Capitolo 9°
ASSETTI NORMATIVI E FORME DI LAVORO
DEGLI IMMIGRATI1
9.1
Premessa
Come è noto il Nord Est, in specie il Veneto, esercita una particolare attrazione verso gli
immigrati, che è verificabile sia con riferimento all’ingresso dall’estero, molto spesso direttamente realizzato verso il Veneto, e sia con riferimento alla mobilità interna al territorio nazionale, tanto è vero che in occasione di ognuna delle regolarizzazioni attuate dal
1986 ad oggi si è puntualmente registrato un considerevole esodo dal Sud al Nord dei
lavoratori appena regolarizzati, o persino durante la definizione della procedura di regolarizzazione.
Ciò potrebbe far pensare, di primo acchito, che le ragioni dell’esodo siano da individuare nella differenza tra un Sud dove il lavoro per gli immigrati è più facilmente nero2
e un Nord dove sarebbe quasi esclusivamente regolare, sicché la “preferenza” degli immigrati per il Veneto starebbe a dirci che essi giungono qui perché c’è più possibilità di
lavorare regolarmente. Potrebbe persino apparire come logico corollario la deduzione
per cui tale tendenza alla concentrazione nella nostra regione esprime un’offerta assolutamente prevalente di lavoro regolare, e sia dunque la prova che nel Veneto c’è poco
lavoro nero, salvo che per alcuni segmenti “marginali” del mercato tipicamente occupati dai c.d. “clandestini”.
Come vedremo, nel Veneto il lavoro nero non interessa solo i lavoratori extracomunitari
privi di permesso di soggiorno ma anche, con modalità diverse, persone munite di un
1.
Di Marco Paggi.
2.
È emblematica l’esperienza del campo/centro di assistenza organizzato nel 1990 a Villa Literno da Cgil,
Cisl e Uil, per favorire l’utilizzo della regolarizzazione di cui al D.L. 416/90 (convertito nella L. 39/90,
c.d. “Legge Martelli”) da parte degli immigrati impiegati nella raccolta del pomodoro. In quella occasione
la camorra volle dare un segnale della propria capacità di controllo del territorio: infatti, mentre tutti gli
immigrati ospitati presso il campo attrezzato dalle organizzazioni sindacali vennero assistiti per formalizzare l’iscrizione al collocamento (prodromica rispetto all’assunzione regolare), di fatto uno solo degli
iscritti venne assunto in regola, quasi a dire: “uno, non di più, viene assunto in regola, perché l’abbiamo deciso noi”.
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valido permesso di soggiorno; non solo, ma vedremo anche che il lavoro regolare può
persino interessare persone prive di un valido permesso di soggiorno.
Sembra dunque molto più realistico ritenere che la scelta di dirigersi al Nord sia essenzialmente orientata da un dato molto oggettivo e immediatamente apprezzabile, ovverosia dalle maggiori opportunità di occupazione al Nord ed in particolare nel Nord Est,
quale che sia il tipo di lavoro. Non si fanno, insomma, differenze tra lavoro regolare e lavoro nero, semmai si guarda a quanto il lavoro può rendere nell’immediato, e indubbiamente le paghe “in nero” sono più elevate al Nord che al Sud, come è ben noto ai diretti
interessati.3 D’altra parte, non va trascurato che anche gli immigrati con regolare soggiorno per lavoro sono ampiamente occupati nel lavoro sommerso.
Sulle propensioni degli immigrati, nella scelta della loro destinazione lavorativa, influisce notevolmente l’effetto della cosiddetta “catena migratoria”, che invero può avere delle
maglie più o meno strette e così esprimersi in un mero “passaparola” tra connazionali,
che spesso evolve in una rete spontanea di contatti (non certo immuni da interessi collegati alla gestione di interessi e “gerarchie” all’interno delle comunità di immigrati), fino
ad arrivare a vere e proprie forme di solidarietà, prevalentemente di tipo parentale. Ma,
quali che siano le dinamiche che hanno influenzato il percorso migratorio, resta un dato
di generale esperienza, verificabile in modo costante nel rapporto con gli immigrati,
quantomeno con quelli che hanno meno anzianità di presenza sul territorio: il loro sostanziale disinteresse verso la forma del rapporto di lavoro, ovvero la sua irregolarità più
o meno apparente; essi comprendono realisticamente, sia pure dal loro diverso punto di
vista culturale, la precarietà dei tipi di lavoro che vengono loro normalmente proposti e
più in generale delle condizioni di vita che sono destinati ad affrontare, e non si possono
permettere in tale contesto di attribuire valore al concetto di lavoro regolare, anzi, è già
difficile che ne comprendano il significato.
Inoltre, sempre dovendo tener conto dei loro diversi approcci culturali e dei bisogni di
natura immediata che essi devono soddisfare per sé e per le loro famiglie, i lavoratori di
recente immigrazione non hanno di fatto la possibilità di pensare al futuro, di apprezzare le conseguenze vantaggiose (anche dal punto di vista della possibilità di mantenere
una regolare posizione di soggiorno) di un’attività regolare e tendenzialmente stabile,
che dia diritto a fruire le prestazioni delle assicurazioni sociali. Gli stessi immigrati in
condizione regolare di soggiorno –maggiormente quelli di più recente immigrazione e/o
3.
In contesti di elevata tensione occupazionale si arriva ad offrire ad un saldatore esperto la paga netta,
in nero, di 11 euro all’ora; naturalmente, si tratta delle “punte” del mercato, che non costituiscono certo la regola ma rappresentano comunque un elemento di attrazione.
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meno “inseriti”– hanno un atteggiamento di indifferenza verso il valore in sé del lavoro
regolare, spesso sperano (sia pure con una notevole dose di ingenuità) di poter “contrattare” una paga in nero più alta in cambio della rinuncia ai contributi, dei quali non
riconoscono l’utilità differita alla maturazione dell’età pensionabile.4
In altre parole, la concentrazione nel Veneto si basa essenzialmente su una domanda di
lavoro molto ampia e diffusa sul territorio, tale da far sperare con qualche fondamento
nella realizzazione di guadagni relativamente superiori, senza che si possa distinguere
nettamente l’attrazione esercitata dal lavoro regolare rispetto a quella pure esercitata dal
lavoro sommerso, anzi, con la grande domanda di lavoro regolare convive e concorre
un’apprezzabile richiesta di lavoro irregolare, sicché sarebbe un errore ritenere che solo
la domanda di lavoro regolare alimenti tanto gli ingressi dall’estero quanto la mobilità
interna al territorio nazionale, poiché a ben guardare anche il mercato del lavoro sommerso non manca di contribuire all’attrazione del lavoratori immigrati verso il Veneto.
La recente regolarizzazione, rispettivamente disciplinata per colf e badanti dall’art. 33
della legge 30 luglio 2002 n. 189 e per i lavoratori degli altri settori dal decreto-legge 9
settembre 2002 n. 195, convertito nella legge 9 ottobre 2002 n. 222, ci ha offerto un’ottima occasione per toccare con mano il fenomeno del lavoro sommerso degli immigrati
in tutte le sue sfaccettature. Infatti, poiché la recente regolarizzazione si caratterizza per
l’avere affidato, per la prima volta, alla sola volontà del datore di lavoro il potere di attivare la procedura di “emersione”, ci ha fornito e continuerà a fornirci importanti elementi di conoscenza e di valutazione, non solo in relazione ai rapporti di lavoro per i quali è
stata attivata la procedura, ma anche per quanto riguarda la casistica dei datori di lavoro che hanno rifiutato di attivare la regolarizzazione; inoltre, considerati i tempi prevedibilmente lunghi di definizione delle pratiche, ci permetterà un’utile osservazione sulle
sorti dei relativi rapporti di lavoro.
Va precisato che esula dalla presente analisi la rilevazione e la valutazione di dati statistici o comunque di dati quantitativi basati su rilevazione scientifica (gli stessi dati inerenti la regolarizzazione, peraltro, potranno essere realmente disaggregati e “letti” solo
fra molto tempo), essendo invece suo scopo precipuo, al di là dei dati, la descrizione ba-
4.
Peraltro, con l’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002 n. 189 (c.d. “Legge Bossi-Fini”), è stato abrogato l’istituto della liquidazione dei contributi versati in Italia in caso di rientro definitivo nel paese
d’origine, già previsto dal testo originario dell’art. 22, comma 11, del D.leg.vo 25 luglio 1998 n. 286.
Tale forma di “previdenza alternativa” aveva in effetti suscitato un crescente interesse verso la regolarità contributiva, poiché assicurava un consistente beneficio. Verosimilmente, l’intervenuta abrogazione
non mancherà di diminuire l’interesse degli immigrati verso la regolare contribuzione, essendo difficile,
dal diverso punto di vista culturale di molti di essi, percepire l’utilità di qualcosa che dovrebbe verificarsi al compimento del 65° anno d’età, secondo quanto previsto dal testo riformato dell’art. 22, al
comma 13.
327
sata sull’esperienza pratica delle tipologie di lavoro irregolare degli immigrati, dei settori
di attività in cui si inseriscono tali rapporti e degli atteggiamenti che in tale contesto caratterizzano i soggetti interessati, senza fare a meno di tener conto dell’importante interazione che le norme vigenti5 e la prassi amministrativa esercitano sul fenomeno.
Infine, si ritiene che un’analisi complessiva, avente lo scopo di far comprendere le dinamiche del fenomeno, non possa fare a meno di considerare il lavoro irregolare in tutte le
sue forme ed espressioni, quindi di considerare anche il c.d. “lavoro grigio”, vale a dire il
lavoro solo formalmente o parzialmente regolare, a prescindere dalla titolarità o meno di
un valido permesso di soggiorno.
9.2
La condizione soggettiva del lavoratore immigrato: categorie
9.2.1
Il lavoro nero dei “regolari”
Lo stereotipo del lavoro nero degli immigrati è rappresentato dal c.d. ”clandestino”,6 ma
non va tuttavia dimenticato che il fenomeno interessa considerevolmente anche gli immigrati in possesso di un permesso di soggiorno idoneo allo svolgimento di regolare attività lavorativa. A riprova di ciò basti considerare, anche a prescindere dai dati amministrativi ufficiali sulla disoccupazione degli immigrati “regolari”,7 che per nulla rari risultano gli immigrati che al momento del rinnovo del permesso di soggiorno non dimostrano alla questura un’occupazione regolare in atto e, magari, non risultano svolgere
5.
Nel seguito ogni citazione di norme del Testo Unico delle leggi sull’immigrazione di cui al D.Leg.vo 25
luglio 1998 n. 286 (per brevità T.U.) dovrà essere intesa, salvo diverse specificazioni, con riferimento al
testo vigente come modificato a seguito dell’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002 n. 189.
6.
Questo termine, invero, è criminalizzante, perché induce ad associare la condizione irregolare di soggiorno al presunto svolgimento di attività criminali. Di fatto esso viene correntemente utilizzato in
quanto ormai sinonimo di cittadino extracomunitario entrato nel territorio in violazione delle norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, o comunque privo di un permesso di soggiorno in corso di validità o il cui permesso di soggiorno risulti scaduto da oltre sessanta giorni senza che sia dimostrata la
pendenza della procedura di rinnovo su sua richiesta, secondo la definizione fornita ai fini dell’espulsione dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs.286/98.
7.
Essi, infatti, si sono dimostrati scarsamente attendibili, dal momento che sinora le statistiche del sistema di collocamento pubblico (quando disponibili) non sono riuscite negli ultimi anni a tener conto dell’altissima mobilità degli immigrati sul territorio, sicché è stato verificato che continuavano ad essere
annoverati tra gli iscritti alle liste del collocamento soggetti che avevano da tempo instaurato rapporti di
lavoro in province o circoscrizioni diverse, o che già da tempo avevano lasciato il territorio nazionale, o
che avevano nel frattempo perduto il permesso di soggiorno, senza più avere alcuna possibilità di lavorare in regola.
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da molto tempo un’attività lavorativa. Dunque, a meno di non presumere che tutti si
procurino da vivere con attività criminali, il che sembrerebbe quantomeno eccessivo, bisogna pur accettare che buona parte di essi abbia svolto o stia ancora svolgendo lavoro
nero. Del resto, le stesse risultanze degli accertamenti ispettivi da parte degli organi di
vigilanza, anche prescindendo dall’effettiva rappresentatività o meno dei dati che ne derivano, confermano che anche gli immigrati regolari lavorano in nero.
Ad un osservatore esterno può sembrare inverosimile che gli immigrati accettino, nonostante il possesso di un regolare soggiorno, di lavorare comunque in nero ed affrontare
quindi il rischio di perdere il permesso di soggiorno (d’ora in avanti, per brevità, denominato “p.s.”), sia a causa del diniego di rinnovo per mancata dimostrazione del reddito
maturato nel trascorso periodo di soggiorno,8 sia in conseguenza del superamento del
termine massimo di disoccupazione, ora ridotto da un anno a sei mesi.9 Si è già accennato in premessa come sia molto scarso il valore in sé che gli immigrati attribuiscono al
lavoro regolare; a ciò si aggiunga la conoscenza a dir poco approssimativa delle norme in
materia di soggiorno, congiunta a quella sorta di fatalismo, più o meno diffuso fra tutte
le comunità di immigrati (poco interessa allo scopo della presente analisi l’atteggiamento
dell’extracomunitario svizzero o statunitense…), che induce a pensare che non vi saranno problemi al momento del rinnovo e che, se vi saranno, potranno risolversi al momento opportuno “in qualche modo”.10 Inoltre, concorre ad ingenerare tale erronea
8.
