Capitolo 9° ASSETTI NORMATIVI E FORME DI LAVORO DEGLI IMMIGRATI1 9.1 Premessa Come è noto il Nord Est, in specie il Veneto, esercita una particolare attrazione verso gli immigrati, che è verificabile sia con riferimento all’ingresso dall’estero, molto spesso direttamente realizzato verso il Veneto, e sia con riferimento alla mobilità interna al territorio nazionale, tanto è vero che in occasione di ognuna delle regolarizzazioni attuate dal 1986 ad oggi si è puntualmente registrato un considerevole esodo dal Sud al Nord dei lavoratori appena regolarizzati, o persino durante la definizione della procedura di regolarizzazione. Ciò potrebbe far pensare, di primo acchito, che le ragioni dell’esodo siano da individuare nella differenza tra un Sud dove il lavoro per gli immigrati è più facilmente nero2 e un Nord dove sarebbe quasi esclusivamente regolare, sicché la “preferenza” degli immigrati per il Veneto starebbe a dirci che essi giungono qui perché c’è più possibilità di lavorare regolarmente. Potrebbe persino apparire come logico corollario la deduzione per cui tale tendenza alla concentrazione nella nostra regione esprime un’offerta assolutamente prevalente di lavoro regolare, e sia dunque la prova che nel Veneto c’è poco lavoro nero, salvo che per alcuni segmenti “marginali” del mercato tipicamente occupati dai c.d. “clandestini”. Come vedremo, nel Veneto il lavoro nero non interessa solo i lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno ma anche, con modalità diverse, persone munite di un 1. Di Marco Paggi. 2. È emblematica l’esperienza del campo/centro di assistenza organizzato nel 1990 a Villa Literno da Cgil, Cisl e Uil, per favorire l’utilizzo della regolarizzazione di cui al D.L. 416/90 (convertito nella L. 39/90, c.d. “Legge Martelli”) da parte degli immigrati impiegati nella raccolta del pomodoro. In quella occasione la camorra volle dare un segnale della propria capacità di controllo del territorio: infatti, mentre tutti gli immigrati ospitati presso il campo attrezzato dalle organizzazioni sindacali vennero assistiti per formalizzare l’iscrizione al collocamento (prodromica rispetto all’assunzione regolare), di fatto uno solo degli iscritti venne assunto in regola, quasi a dire: “uno, non di più, viene assunto in regola, perché l’abbiamo deciso noi”. 325 valido permesso di soggiorno; non solo, ma vedremo anche che il lavoro regolare può persino interessare persone prive di un valido permesso di soggiorno. Sembra dunque molto più realistico ritenere che la scelta di dirigersi al Nord sia essenzialmente orientata da un dato molto oggettivo e immediatamente apprezzabile, ovverosia dalle maggiori opportunità di occupazione al Nord ed in particolare nel Nord Est, quale che sia il tipo di lavoro. Non si fanno, insomma, differenze tra lavoro regolare e lavoro nero, semmai si guarda a quanto il lavoro può rendere nell’immediato, e indubbiamente le paghe “in nero” sono più elevate al Nord che al Sud, come è ben noto ai diretti interessati.3 D’altra parte, non va trascurato che anche gli immigrati con regolare soggiorno per lavoro sono ampiamente occupati nel lavoro sommerso. Sulle propensioni degli immigrati, nella scelta della loro destinazione lavorativa, influisce notevolmente l’effetto della cosiddetta “catena migratoria”, che invero può avere delle maglie più o meno strette e così esprimersi in un mero “passaparola” tra connazionali, che spesso evolve in una rete spontanea di contatti (non certo immuni da interessi collegati alla gestione di interessi e “gerarchie” all’interno delle comunità di immigrati), fino ad arrivare a vere e proprie forme di solidarietà, prevalentemente di tipo parentale. Ma, quali che siano le dinamiche che hanno influenzato il percorso migratorio, resta un dato di generale esperienza, verificabile in modo costante nel rapporto con gli immigrati, quantomeno con quelli che hanno meno anzianità di presenza sul territorio: il loro sostanziale disinteresse verso la forma del rapporto di lavoro, ovvero la sua irregolarità più o meno apparente; essi comprendono realisticamente, sia pure dal loro diverso punto di vista culturale, la precarietà dei tipi di lavoro che vengono loro normalmente proposti e più in generale delle condizioni di vita che sono destinati ad affrontare, e non si possono permettere in tale contesto di attribuire valore al concetto di lavoro regolare, anzi, è già difficile che ne comprendano il significato. Inoltre, sempre dovendo tener conto dei loro diversi approcci culturali e dei bisogni di natura immediata che essi devono soddisfare per sé e per le loro famiglie, i lavoratori di recente immigrazione non hanno di fatto la possibilità di pensare al futuro, di apprezzare le conseguenze vantaggiose (anche dal punto di vista della possibilità di mantenere una regolare posizione di soggiorno) di un’attività regolare e tendenzialmente stabile, che dia diritto a fruire le prestazioni delle assicurazioni sociali. Gli stessi immigrati in condizione regolare di soggiorno –maggiormente quelli di più recente immigrazione e/o 3. In contesti di elevata tensione occupazionale si arriva ad offrire ad un saldatore esperto la paga netta, in nero, di 11 euro all’ora; naturalmente, si tratta delle “punte” del mercato, che non costituiscono certo la regola ma rappresentano comunque un elemento di attrazione. 326 meno “inseriti”– hanno un atteggiamento di indifferenza verso il valore in sé del lavoro regolare, spesso sperano (sia pure con una notevole dose di ingenuità) di poter “contrattare” una paga in nero più alta in cambio della rinuncia ai contributi, dei quali non riconoscono l’utilità differita alla maturazione dell’età pensionabile.4 In altre parole, la concentrazione nel Veneto si basa essenzialmente su una domanda di lavoro molto ampia e diffusa sul territorio, tale da far sperare con qualche fondamento nella realizzazione di guadagni relativamente superiori, senza che si possa distinguere nettamente l’attrazione esercitata dal lavoro regolare rispetto a quella pure esercitata dal lavoro sommerso, anzi, con la grande domanda di lavoro regolare convive e concorre un’apprezzabile richiesta di lavoro irregolare, sicché sarebbe un errore ritenere che solo la domanda di lavoro regolare alimenti tanto gli ingressi dall’estero quanto la mobilità interna al territorio nazionale, poiché a ben guardare anche il mercato del lavoro sommerso non manca di contribuire all’attrazione del lavoratori immigrati verso il Veneto. La recente regolarizzazione, rispettivamente disciplinata per colf e badanti dall’art. 33 della legge 30 luglio 2002 n. 189 e per i lavoratori degli altri settori dal decreto-legge 9 settembre 2002 n. 195, convertito nella legge 9 ottobre 2002 n. 222, ci ha offerto un’ottima occasione per toccare con mano il fenomeno del lavoro sommerso degli immigrati in tutte le sue sfaccettature. Infatti, poiché la recente regolarizzazione si caratterizza per l’avere affidato, per la prima volta, alla sola volontà del datore di lavoro il potere di attivare la procedura di “emersione”, ci ha fornito e continuerà a fornirci importanti elementi di conoscenza e di valutazione, non solo in relazione ai rapporti di lavoro per i quali è stata attivata la procedura, ma anche per quanto riguarda la casistica dei datori di lavoro che hanno rifiutato di attivare la regolarizzazione; inoltre, considerati i tempi prevedibilmente lunghi di definizione delle pratiche, ci permetterà un’utile osservazione sulle sorti dei relativi rapporti di lavoro. Va precisato che esula dalla presente analisi la rilevazione e la valutazione di dati statistici o comunque di dati quantitativi basati su rilevazione scientifica (gli stessi dati inerenti la regolarizzazione, peraltro, potranno essere realmente disaggregati e “letti” solo fra molto tempo), essendo invece suo scopo precipuo, al di là dei dati, la descrizione ba- 4. Peraltro, con l’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002 n. 189 (c.d. “Legge Bossi-Fini”), è stato abrogato l’istituto della liquidazione dei contributi versati in Italia in caso di rientro definitivo nel paese d’origine, già previsto dal testo originario dell’art. 22, comma 11, del D.leg.vo 25 luglio 1998 n. 286. Tale forma di “previdenza alternativa” aveva in effetti suscitato un crescente interesse verso la regolarità contributiva, poiché assicurava un consistente beneficio. Verosimilmente, l’intervenuta abrogazione non mancherà di diminuire l’interesse degli immigrati verso la regolare contribuzione, essendo difficile, dal diverso punto di vista culturale di molti di essi, percepire l’utilità di qualcosa che dovrebbe verificarsi al compimento del 65° anno d’età, secondo quanto previsto dal testo riformato dell’art. 22, al comma 13. 327 sata sull’esperienza pratica delle tipologie di lavoro irregolare degli immigrati, dei settori di attività in cui si inseriscono tali rapporti e degli atteggiamenti che in tale contesto caratterizzano i soggetti interessati, senza fare a meno di tener conto dell’importante interazione che le norme vigenti5 e la prassi amministrativa esercitano sul fenomeno. Infine, si ritiene che un’analisi complessiva, avente lo scopo di far comprendere le dinamiche del fenomeno, non possa fare a meno di considerare il lavoro irregolare in tutte le sue forme ed espressioni, quindi di considerare anche il c.d. “lavoro grigio”, vale a dire il lavoro solo formalmente o parzialmente regolare, a prescindere dalla titolarità o meno di un valido permesso di soggiorno. 9.2 La condizione soggettiva del lavoratore immigrato: categorie 9.2.1 Il lavoro nero dei “regolari” Lo stereotipo del lavoro nero degli immigrati è rappresentato dal c.d. ”clandestino”,6 ma non va tuttavia dimenticato che il fenomeno interessa considerevolmente anche gli immigrati in possesso di un permesso di soggiorno idoneo allo svolgimento di regolare attività lavorativa. A riprova di ciò basti considerare, anche a prescindere dai dati amministrativi ufficiali sulla disoccupazione degli immigrati “regolari”,7 che per nulla rari risultano gli immigrati che al momento del rinnovo del permesso di soggiorno non dimostrano alla questura un’occupazione regolare in atto e, magari, non risultano svolgere 5. Nel seguito ogni citazione di norme del Testo Unico delle leggi sull’immigrazione di cui al D.Leg.vo 25 luglio 1998 n. 286 (per brevità T.U.) dovrà essere intesa, salvo diverse specificazioni, con riferimento al testo vigente come modificato a seguito dell’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002 n. 189. 6. Questo termine, invero, è criminalizzante, perché induce ad associare la condizione irregolare di soggiorno al presunto svolgimento di attività criminali. Di fatto esso viene correntemente utilizzato in quanto ormai sinonimo di cittadino extracomunitario entrato nel territorio in violazione delle norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, o comunque privo di un permesso di soggiorno in corso di validità o il cui permesso di soggiorno risulti scaduto da oltre sessanta giorni senza che sia dimostrata la pendenza della procedura di rinnovo su sua richiesta, secondo la definizione fornita ai fini dell’espulsione dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs.286/98. 7. Essi, infatti, si sono dimostrati scarsamente attendibili, dal momento che sinora le statistiche del sistema di collocamento pubblico (quando disponibili) non sono riuscite negli ultimi anni a tener conto dell’altissima mobilità degli immigrati sul territorio, sicché è stato verificato che continuavano ad essere annoverati tra gli iscritti alle liste del collocamento soggetti che avevano da tempo instaurato rapporti di lavoro in province o circoscrizioni diverse, o che già da tempo avevano lasciato il territorio nazionale, o che avevano nel frattempo perduto il permesso di soggiorno, senza più avere alcuna possibilità di lavorare in regola. 328 da molto tempo un’attività lavorativa. Dunque, a meno di non presumere che tutti si procurino da vivere con attività criminali, il che sembrerebbe quantomeno eccessivo, bisogna pur accettare che buona parte di essi abbia svolto o stia ancora svolgendo lavoro nero. Del resto, le stesse risultanze degli accertamenti ispettivi da parte degli organi di vigilanza, anche prescindendo dall’effettiva rappresentatività o meno dei dati che ne derivano, confermano che anche gli immigrati regolari lavorano in nero. Ad un osservatore esterno può sembrare inverosimile che gli immigrati accettino, nonostante il possesso di un regolare soggiorno, di lavorare comunque in nero ed affrontare quindi il rischio di perdere il permesso di soggiorno (d’ora in avanti, per brevità, denominato “p.s.”), sia a causa del diniego di rinnovo per mancata dimostrazione del reddito maturato nel trascorso periodo di soggiorno,8 sia in conseguenza del superamento del termine massimo di disoccupazione, ora ridotto da un anno a sei mesi.9 Si è già accennato in premessa come sia molto scarso il valore in sé che gli immigrati attribuiscono al lavoro regolare; a ciò si aggiunga la conoscenza a dir poco approssimativa delle norme in materia di soggiorno, congiunta a quella sorta di fatalismo, più o meno diffuso fra tutte le comunità di immigrati (poco interessa allo scopo della presente analisi l’atteggiamento dell’extracomunitario svizzero o statunitense…), che induce a pensare che non vi saranno problemi al momento del rinnovo e che, se vi saranno, potranno risolversi al momento opportuno “in qualche modo”.10 Inoltre, concorre ad ingenerare tale erronea 8. In linea teorica, poiché dal punto di vista del lavoratore il reddito da lavoro nero è perfettamente lecito, dovrebbe ammettersi che la dimostrazione concreta dell’esistenza del rapporto di lavoro possa evitare il diniego di rinnovo del p.s., tuttavia, la possibilità di valutare tali circostanze ai fini del rinnovo viene di fatto generalmente esclusa dalle Questure, salvo casi eccezionali, comunque sottoposti ad una valutazione ampiamente discrezionale. Inoltre, è comunque raro che il lavoratore si determini a formulare una formale denuncia del proprio rapporto di lavoro nero, perché è l’unica sicurezza che ha e la denuncia comporterebbe ovviamente la perdita del posto di lavoro. 9. L’art. 22, comma 11, prevede che “la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di un permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi”. 10. La disciplina del T.U. in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno è stata modificata sensibilmente dalla legge 9 settembre 2002 n. 189, e la sua interpretazione non risulta ancora univoca, anche perché non è stato ancora approvato il nuovo regolamento di attuazione del T.U., che è previsto dovrà sostituire il tuttora vigente regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394. Non è ancora chiaro, infatti come verranno applicate in sede di rinnovo del p.s. le norme che regolano il nuovo istituto del “contratto di soggiorno”. L’art. 22, comma 6, prevede il suo perfezionamento entro otto giorni dall’ingresso (sul presupposto di un visto rilasciato dalla rappresentanza consolare a seguito dell’autorizzazione preventiva rilasciata in base ai commi da 1 a 5 dello stesso articolo), presso lo sportello unico che ha rilasciato il nulla osta. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro viene poi rilasciato quale provvedimento consequenziale dalla competente Questura in base a quanto disposto dal comma 3-bis dell’art. 5, a seguito della stipula del contratto di soggiorno per lavoro di cui all’art. 5-bis, con durata corrispondente a quella prevista dal contratto di soggiorno ovvero, in caso di contratto a tempo indeterminato, non superiore a due anni. 329 convinzione la prassi disomogenea delle Questure: infatti, nel mentre si assiste, nel Nord in generale ma forse con frequenza ed accenti più spiccati nel Veneto, ad una prassi per cui sempre più sistematicamente viene rifiutato il rinnovo del p.s. nei confronti di chi non dimostra una pregressa attività lavorativa regolare, nel Sud si registra una Ora, se è pur vero che nell’immagine “mediatica” della nuova legge era stata propagandata la volontà di assicurare strettissima corrispondenza tra permesso di soggiorno e contratto di soggiorno, l’iter descritto non sembra tuttavia suscettibile di essere replicato dopo il primo permesso di soggiorno, in occasione dei successivi rinnovi. Per l’appunto, l’art. 5 prevede che il rinnovo del permesso di soggiorno è richiesto direttamente al Questore, ma non prevede che ciò avvenga previa stipula di un nuovo contratto di soggiorno, e ciò sia in riferimento ai contratti a tempo determinato e sia a quelli a tempo indeterminato, senza peraltro distinguere l’ipotesi in cui il contratto a tempo indeterminato si sia nel frattempo risolto ovvero sia ancora in atto. Inoltre, sempre nei diretti confronti della Questura, e con il più ampio potere, è prevista l’attribuzione del compito di verifica delle condizioni previste per il rilascio e delle diverse condizioni previste dal presente testo unico, il che sembra confermare l’incompatibilità della procedura di rinnovo del permesso di soggiorno rispetto all’ipotesi di un eventuale ruolo decisivo dello sportello unico, essendo evidente che, se questo dovesse realmente occuparsi in sede di rinnovo della previa verifica delle condizioni di cui all’art. 5-bis, allora non avrebbe senso demandare le stesse verifiche anche alla Questura. Ad ulteriore conferma, si osserva che l’art. 22, comma 11, nel prevedere la possibilità di reperire una nuova occupazione nel periodo di residua validità del permesso di soggiorno (o comunque per un periodo non inferiore a sei mesi), non fa il ben che minimo accenno alla previa stipula del contratto di soggiorno, il che induce a concludere che il contratto di soggiorno dovrebbe rappresentare un adempimento previsto soltanto con riguardo al primo permesso di soggiorno per lavoro. Peraltro, non si può fare a meno di considerare che l’eventuale interpretazione che ritenesse di imporre sine die , quale condizione per il rinnovo del permesso di soggiorno (salvo, comunque, l’eventuale conseguimento della carta di soggiorno di cui all’art. 9), la periodica formalizzazione del contratto di soggiorno e la correlativa puntuale verifica delle condizioni previste dall’art. 5-bis, specie con riguardo all’idoneità dell’alloggio, non mancherebbe di mantenere costantemente il lavoratore immigrato in una condizione discriminante rispetto al lavoratore italiano, essendo evidente che le problematiche alloggiative non potrebbero non riflettersi direttamente sulla possibilità legale di instaurare un valido rapporto di lavoro. Ma in tal caso potrebbe ritenersi violato il fondamentale principio di piena parità di trattamento e di uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, così come sancito dall’art. 10 della Convenzione n. 143 del 1975 dell’O.I.L. e riconfermato dall’art. 2 del testo unico. Tale generale principio di parità di trattamento e di opportunità trova poi ulteriore specificazione e tutela in base al disposto di cui all’art. 8 della Convenzione, che vieta agli stati membri di far derivare automaticamente dalla perdita del lavoro la revoca del permesso di soggiorno. Se questo divieto vale per la perdita del posto di lavoro, non si vede come non potrebbe valere, forse a maggior ragione, per la perdita dell’alloggio. Se, dunque, si volesse ritenere - sul presupposto erroneo dell’applicabilità ad ogni rinnovo del “rito” del contratto di soggiorno - che la perdita dell’alloggio (come pure la mancata prestazione della “garanzia” richiesta al datore di lavoro, o comunque il possesso di un alloggio non conforme ai parametri fissati per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica) comporti l’impossibilità di stipulare un contratto, rectius di rinnovare il permesso di soggiorno, non si potrebbe fare a meno di ravvisare una violazione della Convenzione citata; per questa via, infatti, si andrebbe ad imporre una restrizione ben più grave di quella vietata, non essendo difficile immaginare che un immigrato possa più facilmente trovarsi nella situazione di avere un’offerta di lavoro o un rapporto di lavoro in atto, senza disporre invece di un alloggio dall’idoneità certificata. Per inciso, l’effettivo rispetto della Convenzione citata - che, si ricorda, è da ritenersi fonte di rango superiore alla legge ordinaria a mente di quanto sancito dall’art. 10, 2°comma, della Costituzione - andrà poi verificato anche in relazione alla concreta fruibilità del periodo assegnato per la ricerca di una nuova occupazione, secondo i termini ora dimezzati previsti dal comma 11 dell’art. 22. È nota, infatti, la prassi per cui molte Questure (in specie, quelle più “affollate” da immigrati) impiegano mesi per procedere al rinnovo del permesso di soggiorno, dopodiché si scopre che la data indicata per la decorrenza iniziale della durata del permesso non è quella corrispondente all’effettivo rilascio bensì quella risalente al momento della presentazione della domanda; laddove è facilmente intuibile che “nelle more” del procedimento di rinnovo, quando non vi è comunque certezza di esito favorevole, ben difficilmente potrà essere reperita un’occupazione regolare, ancorché il comma 12 dello stesso articolo riconosca ora la possibilità di proseguire il rapporto di lavoro e, sembra, di costituirlo ex novo. 330 maggiore tolleranza al riguardo, verosimilmente basata sul dato di comune esperienza per cui le opportunità di lavoro regolare sono meno frequenti anche per gli autoctoni. In ogni caso, è poi pressoché scontato che, a seguito del mancato rinnovo del p.s., l’immigrato cerchi di protrarre l’occupazione regolare in atto, magari fingendo col datore di lavoro che la pratica sia ancora in corso (tenuto conto che a tutt’oggi non vige alcun automatismo nel senso di comunicare al datore di lavoro il provvedimento di diniego, così inducendo la risoluzione obbligatoria del rapporto); a maggior ragione, ovviamente, cercherà di proseguire anche il lavoro nero, sempre se e fino a quando non sarà sottoposto all’effettiva espulsione. 9.2.2 Il lavoro nero “nelle more” del rinnovo del permesso di soggiorno La fase del rinnovo del permesso di soggiorno, come si è già accennato, è una fase cruciale poiché il rischio di diniego del rinnovo non sussiste solo a causa della mancata dimostrazione delle pregresse fonti di sostentamento ma ancor più di sovente (e sempre di più) a causa della mancata dimostrazione della disponibilità di un alloggio, oppure a causa della ritenuta inidoneità dell’alloggio concretamente disponibile.11 Al riguardo, va sottolineato che la maggior parte degli immigrati che condividono un alloggio non risulta titolare di un contratto di locazione, in quanto (tralasciando gli affitti in nero, non certo 11. La garanzia sulla disponibilità di un alloggio da parte del datore di lavoro in sede di richiesta di autorizzazione all’assunzione dall’estero era già prevista, prima della riforma del T.U., dall’art. 30, comma 2 lett. e) del regolamento di attuazione di cui al D.Leg.vo 31 agosto 1999 n. 394; a seguito della riforma il T.U. prevede all’art. 22, comma 2 lett. b), che sia prodotta “idonea documentazione relativa alle modalità di sistemazione alloggiativi per il lavoratore”, mentre l’art. 5 bis prevede al comma 1 lett. a) che al momento della stipula del contratto di soggiorno debba essere formalizzata una “garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”. In ogni caso, anche tralasciando la diversa formulazione delle due norme citate, va sottolineato che si tratta in sostanza di una garanzia più apparente che sostanziale, poiché resta comunque indiscutibile che, se anche l’alloggio fosse procurato dal datore di lavoro, esso non deve essere pagato dal datore in aggiunta al normale costo del lavoro, vale a dire la retribuzione contrattuale, i contributi assicurativi previdenziali e le ritenute fiscali; se così fosse, infatti, avremmo un trattamento discriminatorio, ma questa volta nei confronti dei lavoratori italiani; non si può sottacere, tuttavia, che la imposta “idoneità” dell’alloggio non mancherebbe di tradursi in condizioni peggiorative e di fatto, quindi, discriminatorie, per i lavoratori immigrati, dal momento che essi dovrebbero accollarsi il ben maggiore costo di un alloggio idoneo nei termini anzidetti (quando è notorio che la maggior parte dei cittadini che vivono negli alloggi di edilizia residenziale pubblica hanno ricevuto in assegnazione un’unità abitativa che non rispetta i relativi parametri con riferimento alla effettiva entità del nucleo familiare). Ad ogni buon conto, va ricordato che solo nel settore del lavoro domestico (non fa differenza se si tratta di normali colf o di “badanti”) l'alloggio ed anche il vitto sono da ritenersi dovuti in aggiunta alla retribuzione quando si tratta di lavoratori "conviventi", ma ciò è dovuto ad una specifica previsione del contratto collettivo nazionale per il lavoro domestico, un'eccezione che conferma la regola. 331 rari) i proprietari preferiscono intestare il contratto ad un solo soggetto ancorché siano consapevoli di locare un immobile destinato ad alloggiare più persone, onde evitare plurime successioni di persone diverse nel contratto. Recentemente, e sempre più di frequente - ma senza alcuna sistematicità ed in assenza di disposizioni di legge e persino di qualsivoglia circolare al riguardo - viene richiesto dalle Questure del Veneto anche il consenso scritto all’ospitalità da parte del proprietario dell’immobile, che, per le ragioni anzidette, viene ben raramente prestato. Altre circostanze, ritenute, a torto o a ragione, rilevanti ai fini del rinnovo, concorrono a complicarne la procedura: Fra le più ricorrenti, per es.: la scadenza del passaporto ed il rinvio della definizione all’esito del rinnovo (che comporta tempi di attesa molto lunghi presso i competenti consolati dei paesi d’origine); la necessità di verificare gli esiti di un procedimento penale o di verificare le omonimie con soggetti espulsi o sottoposti a procedimento penale. Ma anche volendo tralasciare i frequenti “incidenti di percorso” della procedura di rinnovo, va considerato che in generale le Questure del Veneto (complice il particolare “affollamento” di stranieri nella regione e la mancanza di adeguate risorse da parte degli uffici) impiegano normalmente alcuni mesi per il normale rinnovo, che trascorrono tra l’attesa del primo “appuntamento” per l’inoltro della domanda, che va prenotato (magari presso uffici esterni organizzati dagli enti locali o da associazioni in convenzione con la locale Questura), ed il successivo accesso per il ritiro. Peraltro, avviene normalmente che la data di decorrenza iniziale del p.s. rinnovato non corrisponda con quella (di gran lunga successiva) di effettivo rilascio, bensì con la data di rilascio della ricevuta attestante l’inoltro della domanda di rinnovo, con la conseguenza che dal punto di vista burocratico il p.s. risulta disponibile per la ricerca di un’occupazione quando ancora non è rinnovato, sicché il tempo di attesa del rinnovo, di fatto, consuma buona parte del periodo massimo di (spesso solo formale) disoccupazione consentito dalla legge. A seguito della modifica del testo originario dell’art. 22 del D. Lgvo 25 luglio 1998 n. 286, detto periodo è stato ridotto da un anno a sei mesi, sicché vi è il concreto rischio, nel caso si tratti di lavoratore disoccupato, che il tempo effettivamente disponibile per la ricerca di un nuovo impiego regolare divenga prossimo a zero. La fase del rinnovo del p.s., specie in considerazione dei tempi di attesa, ha comportato in passato seri disagi per le stesse aziende, condizionando la lecita prosecuzione del rapporto di lavoro in corso, essendo prevista la sanzione penale di cui all’art. 22, comma 10, del T.U. nella sua versione originaria, nei confronti dei datori di lavoro che avessero mantenuto in atto il rapporto nei confronti di stranieri col p.s. scaduto. Non risultano affatto isolati i casi di imprese che hanno risolto il rapporto di lavoro in coincidenza con 332 la scadenza del p.s., potendo legalmente addurre un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, come pure si sono verificati casi di imprese che hanno solo formalmente licenziato il lavoratore (per evitare accertamenti incrociati della posizione di soggiorno e di quella contributiva) ed hanno proseguito in nero il rapporto per tutto il tempo necessario. Ora, il testo vigente dell’art. 22, al comma 12, consente la prosecuzione del rapporto nelle more della procedura di rinnovo, dunque, il problema dei tempi di attesa deve ritenersi ormai superato per chi prosegue il rapporto di lavoro sorto anteriormente alla scadenza del p.s., ma resta tuttavia per coloro che perdono il posto di lavoro in coincidenza con la scadenza del p.s., e si tratta di situazioni molto frequenti, se si considera che con i lavoratori immigrati viene ampiamente utilizzato (talvolta anche oltre i limiti stabiliti) il contratto di lavoro a tempo determinato, con scadenza normalmente coincidente con quella del p.s.. In linea teorica, nemmeno in questi casi vi dovrebbero essere difficoltà nella costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, dal momento che la nuova formulazione dell’art. 22 citato consente l’assunzione anche a fronte della mera dimostrazione dell’avvio della procedura di rinnovo del p.s. (mediante esibizione della ricevuta della Questura attestante l’inoltro della domanda e la pendenza del relativo procedimento), tuttavia sussiste una comprensibile diffidenza da parte delle aziende (che normalmente preferiscono rispondere all’immigrato che si propone per l’assunzione “ritorna quando avrai il permesso pronto”), in quanto si è già detto che l’inoltro della domanda non assicura affatto che poi il p.s. venga effettivamente rilasciato, sicché le imprese si troverebbero a rischiare un inserimento in azienda poco proficuo, nella misura in cui non dovesse rivelarsi di effettiva stabilità. Va inoltre considerato che i datori di lavoro non hanno modo di controllare se, quando e con quale esito viene definita la procedura di rinnovo del p.s., col rischio di commettere senza potersene accorgere il reato di cui all’art. 22, comma 12, del T.U.. Dunque, pure in mancanza di informazioni quantitative di riscontro, risulta facilmente intuibile come la fase del rinnovo del p.s., a fronte delle suddette circostanze, possa indurre o costringere le parti interessate, pure contro la loro volontà, allo svolgimento di rapporti (o nella migliore delle ipotesi di periodi) di lavoro irregolari. 333 9.2.3 I lavoratori autorizzati al soggiorno ma non al lavoro, ovvero il lavoro nero inevitabile È poco conosciuto il fenomeno delle svariate “categorie” di stranieri formalmente autorizzati (e persino, in taluni casi che vedremo, sostanzialmente costretti) al soggiorno in Italia ma privi della possibilità di lavorare regolarmente, in quanto il titolo di soggiorno non abilita allo svolgimento di tale attività. Per l’appunto (ai sensi del combinato disposto degli artt. 18, comma 4, 6, comma 1, e 22, comma 12, del D.Lgs. 286/98), può svolgere regolare attività di lavoro subordinato il titolare di p.s. per lavoro subordinato, per lavoro autonomo, per motivi famigliari, per motivi di protezione sociale, asilo politico, mentre per i titolari di p.s. per motivi di studio è consentita l’attività lavorativa solo in regime di part-time, orizzontale o verticale di entità non superiore alla media di 20 ore settimanali su base annua, ovvero 1.040 ore (v. art. 14, comma 4, del Regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394). Certo, è senz’altro comprensibile, ad esempio, che il possesso del p.s. per turismo o per la partecipazione ad una competizione sportiva o ad una manifestazione religiosa, non consenta lo svolgimento di attività lavorativa,12 tuttavia vi sono altre tipologie di p.s., peraltro diffuse, che associano al riconoscimento del diritto e/o della necessità di soggiornare in Italia in modo relativamente durevole l’interdizione dallo svolgimento di qualsivoglia regolare attività economica, sia di lavoro subordinato che autonomo. È necessario distinguere. Per l’appunto, la situazione del possessore di p.s. per turismo che lavora irregolarmente può essere assimilata, in buona sostanza, alla condizione del tipico clandestino (anzi, una larga parte dei clandestini ha posseduto prima o poi, per lo più nella fase iniziale del soggiorno in Italia, e comunque per un periodo che non può di norma superare i tre mesi, un p.s. per turismo): infatti, l’interessato utilizza o tenta di utilizzare l’ingresso ufficialmente turistico per lavorare irregolarmente,13 quindi fa consapevolmente un uso improprio del p.s. in suo possesso, tecnicamente ne abusa. 12. Le tipologie di visto di ingresso e dei correlativi permessi di soggiorno sono invero molto numerose specie se si considerano quelle non disciplinate da alcuna norma di legge ma da mere circolari ministeriali - e la loro descrizione completa richiederebbe una specifica trattazione, sicché ci si limita ad avvertire che le tipologie considerate in questa sede sono solo quelle maggiormente rilevanti, anche dal punto di vista quantitativo, ai fini della presente analisi. 13. La soppressione dell’obbligatorietà del visto di ingresso per turismo nei confronti dei cittadini provenienti da alcuni paesi dell’Est europeo (recentissima l’abolizione per i cittadini rumeni e bulgari, oltre che ungheresi, polacchi, cechi, slovacchi, croati, sloveni, bosniaci) non ha ovviamente mancato di incrementare l’immigrazione da questi Paesi sotto forma di ingresso per turismo. 