni di miglia quadrate, era diventata un’unica città”18.
Può essere, lo ripetiamo, totalmente irrealistico pensare a un pianeta Terra interamente
urbanizzato. Ma se questo sembra uno scenario da fantascienza, si guardino le foto notturne
del pianeta e si osservi la fascia che include Stati Uniti, Europa e Mediterraneo, Medio
Oriente, India, Cina e Giappone: quasi un’unica, ininterrotta città.
Verso una longue durée: linee di ricerca
Nell’ambito di un’attività di ricerca sul tema della sostenibilità, con particolare riferimento alla longue durée, negli ultimi anni sono stati condotti due studi che, sebbene
apparentemente distanti, rimandano in realtà allo stesso obiettivo, ovvero la richiesta di
prolungare la vita utile di un edificio attraverso una serie di interventi che ne migliorino gli
aspetti prestazionali. Le due attività hanno riguardato una proposta per la rigenerazione
di un piccolo paese nelle Dolomiti e una metodologia per la riqualificazione energetica e
funzionale di edilizia residenziale realizzata mediante tecniche di prefabbricazione pesante e
industrializzazione dei getti.
La prima attività di ricerca ha avuto come oggetto la rigenerazione di un piccolo borgo nelle
Dolomiti Venete, Vinigo, nel comune di Vodo di Cadore, in provincia di Belluno. L’attività si
è svolta, in particolare, durante le tre settimane del Workshop estivo IUAV W.A.VE. 2011,
avente come tema “Urban regeneration”. Obiettivo del Workshop è stata una proposta
collettiva di riqualificazione di diversi manufatti edilizi, secondo un quadro unitario che
restituisse una vitalità, oggi perduta, al borgo.
Immagine 07. Una sezione delle formazioni rocciose di Dune. Immagine cortesia di Magnus Larsson.
17. I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 135.
18. I. Asimov, Prima Fondazione, Mondadori, Milano 1995, p. 11.
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La storia del borgo di Vinigo è simile a quella di molti altri piccoli paesi di montagna,
abbandonati negli anni dalla popolazione, soprattutto più giovane, a causa del venir meno
di un’economia basata su agricoltura e pastorizia. Il conseguente spopolamento, unito
all’invecchiamento dei residenti rimasti, ha portato all’abbandono e al disuso di molti edifici,
in particolare dei tabià, caratteristici delle zone di montagna. Si tratta di edifici finalizzati al
ricovero degli animali al piano terra, realizzato prevalentemente in pietra, e allo stoccaggio
del fieno al piano superiore, in legno. La loro presenza, comune su tutto l’arco alpino, era
strettamente correlata al tipo di economia della zona, che vedeva le aree dislocate attorno
ai villaggi adibite a pascolo e coltivazioni. Col passare a un’economia basata sul commercio,
il turismo, i servizi e l’industria e con l’abbandono delle generazioni più giovani, i tabià
hanno perso la loro funzione e versano oggi spesso in condizioni di degrado. Si aggiunga a
questo che la loro proprietà si è molte volte “spezzettata” nel tempo, lungo diverse generazioni, che non sempre trovano un accordo per la sistemazione dell’edificio. Il risultato è un
progressivo degrado, fino al rischio concreto, già avvenuto, del crollo. Che significa la fine di
una tradizione costruttiva e, in ultima analisi, di una memoria storica.
Scopo del Workshop e dell’attività di ricerca è stato quindi il progetto di recupero di alcuni
tabià, cercando di coniugare il rispetto per una tradizione costruttiva vecchia di secoli con
l’attuale contesto storico, che mette a disposizione tecniche e materiali come mai in passato. Un esercizio difficile: recuperare, senza stravolgerne l’identità formale e nel rispetto delle proprie caratteristiche tecniche, alcuni degli edifici simbolo di questi territori, attribuendo
loro una funzione che possa rigenerare il piccolo borgo, cercando di applicare soluzioni
tecniche e costruttive, anche innovative, che ne migliorino le prestazioni energetiche.
La seconda attività di ricerca è stata condotta nell’ambito del programma Prin 2008 dal
titolo “Riqualificazione, rigenerazione e valorizzazione degli insediamenti di edilizia sociale
ad alta intensità abitativa realizzati nelle periferie urbane nella seconda metà del ‘900”. In
particolare, parte degli obiettivi della ricerca hanno riguardato la proposta di una strategia
per la riqualificazione funzionale di edilizia residenziale realizzata con tecniche di prefabbricazione pesante e industrializzazione dei getti.
Punto di partenza è stata l’analisi delle condizioni del parco immobiliare italiano, notoriamente vetusto e in condizioni tutt’altro che ottimali, soprattutto dal punto di vista energetico, in quanto realizzato per la maggior parte antecedentemente alle leggi sul contenimento
dei consumi. In esso, anche se in percentuali contenute e sicuramente non paragonabili ad
altri paesi europei, sono presenti anche quegli insediamenti realizzati con tecniche di pre-
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fabbricazione pesante nati per fornire un alloggio alle numerosissime famiglie trasferitesi
nelle aree urbane durante il fenomeno migratorio sud-nord, conseguente al passaggio da
un’economia nazionale prevalentemente agricola a una basata sulla produzione industriale.