In linea teorica, poiché dal punto di vista del lavoratore il reddito da lavoro nero è perfettamente lecito,
dovrebbe ammettersi che la dimostrazione concreta dell’esistenza del rapporto di lavoro possa evitare il
diniego di rinnovo del p.s., tuttavia, la possibilità di valutare tali circostanze ai fini del rinnovo viene di
fatto generalmente esclusa dalle Questure, salvo casi eccezionali, comunque sottoposti ad una valutazione ampiamente discrezionale. Inoltre, è comunque raro che il lavoratore si determini a formulare
una formale denuncia del proprio rapporto di lavoro nero, perché è l’unica sicurezza che ha e la denuncia comporterebbe ovviamente la perdita del posto di lavoro.
9.
L’art. 22, comma 11, prevede che “la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del
permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di
lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di un permesso di soggiorno per lavoro
stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi”.
10. La disciplina del T.U. in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno è stata modificata
sensibilmente dalla legge 9 settembre 2002 n. 189, e la sua interpretazione non risulta ancora univoca,
anche perché non è stato ancora approvato il nuovo regolamento di attuazione del T.U., che è previsto
dovrà sostituire il tuttora vigente regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394. Non
è ancora chiaro, infatti come verranno applicate in sede di rinnovo del p.s. le norme che regolano il
nuovo istituto del “contratto di soggiorno”. L’art. 22, comma 6, prevede il suo perfezionamento entro
otto giorni dall’ingresso (sul presupposto di un visto rilasciato dalla rappresentanza consolare a seguito
dell’autorizzazione preventiva rilasciata in base ai commi da 1 a 5 dello stesso articolo), presso lo sportello unico che ha rilasciato il nulla osta. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro viene poi rilasciato quale provvedimento consequenziale dalla competente Questura in base a quanto disposto dal
comma 3-bis dell’art. 5, a seguito della stipula del contratto di soggiorno per lavoro di cui all’art. 5-bis,
con durata corrispondente a quella prevista dal contratto di soggiorno ovvero, in caso di contratto a
tempo indeterminato, non superiore a due anni.
329
convinzione la prassi disomogenea delle Questure: infatti, nel mentre si assiste, nel
Nord in generale ma forse con frequenza ed accenti più spiccati nel Veneto, ad una prassi per cui sempre più sistematicamente viene rifiutato il rinnovo del p.s. nei confronti di
chi non dimostra una pregressa attività lavorativa regolare, nel Sud si registra una
Ora, se è pur vero che nell’immagine “mediatica” della nuova legge era stata propagandata la volontà di
assicurare strettissima corrispondenza tra permesso di soggiorno e contratto di soggiorno, l’iter descritto non sembra tuttavia suscettibile di essere replicato dopo il primo permesso di soggiorno, in occasione dei successivi rinnovi. Per l’appunto, l’art. 5 prevede che il rinnovo del permesso di soggiorno è
richiesto direttamente al Questore, ma non prevede che ciò avvenga previa stipula di un nuovo contratto di soggiorno, e ciò sia in riferimento ai contratti a tempo determinato e sia a quelli a tempo indeterminato, senza peraltro distinguere l’ipotesi in cui il contratto a tempo indeterminato si sia nel frattempo risolto ovvero sia ancora in atto. Inoltre, sempre nei diretti confronti della Questura, e con il più
ampio potere, è prevista l’attribuzione del compito di verifica delle condizioni previste per il rilascio e
delle diverse condizioni previste dal presente testo unico, il che sembra confermare l’incompatibilità della
procedura di rinnovo del permesso di soggiorno rispetto all’ipotesi di un eventuale ruolo decisivo dello
sportello unico, essendo evidente che, se questo dovesse realmente occuparsi in sede di rinnovo della
previa verifica delle condizioni di cui all’art. 5-bis, allora non avrebbe senso demandare le stesse verifiche anche alla Questura.
Ad ulteriore conferma, si osserva che l’art. 22, comma 11, nel prevedere la possibilità di reperire una
nuova occupazione nel periodo di residua validità del permesso di soggiorno (o comunque per un periodo non inferiore a sei mesi), non fa il ben che minimo accenno alla previa stipula del contratto di
soggiorno, il che induce a concludere che il contratto di soggiorno dovrebbe rappresentare un adempimento previsto soltanto con riguardo al primo permesso di soggiorno per lavoro.
Peraltro, non si può fare a meno di considerare che l’eventuale interpretazione che ritenesse di imporre
sine die , quale condizione per il rinnovo del permesso di soggiorno (salvo, comunque, l’eventuale conseguimento della carta di soggiorno di cui all’art. 9), la periodica formalizzazione del contratto di soggiorno e la correlativa puntuale verifica delle condizioni previste dall’art. 5-bis, specie con riguardo
all’idoneità dell’alloggio, non mancherebbe di mantenere costantemente il lavoratore immigrato in una
condizione discriminante rispetto al lavoratore italiano, essendo evidente che le problematiche alloggiative non potrebbero non riflettersi direttamente sulla possibilità legale di instaurare un valido rapporto
di lavoro. Ma in tal caso potrebbe ritenersi violato il fondamentale principio di piena parità di trattamento e di uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, così come sancito dall’art. 10 della Convenzione n. 143 del 1975 dell’O.I.L. e riconfermato dall’art. 2 del testo unico. Tale generale principio di
parità di trattamento e di opportunità trova poi ulteriore specificazione e tutela in base al disposto di
cui all’art. 8 della Convenzione, che vieta agli stati membri di far derivare automaticamente dalla perdita del lavoro la revoca del permesso di soggiorno. Se questo divieto vale per la perdita del posto di lavoro, non si vede come non potrebbe valere, forse a maggior ragione, per la perdita dell’alloggio.
Se, dunque, si volesse ritenere - sul presupposto erroneo dell’applicabilità ad ogni rinnovo del “rito” del
contratto di soggiorno - che la perdita dell’alloggio (come pure la mancata prestazione della “garanzia”
richiesta al datore di lavoro, o comunque il possesso di un alloggio non conforme ai parametri fissati
per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica) comporti l’impossibilità di stipulare un contratto, rectius
di rinnovare il permesso di soggiorno, non si potrebbe fare a meno di ravvisare una violazione della
Convenzione citata; per questa via, infatti, si andrebbe ad imporre una restrizione ben più grave di
quella vietata, non essendo difficile immaginare che un immigrato possa più facilmente trovarsi nella
situazione di avere un’offerta di lavoro o un rapporto di lavoro in atto, senza disporre invece di un alloggio dall’idoneità certificata. Per inciso, l’effettivo rispetto della Convenzione citata - che, si ricorda, è
da ritenersi fonte di rango superiore alla legge ordinaria a mente di quanto sancito dall’art. 10,
2°comma, della Costituzione - andrà poi verificato anche in relazione alla concreta fruibilità del periodo
assegnato per la ricerca di una nuova occupazione, secondo i termini ora dimezzati previsti dal comma
11 dell’art. 22. È nota, infatti, la prassi per cui molte Questure (in specie, quelle più “affollate” da immigrati) impiegano mesi per procedere al rinnovo del permesso di soggiorno, dopodiché si scopre che la
data indicata per la decorrenza iniziale della durata del permesso non è quella corrispondente
all’effettivo rilascio bensì quella risalente al momento della presentazione della domanda; laddove è facilmente intuibile che “nelle more” del procedimento di rinnovo, quando non vi è comunque certezza di
esito favorevole, ben difficilmente potrà essere reperita un’occupazione regolare, ancorché il comma 12
dello stesso articolo riconosca ora la possibilità di proseguire il rapporto di lavoro e, sembra, di costituirlo ex novo.
330
maggiore tolleranza al riguardo, verosimilmente basata sul dato di comune esperienza
per cui le opportunità di lavoro regolare sono meno frequenti anche per gli autoctoni.
In ogni caso, è poi pressoché scontato che, a seguito del mancato rinnovo del p.s.,
l’immigrato cerchi di protrarre l’occupazione regolare in atto, magari fingendo col datore
di lavoro che la pratica sia ancora in corso (tenuto conto che a tutt’oggi non vige alcun
automatismo nel senso di comunicare al datore di lavoro il provvedimento di diniego,
così inducendo la risoluzione obbligatoria del rapporto); a maggior ragione, ovviamente,
cercherà di proseguire anche il lavoro nero, sempre se e fino a quando non sarà sottoposto all’effettiva espulsione.
9.2.2
Il lavoro nero “nelle more” del rinnovo del permesso di soggiorno
La fase del rinnovo del permesso di soggiorno, come si è già accennato, è una fase cruciale poiché il rischio di diniego del rinnovo non sussiste solo a causa della mancata dimostrazione delle pregresse fonti di sostentamento ma ancor più di sovente (e sempre di
più) a causa della mancata dimostrazione della disponibilità di un alloggio, oppure a
causa della ritenuta inidoneità dell’alloggio concretamente disponibile.11 Al riguardo, va
sottolineato che la maggior parte degli immigrati che condividono un alloggio non risulta
titolare di un contratto di locazione, in quanto (tralasciando gli affitti in nero, non certo
11. La garanzia sulla disponibilità di un alloggio da parte del datore di lavoro in sede di richiesta di
autorizzazione all’assunzione dall’estero era già prevista, prima della riforma del T.U., dall’art. 30,
comma 2 lett. e) del regolamento di attuazione di cui al D.Leg.vo 31 agosto 1999 n. 394; a seguito della
riforma il T.U. prevede all’art. 22, comma 2 lett. b), che sia prodotta “idonea documentazione relativa
alle modalità di sistemazione alloggiativi per il lavoratore”, mentre l’art. 5 bis prevede al comma 1 lett. a)
che al momento della stipula del contratto di soggiorno debba essere formalizzata una “garanzia da
parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”. In ogni caso, anche tralasciando
la diversa formulazione delle due norme citate, va sottolineato che si tratta in sostanza di una garanzia
più apparente che sostanziale, poiché resta comunque indiscutibile che, se anche l’alloggio fosse procurato dal datore di lavoro, esso non deve essere pagato dal datore in aggiunta al normale costo del lavoro, vale a dire la retribuzione contrattuale, i contributi assicurativi previdenziali e le ritenute fiscali;
se così fosse, infatti, avremmo un trattamento discriminatorio, ma questa volta nei confronti dei lavoratori italiani; non si può sottacere, tuttavia, che la imposta “idoneità” dell’alloggio non mancherebbe di
tradursi in condizioni peggiorative e di fatto, quindi, discriminatorie, per i lavoratori immigrati, dal
momento che essi dovrebbero accollarsi il ben maggiore costo di un alloggio idoneo nei termini anzidetti
(quando è notorio che la maggior parte dei cittadini che vivono negli alloggi di edilizia residenziale pubblica hanno ricevuto in assegnazione un’unità abitativa che non rispetta i relativi parametri con riferimento alla effettiva entità del nucleo familiare). Ad ogni buon conto, va ricordato che solo nel settore del
lavoro domestico (non fa differenza se si tratta di normali colf o di “badanti”) l'alloggio ed anche il vitto
sono da ritenersi dovuti in aggiunta alla retribuzione quando si tratta di lavoratori "conviventi", ma ciò
è dovuto ad una specifica previsione del contratto collettivo nazionale per il lavoro domestico, un'eccezione che conferma la regola.
331
rari) i proprietari preferiscono intestare il contratto ad un solo soggetto ancorché siano
consapevoli di locare un immobile destinato ad alloggiare più persone, onde evitare plurime successioni di persone diverse nel contratto. Recentemente, e sempre più di frequente - ma senza alcuna sistematicità ed in assenza di disposizioni di legge e persino
di qualsivoglia circolare al riguardo - viene richiesto dalle Questure del Veneto anche il
consenso scritto all’ospitalità da parte del proprietario dell’immobile, che, per le ragioni
anzidette, viene ben raramente prestato. Altre circostanze, ritenute, a torto o a ragione,
rilevanti ai fini del rinnovo, concorrono a complicarne la procedura: Fra le più ricorrenti,
per es.: la scadenza del passaporto ed il rinvio della definizione all’esito del rinnovo (che
comporta tempi di attesa molto lunghi presso i competenti consolati dei paesi d’origine);
la necessità di verificare gli esiti di un procedimento penale o di verificare le omonimie
con soggetti espulsi o sottoposti a procedimento penale.
Ma anche volendo tralasciare i frequenti “incidenti di percorso” della procedura di rinnovo, va considerato che in generale le Questure del Veneto (complice il particolare “affollamento” di stranieri nella regione e la mancanza di adeguate risorse da parte degli
uffici) impiegano normalmente alcuni mesi per il normale rinnovo, che trascorrono tra
l’attesa del primo “appuntamento” per l’inoltro della domanda, che va prenotato (magari
presso uffici esterni organizzati dagli enti locali o da associazioni in convenzione con la
locale Questura), ed il successivo accesso per il ritiro.
Peraltro, avviene normalmente che la data di decorrenza iniziale del p.s. rinnovato non
corrisponda con quella (di gran lunga successiva) di effettivo rilascio, bensì con la data
di rilascio della ricevuta attestante l’inoltro della domanda di rinnovo, con la conseguenza che dal punto di vista burocratico il p.s. risulta disponibile per la ricerca di un’occupazione quando ancora non è rinnovato, sicché il tempo di attesa del rinnovo, di fatto,
consuma buona parte del periodo massimo di (spesso solo formale) disoccupazione consentito dalla legge. A seguito della modifica del testo originario dell’art. 22 del D. Lgvo 25
luglio 1998 n. 286, detto periodo è stato ridotto da un anno a sei mesi, sicché vi è il
concreto rischio, nel caso si tratti di lavoratore disoccupato, che il tempo effettivamente
disponibile per la ricerca di un nuovo impiego regolare divenga prossimo a zero.