334 Vale la pena, invece, prendere in considerazione altre situazioni in cui il titolo di soggiorno corrisponde esattamente alla effettiva condizione dell’interessato. Durante tutto il tempo di attesa della definizione del procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato - mediamente oltre un anno dall’inoltro dell’istanza - il richiedente non può lavorare in regola, pur disponendo di un valido p.s., mentre l’assistenza pubblica (sul presupposto teorico che la procedura si debba esaurire entro tale termine più ristretto) è limitata solo ai primi 45 giorni. Nessuno si preoccupa, di fatto, di sapere come possano trarre il proprio sostentamento le migliaia di persone che si trovano in tale condizione: esse sono di fatto “tollerate” sul territorio durante la procedura ed è ovvio che debbano svolgere lavoro nero.14 Condizioni analoghe si sono verificate in occasione di provvedimenti governativi di natura eccezionale che hanno provvisoriamente consentito l’autorizzazione al soggiorno per “motivi umanitari” (in base alla generale previsione di cui all’art. 20 del T.U.) nei confronti di stranieri “sfollati” da zone di guerra. Spesso, infatti, complice l’intempestività ed incompletezza delle circolari ministeriali, che non hanno immediatamente dato l’indicazione di rilasciare il p.s. con la dicitura “valido anche per lavoro”, tali categorie hanno dovuto attraversare periodi in cui, pur avendo già il diritto riconosciuto a soggiornare in Italia e non disponendo di altri mezzi di sussistenza, sono state costrette al lavoro nero. Un’altra situazione di vero e proprio “limbo” è quella dei titolari di p.s. per “motivi di giustizia”, tipologia che comprende situazioni alquanto diversificate: si rilascia infatti tale titolo di soggiorno a chi ha impugnato al T.A.R. il diniego di rinnovo del p.s. per tutta la (lunghissima) durata del procedimento; a chi è sottoposto a procedimento penale fino alla sentenza definitiva di assoluzione o di condanna, compresi i casi in cui lo straniero è obbligato a soggiornare nel territorio e viene disposta nei suoi confronti una misura di restrizione della libertà personale, quale l’obbligo di firma o di non allontanamento dal comune di dimora. In questi casi non si può lavorare in regola. Diverso è il caso delle persone già condannate e sottoposte ad espiazione della pena con le c.d. “misure alternative”, in quanto si ritiene in via interpretativa che l’attività lavorativa costituisca elemento essenziale della funzione rieducativa della pena, sicché non potrebbe ammettersi il reato di cui all’art. 22, comma 12, del T.U. nel caso di assun- 14. Nella precedente legislatura il Governo aveva presentato un disegno di legge in materia di riforma organica delle diverse forme di asilo (lo status di rifugiato di cui alla Conv. di Ginevra del 1951, il diritto di asilo garantito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, la protezione temporanea o “asilo umanitario”), che era già stato approvato al Senato; esso prevedeva espressamente il diritto di svolgere attività lavorativa durante tutto il periodo di pendenza della procedura per la concessione dell’asilo. 335 zione comunque attuata nelle forme di legge, a prescindere dal possesso o meno del p.s.; ciò non di meno, stante la mancanza di chiare disposizioni generalmente conoscibili, si verificano comunque situazioni di impiego irregolare, dovute anche a scarsa conoscenza del regime applicabile anche da parte degli stessi uffici a vario titolo interessati.15 Altrettanto ambigua risulta la condizione dei “minori non accompagnati”, che devono essere obbligatoriamente autorizzati al soggiorno in base all’art. 19 del T.U. e che vengono affidati a strutture di servizio sociale con modalità alterne e talvolta incerte, tant’è che non di rado, in specie i più prossimi al compimento della maggiore età, risultano soggiornare legalmente sul territorio ma in condizioni, di fatto, del tutto svincolate da reali interventi di tutela, lavorando in nero. Per l’appunto, la norma citata non contempla la possibilità di lavorare in regola nemmeno per chi possiede i requisiti legali, potendo dimostrare di avere ottenuto (nel proprio Paese) l’ammissione alla seconda classe della scuola secondaria superiore. 9.2.4 Il lavoro nero dei “clandestini” Veniamo ora al tipico lavoro nero dei c.d. “clandestini”, che, ovviamente, è sottratto a qualsiasi regolamentazione e garanzia e si svolge, come vedremo, in ambiti e con modalità ampiamente diversificati. Comuni denominatori di tali situazioni sono il costante rischio di espulsione, ora immediatamente eseguibile in base alla nuova formulazione dell’art. 13 del T.U., e l’enorme difficoltà nel reperimento di pur inadeguate soluzioni alloggiative, che comunque comporta l’applicazione delle più alte tariffe del mercato e talvolta l’intermediazione a caro prezzo di connazionali e/o datori di lavoro, realizzando forme di sfruttamento anche fuori dal lavoro. Va poi considerata la relativa vulnerabilità nell’esercizio dei diritti connessi al rapporto di lavoro, dal momento che qualsiasi rapporto con le istituzioni competenti espone l’interessato al rischio di segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza. 15. In passato la prassi consentiva a tali soggetti di ottenere un p.s. per motivi di giustizia, mentre ora, sulla base di una recente circolare del Ministero dell’Interno, si ritiene (benché sia poco noto ai soggetti a vario titolo interessati) che non debba essere rilasciato alcun p.s. e che il titolo autorizzativo del soggiorno sia costituito direttamente dal provvedimento della magistratura di sorveglianza, che ammette il condannato alla “misura alternativa” ed implica la possibilità di lavorare alle condizioni consentite dal medesimo provvedimento. 336 È giusto ricordare che nel nostro ordinamento del lavoro e delle assicurazioni sociali (ma anche sotto il profilo fiscale) il lavoro nero non costituisce mai un illecito da parte del lavoratore, poiché tutte le conseguenze sanzionatorie sono poste a carico del datore di lavoro. L’immigrato irregolare deve essere espulso in quanto svolge un’attività illecita, ma non perché ed in quanto lavora, bensì perché è entrato o comunque soggiorna illegalmente in Italia. Però la sanzione per il suo comportamento - poco importa dal punto di vista legale se e quanto esso sia necessitato dal bisogno - non può e non deve essere la lesione dei suoi più elementari diritti di lavoratore; essi infatti sono garantiti in via generale da norme inderogabili, aventi un carattere imperativo improntato al principio di territorialità.16 Anzi, la stessa applicazione delle sanzioni previste per le forme di lavoro irregolare ha la funzione precipua di tutelare i lavoratori. Se si tiene conto di ciò, l’immigrato irregolare non può essere visto solo come un nemico da combattere ma almeno al tempo stesso deve essere anche considerato come una vittima, che pure ha diritto di trovare nella legge una tutela, quantomeno in relazione alla sua pur instabile posizione di lavoratore. Non va trascurato, d’altra parte, che proprio tale tutela è al tempo stesso il principale strumento di sanzione nei confronti dei datori di lavoro che ricorrono a scopo di lucro all’impiego di immigrati irregolari. Al riguardo, va da un lato sottolineato come risulti poco diffusa e persino poco nota l’applicazione dell’art. 2126 del codice civile, che assicura, in ogni caso di rapporto di lavoro svolto in violazione di norme imperative, il diritto al recupero delle retribuzioni (oltre che delle contribuzioni) maturate, quindi di instaurare la classica vertenza di lavoro. È altrettanto pacifico, ma spesso altrettanto ignorato dai diretti interessati, il diritto di far accertare dagli organi competenti gli infortuni sul lavoro e le relative responsabilità, ed il correlativo diritto di conseguire la rendita Inail ed il risarcimento degli ulteriori danni (il danno morale e, nel caso di conseguenze valutabili al di sotto del minimo indennizzabile, il danno biologico), nonostante la condizione irregolare di soggiorno.17 Peraltro, è possibile conferire ampio mandato ad un legale per consentire l’intera tratta- 16. Il principio di territorialità delle norme in materia di lavoro e delle assicurazioni sociali è riconosciuto da unanime dottrina e dalla stessa giurisprudenza ed è un logico corollario del carattere imperativo delle stesse, talché a qualsiasi rapporto di lavoro, per il sol fatto che si svolge nel territorio nazionale, deve necessariamente applicarsi tale normativa a prescindere dalla cittadinanza dell’una o dell’altra parte costituenti il rapporto di lavoro. 17. Nel mentre è indiscutibile che l’Inps abbia il diritto/dovere di recuperare i contributi anche in relazione all’accertamento di rapporti di lavoro irregolari instaurati con lavoratori privi del permesso di soggiorno, non risulta mai sperimentato il riconoscimento della contribuzione maturata (anche in applicazione del principio di “automaticità delle prestazioni previdenziali”) dai c.d. “clandestini” ai fini della liquidazione in caso di rimpatrio, prevista dall’originaria formulazione dell’art. 22, comma 11. La soppressione di tale istituto con l’entrata in vigore delle modifiche apportate all’art. 22 dalla l.189/02 rende ormai superflua e comunque improponibile la pur interessante questione interpretativa. 337 zione della vertenza, sia nella fase stragiudiziale che giudiziale, senza che l’interessato (che teoricamente potrebbe anche essere rientrato in patria nel frattempo) si esponga con la sua personale presenza al rischio di essere “intercettato” da un provvedimento di espulsione. D’altro canto, l’esercizio di tali diritti fondamentali presuppone anzitutto che essi siano ben conosciuti e resi concretamente praticabili. Diversamente l’ignoranza e la paura sono destinate a prevalere anche laddove vi sia la pur vaga percezione della possibilità di ottenere una qualche tutela, specie se si ha fondato motivo di temere che il tentativo di realizzare tale scopo possa prima ancora provocare l’individuazione e l’assoggettamento all’espulsione. Questo, infatti, è il principale elemento di forza di coloro che sfruttano gli immigrati irregolari, che generalmente rimangono agli occhi degli sfruttati gli unici possibili interlocutori. Dal punto di vista dell’immigrato irregolare, i competenti uffici istituzionali non possono risultare quali riferimenti idonei per la denuncia delle condizioni di sfruttamento ed il correlativo esercizio dei diritti negati, perché in generale egli teme nel rivolgersi a qualsiasi ufficio pubblico. In effetti, pur verificandosi dei margini di tolleranza rimessi ai singoli operatori, la prassi degli uffici ispettivi delle direzioni provinciali del lavoro e degli enti di previdenza è ormai sempre più uniformata nel senso di denunciare la violazione delle norme in materia di soggiorno ogni qualvolta essa venga constatata, a prescindere dal fatto che ciò avvenga a seguito di accertamenti disposti d’ufficio oppure in base a specifica denuncia formalmente e spontaneamente resa dalla vittima.18 In taluni casi, risulta siano state impartite specifiche disposizioni agli ispettori, con riferimento ai casi di presentazione di denuncia di situazioni illecite, poste in essere dai datori di lavoro, da parte di immigrati irregolari, che prescrivono di avvertire preventivamente gli immigrati che la loro denuncia verrà recepita solo dopo averli segnalati alla competente autorità di pubblica sicurezza (che teoricamente potrebbe intervenire immediatamente o comunque più facilmente reperire l’interessato in base alle informazioni assunte in sede ispettiva). Paradossalmente, dunque, proprio le situazioni di più grave sfruttamento, peraltro normalmente connesse a condizioni di lavoro non solo pesanti ma insicure, sono quelle per le quali la spontanea denuncia viene sostanzialmente scoraggiata. In pratica, la repressione di comportamenti anche penalmente rilevanti viene ad essere di fatto ostacolata 18. Pochi mesi fa, la Direzione provinciale del lavoro di Firenze aveva addirittura inizialmente ritenuto di dichiarare improcedibile un tentativo obbligatorio di conciliazione, promosso da un immigrato irregolare (che poi si è regolarmente svolto) sull’erroneo presupposto che la condizione illegale di soggiorno non ne consentisse l’esperibilità. 338 perché ad essa viene anteposta la repressione di meri illeciti amministrativi. Per l’appunto, la condizione irregolare di soggiorno a tutt’oggi non costituisce reato, sicché non vi è un obbligo legale di denuncia all’autorità giudiziaria; d’altronde, nessuna delle vigenti disposizioni in materia prevede un simile obbligo, quindi si può altresì sostenere che la segnalazione non costituirebbe un atto dovuto bensì una mera facoltà. Se dunque l’esercizio di tale facoltà può ben spiegarsi con l’esigenza di favorire e coordinare i diversi adempimenti istituzionali volti ad assicurare il rispetto della legge, non si può tuttavia trascurare di considerare che la funzione repressiva19 non viene così concretamente favorita, semmai il contrario. D’altra parte, anche nell’ipotesi in cui si volesse proporre la previsione normativa di un espresso divieto di denuncia da parte degli organi ispettivi, in analogia a quello previsto dall’art. 35 del T.U. in capo al personale sanitario e sulla base di altrettanto serie esigenze di “salute pubblica”, proprio per favorire la tutela del lavoro attraverso la repressione dei comportamenti (più gravi e penalmente rilevanti) dei datori di lavoro, non si mancherebbe di creare una palese contraddizione, come se la mano destra non dovesse sapere ciò che fa la sinistra. Infatti, non avrebbe senso, ad esempio, ammettere che, a seconda che in un cantiere intervenga la Polizia di Stato oppure l’Inps, i lavoratori immigrati siano o meno sottoposti agli accertamenti di rito ed ai provvedimenti consequenziali alla loro irregolare posizione di soggiorno. Piuttosto, dal momento che sembra destinata ad aumentare almeno di pari passo con l’incremento delle presenze la casistica degli immigrati vittime di pesanti condizioni di sfruttamento, condizioni che traggono la loro forza e remuneratività proprio dalla sostanziale impossibilità che venga chiesta tutela effettiva, varrebbe la pena prendere in considerazione la possibilità di assicurare quantomeno l’emersione dal sommerso (vale a dire la concessione di un p.s. per lavoro che consenta le regolare assunzione presso altro datore di lavoro) a chi, denunciando, fornisce un valido contributo alla repressione degli illeciti particolarmente gravi. Non si tratterebbe di una capitolazione dello Stato, bensì di un rafforzamento dell’efficacia e dell’effettività delle norme sanzionatorie, per mezzo della applicazione - magari in via interpretativa - di un istituto in tutto simile al permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale di cui all’art. 18 del T.U., che ha dimostrato a giudizio unanime di produrre validissimi risultati in poco tempo.20 19. In questo senso, si veda anche la previsione di costituzione presso l’Inps dell’”“Archivio anagrafico dei lavoratori extracomunitari” e di “socializzazione” dei dati, in base all’art. 22, comma 9, del T.U. vigente. 20. Tale norma, non a caso, non ha subito alcuna modifica in sede di emanazione della L.189/02; infatti, non solo in sede politica ma almeno altrettanto negli ambienti della polizia giudiziaria e della magistratura, la sperimentazione dell’art. 18 è stata considerata estremamente positiva nella lotta alla tratta 339 Per l’appunto, sebbene ad un esame superficiale detta norma potrebbe sembrare facilmente applicabile anche alle situazioni di grave sfruttamento sul lavoro, nella pratica essa si è rivelata inadatta, non applicabile, perché effettivamente concepita avendo presente il fenomeno della tratta e dello sfruttamento della prostituzione, non certo le ben diverse dinamiche del lavoro nero, quand’anche particolarmente sofisticate ed espressione di notevole capacità criminale. Ciò è stato infatti constatato nella pratica giudiziaria, che al riguardo ha avuto pur rarefatte ma significative esperienze “pilota” proprio nel Veneto, su iniziativa delle organizzazioni sindacali. Infatti, quale condizione per assicurare il permesso di soggiorno (sia pure, beninteso, nell’ambito di una valutazione discrezionale caso per caso e senza alcun automatismo), l’art. 18 citato richiede l’esistenza di un procedimento riferito ai delitti di cui all’art. 3 della legge 20.02.58 n. 75 (c.d. “Legge Merlin”) o di cui all’art. 380 del codice di procedura penale,21 oppure di un programma di interventi sociali degli enti locali. Tanto l’uno che l’altro dovrebbero essere connessi ad accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento dalle quali emergano concreti pericoli per l’incolumità delle vittime, e tali pericoli a loro volta dovrebbero essere ricollegabili al tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di una vera e propria associazione a delinquere oppure al contributo fornito alle indagini (sempre che esso sia ritenuto rilevante). Ora, per quanto grave, organizzato e sofisticato che sia, è quantomeno improbabile (e ancor più difficile da dimostrare) che lo sfruttamento dei lavoratori venga attuato mediante sistematico ricorso alla violenza fisica da parte di vere e proprie organizzazioni criminali, al punto da giustificare un fondato timore per l’incolumità individuale della vittima.22 Ed infatti, in quei pochi casi di procedimenti penali attivati su denuncia delle vittime, l’Autorità Giudiziaria non ha potuto forzare la lettera della norma e quindi, scartata l’applicabilità dell’art. 18, ha nelle migliori ipotesi disposto, comunque su apposita istanza di parte, il rilascio di un p.s. temporaneo per “motivi di giustizia valido anche per lo svolgimento di attività lavorativa”. Tale soluzione è stata il frutto di un’interpretazione (forse l’ipotesi più corretta di applicazione della tipologia di soggiorno “per motivi di giustizia”, se non altro perché disposto su provvedimento dell’autorità ed allo sfruttamento della prostituzione, tant’è che nello stesso d.d.l. recentemente presentato in materia di repressione dello sfruttamento è stata specificata la non punibilità delle vittime che collaborano. 