Tali insediamenti, se nella seconda metà del ‘900 hanno garantito l’assorbimento dell’“onda
d’urto” di migliaia di persone, hanno però nel tempo mostrato evidenti limiti qualitativi
che un tempo, essendo la “quantità” (il numero di alloggi) l’unico parametro considerato
importante, non erano semplicemente considerati. A distanza di diversi decenni, però,
sono proprio questi limiti a renderli non solo non più appetibili per un’utenza comune, ma
nemmeno in linea con le richieste attuali di standard funzionali e prestazionali.
Le patologie rivelano grosse carenze in termini di benessere termico, acustico e luminoso
(scarso isolamento termico delle pareti perimetrali, serramenti a vetro singolo, insufficiente
abbattimento acustico sia tra esterno e interno che tra ambienti interni, mancanza di
un’adeguata illuminazione naturale, ecc.), della fruibilità (dimensioni dei vani inadeguate,
scale non a norma, assenza di ascensori, ecc.), della sicurezza (patologie edilizie diffuse,
carenze strutturali, ecc.).
Se da un lato tale edilizia risulta quindi molto deficitaria sotto diversi aspetti, dall’altro,
essendo realizzata sulla base di sistemi costruttivi “a catalogo” è possibile pensare, con
aggiustamenti limitati in funzione del singolo progetto, a una strategia di intervento con
soluzioni declinate in funzione dei vari sistemi costruttivi, che possa essere applicata in
diversi casi e che porti alla riqualificazione funzionale del manufatto edilizio, consegnando
a esso anche una qualità formale che lo possa rendere appetibile per eventuali operazioni
immobiliari e, in definitiva, reimmetterlo sul mercato.
L’evidente differenza di partenza tra manufatti alpini (basati su tecniche tradizionali
e artigianali, realizzati con materiali del luogo) ed edilizia residenziale prefabbricata
(realizzata nella sua interezza con tecniche e prodotti industriali), viene in parte a mancare
proprio nell’ottica della longue durée, in quanto in entrambi i casi si tratta di garantire a
un manufatto edilizio un prolungamento della propria vita utile. Nel primo, convertendo tali
edifici a destinazioni d’uso in grado di renderli utilizzabili per un’utenza attuale, cercando
di coniugare tecniche tradizionali e rispetto del genius loci (anche per volontà di preservare
una testimonianza storica altrimenti destinata a scomparire) con le possibilità offerte
dall’“infinito scaffale” di prodotti per l’edilizia degli anni 2000. Nel secondo, adeguando gli
standard prestazionali al livello richiesto dalle odierne residenze, tenendo in considerazione
sia i cambiamenti sopravvenuti al profilo d’utenza dal momento della loro realizzazione,
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sia la possibilità di ulteriori riconfigurazioni. Due tipologie di edifici quindi profondamente
diverse, ma in realtà con molti punti in comune.
Le attività di ricerca hanno avuto diverse ricadute, quali pubblicazioni, interventi a convegni
e mostre. In particolare, l’attività di ricerca relativa alla rigenerazione del borgo alpino di
Vinigo è stata pubblicata nel volume “Workshop 2011. Facoltà di architettura di Venezia”,
edito da Marsilio19, e nel volume “Cultura ed ecologia dell’architettura alpina, edito dalla
Regione Veneto”20; è stata inoltre presentata nel corso degli interventi alle due mostre/convegno “Recupero architettonico ed efficienza energetica negli insediamenti alpini” di Sedico
(BL)21 e “Ripensare l’architettura alpina tradizionale. Idee e progetti di riqualificazione ener19. M. Rossetti, Architettura alpina contemporanea, in E. Giani (a cura di), Workshop 2011. Facoltà di architettura di Venezia,
Marsilio, Venezia 2012, pp. 184-189.
20. M. Rossetti, L’architettura alpina: tra tradizione e innovazione, in F. Alberti, C. Chiapparini (a cura di), Cultura ed ecologia
dell’architettura alpina, Regione del Veneto 2012, pp. 154-158.
21. M. Rossetti, Il ruolo chiave dell’aumento delle competenze: Alphouse e la formazione di architetti, tecnici e imprese,
intervento alla mostra/convegno Recupero architettonico ed efficienza energetica negli insediamenti alpini. Architettura
alpina tra innovazione e tradizione nel contesto delle Dolomiti, Sedico (BL), 29 novembre 2011.
