3.2.3.
3.2.3
APPENDICE 3
SULLA FIGURA ARTISTICA E UMANA DI ZANDONAI
416
Ales-Ten, Un maestro trentino: Riccardo Zandonai, «Noi e il mondo» VIII/6, 1.6.1918 – pp. 393-8
[l’articolo è corredato delle seguenti illustrazioni:
-p. 393: tre caricature e un piccolo ritratto fotografico di Zandonai con a lato la seguente didascalia:
«In questo interessantissimo articolo l’autore, trattando di questo fervido maestro della moderna
scuola musicale italiana, ne delinea la figura d’uomo e d’artista con sapienza e con gusto veramente
squisito. Le tre caricature di Riccardo Zandonai che si trovano riprodotte nella testata, sopra il
ritratto del maestro stesso, sono dovute ai pittori Bettinelli, Musacchio e Girus». A fondo pagina,
altra fotografia («Panorama di Sacco (Trentino) paese nativo di Riccardo Zandonai»);
-p. 394: una pagina manoscritta e autografata de La Via della finestra («Stornello»);
-p. 395: «due ritratti del maestro in quel paesaggio di campagna che egli tanto ama, e da cui ha
tratto tanta ispirazione d’arte»;
-p. 396: un altro paesaggio («Alta Val d’Adige: dintorni di Sacco») e, in basso, la riproduzione di
una lettera a Zandonai di Gabriele d’Annunzio (2.11.1912);
-p. 397: bozzetto della scena del I atto di Francesca da Rimini;
-p. 398: altro bozzetto della medesima opera (Atto III)].
È deplorevole l’ingratitudine di Riccardo Zandonai, suddito poco remissivo di S. M.
l’Imperatore d’Austria, verso i suoi padroni. Fra l’altro, proprio un chionzo tedesco metodicamente
e quotidianamente ubbriaco, ex-trombone di una banda militare ed impiegato nella manifattura dei
tabacchi di Sacco – patria del giovane maestro – doveva avviarlo allo studio della musica. Il
metodo del corpulento ex-trombone era di una esemplare semplicità balorda: ricopiava, l’extrombone, dalle riduzioni per banda delle ariette di opere italiane e le insegnava, sul violino, a colpi
di arco sulle dita del ragazzo. Didattica persuasiva che il piccolo alunno tentava di addolcire con la
più mansueta rassegnazione. Inutilmente: l’ex-trombone continuava, iroso, a menar giù colpetti
improvvisi sulle nocche del discepolo. Esperimentata vana l’arrendevolezza, il ragazzo pensò di
rendere più mite il precettore col favorirne il vizio.
Bisognava dargli da bere.
E così, ad ogni lezione, insieme allo strumento ed allo scartafaccio, portò una bottiglia di vino.
L’espediente – me lo garantisce il giovane maestro – ebbe un certo successo. E Riccardo Zandonai
– che raramente sorride – s’allieta a questo ricordo della sua prima e travagliata giovinezza,
pensando che proprio dal bandista teutonico venne a lui il primo impulso alla musica. A dieci anni
di età, dopo aver pazientemente ruminata tutta la povera scienza dell’ex-trombone, Riccardo
Zandonai venne accolto dal maestro Gianferrari, direttore della scuola musicale di Rovereto, che in
brevissimo tempo rifece e riordinò l’educazione del fanciullo. Queste prime nozioni di musica del
Gianferrari – cara immagine paterna nei ricordi dello Zandonai – bastarono perché un eccezionale
temperamento di artista si rivelasse con il tumulto della forza più viva e la promessa più certa. I
suoi primi saggi – danze, cori, romanze che venivano eseguite e cantate nelle feste del ridente paese
nativo in riva all’Adige dai compagni e dai compaesani – confermarono la vocazione del ragazzo.
Di queste sue prime composizioni, notevoli per nitidezza d’inspirazione e finezza di gusto, il
giovane maestro trentino è altero come è orgoglioso – non so se per una certa vanità scapigliata – di
non aver mai seguito un corso regolare di armonia, egli che è riconosciuto uno fra i più esperti
armonizzatori odierni.
Giovanissimo, adunque, decise il suo destino: si diede esclusivamente alla musica,
abbandonando la scuola di grammatica ove, forse, urgenze implacabili di vita avrebbero soffocata o
dispersa la fiamma dell’arte. Così Riccardo Zandonai s’elesse una condizione normale di miseria,
di privazioni e di studio tenace.
3.2.3/1
Rimasto benevola intenzione il mecenatismo, troppo spirituale, di un signore del suo paese che
avrebbe desiderato che il ragazzo frequentasse l’accademia di Vienna, la famiglia, poverissima,
facendo sacrifizi non lievi, mandò il piccolo Riccardo a Pesaro.
A Pesaro – la bonaria, ridanciana, grassa cittadina adriatica – Pietro Mascagni era direttore del
Liceo Rossini e trasfondeva nei giovani il calore della sua impetuosità imperiosa e vivificatrice.
Pesaro – anni indimenticabili! – e il suo Liceo divennero un centro di civiltà artistica di reputazione
mondiale, il seminario di vive forze squassate dal vento ribelle e rinnovatore di Mascagni. La
conservatrice, sedentaria probità provinciale, così arrendevole al segreto gusto di una angusta e
misteriosa ufficialità, così rispettosa del peso di una dignità accademica, fu sorpresa e disorientata –
onesta, adorabile provincia! – e certo inorridì di questo rivoluzionario del funzionarismo che fra i
buoni pesaresi aveva portata tanta scapigliatura e l’esibizione allegra del più multiforme e
versicolore guardaroba personale. Chi rifarà la cronaca di questo periodo – forse il più agitato –
della vita di Mascagni, potrà ben dare tutta la misura del suo temperamento filibustiere ed
autoritario costretto a filare sulle rotaie burocratiche. Era una lotta a corpo a corpo con gli
accademici, necessariamente passatisti, con i professori talpe, con gli amministratori tirchi.
Mascagni trovava sfogo e riposo a queste lotte urlando i più terrificanti paradossi, scagliando i suoi
motti mordaci. In questa atmosfera alacre e fiammea si formò Riccardo Zandonai e Pietro Mascagni
intuì subito nel piccolo e gracile giovanetto, scesogli dai monti della nostra passione, un
predestinato a superare prove ardue e che, in lui, sì, c’era della materia vergine e focosa.
Ricco di sogni e di miseria, anima milionaria senza un soldo in tasca, Zandonai si sottopose allo
studio con una tenacia ed una resistenza che sbalordiva i compagni ed i maestri e soverchiava la sua
personcina magra e patita. Lotta quasi impari: si trattava per Zandonai di realizzare felicemente in
tre anni il corso novennale del Liceo, poiché le ristrettezze finanziarie della sua famiglia non
avrebbero potuto sopportare un maggiore aggravio. E il giovanetto vinse. In tre anni esaurì l’intero
corso del Liceo e si licenziò, a pieni voti, presentando per saggio di composizione «Il ritorno di
Odisseo», di Giovanni Pascoli, poema sinfonico per soli, cori ed orchestra, che rivelò un esperto
strumentatore ed un colorista ricco ed impetuoso.
Le vicende pesaresi di studentello umiliato in continue ristrettezze, pur addolcite dalle cure
affettuose dell’umile famiglia che l’ospitava, in ispecie della padrona di casa, delicata anima di
artista, furono delle più tribolate del maestro trentino. E verso questi suoi veri mecenati – che
l’ammirazione e la fiducia accompagnavano, per quanto loro fosse possibile, di valido aiuto, il
maestro serba una figliale tenerezza e tutt’ora – arrivato e celebre – ne consola la vecchiezza
vivendo, fra loro, in Pesaro: «fra i suoi nonni» come egli ama chiamarli.
***
Vennero poi gli anni dello sconforto, i grigi giorni degli scoramenti, della ricerca tormentosa,
torbidi delle inquietudini primaverili. Un breve melodramma, tratto dal Taucher dello Schiller1 e
presentato al Concorso Sonzogno del 1902 non ebbe fortuna. Ma l’amore di Giovanni Pascoli gli fu
di conforto e d’incitamento. Pascoli adorava il geniale interprete del suo poema – Il ritorno di
Ulisse – e di alcune delle sue più profonde Myricæ, e gli inviava spesso quelle sue curiose letterine
a caratteri chiari e minuti piene d’intuito, ricche d’idee e vive di adorabili sprezzature. In alcune
accenna a certi suoi propositi ed intenzioni così originali per il teatro che farebbero la fortuna di un
librettista e di un maestro, e propone allo Zandonai una grande tragedia: Paolo e Francesca. Ma
varie difficoltà sopravvenute non permisero al Pascoli di attuare la sua idea.
Finalmente Zandonai, nel 1904, compare per la prima volta nel vasto mercato musicale di
Milano. Qui bisognava affermarsi, valorizzarsi in qualche modo. La navigazione in quel mare
agitato di diffidenze, di rancori, d’invidie, di pettegolezzi, non fu delle più facili. Ma Arrigo Boito
prese a cuore la sorte del piccolo maestro trentino e derogando una volta tanto dall’accordo
stipulato e rigidamente mantenuto – molti musicisti sanno qualche cosa in proposito – con Giulio
Ricordi di togliersi a vicenda la noia delle presentazioni e raccomandazioni di artisti, gli aprì le
porte temute e sospirate della grande Casa. E Giulio Ricordi, acutissimo, perdonò generosamente
l’infedeltà dell’amico illustre. Un anno dopo, nel novembre del 1908, il «Grillo del focolare»,
1
La coppa del re
3.2.3/2
accettato dal Ricordi, venne eseguito a Torino per l’inaugurazione del teatro Chiarella e la prima
foglia di lauro compensò la fatica del venticinquenne maestro. Al ricamo rado e trasparente di
leggero umorismo che interpreta la sorridente novella del Dickens, profumata della tranquilla
poesia domestica, seguì poco dopo con «Conchita», tratta dalla «Femme et le pantin» di Pierre
Louys [sic], l’audacia cromatica e la passionalità perversa, la spasimante nervosità di una musica
raffinata, modernissima. Contemporaneamente a «Conchita», lo Zandonai compose «Melenis»,
opera di densa drammaticità ed a forti rilievi, in cui il coro signoreggia, come nella tragedia greca,
il dramma inquadrato nella magnifica, superba decadenza di Roma imperiale.
Queste tre opere, che recano i segni di una vigorosa attività creatrice, sedussero il pubblico dei
vari teatri d’Italia e dell’Estero e fecero vibrare, intorno al piccolo maestro, l’irruenza, animatrice
per gli artisti, di appassionate discussioni. La molle, multicolore atmosfera di sogno in cui vaga la
sua musica e le spezzature ed i sacrifizî a cui costringe il declamato melodico, da lui eletto come
base del melodramma nello sfondo di un violento cromatismo orchestrale, non sono certo gli
espedienti, le prepotenze più sicure per soggiogare la folla. Eppure il maestro m’assicurava – non
vorrei credere ad una sua garbata declinazione di autore acclamato verso la piccionaia sublime ed...
idiota – che l’esperienza che l’ha convinto che l’opinione, il giudizio della folla è di un intuito così
schietto e profondo e le sue affermazioni, ricostruzioni, così sicure e solide, da legittimare una
convinta, quasi arrogante noncuranza verso la critica dotta ed officiale. È la rivalsa degli autori
contro i critici. L’idea di Giovanni Pascoli di scrivere per lo Zandonai una tragedia, Paolo e
Francesca, che non fu effettuata per ragioni indipendenti dalla volontà del poeta e del giovane
maestro, venne raccolta, con entusiasmo fraterno e con fede non fallace, da Gabriele d’Annunzio
che gli affidò il suo poema d’amore e di sangue.
Fra Zandonai e d’Annunzio, epistolografo quanto mai parsimonioso, corse allora una frequente
corrispondenza. L’ansia dell’esule – trovavasi nel romitaggio di Arcachon – di conoscere la nuova
veste della sua eroina trema spesso in queste lettere con accenti commossi. E quando il poeta poté,
in casa Ricordi, udire finalmente la musica, ne rimase preso ed abbagliato2. E veramente con
«Francesca» la personalità di Riccardo Zandonai si è affermata. Il successo fu pieno, concorde.
L’attività artistica di Zandonai, prima della «Francesca», non si univa in una linea ideale; era
scomposta in varietà di attitudini per quanto efficaci e caratteristiche. Con questa opera i più
genuini caratteri del suo temperamento si esemplificano e si intensificano raggiungendo assolutezza
architettonica.
Ora ha già finita una nuova commedia – La via della finestra – su libretto che l’Adami ha tratto
dallo Scribe. Ritorna così, il maestro, ai suoi primi passi, affascinato da quel genere di
composizione – come il Grillo del focolare – che scarso di risorse e di effetti, contenuto e tenue,
mette a prova le fibre più robuste e provate.
S. M. la Piccionaia – in cui il maestro giura – giudicherà.
***
Se interpellassi la sua domestica potrei informarvi sul colore delle calze, delle pantofole, del
pigiama che il maestro porta, delle sue simpatie gastronomiche e, magari, delle sue gastriche
ripugnanze. È obbligo di un diligente, se non compiuto, cronista non dimenticare certi dettagli
curiosi dell’uomo celebre in pantofole e veste da camera. Il prestigio di un uomo illustre presso il
mondo è costituito per una buona parte da certe singolarità ed abitudini quotidiane; la folla non
accolta [?] in genere, nella sua innata superbia, il dominio delle celebrità che riducendole ai rapporti
più modesti e più vicini ad essa.
Di lui però posso dirvi che molto lavora, molto studia in questa calma solitudine provinciale.
Pochissimi amici – bravi professionisti amanti di musica e taluno anche candidamente
incompetente – che s’ingentiliscono nell’intimità spirituale con il giovane maestro. Intimità che ha
bagliori di entusiasmo, sollevazioni cordiali e, a volte, si chiude in un certo orgoglio pensoso, un
po’ l’amarezza di chi ha molto sofferto e lottato ed è consapevole della propria forza.
Accanto al maestro la gentilezza della moglie – una giovane e colta artista, una delle interpreti
più intelligenti delle sue opere – la signora Tarquini-Zandonai, veglia affettuosa sull’operosità
2
Questa ricostruzione di Ales-Ten è stata poi ampiamente modificata; cfr. ad es. gli accurati studi in proposito di Emilio
Mariano.
3.2.3/3
instancabile del maestro e partecipa con vigore di animo e dolcezza consolatrice alle lotte ed alle
ostilità, inevitabili, contro un giovane che suscita tanto interesse con la sua arte di sinfonista potente
e di melodista ispirato.
Né la certezza di un avvenire sicuro ha elevato il tono della sua vita raccolta e modesta; né
s’esilia, viziato dai fumi e gli incensi feratici di una reputazione già vasta, in quella specie di
recondito limbo ove l’umana vanità attende l’ufficiale assunzione ai cieli della gloria. Resiste nel
suo spirito e si riflette nelle sue abitudini un frantumarsi in luccicori artificiali, o coagularsi in
dissolventi acidità incisive, o trastullarsi in spumeggiamenti subitanei e frizzanti. Conservatore
nutrito e sobrio, non ama amabili divagazioni: c’è sempre nei suoi discorsi un accento di meditata
convinzione e di severità alacre ed attiva e – benché non caustico – i sassi che getta di quando in
quando nel verziere altrui colpiscono sempre giusto.
Cacciatore appassionato e camminatore instancabile quale s’addice ad un montanaro, da Pesaro
risale coi suoi cani l’alta e rupestre Carpegna ove fra quei pastori e massari si è fatta una rinomanza
venatoria di tiratore di prim’ordine.
La guerra – per lui irredento – è la passione, l’ansia torturante che non gli dà requie. L’Austria,
naturalmente, si è vendicata di lui, che invece di attendere la coscrizione, l’internamento o qualche
scherzo d’un rigido perpendicolarismo tutto proprio del paterno governo imperiale, si è fatto
cittadino della sua grande patria: l’Italia.
Si è vendicata confiscandogli la casa di Sacco, ricca di libri, di oggetti d’arte, di care memorie e
condannandolo al capestro.
Tutto ciò è giusto e perfettamente austriaco.
417
Alessandro Benedetti, Profili - Riccardo Zandonai, «L’Italia che scrive» II/8-9-10, agosto-ottobre
1919 – p. 101
Cammina per la propria strada aperta ed assolata, con passo sicuro e cuor tranquillo, senza
sostare e compiacersi del cammino già fatto, senza avviature sollecite, cortesie beneauguranti: la
buona ventura è lui stesso.
Sa di giungere, e come, più lontano, con fiera e libera semplicità.
Non ha bisogno, egli artista di autentica vocazione, spirito focoso ma fortificato in discipline
severissime e che poggia sopra una pura e squadrata certezza morale, di permute o concessioni, né
lo seducono le mistificazioni che facilmente impaniano il pubblico.
Resiste, per altro, in questo trentacinquenne montagnolo trentino, una energia ritorta, una
nodosità verzicante di capitozza che s’abbarbica profonda e le sue foglie hanno un tessuto più
fibroso ed un più denso colore di quelle delle piante tirate su con potature avvedute e molte
stabbiature. Si nutre della sua terra questo giovane che è, fra i nostri musicisti, italianissimo.
Quattro opere principali: Il Grillo del Focolare, Conchita, Melenis, Francesca da Rimini, che
suscitarono in Italia ed all’Estero fervore di lodi ed appassionate discussioni, costituiscono la prima
fase dell’attività creatrice di Zandonai. Le recentissime riprese della Francesca a Verona ed a
Bologna furono definitiva conferma della vitalità piena di quest’opera e del primo caloroso
successo quale attende Conchita e Francesca – non c’è da temere – quando prossimamente
affronteranno il gran pubblico dell’Opera a Parigi. Scaltrito nelle tecniche moderne e
d’avanguardia, le equilibra nel suo spirito con un largo senso di classica purificazione. Ma
l’esperienza tecnica è in lui semplicemente accidentale, accessoria; mezzo non fine, forma
spontanea per esprimersi. Poiché egli – è qui la sua originalità – ha delle idee.
Possiede il fiuto sicuro del teatro, il segreto delle affascinanti ambientazioni.
La sua progressione cromatica – sua perché questo metodo se lo è rilavorato e sviluppato
intimamente, non adoperandolo come una estrinseca applicazione, meteriale d’accatto – non è che
il diretto risultato della progressione della parte cantata. Zandonai, senza atassici vagabondaggi e
senza violentare il suo istinto, trova i suoi accordi costantemente sulla guida del canto. Perspicua
caratteristica, inoltre, di Riccardo Zandonai è l’aderente valorizzazione della parola, la duttilità
3.2.3/4
stupenda che si piega alle espressioni più varie, liquide e dense: ondulazione vibrante, arabesco
funzionale e costruttivo, drammatico. Lirica pura, se Dio vuole.
Tentando l’assaggio e la scomposizione dell’estetica di Zandonai, ciò che s’avverte, lucido e
fermo, è che il sistema, dal quale mai deroga, della progressione cromatica è attuato per sola,
l’unica attiva e positiva, forza appassionata, fantastica. Egli reagisce direttamente ai suoi materiali.
Importa accennare che questo procedimento cromatico, Zandonai usa con la stessa coerenza e
fedeltà nel dramma, come pure balza fervido nelle sue opere il lirismo delle parti vocali che vivono
di una lor vita essenziale, marcate dal carattere nettamente italiano del suo temperamento.
I brani costruiti quasi come arie, che si possono incontrare, risultano come vivide unità musicali,
perché esprimono una concreta e profonda emotività. Siamo fuori, decisamente, da incalorite
premiture tecniche, o, peggio, da trufferie di mestiere. I professori, noteremo per incidenza e per lor
consolazione, potranno rintracciare nella recente ristampa del trattato orchestrale del Berlioz, curato
dal maestro Panizza per la Casa Ricordi, alcune innovazioni tecniche di Zandonai. Benissimo, ma
quel che vale è la sua ricchezza ed originalità di idee, il vigor coloristico, il commosso sentimento
della natura, l’incisività psicologica delle creature evocate, la versicolore allontanante atmosfera di
sogno che ammorbidisce le crudezze dei contrasti, le tenere, nostalgiche velature.
Ardito – gli ostacoli lo affascinano; a lui piace collaudarsi, e piegare le sue energie alle attitudini
più diverse. La prima opera – non tenendo conto delle moltissime composizioni giovanili – Il Grillo
del focolare è una commedia musicale.
E vinse la prova durissima.
Dalla Femmina ed il bamboccio di Pierre Louys [sic], racconto scarsissimo di risorse teatrali,
crea Conchita, arsa d’erotismo crudele sullo sfondo delle più abbaglianti e torride luminosità
mediterranee.
