Appunti da Bernard Pautrat: Ethica sexualis. Spinoza et l’amour, (Payot, Paris 2011, pp. 269). (per i partecipanti al corso di STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA E CONTEMPORANEA, A.A. 2012-2013. «…per attingere la verità di ciò che diciamo il nostro bene e la nostra pace, non abbiamo altro principio che ricercare il nostro utile, il che è connaturato a tutte le cose. Giacché, però, sperimentiamo che nella ricerca della sensualità, della voluttà e delle altre cose mondane è riposta non la nostra felicità, ma la nostra rovina, noi dunque scegliamo l’intelletto come guida. Ma non potendo l’intelletto progredire sena esser prima giunto alla conoscenza e all’amore di Dio, è dunque assolutamente necessario cercare anzitutto Dio e… dopo averlo riconosciuto come il migliore di tutti i beni siamo obbligati ad arrestarci e riposare in lui, al di fuori del quale nulla può darci la salvezza: la nostra vera libertà è che noi siamo e rimaniamo incatenati dalle amabili catene del suo amore. Spinoza, Breve Trattato, cap. 26: La vera libertà. Percioche, come dice S. Basilio: Voluptas est veluti quidam hamus diaboli ad perniciem nos trahens. Il piacere è come un certo hamo del diauolo, col quale ci tira alla perditione. P. Giustinelli, Trionfo della Castità contro il vitio dell’Incontinenza (1610), p. 3. 1. Nel proporre come Supplemento al IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione la sua «Metafisica dell’amore sessuale», Schopenhauer lamentava che un fenomeno, la cui incidenza nella vita umana riveste tale importanza, non fosse stato affrontato con la dovuta attenzione dai filosofi. L’unico ad averne trattato più distesamente restava, ai suoi occhi, Platone che però s’era rifugiato nell’ambito del mito, della favola, dello scherzo e non s’era occupato, in fondo, se non della sola pederastia. Il rimprovero mosso a Rousseau – di cui Schopenhauer stranamente non prende in considerazione né il IV e V libro dell’Emile, né le Confessioni – era di averne trattato nel Discours sur l’inegalité in modo «errato e insufficiente». Criticato anche il juscorporalismo di Kant in tema d’amore e l’insulsaggine al riguardo dell’antropologia di Platner, toccava a Spinoza l’«onore» di una citazione, in quanto la sua definizione dell’amore, scriveva Schopenhauer, «merita di essere riportata, al fine di rasserenare»: «Amor est titillatio, concomitante idea causae externae». 1 Il commento del «metafisico dell’amore sessuale», intenzionato a svelare la cieca e ineluttabile «volontà di vivere» all’opera nell’istinto che nelle coscienze individuali si manifesta come pulsione sessuale, non poteva essere che un’ironica: sancta simplicitas! 1 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989, p. 1432. La citazione schopenhaueriana è tratta dalla dimostrazione di E IV 44: «Amor est laetitia (per Def. 6 Aff) concomitante idea causae externae. Titillatio igitur (per Schol E III 11) concomitante idea causae externae Amor est, atque adeo Amor (per prop. praec.) excessum habere potest. Ma davvero, come vuole Schopenhauer, Spinoza pecca di «eccessiva ingenuità» in materia d’amore e di sesso? Il contributo di Bernard Pautrat, Ethica sexualis. Spinoza et l’amour (Paris, Payot, 2011, pp. 269, 18 €) è scritto per farci cambiare idea al riguardo. Anche perché, vista la rilevanza che la problematica erotico-sessuale assume da sempre nella vita umana, una filosofia che, come quella spinoziana, si presenta espicitamente come un’Ethica, rivelerebbe un’imperdonabile lacuna qualora tacesse a proposito di come possiamo vivere la nostra sessualità. Le etiche classiche – platonismo, cinismo, stoicismo, epicureismo, cristianesimo…– hanno ognuna offerto le loro divergenti risposte a chi le interroga su come vivere la propria vita sessuale. Se, per fugare i dolori e le cure legati inevitabilmente all’amore, Lucrezio consigliava agli uomini di «astenersi dalle pasture d’amore, volgere ad altro la mente, e scaricare in un corpo qualsiasi il seme adunato», la theologia moralis cristiana, sintetizzata da Tommaso, proponeva una precisa teoria dell’atto carnale ed entro i limiti dell’istituzione matrimoniale benedetta dalla Chiesa di Roma tracciava l’ambito in cui esso poteva e doveva legittimamente esercitarsi.2 Un’etica così imponente e rigorosa come l’Ethica spinoziana cosa ci dice a proposito della vita sessuale? E, dal momento che questa dottrina deve il suo rigore alla sua forma geometrico-dimostrativa, esistono nell’Ethica teoremi che stabiliscono la giusta norma di vita quanto al sesso? Sono queste le domande da cui muove la ricerca puntigliosa e, per più versi, appassionante di Pautrat che constata da subito che se «nel prodigioso trattato spinoziano il sesso è assolutamente discreto», discrezione non vuol dire necessariamente assenza o indifferenza. La discrezione può infatti significare talora un’estrema insistenza, oppure dissimulazione. L’opinione di Pautrat è che nell’Etica «le sexe est bien là, [… ] mais caché». Non così nascosto, tuttavia, da non poter essere rintracciato. Semmai ad aver sorvolato nelle Passioni dell’anima sull’amore sessuale è Descartes: Spinoza sia pure con grande stringatezza e con una crudezza inconsueta per il suo tempo lo affronta invece in modo esplicito. Il libro di Pautrat non affronta certo un campo inesplorato. Un maestro autorevole negli studi spinoziani come Alexandre Matheron3 aveva già ricostituito passo dopo passo la dottrina spinoziana della sessualità e della buona vita sessuale rintracciabile, per così dire, en creux nel sistema. Pautrat ripercorre di fatto le stesse proposizioni già considerate già da Matheron per pervenire, tuttavia, a conclusioni sensibilmente diverse. Benché condivida pienamente l’intento di liberare Spinoza – l’uomo al pari della sua dottrina – dal sospetto di puritanesimo che biografi e commentatori hanno fatto aleggiare sul suo conto, sospetto che l’apparente silenzio osservato nell’Etica confermerebbe, Pautrat si distacca da Matheron al momento di formulare un giudizio d’insieme sulla sorte che Spinoza ha riservato alla sessualità nella sua dottrina. Per Matheron, infatti, nel sistema spinoziano si dà chiaramente la possibilità di una vita sessuale soddisfacente e buona. Concludeva pertanto il suo saggio affermando:«…se c’è stata in Spinoza miseria sessuale, quanto meno egli la visse con discrezione, come un inconveniente inevitabile dovuto a circostanze di fatto, senza valorizzarla teoricamente, né cercare di imporla agli altri». La convinzione di Pautrat, pur non spingendosi a capovolgere le conclusioni di Matheron – «Spinoza non ha vissuto nella 2 F. Alfieri, Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità (secoli XVI-XVII), Il Mulino, Bologna 2010, con ampia bibliografia. 3 A. Matheron, «Spinoza et la sexualité», in Giornale Critico della Filosofia Italiana, 1977. Lo si può leggere ripubblicato nella raccolta di saggi Anthropologie et politique au XVIIesiècle, Etudes sur Spinoza, Vrin, Paris 1986, pp. 209-230.Lo si può leggere ripubblicato nella raccolta di saggi Anthropologie et politique au XVIIesiècle, Etudes sur Spinoza, Vrin, Paris 1986, pp. 209-230. miseria sessuale, ma l’ha valorizzata teoricamente e ha cercato di imporla agli altri» – è che invece, in termini di sistema, se per Spinoza una vita sessualmente buona è teoricamente possibile, essa è comunque così difficile e rara che, in fin dei conti, il partito migliore sarebbe quello di riuscire a farne a meno. Anche se allora, bisognerebbe ricordare a Pautrat, che del resto, lo sa benissimo che ardua e difficile per Spinoza è anche l’accesso alla sapientia, ma Spinoza non ci consiglia come partito migliore di farne a meno. Una stranezza nell’Appendice alla parte IV dell’Etica. Pautrat parte da un dettaglio, che colpisce per la sua singolarità. Nella IV parte dell’E., Spinoza, dopo aver spiegato l’impotenza umana indicandone analiticamente le cause (la serie di proposizioni da E IV 1 fino a E IV 18) espone more geometrico, ossia dimostra, ciò che chiama la recta vivendi ratio, le regole di una giusta condotta di vita. Ciò fatto aggiunge a questa parte un’Appendice che introduce con queste parole: «Gli elementi che ho fornito in questa parte de recta vivendi ratione (a proposito della retta norma del vivere o, come traduce Cristofolini, sulle corrette norme di vita) non sono disposti in modo tale da poter esser colti in un solo sguardo d’insieme; ma sono stati da me dimostrati in ordine sparso, a seconda cioè di come più facilmente potessi dedurli l’uno dall’altro. Mi sono dunque proposto di raccoglierli e di riassumerli qui per sommi capi». L’appendice in questione si presenta dunque come un riassunto delle verità acquisite nelle proposizioni che vanno da E IV 19 a E IV 73. Riassunto molto utile e, in un certo senso, essenziale alla strategia terapeutica dell’Ethica – vera realizzazione dell’incompiuto De intellectus emendatione – poiché il suo carattere di semplificazione sinottica ne permetterà la memorizzazione, fondamentale per gli «esercizi mentali» – diciamo anche «esercizi spirituali» che S. descrive nello scolio di E V 10: «Dunque la miglior cosa che possiamo fare, fino a quando non abbiamo una perfetta conoscenza dei nostri moti dell’animo, è di concepire rectam vivendi rationem (una corretta regola di vita) ossia dei sicur iprincipi di vita, impararli a memoria e applicarli continuamente alle singole circostanze che nella vita si presentano di frequente, così che la nostra immaginazione ne sia ampiamente presa e siano sempre a nostra disposizione (et nobis in promptu sint semper)» [Cr 357]. Si vede qui tutta l’importanza di un simile vade-mecum. E l’appendice, per la sua gran parte, è fedele all’intenzione di S.: semplifica e riassume, ed è anche sufficientemente breve perché si possa sperare di impararla un giorno a memoria per farla servire a ciò a cui è destinata. Così, per es., ci si potrà imprimere in mente il capitolo XI: Animi tamen non armis, sed Amore, et Generositate vincuntur (Gli animi tuttavia non si conquistano con le armi, ma con l’amore e la generosità), che riprende e riassume E IV 46 – «Chi vive sotto la guida della ragione tende, per quanto può, a ricompensare con l’amore, ossia con la generosità, l’odio, l’ira, il disprezzo, ecc. di altri verso di sé.» e nb. lo scolio: «Chi si vuole vendicare delle offese con l’odio reciproco, vive davvero miseramente».[287] così da procedere a quegli esercizi di simulazione immaginaria descritti con precisione nello Sch. di E V 10. Benissimo, ma allora due capitoli in questa appendice sorprendono: i capitoli 19 e 20. Il primo tratta dell’amor meretricius, che Cristofolini traduce con ‘amore dissoluto’ e Pautrat, a partire dal contenuto del capitolo in questione, traduce con ‘amore sessuale’, sottolineando che non dobbiamo stupirci se nel latino di Spinoza non troviamo amor sexualis: la latinità classica usava assai poco questo aggettivo e quando lo faceva intendeva qualificare una cosa relativa al solo sesso femminile. Il primo motivo di sorpresa è che di questa faccenda, l’amor meretricius, S. finora non ha parlato esplicitamente. È vero: la meretrix ha fatto la sua comparsa due volte nella parte IV. Dapprima nello scolio della prop. 44 in cui si enuncia che «L’amore e il desiderio possono avere eccesso». La meretrix vi è evocata là, dove si parla di coloro che «non sembrano vaneggiare meno, per cui eccitano di solito il riso, quelli che ardono d’amore e che notte e giorno non fanno che sognare l’amante, o una prostituta (amasiam vel meretricem somniant)». Sono così presentati due tipi di oggetti d’amore o di desiderio sessuale, l’amata e la cortigiana; due casi di amore o di desiderio eccessivo, due deliri, due ossessioni, dice Spinoza. Se esiste dunque qualcosa come un amor meretricius bisogna cercarlo in quei paraggi. Ma cos’è una meretrix? Una cortigiana, una prostituta, una donna che eventualmente fa commercio del fascino del suo corpo. La seconda comparsa nella IV parte dell’E. della meretrix conferma questo ambiente, anche se non si paga la meretrix ma a pagare, a fare dei doni è lei. È ciò che si dice nello sch. della pr. 71 che, riassumendo le acquisizioni delle propp. 70 e 71, tratta della riconoscenza. (E IV 70: Un uomo libero che vive tra gli ignoranti cerca di scansare quanto può i loro favori. E IV 71 Solo gli uomini liberi hanno fra di loro la massima gratitudine). In questo scolio S. si interroga sulla ingratitudine «che non è un moto dell’animo… e che tuttavia è una cosa indegna in quanto rivela per lo più un uomo in preda all’odio, all’ira, all’avarizia.» E prosegue: «Chi infatti non sa, per stoltezza, ricambiare i doni non è un ingrato, e molto meno lo è chi non si lascia indurre dai doni di una donna dissoluta (meretricis) a soddisfare la sua sensualità [ut ipsius libidini inserviat] o da quelli di un ladro perché copra i suoi furti. Perché al contrario, è mostrare di avere un animo coerente non sopportare di farsi corrompere e condurre a rovina, la sua e quella di tutti, da doni di qualunque genere». Si tratta dunque di non lasciarsi comprare dai doni della cortigiana, destinati a metterci al servizio della sua libido, che potrebbe portarci alla rovina (pernicies, un termine forte). Se tale è la meretrice, il sapiens non si lascerà incantare dai suoi doni, né dai suoi favori. Questa duplice apparizione della meretrix fa insomma apparire una strana coppia: il maschio e la meretrice. Nel primo caso l’uomo non fa che sognare la donna e delira per amor suo; nell’altro caso fa bene a stare alla larga dalla invadente libido di questa donna, rifiutandone anche i doni. O forse piuttosto, fa bene a non restituire i doni ricevuti, foss’anche correndo il rischio di apparire ingrato. Ci sono in qualche modo così offerti degli elementi per farci un concetto dell’amor meretricius, tuttavia la definizione che ne viene data non molto dopo nel cap. 19 dell’Appendice si allontana sensibilmente da questi preconcetti: «L’amor meretricius [l’amore dissoluto/ l’amore sessuale], ossia la libdido, l’impulso sensuale a generare originato dalle forme corporee, e in senso assoluto ogni amore che riconosce una causa diversa dalla libertà d’animo, si trasforma facilmente in odio a meno che, ed è ancor peggio, non sia una specie di delirio, e allora è alimentato più dalla discordia che dalla concordia.» Ora sappiamo dal cap. XIV che è bene «impegnarsi in ciò che serve a conciliare la concordia e l’amicizia». L’amor meretricius così definito è dunque da evitare: è questo il dettame della retta ragione di vita. Si tratta dunque di un amore che è libido generandi (dei figli, si suppone) e che nasce da qualcosa di diverso dalla libertas animi. È qui che si comincia a vedere l’Appendice eccedere lievemente il suo concetto: noi conosciamo, è vero, cos’è la libidom che S. aveva definito nella III parte: Libido est etiam Cupiditas & Amor in commiscendis corporibus», ma la questione della generazione non è mai stata affrontata, come non è stato finora affrontato il tema della forma (delle forme corporee) nel suo rapporto con l’amore. Noi sappiamo certo che la bellezza non è che un modo dell’immaginazione (App. di E. I) ma non è mai stato indagato il rapporto tra la forma, che si suppone bella, o seducente, e il desiderio non solo di unirsi a un corpo bello, ma anche di generare. Vi è dunque un oltrepassamento, un eccesso su ciò che l’appendice intende ricapitolare. Ciò si evidenzia ancor più nel cap. XX dove Spinoza ci