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getica” ad Aosta22. L’attività di ricerca relativa alla riqualificazione dell’edilizia residenziale
prefabbricata ha avuto come principale risultato la pubblicazione dei risultati del Prin nel
volume “Paesaggi periferici. Strategie di rigenerazione urbana”, edito da Quodlibet23, e negli
atti del convegno internazionale COST Action TU0701, “Improving the Quality of Suburban
Stock”24.
Immagine 08. Immagine notturna della Terra scattata dai satelliti dell’esercito degli Stati Uniti. (Immagine tratta da http://
apod.nasa.gov/apod/ap040822.html).
22. M. Rossetti, Architettura Alpina Contemporanea. W.A.VE 2011 | Urban Regeneration, intervento alla mostra/convegno
Ripensare l’architettura alpina tradizionale. Idee e progetti di riqualificazione energetica, Aosta, 24 febbraio 2012.
23. M. Rossetti, Proposta per una riqualificazione dell’edilizia sociale realizzata con tecniche di prefabbricazione pesante e
industrializzazione dei getti, in R. Di Giulio con A. Boeri, M. C. Forlani, A. Gaiani, V. Manfron, R. Pagani, Paesaggi periferici.
Strategie di rigenerazione urbana, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 270-277.
24. M. Rossetti, Sustainable upgrade: methodologies for the recovery of the Italian housing built with heavy prefabrication
systems, in R. Di Giulio (edited by), Improving the Quality of Suburban Stock, COST Action TU0701, UnifePress, 2012, pp.477.
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Bibliografia
_M. De Michelis (a cura di), La città nuova. Oltre Sant’Elia. 1913 Cento anni di visioni urbane 2013,
SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo 2013.
_W. Hilbertz, Electrodeposition of minerals in sea water: experiments and applications, IEAA Journal
of Oceanic Engineering, vol. OE-4, n. 3, luglio 1979.
_K. Kelly, Out of control: the new biology of machines, social systems and the economic world,
Addison Wesley, Reading, 1994/Perseus Books, Jackson, 1995.
_J. May con A. Reid, Architettura senza architetti. Guida alle costruzioni spontanee di tutto il mondo,
Rizzoli, Milano 2010.
_L. Mumford, Storia dell’utopia, Donzelli, Roma 2008.
_M. Rossetti, Progetti non convenzionali, in “Costruire”, n. 333, febbraio 2011, pp. 49-56.
_M. Rossetti, Tre fattori per un’architettura sostenibile, in EnergoClub (a cura di), Questa svolta tocca
a noi, Altraeconomia, Milano 2013.
_B. Rudofsky, Architecture without architects: a short introduction to non-pedigreed architecture,
New York, Doubleday 1964.
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L’INNOVAZIONE
NELL’EDILIZIA
MariaAntonia Barucco, Massimo Rossetti, Valeria Tatano
L’innovazione come scoperta di qualcosa di nuovo nella convinzione che possa essere
migliore della precedente è una spinta a progredire che l’uomo ha endemica entro di sé.
In realtà utilizziamo il termine innovazione in senso lato, anche quando non si fa riferimento
a vere e proprie scoperte scientifiche o a invenzioni, che si presentano come eccezioni di uno
sviluppo scientifico e tecnologico che per lo più riguarda nuovo e novità.
In edilizia l’innovazione è prevalentemente orientata al miglioramento dei prodotti e dei
sistemi costruttivi esistenti, in risposta a bisogni o necessità esplicitati o meno, e si
manifesta sotto forma di innovazione di tipo adattivo o funzionale. Assorbiamo e trasformiamo innovazioni che arrivano da altri settori, più avanzati ed economicamente più
solidi, interessati da investimenti di cui si prevede il ritorno, attraverso il meccanismo del
trasferimento tecnologico, che nel settore edilizio ha consentito, ad esempio, l’inserimento
delle nanotecnologie e degli smart materials.
Ma più in generale “la tecnologia progredisce accumulando le esperienze di molti, non per
atti isolati di singoli eroi; e i suoi usi vengono quasi sempre alla luce in un secondo tempo,
perché quasi mai un oggetto si inventa pensando di soddisfare specifici bisogni.”1
Si tratta dunque di percorsi lenti che subiscono accelerazioni e rallentamenti, in cui le figure
coinvolte sono diverse e, al di là delle grandi invenzioni che hanno cambiato la storia, è
difficile riconoscere un singolo artefice nella novità introdotta nel settore.
Ci sono molti modi per tentare di lanciare uno sguardo sul futuro e formulare previsioni che
possano servire da traccia dello sviluppo del mondo delle costruzioni. I futurologi, ad esempio, lungi dall’essere novelle sibille, si propongono come studiosi dei fenomeni economici
e sociali in grado di descrivere con buona approssimazione lo sfondo di riferimento delle
trasformazioni dei prossimi anni. Alvin Toffler e Ray Kurzweil2 hanno fornito molte letture interessanti sui cambiamenti tecnologici, sociali ed economici che hanno avuto e continuano
ad avere influenze dirette sul settore costruttivo.