La fase del rinnovo del p.s., specie in considerazione dei tempi di attesa, ha comportato
in passato seri disagi per le stesse aziende, condizionando la lecita prosecuzione del rapporto di lavoro in corso, essendo prevista la sanzione penale di cui all’art. 22, comma
10, del T.U. nella sua versione originaria, nei confronti dei datori di lavoro che avessero
mantenuto in atto il rapporto nei confronti di stranieri col p.s. scaduto. Non risultano
affatto isolati i casi di imprese che hanno risolto il rapporto di lavoro in coincidenza con
332
la scadenza del p.s., potendo legalmente addurre un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, come pure si sono verificati casi di imprese che hanno solo formalmente licenziato il lavoratore (per evitare accertamenti incrociati della posizione di soggiorno e di
quella contributiva) ed hanno proseguito in nero il rapporto per tutto il tempo necessario.
Ora, il testo vigente dell’art. 22, al comma 12, consente la prosecuzione del rapporto
nelle more della procedura di rinnovo, dunque, il problema dei tempi di attesa deve ritenersi ormai superato per chi prosegue il rapporto di lavoro sorto anteriormente alla scadenza del p.s., ma resta tuttavia per coloro che perdono il posto di lavoro in coincidenza
con la scadenza del p.s., e si tratta di situazioni molto frequenti, se si considera che con
i lavoratori immigrati viene ampiamente utilizzato (talvolta anche oltre i limiti stabiliti) il
contratto di lavoro a tempo determinato, con scadenza normalmente coincidente con
quella del p.s.. In linea teorica, nemmeno in questi casi vi dovrebbero essere difficoltà
nella costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, dal momento che la nuova formulazione dell’art. 22 citato consente l’assunzione anche a fronte della mera dimostrazione
dell’avvio della procedura di rinnovo del p.s. (mediante esibizione della ricevuta della
Questura attestante l’inoltro della domanda e la pendenza del relativo procedimento),
tuttavia sussiste una comprensibile diffidenza da parte delle aziende (che normalmente
preferiscono rispondere all’immigrato che si propone per l’assunzione “ritorna quando
avrai il permesso pronto”), in quanto si è già detto che l’inoltro della domanda non assicura affatto che poi il p.s. venga effettivamente rilasciato, sicché le imprese si troverebbero a rischiare un inserimento in azienda poco proficuo, nella misura in cui non dovesse rivelarsi di effettiva stabilità. Va inoltre considerato che i datori di lavoro non
hanno modo di controllare se, quando e con quale esito viene definita la procedura di
rinnovo del p.s., col rischio di commettere senza potersene accorgere il reato di cui
all’art. 22, comma 12, del T.U..
Dunque, pure in mancanza di informazioni quantitative di riscontro, risulta facilmente
intuibile come la fase del rinnovo del p.s., a fronte delle suddette circostanze, possa indurre o costringere le parti interessate, pure contro la loro volontà, allo svolgimento di
rapporti (o nella migliore delle ipotesi di periodi) di lavoro irregolari.
333
9.2.3
I lavoratori autorizzati al soggiorno ma non al lavoro, ovvero il lavoro nero
inevitabile
È poco conosciuto il fenomeno delle svariate “categorie” di stranieri formalmente autorizzati (e persino, in taluni casi che vedremo, sostanzialmente costretti) al soggiorno in
Italia ma privi della possibilità di lavorare regolarmente, in quanto il titolo di soggiorno
non abilita allo svolgimento di tale attività. Per l’appunto (ai sensi del combinato disposto degli artt. 18, comma 4, 6, comma 1, e 22, comma 12, del D.Lgs. 286/98), può svolgere regolare attività di lavoro subordinato il titolare di p.s. per lavoro subordinato, per
lavoro autonomo, per motivi famigliari, per motivi di protezione sociale, asilo politico,
mentre per i titolari di p.s. per motivi di studio è consentita l’attività lavorativa solo in
regime di part-time, orizzontale o verticale di entità non superiore alla media di 20 ore
settimanali su base annua, ovvero 1.040 ore (v. art. 14, comma 4, del Regolamento di
attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394).
Certo, è senz’altro comprensibile, ad esempio, che il possesso del p.s. per turismo o per
la partecipazione ad una competizione sportiva o ad una manifestazione religiosa, non
consenta lo svolgimento di attività lavorativa,12 tuttavia vi sono altre tipologie di p.s., peraltro diffuse, che associano al riconoscimento del diritto e/o della necessità di soggiornare in Italia in modo relativamente durevole l’interdizione dallo svolgimento di qualsivoglia regolare attività economica, sia di lavoro subordinato che autonomo. È necessario
distinguere.
Per l’appunto, la situazione del possessore di p.s. per turismo che lavora irregolarmente
può essere assimilata, in buona sostanza, alla condizione del tipico clandestino (anzi,
una larga parte dei clandestini ha posseduto prima o poi, per lo più nella fase iniziale
del soggiorno in Italia, e comunque per un periodo che non può di norma superare i tre
mesi, un p.s. per turismo): infatti, l’interessato utilizza o tenta di utilizzare l’ingresso ufficialmente turistico per lavorare irregolarmente,13 quindi fa consapevolmente un uso
improprio del p.s. in suo possesso, tecnicamente ne abusa.
12. Le tipologie di visto di ingresso e dei correlativi permessi di soggiorno sono invero molto numerose specie se si considerano quelle non disciplinate da alcuna norma di legge ma da mere circolari ministeriali - e la loro descrizione completa richiederebbe una specifica trattazione, sicché ci si limita ad avvertire che le tipologie considerate in questa sede sono solo quelle maggiormente rilevanti, anche dal
punto di vista quantitativo, ai fini della presente analisi.
13. La soppressione dell’obbligatorietà del visto di ingresso per turismo nei confronti dei cittadini provenienti da alcuni paesi dell’Est europeo (recentissima l’abolizione per i cittadini rumeni e bulgari, oltre
che ungheresi, polacchi, cechi, slovacchi, croati, sloveni, bosniaci) non ha ovviamente mancato di incrementare l’immigrazione da questi Paesi sotto forma di ingresso per turismo.
334
Vale la pena, invece, prendere in considerazione altre situazioni in cui il titolo di soggiorno corrisponde esattamente alla effettiva condizione dell’interessato.
Durante tutto il tempo di attesa della definizione del procedimento per il riconoscimento
dello status di rifugiato - mediamente oltre un anno dall’inoltro dell’istanza - il richiedente non può lavorare in regola, pur disponendo di un valido p.s., mentre l’assistenza
pubblica (sul presupposto teorico che la procedura si debba esaurire entro tale termine
più ristretto) è limitata solo ai primi 45 giorni. Nessuno si preoccupa, di fatto, di sapere
come possano trarre il proprio sostentamento le migliaia di persone che si trovano in
tale condizione: esse sono di fatto “tollerate” sul territorio durante la procedura ed è ovvio che debbano svolgere lavoro nero.14
Condizioni analoghe si sono verificate in occasione di provvedimenti governativi di natura eccezionale che hanno provvisoriamente consentito l’autorizzazione al soggiorno
per “motivi umanitari” (in base alla generale previsione di cui all’art. 20 del T.U.) nei
confronti
di
stranieri
“sfollati”
da
zone
di
guerra.
Spesso,
infatti,
complice
l’intempestività ed incompletezza delle circolari ministeriali, che non hanno immediatamente dato l’indicazione di rilasciare il p.s. con la dicitura “valido anche per lavoro”, tali
categorie hanno dovuto attraversare periodi in cui, pur avendo già il diritto riconosciuto
a soggiornare in Italia e non disponendo di altri mezzi di sussistenza, sono state costrette al lavoro nero.
Un’altra situazione di vero e proprio “limbo” è quella dei titolari di p.s. per “motivi di giustizia”, tipologia che comprende situazioni alquanto diversificate: si rilascia infatti tale
titolo di soggiorno a chi ha impugnato al T.A.R. il diniego di rinnovo del p.s. per tutta la
(lunghissima) durata del procedimento; a chi è sottoposto a procedimento penale fino
alla sentenza definitiva di assoluzione o di condanna, compresi i casi in cui lo straniero
è obbligato a soggiornare nel territorio e viene disposta nei suoi confronti una misura di
restrizione della libertà personale, quale l’obbligo di firma o di non allontanamento dal
comune di dimora. In questi casi non si può lavorare in regola.
Diverso è il caso delle persone già condannate e sottoposte ad espiazione della pena con
le c.d. “misure alternative”, in quanto si ritiene in via interpretativa che l’attività lavorativa costituisca elemento essenziale della funzione rieducativa della pena, sicché non
potrebbe ammettersi il reato di cui all’art. 22, comma 12, del T.U. nel caso di assun-
14. Nella precedente legislatura il Governo aveva presentato un disegno di legge in materia di riforma organica delle diverse forme di asilo (lo status di rifugiato di cui alla Conv. di Ginevra del 1951, il diritto di
asilo garantito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, la protezione temporanea o “asilo umanitario”),
che era già stato approvato al Senato; esso prevedeva espressamente il diritto di svolgere attività lavorativa durante tutto il periodo di pendenza della procedura per la concessione dell’asilo.
335
zione comunque attuata nelle forme di legge, a prescindere dal possesso o meno del p.s.;
ciò non di meno, stante la mancanza di chiare disposizioni generalmente conoscibili, si
verificano comunque situazioni di impiego irregolare, dovute anche a scarsa conoscenza
del regime applicabile anche da parte degli stessi uffici a vario titolo interessati.15
Altrettanto ambigua risulta la condizione dei “minori non accompagnati”, che devono
essere obbligatoriamente autorizzati al soggiorno in base all’art. 19 del T.U. e che vengono affidati a strutture di servizio sociale con modalità alterne e talvolta incerte, tant’è
che non di rado, in specie i più prossimi al compimento della maggiore età, risultano
soggiornare legalmente sul territorio ma in condizioni, di fatto, del tutto svincolate da
reali interventi di tutela, lavorando in nero. Per l’appunto, la norma citata non contempla la possibilità di lavorare in regola nemmeno per chi possiede i requisiti legali, potendo dimostrare di avere ottenuto (nel proprio Paese) l’ammissione alla seconda classe
della scuola secondaria superiore.
9.2.4
Il lavoro nero dei “clandestini”
Veniamo ora al tipico lavoro nero dei c.d. “clandestini”, che, ovviamente, è sottratto a
qualsiasi regolamentazione e garanzia e si svolge, come vedremo, in ambiti e con modalità ampiamente diversificati. Comuni denominatori di tali situazioni sono il costante rischio di espulsione, ora immediatamente eseguibile in base alla nuova formulazione
dell’art. 13 del T.U., e l’enorme difficoltà nel reperimento di pur inadeguate soluzioni alloggiative, che comunque comporta l’applicazione delle più alte tariffe del mercato e talvolta l’intermediazione a caro prezzo di connazionali e/o datori di lavoro, realizzando
forme di sfruttamento anche fuori dal lavoro.
Va poi considerata la relativa vulnerabilità nell’esercizio dei diritti connessi al rapporto
di lavoro, dal momento che qualsiasi rapporto con le istituzioni competenti espone
l’interessato al rischio di segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza.
15. In passato la prassi consentiva a tali soggetti di ottenere un p.s. per motivi di giustizia, mentre ora,
sulla base di una recente circolare del Ministero dell’Interno, si ritiene (benché sia poco noto ai soggetti
a vario titolo interessati) che non debba essere rilasciato alcun p.s. e che il titolo autorizzativo del soggiorno sia costituito direttamente dal provvedimento della magistratura di sorveglianza, che ammette il
condannato alla “misura alternativa” ed implica la possibilità di lavorare alle condizioni consentite dal
medesimo provvedimento.
336
È giusto ricordare che nel nostro ordinamento del lavoro e delle assicurazioni sociali (ma
anche sotto il profilo fiscale) il lavoro nero non costituisce mai un illecito da parte del lavoratore, poiché tutte le conseguenze sanzionatorie sono poste a carico del datore di lavoro.
L’immigrato irregolare deve essere espulso in quanto svolge un’attività illecita, ma non
perché ed in quanto lavora, bensì perché è entrato o comunque soggiorna illegalmente
in Italia. Però la sanzione per il suo comportamento - poco importa dal punto di vista legale se e quanto esso sia necessitato dal bisogno - non può e non deve essere la lesione
dei suoi più elementari diritti di lavoratore; essi infatti sono garantiti in via generale da
norme inderogabili, aventi un carattere imperativo improntato al principio di territorialità.16 Anzi, la stessa applicazione delle sanzioni previste per le forme di lavoro irregolare
ha la funzione precipua di tutelare i lavoratori. Se si tiene conto di ciò, l’immigrato irregolare non può essere visto solo come un nemico da combattere ma almeno al tempo
stesso deve essere anche considerato come una vittima, che pure ha diritto di trovare
nella legge una tutela, quantomeno in relazione alla sua pur instabile posizione di lavoratore. Non va trascurato, d’altra parte, che proprio tale tutela è al tempo stesso il principale strumento di sanzione nei confronti dei datori di lavoro che ricorrono a scopo di
lucro all’impiego di immigrati irregolari.
Al riguardo, va da un lato sottolineato come risulti poco diffusa e persino poco nota
l’applicazione dell’art. 2126 del codice civile, che assicura, in ogni caso di rapporto di lavoro svolto in violazione di norme imperative, il diritto al recupero delle retribuzioni (oltre che delle contribuzioni) maturate, quindi di instaurare la classica vertenza di lavoro.