Fu un successo, che non ha bisogno di calzanti aggettivazioni.
Dal romanticismo tenue, domestico, tutto trine e trasparenze vaporanti del Grillo del focolare,
alla lussuriosa e scattante passionalità di Conchita, giustifica ancora la varietà e la fecondità
eccezionali di questo maestro l’orizzontalismo di Melenis, dramma a rilievi netti, ad arcature
larghe, solenni in cui il coro signoreggia. Così giungiamo a Francesca, alla tragica umanità dei due
cognati, al più felice sforzo di creazione artistica: un vertice nella odierna produzione musicale
europea.
Fin dal 1916 – e fu rappresentata nella passata estate – ha compiuta un’altra commedia musicale:
La via della finestra.
Ritorna così, Zandonai, al punto di partenza, iniziando il secondo periodo della sua impetuosa
attività creatrice che non ha abbandoni e riposi.
E si è taciuto, riferendoci solo alle opere, della produzione marginale del maestro, alle sue
esperienze culturali che si estendono dalla pittura alla letteratura.
Alunno, a Pesaro, del Liceo Rossini sotto Pietro Mascagni, compiva il corso novennale in soli
tre anni. La miseria, ferocissima ma fortificante, non gli consentiva studi più riposati. Trentacinque
anni: breve vita, già bene spesa, totalmente dominata dall’arte; mirabile esempio non solo
intellettuale ma etico.
Gentile anima rude. Un uomo dalle scarpe grosse, con un cervello stracarico di idee, che, anche
per un musicista, non sono mai troppo abbondanti.
418
Zandonai fra Giulietta e Romeo - Alla vigilia di una «prima» al Costanzi, «L’Idea nazionale»,
12.2.1922 – p. 5, col. 1-2-3-4
Andiamo.
Voglio dire: andiamo al Costanzi dove si prepara «Giulietta e Romeo» che va in iscena il 14
sera.
Eccoci qua.
3.2.3/5
Si prova il primo atto. Sul palcoscenico sono montati gli scenari fatti da Stroppa. Gilda Dalla
Rizza – Giulietta –, il tenore Fleta – Romeo – e il baritono Maugeri – Tebaldo – cantano.
L’orchestra suona. Dei macchinisti mettono chiodi. Il maestro Riccardo Zandonai dirige tutti.
Zandonai alle prove
Mascagni, quando prova, inforca gli occhiali e tiene delle brevi conferenze ai professori
d’orchestra, agli artisti, ai cori. Ogni tanto posa la bacchetta, fa sospendere suoni e canti, e
incomincia:
-Sul declinare del secolo scorso...
Oppure:
-C’era una volta un Re potentissimo...
E finisce per dirne una all’orchestra o ai cantanti.
Mengelberg, alle prove, si leva la giacca e illustra la musica che dirige con esempi pratici, alla
portata di tutti:
-Queste terzine di biscrome sono tanti cavallini al galoppo... Attenzione alle semibrevi: è un
signore che sopraggiunge a lenti passi...
Toscanini va in escandescenze e qualche volta non prende cappello.
Riccardo Zandonai, piccolo piccolo sul podio, dirige anche lui, alle prove, nervosamente. Ma
parla poco, non s’impazientisce mai, tratta i professori d’orchestra e i cantanti con cortesia e
deferenza. Di quando in quando una breve osservazione, un suggerimento, una correzione, fatta con
molto tatto.
È sempre «prego» e «grazie». Gli artisti gli sono grati di questo trattamento e glielo dimostrano
con entusiasmo.
Difatti, mentre entro, Zandonai mormora sfogliando a ritroso l’enorme spartito che sta sul
leggìo:
-Di nuovo, dal n. 36.
Ed ecco che l’orchestra, obbediente e pronta, risuona il pezzo già eseguito e i cantanti lo cantano
da capo.
Ciò mi dimostra subito due cose: che Zandonai sa farsi obbedire senza gridare e che il pezzo n.
36 ancora non va alla perfezione.
Il canto e le gambe - Effetti e sorprese
Si prova il duetto d’amore del primo atto. Giulietta canta dal suo balcone, Romeo dalla strada.
Un amico che assiste alla prova ed ha assistito anche ad altre prove precedenti osserva come, in
questo pezzo, Gilda Dalla Rizza interpreti la musica di Zandonai, oltre che con la sua bella voce,
con tutto il corpo e specialmente con le gambe, alle quali fa prendere, nei vari momenti drammatici
e lirici del duetto, successive e diverse posizioni che sono sempre rispettivamente le stesse in tutte
le prove già fatte. In altri termini, ai vari momenti e sentimenti del duetto d’amore corrispondono
varii e costanti atteggiamenti delle gambe di Gilda Dalla Rizza.
Ecco una nuova virtù della squisita artista. Non è chi non veda, di fatti, quale partito ella potrà
trarre da questa sua facoltà, se vorrà sorvegliarla, educarla e svilupparla. Chi sa che, col tempo, ella
non arrivi, perfezionando il sistema, a far gustare la musica anche ai sordi.
Il fatto che a queste prove gli artisti vestono i loro abiti borghesi genera varii effetti. Per
esempio, l’effetto singolare della «scolta» che percorre di notte le vie di Verona: arrivano tre
signori in cappotto, cravatta e lobbia, suonando il tamburo, preceduti da un quarto signore in ghette
e bombetta che canta un pauroso bando:
Chi il sangue cittadino spargerà
avrà la morte...
È senza dubbio un effetto, questo della bombetta in testa al banditore medioevale. Un effetto che
il pubblico che interverrà alle rappresentazioni non potrà godere. Come pure è un effetto vedere
3.2.3/6
Romeo – che la fantasia e il teatro ci hanno sempre presentato come il prestante innamorato
cavaliere in farsetto – vederlo, dico, in pelliccia, col sigaro in bocca.
Sempre s’hanno di questi effetti alle prove del teatro in costume. E qualche volta s’hanno effetti
anche più singolari. Mentre, per esempio, Giulietta e Romeo fanno il loro duetto, vedo nel fondo
della scena due uomini ascoltare cautamente e attentamente le loro frasi d’amore. Saranno, penso,
due Capuleti in agguato. E mi preparo ad assistere alla sorpresa degli amanti, con conseguente
eccidio. Al contrario, finito il duetto, vedo con stupore i due uomini avvicinarsi agli amanti e
complimentarli. Che?... Montecchi e Capuleti avrebbero fatto pace? Ma no. Salito sul palcoscenico,
m’accorgo che i due presunti famigli in agguato non sono che il comm. Carlo Clausetti, direttore
generale di Casa Ricordi ed editore dell’opera, e il comm. Nicola D’Atri, grande amico di
Zandonai, che l’opera gli ha dedicato.
Ecco. Per non far nascere equivoci, dato che gli artisti alle prove vestono in borghese, non
sarebbe un’idea di vestire in costume quelli che assistono?
Pausa
Finita la prova, Zandonai abbandona il podio e s’inoltra nella platea dove è preso d’assalto dal
piccolo pubblico formato da critici, amici, parenti, musicisti, editori ed impresari. Saluti,
complimenti, scambi d’impressioni. Zandonai è sudato e la sua signora, che assiste a tutte le prove,
accorre a fargli indossare il cappotto e a toglierlo dalle correnti d’aria. Il maestro deve mettere
qualche firma a qualche spartito della «Giulietta», una di quelle magnifiche edizioni Ricordi che
rivaleggiano con le migliori edizioni musicali estere. Si parla della andata in scena e degli ultimi
preparativi. Zandonai contemporaneamente concede un’intervista, dà un ordine a una maschera, un
consiglio al direttore di scena, una preghiera alla protagonista, un appuntamento a un amico, una
stretta di mano a un ammiratore, un’occhiata all’opera dei macchinisti; detta un telegramma,
accende un sigaro, fuma una sigaretta, risponde a quattro diverse domande, sorride a un
complimento; pare impossibile che possa fare tante cose insieme, piccolo com’è.
Si parla del prossimo arrivo di Rossato, il librettista, che assisterà al varo.
-Chi sa, osserva un amico con un sospiro, come se l’è presa per l’infortunio di Pinocchio
innamorato!3
-No, assicura un altro, sono in due gli autori. Quando s’è in due, la colpa è sempre dell’altro.
-Allora, arrischia un terzo, se Giulietta e Romeo dovesse andare male, la colpa sarebbe per caso
di Shakespeare?...
Ma, a parte ogni altra considerazione, il libretto della nuova opera di Zandonai non ha nulla a
che vedere con la tragedia shakespeariana.
È l’ora di andare a colazione. Musicista, editore, interpreti e amici si traducono in massa alla
vicina trattoria del Giglio4.
Alla trattoria del Giglio - Ritorno al melodramma
È una specie di continuazione e completamento delle quinte del Costanzi. Essa ha assistito
impassibile al nascere e al tramontare di parecchie rivelazioni. Ha visto molte fortune e sfortune. E
ne ha sentiti, smorzati un po’ dall’interposta via Torino, di applausi e di fischi!
In questa trattoria, che conosce l’appetito di tutti gli autori delle novità italiane date al Costanzi,
si riuniscono, nelle ore in cui non si prova dei giorni di prova, il maestro Zandonai, la sua signora,
l’editore Clausetti, il direttore della sede romana di Casa Ricordi, Giacompol, Nicola D’Atri e gli
inseparabili amici di Zandonai, dottor Pizzini e maestro Michetti, del quale pure si darà quest’anno
al «Costanzi» una novità, La Grazia.
Eccoli qua, tutti a tavola. È l’unico luogo dove posso sperare, in questi giorni di gran lavoro,
d’intervistar Zandonai. Ma Zandonai, alle prese con la pasta asciutta, è un po’ imbarazzato:
-Un’intervista? Ma che posso dire in un’intervista?
Evidentemente in certi casi l’imbarazzo è anche dell’intervistatore: che s’ha da domandare a un
musicista alla vigilia della andata in iscena d’una sua nuova opera? Quanto v’ha messo
3
4
Commedia che Rossato aveva fatto rappresentare a Torino il 2 febbraio 1922, ottenendo un clamoroso fiasco.
Il «Ristorante del Giglio» esiste tuttora, al n. 137 di Via Torino.
3.2.3/7
d’ispirazione e quanto di dottrina? Quanto di sincerità e quanto di programmatico? Ma sono
domande da farsi? Allora, gli si domanderà come e in quanto tempo ha condotto il lavoro. Ahimè,
non c’è da aspettarsi delle rivelazioni su questo terreno!
-Ho scritto l’opera in tredici o quattordici mesi.
La notizia può forse interessare, ma non commuovere fortemente. Allora? Allora, in questi casi,
s’usa domandare che cosa ha inteso fare il musicista col suo nuovo lavoro. Ma che può rispondere il
musicista? Evidentemente che ha inteso fare un nuovo lavoro.
-Programmi?
-Nessuno. Solo un ritorno al nostro melodramma, un ritorno alle fonti, nel quale ho desiderato di
portare una sensibilità che, essendo più moderna, è oggi più nostra. Il nuovo lavoro è più semplice e
limpido delle mie precedenti opere, le quali sono molto più complicate e torturate. Ma questo
avvenne perché dieci anni fa noi italiani eravamo considerati quasi degli ignoranti in fatto di
musica. Ed io ho voluto fare una specie di schieramento di forze, per dimostrare che musica
difficile sapevamo farne anche noi. Ma oggi le cose sono cambiate e non occorre fare nessuna
dimostrazione in questo senso. Anzi, di fronte a certi fatti come quello che si fa chiamare
futurismo...
Contro il futurismo - Casella e Strauss - Zandonai e il pubblico
Questa parola, lasciata andare tranquillamente da Zandonai fra una forchettata e l’altra, suscita
un pandemonio fra i convitati. Tutti gridano contro il futurismo musicale.
-I futuristi – grida Nicola D’Atri agitando minacciosamente un affilato coltello – dicono che non
vogliono regole. Non è una regola questa?
-La miglior musica, dice il maestro Michetti, è quella che viene dal cuore!
E Zandonai:
-Il vecchio Rossini diceva: Com’è difficile scrivere facile!
Fra i più accesi è Clausetti che ricorda d’aver esortato una volta il maestro Casella (non quello di
Dante) ad accettare qualcuna delle vecchie regole musicali, almeno come eccezione. Invano.
E Clausetti aggiunge:
-Quando Strauss dirigeva le prove della sua Salomè, ai presenti che allibivano per il susseguirsi e
l’aggrovigliarsi delle scale diatoniche, dichiarava, rassicurandoli col gesto: Attendez: c’est du jardin
zoologique! E quando, alle ultime dieci battute dell’opera, gli astanti si rasserenarono udendo degli
accordi all’antica, anche Strauss si rasserenò e disse: C’est le bonheur de l’opéra!
A proposito di musica facile e musica difficile, Zandonai ricorda come il limpido e lungo finale
del primo atto di Francesca gli sia arrivato tutto in mezz’ora, tanto che, dubitoso della sua efficacia
e vitalità, egli – che aveva in animo di fare un finale wagneriano – fu tentato di distruggerlo. Ma
non lo fece dopo che un suo amico – l’unica persona che a Sacco, il suo paese natìo dove si trovava,
potesse dargli un consiglio – avendolo udito, lo scongiurò di lasciarlo5.
-Perché, conclude Zandonai, ci vuole del coraggio a scrivere facile! Io non faccio come quelli
che dicono di scrivere per il pubblico che verrà fra cinquant’anni. Modestamente, scrivo per il
pubblico d’oggi, un po’ andando io verso di lui e un po’ lasciando che lui venga verso di me.
Gli attacchi contro il futurismo musicale si fanno sempre più vivaci e generali, finché,
sopraggiungendo il cameriere coi quarti di pollo e gli arrosti di vitello, tutti finiscono col trovare
che, in fondo, i movimenti estremisti, nell’arte come in ogni campo, pur non potendosi accettare,
sono salutari perché servono di spinta e di motore verso quell’equilibrio che si finisce poi col
trovare sempre.
Messisi d’accordo su questo punto, i convitati, con gioia della signora Zandonai premurosa della
salute del marito, intensificano l’opera di distruzione delle vivande.
Accordi, ricordi e Ricordi
5
L’episodio è stato più volte raccontato da vari testimoni. Per notizie più precise cfr C. Leonardi, Epistolario, Rovereto, Longo,
1983, P. 181, n. 74.
3.2.3/8
Così la conversazione prende un tono più moderato, che diviene, con un rapido crescendo,
allegretto. Un altro punto su cui tutti sono d’accordo col maestro Zandonai è nel tesser l’elogio dei
professori d’orchestra del Costanzi, dei maestri sostituti Santini, Ricci e Arduini, del maestro dei
cori Consoli e del suggeritore, anche del suggeritore, poverino, che sta sempre nella sua buca e
nessuno nomina mai; del valoroso suggeritore Passari, reduce (se non fosse un suggeritore si
direbbe: dai trionfi) della Scala.
Il pasto volge al termine, e la conversazione diviene più ilare. Qualcuno racconta che l’altra sera
dopo la prova, terminata dopo la mezzanotte, il maestro Zandonai rientrò al suo albergo
accompagnato da una larga e rumorosa brigata d’amici e di artisti che affollarono la sua camera e si
dettero un gran da fare per bollire acqua, preparare il tè, le tazze, i piattini, i pasticcini. Senonché,
sul più bello, dalla camera vicina giunse una voce cupa e cavernosa:
-Ma la finiscano di lavare i piatti!...
Era un tale a cui la lieta brigata aveva rotto l’alto sonno nella testa.
Zandonai si compiace di ricordare come il suo amico Pizzini – uno dei convitati – a una delle
prime rappresentazioni di Conchita, che scatenò un putiferio, avesse affrontato un critico dicendogli
in pubblico:
-Lei non dica tanto male del maestro Zandonai, altrimenti si dirà che non l’hanno pagato!
Il dott. Pizzini non aveva detto «si dirà che l’hanno pagato», tuttavia il critico chiese spiegazioni
e ne seguì una vertenza cavalleresca.
Fra questi e altri conversari si fanno le 16: l’ora della prova di scena.
A questo punto il comm. Clausetti, che anche a tavola fa il direttore generale di Casa Ricordi,
s’alza e batte tre colpi con le mani. Immediatamente tutti si alzano e dai tavoli circostanti, dove
pareva stesse mangiando un pubblico di estranei, vediamo spuntare, come per miracolo, qua Gilda
Dalla Rizza, là il tenore Fleta, più giù il baritono Maugeri e quasi tutti i personaggi della nuova
opera di Zandonai: quegli inconciliabili Montecchi e Capuleti che, all’ora del pranzo, dimentichi
dei vecchi rancori, si riuniscono tutti in fraterna agape.
419
Ugo Milelli, Riccardo Zandonai lavora - Da «La via della finestra» a «Gösta Berling», «La
Tribuna», 24.2.1923 – p. 3, col. 2-3-4
TRIESTE, febbraio
La trama della «Via della finestra» nella finzione scenica di Giuseppe Adami musicata da
Riccardo Zandonai è arcinota.
[...] Riccardo Zandonai, in uno di quei brevi ritagli di tempo che gli concedono le sue dure
fatiche e di compositore e di maestro concertatore, mi confessa candidamente che soltanto una
scena del gaio vaudeville di Scribe lo ammaliò al punto da indurlo a musicare quel soggetto che
oggi corre per i palcoscenici d’Italia suscitando ovunque entusiasmi se non eccessivi schietti e
adeguati alla mole dell’opera.
Il punto che sedusse il musicista fu proprio la scalata alla finestra. E ce ne erano motivi
sufficienti per Riccardo Zandonai: la notte nel parco, nell’ombra, il verone a petto d’oca fiorito,
lontano l’odore caldo del fieno da poco falciato; e poi l’entrata in scena della scala, la pesante scala
che le manine bianche e delicate di Gabriella reggono a stento, la salita fra un ondeggiare di pizzi e
di merletti, e il canto finale d’amore della coppia riconciliata sotto la carezza bianca della luna
nascente. Fin troppo, per un musicista le cui caratteristiche principali vanno ricercate in un possente
amore per le cose buone, grandi o piccole, ma buone e colme di una dolcezza profonda.
La première di Trieste de «La via della finestra» ha avuto importanza di première nazionale in
quanto l’opera è giunta nella città redenta notevolmente mutata dalla soppressione di un intero atto,
il secondo. La ragione del sacrificio è da attribuirsi alla opportunità sentita dall’autore di non diluire
trascurabili episodi di dettaglio che avrebbero menomato il valore di tutta l’opera, già di per se
stessa di una fralezza estrema. La trama del lavoro, del resto, non risentendone alcun danno,
persuade appieno della efficacia dell’operazione compiuta.
3.2.3/9
Riccardo Zandonai è così totalmente soddisfatto: «La Via della finestra» rimane, e con essa la
scala, il parco nell’ombra e, lontano, l’odore caldo del fieno falciato...
Ma non basta.
La «Via della finestra» segna nella progressione di lavoro del Maestro trentino i limiti di un’oasi
breve, indispensabile sebbene tenue compenso allo spirito del musicista travagliato dalla fatica
immane compiuta fino ad oggi. Al lottatore più gagliardo occorre nella lunga tenzone l’attimo non
dell’abbandono che distrugge, ma del respiro che alimenta i polmoni e tempra i muscoli per i
cimenti maggiori. E a questo si accinge oggi Riccardo Zandonai poiché la tregua è scaduta.
Nel «Gösta Berling» di Selma Lagerlow [sic] il Maestro ha scovato qualche cosa da cui si
ripromette di trarre una grandiosa opera lirica.
Nel romanzo della maggiore scrittrice contemporanea svedese è contenuta infatti tanta materia
prima da dar vita a parecchi libretti di potentissima quadratura. Ma la scelta è seria e richiede
scrupolosità di intenzioni e di lavoro sia da parte del poeta che del musicista, i quali dovranno
lottare contro non indifferenti ostacoli, il primo per raccogliere tutte le preziose bellezze che a piene
mani sono state profuse nel romanzo della Lagerlow, il secondo per adattare al suo temperamento
artistico motivi se pur poderosamente lirici, lontani certo da ogni carattere fondamentale dell’arte
italiana.
[...] Arturo Rossato troverà senza dubbio la tela di quello che potrebbe essere, come libretto,
opera a sé, un vero gioiello artistico. Tutto il resto della parte centrale del romanzo è dedicato poi
alla narrazione di fatti minori e non indispensabili agli scopi diretti del poeta – se analizzati con
intendimenti teatrali – ma ad ogni modo d’impareggiabile scorta per ciò che sarà la massima fatica
del musicista in materia di folklore.