I cacciatori di innovazioni, che lavorano per i centri di ricerca di grande aziende o per
le materioteche ormai diffuse in tutto il mondo, sono esperti nell’individuare le novità
prodotte dal mercato, nel rintracciarle nelle fiere e nell’attivare meccanismi di trasferimento
tecnologico da un settore all’altro. E poi ci sono le ricerche, le indagini, i dati statistici, ma
anche i film e i romanzi di fantascienza, capaci di prefigurare un mondo possibile con letture
tutt’altro che visionarie (Blade Runner, i libri dello scrittore inglese James G. Balard, ...).
01. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino, 1998, p. 193.
02. Di Alvin Toffler si ricordano: La terza ondata, Sperling & Kupfer, Milano, 1987, Lo choc del futuro, Sperling & Kupfer,
Milano, 1988 e, con Heidi Toffler, il recente Revolutionary Wealth, Knopf, 2006. Di R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo,
Milano, 2005.
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Senza nessuna volontà di competizione con strutture ed enti di ricerca che da decenni si
occupano di sviluppare innovazione e di diffonderla, ArTec, l’Archivio delle tecniche e dei
materiali per l’architettura e il disegno industriale, fin dalla sua istituzione è impegnato
nell’individuazione e nello studio dell’innovazione dei prodotti e dei sistemi costruttivi.
ArTec
In una pubblicazione dedicata alla condivisione dei contenuti delle ricerche trovano spazio
le voci di chi fa ricerca. Il presente testo costituisce un’anomalia: non è la voce di un ricercatore ma è la descrizione di un luogo (visibile e invisibile) che ha la funzione di catalizzare
le idee e i temi di ricerca mettendo in contatto tra loro studenti, dottorandi, assegnisti di
ricerca e personale strutturato.
ArTec è un laboratorio dello IUAV e in esso operano, un po’ per causalità, un po’ per scelta,
docenti che afferiscono al medesimo Dipartimento e alla stessa Unità di ricerca.
Per questi motivi e per la connessione tra ricerche e la condivisione di intenti con il dipartimento, nel primo quaderno dell’unità di ricerca “Città, sostenibilità e tecnologia” trova
spazio anche la descrizione delle attività di ricerca di ArTec.
L’Archivio, che fa parte del Sistema Laboratori dello IUAV, occupa una superficie di circa
250 metri quadrati nel cuore degli spazi destinati alla didattica dell’ex Cotonificio di Santa
Marta, in cui sono raccolti e aggiornati per studenti e docenti una selezione rappresentativa
dei materiali, prodotti e sistemi di costruire il progetto.
La struttura è anche uno spazio operativo che negli anni è divenuto il luogo di confronto dei
dottorandi di Tecnologia dell’architettura della Scuola di Dottorato Iuav, degli assegnisti che
fanno riferimento ai docenti che operano nella struttura e dei vari collaboratori alle attività
in convenzione condotte.
La definizione di ArTec come “luogo (materiale e immateriale)” parafrasa la descrizione
della Tecnologia dell’Architettura fatta dal prof. Sinopoli3, ideatore della struttura e guida
di molti di noi. Una disciplina a cavallo tra il cantiere e l’astrazione teorica, così come ArTec
raccoglie in una materioteca i prodotti da costruzione e accoglie chi fa ricerca. La tecnologia
in ArTec si fa carico del ruolo pratico di intermediazione tra ricerca e industria e si occupa
anche del processo di traduzione, interpretazione e coordinamento del pensiero della
disciplina.
03. N. Sinopoli, La tecnologia invisibile: il processo di produzione dell’architettura e le sue regie, Franco Angeli, Milano, 1997
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Con questa finalità i dottorandi di ricerca ICAR 12 hanno recentemente dato vita a OFFICINA*4, un progetto, frutto dell’attività di collaborazione tra università, enti e aziende, volto
alla costruzione di un contenitore per le esperienze di studio, ricerca e formazione maturato
durante il periodo di dottorato.
Nel proliferare delle produzioni (spesso solo invenzioni e non innovazioni) e nella crisi del
settore edile italiano, ma anche dell’università e della ricerca, ArTec propone una “disciplina
del lavoro”5 basata sulla condivisione e il confronto delle ricerche: “tutto sta nel come
elementi diversi diventano parte integrante di un processo che elabora i fattori che lo
costituiscono, trasformandoli in nuove esigenze”6.
Ecco perché ArTec è un luogo materiale ed immateriale: è effettivamente uno spazio dedicato alla matericità del costruire ed è un incubatore di studi che fa del coinvolgimento uno
strumento per l’innovazione perché “i giovani rifiutano le mete. Vogliono dei ruoli […] ossia
la partecipazione totale”7.