21. Nell’elencazione delle ipotesi di reato di cui all’art. 380 c.p.p. non vi è alcun reato connesso allo sfruttamento del lavoro e/o al favoreggiamento dell’immigrazione o della permanenza irregolare sul territorio. 22. Non sono tuttavia del tutto sconosciute, anche nel Veneto, quelle forme di trattamento assimilabili alla riduzione in schiavitù e gli episodi di vero e proprio sequestro di persona. Di fatto, questi comportamenti risultano verificarsi pressoché esclusivamente nell’ambito di rapporti di lavoro fra connazionali ma non per questo risultano meno pericolosi, anzi, proprio il forte vincolo di omertà ed il condizionamento derivante dalla possibilità di ritorsioni nei confronti dei familiari in patria rendono oltremodo difficile la collaborazione delle stesse vittime e l’accertamento dei fatti. 340 giudiziaria) che trova il suo riferimento normativo nell’art. 5, commi 5 e 6, del T.U. (il cui testo è rimasto inalterato a seguito della L.189/02): il comma 5 prevede in generale che il p.s. debba esser rifiutato quando mancano i requisiti per l’ingresso e il soggiorno, sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili, mentre il comma 6 prevede più specificamente la facoltà di concedere il p.s. per seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.23 In ogni caso, si è trattato di casi sporadici, che non possono comunque costituire un’esperienza facilmente riproducibile e che, semmai, mostrano i limiti del nostro ordinamento. D’altra parte, in mancanza di specifiche previsioni normative, non si può nemmeno immaginare la sperimentazione di strumenti di tutela e di coordinamento tra le diverse istituzioni interessate (prefetture, questure, direzioni provinciali del lavoro, Inps, Inail) per apprestare forme di lotta allo sfruttamento che si basino anche sulla collaborazione e la tutela delle vittime. Certo è che se da un lato l’immigrato attualmente non vede e ben difficilmente potrebbe trovare nelle istituzioni un aiuto, pur offrendo peraltro efficaci strumenti di repressione degli illeciti e permettendo di fare “terra bruciata” intorno alle più bieche forme di sfruttamento, d’altro canto nemmeno gli ambienti sindacali e dell’associazionismo laico e religioso riescono a fornire un contributo effettivo nel contrasto di tali fenomeni, dal momento che essi stessi (salvo casi eccezionali) non possono prospettare agli interessati delle soluzioni particolarmente apprezzabili. Al c.d. “clandestino” che si presenta ad uno sportello sindacale o di un’associazione, che sta lavorando in nero in condizioni precarie 23. Se si eccettuano quei pochissimi casi di p.s. rilasciato su indicazione della magistratura, da parte delle Questure la possibilità di rilascio, in via discrezionale, di un p.s. per “motivi umanitari” (sulla base del citato art. 5 comma 6) risulta praticamente ignorata. Peraltro, la previgente formulazione dell’art. 17 consentiva all’A.G. di concedere il nulla osta all’ingresso, quindi al soggiorno, nei confronti dell’imputato in procedimento penale affinché esercitasse il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito, sicché si è ritenuto che anche la parte offesa dal reato (con particolare riguardo, oltre che all’art. 22 comma 12, al reato di favoreggiamento della permanenza irregolare a scopo di sfruttamento o dell’ingresso irregolare di cui all’art. 12, commi 1 e 5), ovvero la vittima dello sfruttamento, avesse a maggior ragione una legittimazione a soggiornare quantomeno temporaneamente sul territorio nazionale. Ora, la nuova formulazione dell’art. 17 (come modificata dalla L.189/02) prevede espressamente l’estensione di tale diritto alla parte offesa, pur disponendo la limitazione del periodo di soggiorno al tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza. Lo scrivente ha avuto diretta esperienza di quanto sia difficile rendere concretamente praticabili tali principi in un caso di immigrato irregolare, vittima di grave infortunio sul lavoro, il quale, dimesso dall’ospedale aveva fatto spontaneo rientro nel proprio Paese d’origine. Infatti, quando si è trattato di sottoporre il lavoratore a visita medico legale presso l’Inail, nonostante la formale convocazione, la competente rappresentanza consolare di Sarajevo non ha accettato di autorizzare espressamente il visto di ingresso per lo svolgimento di tale incombenza, ancorché per il tempo strettamente necessario al suo espletamento, ed ha invece preteso che l’interessato si qualificasse quale “turista” sulla base della formale garanzia di sostentamento e alloggio da parte del suo legale! 341 e che lamenta una paga bassissima o addirittura incerta, si può prospettare la possibilità di cercarsi un datore di lavoro “serio”, che sia interessato all’assunzione regolare e quindi esperisca la macchinosa procedura di assunzione dall’estero in base alla nota disciplina dei “flussi migratori”, il che comporta, nella migliore delle ipotesi, mesi di attesa all’estero senza reddito e il serio rischio di non riuscire comunque a rientrare in Italia. Ed è ben difficile che l’interessato rinunci alla misera ma sicuramente tangibile condizione attuale per inseguire una vaga speranza. La denuncia dei datori di lavoro può teoricamente essere prospettata quando il rapporto di lavoro è cessato, a chi lamenta di essere stato licenziato senza essere pagato; può essere infatti attivata la vertenza per il recupero delle spettanze maturate in base all’art. 2126 c.c., ma confidando che il datore di lavoro sia solvibile e che definisca la vertenza con una transazione in sede sindacale, poiché l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione presso la competente commissione della Direzione provinciale del lavoro può comportare la denuncia d’ufficio; ciò non manca di scoraggiare spesso l’iniziativa del lavoratore, comprensibilmente preoccupato sia perché si espone al rischio di identificazione ed espulsione e sia per le sorti dei suoi connazionali che, nelle sue stesse condizioni, sono ancora occupati presso la stessa azienda. D’altra parte, bisogna anche dire che, pur essendo la realtà del Veneto ricca (e ben più di altre regioni) di iniziative di assistenza e tutela nei confronti degli immigrati da parte delle organizzazioni sindacali e del volontariato, non vi è ancora una diffusa e generale assimilazione né delle conoscenze e delle implicazioni della normativa in materia, né dei valori portanti l’attività di tutela e assistenza. Ad esempio, può accadere che l’immigrato trovi all’interno delle organizzazioni sindacali dei riferimenti qualificati e affidabili, appositi uffici specificamente organizzati per affrontare i suoi problemi, ma può anche accadere che persino in aziende sindacalizzate il suo bisogno di tutela sia ignorato o trascurato, come pure che si senta rispondere presso qualche sportello che “non è possibile per un clandestino attivare una vertenza nei confronti del suo datore di lavoro”. È quantomeno curioso che risposte evasive del genere, per nulla sporadiche, si siano registrate con maggiore frequenza proprio nelle province del Veneto in cui si registrano tra i più elevati tassi di presenza di immigrati, regolari e non, ovvero Vicenza e Treviso. 342 9.2.5 Il lavoro “quasi regolare” dei “clandestini” Merita di essere considerato un fenomeno diffuso nell’impiego degli immigrati irregolari, ovvero il loro impiego “quasi regolare”. Si tratta di un espediente attuato sempre più diffusamente tra le imprese, anche tra quelle di maggiore entità, che indica comunque una certa serietà del datore di lavoro, o quantomeno la volontà di non sfruttare i lavoratori. Il fabbisogno di manodopera immigrata non riguarda infatti solo le aziende artigianali e di piccole dimensioni ma anche le aziende che potrebbero essere definite medio-grandi rispetto alle caratteristiche produttive del Nord-Est. Normalmente, in aziende del genere la gestione dei rapporti di lavoro assume caratteristiche di maggiore organizzazione e regolarità, e ciò non solo per la maggiore trasparenza che contrassegna la dimensione e l’organizzazione più tipicamente industriale, ma anche per una serie di circostanze obiettive che esulano da implicazioni etiche. Per dirla in parole povere, per un’azienda che deve fatturare tutti i suoi incassi non è affatto semplice - ed è comunque rischioso anche sotto il profilo penale e fiscale - pagare in nero. D’altra parte, in tale contesto è pure più facile l’individuazione dei lavoratori irregolari e lo stesso accertamento delle violazioni e delle relative evasioni, senza contare che le imprese di un certa entità, contrariamente a quanto accade più spesso per le piccole imprese, specie in certi settori (v. infra), sono normalmente costrette ad essere solvibili, poiché di fronte ad accertamenti ed addebiti di rilevante entità non potrebbero comunque permettersi di chiudere i battenti e fallire senza pagare, perché il patrimonio investito è comunque di valore superiore al complesso delle sanzioni e dei contributi evasi. Tali circostanze fanno sì che generalmente le imprese di una certa entità, o comunque le imprese serie, preferiscano non assumere lavoratori in nero, né stranieri né italiani; tuttavia, la gravissima carenza di manodopera assumibile regolarmente in certi settori che sostanzialmente sono gli stessi che tentano di ”attingere”, senza riuscirvi in modo adeguato, al meccanismo della c.d. “programmazione dei flussi migratori” - costringe le imprese a ricorrere all’impiego di manodopera priva di un regolare p.s., magari nella speranza di poter successivamente regolarizzare il rapporto (quote e procedure dei “flussi” permettendo, oppure con una “sanatoria”), oppure ad appaltare lavorazioni ad altra impresa che si assuma il relativo rischio. Per l’appunto, allo scopo di ridurre i rischi al minimo e di garantire condizioni decorose di lavoro, non sono isolati i casi di imprese che hanno applicato l’espediente di mettere “più in regola possibile” i lavoratori immigrati, nonostante la mancanza di un permesso di soggiorno, avendo constatato che molti degli adempimenti imposti dalle norme vigenti 343 possono essere comunque perfezionati, di fatto, anche in assenza di un idoneo permesso di soggiorno in capo ai lavoratori interessati: il lavoratore può essere inserito a libro paga, presenze, matricola, può ricevere la busta paga con applicazione del normale salario contrattuale; nei suoi confronti possono essere effettuate le prescritte denunce e pagati i contributi Inps e Inail, dal momento che le formalità previste non sono impedite - non solo di fatto ma nemmeno legalmente - dalla carenza di un permesso di soggiorno. In particolare, per quanto attiene alle denunce e ai versamenti in materia contributiva, gli istituti previdenziali recepiscono, per così dire, “automaticamente” le denunce ed i versamenti: sino a questo momento, pur essendo prevista la costituzione di un’anagrafe centralizzata avente lo scopo di consentire controlli incrociati, non risulta che vengano effettuate sistematiche verifiche, anche perché non è richiesta l’allegazione o comunque l’indicazione nella modulistica degli estremi del permesso di soggiorno di ciascun lavoratore. L’unico elemento richiesto è l’indicazione del codice fiscale (per il rilascio del relativo tesserino, ormai, quasi tutti ma non tutti gli uffici territorialmente competenti richiedono l’esibizione del permesso di soggiorno); tuttavia, esso può comunque essere ricavato - e quindi indicato nella modulistica - utilizzando i noti programmi in uso presso notai e commercialisti, che assicurano l’esatta determinazione del codice stesso senza la necessità di richiedere l’apposito tesserino. È evidente che l’adempimento delle obbligazioni in materia previdenziale garantisce maggiore sicurezza per l’azienda rispetto al rischio di infortuni e di conseguenti rivalse, come pure un’adeguata tutela nell’ambito del rapporto di lavoro, e va a ridurre drasticamente l’entità delle sanzioni applicabili. Al riguardo, giova ricordare che una circolare del Ministero del Lavoro ha recentemente escluso la possibilità di contestare la violazione dell’obbligo di comunicare l’avviamento al lavoro alla sezione circoscrizionale per l’impiego (con relativa sanzione amministrativa da £. 500.000 a £. 3.000.000 per ogni lavoratore irregolarmente assunto, ovvero, in misura ridotta, pari a £. 1.000.000, ex art. 9 bis L.608/96), qualora si tratti di lavoratori privi del p.s.. Pertanto, se si escludono gli adempimenti che possono essere effettuati senza comportare incongruenze e conseguenti verifiche, il datore di lavoro rischia in caso di accertamento ispettivo la verifica e l’applicazione di una serie notevolmente ridotta di violazioni amministrative,24 mentre ri- 24. Che risultano le seguenti: A) Per assunzione di lavoratore non provvisto di libretto di lavoro, ovvero per effettuazione sul libretto di registrazioni inesatte o incomplete, ovvero per mancata riconsegna al lavoratore cessato: sanzione amministrativa da £.50.000 a £.300.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.100.000 (art. 8 Dlgs 758/94); se la violazione riguarda più di 5 lavoratori la sanzione va da £.300.000 a £.2.000.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.600.000. 344 mane l’esposizione al rischio di un processo penale per il reato di occupazione di lavoratore privo di p.s. idoneo al lavoro, salvo l’assoggettamento dei lavoratori alla sanzione amministrativa dell’espulsione di cui all’art. 13 del T.U.. Al riguardo, si ricorda che la previgente sanzione di cui all’art. 22, comma 10, prevedeva una sanzione pecuniaria da £. 2.000.000 a £. 6.000.000 o l’arresto da tre mesi ad un anno, ma con la possibilità di estinguere il reato mediante la procedura di “oblazione” in via amministrativa (in buona sostanza, col pagamento a titolo di sanzione amministrativa di £. 3.000.000); ora, a seguito della modifica del T.U., la nuova formulazione del reato di cui all’art. 22, comma 12, prevede una sanzione pecuniaria di 5000 euro per ogni lavoratore occupato e la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno, senza più consentire la depenalizzazione del reato. Nonostante il suddetto appesantimento della sanzione, vi è tuttavia motivo di ritenere che l’espediente di mettere “quasi in regola” gli immigrati privi di idoneo p.s. possa continuare ad essere ritenuto appetibile, o comunque una soluzione preferibile rispetto all’assunzione totalmente in nero. 9.2.6 Il lavoro apparentemente regolare dei “clandestini” Un fenomeno almeno altrettanto diffuso, che vede normalmente estranei ed ignari i datori di lavoro, è quello dell’utilizzo di p.s. falsi o contraffatti, oppure di p.s. autentici da parte di persone diverse dall’effettivo titolare. È noto che il mercato dei p.s. falsi ha in questi anni avuto una progressiva crescita e diffusione sul territorio nazionale, ancorché si tratti di un espediente che, normalmente, non assicura affatto un’esistenza normale agli utilizzatori. Bisogna comunque distinguere l’origine del p.s.: talvolta, infatti, si sono registrati episodi di vera e propria corruzione di operatori di polizia che rilasciavano p.s. in tutto autentici a persone non aventi il diritto, ma si ha motivo di ritenere che tali comportamenti abbiano sempre meno pro- B) Per assunzione di lavoratore non provvisto di libretto di lavoro, ovvero per effettuazione sul libretto di registrazioni inesatte o incomplete, ovvero per mancata riconsegna al lavoratore cessato: sanzione amministrativa da £.50.000 a £.300.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.100.000 (art. 8 Dlges 758/94); se la violazione riguarda più di 5 lavoratori la sanzione va da £.300.000 a £.2.000.