[...] Riccardo Zandonai si appresta a rinchiudersi nella pace dei suoi monti di Sacco per meditare
la sua nuova opera. Da un anno di solitudine nacquero «Conchita», la «Francesca» e «Giulietta», da
un anno di feconda solitudine balzerà «Gösta Berling».
Non importa se le creature del Vermlasd [sic] sono tanto lontane dalle anime nostre; non importa
se il gelo impera lassù, presso le rive del Leuven; il cimesti [?] è qui: vivificare dello spirito latino
quelle fiamme che a noi appariscono incerte nel velo delle nebbie nordiche, trapiantare nel duro
macigno del fiordo un tralcio di gelsomino italico e chiuderne tutto il profumo nell’essenza di una
bella opera d’arte che da Riccardo Zandonai attendiamo con fede.
420
Mario Matteucci, Riccardo Zandonai pesarese, «Il Giornale d’Italia», 15.1.1925 – p. 4 (con una
fotografia di Zandonai)
Pesaro, gennaio.
Zandonai abita a Pesaro una piccola casa, dall’aspetto esteriore più che semplice: un piano,
quattro finestrelle uguali colle persiane verdi, una casa insomma da... zona terremotata qual è
Pesaro. Ma se l’esterno è banale e incolore, in compenso l’appartamento abitato dal Maestro ha
tutto il carattere e l’impronta del suo Signore, che è un buongustaio in materia di estetica e di
eleganza. C’è dappertutto quel simpatico miscuglio di mobili in noce scura, dalla pura linea
trecentesca, e damaschi e tappeti, e sulle pareti, a iosa, quadri, stampe, xilografie e poi musica, libri,
fiori... Insomma ci si vede la mano dell’artista che, nel duro lavoro della composizione ha bisogno
di circondarsi di un ambiente simpatico, estetico, che non urti contro la sua sensibilità artistica.
Zandonai mi riceve nel suo salotto, tra il piano, ormai sacro alla storia, e i suoi cani, compagnia
che il Maestro predilige e che lo occupa sovente negli scorci di “ozio” pesarese.
Questo nostro giovane e già grande Maestro ha un carattere vibrante, pieno di energia e di
geniale varietà. Zandonai è uno dei tipi più spiccatamente caratteristici di quel genio poliedrico ed
enciclopedico che è proprio della nostra razza. Non sta chiuso nell’ambito del suo tema musicale,
ma con entusiasmo e con calore discute e si interessa di pittura, di letteratura, di politica (questa poi
con un ottimismo sereno e imparziale) e dà a chi l’ascolta l’impressione di una natura
eccezionalmente viva, esuberante...
3.2.3/10
Questa esuberanza di Zandonai è un difetto di gioventù! E ben lo sa Pesaro che ne ha conosciuti
i primi anni di studi. C’è in molti qui nelle Marche la persuasione che Zandonai sia Pesarese,
perché ormai la sua carriera artistica e la sua opera musicale è così legata a questa cittadina
marchigiana che difficilmente si risale alle sue origini tridentine.
«C’è una specie di fato nella mia vita che mi tiene avvinto a questa città che ha conosciuto i miei
anni migliori. E non mi posso sottrarre a questo “fato”. Vi basti sapere che dopo la guerra,
affermatasi la mia opera musicale, un complesso di circostanze mi avrebbero consigliato a lasciare
Pesaro per stabilirmi in un grande centro. Ma non vi riuscii. Il fascino di questa cittadina fu più
forte delle ragioni d’opportunità. E rimasi...
«La mia vita è divenuta un po’ vagabonda, per necessità di cose; le mie “Giuliette” e le mie
“Francesche” mi obbligano di tanto in tanto a fare delle scappate fuori: il Trentino mia patria mi
ospita in estate, ma la base, il focolare è sempre Pesaro, dove ho studiato, da dove mi son lanciato...
«Come mai sono venuto a cadere dalle Alpi sulle rive dell’Adriatico? È la fama del liceo
Pesarese che mi ha attratto; già amavo assai e coltivavo la musica. Trovai a Pesaro due bravi
vecchi, miei conterranei, i coniugi Kalschmied [sic], che abitavano questa casa che ancora mi
ospita.
«Poveretti! Ne hanno viste delle belle nei primi anni!»
Questo commento ironico di Zandonai mi ricorda quello che mi hanno raccontato dei suoi primi
anni di Liceo. Era un vero ragazzaccio indiavolato. Quella esuberanza di vita, che poi ha contribuito
a ispirare e creare la sua musica potente, ricca di succo, talora quasi spasmodica, allora si rivelava
nella irrequietezza più “pericolosa”... Non poteva star fermo un minuto e le vittime della sua
irrequietezza erano: il pianoforte e i vicini!
Il buon vecchio Kalschmied è ora tornato in Trentino, sua patria, e nella sua casetta pesarese non
c’è rimasto che il “ragazzaccio” divenuto grande Maestro nel pieno fulgore della sua fama artistica.
***
«La mia musica – dice Zandonai – è stata giudicata in mille modi. I critici ne hanno dette di tutti
i colori e di tutti i toni. Il giudizio lo ha dato il pubblico: Giulietta e Francesca sono ormai divenute
popolari. Quest’anno ce ne saranno una ventina in Italia...
«La Via della finestra per il momento dorme. Anche qui bisogna far conto sulla ispirazione degli
impresari. Ci sono delle opere che per qualche anno vivono nell’ombra, poi viene il momento in cui
un impresario si accorge che l’opera è abbastanza “commerciale” e si persuade a lanciarla; ed ecco
che non finisce più di girare i teatri.
«I cavalieri di Ekkebù [sic] sono ultimati e andranno in scena nel prossimo febbraio alla Scala,
diretti da Toscanini. Poi li avrete a Roma.
«La trama dell’opera, tratta da una novella norvegese [!] della Lagerlöw [sic] è un soggetto
fantastico, ricco di caratteri più o meno ben definiti, e talvolta evanescenti. Nel musicarla ho dovuto
dar vita e forma a questi personaggi, drappeggiandoli in una veste musicale. È musica fluida,
semplice, e mi son studiato di rendere il soggetto più accessibile al nostro temperamento musicale,
trasportandolo dalle brume del Nord nella nostra calda terra. Per il momento non scrivo altro; mi
riposo, o meglio aspiro al riposo, perché un artista difficilmente può riposare quando è stato colto
da quella sacra febbre che è la creazione... E per il riposo, chiamiamolo così, non c’è miglior angolo
di mondo che questa cittadina quieta, abitata da gente laboriosa e buona, profondamente buona
nell’anima.
«E poi c’è un po’ di spirito artistico in tutti, in questa regione; gli artisti, piccoli e grandi, vi
pullulano. Voi trovate, in alcuni piccoli centri, dei pittori forti, degli incisori pieni di carattere, degli
uomini di grande valore che lavorano nell’ombra, con quella modestia un po’ ritrosa che
caratterizza i marchigiani e che contrasta così vivamente colla intraprendenza dei meridionali. E
sovente questi uomini di valore fioriscono e si avvizziscono, dimenticati nei loro paesi oscuri, dove
non c’è altra gloria che quella del sole e della lussureggiante vegetazione. È un grande popolo
semplice a cui mi sento intimamente legato».
Zandonai mi ha espresso così le sue impressioni musicali e ambientali: non mi resta che
congedarmi da lui e prendere la... via della finestra, per tornarmene nel “centro” della metropoli
pesarese...
3.2.3/11
421
ABI’, Alla vigilia dei «Cavalieri di Ekebù». Con Riccardo Zandonai, «Corriere d’Italia», 28.3.1925
– p. 3, col. 5-6 (con foto di Zandonai)
Sia in lui fierezza, celata nelle forme più eleganti e divaganti del riserbo e dell’elusione, o
piuttosto pudore per le intime appassionate responsabilità che impegnano l’artista, Zandonai non
indulge ad inchieste, è premunito verso le indiscrezioni. In fatto di musica, ed in ispecie della sua
musica, è opaco e distratto, come se fosse faccenda, in apparenza, che non lo riguardi. Al più vi
rimanda, se vi garba, alle creature che egli ha creato e che vivono sulle scene e con gli anni
appaiono rinvigorite e più belle. Sembrerebbe, pertanto, una posa scontrosa, ma è invece semplicità
di uno che sa di compiere – né se ne insuperbisce – un austero dovere: scriver musica. Quella
gelosa divisa, insinuante il sospetto maligno che in fondo ad essa ci sia della civetteria o peggio,
potrebbe anche rispondere ad una convinzione: che l’artista cioè, in quanto artista, debba essere e
rimanere un solitario, lontano dai propri simili, e come uomo vivere la vita comune. Convinzione
non proclamata ma vissuta da Zandonai durante una operosità dura e senza soste per vent’anni:
dalla prima prova col Grillo del focolare ai recenti Cavalieri di Ekebù. Chi gli è amico può
testimoniare con quanta cordialità si apra il cuore del maestro, cordialità robusta di certe asprezze
montanine, sia pure chiusa nella nera e bianca bardatura officiale di una prima.
Nato nel Trentino, è rimasto fermamente fedele alla montagna. E se s’appoggia, per molti mesi
all’anno, a Pesaro è anche perché dietro i colli coronanti la città adriatica s’incarna, vasta e rupestre,
la Carpegna. lassù c’è caccia: lepre, starna, beccaccia e, lungo i greti limacciosi del Foglia, l’anatra.
Piace al maestro la braccata, solinga e faticosa, ricca di imprevisto, al seguito dei suoi cani dei quali
racconta miracoli. A credergli sono quelle le ore sue più leggere e riposanti e, talvolta, da esse
ripullulano, inavvertite, immagini di poesia. Lo Zandonai più intimo e aperto lo troviamo in questo
suo diporto all’aria aperta meglio che nel suo studiolo pesarese, piccolo come una cabina, da far
posto appena alla massa d’ebano lucente del pianoforte. L’unica finestra, quasi sbarrata da una
scrivania, si apre su pochi palmi di giardino, fra aprile e settembre sontuoso dei rasi e dei velluti di
svariati rosai. Niente della torre eburnea, del laboratorio dell’esteta, a cui una moda di decadenza ci
aveva abituati: la scarsezza, ordinata e necessaria, degli arredi del mestiere e basta. Qui è nata
Francesca, è nata Giulietta, son nati i Cavalieri di Ekebù.
Fatterelli e curiosità, se ce ne fossero, gioverebbero a colorire la figura di Zandonai, a proporci
con vivacità icastica qualche sua abitudine ed aspetti del suo carattere, che è il modo amabile dei
contemporanei, magari con qualche goccia di fiele e di gelosia, di rappresentare gli uomini illustri o
singolari dell’epoca. Notificare il colore preferito da lui per i vestiti, le gradazioni di luce diurna e
notturna favorevoli all’ispirazione, le qualità delle bevande stimolanti, la forma e morbidezza della
poltrona in cui si trincera per gli ozî sognanti, quelle inezie o manie, vere o supposte, che
definiscono ciascun uomo geniale che si rispetti, sarebbe vano e bugiardo. Decadono le favole, gaie
e tristi, anche intorno ai poeti e nel certificato anagrafico, sommario e preciso, è ridotta la loro
biografia.
Poco più che quarantenne, è nato a Sacco di Rovereto nel 1882 [!], da umile famiglia la quale,
per quanto si sappia, non fu mai prima illustrata da talenti musicali. La rinomanza ha per lui
anticipato il termine risolutivo in cui ella si concede o repugna ai suoi candidati.
Il largo consenso di pubblico e di critica che ha accompagnato l’ascesa del giovane maestro fu
rapido, ma non di facile conquista. Ma Zandonai crede nella critica o nella folla, nell’élite o nel
lubbione? Escluse, ben inteso, preoccupazioni insospettabili in un artista così severo e squisito, è
incontestabile che le gioie maggiori gli son venute dal pubblico il quale, si sa, non esiste se non in
quanto è espresso dalla suggestione, dal dominio dell’opera d’arte. Della giovinezza stentata e tutta
spesa nell’intelligente sgobbo, nutrita dagl’insegnamenti del suo primo maestro, il Gianferrari – tre
anni gli bastarono per compiere il corso novennale al liceo Rossini in Pesaro – non parla anche se
richiesto; la considera un’ingrata, indispensabile prova da non ricavarci, per vanità, il farsetto liso e
romantico del giovane povero ad edificazione dei negligenti.
3.2.3/12
Anni memorabili ed indimenticabili, quelli, quando Mascagni – Mascagnone, come è
affettuosamente chiamato – irritava e sconvolgeva, con la foga torrenziale del suo spirito, la proba
quietezza provinciale, nel secolo scettico e positivista, umbertino. Ma di Pesaro Mascagni aveva
pur fatto un centro musicale che richiamava scolari da ogni parte d’Italia e del mondo. In quella
fertile scuola crebbero Zandonai, Pratella, Forzano, che ha poi preso altre vie, tutta una schiera di
valenti professionisti, di compositori nobilissimi, di teorici profondi ed acuti.
Pure senza avere i caratteri del fenomeno, Zandonai, fin da quegli abbreviati e studiosi anni di
conservatorio, rivelò la sua vena viva e ricca tanto che, a volte, fu in sospetto all’invidia dei
condiscepoli e al diffidente sussiego professorale. Licenziatosi a pieni voti dal Liceo pesarese,
sovraccarico di sogni e di stretta miseria ma senza aria di sfida donchisciottesca, lui così magrolino
e schivo eppure con un coraggio morale ed intellettuale pari alla necessità, va a Milano a coltivare
in quel suolo insidioso il suo ramoscello di lauro. Ma anche questo periodo tribolato della vita del
giovane maestro non ha rilievi di avvenimenti strani o memorabili.
Poche e buone parole del Boito gli aprono la venerata e temuta Casa Ricordi.
Una fortuna sì, ma non una offerta, una fortuna che va conquistata.
Il Grillo del focolare, Melenis e poi Conchita, che Puccini aveva desiderata e poi rifiutata,
giustificano presso i signori della grande Casa la presenza dell’ospite riguardoso e sopratutto
lavoratore instancabile. Poi Francesca e La via della finestra e Giulietta ed ora i Cavalieri, senza
tener conto delle molte raccolte di liriche e sinfonie e componimenti vari.
Con coscienza serena, adunque, Zandonai può riguardare la strada percorsa.
La scelta del canovaccio del soggetto è la pena del maestro, ma trovatolo aderente al proprio
temperamento e resolo, per fantasia e meditazione, caldo e vivo come il suo sangue, non rimane a
Zandonai che ripetere sulla tastiera, tradurre nella scrittura leggera e limpida, quasi definitiva come
una copia. Questa sicurezza di lavoro garantisce per altro il librettista da esigenze alle quali dai
compositori è sovente sottoposto il loro collaboratore dal multiforme supplizio delle mutilazioni,
delle aggiunte, dei rifacimenti. Arturo Rossato, che ha partecipato ai recenti successi del maestro
con Giulietta ed i Cavalieri di Ekebù, attesta che Zandonai è anche per questo l’ideale dei
compositori.
Zandonai in fatto di librettisti ha avuto fiuto. Per certe affinità liriche, paesistiche e sentimentali,
subì la seduzione delle Myricæ e ne musicò parecchie. Giovanni Pascoli allora propose entusiasta al
giovanissimo maestro orditi melodrammatici che però non andarono oltre le molte promesse e le
ripetute assicurazioni. Diversamente andarono le cose per Francesca da Rimini, la nostra
Francesca, come spesso ricorre nelle lettere che D’Annunzio inviava dall’eremo di Arcachon a
Zandonai che con lena si era accinto a musicare il poema.
Ma a D’Annunzio non è stato finora consentito di assistere ad una rappresentazione dell’opera.
Verso la fine del 1919, mentre il poeta teneva Fiume, se ne dava, a Trieste, un’esecuzione
magnifica. E pur allora il poeta doveva, in una lettera piena di crucci e di ardore, significare al
maestro il rammarico di non poter venire al Teatro se non con una autoblindata, che è un veicolo
incomodo e forse pericoloso.
Poiché Zandonai non si arrende alle interviste, le crede troppo superbiose per definire la propria
personalità davanti al pubblico, è superfluo chiedergli quale delle sue opere preferisce. Tuttavia se
il debole della paternità va per ragioni di tempo ai neonati Cavalieri, le sue preferenze più riposate
di creatore, per quel tanto che è dato travedere, debbono essere per Conchita, l’impetuosa e perfida
sigaraia sivigliana.
Fra le non minori consolazioni che i Cavalieri hanno procurato a Zandonai, anche se non lo
confessa, vi devono essere di certo il sorriso benigno di Toscanini e quei colpetti – un modo come
un altro di approvazione – che il magico interprete gli assestava con tanto garbo affettuoso sulle
spalle quando insieme, lui piccolo e nodoso, l’altro di sottile e vantaggiosa statura, si affacciavano,
evocati, al proscenio della Scala.
422
3.2.3/13
Raffaello De Rensis, Il “curriculum” di Riccardo Zandonai, «La nuova Italia musicale» IV/11,
novembre 1931 – pp. 9-12
C’è bisogno, oggi, di parlare dell’arte di
Zandonai? Non dovrebbe essercene, invece
sarà opportuno ricordarla a qualche
smemorato di quelli che guidano le
organizzazioni teatrali.
La spiccata natura di compositore teatrale s’è rivelata in Zandonai, decisa e distinta, fin dalla
prima opera.
Non aveva che ventisei anni, ma egli s’era addestrato in alcuni poemi per soli, cori e orchestra
ispirati alla dolce musa di Giovanni Pascoli, aveva effuso il suo istintivo calore melodico in liriche
appassionate, aveva affrontato i problemi del gioco scenico in fiabe e leggende.
Tutto per sé, e tutto è rimasto inedito; anche un suo Inno per gli studenti del Trentino, nel quale
freme l’amore impetuoso per la patria, giace nel geloso cassetto.
Solo questa segreta ed ardente preparazione spirituale e formale spiega la salda e quasi precoce
maturità di Zandonai nella sua prima opera. Spiega un’altra cosa: la esatta conoscenza del momento
storico del melodramma italiano e la maniera di intervenire per assicurargli continuità e sviluppo.
La primavera melodrammatica, che sorse intorno alla gloriosa vecchiezza di Giuseppe Verdi,
costituita dalla allora giovine scuola: Catalani, Mascagni, Puccini, Franchetti, Cilea, era nel pieno
rigoglio e splendore. Costoro mantennero e mantengono all’opera italiana il tradizionale posto
d’onore nelle competizioni internazionali; ma costoro, per ragioni di educazione artistica e per l’età,
non riuscirono ad adattarsi al nuovo clima musicale prodotto dalle continue innovazioni e rivolte,
che venivano irruenti dall’oriente e dall’occidente. Costoro, compreso Puccini, il più garbato e
pronto assimilatore, non potevano mutar sistema, e concepire e tentare un tipo di opera più aderente
alla sensibilità moderna.
Questo compito, gravido di responsabilità, toccava ai giovani, ed i giovani erano, venti anni
addietro, Alfano, Montemezzi, Pizzetti, Respighi, Zandonai e qualche altro, i quali, ciascuno
secondo gli studi compiuti e gli ambienti frequentati, si sono accinti alla risoluzione del complesso
ed intricato problema dell’opera.
Montemezzi si dimostrò troppo ligio all’incantesimo wagneriano, e per questa sua posizione,
diremo tardigrada, è rimasto fuori dalla corrente innovatrice.
Alfano e Respighi, fortissimi strumentatori a cui nessun lenocinio tecnico è ignoto, non sempre
ebbero la precisa visione dell’equilibrio e della essenzialità degli elementi costruttivi del dramma.
Essi, d’altra parte, specie Respighi che oggi è un magnifico campione, hanno dedicata molta della
loro attività alla composizione sinfonica e da camera, per cui il loro contributo al teatro è ancora in
azione.
Pizzetti, salvo a vedere i risultati definitivi, ha preso subito netta e personale posizione con una
concezione del dramma in senso unitario e inscindibile, che è attuata in Debora e in Fra Gherardo
più che in Fedra.
Zandonai, nutrito di studii profondi fatti nel silenzio e nella solitudine, ansioso di appropriarsi di
tutti i nuovi portati della tecnica armonica e strumentale, naturalmente sospinto verso il teatro, si
deve esser posto subito questo quesito: – l’opera italiana reclama una maggiore adesione tra nota e
parola, la melodia non può essere abolita ma deve trasformarsi per soddisfare e placare la nuova
sensibilità; la funzione dell’orchestra, senza ricorrere pedissequamente ai sistemi di Wagner e di
Debussy, va nobilitata ed adoperata come elemento psicologico e descrittivo di prim’ordine. Inoltre
– deve aver pensato Zandonai esordiente – c’è urgenza di uscire dagli ambienti veristici e borghesi,
dai drammi truculenti ed affliggenti: prodighiamo al pubblico un po’ di sorriso, di ironia, di
benessere.