L’attività di ArTec negli anni si è mossa lungo i percorsi di studio dell’innovazione in edilizia,
con particolare riferimento al processo di monitoraggio e osservatorio tecnologico, condotto
nello specifico attraverso una lunga serie di convenzioni di ricerca con BolognaFiere e SAIE8.
Dal 2004 al 2011, infatti, ArTec ha collaborato alla realizzazione del “Catalogo Novità”,
strumento tecnico cartaceo e digitale di raccolta, classificazione e valutazione dei prodotti
innovativi presentati nel corso della manifestazione fieristica bolognese. Nel 2010, inoltre, è
stato pubblicato con la casa editrice BE-MA un dvd contenente i contributi dei partecipanti
alla rassegna di seminari sull’innovazione tecnologica dal titolo Innovazione: SAIE e dintorni,
tenutisi nel corso del Salone9.
Nel 2012 la collaborazione con SAIE, senza venire meno alla connotazione originaria di
osservatorio tecnologico, si è focalizzata sulla ricerca di soluzioni per l’edilizia particolarmente innovative, a livello nazionale e internazionale, allo scopo di fotografare il settore in
un momento non facile per l’economia mondiale. Il lavoro, dal titolo Innovazione nel mondo
delle costruzioni: People meet innovation, si è articolato nella raccolta, studio e analisi di
04. OFFICINA* è il nome scelto dai dottorandi ICAR 12 per contraddistinguere una serie di attività di ricerca e didattica da
loro promosse e realizzate. OFFICINA* (a cura di E. Antoniol, V. Covre, D. Petucco) è anche un sito web (www.officina-artec.
com) che dà conto delle iniziative avviate con aziende, enti e produttori.
05. T. Herzog, Proluzione per il conferimento del titolo di socio onorario SITdA durante il convegno nazionale SITdA, Innovare
per abitare, Roma, 2010.
06. E. Vittoria, Tecnologia, progettazione, architettura in Casabella n.375, 1973.
07. M. McLuhan, Q. Fiore, Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano, 1964.
08. Saie – acronimo di Salone Internazionale dell’Industrializzazione edilizia, dal 2013 Salone dell’Innovazione Edilizia – è dal
1965 la principale fiera sul mondo delle costruzioni in Italia.
09. M. Rossetti, V. Tatano, “Innovazione: Saie e dintorni”, in Integrare per costruire: innovazione, progetto, produzione,
gestione edilizia e urbana, DVD edito da Be-Ma, Milano, 2010.
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recenti progetti di architettura, realizzati in Italia e all’estero, che presentassero particolari
caratteristiche di innovazione tecnologica. Il gruppo ha svolto un’attività di scouting finalizzata all’individuazione di progetti di ricerca e di architettura nei quali fossero stati
utilizzati prodotti e materiali innovativi, o prodotti e materiali tradizionali declinati in modo
innovativo. L’incarico ha previsto inoltre l’individuazione delle aziende fornitrici di tali
prodotti e materiali, finalizzata al coinvolgimento di tali aziende nell’ambito dell’esposizione
People Meet Innovation che ha presentato i risultati della ricerca all’interno del Salone. Una
sintesi del risultato del lavoro, esposto in occasione del SAIE di ottobre 2012 a Bologna, è
contenuta in un flip magazine consultabile nel sito di ArTec (www.iuav.it/artec).
Inoltre, l’attività di ricerca sulle dinamiche dell’innovazione tecnologica ha indagato anche
il campo della sostenibilità in edilizia, in particolare in occasione della convezione di ricerca
2008 con SAIEnergia, Salone delle energie rinnovabili e tecnologie a basso consumo per il
costruire sostenibile, sempre facente parte di SAIE. Il tema di ricerca, Studio di stratigrafie
costruttive, è consistito nello studio di alcune soluzioni “tipo” in grado di connotare sul
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piano energetico e costruttivo le specificità di pareti e coperture da realizzarsi in zone
geografiche diverse (una settentrionale e una meridionale), secondo quanto previsto dal
Decreto 311 del 2006 e fornire esempi di best practices costruttive. L’attività di ricerca ha
anche compreso la progettazione ed esposizione di modelli al vero riproducenti stratigrafie
di facciate e di coperture opache realizzate dalle aziende (Andil, Assobeton, Anit, Costruttori
CasaClima Südtirol) per tutta la durata del Salone.
Infine, lo studio e analisi di materiali innovativi per il settore delle costruzioni ha portato
ad alcune pubblicazioni di monografie e di articoli su riviste scientifiche10. Nel primo caso,
l’attività di ricerca è sfociata nella pubblicazione del volume Schermature solari. Evoluzione,
progettazione e soluzioni tecniche, che ha raccolto uno studio sull’evoluzione storica di
tali sistemi, vista attraverso il loro rapporto col progetto di architettura, uno stato dell’arte
delle schermature solari in edilizia, con particolare riferimento ai sistemi più innovativi e
integrati, e una rassegna di casi studio di recente realizzazione che illustrano in maniera
particolarmente esaustiva il livello di integrazione con l’edificio11.