dice: «Per quanto concerne il matrimonio, è certo che esso si accorda con la ragione, se il desiderio dell’accoppiamento non sia provocato soltanto dall’avvenenza delle forme, ma anche dall’amore di procreare figli e di educarli con sapienza; e inoltre se l’amore di entrambi, ossia dell’uomo e della donna, abbia come motivo non solo la formosità, ma soprattutto la libertà dell’animo.» Questa irruzione del matrimonio in un’opera così strettamente sorvegliata dal suo autore, non può mancare di sorprendere perché del matrimonio non si è mai parlato da nessuna parte in ciò che precede. Una stranezza nella definizione 48 della Parte III dell’Etica. La definizione spinoziana della libido – Libido est etiam Cupiditas, et Amor in commiscendis corporibus [Cr. 231: «La sensualità è anch’essa desiderio e amore dell’accoppiamento fisico» – fa parte di un quintetto di moti dell’animo formato da ambitio, luxuria, ebrietas e avaritia. Ma, a differenza delle cupiditates, dei desideri che la precedono non ha bisogno, per così dire, di essere qualificata come smodata o eccessiva, quasi lo fosse già di per sé. È ciò che conferma del resto la spiegazione che Spinoza aggiunge alla definizione: «Sive haec coëundi Cupiditas moderata sit, sive non sit, Libido appellari solet. (Questo desiderio del rapporto sessuale, sia moderato o no, si chiama di solito libido, sensualità). Ultima del quintetto, la sensualità va distinta da altri desideri che, se moderati, non sono dei vizi. L’uomo che vive sotto la guida della ragione può infatti mangiare senza essere ingordo, bere senza essere un alcolista, ricercare la gloria senza essere ambizioso. Nelle definizioni di ambitio, luxuria, ebrietas e avaritia la definizione stessa – rispettivamente «sfrenato desiderio di onori», «sfrenato desiderio o anche amore della convivialità», «sfrenato desiderio e amore del bere», «sfrenato desiderio e amore delle ricchezze» – il moto dell’animo è facilmente «salvato» dalla ragione. Dirlo «sfrenato» è già offrirlo alla sua presa che non farà altro che moderarlo per ragioni precise e secondo precise regole. La libido invece sfugge necessariamente a questa presa, dal momento che non esiste un altro affetto, come la fame per la luxuria e la sete per l’ebrietas che permette di distinguerla come eccesso: moderata oppure no, la sensualità resta sempre sensualità. Di qui la difficoltà che si prova a trovare una eventuale «sensualità buona»: il sesso moderato, che sarebbe la sensualità buona, resta sempre sensualità, ovvero eccessivo perché moderato o immoderato sono per un certo aspetto la stessa cosa. Un occhio sospettoso potrebbe scorgere in questa definizione la presenza nascosta di una buona dose di ‘moralina’ implicando la definizione una pura condanna dogmatica di tutta la sfera della sessualità. Spinoza ha però cura di avvertire che questi cinque modi dell’animo, tra cui rientra la sensualità, non hanno dei contrari, anche se possono vedersi moderati da potenze della mente – che dunque non sono dunque passioni dell’animo – come la discrezione, la temperanza, la sobrietà, la castità. Al che conviene aggiungere anche un passo dello scolio alla proposizione 59 della III parte [Cr.213] in cui S. definisce la forza d’animo, fortitudo (Cr. traduce non del tutto felicemente come ‘fortezza’, distinguendola in fermezza e generosità. Nella forza d’animo è implicita anche la castità, una specie di fermezza ovvero un desiderio con cui ognuno si sforza di conservare il suo essere sotto la sola guida della ragione, mirando unicamente all’utilità individuale. Questi brevi passi sono gli unici che Spinoza consacra esplicitamente all’etica sessuale e da essi si può trarre la seguente conclusione paradossale: la sensualità, sia moderata o meno, è sempre sensualità: conviene ch’essa sia moderata e lo è da un potenza della mente chiamata castità che è un moto dell’animo nato dalla ragione e che, essendo una specie di fermezza, mira unicamente all’utilità dell’agente, vale a dire dell’essere umano sensuale. A questo punto si presentano diverse questioni: al di là di quale limite l’amor in commiscendis corporibus cessa di essere moderato e può essere detto smodato, eccessivo? chi stabilisce la giusta misura? come? come può la mente – idea del corpo – esercitare un suo potere moderatore? e da dove ricaverebbe tale potere? E all’orizzonte si profila di nuovo la questione: qual è la sessualità dell’uomo o della donna «che vive sotto la guida della ragione» e come perviene a sbrigarsela con il suo desiderio di avere soddisfacenti rapporti sessuali? Il matrimonio, nelle condizioni che Spinoza pone e che riconducono tutte alla libertas animi, alla potenza della mente che è l’intelligenza, è la soluzione razionale al problema? Spinoza indica la stessa soluzione propugnata da Paolo nella sua prima epistola ai Corinzi «Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere», [I Cor. 7, 8-9]. Se fosse così le considerazioni dei capp. 19 e 20 dell’appendice alla IV parte si ritroverebbero ampiamente giustificate a figurare, per es., nello scolio di E III 59 (Cr. 213), ma non vi sono citate per nulla. Dunque la sola strada che ci resta per rispondere a tutte le nostre domande, a cui Spinoza si è astenuto dal fornire more geometrico le risposte che si impongono, è di fare quel lavoro al suo posto e di rendere esplicito ciò che deve trovarsi implicitamente e, in primo luogo, una dottrina dell’atto sessuale, del coito. Se la castità deve intervenire a moderare la libido, la sensualità, e se la sensualiltà è essenzialmente desiderio di avere rapporti sessuali è impossibile comprendere qualcosa in questa successione di azioni e passioni se non si afferra il primo anello della catena: il coito. Ora, se la strada della sapienza non è altro che comprendere, come ci sarà dimostrato nelle prime 20 proposizioni della V parte, siamo costretti ad addentrarci nell’attributo divino dell’estensione e chiederci: cos’è avere dei rapporti sessuali? come si mescolano i corpi? Avremo poi sempre tempo di ritornare alla mente e di parlare d’amore. Tuttavia, prima di arrivare a questa teoria dell’atto sessuale, Pautrat ci fa notare un’ulteriore ‘stranezza’ contenuta questa volta in E V 42. Abbiamo già letto che la castità ha quale compito o come effetto il moderare la libido, la nostra sensualità. L’uomo che vive sotto la guida della ragione deve essere intelligente anche nel modo in cui vive la sua sessualità, essendo padrone della sua libido con qualche procedura di cui noi ignoriamo ancora in cosa consiste, ma di cui sappiamo già che non potrà far altro che basarsi su idee adeguate, ovvero sulla verità. In quanto potenza dell’animo o della mente, la castità nasce necessariamente dalla ragione ed è alimentata dalla ragione ed è sicuramente una delle forme che deve prendere in noi la potenza del vero. La castità dipende dal pieno esercizio della ragione ovvero da quello che S. chiama il secondo genere di conoscenza. E, in generale, si può dire che tutto ciò che concerne la rectam vivendi rationem, la giusta norma di vita, non ha bisogno che della ragione per trovare il suo fondamento. È ciò che sottolinea S. in E V 41[Cr 363]: «Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, terremo comunque al primo posto la moralità e la religione e, in senso assoluto, tutte le cose che nella IV parte abbiamo mostrato riferirsi alla fermezza e alla generosità». E nella dimostrazione precisa: «…Ma per determinare quali siano le cose che secondo il dettato della ragione sono utili, non abbiamo tenuto alcun conto dell’eternità della mente, che conosciamo infine in questa V parte.» In effetti è solo a partire dalla proposiz. 21 della V parte che Spinoza, avendo concluso l’esposizione dimostrativa di ciò che la mente può sui moti dell’animo, passa a trattare delle «cose che attengono alla durata della mente senza relazione all’esistenza del corpo» [Cr. 347], dimostra in E V 23 l’eternità della mente e sviluppa infine nelle proposizioni successive la sua dottrina del terzo genere di conoscenza. Ciò equivale a dire che tutto ciò che concerne la condotta della vita si fonda solamente sul secondo genere di conoscenza e su di esso soltanto, in quanto finora Spinoza si è solo limitato ad evocare in molto molto ellittico e oscuro il terzo genere di conoscenza e bisognerà aspettare la svolta di E V 22 per accedere a una nozione più precisa della conoscenza di terzo genere. A Pautrat interessa ricavare da E V 41 il fatto che la castità, essendo una specie di fortitudo, di forza d’animo appartiene di pieno diritto all’oggetto di cui si occupa tale teorema e non ha bisogno del terzo genere di conoscenza per costituirsi e produrre i suoi effetti. La castità va dunque collocata tra i rimedi delle passioni (in questo caso, della libido) il cui esame è stato da Spinoza definitivamente chiuso nello scolio di E V 20. È evidente per ogni lettore attento dell’Etica, infatti, che a partire da E V 21 e dalla catena dimostrativa che ad essa si connette, si cambia per così dire d’elemento. Da una parte, a partire da E V 24 [Cr 349] – «Quanto più comprendiamo le cose singole, tanto più comprendiamo Dio» – la considerazione delle res singulares ci indica che non si tratta più della ragione, la quale comprende sempre le proprietà comuni delle cose, ma di un altro genere di conoscenza, che non può essere il primo (perché l’immaginazione non ‘comprende’), né il secondo (per il motivo detto): resta dunque solo il terzo genere ed esso soltanto. Ed in effetti è al terzo genere di conoscenza che sono in maggioranza dedicate le proposizioni seguenti, sino a produrre dimostrativamente il moto dell’animo chiamato amor Dei intellectualis che è una gioia che «nasce dal terzo genere di conoscenza» come afferma esplicitamente E V 33 proclamandone il carattere eterno [Cr 355]. Durante tutta questa traversata noi non ci imbattiamo praticamente mai nelle varie emozioni/moti dell’animo incontrati nella III e IV parte. Ed è perfettamente logico, come ci fa notare E V 34 [Cr 355] «Soltanto finché dura il corpo, la mente è attraversata da moti dell’animo che si riferiscono a passioni» (cioè a tutte le emozioni che sono state l’oggetto della III e IV parte). A partire da E V 21 non abbiamo più a che fare con una mente in relazione al suo corpo attualmente esistente nella temporalità, nella durata, bensì di un nuovo rapporto della mente che si riferisce, e vedremo come, all’essenza eterna del corpo. E l’effetto del terzo genere di conoscenza (quanto meno dell’idea che ce ne facciamo sul momento) non è quello di correggere le emozioni nocive, cattive, ma piuttosto quello di produrre quella gioia eterna che S. chiama amore intellettuale di Dio. E tuttavia E V 38 [Cr 359] ci farà ricredere su questo punto perché afferma: «Quante più cose la mente comprende con il secondo e il terzo genere di conoscenza, tanto meno è passiva rispetto a moti dell’animo che sono cattivi, e meno teme la morte». Il fondo dell’argomentazione spinoziana è questo: più la mente conosce delle cose, il che fa con il secondo genere con cui si accerta delle proprietà delle cose, e con il terzo genere con cui conosce l’essenza delle cose singole, più dunque è occupata dal vero, che è eterno, più grande è in essa la parte eterna e minore la parte peritura, cioè la parte della mente che si rapporta all’esistenza nel tempo del corpo e che si limita a immaginare. Ora la parte eterna è indistruttibile, poiché é eterna. In compenso la parte peritura è destinata a essere distrutta ovvero a essere attaccata da moti dell’animo contrari alla sua natura, e quindi nocivi, cattivi. E, dunque, più la parte eterna della mente si afferma sulla sua parte peritura, meno la mente, presa nel suo insieme, patisce emozioni nocive. E S. ritorna allora su di un moto dell’animo che ha già incontrato sulla sua strada, in E IV 67: la paura della morte. In essa vi si diceva: «L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte; la sua sapienza non è meditazione della morte, ma della vita». La dimostrazione proseguiva: «L’uomo libero, ossia colui che vive sotto i soli dettami della ragione, non è guidato dalla paura della morte… ma desidera direttamente il bene…desidera agire, vivere, conservare il proprio essere sulla base della ricerca del proprio utile, e dunque a nulla pensa meno che alla morte, ma la sua sapienza vitae est meditatio, è meditazione sulla vita», [Cr 307]. Ora, ciò che ci propone E V 38 [Cr 359] è il mezzo per pervenire alla condizione dell’uomo libero: oltrepassare il piano delle idee inadeguate fornite dall’immaginazione per conoscere con il 2° e 3° genere di conoscenza. Ciò che la ragione ha cominciato a fare, la scienza intuitiva lo intensifica, accrescendo la parte eterna della mente in modo tale che la parte della mente che perisce insieme con il corpo sia insignificate rispetto a ciò che resta di essa ossia, come leggiamo nella tr. it. di E V 38 sch.[Cr. 361] «la mente umana può essere di natura tale per cui ciò che di lei abbiamo mostrato morire con il corpo […] può non avere alcuna importanza rispetto a ciò che di lei rimane». Non è sorprendente che il moto dell’animo chiamato paura della morte – che si potrebbe chiamare meglio disperazione della morte visto che la fine della nostra vita è cosa assolutamente indubitabile – sia riesaminato qui, avendo chiaramente a che vedere con la questione dell’eternità della mente e dunque anche con la questione della mortalità. È evidente che la paura della morte è sicuramente il moto dell’animo più triste perché la morte costituisce la contraddizione massima per ogni conatus che è precisamente lo sforzo di perserverare indefinitamente nel proprio essere. Ma si assiste anche, e questa volta con sorpresa, al ripresentari di un altro moto dell’animo, molto più inatteso: la libido. È una riemersione discreta: comincia con lo scolio di EV 41 già citato. In esso è ribadita la validità delle conquiste della parte IV: tutte le prescrizioni della ragione possono ricondursi alla fermezza e alla generosità e valgono sia che si giunga a comprendere o meno E V 22 relativa all’eternità della mente. Spinoza osserva: [Cr 362/363] «Communis vulgi persuasio alia videtur esse. Le convinzioni comuni del volgo paiono diverse. I più infatti sembrano credere di essere liberi nella misura in cui possono obbedire ai loro istinti ((libidini parere), e di perdere qualcosa dei loro diritti allorché sono tenuti a vivere secondo i dettami della legge divina. Credono dunque che la moralità e la religione, e in senso assoluto tutte le cose che si riferiscono alla forza d’animo, siano dei pesi che sperano di lasciare dopo la morte, ricevendo un premio per la sottomissione, ossia per la moralità e la religione; e non soltanto questa speranza, ma anche e soprattutto per la paura di essere puniti dopo la morte con tremendi supplizi, s’inducono a vivere secondo i dettami della legge divina, nei limiti della loro meschinità e del loro animo impotente. E se negli uomini non vi fossero questa speranza e questa paura, ma al contrario credessero che le menti muoiano con i corpi e che ai miseri non rimanga da vivere più a lungo, tornerebbero, sfiniti dal peso della moralità, a fare a modo loro et ex libidine omnia moderari (e vorrebbero regolare ogni cosa in base agli istinti, in base alle loro voglie) obbedendo alla fortuna piuttosto che a se stessi.» Queste due occorrenze del termine libido evidenziano una contraddizione tra «obbedire alla ragione» (moralità, religione) e «obbedire alla libido». Ma cosa dobbiamo intendere qui per libido? Nel contesto libido designa sicuramente un moto dell’animo, ma con tutta l’indeterminatezza che comporta questa espressione: seguendo l’uso del latino classico S. impiega il termine nel suo senso vago di ‘capriccio’, ‘voglia’, senza precisare ulteriormente: Cristofolini traduce in entrambi i casi con ‘istinti’ e non è detto che sia la traduzione più felice. Landucci traduce in entrambi i casi con ‘voglie’. Questa interpretazione può richiamarsi a dei precedenti: in E IV 17 sch. S. ha scritto: «Con questo credo di aver illustrato i motivi per cui gli uomini si lascino trascinare più dall’opinione che dalla ragione, e perché la vera conoscneza del bene e del male susciti emozioni e spesso ceda il passo a impulsi d’ogni genere [et saepe omni libidinis generi cedat]; d’onde il detto del poeta Video meliora proboque, deteriora sequor». Dunque, stessa contraddizione tra ragione e libido, stessa indeterminatezza della libido, stessa localizzazione in uno scolio. La libido ricompare in un altro scolio, quello a E IV 58, ma stavolta determinata e in un contesto tutto diverso. Si tratta in questo caso dell’onore (gloria) e S. evoca un ingens libido se invicem… opprimendi, come traduce Cristofolini (297) «una gran bramosia di sopraffarsi a vicenda». Questo uso ‘debole’ del termine libido ricorre ancora nel cap. 14 dell’Appendice alla IV parte:«Dunque, sebbene gli uomini regolino per lo più ogni cosa secondo i loro istinti [ex sua libidine], dalla comune società con loro provengono molti più vantaggi che danni» [Cr 317]. Ancora una volta S. ci dice che l’uomo ordinariamente valuta tutto in base al criterio delle sue voglie, e si trova così asservito alle passioni da cui solo la ragione potrà affrancarlo. Ma ancora una volta questa libido può essere interpretata come semplice ‘bramosia’, voglia, impulso, istinto. Pautrat si chiede perché S. impieghi nei diversi scolii il termine libido quando vuol semplicemente intendere come il latino classico la sfera dei desideri ardenti, eccessivi, sfrenati, i desideri cattivi perché nocivi? Se ci si ricorda che i desideri smodati, eccessivi sono sempre cattivi proprio perché smodati, non potrebbe essere che libidines vada inteso come il plurale di Libido intesa nel senso forte definito da Spinoza e che il nemico principale che deve affrontare la ragione sia precisamente la libido in quanto Cupiditas & Amor in commiscendis corporibus? Si potrebbe considerare questo problema del tutto trascurabile se la proposizione che segue immediatamente l’ultimo scolio citato [E V 41 sch.] non ce lo riproponesse nuovamente e in modo ancora più insistente. Questa volta si tratta di un teorema e non più di un semplice scolio: E V 42 e non si tratta neppure di una proposizione qualsiasi, ma della proposizione conclusiva dell’intera Ethica. «La beatitudine non è il premio della virtù, ma è la virtù stessa e non ne godiamo per il fatto di dominare gli istinti – nec eadem gaudeamus, quia libidines coërcemus – ma, al contrario per il fatto di goderne riusciamo a dominare gli istinti (ideo libidines coërcere possumus»). Queste stesse libidines che abbiamo incontrate negli scolii, e in particolare in E V 41 sch., riappaiono nuovamente, ma questa volta all’interno di una proposizione, di un teorema e, dunque, tutti i termini impiegati nei teoremi vanno intesi come concetti del sistema. Ora il solo concetto di libido che Spinoza abbia definito è quello della def. 48 dove lo chiama coëundi Cupiditas, per cui le libidines andrebbero intese come casi particolari della libido. Per cui tra la beatitudine e la sessualità ci sarebbe uno strano rapporto perché potremmo leggere la proposizione finale in questa forma: «La beatitudine non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa; e non è perché noi contrariamo i nostri impulsi sessuali che noi godiamo di essa, ma al contrario è perché godiamo della beatitudine che possiamo reprime i nostri impulsi sessuali». E si potrebbe interpretare nello stesso senso anche la dimostrazione: [Cr 365] «…più la mente gode di questo amore divino, ossia beatitudine [che scaturisce dal terzo genere di conoscenza], tanto più comprende…tanto maggior potere ha sui moti dell’animo e meno patisce dai moti dell’animo cattivi; e dunque per il fatto di godere di questo amore divino, o beatitudine, la mente ha il potere libidines coërcendi (di dominare le pulsioni sessuali); e siccome la potenza umana nel dominare i moti dell’animo consiste unicamente nell’intelleto, nessuno allora gode della beatitudine per aver dominato la coëundi Cupiditas, le pulsioni sessuali, ma al contrario il potere di dominare le pulsioni sessuali è originato dalla beatitudine stessa». In tal modo, ipotizzando che S. impieghi libido in senso forte in E V 42 emergerebbe che il nemico principale della ragione che rialza il capo proprio nel finale dell’Etica, per vedersela mozzata dalla beatitudine, sarebbe la libido in quanto pulsione/desiderio sessuale. E la beatitudine, che ci dà il potere di reprime la pulsione sessuale, quanto meno in quanto ci è nociva, sarebbe tra altre cose una forma diversa, forse superiore di castità. Una simile constatazione non può che suscitare un moto di rivolta, poi di diffidenza. Tanto più che lo scolio conclusivo riconvoca la nozione per ripiombarci nella retorica degli scolii precedenti: [Cr 365] «Di qui si vede quanto il sapiente valga e possa più dell’ignorante, mosso dai soli istinti [Ex quibus apparet, quantum Sapiens polleat, potiorque sit ignaro, qui sola libidine agitur]. Si può forse dire che l’ignorante, lo stolto, l’insensato agisce sotto l’effetto della sola libido come coëundi cupiditas? Sicuramente no. È dunque giusto dire che libido negli scolii e anche libidines in E V 42 sono termini da intendersi in senso debole e che l’ipotesi che S. impieghi libido nel teorema in senso forte non regge. Solo che spunta una nuova questione. La beatitudine spinoziana consiste nell’amore verso Dio che nasce, specificamente, dal III genere di conoscenza. Ora il terzo genere deve essere inteso come appartenente alla mente «senza relazione al corpo» o «indipendentemente dall’esistenza del corpo» come afferma lo scolio a E V 40 [Cr 363]. Ora le libidines, le si interpretino in senso debole o in senso forte, non possono intendersi senza relazione all’esistenza del corpo. La questione è allora: come può la beatitudine essere in grado di agire contro le libidines? come fa ad articolarsi nei loro confronti? e questa articolazione non presuppone, malgrado tutto, un qualche rapporto con il corpo? La risposta non potrà che venire da un’analisi accurata del trattamento riservato al corpo nella V parte e, in particolare, da un’analisi del ruolo svolto dall’«essenza del corpo» nella dimostrazione dell’eternità della mente e nella costituzione stessa del III genere di conoscenza. Può darsi che a quel punto si delineerà un rapporto completamente nuovo tra i corpi, in quanto essenze dei corpi, che ci permetterà di comprendere meglio come e perché la beatitudine conferisce il potere di dominare le libidines e chi lo sa, anche la stessa libido come coëundi cupiditas, come impellente desiderio di avere rapporti sessuali. In tal modo in fine ritroveremmo l’ipotesi già formulata, poi provvisoriamente accantonata, è la beatitudine come forma suprema della castità che riesce a estinguere la coëundi cupiditas. La dottrina del coito. La serie di ‘stranezze’ rilevate da Pautrat rende necessaria una comprensione del coito, dell’atto sessuale, in base al sistema spinoziano.Il coito, sotto la sua forma più semplice e cruda, è evocato in modo esplicito una sola volta nell’Ethica. E III 35, su cui dovremo diffonderci più avanti, è dedicata alla gelosia, un moto dell’animo complesso nella cui composizione rientrano l’amore per una certa res (la cosa amata), un odio per questa stessa cosa, in quanto si unisce a una terza cosa con lo stesso vincolo d’amicizia che l’unisce o l’univa alla cosa che l’ama (e che ora l’ama e la odia al contempo) e, infine, un odio per la terza cosa. È in questo contesto, nello scolio di E III 35, che S. entra nei particolari e nei dettagli del corpo; tra le cause che alimentano le tristezze del geloso, S sottolinea quanto segue: «[il geloso] avrà in odio la cosa amata… anche (per il coroll. di E III 15) perché è costretto a collegare l’immagine della cosa amata all’immagine di colui che odia, e questo di regola accade nell’amore verso una donna (in Amore erga fœminam); chi infatti immagina la donna che ama prostituirsi ad altri si rattristerà, non soltanto per il fatto che la sua voglia viene ostacolata, ma anche, essendo costretto a collegare l’immagine dell’amata con i genitali e le escrezioni dell’altro, l’avrà in avversione, l’aborrirà» [Cr 185]. L’odio dell’amante per la cosa amata è dunque dovuto, in parte, all’immaginazione che ormai aderisce alla contemplazione della cosa amata, alla sua stessa idea, del suo rapporto sessuale con un terzo, il rivale. E si può supporre che se l’amante è indotto a immaginare il rapporto tra la cosa amata e il suo rivale in amore come un rapporto sessuale, è perché questo atto costituiva almeno uno dei contenuti del ‘legame d’amicizia’ che faceva sì che l’amante godesse della cosa amata e ne fosse l’unico ‘possessore’, l’unico padrone. Su questo tema del possesso – e dell’esigenza di un possesso ‘esclusivo’ bisognerà tornare. Per il momento sottolineiamo soltanto che se l’amante immagina così facilmente il rapporto tra la cosa da lui amata e il terzo incomodo, il rivale, come un rapporto sessuale è perché lui stesso si è unito in passato alla cosa amata con un rapporto sessuale che mette in gioco le pudenda, i genitali, e le escrezioni, il fluido seminale. È dunque questa fantasia, questa immaginazione che contribuisce alla tristezza del geloso. Un tale ingresso in scena del coito presenta per noi il vantaggio di attirare l’attenzione sulle parti sessuali, le pudenda, (formulazione classica, ma che deve coesistere con la definizione spinoziana della vergogna4 che è una tristezza e dunque, qualcosa che sotto la guida della ragione, non avrà più motivo d’esistere) e al di là, sulle parti del corpo in generale. Vantaggio perché sarà proprio la considerazione delle parti e del corpo umano formato di parti a farci progredire nella nostra indagine. Noi ponevamo la questione: a partire da quale limite la coëundi cupiditas, il desiderio di fare sesso, diventa smodato, eccessivo? Ora possiamo aggiungere: il coito è l’unione di quelle parti del corpo che chiamiamo comunemente genitali. Si può certo difendere l’idea che il rapporto sessuale è un rapporto totale, coinvolgente tutte le parti dei due corpi che vi partecipano (supponendo, come fa S., che non vi intervengano non più e non meno di due corpi); resta il fatto che certe parti sono più implicate di altre e che non è facile concepire il rapporto sessuale senza l’intervento della sfera genitale. Ed è a partire da questo punto che diventa applicabile la serie di proposizioni che S. consacra a ciò che è buono per il corpo. Noi partiremo da E IV 44 che senza dirci nulla del corpo ci avvicina comunque ad esso. «Amor et Cupiditas excessum habere possunt» (L’amore e il desiderio possono 4 E III def. 31: «Pudor est Tristitia, concomitante idea alicujus nostrae actionis, quam alios vituperare imaginamur» -(La vergogna è tristezza accompagnata dall’idea di una nostra azione che immaginiamo biasimata dagli altri), [Cr 226/227]. avere eccesso» [Cr 283]. Notiamo subito che ciò significa che amore e desiderio dovranno essere moderati e che l’amore, che è una gioia, dovrà eventualmente essere almeno parzialmente contrastato e distrutto; dal che si vede che Spinoza che viene lodato ed esaltato per essere il filosofo che distrugge le passioni tristi, è anche colui che sa prendersela con le gioie, se queste sono eccessive, ovvero passive, sentite come gioie anche se sono nocive e per questo andrebbero sentite come tristezze (nel quale caso tutto sarebbe più semplice). Ma la questione che ci interessa sul momento è quella del possibile eccesso d’amore: in cosa consisterebbe? cosa vuol dire amare troppo? desiderare troppo? Troviamo le risposte nella dimostrazione di questa proposizione e nelle proposizioni che la fondano. Ecco come procede la dim. di E IV 44: «L’amore è gioia (per la def. 6 dei moti dell’animo) accompagnata dall’idea di una causa esterna: dunque l’eccitazione (titillatio) accompagnata dall’idea di una causa esterna è amore – qui immaginatevi la sghignazzata di Schopenhauer, ma tenete anche presente che queste affermazioni si rifanno allo scolio di E III 11 che dice:[Cr 161] «Per gioia dunque intendo da ora in poi una passione per la quale la mente passa ad una maggior perfezione. Per tristezza intenderò invece una passione per la quale essa passa ad una perfezione minore. Inoltre, un moto di gioia che si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo lo chiamo eccitazione o allegria; mentre uno di tristezza lo chiamo dolore o melanconia. Ma si deve notare che l’eccitazione (titillatio) e il dolore si riferiscono all’uomo quando una sola sua parte piuttosto che le altre viene colpita; l’allegria e la melanconia, invece, vi si riferiscono quando sono tutte egualmente colpite», [Cr 283]. La titillatio, l’eccitazione di cui si tratta qui è dunque una gioia che si riferisce a una parte del corpo che si trova ad essere investita/interessata più delle altre parti. E poiché questa gioia è accompagnata dall’idea di una cosa esterna come causa, è amore, ma – prosegue la dimostrazione – «questo amore può essere eccessivo», affermazione che si fonda ora su E IV 43 in cui c’era stato detto: «L’eccitazione può avere eccesso ed essere cattiva; il dolore invece, può essere buono allorché l’eccitazione, o gioia, è cattiva» [Cr 283] In effetti, se la titillatio, l’eccitazione, può essere eccessiva, dal momento che l’eccitazione è un amore, l’amore può essere eccessivo e, dunque, nocivo, cattivo… Ma bisogna dimostrare che l’eccitazione possa essere eccessiva o che la gioia possa essere eccessiva così da richiedere di essere moderata. La dimostrazione spinoziana fa proprio questo e per capirla meglio conviene che la seguiamo a partire dalla sua origine, dunque a partire da E IV 38 [Cr 279]. Dopo un lungo e fondamentale scolio dedicato alla comune società degli uomini, alla differenza tra stato di natura e stato di civiltà (Cr 277) che era posto a conclusione di un ampio sviluppo dimostrativo consacrato al problema della coesistenza e della concordia interumana, Spinoza ritorna su un altro terreno con due proposizioni dedicate al corpo. Torna dunque all’individuo. E IV 38 dice: «È utile all’uomo ciò che dispone il corpo umano in modo tale da essere modificato in molti modi, oppure ciò che lo rende capace di modificare in molti modi i corpi esterni; ed è tanto più utile, quanto più il corpo venga da esso reso capace di essere modificato in molti modi e capace di modificare gli altri corpi; è invece dannoso ciò che rende il corpo a ciò meno adatto» [Cr 279]. La dimostrazione dà ragione di questo teorema: una volta ammessi i postulati 3 e 6 enunciati prima di E II 14, ossia «gli individui che compongono il corpo umano, e di conseguenza il corpo umano stesso, sono modificati in moltissimi modi dai corpi esterni» (Cr 99) e «Il corpo umano può muovere e disporre in moltissimi modi i corpi esterni» (Cr 101), una volta che si sa