**
Ed ecco che nasce Il Grillo del focolare, tratto dalla deliziosa novella del Dikens [sic], ove si
alternano e fondono, con garbo signorile, sentimenti poetici e dolorosi, brillanti ed umoristici. Il
3.2.3/14
richiamo del grillo che canta sotto l’ampio camino – simbolo della quiete domestica e nesso ideale
tra i diversi personaggi e le parti dell’azione – aggiunge alla commedia il fascino delicato della
favola. Quanto alla musica, il giovane autore s’impose immediatamente per la sicurezza nel
maneggio dell’orchestra e delle voci, per una varietà ritmica profusa in tutte le scene, per un diffuso
colorito, insolito e raffinato.
Una riserva si fece e fu questa: che il genere di commedia musicale non era il più indicato per
attrarre le grandi masse di pubblico. Per questa stessa ragione, però, va lodato l’autore, che ha
scelto una via meno battuta, evitando i facili effetti e riconnettendosi, sia pure alla larga, a quel
meraviglioso modello del Falstaff, allora non da tutti compreso ed apprezzato.
Questo avvicinamento è molto lusinghiero ed anche promettente, ma il giovane autore, venendo
per la prima volta in relazione diretta col pubblico, s’accorge che la sensibilità collettiva è lenta e
torpida e chiede aspre situazioni drammatiche ed energiche emozioni.
Cambia metro con la facilità e la prontezza dei grandi operisti italiani, dal duplice volto, che
sanno ridere e far ridere, sanno piangere e far piangere. S’imbatte nell’ardente e lussuriosa creatura
di Pierre Louys [sic], Conchita, viaggia per la Spagna a cercar modi e canti nei gorghi più popolari,
ed intesse una partitura abbagliante di torride luminosità mediterranee.
A quei tempi, nel 1911, lo stile di Conchita cozza un po’ col gusto corrente. Le inconsuete
sonorità disorientano le platee ma, in compenso, suscitano interesse e simpatia nelle zone più
evolute, che approvano questa ondata viva e robusta di benintesa modernità nel vecchio tronco del
melodramma. In Conchita l’architettura non è sovvertita, la vocalità e il polifonismo conservano
schietta impronta italiana. Zandonai, in ogni modo, offre agli increduli un’altra prova sfolgorante
del suo talento teatrale.
Non passa un anno che il maestro trentino – lavoratore portentoso ed anima esuberante – fa
nuovamente parlare di sé.
Melenis, di argomento ellenico, è un altro contributo alla elevazione spirituale e formale del
dramma in musica. La linea melodica, tutta particolare, vibra di una passionalità squisita e
penetrante, i cori signoreggiano necessari ed efficaci, la originalità della partitura imprime a tutta
l’opera il suggello della bellezza e della grandezza, anche se non compiutamente raggiunte.
L’ora di Zandonai è ormai prossima a scoccare: lo sanno i competenti, lo avvertono le folle.
Ed ecco che trascorrono poco più di altri dodici mesi e l’ora scocca solenne e risonante con la
Francesca da Rimini, che gode il privilegio delle autentiche ed austere opere d’arte; nel senso che
suscita ammirazione, interesse ed emozione tanto nella massa del pubblico, quanto nelle difficili
schiere intellettuali e degli esteti.
La nobiltà del concetto di stile e di ambiente, ricondotta sul teatro da Gabriele D’Annunzio, non
solo è stata perfettamente intesa da Zandonai, ma vivificata ed illuminata di novelli splendori per
mezzo di smaglianti e sottili ricami sonori. Concepita nello spirito della musica la Francesca
dannunziana, dalla musica di Zandonai è stata suggestivamente inondata. Il poeta-musico e il
musicista-poeta, nel nome di Dante e come in un prodigio, hanno creato un poema di parole, di atti
e di suoni non agevolmente rinnovabile.
Gli altri maestri che han collaborato con la musa dannunziana, Franchetti, Mascagni, Pizzetti,
Montemezzi, si sono elevati, indubbiamente, nella misura del proprio talento, ad altezze insigni; ma
nessuno come Zandonai è riuscito a fondere la bellezza poetica raffinatissima con una eguale
espressione musicale. Il finale del primo atto – non v’ha una sola persona che possa contestarlo – è
una delle pagine più fascinanti e soavi del repertorio teatrale moderno. I temi che ingemmano
questo episodio, avvolti come in un velo iridescente di armonie dolcissime, indican[d]o lo sbocciare
irresistibile dell’amore fatale, serpeggeranno per tutto il dramma dapprima come presentimento,
poi, a volte a volte, come sviluppo e forza di quella passione che condurrà gli amanti ad una morte.
Con la Francesca, che il tempo non sfiorisce ma avvicina sempre più all’anima popolare, la
personalità di Zandonai assume caratteri definitivi, che non scompariranno col mutare delle fonti
ispiratrici che costituiscono la sua forza e i titoli riconoscibili e intangibili della sua nobiltà artistica.
**
Arrivato a questo punto della rapida ascensione, Zandonai, per quanto calmo e sereno nel suo
cammino, per quanto alpino rude e tenace, fa una sosta. Guarda in giù e si compiace della distanza
3.2.3/15
percorsa sul livello comune, guarda in su e si accorge che c’è un’altra vetta, più alta, da
conquistare.
-Bene, dice fra sé, c’è ancora da salire; se fossi giunto al culmine non avrei null’altro da fare.
Tra i suoi monti, nel 1915, getta sul pentagramma le impressioni sinfoniche per orchestra,
Primavera in Val di Sole; nell’anno seguente addestra il gioco delle voci in una austera Messa da
requiem eseguita in commemorazione di Re Umberto al Pantheon, compone un Inno alla patria, un
Inno per i giovani esploratori; nel 1917 Patria lontana per orchestra, in cui si canta
nostalgicamente la vita sentimentale delle campagne trentine e l’anelito della redenzione.
La immensa tragedia, che infuriava sull’Europa e sull’Italia, teneva teso e preoccupato lo spirito
di Zandonai, tutt’altro che disposto a creare fantasmi d’arte.
Ma, quando la vittoria ridonò ai popoli la pace ed all’Italia le sue terre, il Maestro tornò sulla
breccia con un genere di opera atto a sollevare ed a letificare gli animi.
Tornò, idealmente, quasi al suo primo punto di partenza, quando il Grillo del focolare gli aprì gli
orizzonti dell’arte in una visione di brio, di gentilezza e di ironia. Vi tornò per prendere il secondo
slancio alla conquista della vetta più alta.
La Via della Finestra è un tentativo verso un nuovo atteggiamento dell’opera comica, è, in ogni
modo, un altro aspetto del talento poliedrico di Zandonai, che si diverte a piegare i meccanismi del
suo stile alla blanda pateticità, al fine umorismo, alla generosa caricatura. Senonché la tenuità del
libretto, derivato dal noto vaudeville di Scribe, ha nociuto al risultato scenico del lavoro, troppo
diluito in tre atti.
L’autore, però, lo ha ripreso tra le mani apportando fondamentali modificazioni e condensandolo
in due atti. Ed in verità, sarebbe spiacevole ed anche ingiusto la rinunzia o l’oblio, quando
nell’opera son profusi, qua e là, gioielli d’incomparabile valore. Il terzetto delle donne nel primo
atto, l’incantevole finale del secondo e, dalla ripresa del preludietto in poi, tutto il terzo, son pagine
che fanno ripensare alla fresca naturalezza cimarosiana.
Infine, questa operina, composta per riposare e godere, a ben riguardarla, è quasi un lavacro, da
cui l’arte di Zandonai, almeno dal punto di vista esteriore, ne esce più spontanea, più lieve, più
limpida e comunicabile.
Appunto in questo particolare atteggiamento stilistico – dopo la parentesi sinfonica del Concerto
romantico per violino ed orchestra, che del resto non lo scuote dalla sua posizione – Zandonai si
riaccosta al grande episodio tragico e ne sceglie uno che, per altezza poetica e per universalità, non
è impari alla Francesca.
Il celebre amore di Giulietta e Romeo, raccontato primieramente dal Da Porto e dal Bandello, dei
quali poi si serve Shakespeare per sollevarlo alle sublimità della sua poesia; questo celebre amore
che ferisce il cuore di Bellini, Berlioz, Gounod, invade con la sua bella fiamma l’entusiasmo di
Riccardo Zandonai.
La Francesca, per il suo carattere classicheggiante, per le passioni torbide, tortuose, incestuose,
sospinse ad una indagine psicologica che condusse necessariamente ad una elaborazione di suoni
assai minuziosa, penetrante, acuta, preziosa. Invece, all’amore di Giulietta e Romeo, fulmineo,
trascinante, irresistibile, pieno d’ingenui abbandoni, quasi schivo di sensualità, essenzialmente
romantico, altamente lirico, sono serviti orizzonti limpidi, frasi larghe e calde, ritmi rapidi e varii,
soavità di poesia, prontezza e facilità di movimenti.
Tutto ciò in gran parte raggiunto, e non tanto o solo per la natura della tragedia, quanto, come
abbiamo visto, per le mutate condizioni creative dell’autore e per le mutate condizioni politiche ed
artistiche dell’ambiente italiano.
Lo stesso Zandonai, non facile a parlare e a teorizzare, fattivo qual è, ebbe ad esprimersi così:
«Giulietta vuol essere un ritorno al nostro melodramma, un ritorno alle fonti, nel quale ho
desiderato di portare una sensibilità che, essendo più moderna, è oggi più nostra. Il nuovo lavoro è
più semplice e limpido dei miei precedenti, i quali sono più complicati e torturati. Ma questo
avvenne perché, dieci anni fa, noi italiani eravamo considerati quasi degl’ignoranti in fatto di
musica. Ed io ho voluto fare una specie di schieramento di forze per dimostrare che musica difficile
sapevamo farne anche noi. Ma oggi le cose son cambiate e non occorre fare nessuna dimostrazione
in questo senso».
3.2.3/16
Questa schietta e ingenua spiegazione ha radici più profonde che non sia l’opportunità o meno di
mostrarsi dotti o semplici; ha radici nell’imperioso desiderio sia dei creatori che dell’anima
collettiva di riprendere il contatto cordiale e fraterno che fatalità di cose e volontà di uomini, per
molti decenni, erano riusciti a d abolire.
Anche in quest’opera la marca di fabbrica è riconoscibile e incisiva: pennellate coloristiche di
sicuro fascino; quadri di effusione lirica, come il primo duetto, in cui l’espressione melodica
combacia con quella sentimentale; un alito di poesia investe persone e cose; la primavera in fiore e
la danza del torchio, squarci originalissimi; il lamento del cantore, lacrimoso e commovente; la
cavalcata, ormai famosa, mentre l’uragano infuria nel cielo nella terra negli animi, ecc.
A quest’opera non ancora pienamente compresa è riservata miglior fortuna e più vasto cammino.
Ma Zandonai non è uomo che si arresta o si scoraggia; sembra che egli, ora, dica al pubblico: –
Giulietta non v’è piaciuta, pazienza, spero vi piacerà in seguito; intanto offro alla vostra brama
un’altra opera.
E siamo ai Cavalieri di Ekebù che, nel 1925, danno motivo a vivaci discussioni, sopratutto per la
scelta dello stranissimo argomento tratto dal romanzo di Selma Lagerlof [sic]. Tipi bizzarri di
cavalieri, una Comandante che fuma la pipa ed adopera lo scudiscio, un personaggio che non è
uomo né diavolo, uno spretato ed una povera ingenua, tutti avvolti tra nebbie, nevi, venti e tristezza.
Una vicenda più antilatina di questa sembrava, allora, che quasi non se ne potesse trovare una
simile. Tuttavia essa porge al musicista, che delle persone e dei luoghi s’immedesima e s’innamora
con pronta versatilità, l’occasione di comporre una partitura eletta, importante e al livello della sua
reputazione. Qui si ammirano le linee vaste e i possenti respiri; momenti caratteristici come la
canzone dei cavalieri (i cavalieri sono sempre argutamente disegnati e presentati) e la loro
stonatissima orchestrina, la canzone nostalgica di Natale, i magnifici episodii corali dell’epilogo...
Anche non poche discussioni provocò, tre anni dopo, nel 1928, specie in rapporto al libretto, il
Giuliano. Contiene in sé, tra l’altro, elementi simbolici e soprannaturali assolutamente ostici alla
tersa mentalità italiana. Giuliano è un’opera che alla immediatezza musicale, in alcuni momenti
irresistibile, non unisce per il pubblico ordinario una eguale immediatezza concettuale. Bisogna
entrare nello spirito, non certo consueto, dell’azione mistico-umana perché si riceva completa e
definitiva l’impressione e perché si possa dare un giudizio globale e preciso.
Pertanto, lo stile di Zandonai prosegue nel processo di alleggerimento, al punto che nel Giuliano
i mezzi di espressione si estrinsecano con la più adamantina purezza e con la più stretta necessità
psicologica. Le scene descrittive, altre volte complicatissime, qui, come nel prologo, s’intravedono
in tessuti sonori d’incomparabile trasparenza. Il sentimento umano di Giuliano, specie
nell’invocazione del primo atto, non crediamo che Zandonai l’abbia sentito ed esaltato con tanta
angoscia e con tanta melodiosità come in questa splendida pagina: prorompe da un cuore che
palpita, da una gola che singhiozza, determinando la netta impostazione della tragedia; poiché
Giuliano è una vera e propria tragedia umana, alla quale gli elementi mistici e soprannaturali,
derivanti dalla leggenda sacra, nulla tolgono di grandezza, bellezza e verosimiglianza.
**
Questa, fissata in sintesi informativa, la cospicua e superba produzione drammatica, intersecata
da non infrequenti irruzioni nel campo sinfonico e da camera, di Riccardo Zandonai, che è nella
balda floridezza della maturità.
Montanaro dai garretti d’acciaio, cacciatore intrepido che non sbaglia la mira, egli può
permettersi il lusso di dire verdianamente: ricominciamo da capo.
Otto opere, pensate e scritte in un ventennio artistico irrequieto, ansioso, assetato, iconoclastico,
contraddittorio come non si è mai verificato in epoche precedenti, non hanno fiaccato la sua fibra;
l’hanno bensì ringagliardita. Le lotte, le contrarietà, il generale disorientamento non sono riusciti ad
arrestare il cammino di Zandonai, che fin dalla prima apparizione nell’agone dell’arte si sentì ben
corazzato di salda coscienza e munito di alcuni segni individuali, destinati ad incidersi e ad
estendersi in tutte le sue opere.
Già lo strumentale immesso da lui nel melodramma nostro fu un nuovo che sorprese e determinò
consensi e dissensi, più questi che quelli. Egli si dimostrò edotto delle più ardite tecniche moderne e
d’avanguardia, non considerandole enigmi, arabeschi, ornamenti o superficialità, ma insegnamenti
3.2.3/17
ed esperienze di cui si poteva e doveva profittare. Nelle sue partiture gli echi della musicalità
novissima si ascoltano qua e là, o anche diffusamente, ma sempre in funzione accessoria e
sussidiaria. Il tematismo wagneriano, il polifonismo straussiano, i modi armonici debussiani non
sono che linee e colori di una tavolozza in continuo progresso scientifico, che Zandonai maneggia
da padrone assoluto ed a cui impone la propria volontà.
Quando qualcuno scopre ora una volata lirica alla Mascagni, ora un procedimento alla Verdi, ora
una sfumatura alla Puccini, subito grida: ecco Zandonai colto in fallo di imitazione e di derivazione.
Nulla di più stolto. Da che mondo è mondo l’ambiente comune influisce reciprocamente sugli
autori anche più indipendenti ed originali: la storia insegna. Oggi poi che la facilità e la rapidità
delle comunicazioni avvicinano tutti i popoli, i rapporti spirituali ed esteriori diventano ancora più
subitanei e frequenti: le interferenze inevitabili.
La verità è ben altra. Zandonai è uno dei pochi musicisti contemporanei che può vantarsi di
possedere idee proprie ed abbondanti, uno stile proprio ed identificabile.
Egli non segue sistemi, non ha predilezioni estetiche, non si lascia per nessuna ragione
imprigionare nel cerchio d’una tendenza. Il suo perenne e naturale contatto lo mantiene con il suo
io, con la sua vita interiore, con la vita degli uomini che amano, soffrono, godono, e non dei
fantocci costruiti dai cervelli in continua ebollizione. Di qui scaturisce quella vibrante e particolare
musicalità che non si esaurisce nel gioco meccanico, ma si rinnova nel cozzo dei sentimenti.
Il senso del quadro, dell’ambientazione, dell’atmosfera storica è un privilegio e posseduto in alto
grado da Zandonai, tanto che tutti universalmente glielo riconoscono.
Al contrario non gli riconoscono speciali facoltà melodiche; ed a torto. La melodia nelle opere di
Zandonai, anche le più giovanili e dottrinarie, fluisce sempre spontanea e ricca, ma è così
caratteristica, così originale, così personale da non trovare facile e diritta la ripercussione
nell’anima delle folle. Essa si differenzia radicalmente dalla melodia degli autori tradizionalisti e
sgorga da intervalli inusitati e da modulazioni singolari intimalente incatenate al canovaccio
armonico e contrappuntistico.
Il procedimento cromatico, la progressione ritmica, che improntano tutta la musica di Zandonai,
non sono ricercati, voluti, studiati, sforzati, ma spontanei e facenti parte indispensabile dei mezzi
d’espressione. La sensibilità dell’artista raffinato, penetrante, indagatore ha saputo crearsi un
linguaggio che le corrisponde esattamente.
Zandonai è artista moderno nell’unica direzione che poteva esserlo un musicista italiano, cioè al
di là di ogni wagnerismo e di ogni debussismo, nella sfera delle esperienze continuative ed
evolutive, senza falsi idoli o ingiustificati ostracismi. Questo eclettismo, che produce una materia
sonora cospicua, completa, conciliante, duttile, lontana dal vecchio ed a debita distanza
dall’arbitrario e pazzesco, applicato ad una superba veemenza drammatica e ad una poeticità di
suprema squisitezza, distingue e impone l’arte di Zandonai.
Egli, oggi, è l’erede più diretto della scuola melodrammatica italiana, egli, respingendo tutti gli
snobismi dei gruppi musicali che, in Italia e fuori, ogni giorno dettano una legge nuova, segue,
tranquillo e vigoroso, l’evoluzione naturale della sua arte, nella forma che ha sentito fin da giovine
e che gli vibra nell’animo come una necessità di vita.
423
Italicus, Le calorose accoglienze di Malta al Maestro Zandonai, «La Tribuna», 25.12.1931
MALTA, dicembre
Non è possibile tradurre in parole l’entusiasmo, addirittura delirante, suscitato qui da Riccardo
Zandonai venuto – per invito del Governo che da qualche anno ha assunto la gestione diretta del
Teatro Reale – a dirigere alcune rappresentazioni della sua «Francesca da Rimini». Per avere
un’idea proporzionale degli onori tributati all’illustre maestro italiano basti sapere che le numerose
società musicali dell’isola, cui aderisce in pieno il popolo, hanno perfino costituito degli appositi
comitati organizzatori. Giornali di ogni colore politico, riviste, numeri speciali, hanno formato –
3.2.3/18
durante il soggiorno dello Zandonai a Malta – un coro unanime e possente nell’esaltazione dell’arte
musicale italiana.
La «Francesca da Rimini» ha riportato uno strepitoso successo che si è ripetuto per ogni
rappresentazione con una spontaneità ed un calore commoventi. Agli applausi frenetici del pubblico
si univano i professori d’orchestra, gli artisti e le masse del palcoscenico. Le chiamate alla ribalta
sono state innumerevoli, ogni sera e dopo ogni atto. L’apparire del m.o Zandonai veniva salutato da
uragani di applausi senza fine.
La serata d’onore si è svolta in un clima di straordinario entusiasmo; erano presenti il
Governatore con molte autorità militari e civili, il Console generale d’Italia comm. Silenzi, le più
spiccate personalità del mondo intellettuale maltese, le rappresentanze di tutte le società musicali
con i loro gonfaloni ed una folla immensa stipata in ogni ordine di posti. Numerosi e pregevoli doni
sono stati offerti allo Zandonai insieme a bellissime ceste di fiori fra le quali risaltava quella del
Fascio italiano. Una serata così densa di vibrazioni – e per l’artista e per l’opera d’arte – che
nessuno mai dimenticherà.