10. In particolare: M. Rossetti, V. Tatano, “ Mostrare e dimostrare. L’Innovation Park BRE a Londra.Show and tell. BRE
Innovation Park, London”, in Ponte n. 8/9 2012, pp. 49-57.
11. M. Rossetti, Schermature solari. Evoluzione, progettazione e soluzioni tecniche, Maggioli, Rimini, 2012.
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Nel secondo caso, l’attività di ricerca ha portato alla collaborazione con la rivista “Ponte”,
edita da DEI Tipografia del Genio Civile, per la redazione di tre speciali sul tema “Smart
materials”, materiali per l’edilizia che presentano un comportamento “intelligente” (n.
1, 2013), “Green surfaces”, superfici verdi per il costruito (n. 3, 2013) e “Transparency”,
materiali trasparenti innovativi (n. 4, 2013)12.
Tra i molti sfondi di riferimento dell’innovazione il settore dell’involucro edilizio si pone
come uno degli ambiti privilegiati per la sperimentazione, anche di frontiera, dato il ruolo
che i sistemi di chiusura verticale rivestono nella definizione sia formale che tecnica degli
edifici. Come esemplificazione dell’approccio che viene adottato negli studi che conduciamo
ne proponiamo un breve inquadramento.
12. M. Rossetti, V. Tatano, “Artec per Ponte: Smart materials”, in Ponte n. 1/2013, pp. 45-56, schede dei materiali a cura di
E. Antoniol, V. Covre, D. Petucco.
M. Rossetti, V. Tatano, “ArTec per Ponte: Green Surfaces”, in Ponte n. 3/2013, pp. 37-49, schede dei materiali a cura di E.
Antoniol, V. Covre, D. Petucco.
M. Rossetti, V. Tatano, “Artec per Ponte: Transparency”, in Ponte n. 4/2013, pp. 37-48, schede dei materiali a cura di E.
Antoniol, V. Covre, D. Petucco.
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L’innovazione nell’involucro edilizio - Emilio Antoniol
Secondo uno studio intitolato It’s ALIVE13, pubblicato nel gennaio 2013 da ARUP Foresight,
i cambiamenti demografici, climatici e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni
saranno, in futuro, motivo di una profonda evoluzione dell’attuale concetto di edificio
che sempre più si dovrà presentare come un “organismo vivo” in grado di autogestirsi e
autoregolarsi, diventando energeticamente autosufficiente e interfacciandosi con l’ambiente
esterno al fine soddisfare esigenze sempre più specifiche14. Ed è proprio all’involucro che
si richiede di accogliere molte di queste nuove funzioni, adattandosi a diversi contesti
ambientali o climatici, modificandosi nel corso del giorno e delle stagioni e contribuendo, in
modo sempre più sostanziale, al bilancio energetico dell’edificio. Se sistemi di integrazione
fotovoltaica in facciata sono ormai noti da alcuni decenni è più recente la possibilità di
combinare sistemi di schermatura e di produzione dell’energia, ma ancora più innovativi
sono i sistemi che permetto di controllare e gestire tali soluzioni in modo automatico in
funzione del momento del giorno e della posizione del sole. È il caso, per esempio, della
13. 09. Josef Hargrave, ARUP Foresight and Innovation, Can you imagine the urban building of the future?, Gennaio 2013,
www. driveofchange. com.
14. Questo scritto riprende, ampliandone la trattazione, i temi di un articolo di E. Antoniol dal titolo “L’involucro del futuro.
Come saranno gli edifici nel 2050”, in pubblicato in Nuova Finestra 395, ottobre, 2013.
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Soft House di Kennedy&Violich Architecture realizzata per l’IBA15 di Amburgo nel 2013; l’abitazione è dotata di un sistema di facciata-schermatura denominato “Smart Curtains” costituito da tende esterne semitrasparenti, disposte in fasce verticali, accoppiate ad una guaina
fotovoltaica. Ogni fascia misura 50 cm di larghezza e può ruotare attorno al proprio asse in
modo automatico in funzione della posizione del sole al fine di ottimizzare la schermatura
solare estiva, i guadagni passivi nel periodo invernale e la produzione di energia elettrica.
Tale sistema adattivo, interamente gestito da un software, permette di contenere i consumi
e garantisce un elevato comfort interno esplicitando al massimo il concetto di schermatura
solare dinamica. Nell’ambito della facciate attive si può poi riportare l’esperienza della
BIQ House, un progetto di SPLITTERWERK in collaborazione con Arup e Colt International
realizzato ad Amburgo nel 2013 e dotato di una facciata a doppia pelle, costituita da moduli
in vetro di 250x70 cm. Ciascuno di essi è orientabile in modo automatizzato per ottimizzare
la schermatura solare o l’afflusso di luce naturale all’interno degli ambienti ed è costituito
da vetri stratificati di sicurezza che definiscono un’intercapedine di 18 mm con all’interno 24
litri di una soluzione composta da acqua, CO2, sostanze nutrienti e microalghe unicellulari.