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.600.000. C) Per omessa denuncia entro 48 ore all’autorità locale di pubblica sicurezza dell’assunzione (come pure dell’ospitalità a qualsiasi titolo) dello straniero: sanzione amministrativa da euro 160 a 1.100, ovvero, in misura ridotta, pari a euro 320 (art. 7 Dlgs 25.7.98 n. 286 come modificato dalla L.189/02); di fatto, tale sanzione viene applicata molto raramente da parte dell’Autorità di P.S.. 345 babilità di verificarsi, specie a fronte di una prassi di controllo sempre più rigorosa. Risulta invece di gran lunga superiore la produzione dei veri e propri falsi, ma si deve considerare che essi, anche se abilmente preparati, non possono comunque essere inseriti nella banca dati del Ministero dell’Interno (anche perché l’inserimento di ogni singolo dato relativo al p.s. richiede l’utilizzo da parte di un numero già ristretto di operatori di una password individuale, che permetterebbe agevolmente di identificare l’autore dell’illecito), sicché un attento controllo mediante consultazione del terminale permette un’immediata verifica. Comunque, sono già in circolazione dei falsi di ultima generazione, dei veri e propri “cloni” (riproduzioni esatte di p.s. realmente esistenti, divergenti dall’originale solo per la diversa fotografia), che più facilmente potrebbero resistere anche ai controlli più minuziosi e che, manco a dirlo, si vendono ad un prezzo più alto (i prezzi “correnti”, prima della recente regolarizzazione, andavano dai 1.500 fino ai 5.000 euro, essi hanno subito una netta flessione durante il termine per la presentazione delle domande, ma sono già ora evidenti i segnali di un nuovo rialzo). D’altra parte, è assai frequente che anche nei p.s. falsi vengano indicate le effettive generalità dell’utilizzatore, e ciò per il semplice motivo che, così facendo, egli può utilizzare il proprio passaporto, senza dover ricorrere all’ulteriore violazione (e relativa spesa) di procurarsi un passaporto falso. Meno frequente ma non rara risulta la contraffazione di p.s. autentici, normalmente praticata mediante sostituzione della fotografia (anche sul passaporto); essa trova spesso l’occasione per essere attuata nel rimpatrio definitivo di un immigrato25, che vende o cede i propri documenti ad un irregolare (per lo più un connazionale). Risale invece già agli albori dell’immigrazione in Italia l’esperienza dell’utilizzo dei medesimi documenti, senza alcuna contraffazione, da parte di più persone, reso possibile dalla somiglianza, o meglio, dai tratti somatici comuni alle diverse etnie che facilitano la confusione. L’espediente di inviare il passaporto e il p.s. a mezzo posta nel Paese d’origine per far arrivare un connazionale è fin troppo noto e, per l’appunto, funziona sempre meno grazie a controlli sempre più scrupolosi. In realtà, tutti gli espedienti citati non vengono praticamente più utilizzati per ingannare i controlli di polizia - e quand’anche avvenga risultano normalmente inefficaci - bensì proprio per lavorare in regola e trovare più facilmente un alloggio, così da instaurare 25. Persino la morte può forse costituire l’occasione per il riciclaggio dei documenti: ad es., è diffusissima (anche presso le Questure) la convinzione secondo cui sarebbero pochissimi i cittadini cinesi ufficialmente deceduti in territorio italiano, la qual cosa, a meno di non supporre un’eccezionale costituzione fisica di tale etnia, fa pensare al riciclaggio dei documenti dei defunti. 346 una situazione pseudo normale e sicuramente di minore sfruttamento (se si eccettua, ovviamente, quello posto in essere dai vari intermediari dei documenti). L’esperienza della recente regolarizzazione ha permesso di confermare quanto era stato verificato anche nelle precedenti, ovvero una apprezzabile (e crescente) presenza nelle aziende di lavoratori assunti regolarmente in base a documenti falsi o contraffatti o “prestati”.26 Si tratta anche di imprese di apprezzabili dimensioni o di agenzie di lavoro interinale, o comunque di imprese che mantengono esclusivamente rapporti di lavoro regolari. Se da un lato questo dato di esperienza conferma l’intento di usare il p.s. falso per lavorare in condizioni regolari, dall’altro conferma anche la difficoltà per il datore di lavoro di verificare l’autenticità dei documenti anche usando l’ordinaria diligenza: non è infatti pensabile una verifica caso per caso presso la competente Questura, specie se si considera che ciò non potrebbe comunque essere fatto per telefono (anche per ovvie esigenze di tutela della privacy) e che sono noti i tempi di attesa per accedere agli sportelli delle Questure; d’altro canto il datore di lavoro non può comunque trattenere l’originale del p.s., che lo straniero è obbligato a portare sempre con sé, potendo soltanto acquisirne la fotocopia, in base alla quale risulta ancor più difficile la verifica.27 In generale, le imprese hanno dimostrato (come pure si è verificato nelle precedenti regolarizzazioni) una certa comprensione per i lavoratori che hanno confessato la loro effettiva condizione irregolare, salvo qualche caso di aziende che, invece, hanno disposto il licenziamento immediato per non incrinare, inoltrando la domanda di regolarizzazione, la propria immagine di aziende scrupolosamente osservanti. Ma l’emersione di questi lavoratori con la recente regolarizzazione è risultata molto più difficile che nelle precedenti, dal momento che il decreto-legge 9 settembre 2002 n. 195, così come convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002 n. 222, ha previsto all’art. 8 una serie di circostanze ostative alla procedura di emersione. In particolare, l’esclusione è stata prevista non solo per le persone condannate ma anche per quelle semplicemente denunciate per uno o più dei delitti indicati agli artt. 380 e 381 del codice di procedura pe- 26. Si sono verificati anche casi non isolati di persone che, sfruttando la vicinanza etnica e munendosi alla partenza di documenti di una diversa nazionalità (facilmente acquistabili anche nella forma, per così dire, “autentica”) hanno utilizzato la possibilità di ottenere il p.s. per motivi umanitari, spacciandosi per kosovari anziché albanesi, o per liberiani anziché ghanesi, oppure per somali anziché etiopici. 27. In un caso, verificato in occasione della recente regolarizzazione, sono risultati presenti ben 27 lavoratori muniti di p.s. falso su un organico di 80 dipendenti, pur trattandosi di un’azienda che, pur occupando quasi esclusivamente immigrati, intrattiene esclusivamente rapporti regolari ed ha addirittura lo scrupolo - forte di precedenti esperienze - di controllare minuziosamente la corrispondenza dei dati somatici e dei documenti di identità. 347 nale28: fra questi vi é il reato di ricettazione (art. 648 c.p.), che si compie evidentemente acquistando un p.s. falso, come pure la contraffazione o falsificazione del p.s.,29 mentre la mera sostituzione di persona (art. 494 c.p.), come pure le false dichiarazioni sull’identità a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.) consentirebbero la regolarizzazione. Tuttavia, anche le denunce o le condanne per delitti non colposi di qualsiasi entità, anche lievissima30(sempre che il procedimento penale non si sia nel frattempo concluso con un provvedimento che abbia dichiarato che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l’interessato non lo ha commesso), escludono la regolarizzazione, quando nei confronti della stessa persona risulti sia stato in precedenza emanato un provvedimento di espulsione; si tratta di una concomitanza di circostanze assai frequente, basti pensare che, in occasione dei normali controlli, l’immigrato irregolare subisce contestualmente quantomeno la notifica di un provvedimento di espulsione e molto spesso anche la denuncia per rifiuto di esibizione del passaporto (reato previsto dall’art. 6, comma 3, del T.U.), se non anche per altre ipotesi di reato di pur lieve entità, magari connesse con la vendita ambulante di articoli contraffatti.31 28. Le tipologie di reato distintamente indicate negli artt. 380 e 381 del c.p.p. si riferiscono rispettivamente ai casi in cui è obbligatorio ovvero facoltativo l’arresto in flagranza di reato; detta elencazione è stata poi utilizzata nella normativa in materia di immigrazione ai fini della valutazione della “buona condotta” dello straniero. 29. Fino all’entrata in vigore della legge 189/02, tale condotta era riconducibile al reato di falsità materiale in autorizzazione amministrativa commessa da privato, di cui al combinato disposto degli artt.482 e 477 c.p., reato che non è compreso nelle ipotesi previste dagli artt.380 e 381 c.p.p.; tuttavia, la modifica dell’art. 5 del T.U., ed in specie la nuova previsione di cui al comma 8 bis dello specifico reato di contraffazione del visto di ingresso o del permesso di soggiorno o del contratto di soggiorno o della carta di soggiorno, prevede una pena molto più grave, che per la sua entità rientra ora nelle tipologie di reato indicate, a seconda dei casi, agli artt.380 e 381 c.p.p.. Si può dunque ritenere che la denuncia di tali violazioni sia ostativa all’applicazione della procedura di emersione. 30. Per fare un esempio, anche reati perseguibili solo su querela di parte, come le percosse senza lesioni (art. 581 c.p.) o l’occupazione di edificio o terreno privato (art. 633 c.p.). 31. L’interpretazione giurisprudenziale al riguardo risulta assai diversificata: infatti, nei confronti dei venditori di articoli contraffatti, si configura il reato di commercio di prodotti con segni falsi di cui all’art. 474 c.p., ma per la stessa condotta vi è chi ritiene possa concorrere anche l’ipotesi di reato della ricettazione di cui all’art. 648 c.p., in quanto la merce acquistata per essere rivenduta proviene da un delitto; tuttavia recenti pronunce affermano l’insussistenza del reato di commercio di prodotti con segni falsi quando la vendita avviene (come accade normalmente) in circostanze tali da far comprendere chiaramente all’acquirente che il prodotto non è originale, sicché il bene giuridico tutelato della fede pubblica non subirebbe alcuna lesione, non potendosi presumere alcun inganno per l’acquirente. 348 9.3 Il lavoro “grigio” Il lavoro degli immigrati si presta almeno quanto quello dei nazionali, se non di più, ad essere utilizzato con varie modalità riconducibili alla definizione del c.d. “lavoro grigio”, per mezzo di rapporti formalmente o apparentemente regolari, che in tutto o in parte nascondono l’elusione delle norme in materia di lavoro e di assicurazioni sociali. Del resto, tali forme di elusione, che hanno quale comune denominatore una regolare posizione di soggiorno, sono tanto note quanto diffuse, sicché verranno qui di seguito elencate e descritte solo in estrema sintesi. 9.3.1 Rapporti di collaborazione coordinata e continuativa Tale forma contrattuale (c.d. “co.co.co”) viene largamente impiegata o, per meglio dire, abusata, in relazione a prestazioni lavorative che non implicano di fatto alcuna effettiva autonomia e che anzi, comportano la normale e costante soggezione del lavoratore al potere gerarchico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tipica del lavoro subordinato. Con l’entrata in vigore della legge 3 aprile 2001 n. 142, che ha drasticamente riformato il regime del rapporto di lavoro tra i soci e le cooperative di produzione e lavoro, la formalizzazione di co.co.co. ha avuto un apprezzabile incremento quantitativo, risultando applicata a scopo evidentemente elusivo anche nell’impiego presso cooperative di facchinaggio e di pulizie, che si avvalgono sempre più (se non addirittura in prevalenza) di manodopera immigrata; in questi settori il lavoro è normalmente organizzato in squadre sottoposte alla direzione di preposti e con turnazioni necessariamente rigide, circostanze queste che escludono palesemente la legittima applicazione di tale forma contrattuale. 9.3.2 Imprese artigiane individuali La costituzione di un’impresa artigiana individuale dissimula talvolta un rapporto sostanziale di lavoro subordinato, laddove l’artigiano svolge in realtà la propria attività (e la relativa fatturazione) esclusivamente per un unico appaltante ed è sottoposto alla co- 349 stante direzione dello stesso. Di fatto, si verifica che una squadra di operai, agli ordini di un’unica persona presso lo stesso cantiere, si presenti formalmente come una coincidente presenza di singoli artigiani che dovrebbero svolgere ciascuno un lavoro distinto, nel mentre colui che dà gli ordini, magari giustifica la propria presenza in cantiere quale direttore dei lavori o suo consulente o “supervisore”. Non sembrano isolati i casi di immigrati regolari, soprattutto nel settore edile e dell’impiantistica, che accettano di buon grado tale impostazione, trovando più congeniale la possibilità di lavorare sostanzialmente in regime di cottimo puro (ad es.: un tanto al metro quadro) e ritenendo - a torto o a ragione - di poter così massimizzare il reddito nell’immediato, salvo poi incorrere nelle contestazioni di difetti o nella insolvenza dei committenti. 9.3.3 Part-time, straordinario non pagato e buste paga decurtate Il lavoro part-time risulta diffuso tra gli immigrati, sia nello specifico settore del lavoro domestico (in cui è praticamente impossibile verificare se, fra le mura di una privata abitazione, una persona sta lavorando o sta trascorrendo il tempo libero) che negli altri settori. Spesso, si tratta di un compromesso tra l’imposizione del datore di lavoro di condizioni non completamente regolari, per risparmiare sui contributi, ed il bisogno del lavoratore di documentare un reddito ufficiale per poter rinnovare il p.s.. Pur non essendo sconosciuto agli immigrati il fenomeno del c.d. “fuori busta”, non tanto per erogare dei superminimi quanto per pagare lo straordinario, è più frequente il mancato pagamento dello straordinario, che in qualche caso viene giustificato dai datori di lavoro in termini pseudo morali, adducendo la cattiva qualità della prestazione lavorativa e la necessità di recuperare fuori orario l’asserito scarso rendimento. Con analoghe motivazioni, o più semplicemente spiegando che “non è possibile pagare di più e che se interessa il posto di lavoro bisogna accettarne le condizioni”, viene talvolta lamentato da parte di lavoratori regolarmente assunti che il datore di lavoro pretende di far sottoscrivere per ricevuta la busta paga e l’importo ivi indicato nonostante l’importo effettivamente corrisposto sia sensibilmente inferiore. 350 9.3.4 I lavoratori “distaccati” Appare più frequente negli ultimi anni l’impiego in Italia di lavoratori dipendenti da imprese straniere, temporaneamente distaccati per l’esecuzione in Italia di contratti d’appalto stipulati con persone fisiche o giuridiche: tipico è il montaggio di strutture, o l’esecuzione di lavorazioni edilizie o meccaniche in regime di appalto o di subappalto. Si tratta di una forma di ingresso disciplinata al di fuori del meccanismo delle “quote” dall’art. 27, comma 1 lett. i), del T.U., che ammette tale forma di impiego pur sempre a condizione che sia assicurato il rispetto dei precetti stabiliti dall’art. 1655 del codice civile e dalla legge del 23 ottobre 1960 n. 1369. In altre parole, il distacco è lecito a condizione che: a) si tratti di un vero e lecito contratto di appalto, laddove realmente un’impresa assuma l’obbligo di realizzare un’opera determinata o un servizio a proprio rischio e con autonoma organizzazione di mezzi, uomini, risorse e capitali, a fronte di un corrispettivo preventivamente pattuito;32 b) sia garantito un trattamento economico globale non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali per le corrispondenti qualifiche e mansioni, o comunque un trattamento non inferiore a quello previsto per i lavoratori dipendenti dall’impresa appaltante. Il procedimento per l’ingresso dall’estero di questi lavoratori è demandato alle Direzioni provinciali del lavoro e prevede che sia l’impresa italiana appaltante a richiedere la relativa autorizzazione, allegando il contratto di appalto e, naturalmente, dichiarando che l’impresa estera opera in piena autonomia ed a proprio rischio, con autonoma organizzazione di mezzi, di uomini, di capitali e di strumenti. Trattandosi di un’autorizzazione che viene rilasciata sulla base di semplici documenti, è necessario poi verificare se quanto dichiarato dalle imprese è reale o se, invece, si tratta di una forma di intermediazione vietata di manodopera,33 ma la stessa efficacia delle verifiche ispettive “in corso d’opera” dipende spesso dall’adeguatezza e dal controllo della documentazione inizialmente richiesta, poiché è facilmente intuibile l’estrema difficoltà di verifiche “in corso d’opera”, a fronte di un’autorizzazione rilasciata, ad esempio, per l’esecuzione di lavora- 32. In realtà, come viene sempre più spesso puntualizzato dalla giurisprudenza, non è indispensabile che l’impresa appaltatrice abbia il completo controllo di tutte le risorse che concorrono alla realizzazione del risultato, potendosi ammettere, ad es., anche l’utilizzo di impianti fissi e/o strutture proprie dell’appaltante, a condizione che sussista comunque un effettivo rischio di impresa nell’economia del rapporto e che i lavoratori siano comunque a carico e sotto l’effettiva direzione dell’appaltatore. 33. La circolare del Ministero del Lavoro n. 78/2001 precisa che, proprio per verificare l’effettività di quanto rappresentato in sede di richiesta di autorizzazione, si deve procedere a seguito dell’inizio dell’attività all’accertamento ispettivo “in corso d’opera”. 