Fiaba e geometria
nella messa in scena
di Denis Krief
Foto C.M. Falsini
di clara fiorillo
Un paesaggio di ruderi, come le Terme di Caracalla,
è uno spazio che si accorda bene con i segni puri e
le geometrie impeccabili della scena di Denis Krief.
Quel «fascino metasico-estetico»1 delle rovine, di
cui parlava Georg Simmel, resta, infatti, in perfetto
equilibrio con una scenograa – anch’essa metasicamente sospesa – che genera signicati dalla riduzione e semplicazione delle forme e dei segni2.
Gli elementi scenici con cui il regista-scenografo
costruisce la Città violetta della sua Turandot si contano sulle dita di una mano: una muraglia, una
strada, due carri ed un cilindro. Sarebbe tutto, se essi
non fossero che la punta di un iceberg, perché sotto
il pelo dell’acqua, o dello sguardo, c’è una montagna.
I pochi segni che affiorano sono sostenuti da un gigantesco corpo di studi e di ricerche sull’opera, di
analisi delle sue variazioni, declinazioni e interpretazioni. Nel taccuino del regista ci sono appunti e
note su tutto: sulla settecentesca aba del Gozzi
(1762), sulla rielaborazione poetico-metrica che ne
fece Schiller per la rappresentazione curata da Goethe (1802), sulle riessioni di E. T. A. Hoffmann nelle
Curiose pene di un capocomico (1819), sulle messe in scena di Vachtangov (1922) e di Copeau (1923), sulla Turandot di Busoni (1917),
per approdare, inne, al capolavoro di Puccini. Denis Krief lavora
così: dispiegando sul suo tavolo da lavoro l’intera esistenza dell’opera da rappresentare, con tutte le gure che le hanno dato
corpo, tutte le contraddizioni che l’hanno minata, i punti di vista che
l’hanno inquadrata, le querelle che l’hanno lacerata. Nelle sue regie,
nei suoi allestimenti scenici, Krief fa passare sempre temi e problemi che stanno molto oltre la musica e le parole del libretto:
quando mette in scena un’opera, di essa mette in scena soprattutto
la sua difficoltà di essere al mondo.
La sua Turandot nelle Terme di Caracalla – la sesta versione3 del regista, a partire dal 2000 – ancora una volta si ferma alla morte di
Liù, non per particolare, toscaniniana devozione verso l’ultima nota
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scritta di suo pugno dal Maestro4 , ma perché è convinto che la storia nisca proprio lì, che lo stesso Puccini, in fondo, desiderava che
nisse lì. Krief ama spesso citare le parole del gran cancelliere, del
gran provveditore e del gran cuciniere: «pang: Turandot non esiste!
ping: Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!... pong, pang: Turandot non esiste!»5. Ed è questa, in realtà, la vera prospettiva dalla
quale egli osserva quest’opera. Il suo piano compositivo, sia registico che scenico, si eleva al di sopra della Pechino del tempo delle
favole, degli imperatori, dei principi e delle principesse, dei mandarini e dei sapienti, dei sacerdoti e delle guardie imperiali, puntando soprattutto alla rappresentazione della stessa esistenza.
Nell’Atto I, c’è la vita nella sua forma storica, con la sua corporea, concreta e cruda realtà – con le folle vocianti in tumulto, le teste mozzate, le lacrime, il fuoco e il sangue, le lame scintillanti, alla luce
smorta di una luna dalla “faccia pallida”. Nell’Atto II, invece, essa appare nella sua dimensione puramente mentale e immaginaria –
con le divagazioni sognanti dei tre ministri, il labirinto di simbolismi
aperto dagli enigmi della principessa e la temeraria tensione amorosa del principe ignoto. Nell’Atto III, le due dimensioni dell’essere, la
realtà e l’immaginazione, si fronteggiano, ma la seconda è costretta
ad arretrare, a cedere alla realtà della morte: quando muore Liù, che
è poesia, come ricorda la folla, e cala ciò che Timur chiama la «gran
notte che non ha mattino», anche la gura di Turandot si raggela,
sbiadisce per sempre, sotto l’ampio velo, si perde anch’essa in quell’ombra. La storia nisce qui e non c’è più nulla, per Krief, che si
possa dire, su un piano “losoco” come, soprattutto, drammaturgico. Questa regia non mette in scena, dunque, un pensiero musicale
spezzato dalla morte, ma mette piuttosto in rilievo un nodo drammaturgico decisivo per la stessa identità della Turandot pucciniana.