Durante il giorno la soluzione interna, colpita dai raggi solari, si surriscalda e le microalghe
avviano processi di fotosintesi consumando CO2, producendo ossigeno e moltiplicandosi. Al
raggiungimento di una densità stabilita, un sistema di controllo computerizzato gestisce
l’estrazione della miscela di alghe e acqua calda convogliando il fluido ad alcuni scambiatori dove viene recuperata l’energia termica della miscela. Parte delle alghe viene estratta
e inviata ad un impianto di biomassa, dove sono ricavati circa 23-27 kJ di energia per ogni
grammo di sostanza secca. Le restanti alghe vengono reintrodotte nei moduli di facciata
per riprende un nuovo ciclo. L’involucro consente quindi lo sfruttamento sia dell’energia
solare termica per la produzione di acqua calda sia dell’energia della biomassa trasformata
in biogas con una efficienza complessiva finale è pari al 10% per la conversione di luce in
biomassa e del 38% per la conversione termica.
Cambiamenti di densità, o più precisamente di fase, sono il meccanismo con cui funzionano
anche le facciate con integrati materiali PCM (Phase Change Materials)16 in cui l’esposizione
solare provoca un cambiamento nello stato del materiale a cui si associa un accumulo o
una cessione di energia termica. Nei climi freddi, o temperati, ciò consente di sfruttare
la radiazione solare durante il giorno accumulando calore da riemettere all’interno degli
ambienti durante la notte. L’uso di materiali PCM in combinazione al vetro consente inoltre
15. International Building Exhibition 2013
16. Tra questi troviamo paraffine o alcuni sali idrati che a specifiche temperature di fusione passano dallo stato liquido a
quello solido e viceversa.
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di sfruttare la semitrasparenza di questi sistemi per ottenere un’illuminazione diffusa e
ridurre l’abbagliamento solare. L’accoppiamento del vetro con prodotti isolanti trasparenti,
TIM’s (Trasparent Insulation Material), quali l’areogel, policarbonato o polimetilmetacrilato
permette poi di realizzare involucri dalla caratteristiche tecniche avanzate, con valori di trasmittanza che possono raggiungere gli 0.8 W/m2K e trasmissioni luminose variabili dal 45%
al 60% andando a definire un’ampia gamma di soluzioni tecniche integrate per l’isolamento
termico, la diffusione luminosa e la schermatura solare.
La facciata e l’involucro possono infine diventare una barriera contro l’aggressività di
ambienti esterni poco favorevoli come nel caso dell’Unilever di Amburgo dove una “pelle”
di ETFE trasparente protegge gli uffici dal rumore e riduce l’ingresso di sostanze inquinanti
causate dal traffico marittimo del porto su cui l’edificio si affaccia. L’innovazione tecnica
più recente è giunta inoltre a definire soluzioni attive contro l’inquinamento atmosferico con
sistemi di facciata che, in presenza di radiazioni UV e umidità, sono in grado di catalizzare
reazioni fotocatalitiche e di neutralizzare sostanze inquinanti come gli ossidi di azoto NOx o
le particelle volatili sottili VOCs. Tali soluzioni sono già ampiamente impiegate all’interno di
prodotti a base cementizia, quali intonaci o calcestruzzi, ma le recenti innovazioni nel campo
delle nanotecnologie permettono ora la loro applicazione su una ben più ampia gamma di
prodotti e materiali. Nel caso della riqualificazione dell’ospedale Manuel Gea Gonzales di
Città del Messico, completato nel 2013, viene impiegato un sistema di moduli plastici in
ABS su cui è stato steso un strato nano-molecolare di biossido di titanio (TiO2) con azione
fotocatalitica. Lo studio del prodotto ha portato alla definizione di moduli prefabbricati dalla
forma tridimensionale in grado di massimizzare la superficie attiva esposta pur mantenendo
un’elevata leggerezza e versatilità del sistema che presenta, una volta assemblato, con una
superficie libera di quasi il 50%. La doppia pelle funge in questo caso anche da strumento di
controllo solare contribuendo in questo modo al miglioramento delle prestazioni energetiche dell’edificio e a quelle ambientali del sito in cui esso è collocato.
Nel tentativo di rispondere a esigenze sempre più specifiche e complesse l’innovazione
tecnologica nel settore dell’involucro sembra quindi spingersi sempre di più, come dimostrano questi esempi, verso soluzioni integrate e dinamiche in cui materiali e componenti
della facciata siano in grado di adattarsi ai mutamenti del contesto, trasformarsi in base
alle richieste dell’utenza o agire attivamente sull’ambiente contribuendo in tal modo al
miglioramento della qualità dell’abitare.