È altrettanto pacifico, ma spesso altrettanto ignorato dai diretti interessati, il diritto di
far accertare dagli organi competenti gli infortuni sul lavoro e le relative responsabilità,
ed il correlativo diritto di conseguire la rendita Inail ed il risarcimento degli ulteriori
danni (il danno morale e, nel caso di conseguenze valutabili al di sotto del minimo indennizzabile, il danno biologico), nonostante la condizione irregolare di soggiorno.17
Peraltro, è possibile conferire ampio mandato ad un legale per consentire l’intera tratta-
16. Il principio di territorialità delle norme in materia di lavoro e delle assicurazioni sociali è riconosciuto
da unanime dottrina e dalla stessa giurisprudenza ed è un logico corollario del carattere imperativo delle stesse, talché a qualsiasi rapporto di lavoro, per il sol fatto che si svolge nel territorio nazionale, deve
necessariamente applicarsi tale normativa a prescindere dalla cittadinanza dell’una o dell’altra parte
costituenti il rapporto di lavoro.
17. Nel mentre è indiscutibile che l’Inps abbia il diritto/dovere di recuperare i contributi anche in relazione
all’accertamento di rapporti di lavoro irregolari instaurati con lavoratori privi del permesso di soggiorno,
non risulta mai sperimentato il riconoscimento della contribuzione maturata (anche in applicazione del
principio di “automaticità delle prestazioni previdenziali”) dai c.d. “clandestini” ai fini della liquidazione
in caso di rimpatrio, prevista dall’originaria formulazione dell’art. 22, comma 11. La soppressione di
tale istituto con l’entrata in vigore delle modifiche apportate all’art. 22 dalla l.189/02 rende ormai superflua e comunque improponibile la pur interessante questione interpretativa.
337
zione della vertenza, sia nella fase stragiudiziale che giudiziale, senza che l’interessato
(che teoricamente potrebbe anche essere rientrato in patria nel frattempo) si esponga
con la sua personale presenza al rischio di essere “intercettato” da un provvedimento di
espulsione.
D’altro canto, l’esercizio di tali diritti fondamentali presuppone anzitutto che essi siano
ben conosciuti e resi concretamente praticabili. Diversamente l’ignoranza e la paura
sono destinate a prevalere anche laddove vi sia la pur vaga percezione della possibilità
di ottenere una qualche tutela, specie se si ha fondato motivo di temere che il tentativo
di realizzare tale scopo possa prima ancora provocare l’individuazione e l’assoggettamento all’espulsione. Questo, infatti, è il principale elemento di forza di coloro che sfruttano gli immigrati irregolari, che generalmente rimangono agli occhi degli sfruttati gli
unici possibili interlocutori.
Dal punto di vista dell’immigrato irregolare, i competenti uffici istituzionali non possono
risultare quali riferimenti idonei per la denuncia delle condizioni di sfruttamento ed il
correlativo esercizio dei diritti negati, perché in generale egli teme nel rivolgersi a qualsiasi ufficio pubblico. In effetti, pur verificandosi dei margini di tolleranza rimessi ai singoli operatori, la prassi degli uffici ispettivi delle direzioni provinciali del lavoro e degli
enti di previdenza è ormai sempre più uniformata nel senso di denunciare la violazione
delle norme in materia di soggiorno ogni qualvolta essa venga constatata, a prescindere
dal fatto che ciò avvenga a seguito di accertamenti disposti d’ufficio oppure in base a
specifica denuncia formalmente e spontaneamente resa dalla vittima.18 In taluni casi, risulta siano state impartite specifiche disposizioni agli ispettori, con riferimento ai casi di
presentazione di denuncia di situazioni illecite, poste in essere dai datori di lavoro, da
parte di immigrati irregolari, che prescrivono di avvertire preventivamente gli immigrati
che la loro denuncia verrà recepita solo dopo averli segnalati alla competente autorità di
pubblica sicurezza (che teoricamente potrebbe intervenire immediatamente o comunque
più facilmente reperire l’interessato in base alle informazioni assunte in sede ispettiva).
Paradossalmente, dunque, proprio le situazioni di più grave sfruttamento, peraltro normalmente connesse a condizioni di lavoro non solo pesanti ma insicure, sono quelle per
le quali la spontanea denuncia viene sostanzialmente scoraggiata. In pratica, la repressione di comportamenti anche penalmente rilevanti viene ad essere di fatto ostacolata
18. Pochi mesi fa, la Direzione provinciale del lavoro di Firenze aveva addirittura inizialmente ritenuto di dichiarare improcedibile un tentativo obbligatorio di conciliazione, promosso da un immigrato irregolare
(che poi si è regolarmente svolto) sull’erroneo presupposto che la condizione illegale di soggiorno non ne
consentisse l’esperibilità.
338
perché ad essa viene anteposta la repressione di meri illeciti amministrativi. Per
l’appunto, la condizione irregolare di soggiorno a tutt’oggi non costituisce reato, sicché
non vi è un obbligo legale di denuncia all’autorità giudiziaria; d’altronde, nessuna delle
vigenti disposizioni in materia prevede un simile obbligo, quindi si può altresì sostenere
che la segnalazione non costituirebbe un atto dovuto bensì una mera facoltà. Se dunque
l’esercizio di tale facoltà può ben spiegarsi con l’esigenza di favorire e coordinare i diversi
adempimenti istituzionali volti ad assicurare il rispetto della legge, non si può tuttavia
trascurare di considerare che la funzione repressiva19 non viene così concretamente
favorita, semmai il contrario.
D’altra parte, anche nell’ipotesi in cui si volesse proporre la previsione normativa di un
espresso divieto di denuncia da parte degli organi ispettivi, in analogia a quello previsto
dall’art. 35 del T.U. in capo al personale sanitario e sulla base di altrettanto serie esigenze di “salute pubblica”, proprio per favorire la tutela del lavoro attraverso la repressione dei comportamenti (più gravi e penalmente rilevanti) dei datori di lavoro, non si
mancherebbe di creare una palese contraddizione, come se la mano destra non dovesse
sapere ciò che fa la sinistra. Infatti, non avrebbe senso, ad esempio, ammettere che, a
seconda che in un cantiere intervenga la Polizia di Stato oppure l’Inps, i lavoratori immigrati siano o meno sottoposti agli accertamenti di rito ed ai provvedimenti consequenziali alla loro irregolare posizione di soggiorno.
Piuttosto, dal momento che sembra destinata ad aumentare almeno di pari passo con
l’incremento delle presenze la casistica degli immigrati vittime di pesanti condizioni di
sfruttamento, condizioni che traggono la loro forza e remuneratività proprio dalla sostanziale impossibilità che venga chiesta tutela effettiva, varrebbe la pena prendere in
considerazione la possibilità di assicurare quantomeno l’emersione dal sommerso (vale a
dire la concessione di un p.s. per lavoro che consenta le regolare assunzione presso altro datore di lavoro) a chi, denunciando, fornisce un valido contributo alla repressione
degli illeciti particolarmente gravi. Non si tratterebbe di una capitolazione dello Stato,
bensì di un rafforzamento dell’efficacia e dell’effettività delle norme sanzionatorie, per
mezzo della applicazione - magari in via interpretativa - di un istituto in tutto simile al
permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale di cui all’art. 18 del T.U., che ha
dimostrato a giudizio unanime di produrre validissimi risultati in poco tempo.20
19. In questo senso, si veda anche la previsione di costituzione presso l’Inps dell’”“Archivio anagrafico dei
lavoratori extracomunitari” e di “socializzazione” dei dati, in base all’art. 22, comma 9, del T.U. vigente.
20. Tale norma, non a caso, non ha subito alcuna modifica in sede di emanazione della L.189/02; infatti,
non solo in sede politica ma almeno altrettanto negli ambienti della polizia giudiziaria e della magistratura, la sperimentazione dell’art. 18 è stata considerata estremamente positiva nella lotta alla tratta
339
Per l’appunto, sebbene ad un esame superficiale detta norma potrebbe sembrare facilmente applicabile anche alle situazioni di grave sfruttamento sul lavoro, nella pratica
essa si è rivelata inadatta, non applicabile, perché effettivamente concepita avendo presente il fenomeno della tratta e dello sfruttamento della prostituzione, non certo le ben
diverse dinamiche del lavoro nero, quand’anche particolarmente sofisticate ed espressione di notevole capacità criminale. Ciò è stato infatti constatato nella pratica giudiziaria, che al riguardo ha avuto pur rarefatte ma significative esperienze “pilota” proprio nel
Veneto, su iniziativa delle organizzazioni sindacali. Infatti, quale condizione per assicurare il permesso di soggiorno (sia pure, beninteso, nell’ambito di una valutazione discrezionale caso per caso e senza alcun automatismo), l’art. 18 citato richiede l’esistenza di
un procedimento riferito ai delitti di cui all’art. 3 della legge 20.02.58 n. 75 (c.d. “Legge
Merlin”) o di cui all’art. 380 del codice di procedura penale,21 oppure di un programma di
interventi sociali degli enti locali. Tanto l’uno che l’altro dovrebbero essere connessi ad accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento dalle quali emergano concreti pericoli
per l’incolumità delle vittime, e tali pericoli a loro volta dovrebbero essere ricollegabili al
tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di una vera e propria associazione a delinquere
oppure al contributo fornito alle indagini (sempre che esso sia ritenuto rilevante).
Ora, per quanto grave, organizzato e sofisticato che sia, è quantomeno improbabile (e
ancor più difficile da dimostrare) che lo sfruttamento dei lavoratori venga attuato mediante sistematico ricorso alla violenza fisica da parte di vere e proprie organizzazioni
criminali, al punto da giustificare un fondato timore per l’incolumità individuale della
vittima.22 Ed infatti, in quei pochi casi di procedimenti penali attivati su denuncia delle
vittime, l’Autorità Giudiziaria non ha potuto forzare la lettera della norma e quindi,
scartata l’applicabilità dell’art. 18, ha nelle migliori ipotesi disposto, comunque su apposita istanza di parte, il rilascio di un p.s. temporaneo per “motivi di giustizia valido anche per lo svolgimento di attività lavorativa”. Tale soluzione è stata il frutto di
un’interpretazione (forse l’ipotesi più corretta di applicazione della tipologia di soggiorno
“per motivi di giustizia”, se non altro perché disposto su provvedimento dell’autorità
ed allo sfruttamento della prostituzione, tant’è che nello stesso d.d.l. recentemente presentato in materia
di repressione dello sfruttamento è stata specificata la non punibilità delle vittime che collaborano.
21. Nell’elencazione delle ipotesi di reato di cui all’art. 380 c.p.p. non vi è alcun reato connesso allo sfruttamento del lavoro e/o al favoreggiamento dell’immigrazione o della permanenza irregolare sul territorio.
22. Non sono tuttavia del tutto sconosciute, anche nel Veneto, quelle forme di trattamento assimilabili alla
riduzione in schiavitù e gli episodi di vero e proprio sequestro di persona. Di fatto, questi comportamenti risultano verificarsi pressoché esclusivamente nell’ambito di rapporti di lavoro fra connazionali
ma non per questo risultano meno pericolosi, anzi, proprio il forte vincolo di omertà ed il condizionamento derivante dalla possibilità di ritorsioni nei confronti dei familiari in patria rendono oltremodo
difficile la collaborazione delle stesse vittime e l’accertamento dei fatti.
340
giudiziaria) che trova il suo riferimento normativo nell’art. 5, commi 5 e 6, del T.U. (il cui
testo è rimasto inalterato a seguito della L.189/02): il comma 5 prevede in generale che
il p.s. debba esser rifiutato quando mancano i requisiti per l’ingresso e il soggiorno,
sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non
si tratti di irregolarità amministrative sanabili, mentre il comma 6 prevede più specificamente la facoltà di concedere il p.s. per seri motivi, in particolare di carattere umanitario
o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.23
In ogni caso, si è trattato di casi sporadici, che non possono comunque costituire
un’esperienza facilmente riproducibile e che, semmai, mostrano i limiti del nostro ordinamento. D’altra parte, in mancanza di specifiche previsioni normative, non si può
nemmeno immaginare la sperimentazione di strumenti di tutela e di coordinamento tra
le diverse istituzioni interessate (prefetture, questure, direzioni provinciali del lavoro,
Inps, Inail) per apprestare forme di lotta allo sfruttamento che si basino anche sulla
collaborazione e la tutela delle vittime.