inoltre da E II 13 che «l’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un modo dell’estensione esistente in atto» [Cr 91] e che «tutto quanto accade nell’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana deve essere percepito dalla mente umana, ovvero di tale cosa si darà necessariamente un’idea nella mente» [E II 12, Cr. 91], allora, sì, tutto questo vuol ben dire che la mente è capace di percepire un grandissimo numero di cose che investono il corpo ed è atta a percepirne un numero tanto più grande, quanto più è investita/modificata/affetta da un numero maggiore di cose. Ora nel linguaggio spinoziano dell’Etica ‘percepire’ qualcosa, ‘contemplare’ qualcosa significa regolarmente ‘avere l’idea di qualche cosa’. Più numerose sono le cose che colpiscono, modificano il corpo, più ampio è il numero delle idee di cui dispone la mente. Idee certo inadeguate, perché offerte dai sensi, ma queste idee inadeguate sono l’alimento stesso, il ‘brodo di coltura’ della vera conoscenza, cioè delle idee adeguate. Appoggiandosi dunque su E II 14 [Cr 101] «La mente umana è capace di percepire moltissime cose, e tanto più ne è capace, quanti più sono i modi in cui il suo corpo si può disporre»] S. conclude dunque la dim. di E IV 38 scrivendo: «Quanto più il corpo viene addestrato, viene reso più atto a queste cose, tanto più si addestra, si rende più atta la mente a percepire», [Cr 279]. Per cui «ciò che dispone il corpo a questa maniera e lo rende adatto a ciò è necessariamente buono ossia utile». Perché? Perché, da una parte, «tutto ciò a cui tendiamo secondo ragione non è altro che l’intendere (intelligere), e la mente, in quanto usa la ragione, non giudica utile a sé nient’altro che ciò che conduce all’intelligenza (ad intelligendum=a comprendere) [E II 26 = Cr 263] e d’altra parte perché «nulla sappiamo con certezza essere bene o male, se non ciò che veramente conduce all’intelligenza, o che può impedirci di intendere», [E II 27 = Cr 263]. Se dunque Spinoza si basa su queste due proposizioni relative all’intelligere, all’intendere, al comprendere per dimostrare l’utilità che ricaviamo dall’avere un corpo il più possibile adatto a essere modificato dai corpi esterni, ciò conferma per così dire, che un’esperienza corporea ricca e variegata – in quanto il nostro corpo è in contatto o in rapporto con moltissimi altri corpi esterni – favorisce il comprendere, è utile per la nostra intelligenza e dunque più sono numerose le idee inadeguate più esse possono favorire l’operazione della ragione che è in noi ciò che comprende o piuttosto è il nostro stesso comprendere. Quindi la nostra prop. 38 della IV parte è fondata e dimostrata. Il miglior corpo è quello più capace di essere modificato in più modi dai corpi esterni e al contempo è anche, a sua volta, capace di modificare in più modi i corpi esterni. E se questa proposizione è vera, allora l’uomo che vive sotto la guida della ragione ha un corpo supremamente atto a essere modificato in più modi ecc. per il motivo che ha una mente estremamente capace di comprendere ed egualmente di agire – in quanto per la def. 2 della III parte («Dico che siamo attivi quando in noi o fuori di noi accade qualcosa di cui siamo causa adeguata»[Cr 149] – comprendere e agire sono la stessa cosa. Anche E IV 39 prosegue su questa linea e riguarda ancora il corpo: «Le cose che fanno sì che si conservi il rapporto di moto e di quiete che hanno tra loro le parti del corpo umano, sono buone; cattive quelle invece che fanno sì che le parti del corpo umano abbiano tra loro un rapporto di moto e di quiete diverso». Per capire queste affermazioni S. ci chiede di tener presente il postulato 4 della II parte [Cr 99]: «Il corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi, dai quali viene di continuo quasi rigenerato». Ora per il corpo, conservarsi vuol dire: preservare durevolmente la propria ‘forma’. E per capire questo concetto spinoziano dobbiamo tenere presente la «fisica» elementare che Spinoza ha collocato dopo E II 13, mostrandoci, per così dire, la nascita teorica del corpo umano in quanto individuo entro l’attributo divino dell’estensione e, in particolare dobbiamo tener conto della definizione collocata tra il II e il III assioma. Definizione che recita:«Quando un certo numero di corpi della stesso o di diversa grandezza subisce dagli altri una pressione tale che essi si debbano addossare gli uni agli altri, oppure se si muovono allo stesso o a diversi gradi di velocità in modo tale da trasmettersi reciprocamente il movimento secondo una data regolarità, diremo che quei corpi sono uniti tra loro e che tutti assieme compongono un solo corpo o individuo, il quale si distingue da tutti gli altri in virtù di questa unione di corpi», [Cr 97]. Definizione di cui tutti i commentatori hanno sottolineato le difficoltà ma di cui noi ci occuperemo solo per cercare di rispondere alla domanda: cos’è per Spinoza un uomo in quanto è un corpo? Risposta: è l’unione di corpi che si trovano riuniti/assemblati in uno solo, al cui interno i corpuscoli suddetti mantengono tra loro un certo rapporto di movimento e quiete. Ed è questa unione e questo rapporto, diciamo, omeostatico, che fanno del corpo un solo e identico individuo, distinto da tutti gli altri corpi. Il corpo di Pietro, per recuperare uno dei personaggi spinoziani, è l’unione di tutte le parti che compongono il suo corpo, composizione che unisce le parti in un certo rapporto particolare e specifico che fanno sì che il corpo di Pietro sia il corpo d’un uomo e non quello di un cavallo. Quasi subito dopo, una volta messi in campo con l’assioma 3 i concetti di corpi duri, molli e fluidi (importanti per spiegare immaginazione e memoria) Spinoza darà un nome al rapporto specifico tra le parti componenti il corpo di un individuo: lo chiamerà ‘forma’ del corpo, la forma umana del corpo di Pietro. In sostanza Spinoza è interessato a evidenziare come «un individuo composto possa subire azioni in molti modi, conservando tuttavia la sua natura» [Cr 99 = E II sch al Lemma VII] per cui ai suoi occhi è chiaro che un corpo umano, quale che sia, è capace di essere modificato in un numero grandissimo di modi, molti dei quali non ne compromettono l’integrità, la sua natura, ovvero non lo distruggono in quanto la sua ‘forma’ resta integra. Possiamo ora ritornare a E IV 39 che ci aveva imposto questo ritorno indietro per pervenire fino alla definizione spinoziana di «individuo». Scrive Spinoza: «Ora ciò che costituisce la forma del corpo umano prevede che le sue parti si trasmettano reciprocamente i loro movimenti secondo una certa regolarità…, pertanto le cose che fanno sì che si conservi il rapporto di moto e di quiete che hanno tra loro le parti del corpo umano, sono quelle che conservano la forma del corpo umano e, di conseguenza, fanno sì che il corpo umano possa essere modificato in molti modi e possa modificare in molti modi i corpi esterni e dunque, per la propos. precedente, sono buone [Cr 279]. Ricordiamoci dell’incipit della dimostrazione:«Il corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi». Aria, cibo, bevande sono i nomi generici di certi corpi indispensabili per perseverare nel nostro essere. E fino a che questi corpi modificandoci mantengono la nostra ‘forma’, sono utili, buoni perché cooperano con il nostro conatus, la tensione con cui miriamo a conservarci. La seconda parte della dimostrazione è invece dedicata a ciò che ci può arrecare danno e, in certi casi, distruggerci: «Sono cattive invece quelle cose che fanno sì che le parti del corpo umano acquisiscano una diversa regolazione di moto e di quiete, che il corpo umano assuma un’altra forma, ossia che il corpo umano venga distrutto e, di conseguenza sia reso completamente inadatto ad essere modificato in molti modi» [Cr 279]. È utile qui un riferimento alla prefazione alla IV parte dove si legge: «…quando dico che uno passa da una minore a una maggiore perfezione, non intendo il mutamento da un’essenza o forma. In effetti un cavallo, per esempio, si distrugge tanto se si trasforma in un uomo che in un insetto; ma intendo dire che concepiamo la sua potenza d’agire, in quanto è intellegibile tramite la sua natura, in aumento o in diminuzione», [Cr 239]. Conviene dunque distinguere due tipi di cambiamento, che sono anche due tipi di distruzione: il corpo può essere modificato in modi che diminuiscono la sua potenza d’agire, così che passa a una perfezione minore ed è colpito da tristezza, che in questo caso si chiama dolore – Pietro soffre in quanto una parte della sua potenza d’agire si trova distrutta; ma il corpo può essere modificato da cose esterne in modi che attentano alla sua forma, nel qual caso cambia di natura e di forma e, allora, il corpo di Pietro non è più il corpo di Pietro, è distrutto, Pietro è morto – e la morte deve essere pensata in modo più ampio di quanto non si faccia comunemente, come sottolinea esplicitam. Spinoza nello scolio di E IV 39 [Cr 281] La distruzione parziale nel dolore, nella tristezza può diventare morte, mutamento di forma e di natura. L’importanza delle due proposizioni E IV 38 ed E IV 39 è fondamentale: ci fanno conoscere ciò che è utile, buono o dannoso, cattivo per un corpo umano. È da questo orizzonte che Spinoza passa a svolgere il suo programma enunciato nello scolio di E IV 18: «Mi resta ora da spiegare… quali siano i moti dell’animo che si accordino con le regole della ragione umana e quali invece siano ad essi contrari». La sequenza che comincia da E IV 41 per proseguire fino alla fine è in effetti l’esame analitico di ciascuno dei moti dell’animo dimostrati nella parte III, esame condotto al solo fine di concludere su ognuno di essi: è buono? è cattivo? E, come vedremo, rispondere a questa domanda esigerà che, per alcuni di essi, si riproponga la questione del famoso rapporto reciproco tra le parti del corpo, E IV 41 esamina la gioia: «La gioia direttamente non è cattiva, ma buona; la tristezza è, al contrario, direttamente cattiva», [Cr 281]. La dimostrazione è apparentemente semplice: data la definizione di gioia, moto dell’animo grazie a cui la potenza d’agire del corpo si trova aumentata o aiutata, basterà rifarsi a E IV 38, esaminata in precedenza per giungere alla conclusione che la gioia è direttamente buona. Il che significa che per S. l’aumento della potenza d’agire del corpo vuol dire sia una capacità maggiore di modificare i corpi esterni, ciò che è facile ammettere, sia un’attitudine maggiore a essere modificato/investito da corpi esterni, il che è meno facile ammettere in quanto implica un’attitudine alla passività. Tuttavia, è ciò che Spinoza ci chiede di ammettere: la potenza del corpo si valuta in base a questa duplice capacità di agire sui corpi esterni e a patire dai corpi esterni. Avremo comunque meno difficoltà a concedergli questo paradosso, se teniamo conto che questa ‘passività’ è, come sappiamo, la condizione necessaria delle idee inadeguate, senza di cui la ragione non può lavorare. Facciamo un esempio. Un corpo umano dotato della vista è sicuramente più potente di un corpo privo della vista; ora questo surplus di potenza non gli deriva che dalla sua capacità visiva, vale a dire dalla sua capacità di essere modificato dai corpi esterni in un certo modo, di cui è privo il corpo di chi è cieco. La potenza d’agire si valuta dunque non solo in base alla capacità d’azione in senso ordinario, potendo cioè modificare i corpi esterni, ma anche in base alla capacità di patire, essendo modificato dai corpi esterni. Sarà, successivamente, il compito della mente fare in modo di estrarre da tutte le idee inadeguate che sono le idee di tutte le affezioni del corpo, delle idee adeguate e vere, che sole permetteranno di liberarsi, nella misura del possibile, dalla passività originaria. È dunque solo grazie a questa precisazione che siamo autorizzati ad applicare qui E IV 38, come fa Spinoza, per concludere: la gioia direttamente è buona e, simmetricamente, la tristezza, direttamente, è cattiva. Questo ‘direttamente’ merita di essere esaminato: fa sorgere in effetti la domanda: e indirettamente? Indirettamente la gioia può essere cattiva e buona la tristezza? In effetti è ciò che dimostrerà E IV 43. Ma prima S. considera in E IV 42 i moti dell’animo dell’allegria e della melanconia e la ragione, avendoli esaminati, concluderà: «L’allegria non può essere eccessiva, ma è sempre buona; la melanconia invece è sempre cattiva», [Cr 281]. Seguiamo la dimostrazione. Per cominciare ricordiamo le definizioni di allegria e melanconia già citate: «Inoltre, un moto di gioia che si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo lo chiamo eccitazione o allegria; mentre uno di tristezza lo chiamo dolore o melanconia. Ma si deve notare che l’eccitazione e il dolore si riferiscono all’uomo quando una sola sua parte piuttosto che le altre viene colpita; l’allegria e la melanconia, invece, vi si riferiscono quando sono tutte egualmente colpite», [Cr 161]. Notiamo dapprima che è questo il luogo in cui compare per la prima volta nell’Etica il concetto di ‘eccesso’. Concetto evidentemente importante poiché impone, a sua volta, il concetto di moderazione e poiché sarà uno degli effetti della ragione il moderare le passioni smodate, per conferire ai moti dell’animo la giusta misura, onde esserne padroni; inoltre la smodatezza, a cui viene fatto riferimento nelle definizioni dell’ambizione, dell’ingordigia, dell’alcolismo ecc. non si può definire che a partire dall’eccesso in rapporto alla giusta misura. La questione è: cos’è un’emozione smodata, un moto dell’animo eccessivo? o che è lo stesso: cos’è che permette di dire che un’emozione va oltre la giusta misura ed esige di essere ‘dominata’/domata/mitigata? La dimostrazione di E IV 42 ci permette di intuire quale sia la risposta da dare. Ecco come procede: l’allegria, per definizione, «è una gioia la quale, allorché si riferisce al corpo, consiste nel fatto che tutte le parti del corpo sono ugualmente coinvolte» ,[Cr 281]. Ora noi sappiamo da E III 11 (e dal suo scolio) che la gioia, riferita al corpo, significa che il corpo vede aumentata e aiutata la sua potenza d’agire in questa o quella sua parte o in tutte. Ma l’allegria consiste nel fatto che tutte le parti si trovano coinvolte in modo eguale. L’aumento della potenza d’agire dunque ha luogo egualmente in tutte le parti e, poiché sappiamo che le parti del corpo sono organizzate in base a un certo rapporto tra movimento e quiete, se tutte le parti sono investite egualmente, il rapporto si conserverà. Per cui Spinoza può concludere «la potenza del corpo viene accresciuta o favorita, così che tutte le parti di esso ne ricavino lo stesso rapporto reciproco di moto e quiete». Per cui, nel caso dell’allegria non può intervenire nessuno squilibrio interno. E come sappiamo da E IV 39, essendo sempre buone «le cose che fanno sì che si conservi il rapporto di moto e di quiete che hanno fra loro le parti del corpo umano», [Cr 279], S. può concludere che «l’allegria è sempre buona e non può avere eccesso», [Cr 281]. Il verdetto della ragione circa l’allegria è che si tratta di un moto dell’animo che non è mai una passione, ma sempre un’azione. Ora un moto dell’animo sempre buono è un affectus che non può mai essere eccessivo, che non può mai oltrepassare la misura; e se non può essere eccessivo è solo perché le parti del corpo sono tutte egualmente coinvolte, per cui il rapporto tra di esse è conservato ed è il corpo nella