351 zioni edili presso “cantieri vari” (di non facile individuazione) o per l’esecuzione di non meglio specificate “lavorazioni accessorie e/o di finitura”. Talvolta, infatti, questa tipologia di autorizzazione all’ingresso in Italia di lavoratori stranieri viene utilizzata unicamente per ottenere manodopera a basso costo in condizioni di minorata tutela e/o per poterla utilizzare eludendo il regime dei flussi migratori e il sistema delle quote. Fra l’altro, la procedura di autorizzazione non prevede che sia verificata all’estero, per il tramite della competente rappresentanza consolare, l’effettiva consistenza e affidabilità dell’impresa formale datrice di lavoro, la qual cosa permetterebbe di impedire ad imprese esistenti solo sulla carta, magari controllate dalla stessa impresa committente italiana, di interporsi fittiziamente nei rapporti di lavoro.34 È importante notare che nei confronti dei lavoratori interessati - normalmente ignari sia dell’effettivo utilizzo che verrà fatto della loro prestazione e sia del tipo di procedura applicata nei loro confronti - viene rilasciata un’autorizzazione ad entrare e soggiornare in Italia che è inscindibilmente collegata con l’esecuzione dell’appalto per conto dell’impresa estera (vera o fittizia datrice di lavoro), il che fa sì che essi non siano liberi di dare le dimissioni e cambiare lavoro. Infatti, se il lavoratore non presta più la sua attività nell’ambito dell’appalto, automaticamente perde il permesso di soggiorno e non ha nessuna possibilità in Italia di convertirlo o comunque di soggiornare legalmente per motivi diversi. Questo induce gli interessati a non avanzare rivendicazioni nei confronti del datore di lavoro (tanto di quello vero che di quello apparente), perché solo mantenendo salve le apparenze può essere garantita loro la possibilità di lavorare in Italia. Altro aspetto non trascurabile è l’estrema difficoltà di controllare la retribuzione effettivamente corrisposta, dal momento che normalmente essa figura versata in patria (salva l’erogazione del c.d. “poket money”), oltre al risparmio notevole per quanto riguarda il costo dei contributi, nei casi in cui siano applicabili convenzioni in materia di sicurezza sociale che consentono di mantenere la meno onerosa posizione contributiva nel Paese di origine.35 34. Non si tratta di ipotesi di fantasia: lo scrivente si è trovato ad assistere in più di un’occasione lavoratori che sono stati selezionati (assieme a centinaia di altri, per volta) nel loro paese tramite pubblici avvisi sulla stampa nazionale, pubblicati da imprese esistenti solo sulla carta ed aventi l’unico scopo di reclutarli e di prestare il nome, oltre a quella che si può definire eufemisticamente “l’assistenza amministrativa”, per consentire l’autorizzazione all’ingresso nell’ambito di un appalto illecito. In un caso, addirittura, per maggiore garanzia del soggetto reclutatore, è stata fatta sottoscrivere a ciascuno degli interessati, presso un notaio del paese di partenza, un’ipoteca sulla casa. 35. Fra le convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale, che regolano il distacco di lavoratori, merita di essere citata quella più utilizzata nel frangente di cui trattasi, stipulata con la Jugoslavia il 14 novembre 1957 e ratificata con legge 11 giugno 1960 n. 885 (G.U. 29 agosto 1960 n. 210). A seguito della nota dissoluzione della Jugoslavia, le Repubbliche di Croazia, Slovenia e Bosnia hanno formalizzato la successione nell’applicazione di detta convenzione. 352 9.4 La regolarizzazione 9.4.1 L’accesso alla procedura di emersione Come è noto, l’art. 33 della legge 30 luglio 2002 n. 189 ha disciplinato la procedura di emersione del lavoro irregolare per quanto attiene le colf e le “badanti”, mentre il decreto-legge 9 settembre 2002 n. 195 ha dato analoghe disposizioni per la regolarizzazione dei lavoratori occupati negli altri settori; la legge di conversione 9 ottobre 2002 n. 222 ha poi introdotto alcune modifiche alle condizioni originariamente previste, armonizzandole sostanzialmente per entrambe le categorie. La valutazione delle diverse problematiche interpretative che si sono poste nell’applicazione di dette norme, come pure ogni altra valutazione di merito sulle scelte operate dal legislatore, esula dalla presente analisi, che viene dedicata esclusivamente alla valutazione degli effetti più direttamente rilevanti sotto lo specifico profilo dell’effettività dell’emersione. Nonostante già da molto tempo prima dell’entrata in vigore della L. 189/02 (e della contestuale emanazione del D.L.195/02) fosse noto che vi era un’alta probabilità che venissero emanate disposizione in materia di regolarizzazione,36 fin dai primi giorni della sua operatività si era registrata una certa diffidenza dei datori di lavoro nell’utilizzo di tale opportunità. Certo, la mancanza di chiare indicazioni operative, emanate solo in prosieguo, poteva in parte giustificare una prudente condotta di attesa, per consentire di meglio comprendere se vi erano o meno le condizioni per regolarizzare i rapporti di lavoro in atto, ma la discrasia tra il massiccio afflusso di immigrati presso gli uffici postali per il ritiro della modulistica (il c.d. “kit”) e la scarsità di domande presentate nella fase iniziale è stato il primo indicatore di una palpabile riluttanza di una parte dei datori di lavoro, che ha poi trovato conferma nell’esperienza pratica “di sportello” delle diverse associazioni laiche e religiose che hanno prestato assistenza per l’avvio delle pratiche. 36. Come pure è accaduto in occasione delle precedenti regolarizzazioni, il lungo dibattito politico che ha portato all’emanazione delle norme in commento non ha mancato di indurre la divulgazione tra gli immigrati e nei loro Paesi d’origine dell’opportunità di fare ingresso irregolare in Italia per approfittare appena possibile della procedura di emersione. L’incremento degli ingressi irregolari attribuibile al prolungamento del dibattito (che forse avrebbe potuto essere prevenuto anticipando un decreto legge ad hoc rispetto alla legge di riforma del T.U.) può essere valutato confrontando le stime sulla presenza di immigrati irregolari all’inizio del 2002 con il numero complessivo di domande di regolarizzazione. 353 Al di là delle incertezze interpretative - essenzialmente incentrate sull’individuazione della decorrenza iniziale minima dei rapporti di lavoro37 e sulla rilevanza o meno di eventuali periodi di interruzione del rapporto per temporaneo rimpatrio - e pure a fronte di una incoraggiante ed omnicomprensiva previsione di estinzione delle violazioni pregresse,38 fra i datori di lavoro si è registrata una certa riluttanza: non sono certo isolati, infatti, i casi di coloro che, dopo avere tergiversato di fronte alle insistenti richieste dei dipendenti, hanno licenziato (ovviamente, senza alcuna formalità) i lavoratori, oppure li hanno allontanati adducendo la scusa che non c’era lavoro e che li avrebbero richiamati, oppure sostenendo (falsamente e per liberarsi del problema) che la prosecuzione del rapporto di lavoro sarebbe stata possibile solo dopo il perfezionamento della regolarizzazione; altri, più astuti, hanno promesso fino alla scadenza dei termini la regolarizzazione, magari mostrando i moduli compilati, salvo poi ometterne l’inoltro. Per l’appunto, la peculiarità della regolarizzazione in esame consiste nell’avere affidato alla volontà del solo datore di lavoro l’attivazione della procedura, tant’è che si era inizialmente ritenuto che il previsto inoltro della dichiarazione di emersione costituisse una mera facoltà e non un atto dovuto, senza che vi fosse un vero e proprio diritto, bensì una mera aspettativa, da parte del lavoratore. In realtà, come ha precisato la giurisprudenza, poiché assumere o mantenere alle dipendenze un lavoratore straniero privo di idoneo permesso di soggiorno costituisce reato, si è più correttamente ritenuto che la norma non potesse essere interpretata nel senso di attribuire al datore di lavoro la facoltà di scegliere se regolarizzare - con ciò estinguendo tutte le precedenti violazioni oppure perseverare nella condotta illecita. Il ripristino della legalità è stato dunque considerato obbligatorio da parte del datore di lavoro, riconoscendosi ai lavoratori il diritto di pretendere la regolarizzazione. Ma il Ministero dell’Interno si è adeguato a tale interpretazione solo in prossimità della scadenza dei termini, peraltro, dopo che era già stato prorogato il termine di scadenza per i lavoratori non domestici all’11 novembre, in sede di conversione in legge, con modificazioni del relativo decreto-legge. È infatti del 31 ottobre la circolare n. 300C/2002 (c.d. “circo- 37. La formulazione letterale della norma contrasta con l’interpretazione restrittiva adottata dal Ministero dell’Interno: infatti, mentre la norma consente le regolarizzazione a chiunque ha occupato lavoratori extracomunitari in posizione irregolare nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore, il che potrebbe significare che anche un rapporto di lavoro sorto il giorno prima dell’entrata in vigore rientra nel campo di applicazione della regolarizzazione, il Ministero dell’Interno ritiene che siano ammissibili le domande di regolarizzazione solo quando il rapporto di lavoro si sia svolto quantomeno per tutti i tre mesi antecedenti. 38. Per la prima volta, in una regolarizzazione dedicata al lavoro degli stranieri, è stata espressamente prevista, oltre alla estinzione delle violazioni in materia penale, amministrativa, civile e previdenziale, anche l’estinzione delle violazioni in materia fiscale. 354 lare Mantovano”, perché attribuita all’omonimo Sottosegretario che, non senza difficoltà di mediazione politica, riuscì a sbloccare la controversia sugli irregolari licenziati), che ha ammesso la possibilità di aprire una vertenza nei confronti del datore di lavoro “renitente” entro l’11 novembre e di presentare direttamente alla Questura la domanda di permesso di soggiorno “per ricerca occupazione” entro il successivo 19 novembre. Certo è che, anche ammettendo la tempestiva divulgazione della circolare (non tanto tra le prefetture, quanto piuttosto tra gli immigrati: specie se si considera che la circolare citata è stata emanata in un giorno prefestivo e che tra il 31 ottobre e l’11 novembre sono inclusi due fine settimana), nello spazio di appena sette giorni lavorativi non si poteva ragionevolmente sperare di “recuperare” tutte le anzidette situazioni controverse.39 È noto che, soprattutto nel settore del lavoro domestico ma non solo, una parte non trascurabile dei lavoratori ha pagato in proprio e senza discussioni il costo della regolarizzazione, ovvero il previsto contributo forfetario a carico del datore di lavoro, pur di ottenere il sospirato permesso di soggiorno. Non solo, ma si sono anche verificati casi di estorsione conclamata, in cui il datore di lavoro ha costretto l’interessato a pagare addirittura un prezzo ulteriore (fino a 5.000 euro!) per ottenere la regolarizzazione.40 Pure si sono verificati casi di vere e proprie regolarizzazioni fittizie sia presso piccole imprese e sia, soprattutto, presso finti datori di lavoro domestico, anch’esse quasi sempre “comprate”,41 non solo da persone effettivamente prive di un’occupazione ma anche da persone che lavoravano in nero presso datori di lavoro indisponibili alla regolarizzazione. 39. Persino laddove è stata organizzata un’assistenza vertenziale anche nei giorni festivi, come ha fatto la Camera del Lavoro di Milano, è stata rilevata l’esistenza di molte denunce tardive, anche perché, come accennato, molti lavoratori hanno potuto constatare solo l’ultimo giorno utile che, contrariamente alle assicurazioni ricevute, la dichiarazione di emersione non era stata presentata. È tuttora dubbio se si ammetterà che valgano anche, per interrompere il termine dell’11 novembre, le vertenze da considerare avviate entro tale data, nei molti casi in cui i lavoratori hanno dato delega al sindacato entro il giorno 11 per essere tutelati attraverso la richiesta di convocazione della controparte, anche se poi la formale richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione é stata inoltrata dagli uffici sindacali nei giorni successivi, purché entro il 19 novembre, data fissata dalla circolare per la richiesta di p.s. presso le Questure. Al momento, le Questure non sanno ancora esattamente come applicare queste istruzioni e tendono ad escludere l’accettazione delle domande di permesso di soggiorno basate su vertenze per le quali non sia documentabile la spedizione della relativa raccomandata - contenente l’istanza di convocazione del tentativo obbligatorio di conciliazione - entro l’11 novembre. 40. È stata denunciata a Padova un’impresa che ha fatto pagare a ben 92 immigrati, che effettivamente lavoravano in nero, la somma media di 3.000 euro pro capite, mediante trattenuta sugli stipendi. Non si ritiene si tratti di un caso isolato, quanto piuttosto di situazioni estremamente difficili da dimostrare, senza contare il fondato timore dei lavoratori di perdere sia il posto di lavoro che l’opportunità di regolarizzazione. Infatti, nel caso in questione l’avvio delle indagini è stato reso possibile grazie ad una preparazione minuziosa ma non certo facile e proponibile a chiunque, ovvero con l’impiego di una microcamera nascosta in un bottone (c.d. “candid camera”). 41. È stato recentemente denunciato a Verona il caso di uno studio di consulenza che avrebbe venduto, grazie all’utilizzo di imprese compiacenti, almeno 300 regolarizzazioni al prezzo minimo di 2.000 euro pro capite. 355 Dunque, se si tiene conto della prassi “alternativa” di “scaricare” il pagamento del contributo forfetario sul lavoratore, ciò che può avere indotto una parte dei datori di lavoro ad omettere l’inoltro della dichiarazione di emersione non è tanto il costo della regolarizzazione, quanto piuttosto il maggior costo futuro e la maggiore rigidità del rapporto di lavoro, derivanti dalla necessaria applicazione delle norme di legge e dei contratti collettivi ai rapporti regolarizzati (non solo in relazione alle retribuzioni minime ed ai relativi contributi, ma anche in considerazione del necessario rispetto della continuità della prestazione, dell’orario di lavoro, del diritto alle ferie, ai riposi, ecc.). Tale preoccupazione ha senz’altro pesato notevolmente sulle sorti dei rapporti di lavoro domestico, anche se il problema è stato talvolta risolto in questi casi facendo emergere un rapporto part-time anziché a tempo pieno, o addirittura formalizzando (grazie al fatto che i minimi retributivi del Ccnl per il lavoro domestico sono palesemente inferiori alle tariffe minime praticate nel mercato) una retribuzione, per così dire, “conglobata”: in altre parole, è stata dichiarata una retribuzione inferiore a quella precedentemente praticata per assorbire il maggior costo degli oneri contributivi e retributivi indiretti, col risultato che la colf o la “badante” regolarizzata verrà pagata meno di prima. D’altra parte, non sembra certo un caso che molte delle stesse badanti delle quali, prima della regolarizzazione, i datori di lavoro tessevano le lodi per la disponibilità e dedizione che contrassegnava la loro prestazione, dopo, quando hanno iniziato a chiedere il giorno libero, siano state tacciate di gravi negligenze, guarda caso per giustificare la risoluzione del rapporto (e magari assumere una nuova arrivata in condizione irregolare). Per quanto riguarda invece le imprese, se da un lato è pacifico che moltissime, quelle più serie e normalmente di maggiori dimensioni, non vedevano l’ora di far emergere rapporti di lavoro instaurati irregolarmente a causa dell’estrema difficoltà di assumere mediante il noto regime dei flussi migratori, non si può fare a meno di considerare che vi sono state imprese, per lo più di piccole dimensioni, che hanno rifiutato la regolarizzazione perché questa fa venir meno la convenienza dell’impiego degli immigrati, ovvero perché, in altre parole, l’instaurazione di regolari rapporti di lavoro e l’assunzione dei relativi costi le avrebbe portate fuori dalla fascia marginale del mercato che di fatto occupano. In alcuni casi, inoltre, si ritiene non abbia influito solo il minor costo del lavoro pregresso (comunque non secondario) ma anche la massima flessibilità resa possibile dalla condizione degli immigrati irregolari, che consentiva un impiego intermittente in funzione degli alterni flussi di lavoro. Ad esempio, l’imprenditore artigiano del settore edile non sente soltanto il problema del costo del lavoro quanto piuttosto la ritenuta impossibilità 356 (poco importa se a torto o a ragione) di assicurarvi continuità, ovvero l’onere di dover sostenere il costo di una manodopera che, a tratti, risulta (o forse risulterà) inutilizzabile. D’altra parte, gli immigrati, in specie quelli irregolari, si concentrano maggiormente proprio in questo tipo di aziende, il che rende facilmente comprensibile l’alta precarietà della loro occupazione anche in una situazione regolare, non a caso fortemente contrassegnata dalla stipula di contratti a tempo determinato (talvolta anche oltre i limiti legali e contrattuali). E ciò spiega anche perché - oltre alle regolarizzazioni fittizie, che, per ovvie esigenze di contenimento del costo contributivo, inducono a risolvere i formali rapporti di lavoro il più presto possibile - non pochi degli effettivi rapporti di lavoro per i quali è stata attivata la regolarizzazione vengono ora risolti o, verosimilmente, cesseranno nei prossimi mesi. 9.4.2 La seconda fase della regolarizzazione In effetti, ciò che preoccupa è la seconda fase della regolarizzazione, di fronte alla casistica, ovviamente destinata a crescere progressivamente, dei “regolarizzandi” che hanno già perso o che perderanno il posto di lavoro. La procedura di regolarizzazione prevede (a seconda di colf, badanti o lavoratori subordinati) che la domanda venga perfezionata entro 30 o 60 giorni attraverso la convocazione presso lo sportello polifunzionale attivato dalle prefetture. Sappiamo che di fronte alla quantità enorme di domande (circa 700.000) gli appositi uffici non sono sufficientemente attrezzati per smaltirle in poco tempo. Non solo sono già stati abbondantemente superati i termini sopraindicati ma non sarà nemmeno possibile avvicinarcisi. Facendo i conti con le cifre delle domande presentate, i giorni lavorativi di apertura degli uffici e la quantità giornaliera di richieste sottoposte ad esame, risulta evidente, rebus sic stantibus, che i più sfortunati, ovvero quelli che hanno presentato la loro domanda dopo le prime migliaia, potranno subire tempi di attesa che potranno arrivare oltre i due anni.42 Ed è altrettanto evidente che ciò produrrà una serie di conseguenze che potrebbero essere drammatiche se non vi si ponesse rimedio. 