Certo è che se da un lato l’immigrato attualmente non vede e ben difficilmente potrebbe
trovare nelle istituzioni un aiuto, pur offrendo peraltro efficaci strumenti di repressione
degli illeciti e permettendo di fare “terra bruciata” intorno alle più bieche forme di
sfruttamento, d’altro canto nemmeno gli ambienti sindacali e dell’associazionismo laico
e religioso riescono a fornire un contributo effettivo nel contrasto di tali fenomeni, dal
momento che essi stessi (salvo casi eccezionali) non possono prospettare agli interessati
delle soluzioni particolarmente apprezzabili. Al c.d. “clandestino” che si presenta ad uno
sportello sindacale o di un’associazione, che sta lavorando in nero in condizioni precarie
23. Se si eccettuano quei pochissimi casi di p.s. rilasciato su indicazione della magistratura, da parte delle
Questure la possibilità di rilascio, in via discrezionale, di un p.s. per “motivi umanitari” (sulla base del
citato art. 5 comma 6) risulta praticamente ignorata. Peraltro, la previgente formulazione dell’art. 17
consentiva all’A.G. di concedere il nulla osta all’ingresso, quindi al soggiorno, nei confronti dell’imputato in procedimento penale affinché esercitasse il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito,
sicché si è ritenuto che anche la parte offesa dal reato (con particolare riguardo, oltre che all’art. 22
comma 12, al reato di favoreggiamento della permanenza irregolare a scopo di sfruttamento o dell’ingresso irregolare di cui all’art. 12, commi 1 e 5), ovvero la vittima dello sfruttamento, avesse a maggior
ragione una legittimazione a soggiornare quantomeno temporaneamente sul territorio nazionale. Ora,
la nuova formulazione dell’art. 17 (come modificata dalla L.189/02) prevede espressamente l’estensione
di tale diritto alla parte offesa, pur disponendo la limitazione del periodo di soggiorno al tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza. Lo scrivente ha avuto diretta esperienza di quanto
sia difficile rendere concretamente praticabili tali principi in un caso di immigrato irregolare, vittima di
grave infortunio sul lavoro, il quale, dimesso dall’ospedale aveva fatto spontaneo rientro nel proprio
Paese d’origine. Infatti, quando si è trattato di sottoporre il lavoratore a visita medico legale presso
l’Inail, nonostante la formale convocazione, la competente rappresentanza consolare di Sarajevo non ha
accettato di autorizzare espressamente il visto di ingresso per lo svolgimento di tale incombenza, ancorché per il tempo strettamente necessario al suo espletamento, ed ha invece preteso che l’interessato si
qualificasse quale “turista” sulla base della formale garanzia di sostentamento e alloggio da parte del
suo legale!
341
e che lamenta una paga bassissima o addirittura incerta, si può prospettare la possibilità di cercarsi un datore di lavoro “serio”, che sia interessato all’assunzione regolare e
quindi esperisca la macchinosa procedura di assunzione dall’estero in base alla nota disciplina dei “flussi migratori”, il che comporta, nella migliore delle ipotesi, mesi di attesa
all’estero senza reddito e il serio rischio di non riuscire comunque a rientrare in Italia.
Ed è ben difficile che l’interessato rinunci alla misera ma sicuramente tangibile condizione attuale per inseguire una vaga speranza.
La denuncia dei datori di lavoro può teoricamente essere prospettata quando il rapporto
di lavoro è cessato, a chi lamenta di essere stato licenziato senza essere pagato; può essere infatti attivata la vertenza per il recupero delle spettanze maturate in base all’art.
2126 c.c., ma confidando che il datore di lavoro sia solvibile e che definisca la vertenza
con una transazione in sede sindacale, poiché l’esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione presso la competente commissione della Direzione provinciale del lavoro
può comportare la denuncia d’ufficio; ciò non manca di scoraggiare spesso l’iniziativa
del lavoratore, comprensibilmente preoccupato sia perché si espone al rischio di identificazione ed espulsione e sia per le sorti dei suoi connazionali che, nelle sue stesse condizioni, sono ancora occupati presso la stessa azienda.
D’altra parte, bisogna anche dire che, pur essendo la realtà del Veneto ricca (e ben più
di altre regioni) di iniziative di assistenza e tutela nei confronti degli immigrati da parte
delle organizzazioni sindacali e del volontariato, non vi è ancora una diffusa e generale
assimilazione né delle conoscenze e delle implicazioni della normativa in materia, né dei
valori portanti l’attività di tutela e assistenza. Ad esempio, può accadere che l’immigrato
trovi all’interno delle organizzazioni sindacali dei riferimenti qualificati e affidabili, appositi uffici specificamente organizzati per affrontare i suoi problemi, ma può anche accadere che persino in aziende sindacalizzate il suo bisogno di tutela sia ignorato o trascurato, come pure che si senta rispondere presso qualche sportello che “non è possibile per
un clandestino attivare una vertenza nei confronti del suo datore di lavoro”. È quantomeno curioso che risposte evasive del genere, per nulla sporadiche, si siano registrate
con maggiore frequenza proprio nelle province del Veneto in cui si registrano tra i più
elevati tassi di presenza di immigrati, regolari e non, ovvero Vicenza e Treviso.
342
9.2.5
Il lavoro “quasi regolare” dei “clandestini”
Merita di essere considerato un fenomeno diffuso nell’impiego degli immigrati irregolari,
ovvero il loro impiego “quasi regolare”. Si tratta di un espediente attuato sempre più diffusamente tra le imprese, anche tra quelle di maggiore entità, che indica comunque una
certa serietà del datore di lavoro, o quantomeno la volontà di non sfruttare i lavoratori.
Il fabbisogno di manodopera immigrata non riguarda infatti solo le aziende artigianali e
di piccole dimensioni ma anche le aziende che potrebbero essere definite medio-grandi
rispetto alle caratteristiche produttive del Nord-Est. Normalmente, in aziende del genere
la gestione dei rapporti di lavoro assume caratteristiche di maggiore organizzazione e regolarità, e ciò non solo per la maggiore trasparenza che contrassegna la dimensione e
l’organizzazione più tipicamente industriale, ma anche per una serie di circostanze
obiettive che esulano da implicazioni etiche. Per dirla in parole povere, per un’azienda
che deve fatturare tutti i suoi incassi non è affatto semplice - ed è comunque rischioso
anche sotto il profilo penale e fiscale - pagare in nero. D’altra parte, in tale contesto è
pure più facile l’individuazione dei lavoratori irregolari e lo stesso accertamento delle
violazioni e delle relative evasioni, senza contare che le imprese di un certa entità, contrariamente a quanto accade più spesso per le piccole imprese, specie in certi settori (v.
infra), sono normalmente costrette ad essere solvibili, poiché di fronte ad accertamenti
ed addebiti di rilevante entità non potrebbero comunque permettersi di chiudere i battenti e fallire senza pagare, perché il patrimonio investito è comunque di valore superiore al complesso delle sanzioni e dei contributi evasi.
Tali circostanze fanno sì che generalmente le imprese di una certa entità, o comunque le
imprese serie, preferiscano non assumere lavoratori in nero, né stranieri né italiani;
tuttavia, la gravissima carenza di manodopera assumibile regolarmente in certi settori che sostanzialmente sono gli stessi che tentano di ”attingere”, senza riuscirvi in modo
adeguato, al meccanismo della c.d. “programmazione dei flussi migratori” - costringe le
imprese a ricorrere all’impiego di manodopera priva di un regolare p.s., magari nella
speranza di poter successivamente regolarizzare il rapporto (quote e procedure dei
“flussi” permettendo, oppure con una “sanatoria”), oppure ad appaltare lavorazioni ad
altra impresa che si assuma il relativo rischio.
Per l’appunto, allo scopo di ridurre i rischi al minimo e di garantire condizioni decorose
di lavoro, non sono isolati i casi di imprese che hanno applicato l’espediente di mettere
“più in regola possibile” i lavoratori immigrati, nonostante la mancanza di un permesso
di soggiorno, avendo constatato che molti degli adempimenti imposti dalle norme vigenti
343
possono essere comunque perfezionati, di fatto, anche in assenza di un idoneo permesso di soggiorno in capo ai lavoratori interessati: il lavoratore può essere inserito a libro paga, presenze, matricola, può ricevere la busta paga con applicazione del normale
salario contrattuale; nei suoi confronti possono essere effettuate le prescritte denunce e
pagati i contributi Inps e Inail, dal momento che le formalità previste non sono impedite
- non solo di fatto ma nemmeno legalmente - dalla carenza di un permesso di soggiorno.
In particolare, per quanto attiene alle denunce e ai versamenti in materia contributiva,
gli istituti previdenziali recepiscono, per così dire, “automaticamente” le denunce ed i
versamenti: sino a questo momento, pur essendo prevista la costituzione di un’anagrafe
centralizzata avente lo scopo di consentire controlli incrociati, non risulta che vengano
effettuate sistematiche verifiche, anche perché non è richiesta l’allegazione o comunque
l’indicazione nella modulistica degli estremi del permesso di soggiorno di ciascun lavoratore. L’unico elemento richiesto è l’indicazione del codice fiscale (per il rilascio del relativo tesserino, ormai, quasi tutti ma non tutti gli uffici territorialmente competenti richiedono l’esibizione del permesso di soggiorno); tuttavia, esso può comunque essere ricavato - e quindi indicato nella modulistica - utilizzando i noti programmi in uso presso
notai e commercialisti, che assicurano l’esatta determinazione del codice stesso senza la
necessità di richiedere l’apposito tesserino.
È evidente che l’adempimento delle obbligazioni in materia previdenziale garantisce
maggiore sicurezza per l’azienda rispetto al rischio di infortuni e di conseguenti rivalse,
come pure un’adeguata tutela nell’ambito del rapporto di lavoro, e va a ridurre drasticamente l’entità delle sanzioni applicabili. Al riguardo, giova ricordare che una circolare
del Ministero del Lavoro ha recentemente escluso la possibilità di contestare la violazione dell’obbligo di comunicare l’avviamento al lavoro alla sezione circoscrizionale per
l’impiego (con relativa sanzione amministrativa da £. 500.000 a £. 3.000.000 per ogni
lavoratore irregolarmente assunto, ovvero, in misura ridotta, pari a £. 1.000.000, ex art.
9 bis L.608/96), qualora si tratti di lavoratori privi del p.s.. Pertanto, se si escludono gli
adempimenti che possono essere effettuati senza comportare incongruenze e conseguenti verifiche, il datore di lavoro rischia in caso di accertamento ispettivo la verifica e
l’applicazione di una serie notevolmente ridotta di violazioni amministrative,24 mentre ri-
24. Che risultano le seguenti:
A)
Per assunzione di lavoratore non provvisto di libretto di lavoro, ovvero per effettuazione sul libretto di
registrazioni inesatte o incomplete, ovvero per mancata riconsegna al lavoratore cessato: sanzione amministrativa da £.50.000 a £.300.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.100.000 (art. 8 Dlgs 758/94);
se la violazione riguarda più di 5 lavoratori la sanzione va da £.300.000 a £.2.000.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.600.000.
344
mane l’esposizione al rischio di un processo penale per il reato di occupazione di lavoratore privo di p.s. idoneo al lavoro, salvo l’assoggettamento dei lavoratori alla sanzione
amministrativa dell’espulsione di cui all’art. 13 del T.U..
Al riguardo, si ricorda che la previgente sanzione di cui all’art. 22, comma 10, prevedeva
una sanzione pecuniaria da £. 2.000.000 a £. 6.000.000 o l’arresto da tre mesi ad un
anno, ma con la possibilità di estinguere il reato mediante la procedura di “oblazione” in
via amministrativa (in buona sostanza, col pagamento a titolo di sanzione amministrativa di £. 3.000.000); ora, a seguito della modifica del T.U., la nuova formulazione del
reato di cui all’art. 22, comma 12, prevede una sanzione pecuniaria di 5000 euro per
ogni lavoratore occupato e la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno, senza più consentire la depenalizzazione del reato.
Nonostante il suddetto appesantimento della sanzione, vi è tuttavia motivo di ritenere
che l’espediente di mettere “quasi in regola” gli immigrati privi di idoneo p.s. possa continuare ad essere ritenuto appetibile, o comunque una soluzione preferibile rispetto
all’assunzione totalmente in nero.
9.2.6
Il lavoro apparentemente regolare dei “clandestini”
Un fenomeno almeno altrettanto diffuso, che vede normalmente estranei ed ignari i datori di lavoro, è quello dell’utilizzo di p.s. falsi o contraffatti, oppure di p.s. autentici da
parte di persone diverse dall’effettivo titolare.
È noto che il mercato dei p.s. falsi ha in questi anni avuto una progressiva crescita e
diffusione sul territorio nazionale, ancorché si tratti di un espediente che, normalmente,
non assicura affatto un’esistenza normale agli utilizzatori. Bisogna comunque distinguere l’origine del p.s.: talvolta, infatti, si sono registrati episodi di vera e propria corruzione di operatori di polizia che rilasciavano p.s. in tutto autentici a persone non aventi
il diritto, ma si ha motivo di ritenere che tali comportamenti abbiano sempre meno pro-
B)
Per assunzione di lavoratore non provvisto di libretto di lavoro, ovvero per effettuazione sul libretto di
registrazioni inesatte o incomplete, ovvero per mancata riconsegna al lavoratore cessato: sanzione amministrativa da £.50.000 a £.300.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.100.000 (art. 8 Dlges 758/94);
se la violazione riguarda più di 5 lavoratori la sanzione va da £.300.000 a £.2.000.000, ovvero, in misura ridotta, pari a £.600.000.
C)
Per omessa denuncia entro 48 ore all’autorità locale di pubblica sicurezza dell’assunzione (come pure
dell’ospitalità a qualsiasi titolo) dello straniero: sanzione amministrativa da euro 160 a 1.100, ovvero, in
misura ridotta, pari a euro 320 (art. 7 Dlgs 25.7.98 n. 286 come modificato dalla L.189/02); di fatto,
tale sanzione viene applicata molto raramente da parte dell’Autorità di P.S..