In onore dell’insigne musicista italiano hanno avuto anche luogo molti banchetti, ricevimenti e
feste varie. I membri del Governo, presenti S. E. il Governatore e le più alte autorità navali, hanno
dato un ricevimento improntato alla più schietta cordialità; il Console generale d’Italia ha offerto
una colazione ufficiale ed un banchetto con la colonia italiana; anche alla Casa del Fascio il maestro
trentino è stato fraternamente ricevuto e festeggiato. Accoglienze stragrandi Zandonai ha ricevuto
visitando le Società filarmoniche all’ingresso delle quali, per trattenere la folla plaudente, la polizia
ha dovuto organizzare un servizio d’ordine. Particolarmente interessante è riuscito il ricevimento
alla Società filarmonica La Vallette gremita da migliaia di soci ed invitati – fra i quali il Console
generale d’Italia – ove il maestro Zandonai ha personalmente diretto la cavalcata della sua Giulietta
e Romeo, provocando frenetiche ovazioni.
L’altra mattina Zandonai ha partecipato ad un vermouth d’onore offertogli dalla Giovine Malta,
una società giovanile di spirito goliardico che lo ha festeggiato con vivace e caratteristico clamore;
poi ha preso parte ad una colazione d’addio offertagli dai soci del Casino Maltese.
Al teatro Reale ha avuto [luogo] l’ultima rappresentazione della Francesca da Rimini con un
pubblico che ha improvvisato tali dimostrazioni allo Zandonai da rendere indimenticabile e direi
storico questo suo soggiorno maltese.
A bordo del Città di Tripoli ove Riccardo Zandonai, accompagnato dalla sua gentile signora, ha
preso posto per il suo ritorno in Italia, si è riversata una fiumana di gente che lo ha acclamato e
festeggiato ancora al grido: «arrivederci!». Gl’italiani, con a capo il Console generale, hanno
lanciato i loro alalà fraterni. Poi la nave si è allontanata, portando seco un grande ambasciatore
d’italianità e lasciando in noi tutti un ricordo che non sarà mai cancellato.
424
Nino Cantalamessa, Visita a San Giuliano - Il rifugio di Riccardo Zandonai, «Il popolo di Roma»,
27.2.1932 – p. 3, col. 2-3-4 (con un ritratto di Zandonai e una foto che riproduce un angolo della
villa di San Giuliano)
PESARO, febbraio.
La grande pace di un pomeriggio adriatico si stende ora sull’eterno sonno di Francesca. Il sole
gioca con le nubi, laggiù dove si staglia su uno sfondo d’argento la massa scura della rocca di
Carpegna e raggia obliquo sul paesaggio con la fastosa teatralità di un’acquaforte di maniera. Ecco
a destra il monte Conero, fantastica prora di una nave ciclopica eternamente assorta nel sogno di un
leggendario viaggio; ecco a sinistra l’esile poggio del Castello di Gradara, romantico e guerresco,
erto sui colli che vanno dolcemente digradando verso la ridente grazia delle spiegge di Romagna;
ecco dinanzi a noi l’infinita maestà del mare.
Dalla sommità di questa collina, ove sorge la villa di S. Giuliano, l’occhio discopre la Romagna
intera e scorge i limiti delle Marche e della Toscana. E solo a chiudere gli occhi un istante la scena
si popola di mille fantasmi. Storie d’amore e di morte, di passioni e di battaglie, di condottieri e di
3.2.3/19
santi. Mezza storia d’Italia ha lasciato qui le sue impronte. Questa è la terra generosa, che crea e
che dà, inesauribilmente, da secoli, fiera della sua fertilità di ricchezze e di ingegni. Dà e non
chiede. Promette e mentiene. Terra che non mente.
Laggiù, oltre Rimini, sotto quella lama di sole che stende nell’atmosfera come una gigantesca
parete di luce, è la casa ove nacque il Capo della nuova Italia.
***
Zandonai non aspetta la nostra invasione. Egli crede che Francesca, Paolo e Gianciotto, risolta
definitivamente sul palcoscenico la loro secolare questione, stiano tranquillamente preparando i
bagagli per altri lidi e per nuovi trionfi.
Ed eccoli apparirgli dinanzi, nelle vesti della signora Lina Scavizzi, di Pedro Mirasson [sic] e di
Giovanni Inghilleri, mentre un’altra macchina, giunta subito dopo la nostra, scodella sul prato nuovi
invasori: il maestro Tomassetti e il signor Gasperini.
Non ci aspettava, il maestro, ma non protesta. Forse era venuto quassù per ripensare in pace, fra
il verde dei suoi viali, alla indimenticabile serata del giorno innanzi, quando tutta la popolazione di
Pesaro composta in un grandioso corteo scintillante di mille e mille fiaccole, aveva voluto
accompagnarlo in trionfo fin sulla porta del teatro, per l’ultima recita di Francesca. S’era già levata,
la bacchetta del maestro, sulle prime battute dello spartito, che il religioso silenzio della sala era
ancora solcato a tratti dal fragore della folla rimasta fuori ad acclamare: -Zandonai! Evviva
Zandonai! Zandonai l’è noster (Zandonai è nostro): e le voci giungevano così distinte che non si
perdeva neppure dalla platea lo strano effetto di quella zeta sibilante, frusciante, musicalizzata – la
zeta dei romagnoli, insomma – che pareva trasformare in un dolce accordo di archi la incisività,
secca e aggressiva come un colpo di piatti, della prima sillaba di quel cognome: Zandonai.
Eccolo, ci appare in mezzo a un gruppo di alberi, con un gran cappottone grigio, circondato da
un gruppo di cani da caccia i quali dimostrano palesemente di poter contare sulla più assoluta
generosità da parte del padrone. Gli è accanto la gentile consorte, signora Tarquinia, che tutti
ricordano come una Conchita indimenticabile. Il maestro depone un fucile che ha fra le mani e
viene verso di noi armato soltanto di una sorridente e cortese giovialità. Mi spiego subito – poiché
mi sa cacciatore appassionato quanto lui – che il fucile non gli serviva mica per uccidere i fringuelli
che regnano indisturbati nel parco – per carità! ma neanche per sogno! è proibito sparare agli
uccelletti adesso! – ma unicamente per abituare il suo cane più giovane, ancora ignaro dei misteri
cinegetici, alla visione dell’arma.
-Ma io non pensavo nulla di diverso, maestro. Le pare! Dicono a Roma: tra cocchieri 'ste
frustate!
E mi presenta, con una competenza cinofila da impressionare Nembrod in persona, i suoi cani
preferiti: due meravigliosi setters, infuocati e ardenti come soltanto i puri sangue sanno essere, e il
piccolo Pax, coker [!] perfetto, scovatore e riportatore impeccabile. Mi pare che il maestro abbia un
debole per quest’ultimo. Chissà perché. Ma non voglio chiedergliene la ragione per non
interrompere il filo delle divagazioni cinegetiche. Al primo silenzio gli domando invece, con aria
distratta, che cosa sta scrivendo. E la risposta è pronta: -Vede, ai primi di ottobre, o, per essere più
esatti, fra il 4 e il 12...
-Ah! una novità pronta allora...
-No, niente di nuovo. Mi lasci finire. Dicevo che fra il 4 e il 12 ottobre, quando il passo dei
colombacci tocca il suo culmine, su questa valle è tutto un fremito di ali. Ecco, guardi. Di là, vede,
a destra del Conero, “l’affilo” prende su per questa valle. E Pax ha di che stancarsi in quei giorni...
Se vedesse che voli! E che bei tiri si fanno di quassù. Io, vede, preferisco, fra tutti i miei fucili,
questo calibro 10, che non cederei per tutto l’oro del mondo...
(Le due signore, capita l’antifona, lentamente si allontanano dal gruppo. È la signora Scavizzi,
naturalmente, che protesta: -Quando che i se trova tra lori, sti benedeti cacciatori, i no sa parlar de
altro... E la signora Zandonai, a quanto sembra, non è di parere diverso. Ma sembrano remissive e
inclini al perdono. Come tutte le donne, quando sanno di essere osservate e non sono sole).
E noi, contenti come ragazzi, giù a vuotare il sacco della nostra passione sportiva: fucili, cani,
uccelli, cacciate di montagna e di padule, carnieri formidabili, tiri alla barone di Münchausen,
padelle tonde come una luna piena...
3.2.3/20
Certo la passione cinegetica di Zandonai dev’essere pari al suo genio musicale. Ma cerco, per
convincermene, l’ultima prova. E a bruciapelo scocco la domanda decisiva:-Un momento, maestro.
Se, andando a caccia, lei si trovasse contemporaneamente a tiro una lepre e un beccaccino, a che
cosa sparerebbe?
-Che domanda! Al beccaccino.
-Qua la mano. Solo un cacciatore di razza parla così.
Le signore scappano inorridite.
***
L’oro, adesso, è tutto laggiù, a occidente, dove un sole lucido e freddo gioca a rimpiattino con le
nuvole in fuga. Nella pallida luce del tramonto invernale l’Adriatico trascolora in una opalescenza
grigio-argento, da mare del Nord. Lontano, come attraverso un velo impalpabile, riappaiono le vele
policrome delle paranze; e ce n’è una, più vicina alla costa, ch’è bianca e leggera come quella in cui
volle riconoscersi la romantica anima di Andrea Chénier.
(Forza Mirassou: -Passa la vita mia come una bianca vela...).
Gira e rigira per viali, sentieri e prati, ci ritroviamo improvvisamente dinanzi alla villa.
-Quello vede – mi indica Zandonai – è il balconcino “di Francesca”.
Ma Conchita e Francesca se ne stanno tranquillamente accanto a un camino, in sala da pranzo, e
non pensano nemmeno a rimuginar vendette contro i cacciatori chiacchieroni. Ad esse preme
soprattutto di salvar la gola da quest’arietta fina fina, che va facendosi sempre più sottile e porta giù
dai monti un vago sentor di neve.
Tengono, però, a far gli onori di casa come se tornassimo davvero da chissà quali fatiche; e ci
accompagnano poi a visitare tutta la villa, da cima a fondo.
Ecco il balconcino di Conchita – che vedevamo giù dalle coste così leggiadro e fiorito – ecco il
balconcino di Francesca: l’uno a mare, l’altro a monte, e tanto civettuolo il primo quanto romantico
e passionale il secondo. Ecco lo studio del maestro dalle pareti tappezzate di quadri, fotografie,
acqueforti e xilografie: c’è la iconografia completa delle sue opere attraverso le riproduzioni più
preziose e più rare. Una Francesca, specialmente, radiosa di mistica luce e una fotografia di
bassorilievi riproducenti la vita di Giuliano sembrano dominare la stanza con la forza di una
suggestione inobliabile. Ed ecco la sobria camera nuziale, dalle ampie finestre ombreggiate dagli
alti fusti del giardino: ai piedi del letto, pronte, unte, curate da amorosissime mani, impazienti quasi
di inebriarsi di rugiada e di sole, le scarpe da caccia del maestro.
***
Le prime ombre della sera inducono al congedo. Io penso che sarebbe questa l’ora più propizia
alle confidenze. Perché, sì, va bene la caccia, va bene la villa, va bene il paesaggio; ma i lettori,
santo Dio, qualcosa di più pretendono sempre. Il maestro è scomparso alla ricerca di un setter
fuggiasco. Tentiamo l’ultima carta.
-Dunque, signora Tarquinia, è vero che il maestro ha finito un altro lavoro?
-Un atto sì. Credo anzi che si tratti di un atto unico6. Ma lavora sempre e chi riesce a tenergli
dietro è bravo...
-E il titolo?
-Questo poi...
Mentre la macchina si muove crosciante sulla ghiaia del giardino, ricompare Zandonai, alla
svolta del viale. Saluta a gran voce, reggendo al guinzaglio il setter indisciplinato. È la signora
Scavizzi che affida ai suoi acuti il collettivo saluto della comitiva. Ma una “puntatina” – l’ultima –
ci vuole, in omaggio all’indomito spirito veneziano.
-Arrivederla, maestro! Ah! me diga, maestro, che lo go desmentegà: tra una lepre e un beccacin
a cossa ghe sparelo, lu?
La risposta arriva immediata, coprendo il ronzìo del motore:
-Al beccaccino, sempre! – Zandonai ride dell’inatteso finale e mi saluta ripetutamente, con la
mano aperta, come per aggiungere: -Noi lo sappiamo bene il perché...
6
Si tratta di Una partita.
3.2.3/21
Bravo maestro. Chi parla così è capace di qualunque cosa. Anche di scrivere un’opera più bella
di Conchita e di Francesca da Rimini.
425
Maria Fiorenza Ferrari, Stasera all’Opera La Farsa amorosa di Riccardo Zandonai, «Il
Messaggero», 22.2.1933 – p. 3, col. 4-5 (con un disegno di Zandonai)
IL MUSICISTA
Il maestro Zandonai mi perdoni se svelo un segreto, il quale del resto non è più tale per i
pesaresi: quello di una presunta clausura della sua Villa San Giuliano. «Fare attenzione ai cani» si
legge su un cartello pendente da un albero.
Superato, infatti, il limite dell’albero ammonitore e che attesta della gran sincerità altruistica
dell’illustre maestro, ecco Giosta, Lolita e Pax, i cani che han consigliato quel tale avviso saggio e
previdente. Ma, alla prova, non pare sian così feroci da giustificare l’attenti ai cani! E allora?
Alla Villa San Giuliano domina una quiete serena: da un lato si scopre il mare sperdentesi nel
vasto orizzonte, e dall’altro le colline e i monti che circondano pittorescamente la ridente valle del
Foglia; e tra il verde e l’azzurro, come una macchia di colore vivace e suggestivo, la splendida
pineta con il Castello imperiale. Dinanzi a un così meraviglioso spettacolo della natura, torna caro
alla fantasia il ricordo di Torquato Tasso, ospite dei Della Tovere. In quella solitudine che la natura
rallegra e a cui le meraviglie dell’arte accrescono attrattiva, vive gran parte dell’anno il maestro.
Fra il mare di cobalto e il verde tenero della campagna la sua fantasia si è ispirata per la Farsa
amorosa. E trascorre le sue giornate, a contatto di gente semplice e garbata, quasi a ripetere l’eletta
esistenza di quelli spiriti antichi, attratti e amanti delle bellezze naturali.
Tutti a Pesaro gli vogliono bene. E il maestro vi ha concorso con la genialità artistica e la bontà
semplice e generosa e con il suo spirito sincero, tanto più apprezzati in una città di provincia come
Pesaro, dove spesso non si resiste all’urto delle competizioni e delle gelosie. Di questo il maestro
può esser orgoglioso.
Ma, oltre la gente, Zandonai nutre un singolare schietto affetto per le molte bestie le quali –
beate loro! – vivono entro la villa di lui come in una reggia zoologica. Ognuna di esse porta il nome
di qualche sua creatura artistica. Il cane preferito è Giosta: ricordarsi del Cavalieri di Ekebù; una
cagnetta par tutta sicura delle sue... grazie e quasi altezzosa del nome di Lolita; una gallina ha
invaso la poesia: è Biancofiore, la «Biancofiore» della Francesca.
Ma il maestro non si limita a battezzar le sue bestie col repertorio delle sue opere. Un piccione
caratteristico, adorno o disadorno, come meglio vi piace, di una certa gobba naturale, ha nome
Rigoletto. E basta, ché a elencarle tutte v’è da temere che Zandonai, a difesa delle bestie della sua
villa, scagli qualche fulmine verbale.
Qual diverso ambiente nell’interno della villa, e che squisita ospitalità! La signora Tarquinia, col
suo suggestivo sorriso, vi parla d’arte e risuona la sua voce con la non spenta musicalità.
Il maestro invece vi parla sì di musica, ma se qualcuno accenna alla caccia non v’è verso di
distrarlo dal tema preferito. Quella della caccia è la sua passione. E in ciò è stato un terribile
avversario di Puccini. Non si contano le dispute avute a questo proposito con l’autore di Bohème,
dispute le quali soltanto nella musica e nell’arte in genere trovarono il modo di placarsi
simpaticamente.
Che sia un cacciatore imbattibile, come del resto è musicista geniale, sembra non sia ignorato
neppure a Stoccolma.
Quando il maestro vi si recò, qualche anno fa, per I Cavalieri di Ekebù, ne ebbe una prova
luminosa. La fama vola per Zandonai non solo dietro la sua musica ma anche attraverso i colpi di
fucile.
A Stoccolma egli rimase incantato dinanzi allo spettacolo meraviglioso delle boscaglie di pini
che popolano la terra svedese. E subito una nostalgia lo assale: la caccia abbondante che quei
boschi promettono. Di questa nostalgia riesce a cogliere il senso intimo la Direzione del Teatro
Reale. Ecco che vien fatta proposta al maestro di diventare... svedese. Gli si propone la
3.2.3/22
composizione di un’opera di soggetto locale, dietro questo compenso: un bosco, una villa e un
permesso di... caccia permanente, vita cioè natural durante.
Per la prima volta è da credere che a un musicista sia stato offerto, da parte della Direzione di un
teatro, il più tipico dei contratti: essere pagato in natura!
Ma alla caccia, per una volta tanto, Zandonai non penserà questa sera per il battesimo della
Farsa amorosa su libretto arguto, agile, spassoso di Arturo Rossato, al Teatro Reale dell’Opera.
«In bocca al lupo, maestro!».
426
Matteo Incagliati, Rossini, Zandonai e la sinfonia del mare, «Il Messaggero», 9.8.1933 – p. 3, col.
3-4-5
[...]
Rossini qui nacque e qui sopravvive nella memore riconoscente ricordanza dei posteri. Il suo
monumento non parla invano a tutti noi. E più parleranno le testimonianze di tanti manoscritti che
Riccardo Zandonai, per incarico avutone, sta riordinando. E balzerà da essi un Rossini nuovo, del
tutto ignorato.
Vogliamo forzare il segreto, prima che l’opera paziente e intelligente sia compiuta?
Zandonai è lassù, sul colle San Bartolo, e a salire il dilettoso monte non è aspra fatica, se
l’automobile ne facilita il corso.
Eccoci alla mèta: una targa ne indica il segno: «Villa San Giuliano»; su la targhetta sono scolpiti
su due pentagrammi le parole che risuonano con la musica di Zandonai nel Prologo della sua opera
Giuliano: «Ogni pianta apre il suo cuore e canta».
Zandonai, a quanto pare, non indulge con la pubblicità alla sua villa. Ma, come si supera il
cancelletto, uno spettacolo meraviglioso si offre alla nostra scettica prevenzione. È proprio vero che
ogni pianta qui apre il suo cuore e canta.
La villetta, tutta nascosta, protetta dagli alti alberi, si profila civettuola, in un bizzarro stile nel
quale si confondono, si amalgamano il medioevale e il moderno, con un lontano richiamo al
cinquecento. Ad affacciarsi da un terrazzino l’occhio abbraccia e si appaga di un panorama vasto e
pittoresco: tutta la valle del Foglia con i segni lontani dell’Appennino toscano; e più, distesa placida
la città con di fronte il mare che in queste notti di luna par richiami alla memoria il noto verso di
d’Annunzio.
Questa che scende e sale, di giù e di su dalla villetta, ha tutti gli aspetti e il tono di una foresta
vergine, come se la terra feconda frenasse invano gli impeti della sua vita arborea. E pini e lecci e
cipressi si guardano fra loro e levano le cime in alto, maestose. All’ombra di essi è la flora che
diffonde un acre profumo d’intorno. Quella che fu una stalla è adesso una serra; e i giardini
germogliano senza nulla invidiare agli orti. Si sale ancora il colle, e una cappelletta non finita
attende dal maestro illustre che venti giorni addietro Roma ha tanto festeggiato nei due memorabili
concerti alla Basilica di Massenzio, che sia sistemata, abbellita. È la nota mistica in questo trionfale
tripudio della terra; e la signora Tarquinia, la fata della villa, bene consigliata è stata a volerla
dedicare a San Giuliano.
Si ritorna alla villetta che alla piena luce dell’ora mattutina appare illeggiadrita da tutto quel
verde che la decora, sulle quattro facciate, nei ghirigori delle piante rampicanti con le corolle di
caprifogli, di rose, di solanum, di glicine e del fiore della passione.
Lo studiolo del maestro affaccia sul mare lontano. Tutto parla della fantasia di lui. È qui che son
nate le sue due ultime opere: La Partita [sic], tenuta a battesimo con gran successo dalla Scala, e La
farsa amorosa, che il pubblico di Roma ha accolto con tale espansiva e significativa accoglienza al
teatro Reale dell’Opera, che è da augurarsi che il Conte d’Ancora l’includa nel cartellone della
nuova stagione. Se no, a che ciarlare di protezione e di divulgazione dell’opera nazionale? Ché la
Farsa amorosa conta un successo – Roma, Catania, Trento, le tappe del primo anno di sua
esistenza – come da oltre un decennio non se ne ricorda l’uguale.