42. A giustificazione della inadeguatezza dell’apparato preposto al disbrigo dei vari adempimenti amministrativi si è sostenuto che non era prevista (o prevedibile) una così massiccia presenza di irregolari interessati alla regolarizzazione. Tuttavia le stime sulla presenza di irregolari in Italia all’inizio del 2002 indicavano già una presenza intorno alle 300-350 mila persone, cui si sono aggiunti i nuovi ingressi anche grazie al richiamo dell’imminente regolarizzazione. 357 Infatti, il problema più frequente, che riguarderà un numero massiccio di casi, sarà rappresentato dalla necessità di cambiare datore di lavoro. La cosa in sé non dovrebbe creare particolari problemi, specialmente nel nostro Nord est, ma il punto è che non si sa se e come queste persone potranno trovare una nuova occupazione. Una recente circolare del Ministero dell’Interno prevede che nel caso di perdita del posto di lavoro per licenziamento43 sarà possibile, in analogia con quanto previsto dall’art. 22, comma 11 del T.U., concedere un permesso di soggiorno di sei mesi per la ricerca di una nuova occupazione; tuttavia, secondo la circolare, questo sarà possibile solo a seguito della convocazione delle parti presso lo sportello polifunzionale attivato dalla prefettura, il che significa attendere moltissimo tempo per la maggior parte degli interessati. A questo riguardo teniamo presente che spesso gli stranieri, soprattutto quelli di recente immigrazione, hanno una durata media del rapporto di lavoro piuttosto scarsa, vale a dire che cambiano spesso lavoro, perché si tratta di lavori per lo più a termine o comunque precari. Se dovessimo ragionevolmente tener conto di ciò, considerando i tempi di attesa, dovremmo ritenere che fino al momento in cui sarà possibile perfezionare la regolarizzazione, gli interessati (circa 700.000) avranno dovuto cambiare posto di lavoro più volte. Ma, per l’appunto, nel frattempo non si sa come cambiare posto di lavoro. Certo, l’idea originaria (come si suol dire, l’intenzione del legislatore, che ad ogni buon conto non assume alcun rilievo ai fini interpretativi della norma) probabilmente era che a perfezionare il contratto di soggiorno dovesse essere soltanto il datore di lavoro che ha inoltrato la domanda di regolarizzazione, e che durante la (breve) procedura di perfezionamento non potesse esserci un cambiamento di datore, salvo casi eccezionali, come la morte della persona assistita dalla badante, nel qual caso è già prevista da un’altra circolare del Ministero dell’Interno la possibilità di immediato rilascio di un permesso di soggiorno di sei mesi per ricerca lavoro o l’autorizzazione alla sostituzione immediata del nuovo datore di lavoro nella procedura di regolarizzazione. Ma la casistica più ampia e diffusa dei rapporti di lavoro che si concludono per altre cause naturali non è stata presa in considerazione. Gli stessi datori di lavoro che fossero interessati ad assumere lavoratori immigrati non hanno al momento nessuna sicurezza sulla regolarità del rapporto di lavoro che si an- 43. Detta circolare non prende in considerazione le ipotesi di dimissioni, né volontarie né per giusta causa (laddove, ad es. il lavoratore è di fatto costretto a recedere dal rapporto perché non viene pagato) pur richiamando l’analogia con il già citato disposto di cui all’art. 22, comma 11, che contempla espressamente anche le dimissioni. 358 drebbe ad instaurare, anzi, possono fondatamente temere di commettere il reato previsto dall’art. 22 comma 12 del Testo Unico, che fra l’altro è ora sanzionato in maniera più grave che in passato (pagamento di 5.000 euro per ogni lavoratore assunto senza permesso di soggiorno e arresto da tre mesi ad un anno). Non si può fare a meno di valutare se questa prassi applicativa della procedura di regolarizzazione, di fatto introdotta dal Ministero dell’Interno con una circolare, sia o meno compatibile con i principi del nostro diritto del lavoro e, soprattutto, se sia utile dal punto di vista dell’ordine pubblico e dell’attività di contrasto del lavoro nero. D’altra parte, se da un lato la durata della procedura (sia pure con un termine non espressamente perentorio) è a seconda dei casi di 30 o 60 giorni, dall’altro la norma in materia di regolarizzazione non contiene, né avrebbe potuto contenere, alcuna deroga ai principi generali in materia di risoluzione del rapporto di lavoro. In altre parole, non vi è alcuna norma che inibisca il diritto del datore di lavoro di licenziare e del lavoratore di rassegnare le dimissioni, nei casi previsti dalla legge, sicché non sembrerebbe ragionevole ricacciare nella clandestinità gli immigrati per il solo fatto che hanno esercitato dei diritti o che hanno subìto, per così dire, dei diritti esercitati dai loro datori di lavoro. Ciò costituirebbe una palese contraddizione con la regola generale, per cui chi perde il posto di lavoro non automaticamente perde la possibilità di soggiornare e di reperire una nuova occupazione, avendo diritto ad un permesso di soggiorno della durata di sei mesi, il che è sì quanto è stato già previsto dalla circolare citata ma di fatto rinviato ad una data lontana. Prova ne sia che i lavoratori che perdono il posto di lavoro non sono ammessi a presentare presso la competente Questura la pur prevista domanda di p.s. di sei mesi per ricerca occupazione: infatti, detti uffici rifiutano il formale ricevimento della relativa domanda adducendo che ciò non sarà possibile fino a quando non sarà stata effettuata la convocazione presso gli sportelli polifunzionali delle prefetture. A sostegno di questa prassi si spiega che non è tecnicamente possibile il vaglio della posizione individuale, causa la non ancora completa trasmissione della documentazione alle prefetture e alle questure da parte del centro elaborazione dati delle Poste e quindi, a sua volta, da quello della Polizia di Stato, ma così argomentando è evidente che si scarica sull’utenza (non solo i lavoratori ma anche i datori di lavoro, vecchi e nuovi) tutto il peso dell’inadeguatezza dell’apparato preposto al perfezionamento delle regolarizzazioni. Peraltro, se, così operando, si impedisse sostanzialmente l’esercizio del diritto del lavoratore di cambiare datore di lavoro, si potrebbe fondatamente configurare una discriminazione ed una violazione dell’art. 10 della Costituzione, che al 2°comma sancisce la 359 prevalenza sulla legge ordinaria delle norme e dei trattati internazionali sulla condizione dello straniero. Infatti, è opportuno ricordare la Convenzione n. 143 del 1975 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ratificata dall’Italia nel 1981 e resa operativa con l’entrata in vigore della legge 943/86), che garantisce il diritto dei lavoratori regolarmente soggiornanti di godere di piena parità di trattamento e di opportunità rispetto ai lavoratori nazionali; la stessa Convenzione prevede la possibilità per i paesi aderenti di stabilire limitazioni alla possibilità di cambiare tipo di lavoro solo entro un tempo determinato, e prevede inoltre che la perdita del posto di lavoro non possa mai comportare automaticamente la perdita del permesso di soggiorno. Per l’appunto, le 700 mila persone in fase di regolarizzazione sono comunque da considerare attualmente legalmente soggiornanti, anche se sottoposte a verifiche. Ora, poiché non sussiste alcuna generale disposizione limitativa della possibilità di cambiare datore di lavoro o settore di attività,44 queste persone potrebbero subire una effettiva e legittima limitazione alla possibilità di cambiare lavoro solo entro i termini previsti nell’ambito delle norme sulla regolarizzazione, ovvero i 30 o i 60 giorni previsti per perfezionare la relativa procedura, perché è indiscutibile che, una volta perfezionata la procedura di regolarizzazione, il lavoratore immigrato può cambiare lavoro e beneficiare di un permesso di soggiorno di sei mesi per trovare una nuova occupazione. È facilmente intuibile che, se i tempi di perfezionamento della procedura non saranno drasticamente accelerati, o se comunque non verranno adottate soluzioni che consentano ai perdenti il posto di lavoro di perfezionare subito il nuovo rapporto, gli interessati saranno nel frattempo costretti a rivolgersi nuovamente al lavoro nero, con ovvio pregiudizio per l’intera comunità (si pensi soltanto al mancato introito di ritenute fiscali e contributi). Peraltro, se si dovesse attendere ancora molto tempo, il numero degli interessati al rilascio del p.s. per ricerca di lavoro crescerebbe (per le ragioni già esposte) a dismisura, rischiando di rasentare una quota prevalente delle richieste di regolarizzazione, con l’ulteriore effetto che le Questure si troverebbero a gestire, anziché un flusso graduale di richieste di p.s., una mole di pratiche tale da provocare una vera e propria paralisi anche a danno dei lavoratori già stabilmente soggiornanti, che si troverebbero verosimilmente a subire tempi ancora più lunghi di quelli attuali per i normali rinnovi o aggiornamenti dei permessi. 44. Si ricorda che la L. 943/86 prevedeva il divieto di cambiare settore di attività per un tempo massimo di 24 mesi, pur garantendo, comunque, la incondizionata possibilità di cambiare datore di lavoro mantenendo la stessa qualifica; tale limitazione è stata poi soppressa nell’ambito delle abrogazioni disposte con l’entrata in vigore del D.Leg.vo 25 luglio 1998 n. 286. 360 Infine, va considerato che, con la ricevuta attestante l’inoltro della domanda di regolarizzazione non è ammessa alcuna mobilità, o meglio, dal territorio italiano si può uscire ma senza possibilità di farvi rientro, sicché è facilmente intuibile, a meno di pretendere da tutti gli immigrati una stoica resistenza, che perdurando tale interdizione per tutta la durata della procedura, si indurrà buona parte degli interessati, prima o poi, a tentare di eludere i controlli di frontiera così producendo ulteriore illegalità. 9.5 La casistica Senza alcuna pretesa di fornire uno spaccato completo e statisticamente significativo delle situazioni che più tipicamente connotano il lavoro nero degli immigrati, si annotano qui di seguito alcune osservazioni principalmente rivolte a sottolineare gli aspetti che, per così dire, presentano maggiore rilievo anche sotto il profilo dell’ordine pubblico, nella più lata accezione del termine. 9.5.1 I settori di impiego I dati della recente regolarizzazione dimostrano che nel settore del lavoro domestico vi è stato sinora un massiccio ricorso all’impiego irregolare, dal momento che ad esso si riferisce circa il 40% delle dichiarazioni di emersione. Naturalmente, non si potrà fare a meno di considerare che in tale ambito, come pure negli altri settori di occupazione, vi è stata una certa incidenza di regolarizzazioni alle quali non corrisponde un effettivo rapporto di lavoro, sebbene non sembra vi siano ragioni per enfatizzare particolarmente l’incidenza delle regolarizzazioni “di comodo”.45 Sarà interessante verificare fra qualche tempo la “mobilità” verso altri settori di impiego dei lavoratori domestici, tenendo conto, da un lato, che anche in occasione delle prece- 45. Non bisogna confondere le problematiche interpretative ed applicative della regolarizzazione e il diffuso fenomeno delle regolarizzazioni “pagate” dagli immigrati con la ben minore incidenza dei rapporti simulati, peraltro tipicamente ricorrente in ogni regolarizzazione: senza alcuna pretesa di rilevazione scientifica, ma avendo avuto nel corso della regolarizzazione costanti contatti con numerosi “sportelli” attivati dal privato sociale per l’assistenza nella regolarizzazione (laddove gli interessati dicono le cose come stanno), lo scrivente fa presente di avere constatato un’incidenza delle regolarizzazioni “di comodo” senz’altro inferiore al 10%. 361 denti regolarizzazioni molti di essi hanno preferito orientarsi verso altre occupazioni non appena ottenuto il p.s., mentre d’altro canto la prevedibile tendenza al progressivo calo dell’occupazione ufficiale in tale settore - a meno di non ritenere che improvvisamente venga meno il fabbisogno di tali prestazioni - potrebbe confermare il fondato timore di un turn over tutt’altro che virtuoso, ovvero la sostituzione di lavoratori regolari con altri “nuovi arrivati” in condizione irregolare. Per quanto riguarda le imprese, è praticamente scontato che ad utilizzare la regolarizzazione vi siano praticamente tutte le categorie che sinora hanno utilizzato o tentato di utilizzare il sistema dei “flussi migratori”, come si ritiene potrebbe essere confermato incrociando i dati delle aziende che attingono alle “quote” con le risultanze della regolarizzazione. Si tratta, per l’appunto, delle imprese che svolgono lavorazioni sempre più rifiutate dalla manodopera nazionale e che ricorrono all’impiego irregolare più per necessità che in base ad una vera e propria propensione per il lavoro sommerso, quelle che, in altre parole, assumono i c.d. “clandestini” perché (o fintantoché) non trovano a portata di mano la concreta possibilità di assumere immigrati muniti del p.s.. Va tuttavia evidenziato che vi sono invece delle tipologie di impresa che preferiscono attingere (in tutto o, più spesso, in larga parte) dal bacino della manodopera irregolare, perché ciò si confà alla loro peculiare collocazione nel mercato, talvolta esse utilizzano anche le procedure di assunzione dall’estero e/o le eventuali possibilità di regolarizzazione, ma ciò non tanto per stabilizzare un rapporto in modo regolare quanto perché la loro applicazione può costituire l’occasione per indurre nel frattempo il lavoratore ad accettare qualsiasi condizione, se non anche per realizzare un lucro illecito.46 Non vi è in realtà uno specifico settore produttivo particolarmente interessato, piuttosto vi sono in diversi settori delle fasce marginali di imprese che hanno scelto di operare sul mercato proprio sfruttando l’alta concorrenzialità assicurata dalle caratteristiche intrinsecamente illecite dei rapporti di lavoro (e non solo). Un elemento comune a tali imprese è che, di fatto, possono praticare prezzi altamente concorrenziali non solo perché pagano poco ma anche e soprattutto grazie al fatto che sono organizzate o comunque si trovano nella condizione di avere praticamente poco o nulla da perdere, ovvero di poter accettare il rischio di chiudere “serenamente” i battenti allorché una serie di nodi vengono al pettine: esse hanno infatti un patrimonio esiguo, se si eccettuano strutture ed attrezzature di proprietà di terzi, e la loro essenziale risorsa produttiva è costituita dalla 46. Non sono certo nuovi né isolati i casi di imprese e/o di aziende specializzate in servizi amministrativi (sia costituite da italiani che da stranieri) che si fanno pagare per formalizzare, utilizzando il sistema delle “quote”, l’assunzione dall’estero per lavoro subordinato o autonomo. 362 manodopera a basso costo, utilizzata con la massima flessibilità (per usare un delicato eufemismo). Al riguardo, la casistica verificata nell’esperienza pratica ci offre degli esempi tipici (ma beninteso, da non intendersi affatto come rappresentativi dell’intero settore produttivo di appartenenza, nel quale operano in prevalenza imprese serie). Anzitutto, imprese operanti nel settore dell’edilizia, per lo più di tipo artigianale o comunque di modeste dimensioni, che costituiscono spesso l’ultimo anello della catena dei subappalti ed altrettanto spesso operano oltre il limite del divieto di intermediazione di manodopera di cui alla legge 1369/60. Ad esempio, non accade di rado di verificare che, in pratica, la differenza tra l’essere dipendenti dell’impresa committente o risultare formalmente titolari di un’impresa subappaltatrice della medesima committente, è rappresentata dal “salto di qualità” di un muratore (magari, e sempre più spesso, un immigrato), che costituisce una propria impresa; mentre questi, prima, fungeva da capo squadra, poi diventa formale datore di lavoro, restando sostanzialmente inalterata la sua funzione sostanziale di preposto alla direzione degli operai cui viene affidata la realizzazione delle opere, o parte di esse, in un dato cantiere. Analoghe caratteristiche si possono pure rinvenire nell’ambito di piccole imprese del settore metalmeccanico, che per lo più svolgono attività di montaggio o lavorazioni per conto terzi, magari presso i cantieri o gli stabilimenti degli stessi committenti e utilizzando gli impianti ed i macchinari di loro proprietà e pattuendo altresì un corrispettivo basato su una paga oraria per ciascun addetto. Questo può persino accadere anche all’interno di realtà rappresentative della grande cantieristica, in cui può verificarsi una palpabile differenziazione rispetto ai lavoratori “garantiti”, direttamente dipendenti dal primo appaltante, sicché le lavorazioni comportanti un’alta incidenza di impiego di manodopera (non solo comune ma anche specializzata) vengono “lottizzate” con un sistema così articolato di subappalti che è persino difficile da ricostruire. Vi sono poi lavorazioni facilmente “esportabili”, ovvero trasferibili al di fuori dell’azienda committente, in quanto richiedenti un ridotto investimento in macchine ed attrezzature e basso costo per il trasporto dei semilavorati: ne è un tipico esempio il settore dell’abbigliamento, che di fatto sta recuperando apprezzabili quote di produzione (perdute già diversi anni fa a causa del minor costo del lavoro incidente sulla concorrenza estera) potendo ringraziare almeno in parte il lavoro sommerso.47 47. I laboratori organizzati da imprenditori cinesi sono senz’altro l’esempio più noto, ma non l’unico. 