sua interezza a vedersi accresciuta la sua potenza d’agire, senza che intervenga nessuno squilibrio interno. Evocare qui un tale squilibrio come una minaccia non è qualcosa di indebito, in quanto cominciamo a intuire, per così dire a contrario, che un moto dell’animo in cui le parti del corpo non siano tutte egualmente coinvolte, rischia di essere già per questo cattivo, in conformità con la definizione 2 della IV parte, in quanto è qualcosa di cui «sappiamo con certezza che ci impedisce di possedere un bene», [Cr 239]. Del resto, la seconda parte della dimostrazione, dedicata alla melanconia, ci offre l’illustrazione di questa minaccia, e in modo assoluto. Essendo la melanconia una tristezza che investe tutte le parti del corpo che vedono diminuire tutte egualmente la loro potenza d’agire, S. ci dice che la melanconia «è una tristezza la quale, allorché si riferisce al corpo, consiste nel fatto che la potenza d’agire del corpo ne viene assolutamente ridotta o coartata», [Cr 283], dove questo ‘assolutamente’ non vuol dire interamente, nel qual caso la melanconia equivarrebbe alla morte, ma vuol dire che la potenza d’agire del corpo diminuita non relativamente a questa o quella parte del corpo, ma in modo uniforme in tutte le parti del corpo. Ma noi sappiamo che la potenza d’agire del corpo si valuta in base alla sua capacità di modificare in più modi i corpi esterni e di esserne al contempo essere modificati in più modi e che per E IV 38 «è dannoso ciò che rende il corpo a ciò meno adatto», [Cr 279], possiamo concludere che la melanconia è necessariamente dannosa, nociva e quindi «sempre cattiva». Assolutamente cattiva. Per cui, simmetricamente, l’allegria sarà sempre buona. E se quindi la melanconia è la minaccia assoluta, possiamo vedere nell’allegria la promessa assoluta. E Spinoza ci dirà nel II corollario di E IV 45 «Nulla se non una torva e trista superstizione proibisce il piacere; perché mai dovrebbe essere più decoroso saziarsi della fame e della sete che scacciare la melanconia?» [Cr 285] Di qui capite il titolo dell’aureo libretto di Cristofolini, provocatoriamente intitolato Spinoza edonista! Ma se senza divagare ritorniamo al nostro punto di partenza, l’eccitazione [titillatio] è specificamente per capire E IV 43 e la sua dimostrazione che abbiamo intrapreso questo lungo détour. Rileggiamo E IV 43: «L’eccitazione può avere eccesso, ed essere cattiva; il dolore può essere buono, allorché l’eccitazione, o gioia, è cattiva». [Cr 283] [La tr. di Landucci (p. 229) è anch’essa interessante e recita: Il piacere fisico può diventare eccessivo, ed essere cattivo; il dolore fisico può essere buono nella misura stessa in cui sia cattivo il piacere fisico, che pure è una gioia».] L’eccesso, l’eccessivo in Spinoza si apparenta dunque al cattivo, al dannoso. Ripartiamo dalla definizione di titillatio: con l’eccitazione o con il piacere fisico abbiamo a che fare con «una gioia che, in quanto si riferisce al corpo d’un uomo, consiste nel fatto che una o più delle sue parti vengano modificate maggiormente che non le altre». L’eccitazione vuol dire dunque squilibrio interno al corpo, più coinvolto in una parte che nelle altre (che possono eventualmente vedere diminuire la loro potenza d’agire).Lungi dall’essere un’emozione assoluta il piacere fisico/l’eccitazione è relativa a questa o a quella parte del corpo, è qualcosa di locale e di localizzato. Ed è qui che si profila distintamente la minaccia che una parte prenda il sopravvento sul tutto. Dove regna l’allegria ogni parte del corpo partecipa egualmente all’accrescimento della potenza d’agire del corpo; con l’eccitazione/con il piacere fisico l’equilibrio tra le parti si rompe e alcune parti di colpo si impongono e diventano più potenti del tutto. Può allora accadere quanto S. ha scritto in E IV 6: «La forza di una qualche passione, o moto dell’animo, può soverchiare tutte le altre azioni, ossia la potenza dell’uomo, in modo tale che il moto dell’animo rimanga tenacemente attaccato all’uomo», [Cr 245]. Cerchiamo di capire questa proposizione. Ciò implica che si ponga attenzione al punto di partenza di tutto il processo qui analizzato, ossia al fatto che un corpo modificato in particolare in una sua parte, diciamo nella sua parte A, lo è necessariamente da parte di un corpo esterno, il corpo che «eccita» la parte A. È dunque sotto l’effetto di un corpo esterno e addirittura più precisamente da certe parti del corpo esterno che il corpo si trova modificato/eccitato in A. In questo senso in A il corpo patisce, è modificato da una gioia che è gioia passiva. Ma come misurare il quantum della forza di questa passione? S. ce l’ha detto in E IV 5 «La forza e l’incremento di qualunque passione, e la sua persistenza, non si definiscono in base alla potenza con cui noi tendiamo a continuare ad esistere, ma in base alla potenza di una causa esterna confrontata con la nostra» [Cr 245] Causa esteriore e cosa esteriore qui si equivalgono: si tratta della cosa esteriore che modifica/colpisce il corpo e lo fa patire, nel caso della titillatio, lo fa patire di gioia, di piacere. La dimostrazione della proposizione è semplice: noi sappiamo da E II 16 che «l’idea di qualsiasi modo in cui il corpo umano viene modificato da corpi esterni deve implicare al contempo la natura del corpo umano e quella del corpo esterno», [Cr 101], ovvero la natura del corpo ‘modificato’ e la natura del corpo ‘modificante’. Per cui l’«essenza di una passione non si può spiegare tramite la nostra sola essenza» [Cr 245]. Dunque, neppure la sua potenza può essere definita a partire dalla nostra sola potenza che non è altro che «la potenza con cui noi tendiamo a continuare nel nostro essere», [Cr 245] poiché la nostra essenza è il nostro conatus come ci ha spiegato E III 7. La potenza o la forza della passione deve necessariamente definirsi «in base alla potenza di una causa esterna confrontata con la nostra», [Cr 245]. Ciò significa, in altri termini, che il moto dell’animo, l’emozione da cui è coinvolto il corpo nella sua parte A e l’affetto da cui è coinvolta la mente in quanto è l’idea della parte A – essendo la mente per S. l’idea del corpo esistente in atto – è tanto più forte e potente quanto più il rapporto di potenza tra il corpo modificato e il corpo esterno modificante gioca in favore di quest’ultimo. La gioia simultanea del corpo e della mente è tanto più forte quanto più la cosa esterna si impone sul mio corpo, perlomeno sulla sua parte A. Più la mia emozione è forte, più si afferma la potenza della cosa esterna e la mia impotenza. In altri termini ancora, la potenza della mia emozione di fatto segnala la mia impotenza, in qualche modo una cosa esterna, per così dire, mi ha invaso, è diventata una forza d’occupazione del mio corpo e della mia mente. Difficile non cogliere in ciò un nuovo genere di minaccia. Noi sappiamo in effetti da E III 4 che «nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna», [Cr 157]. Distruzione e morte non possono che venire dal di fuori: non si muore, si è uccisi. È chiaro che l’intrusione del di fuori in me, sotto forma del patire (foss’anche godendo), e addirittura la sua installazione a titolo d’occupante provvisorio, fa comparire la minaccia che il di fuori ha trovato in me una sua sede e forse mi distruggerà, mi ucciderà. Tanto più che sappiamo pure in base all’assiome della parte IV che «non esiste in natura alcuna cosa singola, di cui non se ne dia un’altra più potente e più forte. Ma data una qualunque cosa, se ne dà un’altra più potente, da cui quella data può essere distrutta», [Cr 241]. Potrebbe darsi che la mia passione sia precisamente l’ingresso in me di questa cosa più potente che può distruggermi. Certo non siamo a questo punto, ma siamo comunque su quella strada. Il passo seguente consiste, in effetti, nell’installazione più duratura in noi da parte dell’occupante. Ritorniamo qui a E IV 6: «La forza di una passione, o emozione, può essere superiore a tutte le azioni di un uomo, ossia al suo potere, in maniera che egli rimanga fisso tenacemente su di essa», la cui dimostrazione dice: «La forza di qualsiasi passione, un suo eventuale accrescimento, ed il suo perdurare, sono definiti dalla potenza di una causa esterna a paragone con il nostro potere; e pertanto essa può superare il potere di qualsiasi uomo» [Landucci, 200] Noi sappiamo che la forza di una qualunque passione è definita «dalla potenza della causa esteriore confrontata con la nostra» e per arrivare alla conclusione desiderata basta considerare E IV 3 (Cr 243) che dice come «la forza con cui l’uomo persevera nell’estistenza sia limitata e la potenza delle cause esterne la sorpassa infinitamente» ,[Cr 243]. Un uomo, quale che sia la sua potenza, s’imbatte sempre in cose più potenti di lui. O anche un corpo può sempre imbattersi in corpi più potenti del suo e uscirne malconcio o addirittura distrutto. Possono esserci corpi il cui potere su di noi ci riduce alla passività e all’impotenza. Ora nella IV parte dell’Etica Spinoza soppesa i moti dell’animo sulla bilancia della ragione per stabilire quali sono quelli buoni e utili, e quelli dannosi e nocivi. Cosa che fa anche riguardo al moto dell’animo che abbiamo visto chiama titillatio – eccitazione, piacere fisico – e lo fa in E IV 43. Come si è già visto nel caso della titillatio una o alcune parti del corpo sono investite maggiormente rispetto al resto del corpo e la potenza di questa emozione può essere così grande da superare tutte le altre azioni del corpo, insediandosi tenacemente in esso. L’eccitazione/il piacere fisico, la titillatio è dunque una porta aperta a un possibile eccesso che può tentare di fissarsi tenacemente in noi. L’eccitazione piacevole di una parte del corpo tenderà a perseverare in tale stato e la mente si troverà a essere ‘fissata’ anch’essa su di essa, nell’incapacità di contemplare e percepire altre cose; ora quest’eccitamento può essere tale da impedire al corpo di essere atto a essere modificato in molti altri modi, impedendo al contempo alla mente di avere le idee di altre affezioni. La semplice applicazione di E IV 38 permetterà di stabilire che la titillatio pur essendo un amore, pur essendo laetitia, gioia, può essere eccessiva e rivelarsi cattiva. Quindi la gioia, anche se indirettamente, può essere nociva, cattiva. L’eccitazione, il piacere fisico accompagnato dall’idea di una causa esterna è un amore, ma può essere eccessivo, dannoso, dunque cattivo. L’amore quando è piacere fisico, eccitazione, dunque quando il corpo è modificato di preferenza e con pertinacia, con una sorta di fissazione, su quella o quell’altra parte del corpo, a detrimento di altre parti, può essere eccessivo e cattivo. Ma anche il desiderio può essere cattivo e se sì in quale caso? Conviene richiamare la definizione del desiderio come figura nella def. 1 dei moti dell’animo: «Il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo, in quanto la si concepisce determinata da una qualunque sua affezione data a compiere un’azione», [Cr 215]. Essenza dell’uomo nell’Etica va sempre intesa come l’essenza di questo o quell’individuo umano e per ciò che ci concerne qui la sua essenza attuale di vivente. Detto altrimenti: quel corpo e quella mente che ha per oggetto quel corpo in questo o quel momento. Data una qualunque affezione del corpo, in quella o quell’altra delle sue parti, questa affezione determina il corpo a fare quella cosa o quell’altra. Il desiderio è dunque, relativamente al corpo l’effetto dell’affezione del corpo e al contempo, relativamente alla mente, è l’idea di questo effetto. Il desiderio nasce sempre da un’affezione/modificazione dell’essenza dell’uomo. E Spinoza ha precisato nella spiegazione della definizione di desiderio «per affezione dell’essenza umana intendiamo qualunque disposizione di tale essenza, che sia innata o che si concepisca tramite il solo attributo del pensiero, o dell’estensione o che si riferisca simultaneamente a entrambi» [Cr 217] Se la castità deve intervenire a moderare la sensualità e se la sensualità è il desiderio (moderato o no) di avere rapporti sessuali è impossibile comprendere qualcosa senza cogliere il primo anello della catena: la dottrina spinoziana dell’atto sessuale. Come si mescolano i corpi? Sia un uomo Z il cui corpo prova gioia per una cosa Y che immagina essere la causa della sua gioia: Z ama Y. Un corpo Z incontra per la prima volta un corpo Y che lo riempie di gioia e dunque X ama Y. Spinoza, a partire dalla sua definizione dell’amore – gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna e dalla prop. 12 della III parte – La mente tende a immaginare le cose che accrescono o favoriscono la potenza d’agire del corpo – ci rivela una prima proprietà dell’amore: «…chi ama, necessariamente si sforza d’avere a sé presente e a conservare la cosa che ama» [Cr.165]. Ormai Z è determinato a voler restare ‘saldato’ a Y. Il corpo di Z vuol conservare il corpo di Y in sua presenza e conservare Y indefinitamente, mentre la mente si sforza di immaginare indefinitamente Y e, per il corollario di E III 13, ripugna a immaginare l’assenza o la distruzione di Y. Per afferrare davvero in cosa consiste propriamente questa proprietà dell’amore (desiderio della presenza della cosa amata) bisogna leggere con attenzione la spiegazione che segue la def. VI dell’amore nella definizione degli affetti, dove S. pare contraddire lo scolio di E III 13. Def. 6 (Cr. 219) L’amore è gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna. SPIEGAZ. Questa definizione spiega abbastanza chiaramente l’essenza dell’amore; quella invece degli autori che definiscono l’amore come volontà dell’amante di congiungersi con l’amata, esprime non l’essenza dell’amore, ma una sua proprietà; e siccome l’essenza dell’amore non è stata colta in modo soddisfacente dagli autori, essi di conseguenza non hanno potuto avere neppure un concetto chiaro delle sue proprietà, dal che deriva che tutti abbiano giudicato piuttosto oscura la loro definizione. Va però notato che quando dico che nell’amante c’è la proprietà di unirsi con la volontà alla cosa amata, per volontà non intendo il consenso o la decisione dell’animo, ossia una libera decisione (abbiamo infatti dimostrato in E 2, 48 che questa è una finzione) e neppure il desiderio di unirsi alla cosa amata quando è assente, o di rimanere alla sua presenza quando c’è, l’amore è infatti concepibile anche senza questo o quel desiderio; ma per volontà intendo l’appagamento [acquiescentia = serenità] che è nell’amante grazie alla presenza della cosa amata, da cui viene rafforzata, o quanto meno sostenuta, la sua gioia.» Insomma, ci basti sapere che Z, una volta incontrato Y, si trova legato a Y da un legame amoroso nel quale, presenza o no, si sforza di perseverare, sforzandosi di conservare e immaginare indefinitamente Y. Ormai Z vive sotto la condotta dell’amore, ovvero di un affetto che è una passione e che include necessariamente la natura della cosa esteriore Y. In questo ormai Z vive sotto l’influsso di Y: eccolo diventato il giocattolo dell’amore, ovvero della cosa esterna e, non dimentichiamolo, se qualcosa deve venire a distruggere Z, non può che venire dall’esterno e sotto forma di cosa esterna. Ma no: nessuna minaccia: Z è felice, contento; Y gli causa gioia, dov’è il male? Così giudica l’affetto: questa gioia è buona e Y è una buona cosa. Si deve insistere sull’indeterminazione intrinseca della cosa buona, una constatazione rafforzata dalle