Le immagini che illustrano il testo si riferiscono a prodotti archiviati presso ArTec.
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Profilo degli Autori
Benno Albrecht
È architetto e professore di Composizione architettonica e urbana all’Università Iuav di Venezia. È referente
dell’unità di ricerca “Città, Sostenibilità e Tecnologia”. Si occupa di progetti e ricerche sul disegno urbano
sostenibile. I suoi progetti sono illustrati in riviste italiane ed internazionali. Tra le sue pubblicazioni: I confini
del paesaggio umano (con L. Benevolo, Laterza, Roma-Bari 1994); La città delle piazze. La sistemazione
complessiva di Roma dal 1676 al 1748 (in Metamorfosi delle città, Scheiwiller, Milano 1995); Le origini
dell’architettura (con L. Benevolo, Laterza, Roma-Bari 2002); Conservare il futuro. Il pensiero della sostenibilità in architettura (il Poligrafo, Padova 2012).
Patrizia Montini Zimolo
È architetto e professore associato di Composizione architettonica e urbana all’Università Iuav di Venezia,
membro del collegio docente del Dottorato in Composizione Architettonica dal 2002. Nell’ambito del disegno
urbano sostenibile, tra le più recenti attività di progetto e ricerca: GAUDI,Netwwork 12- Leading European
Universities on Sustainable Architecture, Biennale Architettura, Venezia, 2007; “ Habiter la Méditerranée”, Biennale de l’Habitat Durable, Grenoble, 2008, “Sensi di viaggio nell’antico regno del Dahomey”, mostra Premio
Architettura città di Oderzo, 2012, workshop Architetti Senza Frontiere Veneto Progetto Hwange, Zimbabwe,
2012. E’ membro del collegio scientifico del I Congreso Internacional de Vivienda Colectiva Sostenibile,
Barcelona, 2012 e ha sviluppato negli ultimi anni esperienze di tirocinio in Benin.
Roberta Albiero
Architetto, dottore di ricerca in Progettazione architettonica e professore associato in Composizione
architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia. È autrice di studi su Adalberto Libera (Unicopli,
Milano 2002), di un volume sull’opera dell’architetto portoghese João Luìs Carrilho da Graça (con R. Simone,
Electa, Milano 2006) e del libro “Abitare il recinto : introversione dell’abitare contemporaneo” (con L. Coccia,
Gangemi, Roma, 2008). Tra i progetti recenti si ricordano il concorso MOdAM (Museo e scuola della Moda) a
Milano, con P. Eisenman e G. Degli Esposti, classificatosi quarto (2006); i concorsi per la riqualificazione del
lungomare di Mondello (2007) e per la riqualificazione urbana paesaggistica e architettonica di Pizzo Sella
(2008), entrambi classificati al secondo posto. Si occupa di progetti e ricerche sul tema dell’architettura
mediterranea sostenibile.
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Valeria Tatano
È architetto e professore associato di Tecnologia dell’architettura all’Università Iuav di Venezia. Si occupa di
sicurezza in uso e al fuoco, di design for all, e di tecnologie innovative nel rapporto tra architettura e tecnica,
in particolare per quanto riguarda i temi del progetto consapevole, svolgendo ricerche inerenti le facciate
vegetali e i tetti giardino. È responsabile scientifico di ArTec, l’Archivio delle tecniche e dei materiali per
l’architettura e il disegno industriale del Sistema Laboratori dello Iuav.
MariaAntonia Barucco
È architetto, dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura, ricercatore all’Università Iuav di Venezia e
membro del collegio docente del dottorato Nuove Tecnologie. Svolge attività di ricerca in merito ai metodi
di valutazione della sostenibilità in edilizia e delle certificazioni di prodotto, applicati sia al livello della
produzione industriale che nei percorsi di audit tra la pubblica amministrazione e gli utenti di social housing.
Si occupa dello studio dei processi di innovazione e di diffusione dell’innovazione nel settore edile, curando in
particolare il rapporto tra università e imprese. Collabora alle ricerche del Laboratorio ArTec.
Massimo Rossetti
Architetto, Dottore di ricerca in Tecnologia dell’architettura, è ricercatore in Tecnologia dell’architettura
presso il Dipartimento Culture del progetto dell’Università Iuav di Venezia. Svolge attività di ricerca nei settori
dell’innovazione tecnologica e della sostenibilità. Dal 2005 svolge attività didattica presso l’Università Iuav di
Venezia e ha partecipato a programmi di ricerca PRIN, PON, POR e FSE. È membro del Laboratorio Iuav ArTec,
Archivio delle Tecniche e dei Materiali per l’Architettura e il Disegno Industriale e di SITdA, Società Italiana
della Tecnologia dell’Architettura. È autore di circa centoventi pubblicazioni tra articoli, saggi e monografie
sui temi della tecnologia dell’architettura.
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Finito di stampare nel mese di febbraio del 2014
dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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