363 Non mancano, ed anzi sono sempre più frequenti, nonostante la crescente attenzione degli organi ispettivi, i casi di cooperative operanti nel settore del facchinaggio (molto di meno nel settore delle pulizie), che possono proporre tariffe imbattibili rispetto a quelle praticate dalle cooperative che si sono già adeguate o si stanno adeguando ai precetti della legge 3 aprile 2001 n. 142;48 senza contare che proprio l’impiego di immigrati irregolari viene talvolta utilizzato per eseguire appalti illeciti di mere prestazioni di lavoro inerenti il ciclo produttivo dei committenti, il cui accertamento è reso ancor più difficile dalla condizione di “clandestinità” (non è nemmeno necessario istruire un “clandestino” su come comportarsi in caso di accertamento ispettivo, poiché la fuga è comunque la sua più spontanea reazione). Pure risulta percepibile la presenza di manodopera clandestina nei settori della ristorazione e alberghiero e nell’agricoltura, laddove il comune denominatore sembra costituito dal carattere prettamente familiare dell’azienda. Ovviamente, si fa per dire, nell’ambito della riduzione al minimo dei costi e dell’inesistenza di un’organizzazione del lavoro realmente imprenditoriale, la sicurezza sul lavoro risulta pressoché inesistente, mentre la condizione irregolare di soggiorno facilita ulteriori comportamenti illeciti in caso di infortunio: non sono infrequenti i casi di lavoratori che si presentano al pronto soccorso con traumi evidentemente prodotti da infortunio sul lavoro, che dichiarano incredibili incidenti domestici o stradali; accade pure che venga omessa dal datore di lavoro, per non compromettersi, anche la prestazione del primo soccorso e succede persino che vengano messi in scena finti incidenti stradali nel breve tempo necessario per l’arrivo dei soccorsi, istruendo all’uopo i colleghi di lavoro mentre la vittima è priva di sensi. 48. Sono evidenti le inevitabili ricadute sul mercato del settore dei maggiori costi derivanti dalla necessità, prevista dalla norma citata, di prevalente inquadramento dei soci nell’ambito del lavoro subordinato, con applicazione dei normali istituti retributivi previsti dai contratti collettivi di riferimento, ma va tuttavia sottolineato che la citata riforma legislativa non mancherà di produrre anche altri effetti, meno evidenti ma non meno importanti. Infatti, al di là delle valutazioni di merito, essa amplificherà notevolmente le differenze già esistenti nell’ambito delle cooperative del settore, inducendo di fatto scelte strategiche degli operatori che non lasceranno spazio a soluzioni di compromesso, dal momento che la maggiore rigidità e regolamentazione dei rapporti di lavoro andrà a creare una sorta di “polarizzazione”: da un lato si andranno a collocare le cooperative che tenteranno di mantenere costi “concorrenziali” eludendo le disposizioni vigenti, e ciò non potrà che essere fatto ricorrendo all’impiego di lavoratori irregolari o cronicamente precari ed a forme fittizie di “co.co.co.”, con ovvie conseguenze sia sotto il profilo della qualità, produttività e sicurezza del lavoro, sia in relazione all’alta vertenzialità ed alle sanzioni civili, penali e amministrative che ne potranno derivare nei confronti degli stessi committenti; dall’altro, potranno attestarsi quelle cooperative che sapranno dimostrare un’effettiva qualità imprenditoriale e fornire servizi connotati da una maggiore produttività e sicurezza per il cliente, e ciò proprio valorizzando i fattori leciti dei rapporti di lavoro, organizzando servizi integrati di alta qualità, basati su rapporti lavorativi stabili e maggiormente professionali, ed amministrando correttamente gli strumenti di contrattazione della flessibilità. 364 L’estrema difficoltà nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, che in buona parte dei casi, specie in quelli meno invalidanti, restano sconosciuti, trova evidente spiegazione nella condizione degli immigrati irregolari, non solo delle vittime ma degli stessi colleghi, che sono oggettivamente coartati all’omertà: tutti, infatti, hanno in caso di qualsivoglia indagine o verifica la certezza di perdere il posto di lavoro, il pagamento di quanto già gli spetta (o sperano di incassare). Se non bastasse, la prassi amministrativa di cui si è accennato sopra comporta la segnalazione per l’espulsione, che in base alle norme del Testo Unico e con maggior rigore dopo la sua riforma, si traduce sempre di più nell’effettivo accompagnamento alla frontiera, senza contare la necessità di rendersi irreperibili dovendo pure preoccuparsi di cambiare alloggio. Quando poi, laddove vengono eseguiti gli accertamenti ispettivi, vengono contestati pesantissimi addebiti economici per evasioni contributive e le relative sanzioni in sede amministrativa (oltre alle violazioni in materia penale e fiscale), si verifica “normalmente” l’insolvenza dell’impresa, che magari si scopre essere rappresentata da un nullatenente (che spesso ha alle spalle precedenti situazioni analoghe) ed avere sede legale presso un alloggio popolare. Nel caso delle cooperative, il patrimonio è praticamente inesistente e la costituzione di una nuova cooperativa (una sorta di “araba fenice”) è fin troppo agevole, quasi una ricetta di uso comune. Quand’anche si tratti di una ditta proprietaria di immobili, non di rado si verifica che il loro valore è già abbondantemente coperto da ipoteche a favore delle banche e che i macchinari non valgono pressoché nulla o sono di terzi. Non solo, ma in questi casi, generalmente, l’impresa ha anche accumulato o continua ad accumulare, nel tempo residuo49 di sopravvivenza ingenti obbligazioni verso l’erario, per mancato versamento di Iva e ritenute fiscali. È evidente che, date le condizioni, il recupero delle somme dovute risulta impossibile, come pure che il danno prodotto dai fenomeni accennati non ricade soltanto sui lavoratori e sul sistema previdenziale bensì sull’intera comunità. 49. La nota lunghezza dei procedimenti amministrativi di accertamento e riscossione, come pure delle connesse procedure giudiziarie, di fatto lascia molto tempo a disposizione, senza che possano essere adottati effettivi interventi idonei a bloccare l’attività illecita. 365 9.5.2 Le dinamiche intraetniche Le relazioni tra gli immigrati, di per sé producono forme di aggregazione che esprimono anche alti livelli di solidarietà ed evidenziano un forte attaccamento ai valori familiari, ricchezza per le famiglie e l’economia del paese d’origine (anche in termini di scambi economici e trasferimento di know how), anche e sempre più spesso forme di imprenditoria vera e preziosa (sia per il paese d’origine che in termini di stimolo per il mercato nazionale, non solo di nicchia). Ma pur dovendo evitare qualsiasi forma di generalizzazione e di ingiustificata enfatizzazione dell’allarme sociale, poiché non è affatto vero che “clandestino” è sinonimo di criminale, non si può trascurare almeno qualche breve cenno sugli aspetti che, anche per esperienza storica, definiscono la tipica devianza collegata al fenomeno migratorio, con particolare riguardo a quelli che interagiscono col mercato del lavoro sommerso. Va premesso che tali dinamiche devianti non vedono protagonisti gli immigrati perché la loro “diversità” è cattiva ma più semplicemente perché nel contesto dei tipici meccanismi devianti associati a tutte le migrazioni, quantomeno dell’era moderna, gli immigrati sono i protagonisti necessari. In altre parole, per sfruttare in modo mafioso un immigrato ci vuole un immigrato sia nel ruolo passivo che in quello attivo e ciò non accade perché “gli immigrati sono cattivi e selvaggi” ma perché i bisogni minimi degli immigrati collegati al loro inserimento lavorativo - e si badi bene che ciò non avviene solo per quanto riguarda i c.d. “clandestini” ma anche per quelli in condizione di legalità precaria - possono essere soddisfatti in modo pressoché esclusivo nell’ambito delle relazioni intraetniche, ed ovviamente secondo le forme di relazione proprie dei paesi d’origine. Per l’appunto: la gestione dell’immigrazione lecita ma a caro prezzo50 e di quella illecita, la vendita dei p.s. falsi, la gestione degli alloggi “in nero”, le sempre più diffuse forme di caporalato e lo sfruttamento da parte di imprese del genere al paragrafo precedente, oppure del tutto informali (dall’attività di volantinaggio pubblicitario alla vendita - o dazione in conto vendita - di prodotti per ambulanti, fino alla preparazione e vendita di cibi cotti), fino al taglieggiamento vero e proprio degli stipendi; sono tutte attività delittuose che sfruttano il bisogno di una crescente moltitudine di realizzare un pur precario quanto irregolare insediamento lavorativo,51 che però in sé non costituisce una condotta criminale. 50. Vedi nota 46. 51. Anche le ricongiunzioni familiari si verificano spesso in condizioni irregolari, pur essendo riconosciuto un preciso diritto soggettivo al riguardo dall’art. 30 T.U.. Il mancato rispetto della relativa procedura da parte di molti non dipende soltanto dalla mancanza o dalla difficoltà di possesso di tutti i requisiti ri- 366 Queste dinamiche necessitano di essere indagate non soltanto sotto i profili strettamente connessi all’attività giudiziaria, perché fanno parte del mercato sommerso degli immigrati, che è un fenomeno ben più ampio rispetto alla casistica dei fatti illeciti: è evidente, infatti, che il lavoro sommerso degli immigrati ben raramente può essere praticato senza utilizzare una o più delle anzidette “risorse”. Meriterebbe dunque di essere considerata, senza essere esclusa a priori, la possibilità di prevenire almeno in parte tali fenomeni, togliendo spazio al sottobosco dello sfruttamento intraetnico, offrendo ove possibile dei percorsi leciti di integrazione, sia con procedure amministrative più praticabili e sia con metodi idonei a consentire l’espressione in forma legale di bisogni intrinsecamente sani. Un esempio al riguardo era costituito dal sistema della c.d. “sponsorizzazione” (autorizzazione all’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro con garanzia, di cui all’art. 23 dell’originaria versione del T.U.), che aveva consentito con gli opportuni controlli l’attuazione della naturale catena migratoria, valorizzando i vincoli di solidarietà familiare a discapito delle dinamiche devianti52. Pur senza fare sconti sui principi di legalità che devono essere salvaguardati senza distinzioni, le stesse differenze culturali e socio-comportamentali delle diverse etnie meriterebbero di essere studiate e maggiormente comprese, non tanto per capire chi è meglio o peggio, quanto per interagire con strumenti più adeguati. Del resto, la mediazione culturale come, più in generale, il rapporto con la multiculturalità, non è una pratica meno indispensabile da assimilare per gli immigrati di quanto non lo sia per noi. 9.6 Conclusioni Il nuovo istituto del “contratto di soggiorno”, introdotto dalla modifica legislativa del T.U., non ha sostanzialmente modificato la procedura per l’autorizzazione all’ingresso. Le sue linee essenziali risalgono addirittura alla prassi amministrativa applicata in assenza di norme specifiche fino al 1986, per essere poi riprese dalla legge 943/86 e riconfermate nella sostanza dal D.Lgs n. 286/1998. Di fatto, la procedura continua a pre- chiesti dalla norma citata, ma anche dai tempi estenuanti di attesa di rilascio del visto, dopo che il nulla-osta è già stato rilasciato dalla competente Questura, presso le rappresentanze consolari italiane. Per fare un esempio, il Consolato d’Italia di Casablanca è chiuso da mesi e l’esame delle relative domande è fermo all’inizio del 2001. 52. In senso nettamente opposto all’abrogazione della c.d. “sponsorizzazione” si veda la risoluzione legislativa A5-00100/2003 del 12.03.03 del Parlamento europeo, sulla proposta di direttiva del Consiglio relativa alle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi che intendono svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo, che affida alla legislazione dei singoli Stati membri la facoltà di ammettere –in termini sostanzialmente simili alla “sponsorizzazione”-- l’ingresso di persone finalizzato alla ricerca di opportunità ed alla successiva stabilizzazione per lavoro subordinato od autonomo. 367 supporre un incontro a distanza tra la domanda e l’offerta, vale a dire fra due soggetti che si trovano ancora nei rispettivi Paesi e che, ovviamente, non si sono mai incontrati prima. In alternativa viene prevista l’ancor più improbabile richiesta di assunzione dalle apposite liste di cui all’art. 21, comma 5, che si è dimostrata molto scarsamente utilizzata.53 In realtà, e si tratta di un dato che potrebbe essere confermato da tutti gli addetti ai lavori, la quasi totalità dei soggetti che hanno ottenuto il visto di ingresso per lavoro sulla base di tale procedura (sempre che non sia intervenuta, nel frattempo un’opportunità di regolarizzazione) ha rispettato le norme sull’ingresso e il soggiorno solo apparentemente, essendo noto a tutti che si è trattato di lavoratori entrati irregolarmente in Italia ben prima dell’attivazione della procedura. Cittadini stranieri extracomunitari che avevano cercato e trovato direttamente il loro impiego lavorativo, in nero, nel nostro Paese. I loro datori hanno successivamente utilizzato la procedura di autorizzazione per l’assunzione dall’estero. A questo punto il lavoratore straniero è dovuto uscire dall’Italia altrettanto irregolarmente (sottraendosi al controllo dei passaporti), poiché la verifica della sua presenza in Italia anteriormente al rilascio del visto di ingresso avrebbe comportato l’annullamento dell’autorizzazione. A fronte di queste note circostanze oggettive, e di quanto sin qui osservato, è evidente che il lavoro nero degli immigrati, in larga parte irregolari, è attualmente un elemento strutturale del mercato del lavoro locale, che non ha riflessi meramente marginali sul mercato del lavoro lecito, in quanto ne costituisce un insostituibile complemento. Non si può infatti trascurare che un’ampia quota del lavoro nero degli immigrati si traduce in occupazione presso imprese che a loro volta forniscono beni e servizi ad imprese che beneficiano, più o meno direttamente (anche a non voler considerare le forme di intermediazione illecita nei rapporti di lavoro), del minor costo del lavoro degli immigrati, con un effetto “calmiere” sull’intero mercato del lavoro ed un’indiretta spinta all’emulazione di comportamenti illeciti nei confronti dei settori produttivi che più direttamente soffrono la concorrenza alimentata dal basso costo del lavoro. Vi è poi da chiedersi se l’intensificazione dell’attività repressiva, anche in base alle recenti modifiche legislative, potrà da sola produrre un’efficace riduzione del fenomeno, o se invece non induca anche condizioni ancor più pesanti di sfruttamento degli irregolari, se non addirittura di maggiore segregazione. La prassi di nascondere quanto più possibile la prestazione lavorativa, al punto da limitare sensibilmente la stessa libertà di mo- 53. Ciò pure a fronte degli appetibili incentivi offerti dal progetto Anagrafe Informatizzata Lavoratori Extracomunitari, realizzato dalla Direzione generale per l’impiego in collaborazione con l’O.I.M. 368 vimento degli individui (ad es. facendoli dormire presso il capannone e consentendo durante la settimana la “libera uscita” a turno per gli acquisti alimentari) non è più, infatti, una ricetta esclusiva dei tipici laboratori cinesi semiclandestini. E non è da escludere che le maggiori sanzioni incombenti sui datori di lavoro possano giustificare un maggiore sfruttamento proprio per ripagare (o ammortizzare) il maggior rischio. Di certo, anche a prescindere da qualsiasi valutazione sulle scelte operate dal legislatore, una sensibile riduzione del fenomeno potrebbe (e dovrebbe) essere comunque favorita dalla riduzione dei tempi di perfezionamento delle procedure amministrative, sia per quanto attiene le procedure di ingresso che in relazione alla procedure di rilascio e rinnovo del p.s., quantomeno per sottrarre i lavoratori e le imprese al compimento di illeciti laddove potrebbero essere evitati. Infine, la complessità del fenomeno dimostra che esso non può essere affrontato unicamente come un problema di polizia, dal momento che il senso ed il valore della legalità devono essere non solo imposti ma realmente assimilati dall’intera società civile, anche con più penetranti politiche di sostegno all’integrazione rivolte tanto ai lavoratori quanto alla parte datoriale. 369