Nella regia, come nelle scene, Denis Krief scava nella modernità di
Puccini e della sua Turandot, opera che, come fa notare Gerhard,
«non solo è contemporanea a pietre miliari della modernità musicale, ma partecipa anche, in modo assolutamente peculiare, al distacco dalle convenzioni ottocentesche»6. Ed è Mila a ricordare
l’acuta attenzione che ebbe il compositore verso le innovazioni di
Stravinskij e Schönberg: «nel 1913 assisté alla prima del Sacre du
Printemps, che gli parve “roba da matti”, e nel 1924 si metteva in
treno per andare a sentire il Pierrot lunaire di Schönberg»7. Ma non
è solo all’interno della modernità in campo musicale che Krief intende inquadrare la Turandot di Puccini: il regista-scenografo vuol
racchiudere l’opera e il suo autore in un panorama più vasto, che
comprenda anche i contemporanei segni delle avanguardie dei
primi decenni del ‘900, operanti nel campo delle arti plastiche e gurative. Solo così si possono comprendere le sue scelte registiche,
ma soprattutto le sue scene, che creano inedite atmosfere sospese
ed usano la matematica e la geometria per raccontare una aba.
Per scelta deliberata,Krief rinuncia a tutte le forme caratterizzanti e decorative, puntigliosamente indicate nel libretto:intagli di mostri,di liocorni e di fenici, pilastri sul dorso di tartarughe, tendaggi decorati da
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Foto Yasuko Kageyama
fantastiche gure, lanterne variopinte, tripodi e incensi, scaloni di
marmo e archi traforati, stendardi, bandiere, troni d’avorio, divinità di
bronzo e padiglioni con tende ricamate,sacchi,cofani e canestri ricolmi
d’oro e di gemme… Egli preferisce adottare i linguaggi artistici dei
tempi di Puccini, quelli delle avanguardie, e più di ogni altro il costruttivismo e la metasica. È con tecnica costruttivista, infatti, che
Krief traccia sul palcoscenico i conni del mondo di Turandot: taglia
piani, li slitta, li interseca, li ruota o li ribalta.Tutto si consuma – si vive
e si muore – su una “strada”generata da un gesto progettuale che somiglia ad uno strappo:preleva la proiezione, a terra, della muraglia, la
spinge in avanti, verso lo spettatore, poi la ruota, in modo che faccia
quasi da ponte tra il muro e l’orchestra, inne l’inclina e la taglia, rendendola una forma esagonale. È questo il focus di tutta l’azione, non
a caso bianco, che in Oriente è il colore della morte. Poi su questa
“strada” avanzano piccole, essenziali architetture lignee: un cilindro
rosso,spaccato,specico luogo di esistenza scenica di Turandot,e due
parallelepipedi,il “carro-gong”,che si trasforma in teatrino delle bambole, e il “carro-casa”, dimora di Timur, Liù e Calaf. Sono schegge che
provengono da mondi distanti e che si incontrano, per un attimo, sul
palcoscenico:il caldo,naturalistico e quieto carro-casa,con il suo tavolo,
le tre sedie ed il baule, vive accanto al vibrante, immaginico carrogong e teatrino delle bambole, che è solo un frammento della lunga
muraglia, mentre il cilindro rosso rimanda al gusto primonovecentesco e alla sapienza nell’arte delle lacche orientali di Eileen Gray.
A chi osservi i disegni della scena, con quei piani e quei volumi che
si spostano su un impianto geometrico millimetricamente calcolato, può apparire, per un attimo, l’immagine dei proun8 di El Lisitskij, e, riettendoci, la tensione compositiva del celebre costruttivista russo ben si addice al modo di comporre di Denis Krief. Questi
è noto come regista e musicista, cioè come artista, ma non tutti
sanno che ha avuto anche una formazione da matematico e che
ogni suo progetto scenico nasconde, n nelle misure di ogni piccolo
pezzo, una modularità che cerca la bellezza nel numero. Nell’allestimento delle Terme di Caracalla, le dimensioni di ogni elemento
progettato sono un multiplo di 12 (la muraglia è alta 6 metri e lunga
24, i suoi moduli strutturali sono 8, i quadrati che generano le gure
geometriche sul piano di palcoscenico misurano 12x12, e così via),
ma chi avesse la pazienza di analizzare la sua Turandot, portata nel
Teatro di San Carlo di Napoli nel 2008, scoprirebbe che, in quel caso,
lo spettacolo era costruito con tutti i pezzi multipli di 7.