345
babilità di verificarsi, specie a fronte di una prassi di controllo sempre più rigorosa. Risulta invece di gran lunga superiore la produzione dei veri e propri falsi, ma si deve considerare che essi, anche se abilmente preparati, non possono comunque essere inseriti
nella banca dati del Ministero dell’Interno (anche perché l’inserimento di ogni singolo
dato relativo al p.s. richiede l’utilizzo da parte di un numero già ristretto di operatori di
una password individuale, che permetterebbe agevolmente di identificare l’autore
dell’illecito), sicché un attento controllo mediante consultazione del terminale permette
un’immediata verifica. Comunque, sono già in circolazione dei falsi di ultima generazione, dei veri e propri “cloni” (riproduzioni esatte di p.s. realmente esistenti, divergenti
dall’originale solo per la diversa fotografia), che più facilmente potrebbero resistere anche ai controlli più minuziosi e che, manco a dirlo, si vendono ad un prezzo più alto (i
prezzi “correnti”, prima della recente regolarizzazione, andavano dai 1.500 fino ai 5.000
euro, essi hanno subito una netta flessione durante il termine per la presentazione delle
domande, ma sono già ora evidenti i segnali di un nuovo rialzo).
D’altra parte, è assai frequente che anche nei p.s. falsi vengano indicate le effettive generalità dell’utilizzatore, e ciò per il semplice motivo che, così facendo, egli può utilizzare
il proprio passaporto, senza dover ricorrere all’ulteriore violazione (e relativa spesa) di
procurarsi un passaporto falso.
Meno frequente ma non rara risulta la contraffazione di p.s. autentici, normalmente
praticata mediante sostituzione della fotografia (anche sul passaporto); essa trova
spesso l’occasione per essere attuata nel rimpatrio definitivo di un immigrato25, che
vende o cede i propri documenti ad un irregolare (per lo più un connazionale).
Risale invece già agli albori dell’immigrazione in Italia l’esperienza dell’utilizzo dei medesimi documenti, senza alcuna contraffazione, da parte di più persone, reso possibile
dalla somiglianza, o meglio, dai tratti somatici comuni alle diverse etnie che facilitano la
confusione. L’espediente di inviare il passaporto e il p.s. a mezzo posta nel Paese
d’origine per far arrivare un connazionale è fin troppo noto e, per l’appunto, funziona
sempre meno grazie a controlli sempre più scrupolosi.
In realtà, tutti gli espedienti citati non vengono praticamente più utilizzati per ingannare
i controlli di polizia - e quand’anche avvenga risultano normalmente inefficaci - bensì
proprio per lavorare in regola e trovare più facilmente un alloggio, così da instaurare
25. Persino la morte può forse costituire l’occasione per il riciclaggio dei documenti: ad es., è diffusissima
(anche presso le Questure) la convinzione secondo cui sarebbero pochissimi i cittadini cinesi ufficialmente deceduti in territorio italiano, la qual cosa, a meno di non supporre un’eccezionale costituzione
fisica di tale etnia, fa pensare al riciclaggio dei documenti dei defunti.
346
una situazione pseudo normale e sicuramente di minore sfruttamento (se si eccettua,
ovviamente, quello posto in essere dai vari intermediari dei documenti).
L’esperienza della recente regolarizzazione ha permesso di confermare quanto era stato
verificato anche nelle precedenti, ovvero una apprezzabile (e crescente) presenza nelle
aziende di lavoratori assunti regolarmente in base a documenti falsi o contraffatti o
“prestati”.26 Si tratta anche di imprese di apprezzabili dimensioni o di agenzie di lavoro
interinale, o comunque di imprese che mantengono esclusivamente rapporti di lavoro
regolari. Se da un lato questo dato di esperienza conferma l’intento di usare il p.s. falso
per lavorare in condizioni regolari, dall’altro conferma anche la difficoltà per il datore di
lavoro di verificare l’autenticità dei documenti anche usando l’ordinaria diligenza: non è
infatti pensabile una verifica caso per caso presso la competente Questura, specie se si
considera che ciò non potrebbe comunque essere fatto per telefono (anche per ovvie esigenze di tutela della privacy) e che sono noti i tempi di attesa per accedere agli sportelli
delle Questure; d’altro canto il datore di lavoro non può comunque trattenere l’originale
del p.s., che lo straniero è obbligato a portare sempre con sé, potendo soltanto acquisirne
la fotocopia, in base alla quale risulta ancor più difficile la verifica.27
In generale, le imprese hanno dimostrato (come pure si è verificato nelle precedenti regolarizzazioni) una certa comprensione per i lavoratori che hanno confessato la loro effettiva condizione irregolare, salvo qualche caso di aziende che, invece, hanno disposto il
licenziamento immediato per non incrinare, inoltrando la domanda di regolarizzazione,
la propria immagine di aziende scrupolosamente osservanti. Ma l’emersione di questi lavoratori con la recente regolarizzazione è risultata molto più difficile che nelle precedenti, dal momento che il decreto-legge 9 settembre 2002 n. 195, così come convertito,
con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002 n. 222, ha previsto all’art. 8 una serie di
circostanze ostative alla procedura di emersione. In particolare, l’esclusione è stata prevista non solo per le persone condannate ma anche per quelle semplicemente denunciate per uno o più dei delitti indicati agli artt. 380 e 381 del codice di procedura pe-
26. Si sono verificati anche casi non isolati di persone che, sfruttando la vicinanza etnica e munendosi alla
partenza di documenti di una diversa nazionalità (facilmente acquistabili anche nella forma, per così
dire, “autentica”) hanno utilizzato la possibilità di ottenere il p.s. per motivi umanitari, spacciandosi per
kosovari anziché albanesi, o per liberiani anziché ghanesi, oppure per somali anziché etiopici.
27. In un caso, verificato in occasione della recente regolarizzazione, sono risultati presenti ben 27 lavoratori muniti di p.s. falso su un organico di 80 dipendenti, pur trattandosi di un’azienda che, pur occupando quasi esclusivamente immigrati, intrattiene esclusivamente rapporti regolari ed ha addirittura lo
scrupolo - forte di precedenti esperienze - di controllare minuziosamente la corrispondenza dei dati
somatici e dei documenti di identità.
347
nale28: fra questi vi é il reato di ricettazione (art. 648 c.p.), che si compie evidentemente
acquistando un p.s. falso, come pure la contraffazione o falsificazione del p.s.,29 mentre
la mera sostituzione di persona (art. 494 c.p.), come pure le false dichiarazioni
sull’identità a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.) consentirebbero la regolarizzazione. Tuttavia, anche le denunce o le condanne per delitti non colposi di qualsiasi entità, anche
lievissima30(sempre che il procedimento penale non si sia nel frattempo concluso con un
provvedimento che abbia dichiarato che il fatto non sussiste o non costituisce reato o
che l’interessato non lo ha commesso), escludono la regolarizzazione, quando nei confronti della stessa persona risulti sia stato in precedenza emanato un provvedimento di
espulsione; si tratta di una concomitanza di circostanze assai frequente, basti pensare
che, in occasione dei normali controlli, l’immigrato irregolare subisce contestualmente
quantomeno la notifica di un provvedimento di espulsione e molto spesso anche la denuncia per rifiuto di esibizione del passaporto (reato previsto dall’art. 6, comma 3, del
T.U.), se non anche per altre ipotesi di reato di pur lieve entità, magari connesse con la
vendita ambulante di articoli contraffatti.31
28. Le tipologie di reato distintamente indicate negli artt. 380 e 381 del c.p.p. si riferiscono rispettivamente
ai casi in cui è obbligatorio ovvero facoltativo l’arresto in flagranza di reato; detta elencazione è stata poi
utilizzata nella normativa in materia di immigrazione ai fini della valutazione della “buona condotta”
dello straniero.
29. Fino all’entrata in vigore della legge 189/02, tale condotta era riconducibile al reato di falsità materiale
in autorizzazione amministrativa commessa da privato, di cui al combinato disposto degli artt.482 e
477 c.p., reato che non è compreso nelle ipotesi previste dagli artt.380 e 381 c.p.p.; tuttavia, la modifica dell’art. 5 del T.U., ed in specie la nuova previsione di cui al comma 8 bis dello specifico reato di
contraffazione del visto di ingresso o del permesso di soggiorno o del contratto di soggiorno o della carta
di soggiorno, prevede una pena molto più grave, che per la sua entità rientra ora nelle tipologie di reato
indicate, a seconda dei casi, agli artt.380 e 381 c.p.p.. Si può dunque ritenere che la denuncia di tali
violazioni sia ostativa all’applicazione della procedura di emersione.
30. Per fare un esempio, anche reati perseguibili solo su querela di parte, come le percosse senza lesioni
(art. 581 c.p.) o l’occupazione di edificio o terreno privato (art. 633 c.p.).
31. L’interpretazione giurisprudenziale al riguardo risulta assai diversificata: infatti, nei confronti dei venditori di articoli contraffatti, si configura il reato di commercio di prodotti con segni falsi di cui all’art. 474
c.p., ma per la stessa condotta vi è chi ritiene possa concorrere anche l’ipotesi di reato della ricettazione
di cui all’art. 648 c.p., in quanto la merce acquistata per essere rivenduta proviene da un delitto; tuttavia recenti pronunce affermano l’insussistenza del reato di commercio di prodotti con segni falsi
quando la vendita avviene (come accade normalmente) in circostanze tali da far comprendere chiaramente all’acquirente che il prodotto non è originale, sicché il bene giuridico tutelato della fede pubblica
non subirebbe alcuna lesione, non potendosi presumere alcun inganno per l’acquirente.
348
9.3
Il lavoro “grigio”
Il lavoro degli immigrati si presta almeno quanto quello dei nazionali, se non di più, ad
essere utilizzato con varie modalità riconducibili alla definizione del c.d. “lavoro grigio”,
per mezzo di rapporti formalmente o apparentemente regolari, che in tutto o in parte
nascondono l’elusione delle norme in materia di lavoro e di assicurazioni sociali.
Del resto, tali forme di elusione, che hanno quale comune denominatore una regolare
posizione di soggiorno, sono tanto note quanto diffuse, sicché verranno qui di seguito
elencate e descritte solo in estrema sintesi.
9.3.1
Rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
Tale forma contrattuale (c.d. “co.co.co”) viene largamente impiegata o, per meglio dire,
abusata, in relazione a prestazioni lavorative che non implicano di fatto alcuna effettiva
autonomia e che anzi, comportano la normale e costante soggezione del lavoratore al
potere gerarchico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tipica del lavoro subordinato. Con l’entrata in vigore della legge 3 aprile 2001 n. 142, che ha drasticamente
riformato il regime del rapporto di lavoro tra i soci e le cooperative di produzione e lavoro, la formalizzazione di co.co.co. ha avuto un apprezzabile incremento quantitativo,
risultando applicata a scopo evidentemente elusivo anche nell’impiego presso cooperative di facchinaggio e di pulizie, che si avvalgono sempre più (se non addirittura in prevalenza) di manodopera immigrata; in questi settori il lavoro è normalmente organizzato
in squadre sottoposte alla direzione di preposti e con turnazioni necessariamente rigide,
circostanze queste che escludono palesemente la legittima applicazione di tale forma
contrattuale.
9.3.2
Imprese artigiane individuali
La costituzione di un’impresa artigiana individuale dissimula talvolta un rapporto sostanziale di lavoro subordinato, laddove l’artigiano svolge in realtà la propria attività (e
la relativa fatturazione) esclusivamente per un unico appaltante ed è sottoposto alla co-
349
stante direzione dello stesso. Di fatto, si verifica che una squadra di operai, agli ordini di
un’unica persona presso lo stesso cantiere, si presenti formalmente come una coincidente presenza di singoli artigiani che dovrebbero svolgere ciascuno un lavoro distinto,
nel mentre colui che dà gli ordini, magari giustifica la propria presenza in cantiere quale
direttore dei lavori o suo consulente o “supervisore”. Non sembrano isolati i casi di immigrati regolari, soprattutto nel settore edile e dell’impiantistica, che accettano di buon
grado tale impostazione, trovando più congeniale la possibilità di lavorare sostanzialmente in regime di cottimo puro (ad es.: un tanto al metro quadro) e ritenendo - a torto
o a ragione - di poter così massimizzare il reddito nell’immediato, salvo poi incorrere nelle contestazioni di difetti o nella insolvenza dei committenti.
9.3.3
Part-time, straordinario non pagato e buste paga decurtate
Il lavoro part-time risulta diffuso tra gli immigrati, sia nello specifico settore del lavoro
domestico (in cui è praticamente impossibile verificare se, fra le mura di una privata
abitazione, una persona sta lavorando o sta trascorrendo il tempo libero) che negli altri
settori. Spesso, si tratta di un compromesso tra l’imposizione del datore di lavoro di
condizioni non completamente regolari, per risparmiare sui contributi, ed il bisogno del
lavoratore di documentare un reddito ufficiale per poter rinnovare il p.s..
Pur non essendo sconosciuto agli immigrati il fenomeno del c.d. “fuori busta”, non tanto
per erogare dei superminimi quanto per pagare lo straordinario, è più frequente il mancato pagamento dello straordinario, che in qualche caso viene giustificato dai datori di
lavoro in termini pseudo morali, adducendo la cattiva qualità della prestazione lavorativa e la necessità di recuperare fuori orario l’asserito scarso rendimento. Con analoghe
motivazioni, o più semplicemente spiegando che “non è possibile pagare di più e che se
interessa il posto di lavoro bisogna accettarne le condizioni”, viene talvolta lamentato da
parte di lavoratori regolarmente assunti che il datore di lavoro pretende di far sottoscrivere per ricevuta la busta paga e l’importo ivi indicato nonostante l’importo effettivamente corrisposto sia sensibilmente inferiore.