propp. E III 14-17. Per Spinoza non è perché una cosa è provvista di qualità intrinseche che di per sé la farebbero amabile che una cosa diventa amata: Z ama Y solo perché Y al primo incontro si trova causare gioia in Z. …e per S. «qualunque cosa può essere accidentalmente causa di gioia» E III 33 «Quando amiamo una cosa a noi simile, tendiamo per quanto possiamo a far sì che ci ami a sua volta» E III 41 «Se uno immagina di essere amato da qualcuno e non ritiene di avegliene dato alcun motivo – cosa che può accadere per il coroll. alla pr 155 e per la pr 166 – lo amerà in contraccambio» 5 E III 15 cor. «Possiamo amare o avere in odio una cosa per il solo fatto di averla considerata con un moto di gioia o di tristezza, di cui essa non è causa efficiente» Gia sappiamo che l’’Ethica è molto discreta in fatto di sesso. Tuttavia E III 35, prop. relativa alla gelosia ci ha posto di fronte all’accoppiamento dei corpi. E III 35 Se si immagina che un altro unisca a sé ciò che noi amiamo con un vincolo d’amicizia pari a quello con cui lo si possedeva noi, o magari addirittura più stretto, si proverà odio per ciò che si amava e invidia per quell’altro. Dim. Quanto maggiore amore uno immagini che provi per lui ciò che egli ama, tanto più ne ricaverà stima per sé…ossia ne gioirà e per tanto, per quanto possa, si sforzerà di immaginare ciò che ama, come legato a sé il più strettamente possibile. Simile aspirazione e simile sforzo vengono poi anche rafforzati…se si immagina che un altro desideri per sé la stessa cosa. Invece questo sforzo, o voglia, si suppone contrastato, se all’immagine di ciò che amiamo, s’accompagni l’immagine di uno che l’unisca a sé. Quindi se ci si trovi in una simile situazione, si proverà una tristezza a cui s’accompagneranno l’idea di cò che amiamo, come causa di essa e, insieme, l’immagine dell’altro; ossia si proverà odio per ciò che si ama e insieme per quell’altro invidia di quest’altro per il fatto che tragga diletto da ciò che egli ama. Sc. Quest’odio per ciò che si ami congiunto all’invidia, si chiama gelosia, e questa non è quindi che una fluttuazione dell’animo che trae origine da amore e odio insieme, a cui si accompagna l’idea di quell’altro per cui si prova invidia. Inoltre quest’odio sarà maggiore in proporzione alla gioia che uno soleva provare per l’amore ricambiatogli da ciò che egli amava e anche in proporzione all’emozione che provava in precedenza per chi ora immagina che congiunga a sé ciò ch’egli ama. Se l’aveva in odio, infatti, per ciò stesso avrà in odio anche ciò che egli stessa amava…perché immagina che ora questo faccia provare gioia a chi egli ha in odio; ed anche…per il fatto di essere costretto a congiungere l’immagine di ciò che egli ama con l’immagine di colui che ha in odio. Questa situazione si dà per lo più nell’amore di un uomo per una donna (in Amore erga foeminan); perché chi immagina che quella che ama si concede a un altro, non solo sarà rattristato perché ne viene contrastato il suo desiderio di lei, ma anche l’avrà in avversione, perché costretto a congiungerne l’immagine con l’immagine delle parti vergognose e delle escrezioni dell’altro. La gioia reciproca dell’amore goduto àncora/fissa la mente di ognuno degli amanti alla contemplazione/ammirazione dell’altro, il che impedisce a ciascuno di essi di essere ‘attratto/colpito/influenzato’ da un gran numero di cose esterne, e dunque, attenendosi a di E IV 48 – «le emozioni di sopravvalutazione e di disprezzo sono sempre cattive [perché in contrasto con la ragione] – e a un’interpretazione rigorosa E IV 38 – «è utile all’uomo ciò che dspone il corpo in modo tale da poter essere modificato in molti modi, oppure che lo rende capace di modificare in molti modi i corpi esterni…– anche la gioia dell’amore reciproco potrebbe rivelarsi nociva. 6 E III 16 «Per il solo fatto di immaginare che una certa cosa abbia qualcosa di simile a un oggetto che di solito ci colpisce la mente con gioia o con tristezza, benché ciò in cui la cosa è simile all’oggetto non sia la causa efficiente di quei moti dell’animo, noi tuttavia la ameremo o l’avremo in odio». La questione che pone Pautrat: si è sicuri che, in termini di sistema, il coito, per la sua stessa natura non sia una gioia cattiva, per il fatto di essere necessariamente eccessiva? Non arriveremo a dire tanto, ma ci basterà sapere che il coito, qui il coito per amore, ma ciò vale per il coito in generale, è l’occasione propizia per esporsi alla gioia eccessiva, vale a dire a una gioia cattiva. L’estrema attitudine delle parti genitali ad essere eccitate e la necessità in cui esse si trovano di essere ipereccitate per godere, ne fanno dei punti di attacco privilegiati per la gioia passiva. Da qui a ciò che i nostri genitali diventino le basi avanzate della cosa esterna in vista della colonizzazione totale ovvero affetto aderente, vi è ancora un passo, ma non così grande. Gli amori idilliaci: quelli in cui la gioia è davvero condivisa, da entrambi e senza ombre. Che intervenga una sola tristezza, associata all’altro, e nasce una repulsione, un odio che forse vincerà l’amore e potrà arrivare sino alla crudeltà. La storia d’amore allora finisce. Ma se la gioia è stata condivisa? Allora Z e Y ricominceranno. Perché? perché è stato bello, piacevole. Non che sappiano che ciò sia utile al loro corpo, ma considerano buono il loro amore perché piacevole. E ciò che è piacevole lo si rivuole sempre, non appena ce se ne ricordi. cfr. E III 36 Chi si ricorda di ciò da cui in precedenza ha tratto piacere, desidera possederlo ancora nelle stesse circostanze in cui ne abbia tratto piacere precedentemente. In Spinoza, secondo Pautrat, l’amore, in modo radicale, è però promesso alla tristezza, al rimpianto. Avere una cosa a sé, possederla una volta, una sola volta, ci consegna alla ripetizione e ci condanna al rimpianto. Ogni prima volta del godimento sarà causa di molteplici tristezze perché molte circostanze, che erano presenti la prima volta, non mancheranno di mancare, di non esserci più. L’amore possessivo si rovescia con la massima facilità in odio e diventa causa di discordie e inimicizia. Il labirinto dei dolori d’amore, delle tristezze in amore ha la sua ragion d’essere nel fatto che l’oggetto d’amore non si può ‘condividere’ con altri, uno solo può possederlo, mentre anche altri vogliono possederlo. Con la proposizione E III 35 Spinoza introduce la gelosia che relativamente alla cosa amata è una fluttuazione dell’animo, un’ambivalenza: la tormentosa compresenza di amore e odio. Il geloso comincia a odiare la persona che ama. In lui amore e odio della persona amata si fronteggiano, disputano tra loro. Quale dei due ‘affetti’ avrà il sopravvento: l’amore o l’odio? A partire da E III 38 Spinoza prospetta la vittoria dell’odio: «Se uno avrà cominciato ad avere in odio la cosa amata al punto che l’amore sparisca completamente, a parità di motivi la perseguirà con un odio maggiore che se non l’avesse mai amata, e tanto maggiore quanto maggiore sarà stato prima l’amore». Senza entrare nel dettaglio della dimostrazione diciamo questo: Z odia Y per la ragione che Y è la causa efficiente della sua tristezza (ad es. per il fatto che Y si sia concessa ad X), ma inoltre quest’odio di Z per Y reprime il suo amore per Y, che è una gioia nella quale si sforza di perseverare, al punto che questo odio perviene a reprimere in lui tutti i moti d’amore ovvero a contemplare Y come presente, colmarla di gioia più che può, sforzarsi perché essa contraccambi il suo amore. Tutti questi sforzi contrariati sono in campo per il fatto che Z ama Y e fino a quel momento l’aveva amata senza sentimenti d’odio e di avversione nei suoi confronti. Ora l’esperienza di questo contrasto, che vive in se stesso, è una tristezza che accompagna l’idea di Y come causa. È dunque un altro odio, rispetto all’odio che ha fatto sì che Z abbia ‘cominciato a odiare’ Y. E questi due odii in Z si assommano. Supponiamo ora che l’amore sia completamente abolito. Z non ama più Y, nessuna ulteriore fluttuazione d’animo in lui; Z odia Y puramente e semplicemente, l’odio ha avuto il sopravvento. Z odia Y di quei due odii assommati, che potremmo chiamare la somma O1 . L’amor erga foeminam è un amore fantastico ma pericoloso: è un amore fondato sull’eccitazione (amour de délectation) ed è un amore per una res singularis che uno solo può possedere. Z gode di Y sotto la forma del gaudere, del delectari. In sé questo godimento è già rischioso: non è del tutto buono per la salute; apre la porta all’occupazione di Z da parte di Y, che diventa la sua ossessione, ciò di cui non può più fare a meno, la cosa singolare senza la quale gli pare che la vita non abbia più senso. Inoltre una volta che Z ha avuto rapporti sessuali con Y, per poco che arrivi un qualsiasi X, rischia di scatenarsi tutto il dramma e la guerra della gelosia e dell’odio reciproco, dell’invidia nei confronti del ‘rivale’ in amore, più fortunato di lui. Il piacere preso con Y, ecco ciò che è pericoloso. Senza dubbio, ora che sta male come un cane, perché si sente tradito dalla Y che amava così appassionatamente, sarebbe stato meglio per Z non prender diletto con Y. Senza dubbio, il giorno in cui l’ordine comune della natura ha fatto sì che il suo corpo incontrasse il corpo di Y, sarebbe stato meglio che non l’avesse desiderata e amata. Il piacere preso con Y è pericoloso perché è titillatio, eccitamento e suscettibile quindi di essere eccessivo e di aprire la strada al delirio, all’ossessione amorosa, alla dipendenza dal sesso. Ma tutta la sequenza degli odii insorti con la gelosia di Z non sarebbe mai cominciata se Y potesse essere ‘condivisa’ con altri. Ma ecco: una donna non si può condividere con altri. E neppure un uomo. Questo per S. è inconcepibile. Gli esseri umani non si ‘condividono’. E ovunque vi sono degli Xs, e sempre gli Zs vogliono degli X che desiderino l’Y di cui essi godono, ma purché poi questi X stiano alla larga da Y. Per poco che l’intelligenza si chieda se l’amore per la donna è buono, ovvero utile all’uomo, deve arrendersi all’evidenza: non lo è quasi per nulla. Perché lo fosse bisognerebbe che la donna fosse altro da ciò che è, altro rispetto a una cosa di cui si gode per eccitazione, altro da una cosa che uno solo può possedere e che può difficilmente conservare e che finirà con il perdere. In questo senso, se per S. l’uomo è ciò che è più utile all’uomo tra tutte le cose singolari, e se l’uomo libero è il più utile tra tutti gli uomini, colui che tra tutti gli uomini è il meno utile è la donna che si ama precipuamente per le sue attrattive sensuali. O per la donna, il meno utile è l’uomo che viene amato per le sue attrattive sessuali. Detto in altri termini: ciò che è il meno utile tra i legami che uomini e donne possono annodare tra loro è il legame dell’amore sessuale. Ci deve essere qualcosa di meglio. La ragione ci dice e ci dimostra: la donna o l’uomo non sono il buon oggetto d’amore e il buon legame non è il rapporto sessuale. La ragione in effetti ci insegna dapprima, – E IV 37 «il bene a cui aspira per sé ogni uomo che segue la virtù – ovvero che vive sotto la guida della ragione – lo desidererà anche per tutti gli altri uomini e tanto più quanto maggiore sarà la conoscenza che avrà di Dio». Questa formula generale che racchiude sotto il nome di ‘bene’ ciò che noi sappiamo essere assolutamente buono, ovvero l’intelligere, deve potersi applicare a tutti i desideri singolari che nascono giustamente dal comprendere. Ora supponendo che sia possibile che sotto la guida della ragione Z ami Y e dunque la desideri, si può immaginare che desideri che tutti gli altri uomini godano come lui di questo bene altrettanto e allo stesso tempo? Impossibile: uno solo può goderne. In questo senso la donna o l’uomo al singolare non può essere oggetto d’amore razionale. Ciò non pregiudica per nulla i legami che possono instaurarsi razionalmente tra uomini e donne – semplicemente saranno legami diversi. La ragione ‘detta’ di instaurare dei legami con tutti e tutte, ma senza esclusivismi e preferenze, e questi legami si chiamano amicizia. E’ ciò a cui, in base a III 59 sch. si impegna, nata dalla ragione, la Generosità «il desiderio per cui ciascuno tende, sotto i soli dettami della ragione, ad aiutare tutti gli altri uomini e a stringere con loro amicizia». Che lo scolio a E IV 37 chiami questo desiderio ‘onestà’ non cambia nulla: ciò che è veramente e preminentemente buono è il legame d’amicizia, chiamato anche ‘concordia’, e che sotto questo nome svolge un ruolo essenziale nell’appendice della parte IV (capp. 14. 15, 16). La vera convenienza in natura non è da ricercarsi nel godimento parziale di uno Z con una Y, ma nella comunità di Z, Y e tutti coloro che vivono guidati dalla ragione, come ci dice E IV 35: «In quanto gli uomini vivono sotto la guida della ragione, in tanto si accordano necessariamente per natura». E ciò presuppone di sfuggire ai moti dell’animo che sono passioni, come alle gioie che conoscono eccessi e a tutto ciò di cui si nutrono gli amori singolari tra Z e Y. Il vero mezzo per finirla con la sventura consiste nell’instaurare l’amicizia di tutti con tutti e di porre fine ai cattivi amori, agli amori sbagliati, perché è da essi che provengono le tristezze, le gelosie, le invidie, gli odii e ciò che bisogna insomma chiamare la sventura umana. A chi gli obietta di presentare un quadro troppo fosco Pautrat ricorda lo scolio I di E IV 37 «…il bene massimo a cui aspirano gli uomini spinti dai moti dell’animo è spesso tale per cui lo può possedere uno solo per cui accade che quelli che amano non siano coerenti con se stessi e mentre si compiacciono nel tessere le lodi di ciò che amano, temono di essere creduti… mentre chi si protende a guidare gli altri con la ragione… ha un perfetto equilibrio mentale», [Cr 275]. Soprattutto aggiungiamo la formulazione suggestiva di E V 20 Sch. «Si deve inoltre notare che i malesseri e le sventure dell’animo sorgono soprattutto da un amore eccessivo (ex nimio Amore) per qualche cosa che è esposta a molti cambiamenti e di cui non possiamo mai essere in possesso. Nessuno infatti si preoccupa o sta in ansia se non per la cosa che ama e le offese, i sospetti, le inimicizie, ecc. non provengono se non da amore verso cose che nessuno può veramente possedere», [Cr 345]. Detto altrimenti: non è bene amare troppo tali cose. La donna (e l’uomo) rientrano tra queste res? Che possano subire molti cambiamenti lo sappiamo dal melodramma – «La donna è mobile…» – e lo sappiamo da E III 51: «Uomini diversi possono essere influenzati in modi diversi da un solo e medesimo oggetto, e un solo e medesimo uomo può essere influenzato in momenti e modi diversi da un solo e medesimo oggetto», [Cr 201], come ci dice anche E IV 33 «Gli uomini possono discordare per natura in quanto sono combattuti da moti dell’animo che sono passioni, e in questo senso anche un solo e medesimo uomo è volubile e incostante», [Cr 267]. Inoltre, la donna (o l’uomo) rientrano tra quelle cose che non si possono mai possedere? Il possesso di Y è esso stesso soggetto a variazione, e non si può mai essere veramente possessori di una cosa del genere di Y o di Z. Il possesso è sì il padroneggiamento della cosa, che permette di goderne, ma la cosa può sempre cambiare di mano e di ‘padrone’. Ma non si può passare dal possesso (momentaneo) alla proprietà (stabile)? Non siamo di fronte allo stesso problema del passaggio dallo stato naturale allo stato