I due elementi fondamentali dell’architettura di scena di Krief sono,
dunque, la strada e il grande parallelepipedo trapezoidale della “muraglia” dall’ossatura lignea, i cui moduli strutturali (ssi e mobili) esibiscono, sul fronte scenico, quale rivestimento, una tta tessitura di
bambù, sia in orizzontale che in verticale. Qui il regista-scenografo
sembra aver seguito con ferma convinzione la lezione brechtiana: «I
materiali devono far buon effetto anche di per se stessi. E senza subire violenza. Non si deve pretendere che “si trasformino”, che il cartone dia l’illusione d’essere tela, il legno ferro e così via. Legname ben
lavorato, corde, cornici metalliche, tela, ecc., se ben disposti possono
produrre effetti di singolare bellezza»9. L’impatto visivo è potente e
delicato allo stesso tempo: si avverte la gravità della massiccia struttura lignea, ma si coglie anche la leggerezza delle canne di bambù,
in una suggestiva e singolare oscillazione tra la memoria delle antiche stampe cinesi, con le canne al vento, e l’istintiva evocazione, in
noi popoli mediterranei, delle fragranti serre mobili degli agrumeti.
In questo impianto scenico, ogni quadro completa il proprio assetto
geometrico con la posizione dei cantanti-attori e del coro, ancora una
volta secondo quei principi brechtiani per cui gli attori costituiscono
«gli accessori scenici più importanti»10 e «lo spiegamento dei raggruppamenti fa parte dello spiegamento scenograco»11. Qui la
struttura trapezoidale, rivestita di bambù, della “città interdetta”, che
nasconde due ampie rampe di scale, accoglie al suo interno i novanta
elementi dell’imponente coro pucciniano, ma, anche in questo caso,
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mente infantili, alla Carrà. Questi elementi di scena, infatti, hanno
il duplice ruolo di estendere la massa di popolo in tumulto, ma anche di evocare gli acerbi tratti infantili di Turandot, principessabambina, per Krief, la cui esistenza non riesce a compiersi, a dispiegarsi. Ecco perché ella non esiste, come dicono Pong e Pang, o
se esiste, sta solo nella mente di Calaf, nel suo desiderio dell’amore.
C’è, inne, una sfera, sulla scena. Non può mancare, nella Turandot,
perché è la luna sotto i cui gelidi raggi si consuma la terribile aba,
ma è anch’essa una cifra gurativa della messa in scena moderna:
Krief la mette tra le mani del mandarino, come un gioco che si ripete, per farla entrare nella serialità di tutte le lune del teatro moFoto Yasuko Kageyama
la gura del coro diventa, nelle mani di Krief, una materia da plasmare, un unico corpo da sagomare nell’architettura di scena.
I moduli della muraglia lasciano scorrere i propri piani di chiusura
(le griglie di bambù) e svelano, di volta in volta, parti discrete o strisce virtualmente innite di volti e corpi del popolo cinese, uniformemente, indistintamente abbigliati come al tempo della Cina postrivoluzionaria. Figure-tipo che si moltiplicano e si rispecchiano,
sulla scena, nei loro modelli silenti, inssi sul piano di palcoscenico,
che Krief ama chiamare “bambole”, ma sono per lui, in realtà, attori
muti o supermarionette alla Craig, o, più semplicemente, metasici manichini senza volto – inquietanti, alla De Chirico, o vaga-
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derno, quella delicata e spettrale della Salomè di Strauss o quella
rossa «come un coltello insanguinato» del Wozzeck di Alban Berg.
Non c’è più spazio, allora, per quelle incertezze drammaturgiche
sull’opera “incompiuta”, che sembrano far risuonare, come un’eco,
le parole di Calaf: «ma il mio mistero è chiuso in me». Le forme elementari e pure, e perciò nuovissime e remote, progettate da Denis
Krief, contengono continui rimandi, allusioni, evocazioni, sono palpitanti di elementi critici, di strati simbolici, di incursioni nella storia delle rappresentazioni di quest’opera: la pienezza espressiva di
un tale tessuto critico, messo in campo da Krief nella sua messa in
scena, è ciò che risolve, in fondo, l’incompiutezza della Turandot.