Una nota musicale ci distrae. È un uccellino che canta entro il fitto fogliame di un albero.
3.2.3/23
-Maestro, che intonazione!
-È una voce sensibile allo spirito rossiniano; ma dovreste essere qui, in primavera. Alle prime
luci dell’alba, il giorno si desta con un concerto di usignuoli, e con tale abbandono da diffondere
per la purità dell’aria una sinfonia misteriosa e nostalgica.
-E adesso che gli usignoli tacciono, quale opera, in tanta e così serena pace, agita la vostra
fantasia?
Il maestro non risponde. Ma dal sorriso della signora Tarquinia v’è da credere che un’altra
creatura sta per rivestirsi di melodia, a far compagnia a Conchita, Francesca e Giulietta.
L’ora del commiato è giunta. A volger lo sguardo ancora, un’altra sorpresa ci coglie: quante
bestiole! Cani, gatti, piccioni, api, uccelli, questi ultimi imprigionati in cinquanta gabbie!
-È questa forse, maestro, una missione... francescana? Beate le bestie che qui trovano asilo...
***
7
[...]
427
Lino Ennio Pelilli, Ricordi pesaresi, «Rivista nazionale di musica» XVI/327, gennaio 1935 – pp.
3046-7
Non dimenticherò mai le serene ore passate in casa Zandonai, quando questi, agli albori della
celebrità, accoglieva nella sua minuscola ed attraente dimora, durante le ore serali, alcuni tipi
pesaresi sinceramente amici ed intellettuali.
Dello Zandonai di allora ricordo la squisita signorilità dei modi e la timidezza in ogni suo
conversare, pur vibrante della più delicata e raffinata sensibilità.
Era immancabile fra noi, in quelle sere, il pittore Quintilio Michetti, uomo gioviale ed artista
sincero, quasi alla pari del fratello Francesco Paolo. Del nostro raduno egli rappresentava la parte
vitale; la conversazione, in breve, per virtù sua, diventava animata, ed il suo parlare fluido, facile,
mirabilmente lucido serviva per concludere le polemiche di qualche tesi inasprita dal contrasto dei
caratteri degli interlocutori così differenti, talora opposti gli uni agli altri, sebbene tutti convergenti
verso la stessa profonda rispondenza spirituale.
A tali nostri convegni spesso non mancavano la signora Gina Michetti, moglie del pittore, ed il
sig. Montuori. Quest’ultimo allora consigliere di prefettura, e fino a pochi mesi fa Prefetto di Roma.
La signora Gina, generosa, ingegnosa, s’immolava per intiero alla gioia dell’arte, ed a lei debbo
durevole riconoscenza per avermi propiziato l’amicizia dello Zandonai, e di più, del poeta Morselli.
Questa santa donna, che ho sempre d’allora considerato come la mia seconda mamma, loquace per
temperamento, insegnava con il prestigio dell’esempio e con la fede delle nobili passioni. Io
l’amavo, e ogni parola da lei pronunziata per me era una rivelazione, e niente mi piaceva più del
suo brio, della sua acutezza e della sua vivacità espressiva. Anche il Maestro si intratteneva
volentieri con essa in lunghe discussioni e qualche volta, benché raramente, la conclusione del
ragionamento consisteva in un’audizione musicale.
Interessante, anzi emozionante, era allora per sentir suonare e cantare Zandonai. Questi, con la
sua bella voce baritonale, sembrava divenire un’anima sola col suo Bechstein. Le sue esecuzioni
erano sovrabbondanti di sensibilità, e noi fissi con lo sguardo su di lui partecipavamo ai differenti
suoi stati d’animo. Ci faceva spesso sentire qualcosa del Grillo del Focolare (prima giovanile opera
dello Zandonai) per desiderio della Madrina, la quale di quest’opera era innamorata tanto che, per
l’ora della morte, espresse il vivo desiderio che presso al suo capezzale ne fosse posto lo spartito,
ed il suo desiderio fu appagato.
E il signor Casmit8? Era questi il padrino dello Zandonai, chiamato dallo stesso «Nonno»! Era
un uomo di media statura, piuttosto scarno, grifagno e monosillabico nel parlare: di consigli ne
sapeva dare a tutti, e li dava con certo tono autorevole, burbero ed affettuoso ad un tempo, duro e
cordiale.
7
8
Lo scritto prosegue con annotazioni paesaggistiche della spiagga, ecc., e si conclude con una sorta di apologia del fascismo.
[sic]: ma Kalchsmidt.
3.2.3/24
Il figlioccio rappresentava quasi per lui l’unico scopo della sua esistenza: era l’unico affetto.
Che dire del Montuori? Era allora come oggi un artista, oltre che un uomo politico. Il suo dire, di
copiosa abbondanza, metteva in evidenza l’uomo di una cultura enciclopedica, di una vasta
erudizione, di una sensibilità delicata e raffinata. Era l’uomo che ci procurava soggezione e insieme
gioia di averlo fra noi. Era, principalmente, il mecenate dei musicisti, come ritengo sia rimasto
tutt’oggi.
I nostri convegni avevano fine, quasi sempre, ad ora assai inoltrata nella notte, e prima dello
scambievole saluto di commiato, unitamente allo Zandonai, si faceva la consueta passeggiata alla
spiaggia marina, ché questa trovasi assai vicina al centro di Pesaro ed ancora più all’abitazione del
caro illustre Maestro.
428
Arturo Marpicati, Primi passi di Zandonai - I Premi Mussolini, «Quadrivio» III/27, 5.5.1935 – p. 1,
col. 5 / p. 2, col. 1-2-3-4 (con foto di Zandonai)
A Sacco
Non spiacerà a quanti ammirano la musica dell’autore della Francesca da Rimini e della Farsa
amorosa, ed a quanti amano gli artisti e le cose dell’arte in genere, seguire nei primi aspri passi
della vita e degli studi l’illustre compositore trentino. Questi umilissimi casi della fanciullezza
dolorosa sono colmi, anche per i giovani, di un forte insegnamento. Dimostrano come tenacia di
volontà e amore sconfinato all’arte riescano spesso a trionfare di tutte le ironie della più brutta
realtà.
Decimo Parziani non è affatto celebre: ma lo diventa a mano a mano che suo nipote, Riccardo
Zandonai, sale su per un sentiero montano, così erto a salirsi e così lungo che pare non finir mai, e
che sembra portare alle stesse soglie del cielo e dell’eternità. Ma Decimo Parziani, con ogni
probabilità, di questo sentiero e di questo cielo non ne sapeva nulla. Egli, com’è obbligo e destino
secolare di tutti gli zii, si studiava solo di svagare e di divertire il nipotino: e però,
accompagnandosi sulle corde d’una chitarra annosa, gli canticchiava le vecchie arie popolari di
Bellini e di Verdi.
Le prime bizze di Zandonai s’impuntarono quindi a voler sulle ginocchia quell’istrumento
prodigioso, da cui le sue piccole dita, felici, potevano trarre una così inaudita combinazione di
suoni. Le cronache domestiche tacciono tuttavia se qualcuno in casa non s’impazientisse o non
sbuffasse a quei primi saggi d’armonia, tanto spontanei, del futuro artista.
Appesa ad una parete silenziosa nello studio della sua alpestre borgata nativa, quella chitarra
soleva ricantare più tardi, negli ozi estivi, alla fantasia del maestro già famoso, melodie che niuna
virtù d’orchestra saprà mai riprodurre – quelle dell’aspra ma cara puerizia lontana, sorrise dai buoni
occhi dello zio Decimo canterellante dalla sua seggiola inchinata a ridosso del fuoco: «Di
quell’amor, di quell’amor che palpita...».
Rivale della chitarra (di cui lo studiolo è poi rimasto vedovo per opera di qualche territoriale
austriaco) è un bombardino che il signor Zandonai padre, smessa la lesina e il martello, suonava a
perdifiato, specie nei mattutini riposi domenicali: egli era infatti, tra i dilettanti della antica banda
del paese, uno dei più accesi. Le voci dei due strumenti furono perciò i primi richiami musicali, le
prime sirene che sedussero l’orecchio e riempirono lo spirito del bambino, il quale è stato un vero
precoce, senza per altro scomodare mezzo mondo per un frettoloso riconoscimento delle sue
straordinarie attitudini. A sei anni poteva vedersi netta in lui la disposizione all’arte del suono.
Infatti da solo, a quella età, senza guida e senza l’aiuto d’uno de’ soliti metodi, intraprese... lo
studio della teoria musicale.
Così il padre, evangelicamente, gli pose tra mano un violino e: «Cava – gli disse – dolci suoni da
questo arnese, o figliolo mio!». E il docile figliolo suo cavò dolci suoni da quell’arnese.
Dopo qualche tempo il padre suppose di avergli trovato un insegnante nel direttore della banda
paesana, un ruvido tedesco, impiegato nella grande fabbrica dei tabacchi di Sacco.
3.2.3/25
Il precettore faceva consistere l’insegnamento nel ricopiare qualche aria dagli spartiti per banda;
la buttava sotto il naso al ragazzo e gli ordinava di suonarla lì per lì sul violino.
E ad ogni errore di lettura, ad ogni arresto o incertezza, corrispondevano altrettanti colpi
d’archetto sulle tenere dita dello scolaro, il quale, lamentandosi a causa di tali energici riti didattici
e minacciando di disertare quella scuola se il professore non avesse cambiato solfa, ebbe dal padre
– gustoso spirito veneto – il seguente saggio consiglio: «D’ora innanzi, bambino mio, assieme allo
strumento ti porterai una bottiglia di vino.
«Il tuo maestro – io lo conosco bene – è un buon diavolo: ma ha sempre molta sete; e quando
non beve diventa aspro e feroce». Il piccolo Zandonai seguì l’amoroso consiglio paterno e
trotterellò poi, in seguito, verso la casa del suo professore col fascicolo delle “arie”, col violino e
con una bottiglia o con un fiasco del patriarcale liquore. «Papà invia; papà offre».
Manco a dirlo, la trovata di papà sortì un pieno risultato pratico. Le cure del professore,
specialmente verso la fine delle lezioni, erano sempre più gentili e persino tenere. Ma il minuscolo
musicista continuava per conto suo a progredire. A otto anni la passione e la preoccupazione più
forti in lui erano quelle di poter “riscrivere” le note d’un’aria o d’un qualunque componimento
musicale che gli avvenisse di sentire; e Zandonai rammenta oggi sorridendo che a dieci anni tentò
le prime “partiture”! Cosicché il direttore della Banda – a somiglianza del primo professore del
Leopardi – benché a malincuore, rassegnò nelle mani di papà Zandonai le dimissioni da insegnante,
per non aver più che insegnare al ragazzo.
A Rovereto
Condotto a Rovereto, cominciano per lui le prime schioppettate della dura battaglia giovanile.
Povero, appartenente inoltre ad un Comune che non poteva mandare allievi a quella scuola di
musica – a cui avevano invece diritto solamente i roveretani – Zandonai trovò il primo aiuto valido
e la prima vera guida nel direttore della scuola stessa, il maestro Vincenzo Gianferrari, elevato
spirito d’artista e coltissimo insegnante, in seguito direttore del «liceo musicale» di Trento; uno di
quegli uomini che al sole fatuo delle ribalte piazzaiole preferiscono l’ombra calda d’una ricca e
resistente interiorità. Il Gianferrari nel ragazzo, pur arruffatamente istruito, fiutò – per così dire – il
futuro cavallo da corsa e cominciò a nutrirlo di salda scienza, corrisposto dall’intelligente
impetuosa avidità di imparare e dalla tenace volontà dell’allievo.
Colui che con sicuro intuito scoperse e con paterno studio alimentò la prima sacra favilla nel
cuore del giovanissimo artista fu certo il Gianferrari, che il Maestro ricorda con filiale e grata
venerazione.
Troncò allora Zandonai le scuole ginnasiali già iniziate e si consacrò totalmente allo studio del
violino, del pianoforte e de’ primi elementi d’armonia. Ma un corso regolare d’armonia – nemmeno
più tardi a Pesaro – non lo seguì mai: preesistendo nel suo spirito, essa, l’armonia, vi faceva il suo
“corso” anche senza... professori.
Sono di questo tempo, fresche e nitide d’ispirazione, alcune prime sue romanze, cori e piccoli
carmi di chiesa, che fanciulli e fanciulle del paese sorridente in riva all’Adige cantavano nei giorni
delle feste più solenni.
Un signore – pezzo assai grosso di Sacco, anzi di tutto il Trentino, il conte Federico BossiFedrigotti, in parentela da parte della moglie, una principessa Locovitz, con l’Imperatore e Re
Cecco Beppe –, conosciute le speranze e le promesse eccezionali che di sé destava e dava a
Rovereto il quattordicenne Riccardo, manifestò il desiderio di farlo entrare nell’Accademia
musicale di Vienna.
Ma la somma annua assegnatagli a tale scopo era addirittura irrisoria; equivaleva non alla
bohème ma ad una morte certa, per inedia, sui marciapiedi, allora luminosi e folleggianti, di Vienna
capitale!
D’altra parte l’apostolico conte non si sentì forse d’arrischiare, da solo, tutta una brillante azione
di mecenate sulla testa sì grossa ma fragile e soggetta alle molte umane intemperie, del minuscolo
musicista!
Il Gianferrari esortò quindi caldamente papà Zandonai a sostenere qualsiasi sacrificio, ma a far
proseguire il figlio negli studi intrapresi. E gli consigliò il rinomato «Liceo Rossini di Pesaro»:
3.2.3/26
dove Mascagni, pur fra le stranezze del suo arduo carattere, le singolarità strabilianti del suo
guardaroba personale e le ribellioni scapigliate delle accademiche prudenze ed ai pudori provinciali
– bene spesso tirannici – sapeva svecchiare e squassare i vecchi, stimolare e svegliare i nuovi artisti.
A Pesaro
Il treno li scaricò a Pesaro, padre e figlio, alle cinque di un freddoloso e piovoso mattino di
novembre. Entrarono nel piccolo «Caffè del Trebbio» ad aspettarvi un’ora conveniente per
presentarsi al liceo. Zandonai aveva quindici anni, e benché fosse già foderato di solida coltura
musicale e sentisse ormai in sé l’insorgere del suo ingegno d’eccezione, furono pur tuttavia ore più
d’ambascia che di speranza quelle dell’uggiosa notte in treno e della stanchevole sosta nello
sbadigliante caffeuccio. «Avevo paura dell’esame d’ammissione al Liceo, sì, paura» – mi confessa
oggi l’amico illustre senza sorridere. E in quella sua faccia nerboruta, solcata dai forti intagli che
lasciano nelle carni i precoci “corpo a corpo” con la dentata miseria, si scorge il ricordo doloroso e
superbo di quel tempo intessuto di rinunzie, di fredde diffidenze, di umiliazioni e d’ironie. Vi
leggete incisi i segni della sofferenza lontana, che la gloria recente non può cancellare. Ed è lui il
primo a non volersene scordare!
Quella sofferenza è una cosa cara tutta sua, è una forza del suo spirito, è l’aiuola più tormentata
del suo giardino, sulla quale l’alloro ha messo finalmente fronde resistenti.
Passeggiando, il giorno prima, per le vie di Bologna, l’aveva colpito improvvisamente un
signore dal vivo aspetto tragico e dal passo concitato. «Quello dev’essere Mascagni», aveva gridato
a suo padre. Era Mascagni infatti, che scendeva poi a Pesaro dallo stesso treno, e in quella stessa
mattina.
L’esame d’ammissione andò a gonfie vele! Centosessanta le domande; 18 i posti; Zandonai tra i
vincitori. Il segnale della battaglia era dato. Suo padre lo lasciava solo nella città, gli aveva indicato
la via che conduceva alla cittadella. Occorreva far presto; le cartucce erano poche. Ma il
combattente era saldo e seppe spararle al segno e la vittoria fu sua. Rapidamente. A Pasqua del
primo anno egli chiedeva di sostenere gli esami per l’ammissione al terzo corso. E superava la
prova.
Al secondo anno – spalleggiato dal dotto professor Cicognani, insegnante d’armonia, che,
prediligendolo, lo sapeva anche difendere dalle resistenze di alcuni altri professori – divorava due
corsi di contrappunto e due di fuga; gli veniva insieme eccezionalmente permesso di frequentare,
come uditore, il primo corso di composizione. Ma avendo riportato un profitto, diciamo pure,
uguale a quello d’un allievo “regolare”, anche quell’anno da Mascagni gli fu contato per buono;
cosicché al principio del terzo anno poteva inscriversi all’ultimo corso di composizione e all’ultimo
di fuga. In tre anni egli si liberava così del novennio regolamentare al Liceo. Anni di lavoro
incredibile questi, non tanto per la scuola quanto per la lotta vicina e più tremenda che il giovane
sentiva avvicinarsi.
Ma oltre che un’affermazione del suo grande talento, l’assalto sbrigativo di Zandonai alla lunga
trafila scolastica rimane un esempio di alto valore morale. La visione torturante della famigliuola
poverissima, che da lungi lo seguiva con l’occhio slargato dalla speranza e dal più duro sacrificio,
lo stimolava a richiamare dal profondo tutte le sue vergini e focose energie per affrettare la prima
conquista. I maestri furono vinti dall’attività geniale e non comune dello studente; gli studenti, che
allora portavano di gran ciuffi ondeggianti e di gran zazzere fosforose, ed in ognun dei quali il
piccolo timido montanarotto aveva temuto i primi giorni d’aver a contrastare con altrettanti geni,
rimasero sbalorditi dalla potenza acrobatica del giovanissimo compagno a cui non avevano
risparmiato sorrisi di pietà o, per lo meno, sguardi di olimpica tolleranza.
All’esame di laurea – che Mascagni voleva sempre in forme solenni – Zandonai presentò come
saggio Il ritorno di Odisseo del Pascoli, poema sinfonico per soli coro ed orchestra; poema per cui
qualche anno più tardi gli veniva assegnato un premio in denaro in un concorso, bandito a Vienna
dal Ministero austriaco del Culto e dell’Istruzione, al quale avevano partecipato una dozzina di
concorrenti tedeschi. Anche con un altro dicastero austriaco ebbe a che fare più tardi il Maestro
allora irredento: cioè con quello degli Interni, che a Sacco gli fece perquisire la casa, durante la
guerra, e gli sequestrò tra l’altro la sua numerosa corrispondenza, che però gli veniva tutta rispedita,
3.2.3/27
a pace conchiusa, meticolosamente catalogata, spulciata, con segnate in blu ed in rosso le frasi
troppo arditamente “italiane”! A 18 anni lasciava Pesaro, sempre povero in canna, ma possidente
d’una vasta miniera di sogni e ricco di quella fede superiore che necessita per realizzarli.
Lasciava Pesaro da lui amata e tenuta poi sempre come una seconda culla nativa, la bella Pesaro
dai molti viali politi, orgogliosa così del suo nume tutelare Rossini come delle cinquecentesche e
seicentesche maioliche de’ suoi celebri vasai, che trattengono le lucentezze e i riflessi dell’aureo ed
azzurro mare estivo; cittadina, Pesaro, nella quale – sopra tutte le bizze, le beghe e le faziose parti
battaglianti ora per l’uno ora per l’altro artista – stanno vivi e diffusi come in nessun’altra città,
forse, il culto ed il gusto più sicuro della Musica.
Al bel cielo, al bel mare, alla bella atmosfera di Pesaro, pregna d’artistica passione, deve
Zandonai parecchie delle sue ardenti inspirazioni. Ma ad una bassa casetta, tinta di bianco, a mezzo
d’una breve via solitaria, verso Porta Fano, dove passa tuttora gran tempo dell’anno in quiete
feconda, è legato sopratutto il cuore del Maestro; poiché in quell’umile abitazione egli trovò il
calore più favorevole ai sogni nascenti. Nei coniugi Kalsmtt9, d’origine trentina, che ve lo tenevano
in locanda, specie nella coltissima signora, ebbe non vacui mecenati sonori, ma veri e religiosi
credenti nella sua arte, amici confortevoli nei tristi periodi d’oscura lotta.
La vena cominciò presto a zampillare e vennero fuori, fresco e sereno Il grillo del Focolare,
violenta ed accesa Conchita, lineare e romanamente maestosa Melenis, sino al trionfo decisivo della
decorativa e descrittiva, drammatica e limpidamente cantata musica della Francesca da Rimini. Poi
i successi, pur tra gli inevitabili contrasti e i cocciuti dinieghi, non si contarono, sino alla Farsa
amorosa in questi giorni, applaudita da Roma nel suo Teatro Reale dell’Opera.