civile, esposto nell’importantissimo sch. 2 di E IV 37 (Cr. 279) «…nello stato naturale nessuno è padrone di cosa alcuna per comune consenso, né si dà nulla che si possa dire essere di quest’uomo e non di quello, ma tutto è di tutti; e quindi nello stato di natura non si può concepire alcuna volontà di assegnare a ciascuno il suo, o di sottrarre a qualcuno ciò che sia suo, ovvero nello stato di natura non accade nulla che possa dirsi giusto o ingiusto; questo vale invece nello stato di civiltà, dove per comune consenso si decide che cosa sia di questo e di quello». È possibile instaurare uno ‘stato di civiltà sessuale’? Ma cos’è se non questo l’istituto matrimoniale? Non è l’istituzione legale di una unione tra Z e Y, sanzionata di fronte alla società, così che Y appartiene a Z, come Z appartiene a Y e nessun X ha più il diritto di impadronirsi di Y? Il matrimonio, citato da Spinoza nel cap. 20 dell’App. alla E. IV pare dunque la soluzione ideale per assicurarsi la proprietà sessuale di una cosa Y e la possibilità di goderne durevolmente. (Si ricordi la definizione del matrimonio che darà ancora Kant «Die Ehe ist die Verbindung zweier Personen verschiedenen Geschlechts zum lebenswierigen wechselseitigen Besitz ihrer Geschlechtseigenschaften» = Il matrimonio è il contratto tra due persone di sesso diverso per il possesso reciproco, vita natural durante, dei loro organi sessuali). E di colpo non si può più dire che una cosa Y non sia tale che non la si possa veramente possedere. Non vi sarebbe dunque motivo di riservare alla cosa Y un trattamento specifico e di credere che ‘l’amore eccessivo’ per «una cosa che non possiamo mai veramente possedere» designi specificamente l’amor erga foeminam (o verso il maschio): questo amore non è diverso dagli altri amori e le sventure umane nascono altrettanto da rivalità relative ad es. al possesso dei campi. L’obiezione è seducente, ma non sta in piedi per il fatto che un campo non è una donna (o un uomo), mentre tutta la geometria dell’amore si fonda sul fatto che Z immagina Y simile a lui. Il legame legale di proprietà instaurato civilmente tra i due congiunti non sospende la vita affettiva di ciascuno di loro. O per dirlo in altri termini e nei termini del Trattato Politico spinoziano, sotto il diritto civile permane e agisce il diritto naturale. E poiché né Z, né Y sono comparabili a dei terreni, la soluzione del matrimonio, tranne che in determinate condizioni molto precise, non può essere che una soluzione apparente. La proprietà legale del congiunto, del coniuge, non garantisce il possesso e il godimento durevole. In queste condizioni è possibile dire che se la sventura umana deriva principalmente da un amore eccessivo per una cosa sottoposta a molte variazioni e che nessuno può veramente possedere, l’amore di Z per Y e reciprocamente, purché sia eccessivo, ne costituisce l’illustrazione perfetta. La formula che stiamo analizzando («…i malesseri e le sventure dell’animo sorgono soprattutto da eccessivo amore per una cosa che sia esposta amolti cambiamenti e di cui non possiamo mai essere in possesso») figura nello sc. di E V 20 [Cr 345]. L’importanza di questo scolio è capitale, poiché S, vi riassume ed enumera i diversi rimedi rispetto alle passioni che ha prodotto dimostrativamente all’inizio di questa V parte. Giro d’orizzonte complessivo al termine del quale S. dichiara «di aver concluso con tutto ciò che riguarda questa vita presente». S. proseguiva la frase analizzata scrivendo: «Di qui dunque capiamo facilmente quale potere abbia la conoscenza chiara e distinta, e principalmente quel terzo genere di conoscenza… il cui fondamento è la conoscenza di Dio, sui moti dell’animo, e se pure non li elimina in assoluto in quanto essi sono passioni… almeno fa sì che costituiscano la parte più piccola della mente», [Cr 345-47]. Lasciamo da parte per il momento il terzo genere di conoscenza, la scienza intuitiva e atteniamoci ancora alla conoscenza chiara e distinta intesa come conoscenza del secondo genero, o conoscenza razionale. Tale conoscenza chiara e distinta genera un affetto che è un amore e che si chiama, una volta prodotto in E V 15 [Cr. 341], l’amor erga Deum che S. mostra differire punto per punto dall’amore del tipo «Z ama Y». La conoscenza chiara e distinta dà vita all’amore verso una cosa immutabile ed eterna ed esente da passioni, non investita né da gioia, né da tristezza. Dio in effetti non è né Z, né Y: è certo una res, extensa e cogitans, ma una cosa, anzi la cosa eterna, come leggiamo in E 1 19 [Cr 49] (Dio, ossia gli attributi di Dio sono eterni) e nel corollari di E I 20 che stabiliscono l’eternità e l’immutabilità dell’esistenza di Dio. Ed E V 17 ha ribadito: Dio è esente da passioni, e non è preso da alcun moto di gioia o di tristezza, [Cr 341]. L’amore generato dalla conoscenza chiara e distinta è amore verso una cosa che noi abbiamo veramente in nostro possesso (cujus reverâ sumus compotes), [Cr 346]. Detto altrimenti: Dio è tutto a tutti, può esserlo e lo è. E il rinvio E II 45, [Cr. 131] ci indica sotto quale forma «ogni idea di qualunque corpo o cosa singola esistente in atto implica necessariamente l’esistenza eterna e infinita di Dio». E II, 45 dim. «L’idea di una cosa singola esistente in atto implica necessariamente tanto l’essenza che l’esistenza della cosa stessa. Le cose singole…non si possono concepire però senza concepire Dio; ma poiché hanno come causa Dio in quanto lo si considera sotto l’attributo del quale sono modi, le loro idee dovranno necessariam implicare il concetto del loro attributo ossia l’eterna e infinita essenza di Dio». […] Sch. «sebbene ciascuna cosa singola sia determinata ad esistere in un certo modo da un’altra cosa singola, la forza tuttavia per la quale ciascuna persiste nell’esistenza deriva dall’eterna necessità della natura di Dio». (Versione spinoziana del teologema della creatio continua ben presente anche in Descartes). Ciò che, di Dio, ognuno possiede, e questo necessariamente è l’essenza eterna e infinita implicata in ciascuna delle sue idee di cosa singolare esistente in atto. Ed E II 46 afferma: «La conoscenza dell’eterna e infinita essenza di Dio, che è implicita in ogni idea, è adeguata e perfetta”. L’amore verso Dio pertanto non è inquinato da nessuno dei vizi che si riscontrano in communi amore. L’amore verso Dio non è altro che la conoscenza di Dio e lo sforzo per conoscerlo sempre di più, il che è il sommo bene della mente (E IV 28). Nessuno può avere Dio in odio (E V 18) Ma cosa si ama sotto il nome di Dio? Il vero, la conoscenza chiara e distinta di ciò che è veramente. …il supremo desiderio dell’uomo (E IV 26) per poco che comprenda una sola cosa, che ne abbia un’idea chiara e distinta è di continuare a conoscere, a comprendere. E un’idea adeguata è un’idea vera. E in quanto possiede un’idea adeguata. ogni uomo desidera perseverare nel vero, continuare a comprendere, dedurre il vero dal vero: ed è questo l’amore di Dio. Se c’è un desiderio che si veda pienamente soddisfatto, è proprio il desiderio di sapere. Ciò è detto in altri autori libido sciendi. Sì, se c’è una libido che trova di che soddisfarsi completamente non è, nell’Ethica, la libido che fa sì che Z desideri unirsi con dei corpi, ma la libido che fa sì che Z desideri in modo supremo unirsi al vero, a Dio. L’amore verso Dio non è che la gioia che si ha nel possedere e godere del vero, sola cosa di cui si possa essere ‘padroni’, compotes. Chi comprende una cosa, per il solo fatto che comprende è gioioso, e di una gioia che è accompagnata dall’idea di dio come causa, dunque ama dio. Amare una cosa Y di amor meretricius (d’amore sessuale) è abbandonarsi a un’eccitazione che può conoscere eccessi ed essere dunque cattiva; avere rapporti sessuali è aprire la strada alla possibilità dell’odio, della gelosia, della sventura… amare troppo Y in questi due modi è riunire il massimo di condizioni suscettibili di fare che queste possibilità si realizzino. Se si vuole continuare ad amare delle Y e portarle a letto, l’intelligenza vuole che si sia consapevoli di queste minacce e le si fronteggino. A questo punto, aperte da Spinoza, abbiamo davanti a noi due strade. Dapprima, la castità, questa ‘potenza della mente’ chiamata a moderare il desiderio dei rapporti sessuali. Ma dove comincia l’eccesso della libido? Moderata o smodata si è visto per S. la libido resta sempre tale. Ma fino a che punto essere casti? La ragione ci dice di limitare/moderare la libido o di azzerarla in noi? È ciò che Z, investito dalla sua libido, vuole sapere per sapere cosa farne. E si può ben pensare che questa libido, per modesta che sia, pur non essendo un’ossessione, non si lascerà eliminare facilmente, perché come ogni cosa anche la libido vuol perseverare nel suo essere. Così si può pensare che alla questione che poniamo (la ragione suggerisce di ridurre a poco o a zero la libido?) la risposta che Z vorrebbe sentire è moderarla, non azzerarla: esiste una buona vita sessuale, un giusto posto del sesso nel corpo. Cominciamo con il dargli soddisfazione su questo punto: la castità non può consistere in un annientamento totale della vita sessuale intesa come coito. Per un motivo semplice. Cos’è in effetti avere un rapporto sessuale? fare una certa azione, eccitare Y ed esserne eccitato. A compiere questa azione Z è determinato dal desiderio, dal desiderio di unire il suo corpo al corpo di Y. Ora, noi sappiamo dalla prop. E IV 59 che «A tutte le azioni cui siamo determinati da un moto dell’animo che è una passione, noi possiamo essere determinati dalla ragione, indipendentemente dal moto dell’animo», [Cr 299]. Per cui la ragione non condanna nessuna parte del corpo, la ragione in senso proprio non considera affatto i genitali come pudenda: ciò ch’essa vuole è che ogni parte del corpo stia al suo posto, compia la sua funzione nel modo più utile possibile. Esiste dunque un sesso buono, esistono dei buoni gesti sessuali. E praticare il coito non è altro che un gesto. Ora anche se il sesso riunisce in sé l’apparato urinario e quello genitale, il vero gesto sessuale – come ricordava Hegel nella Fenomenologia – non è urinare, ma praticare il coito. La pratica del sesso esiste anche nella retta vita. La sessualità è salva con probabile soddisfazione del nostro Z. Ma la gioia che ne ricava potrebbe ben essere di breve durata. Notiamo subito che la ragione si limita ad autorizzare i rapporti sessuali, vi acconsente: non li prescrive. Alla sua autorizzazione aggiunge, anzi, delle clausole. In primo luogo, la moderazione, suggerendoci che ci sono dei limiti, anche se lascia a ognuno il non facile compito di stabilirli. Ciò che vuole la ragione, semplicemente, è che si sia casti, come si è frugali e sobri: quindi praticare il sesso il giusto per vivere bene: non troppo insomma. Rileggiamo ora ad uso del nostro Z il cap. XIX dell’appendice della parte IV che ci permetterà di abbordare la seconda strada che si apre alla riflessione e che verte proprio sull’amor meretricius: «L’amore sessuale poi, ossia l’impulso sensuale a generare, originato dalle forme corporee e, in senso assoluto, ogni amore che riconosce una causa diversa dalla libertà d’animo, si trasforma facilmente in odio a meno che, ed è ancor peggio, non sia una specie di delirio, e allora è alimentato più dalla discordia che dalla concordia», [Cr. 319]. All’orizzonte dell’amor meretricius, generato dalla bellezza dei corpi, si profila la catastrofe come per qualsiasi amore che riconosce una causa diversa dalla libertà d’animo. E la sola vera libertà d’animo per S. è la ragione. Bisogna dunque amare razionalmente, scegliere razionalmente con chi avere rapporti sessuali, chi amare. È una buona cosa, ma è bene non solo non sbagliarsi quanto all’oggetto da amare, ma anche saper distruggere gli amori che non sono buoni, che sono dannosi. Bisogna pensare che esistono amori che dobbiamo distruggere, altrimenti come capire E V 2 che ci arma in effetti per una lotta del genere? «Se distogliamo un moto dell’animo, o affetto, dal pensiero della causa esterna, e lo colleghiamo ad altri pensieri, allora l’amore o l’odio verso la causa esterna, così come le oscillazioni dell’animo originate da quei moti dell’animo, saranno distrutti», [Cr 329]. Dunque esistono anche amori e non solo odii da distruggere. Da distruggere, e non solo da moderare. Bisogna saper distruggere gli amori cattivi. E questa distruzione si opera distogliendo la gioia dall’idea della causa esterna che l’accompagna e che fa sì che ci sia amore.E questo, di nuovo, sarà una faccenda di associazioni: l’intelligenza consisterà per Z ogni volta che si vedrà preso da amore per una qualsiasi Y, nel congiungere la sua gioia non a Y, ma a dei pensieri veri, ossia a conoscere il suo amore, a conoscere di questo amore ciò che ne può conoscere. Dapprima identificarlo, chiamarlo come tale: dirsi «io amo» e sussumere questo amore sotto la geometria dell’amore, comprenderlo a partire da Dio e in Dio. È quanto suggerisce lo scolio di E V 4, [Cr 331]. «Dal momento che non si dà nulla cui non segua qualche effetto e che tutto ciò che deriva da un’idea adeguata lo comprendiamo chiaramente e distintamente, di qui discende che ciascuno ha il potere di comprendere chiaramente e distintamente se stesso, e i propri moti dell’animo, se non in assoluto, almeno in parte, e quindi di fare in modo di essere meno passivo nei loro confronti. Si deve dunque mettere il principale impegno nell’arrivare a conoscere chiaramente e distintamente, per quanto possibile, ogni moto dell’animo, affinché la mente, a partire da quel moto dell’animo, sia determinata a pensare le cose che percepisce chiaramente e distintamente e nelle quali trova pieno appagamento; e quindi il moto dell’animo stesso venga separato dal pensiero della causa esterna e si colleghi con pensieri veri; dal che proverrà non soltanto che l’amore, l’odio ecc. siano distrutti (per E V 2), ma che anche le voglie, o desideri, solitamente originati da tale moto dell’animo, non possano avere eccesso (per E IV 61) ». È così per Spinoza: bisogna ricorrere al vero per distruggere l’amore quando è cattivo, e per moderare il desiderio nato dall’amore cattivo. Ed è perché la mente trova «pieno appagamento» nel vero che, per poco che si sia affacciata a contemplare il vero attenendovisi, l’amore eccessivo è distrutto, al pari del desiderio eccessivo che generava. In questo senso, ciò che distrugge l’amore, l’amore malvagio, l’amore per le cose singolari malvage è l’amore verso Dio. E si conta su di esso per sfuggire alla trappola che ci tendono le cose singolari cattive. Ma chi sono queste cose singolari cattive? Se si vogliono avere rapporti sessuali (e la ragione li autorizza), se si vuole amare (e la ragione non ha obiezioni al riguardo) bisogna essere determinati da qualcos’altro che dall’apparenza di bellezza di un corpo Y. (Anche se è questo che il più spesso fa sì che noi ci determiniamo ad amare). Infatti ci siamo impressi in mente il cap. 20 dell’Appendice alla IV parte, che ora citiamo ancora una volta: ««Per quanto concerne il matrimonio, è certo che esso si accorda con la ragione, se il desiderio dell’accoppiamento non sia provocato soltanto dall’avvenenza delle forme, ma anche dall’amore di procreare figli e di educarli con sapienza; e inoltre se l’amore di entrambi, ossia dell’uomo e della donna, abbia come motivo non solo la formosità, ma soprattutto la libertà dell’animo». È questo l’amore buono, l’amore