Foto Yasuko Kageyama
1. G. Simmel, La moda e altri saggi di cultura losoca, trad. it. di Marcello Monaldi, Longanesi, Milano, 1985, p. 113.
2. La scena per la Turandot di Puccini entra nella singolare dimensione estetica di un paesaggio di ruderi e partecipa a quel difficile gioco di costruzione,
basato sulla sottrazione – naturale, nel caso del rudere, articiale, nel caso di
questa scenograa. È come se Krief idealmente ripetesse il processo estetico individuato da Simmel nelle rovine dell’architettura antica, secondo cui
«nelle parti scomparse o distrutte dell’opera d’arte sono ricresciute altre
forze ed altre forme, quelle della natura» (ivi, p. 109), ricreando così una
“nuova totalità”. Nella scena di Krief, tutto ciò che è scomparso dei fasti della
scintillante, dorata Pechino al tempo delle favole, riappare in una forma
asciutta, in una nuova “unità” espressiva, carica di signicati.
3. Nel 2000 Denis Krief ha realizzato il suo primo allestimento della Turandot,
sia di Puccini che di Busoni, presso il Teatro Verdi di Sassari, ricevendo il Premio
Abbiati quale migliore regista. In seguito ha realizzato altre quattro messe in
scena dell’opera pucciniana: nel 2006 al Badisches Staatstheater di Karlsruhe;
nel 2007 sia nel Teatro La Fenice di Venezia che presso la Suntory Hall di Tokyo;
inne, nel 2008, sul palcoscenico del Teatro di San Carlo di Napoli.
4. Così Michele Girardi ricorda il fatidico gesto di deporre la bacchetta compiuto da Arturo Toscanini: «“Qui nisce l’opera perché a questo punto il Maestro è morto”, avrebbe detto Toscanini alla prima assoluta del 1926,
arrestando l’orchestra dopo la morte di Liù» (M. Girardi, Turandot, palingenesi
del melodramma, in G. Puccini, Turandot, Edizioni del Teatro di San Carlo di
Napoli, 2008, p. 58).
5. Desidero avvertire che, nel testo, tutti i riferimenti al libretto di Giuseppe
Adami e Renato Simoni sono fatti consultando l’edizione a cura di Michele
Girardi, con guida musicale all’opera: cfr. M. Girardi (a cura di), Turandot, libretto e guida all’opera, in G. Puccini, Turandot, Edizioni del Teatro La Fenice
di Venezia, 2007, pp. 47-105.
6. A. Gerhard, Una aba cinese per il “cervello moderno”. Versi tronchi e profumi
misteriosi in un’opera novecentesca, trad. it. di Maria Giovanna Miggiani, in
G. Puccini, Turandot, Edizioni del Teatro La Fenice cit., p. 16.
7. M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 2001, pp. 291-292.
8. Questo termine, proun, in verità poco frequentato, se non dagli architetti, fu
inventato dallo stesso Lisitskij per indicare una nuova forma progettuale: i
suoi proun erano composizioni di volumi e superci nello spazio, capaci di suscitare nuove idee di stasi e di movimento. Il termine russo proun si decifra
come proekt utverzhdenie novogo, letteralmente “progetto di conferma del
nuovo” (traslit. e trad. it. di Giovanna Moracci). Volendo illustrare il concetto
con le stesse parole di Lisitskij, occorre citare un suo scritto del 1920: il proun
«si muove da una stazione all’altra sulla catena della perfezione» (E. Lisitskij,
Proun, trad. it. di Alberto Scarponi, in S. Lisitskij-Küppers [a cura di], El Lisitskij,
trad. it. di Piero Leone e Alberto Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 339).
Più avanti si legge: il proun «cammina verso la costruzione dello spazio, lo articola attraverso gli elementi di tutte le dimensioni e costruisce una nuova
multilaterale, ma organica forma della nostra natura» (ibidem).
9. B. Brecht, Scenograa della drammaturgia non aristotelica, trad. it. di Carlo
Pinelli, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942),
trad. it. di Carlo Pinelli, Emilio Castellani, Renata Mertens, Roberto Fertonani,
Mario Carpitella, Paolo Chiarini, Einaudi, Torino, 1975, pp. 237-238.
10. Ivi, p. 234.
11. Ivi, p. 235.
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Note sull`allestimento