Non sono un critico musicale. Sono un vecchio amico e un estimatore sincero del musicista. E la
mia spontanea opera di biografo voglio terminarla anch’io con alcune di quelle “curiosità” che
interessano sempre, e forse troppo, quando riguardano artisti che hanno attinto la celebrità.
Curiosità
Riccardo Zandonai non fornisce però al suo biografo elementi brillanti per uno scapigliato
profilo che piaccia a quella molta gente dedita oggi, in special modo, con meschino godimento, al
morboso aneddoto da camera, alla elegante barzelletta e alla bella stravaganza. Egli è diverso da
molti artisti che pur hanno raggiunto la fama. È modesto, non di quella modestia che è sinonimo di
mediocrità o di nullità, ma di una modestia manzoniana, sano prodotto di un’equilibrata coscienza
superiore.
Vive con semplicità una quieta vita famigliare, da cui esce, ben corazzato, di tratto in tratto, ad
impegnare col mondo le sue forti e vaste battaglie. Ritorna quindi subito in una calda ombra di
raccoglimento, confortato da una rara compagna di grande cuore e d’ingegno, la signora Tarquinia
Tarquini Zandonai, che fu già impareggiabile interprete delle sue opere, specialmente di Conchita.
Il Maestro suol dire sorridendo che se ha guadagnato una moglie intelligente, ha però perduto
un’intelligentissima eroina dei suoi drammi. Ama la campagna più solitaria, di quel medesimo
sincero ardore che mette nel fuggire dalla città. Ama gli amici – pochi – e che, possibilmente, non
siano critici di musica, e tra i quali possa, dopo i giorni di lavoro, riposare lo spirito in una
conversazione piana e lieve.
Odia tutto ciò che odora di vacua mondanità. Se le esigenze gli impongono di partecipare a feste,
a cerimonie, a cene ufficiali, egli vi si rassegna e vi partecipa anzi, spesso, con quella sua vivacità
scattante e interrompente ogni poco la posa meditativa che gli è abituale. Ma si rifà poi subito del
sacrificio compiuto con un più lungo bagno all’aria aperta, col suo fucile in ispalla o sottobraccio,
in compagnia di due ottimi familiari assai affezionati della razza dei Setter bianchi, Dot e Pax,
madre e figlia... Adora questi cani e ve ne esalta ad ogni minima richiesta le qualità umane più
buone e sorprendenti.
Non è a credere tuttavia che Zandonai avrebbe mai fatto inorridire, per la sua passione venatoria,
il suo francescano amico Giovanni Pascoli. Mio Dio, se una quaglia gli sfrulla sotto il naso,
imbraccia e sa anche colpire... Ma egli non ha del vero cacciatore i manigoldi istinti sterminatori,
9
v. Nota 8.
3.2.3/28
bensì la caccia rimane per lui uno stimolo costante ad uscire di casa, a muoversi, a passeggiare, un
pretesto per le sue ardue scarpinate, assorto nelle melodie del paesaggio. A questo suo bisogno di
percorrere chilometri nei purpurei silenzi mattutini o nei pomeriggi di fiamma dell’autunno, non è
estraneo il suo sistema di lavoro.
Egli compone a memoria scene sopra scene, persino un intero atto: scrive, corregge, accumula e
cancella mentalmente migliaia e migliaia di note. Attacca un lavoro a capofitto e non lo lascia più
fin che è finito. Non può soffrire l’interferenza d’altri lavori. Sente la necessità di non perdere il filo
e però resiste ogni giorno sull’opera iniziata, senza soste.
Prova sempre la tristezza sottile del dover fissare e più ancora nel non aver più da fissare: poiché
quella scrittura definitiva è, sì, la fine per lui d’un travaglio e d’un tormento acuto, ma è anche la
perdita di una gioiosa gestazione.
Il giorno seguente alla stesura quelle note sono già di molti altri, non sono più solamente sue,
non sono più l’atto angoscioso e sublime della creazione.
Altra caratteristica del suo lavoro è la rapidità, talvolta incredibile. Una volta “fissato”, non rifà e
non corregge più; non modifica che rari dettagli. Il verbo che coniuga più volentieri praticamente è:
“esaurire”.
Il passato non lo interessa più: il “nuovo” soltanto, e il migliore, attrae e appassiona
costantemente la pura fantasia di questo piccolo duro legnoso uomo trentino, che ha raggiunto
ormai l’alta statura dei veri artisti.
429
Riccardo Zandonai è tra le maggiori personalità artistiche d’Italia: il suo nome, popolare in
patria quanto la sua musica, tiene alta, nel più vasto e combattuto mondo del teatro lirico,
l’insegna del melodramma italiano, che, rinnovandosi alle fonti della musica sinfonica
contemporanea, rimane saldo sulle sicure nostre tradizioni della melodia e del canto.
Fin da quando si rappresentarono i suoi primi lavori teatrali, Il grillo del focolare e Conchita,
ricchi di limpido sinfonismo e di estro melodico nostrano, fu chiaro che sorgeva in Italia una nuova
figura di operista. L’affermazione definitiva sopravvenne nel 1914 con la Francesca da Rimini, con
la quale la tragica visione dannunziana trovò piena rispondenza nell’arte dei suoni. E, ciò che
importa, il successo teatrale, in questa come nelle opere precedenti, era raggiunto non mai a
scapito dell’opera d’arte.
In siffatto culto rigoroso dell’arte, senza abbandoni e pertanto non scevro di amarezze e
pericoli, da allora fino ad oggi si è svolta la produzione di Riccardo Zandonai che è abbondante
sia nel campo teatrale, sia in quello puramente sinfonico. Ben dieci suoi melodrammi – di cui è
superfluo elencare i titoli generalmente noti – stanno a dimostrare, non fosse che per l’ardimento
della scelta di taluni grandi soggetti, l’altezza degl’intenti artistici perseguiti dal loro autore.
Con I Cavalieri di Ekebù, opera di vasta concezione, rappresentata nel 1925 alla «Scala», si
apre l’ultimo decennio – indicato per il premio Mussolini – dell’attività artistica di Zandonai:
attività per vero, fino ad oggi, continua e multiforme; ché, di conserva con la produzione musicale
varia di genere e ininterrotta, egli ha sviluppato la sua personalità anche come direttore di
orchestra, non solo delle proprie opere nei teatri, ma pure come interprete di musica classica e
moderna nelle maggiori sale da concerto. All’ultimo decennio appartengono altresì col Giuliano,
rappresentato la prima volta al «San Carlo» di Napoli nel 1928, i due ultimi melodrammi, La
partita [sic] in un atto, datasi alla «Scala» nel 1933, e la Farsa amorosa nell’anno stesso in Roma
al «Reale Teatro dell’Opera», dove in questi giorni è stata felicemente ripresa.
Fra l’una e l’altra opera Zandonai ha composto negli ultimi anni non pochi lavori sinfonici e da
camera; basta citare fra i più notevoli la popolare Danza del torchio e Cavalcata di Romeo (dalla
sua opera Giulietta e Romeo) e il poema sinfonico Quadri di Segantini, che è venuto a completare
con altri due poemi degli anni precedenti – Primavera in Val di Sole e Autunno fra i monti – il
3.2.3/29
trittico orchestrale che sotto il titolo di Patria lontana10 il musicista trentino, ritraendone gli echi in
passaggi sonori, dedicava alla sua terra.
L’affetto al natìo loco cagionava al musicista trentino nel 1916 la condanna per alto tradimento
da parte dell’Imperiale Regio Tribunale di Innsbruck, sotto la vecchia Austria: capi di accusa,
l’aver dapprima composto la Messa di Requiem eseguita nel 191411 al Pantheon in memoria di Re
Umberto, l’aver poi scritto in senso “nazionale” italiano l’Inno degli Studenti trentini e infine, nel
1915, l’Inno alla patria, sui versi di Giovanni Bertacchi e per invito di Cesare Battisti.
La figura del musicista s’illumina così anche di luce patriottica, che lo fa a noi ancor più
stimabile e caro.
Come della sua terra ora redenta, Riccardo Zandonai è vanto del teatro lirico italiano, di cui sa
reggere con intenti moderni le sacre tradizioni.
Ottorino Respighi12
430
Luigi Dallasta, Zandonai e la sua «Arca» tra i fiori e i frutteti della Villa pesarese di San Giuliano,
«La Tribuna», 1°.7.1939 – p. 5, col. 4-5-6-7 (con tre fotografie recanti rispettivamente le seguenti
didascalie: «Villa San Giuliano - La finestra con balcone dello studio di Riccardo Zandonai»;
«Riccardo Zandonai in un momento di ricreazione gita nel parco accompagnato dalla sua cara
‘checca’»; «Zandonai si fa fotografare assieme al suo fido»)
PESARO, giugno
A Villa San Giuliano si attendeva da tempo la primavera, ma l’attesa s’è risolta in un nulla di
fatto, come dicono gli sportivi. Non si è avuta che qualche giornata di sole e, per il rimanente,
pioggia a rovesci e clima invernale. Così siamo passati di colpo all’estate ed in questi giorni Villa
San Giuliano, dove Riccardo Zandonai trascorre la sua feconda vita agreste, è tutta un sorriso ed un
tripudio di gioia tra i fiori ed il verde del parco che il Maestro cura con meticoloso amore.
Niente indiscrezioni...
Qui non parleremo dell’illustre compositore, né faremo indiscrezioni sulla sua attività artistica
(ai nostri lettori basti sapere in proposito che Riccardo Zandonai lavora attorno ad un’opera di
massa, imponente, che dovrebbe avere per scena le meravigliose vestigia romane messe in luce
nell’Urbe per volontà del Duce; che il il libretto sul tema «Orazi e Curiazi» è di Claudio Guastalla;
che, a quanto afferma lo stesso Maestro, la nuova opera rappresenterà per l’appunto un tentativo per
il teatro di massa13; e che infine Zandonai oltre a questo lavoro sta preparando una graditissima
sorpresa, della quale, non appena possibile, saremo lieti di dar la primizia)14 (182). Questa volta i
lettori si accontentino di conoscere un altro aspetto della vita del Maestro, un lato che non tutti
sanno e per questo quanto mai interessante e cioè la vita agreste, ritiratissima, che il Maestro
conduce lontano dalle rumorose città, lontano dalla vita mondana, sul colle di San Bartolo, fra le
piante e gli animali che tanto ama.
«Ogni pianta apre il suo cuore e canta»
La villa di Zandonai si vede dalla strada nazionale venendo da Cattolica, poco prima di entrare a
Pesaro attraverso il ponte sul Foglia: essa spicca candida fra il verde dell’immenso parco e si scorge
prima di imboccare il ponte, voltando a sinistra sulla strada del Castello Imperiale, magnifica opera
10
Propriamente Terra nativa.
[sic]: ma 1916.
12
Discorso ufficiale pronunciato in occasione del conferimento del Premio Mussolini. Esso in realtà fu scritto da Nicola D'Atri.
11
13
Zandonai seppe poi sottrarsi al dovere di quest'opera celebrativa del regime rinunciando formalmente al progetto anche in
seguito a sopravvenute incomprensioni, con seguito di polemiche epistolari, con Guastalla. Il soggetto sarà quindi musicato da Ennio
Porrino (1941).
14
Potrebbe trattarsi del balletto Biancaneve.
3.2.3/30
di Luciano Laurana. Due mattonelle di ceramica poste sui pilastri ai lati del cancello fanno la
presentazione della villa dove aleggia lo spirito di Giulietta: alcune note musicali e sotto due versi
del Giuliano: «ogni pianta apre il suo cuore e canta».
Ed è proprio così, perché un senso di poesia e di musica vi pervade non appena varcate la soglia
per internarvi nel parco, in mezzo al quale, su una bella spianata, sorge la casa. E sarà opportuno dir
subito che anche questa è un’opera di Zandonai, perché ideatore e ingegnere ne è stato lo stesso
maestro; ed è stato proprio lui a volerla così, a volerne fare un angolo della sua «Giulietta e
Romeo», tutto scalette e veroni, balconi fioriti, arcate e loggette coperte di rampicanti.
È qui, da circa otto anni, che assieme all’eletta compagna della sua vita, la signora Tarquinia, il
maestro Zandonai vive in piena comunione con la natura, in un isolamento fecondo: isolamento cui
non rinuncia che molto a malincuore. Basti dire che quando per ragioni professionali deve lasciare
Pesaro, le sue assenze si riducono al tempo strettamente necessario, sensibilissimo com’è al muto
richiamo della sua villetta.
La “Checca”, le “monachelle”, pavoni e galline
Si dedica con infinita passione alle piante ed agli animali, e la loro cura lo assorbe per parecchie
ore del giorno; è per lui quasi il premio al suo lavoro, e la natura pare ricompensarlo ad usura
ricambiando il suo amore e le sue premure con quella fluida e limpida vena che ha voluto donargli
di cui appaiono doviziose le sue opere.
Il parco grandioso che sale verso il monte è percorso da un viale che ogni anno va arricchendosi
di nuove varietà di fiori e di frutta – ricordiamo quelle squisite che abbiamo gustato gli anni scorsi
assieme al baritono Maugeri ed al tenore Salvati che anche quest’anno non mancheranno
all’appuntamento – e ad ogni svolta il viale dà vita a un angolo caratteristico: prima una veduta
panoramica, poi un originale teatrino con le quinte fatte di piante ben tagliate, poi una cappelletta
dedicata a San Giuliano, che una bimba che il Maestro tiene spesso con sé adorna di immagini
sacre. Infine il viale sbocca in uno spazio donde si gode un vasto orizzonte marino: ed è anche
questa una sorpresa per il visitatore ai cui sguardi il mare si offre improvvisamente; visione tanto
più suggestiva in quanto lo spettacolo meraviglioso vi si apre dinanzi come da un aereo balcone, ad
un centinaio di metri d’altezza.
È in questa quiete che il Maestro si ispira lavora e vive con la sua... arca: parecchie decine di
animali, unici fortunati abitatori del parco e della villa.
La «Checca» domina tutto il parco: è la graziosa somarella che il maestro ha voluto eternare,
portandola sulla scena nella «Farsa amorosa»; sui veroni e sulle loggette è il regno delle
“monachelle”, una graziosa varietà di piccioni che rende ancora più suggestivo il quadro; pavoni,
galline, anatre, pulcini sono i padroni del cortile; i padroni di casa sono invece i gattini d’Angora e i
cani che fanno, si può dire, tanti passi quanti ne fa Zandonai.
Questo è l’ambiente in cui vive il Maestro che alterna le ore di lavoro alla cura del parco e delle
sue amatissime bestie, alle gite, alla caccia. Talvolta, con allegre comitive di artisti, va volentieri al
porto, sulla Via Canale, all’«Osteria del brodetto artistico», da lui stesso così battezzata, per gustare
quelle eccellenti pietanze di pesce in brodetto, arrosto o fritto, che una autentica popolana prepara,
fiera della sua sapienza gastronomica e dell’elogio incondizionato del Maestro.
431
Bruno Barilli, Musica e teatro. Concerto Zandonai, «Il Tempo», [?.7.]1940
Riccardo Zandonai fu allievo, circa quarant’anni fa, del Conservatorio di Pesaro – e scolaro, se
non mi sbaglio, di Pietro Mascagni, il quale forse non ci tiene a confermarlo.
Studioso, modesto, e povero, Zandonai era sostenuto da ogni parte, e per diverse ragioni.
Dunque fu spinto e sostenuto.
Primo: perché era irredento (è nato in quel di Trento, in quell’alto mondo di neve dove all’alba
appare l’aspro e improvviso, il gallo di montagna, ricciuto e intarsiato di colori come un balocco di
legno, dove dondola alla tramontana l’orsacchiotto dell’epoca terziaria.
3.2.3/31
Secondo: in ragione della sua singolare piccolezza: un’origine eccelsa e pura, non vi sembra?
L’ha avuta il nostro Zandonai.
Dopo i tre granatieri della melodia, Puccini, Mascagni e Giordano, egli spuntò all’orizzonte della
lirica italiana come una specie di Tom Pouce, ma senza la vivacità e la petulanza dei nani.
Lo mettevi in piedi su una sedia, e invece di recitarti una graziosa poesia come fa il fanciullo
prodigio, lui ti dirigeva una sinfonia. Ma aveva già ventitre anni.
E, in terzo luogo, fu sostenuto perché era buono e modesto.
Alla vista del bue non si gonfiava come la rana.
Tutti gli volevano bene.
Così fu, che dopo la scuola passò ipso facto al teatro e il suo nome passò dell’albo dei laureandi
compositori al grande cartellone della Scala di Milano.
Se il nostro Zandonai avesse avuto un po’, solo un po’ di musica in corpo, era fatto: il mondo era
suo.
Innalzato sugli scudi Zandonai continuò invece a costituire un caso di insufficienza vitale, a cui
né il tempo né la fortuna non han potuto portare rimedio. E si comportò in modo da farci dubitare
che egli fosse un vero essere umano in carne ed ossa.
Cos’è cosa non è – Zandonai scrive musica, sulla carta. Quando non è più sulla carta questa
musica non è più musica.
Conosce a fondo il suo mestiere – e non è a dire che sia un mestierante – lavora con coscienza.
Ha il suo amor proprio d’artista, ma l’arte non ce l’ha. È scrupoloso al massimo la qual cosa non
significa poi che le sue sian scrupolose porcherie. Insomma è un gran lavoratore che non l’imbrocca
mai. – Buono a fare tutto e bene.
I francesi chiamano queste forze di secondo e terzo ordine: un’utilitée.
Crudo, rudimentale, senza psicologia, né levatura il nostro operista traduce in estasi rassegnata i
sentimenti che non conosce e non prova. Come autore non ha richiamo.
Natura scabra, neutra, senza espressione, terra terra come un frammento geologico, non ostante
le sue ridottissime dimensioni e minuscole proporzioni egli è materiato di gigantismo tonto.
Senza autonomia, o personalità, alcuna, né differenza qualitativa fra lui e le Dolomiti del suo
spettacoloso paese.
Le passioni non lo possono bruciare – la vita non lo consuma. Non può intenerirlo il successo –
né alleggerirlo la fantasia – insomma egli è il contrario, d’ogni volubilità ariosa, amorosa, alata,
palpitante e soprattutto musicale.
Per fortuna essendo vecchio, conservatore e fermo come la rupe, la pietra, egli non fa il
rivoluzionario, né il modernista e non approfitta affatto della confusione e dell’inganno che si è
andato creando intorno a lui, in nome delle idee nuove.
Tetragono, Zandonai tiene la via di mezzo. Anche il pubblico tiene la via di mezzo – ma non è
soddisfatto mai – Purtroppo la sua voce cavernosa e stridente non ha prestigio sui cuori.
D’altra parte è dovere aggiungere che, dati i concorrenti italiani che in quest’epoca si trova ad
avere quest’operista, se la cava benissimo e con grande facilità – meglio lui che un altro, dice la
gente.
Massiccio, duro, pesante, come un aereolito – e dove è caduto rimane. Né lo puoi smuovere più.
Zandonai è caduto nel centro del teatro italiano.
Bisognerà lasciarcelo, o abbandonare il teatro?
Ma aspettate, e trasecolate.
Finalmente ci tocca smentire tutto quel che abbiamo detto fin’ora: Zandonai elettrizzato ha dato
segni palesi di vita – l’umano ha guadagnato la pietra, il respiro e l’animazione hanno invaso la
cariatide.
Fu nel concerto di ier l’altro qui a Roma, che, dopo quarant’anni di prigionia minerale, Zandonai
si spiegò, si sciolse, si staccò dalla sua immobilità di roccia e diresse con spirito, colore e dolcezza
pienamente musicale la grandissima e docile orchestra sinfonica del Teatro Adriano.
432
3.2.3/32
Renato Pompei, Puccini e Zandonai, «Il mondo musicale», 15.7.1945 – p. 2, col. 2-3-4
Nel lieve canto di Liù morente, Giacomo Puccini sembra abbia fuso la poesia di una segreta
mestizia e gli accenti tristi di chi sa di morire, in solitudine, in umiltà, con lo sconforto di un sogno
infranto. Fu, senza dubbio, tragico presagio.
Turandot rimase incompiuta sulla fine del terzo atto, alla scena della morte della piccola schiava.
A quel punto, il vecchio Timur singhiozza ti seguirò nella notte che non ha mattino, e dalla pagina
musicale emana quasi l’annuncio dell’atroce sorte che, poco più tardi, colpisce il maestro lucchese.
Infatti si spense a Bruxelles nel novembre del 1924, in una casa di cura, stroncato da un morbo
orribile.
Con identica fine, circa vent’anni più tardi, veniva a mancare alla Patria, all’Arte – così di
annunciava il laconico avviso funebre – Riccardo Zandonai. Si era al tramonto del 5 giugno
dell’anno scorso, tristo e sanguigno. L’artista trentino scomparve per sempre, vinto da un male
spietato, lasciando abbozzato il terzo atto della sua ultima opera intitolata Il bacio.