350
9.3.4
I lavoratori “distaccati”
Appare più frequente negli ultimi anni l’impiego in Italia di lavoratori dipendenti da imprese straniere, temporaneamente distaccati per l’esecuzione in Italia di contratti
d’appalto stipulati con persone fisiche o giuridiche: tipico è il montaggio di strutture, o
l’esecuzione di lavorazioni edilizie o meccaniche in regime di appalto o di subappalto. Si
tratta di una forma di ingresso disciplinata al di fuori del meccanismo delle “quote”
dall’art. 27, comma 1 lett. i), del T.U., che ammette tale forma di impiego pur sempre a
condizione che sia assicurato il rispetto dei precetti stabiliti dall’art. 1655 del codice civile e dalla legge del 23 ottobre 1960 n. 1369. In altre parole, il distacco è lecito a condizione che: a) si tratti di un vero e lecito contratto di appalto, laddove realmente
un’impresa assuma l’obbligo di realizzare un’opera determinata o un servizio a proprio
rischio e con autonoma organizzazione di mezzi, uomini, risorse e capitali, a fronte di un
corrispettivo preventivamente pattuito;32 b) sia garantito un trattamento economico globale non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali per le corrispondenti
qualifiche e mansioni, o comunque un trattamento non inferiore a quello previsto per i
lavoratori dipendenti dall’impresa appaltante.
Il procedimento per l’ingresso dall’estero di questi lavoratori è demandato alle Direzioni
provinciali del lavoro e prevede che sia l’impresa italiana appaltante a richiedere la relativa autorizzazione, allegando il contratto di appalto e, naturalmente, dichiarando che
l’impresa estera opera in piena autonomia ed a proprio rischio, con autonoma organizzazione di mezzi, di uomini, di capitali e di strumenti. Trattandosi di un’autorizzazione
che viene rilasciata sulla base di semplici documenti, è necessario poi verificare se
quanto dichiarato dalle imprese è reale o se, invece, si tratta di una forma di intermediazione vietata di manodopera,33 ma la stessa efficacia delle verifiche ispettive “in corso
d’opera” dipende spesso dall’adeguatezza e dal controllo della documentazione inizialmente richiesta, poiché è facilmente intuibile l’estrema difficoltà di verifiche “in corso
d’opera”, a fronte di un’autorizzazione rilasciata, ad esempio, per l’esecuzione di lavora-
32. In realtà, come viene sempre più spesso puntualizzato dalla giurisprudenza, non è indispensabile che
l’impresa appaltatrice abbia il completo controllo di tutte le risorse che concorrono alla realizzazione del
risultato, potendosi ammettere, ad es., anche l’utilizzo di impianti fissi e/o strutture proprie dell’appaltante, a condizione che sussista comunque un effettivo rischio di impresa nell’economia del rapporto e
che i lavoratori siano comunque a carico e sotto l’effettiva direzione dell’appaltatore.
33. La circolare del Ministero del Lavoro n. 78/2001 precisa che, proprio per verificare l’effettività di quanto
rappresentato in sede di richiesta di autorizzazione, si deve procedere a seguito dell’inizio dell’attività
all’accertamento ispettivo “in corso d’opera”.
351
zioni edili presso “cantieri vari” (di non facile individuazione) o per l’esecuzione di non
meglio specificate “lavorazioni accessorie e/o di finitura”.
Talvolta, infatti, questa tipologia di autorizzazione all’ingresso in Italia di lavoratori stranieri viene utilizzata unicamente per ottenere manodopera a basso costo in condizioni di
minorata tutela e/o per poterla utilizzare eludendo il regime dei flussi migratori e il sistema delle quote. Fra l’altro, la procedura di autorizzazione non prevede che sia verificata all’estero, per il tramite della competente rappresentanza consolare, l’effettiva consistenza e affidabilità dell’impresa formale datrice di lavoro, la qual cosa permetterebbe
di impedire ad imprese esistenti solo sulla carta, magari controllate dalla stessa impresa
committente italiana, di interporsi fittiziamente nei rapporti di lavoro.34
È importante notare che nei confronti dei lavoratori interessati - normalmente ignari sia
dell’effettivo utilizzo che verrà fatto della loro prestazione e sia del tipo di procedura applicata nei loro confronti - viene rilasciata un’autorizzazione ad entrare e soggiornare in
Italia che è inscindibilmente collegata con l’esecuzione dell’appalto per conto
dell’impresa estera (vera o fittizia datrice di lavoro), il che fa sì che essi non siano liberi
di dare le dimissioni e cambiare lavoro. Infatti, se il lavoratore non presta più la sua attività nell’ambito dell’appalto, automaticamente perde il permesso di soggiorno e non ha
nessuna possibilità in Italia di convertirlo o comunque di soggiornare legalmente per
motivi diversi. Questo induce gli interessati a non avanzare rivendicazioni nei confronti
del datore di lavoro (tanto di quello vero che di quello apparente), perché solo mantenendo salve le apparenze può essere garantita loro la possibilità di lavorare in Italia. Altro aspetto non trascurabile è l’estrema difficoltà di controllare la retribuzione effettivamente corrisposta, dal momento che normalmente essa figura versata in patria (salva
l’erogazione del c.d. “poket money”), oltre al risparmio notevole per quanto riguarda il
costo dei contributi, nei casi in cui siano applicabili convenzioni in materia di sicurezza
sociale che consentono di mantenere la meno onerosa posizione contributiva nel Paese
di origine.35
34. Non si tratta di ipotesi di fantasia: lo scrivente si è trovato ad assistere in più di un’occasione lavoratori
che sono stati selezionati (assieme a centinaia di altri, per volta) nel loro paese tramite pubblici avvisi
sulla stampa nazionale, pubblicati da imprese esistenti solo sulla carta ed aventi l’unico scopo di reclutarli e di prestare il nome, oltre a quella che si può definire eufemisticamente “l’assistenza amministrativa”,
per consentire l’autorizzazione all’ingresso nell’ambito di un appalto illecito. In un caso, addirittura, per
maggiore garanzia del soggetto reclutatore, è stata fatta sottoscrivere a ciascuno degli interessati, presso un
notaio del paese di partenza, un’ipoteca sulla casa.
35. Fra le convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale, che regolano il distacco di lavoratori, merita
di essere citata quella più utilizzata nel frangente di cui trattasi, stipulata con la Jugoslavia il 14 novembre 1957 e ratificata con legge 11 giugno 1960 n. 885 (G.U. 29 agosto 1960 n. 210). A seguito della
nota dissoluzione della Jugoslavia, le Repubbliche di Croazia, Slovenia e Bosnia hanno formalizzato la
successione nell’applicazione di detta convenzione.
352
9.4
La regolarizzazione
9.4.1
L’accesso alla procedura di emersione
Come è noto, l’art. 33 della legge 30 luglio 2002 n. 189 ha disciplinato la procedura di
emersione del lavoro irregolare per quanto attiene le colf e le “badanti”, mentre il decreto-legge 9 settembre 2002 n. 195 ha dato analoghe disposizioni per la regolarizzazione dei lavoratori occupati negli altri settori; la legge di conversione 9 ottobre 2002 n.
222 ha poi introdotto alcune modifiche alle condizioni originariamente previste, armonizzandole sostanzialmente per entrambe le categorie.
La valutazione delle diverse problematiche interpretative che si sono poste nell’applicazione di dette norme, come pure ogni altra valutazione di merito sulle scelte operate dal
legislatore, esula dalla presente analisi, che viene dedicata esclusivamente alla valutazione degli effetti più direttamente rilevanti sotto lo specifico profilo dell’effettività dell’emersione.
Nonostante già da molto tempo prima dell’entrata in vigore della L. 189/02 (e della
contestuale emanazione del D.L.195/02) fosse noto che vi era un’alta probabilità che
venissero emanate disposizione in materia di regolarizzazione,36 fin dai primi giorni della
sua operatività si era registrata una certa diffidenza dei datori di lavoro nell’utilizzo di
tale opportunità. Certo, la mancanza di chiare indicazioni operative, emanate solo in
prosieguo, poteva in parte giustificare una prudente condotta di attesa, per consentire
di meglio comprendere se vi erano o meno le condizioni per regolarizzare i rapporti di lavoro in atto, ma la discrasia tra il massiccio afflusso di immigrati presso gli uffici postali
per il ritiro della modulistica (il c.d. “kit”) e la scarsità di domande presentate nella fase
iniziale è stato il primo indicatore di una palpabile riluttanza di una parte dei datori di
lavoro, che ha poi trovato conferma nell’esperienza pratica “di sportello” delle diverse associazioni laiche e religiose che hanno prestato assistenza per l’avvio delle pratiche.
36. Come pure è accaduto in occasione delle precedenti regolarizzazioni, il lungo dibattito politico che ha
portato all’emanazione delle norme in commento non ha mancato di indurre la divulgazione tra gli immigrati e nei loro Paesi d’origine dell’opportunità di fare ingresso irregolare in Italia per approfittare appena possibile della procedura di emersione. L’incremento degli ingressi irregolari attribuibile al prolungamento del dibattito (che forse avrebbe potuto essere prevenuto anticipando un decreto legge ad
hoc rispetto alla legge di riforma del T.U.) può essere valutato confrontando le stime sulla presenza di
immigrati irregolari all’inizio del 2002 con il numero complessivo di domande di regolarizzazione.
353
Al di là delle incertezze interpretative - essenzialmente incentrate sull’individuazione
della decorrenza iniziale minima dei rapporti di lavoro37 e sulla rilevanza o meno di
eventuali periodi di interruzione del rapporto per temporaneo rimpatrio - e pure a fronte
di una incoraggiante ed omnicomprensiva previsione di estinzione delle violazioni pregresse,38 fra i datori di lavoro si è registrata una certa riluttanza: non sono certo isolati,
infatti, i casi di coloro che, dopo avere tergiversato di fronte alle insistenti richieste dei
dipendenti, hanno licenziato (ovviamente, senza alcuna formalità) i lavoratori, oppure li
hanno allontanati adducendo la scusa che non c’era lavoro e che li avrebbero richiamati, oppure sostenendo (falsamente e per liberarsi del problema) che la prosecuzione
del rapporto di lavoro sarebbe stata possibile solo dopo il perfezionamento della regolarizzazione; altri, più astuti, hanno promesso fino alla scadenza dei termini la regolarizzazione, magari mostrando i moduli compilati, salvo poi ometterne l’inoltro.
Per l’appunto, la peculiarità della regolarizzazione in esame consiste nell’avere affidato
alla volontà del solo datore di lavoro l’attivazione della procedura, tant’è che si era inizialmente ritenuto che il previsto inoltro della dichiarazione di emersione costituisse una
mera facoltà e non un atto dovuto, senza che vi fosse un vero e proprio diritto, bensì
una mera aspettativa, da parte del lavoratore. In realtà, come ha precisato la giurisprudenza, poiché assumere o mantenere alle dipendenze un lavoratore straniero privo di
idoneo permesso di soggiorno costituisce reato, si è più correttamente ritenuto che la
norma non potesse essere interpretata nel senso di attribuire al datore di lavoro la facoltà di scegliere se regolarizzare - con ciò estinguendo tutte le precedenti violazioni oppure perseverare nella condotta illecita.
Il ripristino della legalità è stato dunque considerato obbligatorio da parte del datore di
lavoro, riconoscendosi ai lavoratori il diritto di pretendere la regolarizzazione. Ma il Ministero dell’Interno si è adeguato a tale interpretazione solo in prossimità della scadenza
dei termini, peraltro, dopo che era già stato prorogato il termine di scadenza per i lavoratori non domestici all’11 novembre, in sede di conversione in legge, con modificazioni
del relativo decreto-legge. È infatti del 31 ottobre la circolare n. 300C/2002 (c.d. “circo-
37. La formulazione letterale della norma contrasta con l’interpretazione restrittiva adottata dal Ministero
dell’Interno: infatti, mentre la norma consente le regolarizzazione a chiunque ha occupato lavoratori
extracomunitari in posizione irregolare nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore, il che potrebbe significare che anche un rapporto di lavoro sorto il giorno prima dell’entrata in vigore rientra nel
campo di applicazione della regolarizzazione, il Ministero dell’Interno ritiene che siano ammissibili le
domande di regolarizzazione solo quando il rapporto di lavoro si sia svolto quantomeno per tutti i tre
mesi antecedenti.
38. Per la prima volta, in una regolarizzazione dedicata al lavoro degli stranieri, è stata espressamente
prevista, oltre alla estinzione delle violazioni in materia penale, amministrativa, civile e previdenziale,
anche l’estinzione delle violazioni in materia fiscale.
354
lare Mantovano”, perché attribuita all’omonimo Sottosegretario che, non senza difficoltà
di mediazione politica, riuscì a sbloccare la controversia sugli irregolari licenziati), che
ha ammesso la possibilità di aprire una vertenza nei confronti del datore di lavoro “renitente” entro l’11 novembre e di presentare direttamente alla Questura la domanda di
permesso di soggiorno “per ricerca occupazione” entro il successivo 19 novembre. Certo
è che, anche ammettendo la tempestiva divulgazione della circolare (non tanto tra le
prefetture, quanto piuttosto tra gli immigrati: specie se si considera che la circolare citata è stata emanata in un giorno prefestivo e che tra il 31 ottobre e l’11 novembre sono
inclusi due fine settimana), nello spazio di appena sette giorni lavorativi non si poteva
ragionevolmente sperare di “recuperare” tutte le anzidette situazioni controverse.39
È noto che, soprattutto nel settore del lavoro domestico ma non solo, una parte non trascurabile dei lavoratori ha pagato in proprio e senza discussioni il costo della regolarizzazione, ovvero il previsto contributo forfetario a carico del datore di lavoro, pur di ottenere il sospirato permesso di soggiorno. Non solo, ma si sono anche verificati casi di
estorsione conclamata, in cui il datore di lavoro ha costretto l’interessato a pagare addirittura un prezzo ulteriore (fino a 5.000 euro!) per ottenere la regolarizzazione.40 Pure si
sono verificati casi di vere e proprie regolarizzazioni fittizie sia presso piccole imprese e
sia, soprattutto, presso finti datori di lavoro domestico, anch’esse quasi sempre “comprate”,41 non solo da persone effettivamente prive di un’occupazione ma anche da persone che lavoravano in nero presso datori di lavoro indisponibili alla regolarizzazione.