reciproco per una buona cosa singolare, che certo un po’ ha per causa anche l’apparenza, ma soprattutto la libertà d’animo. E il desiderio di generare dei figli nella saggezza e per la saggezza. L’amore reciproco di due cose sagge che si sforzano di esserlo ancora e sempre, che si attraggono un po’ per l’apparenza, ma soprattutto per la saggezza. Questi coniugi faranno all’amore? Certamente. Un po’ perché è una buona cosa, ma soprattutto per fondare una famiglia di saggi e aumentare la comunità dei saggi, per accrescere la gioia comune. Faranno l’amore. ma non troppo. Non penseranno solo al sesso. Allora anche il desiderio di avere rapporti sessuali si congiungerà alla virtù: perché come afferma lo scolio di E V 4 «tutte le voglie o desideri sono passioni in quanto sono originate da idee inadeguate, ma le stesse voglie si ascrivono a virtù quando sono suscitate […] da idee adeguate. Perché tutti i desideri da cui siamo determinati a fare qualcosa possono essere originati tanto da idee adeguate, quanto da idee inadeguate (cfr. E IV 59)». Come l’atto di colpire, l’atto di fare all’amore può essere ragionevole e buono, se ciò che lo suscita in fondo è la verità. Il bel corpo, ma soprattutto la verità. Un po’ di libido, di sensualità, ma soprattutto libido sciendi, desiderio di conoscere e capire. Allora quando si è Z, ci si sposa con Y. E Y, dal momento che anche a lei la saggezza non difetta, si sposa con Z. E insieme faranno dei piccoli futuri sapienti. È così? È così ed è tutto. Ma a questo punto c’è da temere che Z, a cui stiamo spiegando Spinoza, non trovi tutto ciò spaventosamente attraente. Insomma, S. lo delude. Perché aveva sentito dire che S. era un filosofo che se la prendeva con le passioni tristi, e diceva come distruggerle, era il pensatore della gioia! Ora scopre che è un filosofo che se la prende anche con le passioni gioiose e che di alcune di esse vuole la morte. E si chiede se nel numero delle passioni gioiose da distruggere non rientri anche la passione così deliziosa di amare, di amare una cosa che si trova bella, con cui è così desiderabile fare all’amore. E poi, aveva sentito dire che S. era un filosofo «amico del corpo», che aveva scritto «finora non si sa che cosa può un corpo», sostenendo che occorreva moltiplicare l’attitudine del corpo ad essere modificato dai corpi esteriori, modificandoli a sua volta, un filosofo del desiderio trionfante e dell’esultanza del corpo. E ora vede che bisogna ridurre il tutto a proporzioni più moderate e modeste. Senza dubbio la sua delusione è il segno che il nostro Z non era proprio un principiante, aveva già una sua idea di Spinoza. Ma la prospettiva del coito razionale, del matrimonio, dei figli da educare alla sapienza come potrebbe incantare il nostro Z? A prezzo di un po’ di lavoro: deve continuare a imparare, a conoscere, a capire di più, sempre di più. Deve concatenare instancabilmente il vero al vero, fino ad arrendersi totalmente alle ragioni del vero. Deve pensare a Dio, sempre di più (perché questo è comprendere). Deve amare Dio, sempre di più. Deve abituarsi al suo nuovo elemento, riconoscerlo come tale e facendo così deve fondarsi sempre di più in esso: ora questo elemento si chiama eternità. Perché dire Dio, o comprendere o ragione o conoscenza chiara e distinta, o verità per Spinoza vuol dire sempre: eternità. Ogni verità è eterna, come Dio, ed è una parte di Dio in quanto il Dio spinoziano è res cogitans, cosa pensante. Ciò che conosce la ragione, le proprietà comuni delle cose sono verità eterne. Tutto ciò che la ragione vede, lo vede sotto l’aspetto dell’eternità. È qui il rimedio, la cura: sapere, comprendere è sussumere, raccogliere ogni cosa sotto una geometria eterna. Questa geometria Z deve prima impararla, deve comprendere l’Etica fino alla proposiz. 20 della V parte. Deve percorrere senza stancarsi le dimostrazioni, convincersi dell’evidenza del vero, del fatto che QED – quod erat demonstrandum – è stato davvero dimostrato. Tutto ciò che noi abbiamo tentato di fargli capire, bisogna che l’abbia capito se vuole essere armato per condurre bene la sua vita, anche la sua vita sessuale. Allora dovrà arrendersi all’evidenza: la via giusta è una Y saggia con cui si convola a nozze. Se ha ben compreso, capirà che la sua delusione nasceva da un fraintendimento: credeva di doversi privare di molte gioie, mentre invece era sul punto di prepararsene di molto più grandi. Sì, se ha ben compreso, allora dovrà egualmente comprendere che il matrimonio è la via giusta e la via felice, la migliore, o la meno peggio – ma la meno peggio è anche la migliore come si evince dalle proposizioni E IV 65 e 66 e i loro corollari. [Cr 305-307]- E una volta ben compreso tutta l’Etica fino alla prop. 20 della V parte, non gli resterà che seguire le indicazioni che Spinoza fornisce nello scolio a E V 10: Dunque la miglior cosa che possiamo fare, fino a quando non abbiamo una perfetta conoscenza dei nostri moti dell’animo, è di concepire rectam vivendi rationem (una corretta regola di vita) ossia dei sicuri princìpi di vita, impararli a memoria e applicarli continuamente alle singole circostanze che nella vita si presentano di frequente, così che la nostra immaginazione ne sia ampiamente presa e siano sempre a nostra disposizione (et nobis in promptu sint semper)», [Cr 337]. Bisogna notare a questo punto l’estrema utilità della conoscenza di primo genere per una condotta di vita intelligente; una volta che memoria e immaginazione sono sottoposte all’intelligenza, non sono più nocive, bensì utilissime; immaginazione e memoria intelligenti servono come non mai. La memoria serve a imprimerci nella mente l’appendice alla parte IV, cosicché la verità circa il giusto modo di comportarci ci sia sempre presente. L’immaginazione serve a delineare possibili e plausibili scenari, costruiti sulla base del corso abituale, ordinario della natura, così da preparare il nostro comportamento più intelligente; supponiamo lo scenario S che ponga il problema P: la cosa migliore sarà la risposta R. Se il nostro Z procede così, quando interverrà nella realtà il problema P – che qui non è altro che il problema Y – avrà già sottomano la risposta R, saprà cosa fare per fare la cosa migliore o la meno peggio. Questi esercizi mentali o spirituali che mobilitano insieme e nello stesso senso intelligenza, memoria e immaginazione sono, per così dire, una pratica del vero. Vi è un tempo per questa pratica. E V 10, nel cui scolio sono esplicitati i suddetti ‘esercizi’, lo designa in modo molto chiaro:«Finché non siamo combattuti da moti dell’animo contrari alla nostra natura, abbiamo il potere di ordinare e concatenare le affezioni del corpo secondo l’ordine proprio dell’intelletto». È in queste parentesi di calma, tra due accessi di passione, che il nostro Z potrà dedicarsi alla pratica del vero, e dell’immaginazione intelligente, al fine di progredire nella via in cui si è immesso, la via della cura delle sue passioni, la via della guarigione e della salute. Diversamente da come fa Spinoza in questo scolio, supponiamo che il nostro Z più che dall’ambizione e dal desiderio di gloria, sia molestato dalla sensualità, dalla coëundi cupiditas, dall’amore per l’accoppiamento dei corpi. Pensiamolo come un single. Noi sappiamo ormai, e anche lui che ha studiato l’Etica, di quale arsenale di verità dispone, sia rispetto al coito, sia riguardo all’amore per le cose singole. Supponiamo che Z ammetta alla fine la verità delle dimostrazioni spinoziane. Quale sarà l’esercizio spirituale/mentale a cui si dedicherà? All’immaginazione di una cosa particolare che si incontra ordinariamente nel corso della vita: «io incontro una cosa Y che mi piace, la desidero e potrei bene amarla. Che fare?» è il suo problema P e si tratta di cercare la risposta R: il meglio da farsi in tal caso. Vi sono almeno due risposte possibili: sia stabilire con Y dei legami tali da poter a poco a poco distinguere se Y e lui ragionevolmente hanno buone prospettive di convivere, se al rapporto che istituiscono sono determinati soprattutto dalla libertà d’animo e se è così, allora sposare Y; oppure nel caso in cui per es. Y gli sembri evidentemente non essere o non essere capace di essere determinata dalla libertà d’animo, ridurre al minimo l’incontro con lei ed evitare ulteriori contatti. Fuggire Y. Bisogna imparare a fuggire Y: è ciò che apprende Z nei suoi esercizi mentali. Ma perchè? perché Y rappresenta un pericolo, il pericolo di un amore sbagliato, nocivo. Ma allora Z ha paura? Se Z evita Y perché ha paura, allora non è un sapiente, perché noi sappiamo da E IV 63 [Cr 303] Che chi è guidato dalla paura e fa il bene per evitare il male non è guidato dalla ragione. Non basta far bene, bisogna farlo anche per una buona ragione. Se Z evita Y, nel suo caso una buona cosa, ma lo fa per paura, è dunque uno stolto e questo va contro la nostra ipotesi. E invece no: in verità evitando Y, Z non farà che illustrare ciò che dice il corollario di E IV 66: «Sotto la guida della ragione ricercheremo un male minore presente, causa di un bene maggiore futuro, e tralasceremo un bene minore presente, causa di un male maggiore futuro», [Cr 307]. Evitare Y è trascurare un bene presente, godere di Y, che rischierebbe di essere causa di un grosso male futuro. Z in realtà sta diventando saggio. Del resto sappiamo da E IV 69 che «un uomo libero manifesta altrettanta virtù nell’evitare quanto nel superare i pericoli». E nel suo corollario leggiamo: «Si riconosce dunque all’uomo libero altrettanta fermezza nella fuga tempestiva, che nella battaglia; ovvero l’uomo libero sceglie la fuga con la stessa fermezza, ossia presenza d’animo, con cui sceglie il combattimento». Ciò vale anche per il combattimento amoroso. E dunque, il nostro Z, nei momenti in cui la sua libido gli lascia il tempo di riflettere, di pensare, scoprirà che in certi casi bisogna sapere fuggire Y e che è saggio evitarla. Bisogna imparare a non amare tutti con legami d’amore, come bisogna imparare ad amare tutti con legami d’amicizia. E per esempio (dal momento che questo scenario, anche se non rientra nel corso ordinario della vita è tuttavia immaginabile) Z deve saper fuggire una Y che «gli si offre», che gli si concede immediatamente. Perché esiste, secondo E IV 70 tutta una logica del dono: il dono spera un contro-dono e l’insensata che si dà (e bisogna pure che la nostra Y lo sia, per concedersi subito al primo Z venuto) non può che sperare che anche Z offra tutto se stesso in cambio, essa conta che anche Z sia come lei, dunque un insensato. Ma Z non desidera esserlo. E dunque declinerà l’offerta. Ma lo farà con l’indispensabile delicatezza o intelligenza, con la cautela di cui lo scolio di E IV 70 spiega che dobbiamo sapere dare prova «nello scansare i loro [=degli stolti] favori» [Cr 311]; Z dovrà stare attento a non dare a Y l’impressione di disprezzarla, perché in tal caso Z sarebbe da lei odiato, mentre lui, in quanto uomo libero «cerca di legare a sé d’amicizia gli altri uomini» [Cr 311] tra cui, ovviamente, anche Y. E dunque nel caso in cui venisse a incontrare una Y che si offre, dunque la cosa singolare più in grado di materializzare la trappola tesa alla sua libido, Z intelligentemente proseguirà lungo la sua strada. Lo interessano altri legami, d’amicizia. Li offrirà anche a Y, da subito, anche lui si offre ma solo come uomo libero. Amici e basta. E per adottare questo partito gli sarà bastato procedere come l’ambizioso evocato nello scolio di E V 10: «Bisogna notare tuttavia che noi, nel fare ordine tra i nostri pensieri e immagini, dobbiamo sempre fare attenzione (per il coroll. di EIV 63 ed E III 59) a quel che c’è di buono in ciascuna cosa, così da essere sempre determinati ad agire da un moto di gioia. Per esempio, se uno si accorge di ricercare troppo la gloria, pensi al retto uso da farne; e a qual fine vada perseguita, e con che mezzi si possa conquistare; ma non all’abuso di essa, alla vanità, alla volubilità degli uomini e ad altre simili cose, cui nessuno pensa se non perché ha l’animo malato», [Cr 339]. Così il nostro Z vedendo che cerca ancora troppo legami amorosi e sessuali con una eventuale seducente Y, anziché contemplare tristemente il lato negativo di questo desiderio, ne contemplerà gioiosamente il lato buono, e pensando al suo giusto uso, vi vedrà l’occasione di instaure con questa eventuale Y il vero legame, il buon legame, il legame d’amicizia. Così la stessa disponibilità a esser sedotto si vedrà convertita in virtù o potenza. Ecco a cosa avrebbero forse portato gli esercizi mentali di Z. Da cui rinvigorito, continua a vivere. In effetti c’è un tempo per gli esercizi mentali e un tempo per ritrovare il corso ordinario della vita: alzarsi, mangiare, bere, lavorare, vedere gente, dormire. Ciò a cui aspira Z ormai (perché ha studiato e compreso) è fare ciò che fa e a cui aspira da quando è nato (agire, vivere, conservare il proprio essere: come precisa E IV 24 «tre modi di dire la stessa cosa»): fare ciò che fa, facendolo bene, sotto la guida della ragione. Egli vede ciò che è bene fare, evitare Y, il pericolo Y: ne conviene è la cosa migliore che possa fare. Ma ora che lo vuole, il problema è farlo. È poter dire: video meliora proboque, meliora sequor. Ahinoi! è trarre le somme senza mettere nel conto l’impotenza umana. Un uomo è una res che rischia a ogni istante di dover dire: video meliora proboque, deteriora sequor. In effetti, come dice il corollario di E IV 4 [Cr 245] «l’uomo è necessariamente sempre attraversato dalle passioni e…segue l’ordine comune della natura, ad esso obbedisce e vi si adatta per quanto lo esige la natura delle cose». O ancora, per riprendere i termini della Prefazione alla V parte: «noi non abbiamo un potere assoluto [sui nostri moti dell’animo]», [Cr 325]. Anche chi vive sotto la guida della ragione è sempre esposto a ricadute nella vita sotto la guida dell’emozione, delle passioni e dunque dell’immaginazione. Si ha un bel sapere, conoscere, ammettere ciò che è vero; ma si rischia sempre di vedersi determinati ad agire contro di esso, nel senso del falso, dell’idea oscura e confusa, del moto dell’animo che è una passione. Dal che si vede che «l’uomo che vive sotto la guida della ragione», come in effetti lasciava pur intendere la Prefazione alla IV parte, non è altro che un «modello di natura umana» (exemplar humanae naturae) [Cr 237-236] che noi ci proponiamo e a cui cerchiamo di avvicinarci sempre più, un modello di cui si deve produrre scientificamente il concetto, ma che nessun uomo reale raggiunge e che resta un uomo ideale. E ciò che si oppone alla realizzazione effettiva di questo ideale è questa necessità, un giorno o l’altro, in un momento o in un altro avverrà la ricaduta passionale: accadrà senz’altro, fatalmente, possiamo esserne sicuri. L’impotenza umana non è che un altro nome di questa fatalità. Noi cercheremo di vedere come vi soccomberà Z , anche lui come tutti sottomesso al riemergere continuo delle passioni. Lo sappiamo munito di notevoli conoscenze. Questo sapere gli indica ciò che è bene che egli faccia: egli conosce la buona via. Possiamo immaginarcelo come Ercole al bivio: la via di destra è quella della virtù, l’altra quella del piacere; l’una attraverso travagli e fatiche conduce alla gloria, l’altra al puro e semplice godimento. Z sa che deve scegliere la via della virtù e tutta via sceglierà la via di sinistra, la via del piacere. Perché? La risposta nella prossima puntata