Il gelido volo della morte ha coperto così i due musicisti, quasi a consacrare nella tragicità del
comune destino la genuina italianità delle loro creazioni.
Iniziarono la loro carriera per direttrici diverse, fra le insidie di una critica demolitrice, e colsero
il primo successo di pubblico, l’eterno onesto sovrano, Puccini con Manon e Zandonai con
Conchita. Due drammi differenti, due creature del più suggestivo romanticismo: l’una di sensualità
maliarda, e fatale l’altra. Poi, quasi percorrendo insieme la fiorita via dell’ispirazione, il Maestro
lucchese prese a cantare le umili eroine (Mimì, Butterfly, Tosca, Minnie), il Maestro trentino
invece, quasi rapito dal fascino di epoche fastose, di tragiche visioni, di ambienti ferrigni, ha con
preferenza ornato di melodie e calde tinte celeberrimi amori (Melenis, Francesca, Giulietta).
Ma l’estro versatile di Zandonai ha anche trattato trame saporosamente veriste, situazioni
burlesche (Grillo del focolare, Via della finestra, Farsa amorosa) pur rimanendo il linguaggio,
senza banalità, nella cornice della sua indole prevalentemente romantica. Altre composizioni di
Puccini (Le Villi, La Rondine, Gianni Schicchi) sono alquanto aderenti ai tre lavori zandonaiani per
atmosfera, per intreccio di scene e sopratutto per il modo di stilizzare l’eloquio musicale in un tipo
di opera essenzialmente mediterranea. Gli altri soggetti, infine, della prodigiosa attività dei due
musicisti sono tutti animati da quel carattere di universalità e di umanità che è il requisito principale
di ogni opera d’arte.
Mentre Puccini è sostanzialmente animato da ampio respiro melodico e parla con semplicità
palpitante al nostro cuore, ornando di conforto e di dolcezze sogni forse inafferrabili, Zandonai
appare cantore aristocratico, artefice intento a modellare il suo linguaggio melodico come lo
scultore di una Venere che poi ricopre quasi gelosamente con la opulenta capellatura. Ma tanto le
creature pucciniane quanto le zandonaiane parlano appassionatamente e italianamente. I due artisti
non si sono mai abbandonati alla ridda delle tendenze; si sono costantemente ribellati a talune
influenze d’oltr'alpe ed hanno scritto lavori colmi di disegni melodici.
Turandot fu la sfida di Puccini al monopolio moderno di certe composizioni musicali di colore,
di ambienti esotici di marca bastarda.
I Cavalieri di Ekebù furono la nuova parola di Zandonai, il quale affrontando la originale e
strana leggenda nordica riuscì a dare armonie patetiche e pittoriche a tutti i suoi motivi lirici e
drammatici. Turandot e I Cavalieri sono, come soggetto, agli antipodi, ma al loro contenuto
fiabesco i due autori, come presi dal medesimo fervore, affascinati dagli elementi folcloristici e
ambientali, hanno impresso la loro personalità facilmente riconoscibile. E ciò senza incertezze,
anche se talvolta la critica, in ispecie per Zandonai, ha fatto riserve sull’effetto di certe colorazioni
del capolavoro di Selma Lägerloef [sic]. Ma quelle riserve rimangono nel campo dell’angusta
indagine, come quella, per esempio, che una volta non seppe ammettere Puccini alle prese con
situazioni caricaturali o grottesche (tre maschere in Turandot) o con le grandi scene di masse (II
atto medesima opera). Certo è che i due artisti hanno riscaldato, con affine sensibilità, con il sole
della loro terra, i personaggi irreali, le fantasie abbacinanti, i linguaggi di sogno che formano il
contenuto della fiaba del Gozzi e della leggenda di Giosta Berling. Quasi tutto l’ordito musicale è
tessuto con fili esotici, ma ove gli episodi passionali appaiono, allora fioriscono veementi e
3.2.3/33
commoventi le loro espressioni liriche. Nel finale delle due opere, poi, tanto la fragile Liù quanto la
imponente Comandante muoiono in un’atmosfera di alta poesia e di profonda significazione, il
sacrificio del vero amore nell’una e nell’altra l’allegoria della redenzione umana col lavoro.
Intento artistico comune, questo di dare un valore simbolico alle due creazioni, che ancora
meglio avvicina i nostri due grandi musicisti scomparsi.
433
Mario Rinaldi, Come Boito scoprì Zandonai. Il fiuto di Tito Ricordi - Un triste destino - L’inno «La
libertà» su parole di Cesare Battisti - L’ultima sua invocazione fu per l’Italia, «Il Messaggero»,
15.6.1947 – p. 3, col. 5-6-7
Solenni onoranze sono state rese alla salma di Riccardo Zandonai traslata da Pesaro a Rovereto
per essere tumulata nella tomba di famiglia di Borgo Sacco. Alla commovente cerimonia
presenziarono la vedova e la figlia del Maestro e varie personalità del mondo musicale e culturale.
Il Presidente del Consiglio inviò un telegramma di adesione.
Riccardo Zandonai attendeva un simile riconoscimento ufficiale; diremmo anzi che ad esso
aveva diritto. Artista tanto valoroso quanto sincero e modesto, riuscì a toccare stadi molto alti
dell’arte fino a raggiungere l’appassionato canto di Francesca da Rimini e l’impetuosità sinfonica
della «Cavalcata» di Romeo.
***
Siamo alla fine dello scorso secolo. Vittoria Cima, donna fine e intelligente, si rivolge al suo
amico Arrigo Boito per presentargli un giovane compositore. «Ascoltatelo – gli dice – e se lo
credete meritevole, raccomandatelo a Tito Ricordi».
Boito accoglie con gentilezza il giovane, un trentino; lo fa suonare, gli guarda attentamente le
composizioni e gli dice: «Hai dell’ingegno e devi fare la tua strada». Poi prende carta, penna e
calamaio e scrive all’editore milanese: «Caro Tito. Chiedo un quarto d’ora del tuo tempo e della tua
coscienziosa attenzione, per la musica che il signor Zandonai, allievo del Conservatorio di Pesaro,
desidera farti sentire. Mi pare che in quelle composizioni ci sia l’impronta di un’indole
sinceramente musicale. Ti ringrazio per l’accoglienza cortese che gli farai».
Poi, quando il giovane se ne è andato tutto felice con quella lettera che gli aprirà le porte di casa
Ricordi, siede di nuovo alla scrivania e torna a scrivere a Vittoria Cima: «Penso che Tito, se vorrà,
gli potrebbe essere utile; oltre l’influenza che esercita sui teatri egli dispone della forza di una casa
editrice di fama mondiale».
Qualche giorno dopo Riccardo Zandonai riceve l’ordine di musicare Il grillo del focolare.
***
Triste destino quello di Riccardo Zandonai. Nato nel Trentino – precisamente a Sacco nel 1883 –
morì sull’amato Colle San Bartolo sotto la oppressione nazista. Mai un momento la sua fede
patriottica aveva vacillato. Figlio di lavoratori, versato nella musica, volle studiare assiduamente. A
dodici anni già componeva.
Nella prima gioventù aveva rivestito di note un canto dal titolo «La libertà», valendosi di parole
dettate da Cesare Battisti. La facile melodia, il suo schietto colore popolare tramutarono il canto in
un inno patriottico.
Per questo suo atteggiamento nel 1915 venne condannato alla pena capitale insieme al Battisti.
Si rifugiò in Italia, nella sua Italia, ove svolse una vita densa di lavoro. E il pubblico gli voleva bene
e lo acclamava. La sua era una voce sincera.
***
Una delle più belle doti di Riccardo Zandonai fu la semplicità. Lontano da ogni polemica –
l’unica che lo interessò veramente fu quella riguardante l’organizzazione dei teatri lirici –, lontano
dalle città rumorose e dai critici incontentabili, passava intere giornate nel suo ritiro di Sacco prima
e di Pesaro poi a lavorare con tranquillità, capace di rimanere a tavolino per intere giornate.
Non si può dire di “conoscere” Riccardo Zandonai senza avergli parlato, senza averlo trattato in
un qualsiasi momento della sua vita; così non si può dire di “conoscere” la sua musica senza averla
3.2.3/34
prima analizzata a dovere. Poche volte si nota una rispondenza tanto precisa fra artista e la sua
opera. Tutti i momenti erano buoni per “conoscere” il Maestro. la sua tranquillità, la sua serenità lo
rendevano immutabile: sia durante una “prima” esecuzione, sia in un intervallo di concerto, sia in
un periodo di riposo a Villa San Giuliano, sia infine in un viaggio in treno. Era sempre il medesimo:
calmo, riflessivo, buono.
Amava Pesaro perché aveva vivo il ricordo degli anni di studio, quando a capo del Liceo v’era
Pietro Mascagni. Accettò la direzione del Conservatorio di quella città dopo aver rifiutato posti
eccellenti come quelli di Bologna, di Milano, di Roma. Amava Pesaro anche perché, forse, amava
senza riserve Rossini.
***
La voce di Zandonai era dolce come certe sue cadenze melodiche, il suo discorso era colorito
come certi impasti sonori da lui preferiti: per esempio quelli che abbondano nella Primavera in Val
di Sole o nei Quadri di Segantini. Una lieve mestizia lo circondava – il Maestro più che parlare
amava ascoltare – ma quella mestizia nascondeva un acceso amore per la commedia lirica: quello
che lo condusse, attraverso la via tracciata dal Pesarese, alla Farsa amorosa.
Tra i primi assertori e divulgatori della sua opera fu il critico Nicola D’Atri che subito dopo aver
ascoltato la Conchita ebbe la precisa percezione del valore del nuovo compositore. Il D’Atri, con
tutta la sua autorità e competenza, sostenne il musicista trentino dall’epoca della sua rivelazione.
«Se io valgo qualche cosa – asseriva con modestia – lo valgo per la strumentazione»: ma fu
anche un creatore di climi e di ambienti, un appassionato romantico. L’ultima sua opera dal titolo Il
bacio, su libretto di Rossato e di Emidio Mucci, sintetizzava, a detta di quanti ascoltarono le pagine
composte, tutte le sue aspirazioni d’artista.
***
La guerra era oramai giunta anche alla costa adriatica. Zandonai dovette lasciare il
Conservatorio divenuto inattivo e dovette abbandonare il suo amato rifugio, posto tra gli alberi, per
essere accolto, malato, dai padri del Claustro di Mombaroccio. I frati minori per i quali aveva
dimostrato tanto affetto lo accolsero amorevolmente. Malato lo si dovette trasportare all’ospedale di
Trebbiantico.
La notizia della sua morte giunse nel giugno del 1944 (morì precisamente il giorno 5) quando gli
alleati erano alle porte di Roma.
Si spense mentre l’Italia cacciava per sempre dal suo suolo il tedesco invasore. Il padre che lo
assistette gli diede la grande notizia: l’Italia era in gran parte liberata. Gli alleati marciavano
vittoriosi. Zandonai con un supremo sforzo riuscì a sollevarsi e, come poté, esclamò: «Viva
l’Italia!». Poi, affannato, più fiocamente aggiunse ancora: «Quella buona...». Alle 17.50 morì. Gli
alleati non erano lontani dal paese. Il giorno dopo la salma venne trasportata al cimitero di
Mombaroccio. Nel testamento il musicista lascerà scritte le sue ultime volontà: dormire nella nativa
Sacco il sonno eterno.
Che fare oramai più all’amata Villa di San Giuliano? I tedeschi hanno danneggiato tutto, il bosco
è stato quasi raso al suolo, la dinamite ha persino mutato fisionomia alle cose. È passata la guerra.
La salma di Riccardo Zandonai fu vegliata da due frati minori che il compositore aveva istruito
alla musica nel rifugio claustrale: padre Guido della Verna e padre Marabini di Forlì.
In una delle sue ultime lettere, diretta a un discepolo prediletto, egli ringraziava Dio per la libertà
che, da vero profeta, già vedeva «imminente».
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Renato Chiesa, Zandonai: significato di un centenario, «Il mondo della musica» XXI/6, II trimestre
1983 – pp. 5-9 (con un ritratto fotografico di Zandonai a tutta pagina [p. 5], la riproduzione del
manifesto di L. Metlicovitz per Conchita [p. 7], un altro ritratto di Zandonai in una sanguigna di V.
Casetti [p. 8] e la riproduzione del manifesto per la prima di Francesca [p. 9]. L’articolo è inoltre
corredato da due frammenti dell’epistolario Zandonai/Maugeri [p. 8], con un disegno satirico in
calce; e dalla rubrica «Le voci della critica» [p. 9], che raccoglie contributi di G. Bastianelli, V.
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Gui, E. Montale e R. Mariani. Infine, alle pp. 6 e 7 vi è un dettagliato calendario delle principali
manifestazioni progettate nel 1983 per le celebrazioni del centenario)
Nel campo della musica italiana il 1983 è l’anno di Casella e di Zandonai: sono i primi due nomi
che mi vengono alla mente, di caratteristiche e stature diverse, entrambi caduti in un certo oblìo,
soprattutto il compositore trentino, che non ha mai partecipato ad operazioni culturali di livello
europeo o a iniziative promozionali di rinnovamento, ma che è stato, per tutta la vita, in primo
luogo un compositore, a parte la sua presenza sul podio delle più importanti orchestre e la sua guida
intelligente del Conservatorio di Pesaro.
Se c’è un musicista che deve essere riproposto per il Centenario (è il primo della nascita) è
proprio Riccardo Zandonai, del quale un’intera generazione, dal secondo dopoguerra ad oggi, non
sa quasi nulla. E la cosa è molto strana perché Zandonai non è mai stato un uomo di potere,
coinvolto in prima persona nel fascismo come tanti altri, da Mascagni a Malipiero. A parte la
direzione di Pesaro, toccatagli alla fine dopo una vita di lavoro e di autentici riconoscimenti, non mi
risulta che egli abbia mai avuto dei ruolo-guida nella politica culturale del tempo come tanti
mediocri. Ma anche musicalmente i compromessi con l’opera verista o la chiusura autarchica alle
esperienze di rinnovamento europeo non sono stati poi così drastici, e in ogni caso ancora da
studiare e da controllare.
La vicenda critica sull’opera di Zandonai è una delle più povere che si conoscano: non fanno
fede le grandi pagine agiografiche sui quotidiani in occasione delle prime, o le interviste, o certe
posizioni polemiche piene di acredine e di nessuna obiettività. Si tratta per lo più di contributi
isolati, anche apprezzabili, in qualche caso chiarificanti, o di lavori biografico-documentaristici di
importanza storica. Sull’altro versante, quello dell’esecuzione, la perenne crisi dei nostri Enti lirici
è stata fatta pagare al nostro musicista, in modo ingiusto, anche per l’incapacità di tanti ruoli
dirigenti e per lo scarso coraggio nell’affrontare delle opere “diverse” dalla moda corrente, con rare
eccezioni, dell’Ente Arena di Verona ad esempio, che in pochi anni ha proposto Francesca da
Rimini e Giulietta e Romeo.
Per tutte queste ragioni, che potrebbero essere studiate più a fondo, con risvolti sconcertanti,
quanto il Comitato per le celebrazioni del I Centenario della nascita di Zandonai sta facendo, a
Rovereto, non è solo superfluo, ma assolutamente indispensabile, non per scoprire che Zandonai è
il diretto erede di Verdi, ma per collocare una volta per tutte la figura del compositore nella sua
giusta luce. Per quanto gli sforzi fin qui fatti siano stati enormi, come si può osservare dal
programma delle intere manifestazioni, alla fine dell’83, nel migliore dei casi, sarà già moltissimo
se attorno alla figura e all’opera del musicista trentino si sarà fatta un po’ di luce, se qualche suo
lavoro potrà essere stato ascoltato, o direttamente in teatro o attraverso la radio, se il materiale del
ricco convegno di studi, con nomi prestigiosi della critica musicale, potrà essere raccolto in volume
e diffuso in tutte le librerie italiane, per la prima volta in assoluto con un lavoro massiccio di studio
sull’opera e il tempo di Zandonai. Qualunque possa essere il risultato, si tratterà di una grande
conquista. Dovrà essere un punto di partenza, con una base solida finalmente, per approfondire
ulteriormente l’opera del compositore, rendendola al tempo stesso appetibile per l’ascolto nei nostri
teatri, poiché questo è il fine ultimo di ogni sforzo.
L’anno zandonaiano è appena iniziato, il programma è stato tutto definito e appare vario e
affascinante: Francesca da Rimini a Pesaro, Giulietta e Romeo a Verona e Rovereto, i concerti
sinfonici e cameristici, il Convegno, le pubblicazioni, dall’Epistolario a Zandonai immagini, gli
interventi della Rai-Radiotelevisione Italiana, i progetti discografici, soprattutto con i Cavalieri di
Ekebù diretti da Gavazzeni per la Fonit-Cetra.
Se alla fine dell’anno rimarrà solo una parte dell’opera di Zandonai degna di ulteriore studio,
dovrà essere un punto di partenza per il futuro. Illudersi di risolvere il caso-Zandonai in pochi mesi,
dopo decenni di trascuratezza, è per lo meno illusorio. Ma le strutture culturali di Rovereto, dal
Comune all’Accademia degli Agiati, possono essere le promotrici di una formazione stabile, un
Istituto di studi che avrà il compito, nei prossimi anni, di portare a compimento gli sforzi compiuti
in occasione del Centenario.
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C’è ancora tanto lavoro da fare. Si pensi all’immenso epistolario esistente presso la Biblioteca
Civica di Rovereto, che attende, un po’ alla volta, di essere pubblicato e studiato. Zandonai ha
affidato spesso, alle lettere agli amici, i pensieri segreti: sono confessioni dell’anima, o gusto intimo
delle piccole cose, o poesia di affetti. Qualche volta delusione, astio o passione: così come nella
musica, Zandonai non è mai freddo, ma possiede una carica di sentimento e di energia
imprevedibili per chi lo fa un uomo asciutto, distaccato, perennemente montanaro.
Certe costanti del suo carattere, al di là delle soluzioni tecniche che non è qui il caso di trattare,
sono ritrovabili dal Grillo del focolare al Bacio, ma è ancora da studiare questo processo di
evoluzione non regolare, con momenti di esplosione alternati ad altri di stasi o di temporanee
regressioni. Dentro questo cammino creativo il volto di Zandonai sa in ogni caso essere personale:
la linea melodica, non esente da certe inflessioni mascagnane, in un lavoro comparativo risulta
sempre fortemente caratterizzata, le soluzioni armoniche e quelle strumentali non sono mai
generiche, ad un attento ascolto.
Ci sono, in altre parole, i segni di una personalità che offre stimoli per lo studio, che non risulta
mai piatta e anonima, che anche nei difetti ha certe sue connotazioni di rilievo e di distacco dalla
scuola. Non sono che le premesse – quelle a cui accenniamo – che diventano quasi dei segnali per
chi vuole affrontare l’opera di Zandonai. Già ad una prima lettura, sono cose queste che emergono,
e che, al di là di ogni conclusione critica o collocazione storica, possono invogliare. Per lo studioso
onesto, Zandonai potrà avere anche dei limiti, ma non è un compositore che ti annoia, che procede a
rilento, in modo ripetitivo, come avviene per molti altri del suo tempo, tutti presi da quest’ansia
frenetica di melodizzare ad ogni costo la frase, di tendere le voci allo spasimo.
Per il pubblico, quando Zandonai è stato proposto anche di recente (con Francesca, soprattutto),
si è sempre trattato di una gradevole scoperta, di estrema finezza e buon gusto, solo qua e là
intaccata dai mali perenni dell’opera verista, quasi mai alla ricerca dell’effetto fine a se stesso, del
pezzo chiuso di sicuro successo. Un’anima nordica, è stato detto, per rigore costruttivo, immersa
nella vocalità italiana. Si dovranno trovare delle conferme, nel Centenario, anche in questo senso,
senza alcun timore.
Qualunque bufera si possa sollevare, certe pagine di Francesca, di Conchita, di Cavalieri, di
Giulietta, non si toccano: il compito nostro è quello di comprendere meglio questi preziosi frutti
isolati, di creare una trama sullo sfondo, dei nessi chiarificanti fra di loro e con la cultura italiana
del primo Novecento. È ormai tempo di farlo: la paura di questi decenni della nostra storia e della
nostra cultura è scomparsa in molti settori ma resiste ancora nella musica, spesso con una tenacia
ingiustificata. Che questa, almeno per Zandonai, sia la volta buona, per gli ingenui apologeti come
per i cattivi detrattori?
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3.2.3. Sulla figura artistica e umana di Zandonai