39. Persino laddove è stata organizzata un’assistenza vertenziale anche nei giorni festivi, come ha fatto la
Camera del Lavoro di Milano, è stata rilevata l’esistenza di molte denunce tardive, anche perché, come
accennato, molti lavoratori hanno potuto constatare solo l’ultimo giorno utile che, contrariamente alle
assicurazioni ricevute, la dichiarazione di emersione non era stata presentata. È tuttora dubbio se si
ammetterà che valgano anche, per interrompere il termine dell’11 novembre, le vertenze da considerare
avviate entro tale data, nei molti casi in cui i lavoratori hanno dato delega al sindacato entro il giorno
11 per essere tutelati attraverso la richiesta di convocazione della controparte, anche se poi la formale
richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione é stata inoltrata dagli uffici sindacali nei giorni successivi, purché entro il 19 novembre, data fissata dalla circolare per la richiesta di p.s. presso le Questure. Al momento, le Questure non sanno ancora esattamente come applicare queste istruzioni e tendono ad escludere l’accettazione delle domande di permesso di soggiorno basate su vertenze per le
quali non sia documentabile la spedizione della relativa raccomandata - contenente l’istanza di convocazione del tentativo obbligatorio di conciliazione - entro l’11 novembre.
40. È stata denunciata a Padova un’impresa che ha fatto pagare a ben 92 immigrati, che effettivamente
lavoravano in nero, la somma media di 3.000 euro pro capite, mediante trattenuta sugli stipendi. Non
si ritiene si tratti di un caso isolato, quanto piuttosto di situazioni estremamente difficili da dimostrare,
senza contare il fondato timore dei lavoratori di perdere sia il posto di lavoro che l’opportunità di regolarizzazione. Infatti, nel caso in questione l’avvio delle indagini è stato reso possibile grazie ad una preparazione minuziosa ma non certo facile e proponibile a chiunque, ovvero con l’impiego di una microcamera nascosta in un bottone (c.d. “candid camera”).
41. È stato recentemente denunciato a Verona il caso di uno studio di consulenza che avrebbe venduto,
grazie all’utilizzo di imprese compiacenti, almeno 300 regolarizzazioni al prezzo minimo di 2.000 euro
pro capite.
355
Dunque, se si tiene conto della prassi “alternativa” di “scaricare” il pagamento del contributo forfetario sul lavoratore, ciò che può avere indotto una parte dei datori di lavoro
ad omettere l’inoltro della dichiarazione di emersione non è tanto il costo della regolarizzazione, quanto piuttosto il maggior costo futuro e la maggiore rigidità del rapporto di
lavoro, derivanti dalla necessaria applicazione delle norme di legge e dei contratti collettivi ai rapporti regolarizzati (non solo in relazione alle retribuzioni minime ed ai relativi
contributi, ma anche in considerazione del necessario rispetto della continuità della
prestazione, dell’orario di lavoro, del diritto alle ferie, ai riposi, ecc.).
Tale preoccupazione ha senz’altro pesato notevolmente sulle sorti dei rapporti di lavoro
domestico, anche se il problema è stato talvolta risolto in questi casi facendo emergere
un rapporto part-time anziché a tempo pieno, o addirittura formalizzando (grazie al fatto
che i minimi retributivi del Ccnl per il lavoro domestico sono palesemente inferiori alle
tariffe minime praticate nel mercato) una retribuzione, per così dire, “conglobata”: in altre parole, è stata dichiarata una retribuzione inferiore a quella precedentemente praticata per assorbire il maggior costo degli oneri contributivi e retributivi indiretti, col risultato che la colf o la “badante” regolarizzata verrà pagata meno di prima. D’altra parte,
non sembra certo un caso che molte delle stesse badanti delle quali, prima della regolarizzazione, i datori di lavoro tessevano le lodi per la disponibilità e dedizione che contrassegnava la loro prestazione, dopo, quando hanno iniziato a chiedere il giorno libero,
siano state tacciate di gravi negligenze, guarda caso per giustificare la risoluzione del
rapporto (e magari assumere una nuova arrivata in condizione irregolare).
Per quanto riguarda invece le imprese, se da un lato è pacifico che moltissime, quelle
più serie e normalmente di maggiori dimensioni, non vedevano l’ora di far emergere rapporti di lavoro instaurati irregolarmente a causa dell’estrema difficoltà di assumere mediante il noto regime dei flussi migratori, non si può fare a meno di considerare che vi sono state imprese, per lo più di piccole dimensioni, che hanno rifiutato la regolarizzazione
perché questa fa venir meno la convenienza dell’impiego degli immigrati, ovvero perché, in
altre parole, l’instaurazione di regolari rapporti di lavoro e l’assunzione dei relativi costi le
avrebbe portate fuori dalla fascia marginale del mercato che di fatto occupano.
In alcuni casi, inoltre, si ritiene non abbia influito solo il minor costo del lavoro pregresso (comunque non secondario) ma anche la massima flessibilità resa possibile dalla
condizione degli immigrati irregolari, che consentiva un impiego intermittente in funzione
degli alterni flussi di lavoro. Ad esempio, l’imprenditore artigiano del settore edile non
sente soltanto il problema del costo del lavoro quanto piuttosto la ritenuta impossibilità
356
(poco importa se a torto o a ragione) di assicurarvi continuità, ovvero l’onere di dover
sostenere il costo di una manodopera che, a tratti, risulta (o forse risulterà) inutilizzabile.
D’altra parte, gli immigrati, in specie quelli irregolari, si concentrano maggiormente proprio in questo tipo di aziende, il che rende facilmente comprensibile l’alta precarietà
della loro occupazione anche in una situazione regolare, non a caso fortemente contrassegnata dalla stipula di contratti a tempo determinato (talvolta anche oltre i limiti legali
e contrattuali). E ciò spiega anche perché - oltre alle regolarizzazioni fittizie, che, per ovvie esigenze di contenimento del costo contributivo, inducono a risolvere i formali rapporti di lavoro il più presto possibile - non pochi degli effettivi rapporti di lavoro per i
quali è stata attivata la regolarizzazione vengono ora risolti o, verosimilmente, cesseranno nei prossimi mesi.
9.4.2
La seconda fase della regolarizzazione
In effetti, ciò che preoccupa è la seconda fase della regolarizzazione, di fronte alla casistica, ovviamente destinata a crescere progressivamente, dei “regolarizzandi” che hanno
già perso o che perderanno il posto di lavoro.
La procedura di regolarizzazione prevede (a seconda di colf, badanti o lavoratori subordinati) che la domanda venga perfezionata entro 30 o 60 giorni attraverso la convocazione presso lo sportello polifunzionale attivato dalle prefetture. Sappiamo che di fronte
alla quantità enorme di domande (circa 700.000) gli appositi uffici non sono sufficientemente attrezzati per smaltirle in poco tempo. Non solo sono già stati abbondantemente superati i termini sopraindicati ma non sarà nemmeno possibile avvicinarcisi.
Facendo i conti con le cifre delle domande presentate, i giorni lavorativi di apertura degli
uffici e la quantità giornaliera di richieste sottoposte ad esame, risulta evidente, rebus
sic stantibus, che i più sfortunati, ovvero quelli che hanno presentato la loro domanda
dopo le prime migliaia, potranno subire tempi di attesa che potranno arrivare oltre i due
anni.42 Ed è altrettanto evidente che ciò produrrà una serie di conseguenze che potrebbero essere drammatiche se non vi si ponesse rimedio.
42. A giustificazione della inadeguatezza dell’apparato preposto al disbrigo dei vari adempimenti amministrativi si è sostenuto che non era prevista (o prevedibile) una così massiccia presenza di irregolari
interessati alla regolarizzazione. Tuttavia le stime sulla presenza di irregolari in Italia all’inizio del 2002
indicavano già una presenza intorno alle 300-350 mila persone, cui si sono aggiunti i nuovi ingressi
anche grazie al richiamo dell’imminente regolarizzazione.
357
Infatti, il problema più frequente, che riguarderà un numero massiccio di casi, sarà
rappresentato dalla necessità di cambiare datore di lavoro.
La cosa in sé non dovrebbe creare particolari problemi, specialmente nel nostro Nord
est, ma il punto è che non si sa se e come queste persone potranno trovare una nuova
occupazione. Una recente circolare del Ministero dell’Interno prevede che nel caso di
perdita del posto di lavoro per licenziamento43 sarà possibile, in analogia con quanto
previsto dall’art. 22, comma 11 del T.U., concedere un permesso di soggiorno di sei mesi
per la ricerca di una nuova occupazione; tuttavia, secondo la circolare, questo sarà possibile solo a seguito della convocazione delle parti presso lo sportello polifunzionale attivato dalla prefettura, il che significa attendere moltissimo tempo per la maggior parte
degli interessati.
A questo riguardo teniamo presente che spesso gli stranieri, soprattutto quelli di recente
immigrazione, hanno una durata media del rapporto di lavoro piuttosto scarsa, vale a
dire che cambiano spesso lavoro, perché si tratta di lavori per lo più a termine o comunque precari. Se dovessimo ragionevolmente tener conto di ciò, considerando i tempi
di attesa, dovremmo ritenere che fino al momento in cui sarà possibile perfezionare la
regolarizzazione, gli interessati (circa 700.000) avranno dovuto cambiare posto di lavoro
più volte. Ma, per l’appunto, nel frattempo non si sa come cambiare posto di lavoro.
Certo, l’idea originaria (come si suol dire, l’intenzione del legislatore, che ad ogni buon
conto non assume alcun rilievo ai fini interpretativi della norma) probabilmente era che
a perfezionare il contratto di soggiorno dovesse essere soltanto il datore di lavoro che ha
inoltrato la domanda di regolarizzazione, e che durante la (breve) procedura di perfezionamento non potesse esserci un cambiamento di datore, salvo casi eccezionali, come la
morte della persona assistita dalla badante, nel qual caso è già prevista da un’altra circolare del Ministero dell’Interno la possibilità di immediato rilascio di un permesso di
soggiorno di sei mesi per ricerca lavoro o l’autorizzazione alla sostituzione immediata del
nuovo datore di lavoro nella procedura di regolarizzazione. Ma la casistica più ampia e
diffusa dei rapporti di lavoro che si concludono per altre cause naturali non è stata
presa in considerazione.
Gli stessi datori di lavoro che fossero interessati ad assumere lavoratori immigrati non
hanno al momento nessuna sicurezza sulla regolarità del rapporto di lavoro che si an-
43. Detta circolare non prende in considerazione le ipotesi di dimissioni, né volontarie né per giusta causa
(laddove, ad es. il lavoratore è di fatto costretto a recedere dal rapporto perché non viene pagato) pur richiamando l’analogia con il già citato disposto di cui all’art. 22, comma 11, che contempla espressamente anche le dimissioni.
358
drebbe ad instaurare, anzi, possono fondatamente temere di commettere il reato previsto dall’art. 22 comma 12 del Testo Unico, che fra l’altro è ora sanzionato in maniera più
grave che in passato (pagamento di 5.000 euro per ogni lavoratore assunto senza permesso di soggiorno e arresto da tre mesi ad un anno).
Non si può fare a meno di valutare se questa prassi applicativa della procedura di regolarizzazione, di fatto introdotta dal Ministero dell’Interno con una circolare, sia o meno
compatibile con i principi del nostro diritto del lavoro e, soprattutto, se sia utile dal
punto di vista dell’ordine pubblico e dell’attività di contrasto del lavoro nero.
D’altra parte, se da un lato la durata della procedura (sia pure con un termine non
espressamente perentorio) è a seconda dei casi di 30 o 60 giorni, dall’altro la norma in
materia di regolarizzazione non contiene, né avrebbe potuto contenere, alcuna deroga ai
principi generali in materia di risoluzione del rapporto di lavoro.
In altre parole, non vi è alcuna norma che inibisca il diritto del datore di lavoro di licenziare e del lavoratore di rassegnare le dimissioni, nei casi previsti dalla legge, sicché non
sembrerebbe ragionevole ricacciare nella clandestinità gli immigrati per il solo fatto che
hanno esercitato dei diritti o che hanno subìto, per così dire, dei diritti esercitati dai loro
datori di lavoro. Ciò costituirebbe una palese contraddizione con la regola generale, per
cui chi perde il posto di lavoro non automaticamente perde la possibilità di soggiornare
e di reperire una nuova occupazione, avendo diritto ad un permesso di soggiorno della
durata di sei mesi, il che è sì quanto è stato già previsto dalla circolare citata ma di fatto
rinviato ad una data lontana. Prova ne sia che i lavoratori che perdono il posto di lavoro
non sono ammessi a presentare presso la competente Questura la pur prevista domanda di p.s. di sei mesi per ricerca occupazione: infatti, detti uffici rifiutano il formale
ricevimento della relativa domanda adducendo che ciò non sarà possibile fino a quando
non sarà stata effettuata la convocazione presso gli sportelli polifunzionali delle prefetture. A sostegno di questa prassi si spiega che non è tecnicamente possibile il vaglio
della posizione individuale, causa la non ancora completa trasmissione della documentazione alle prefetture e alle questure da parte del centro elaborazione dati delle Poste e
quindi, a sua volta, da quello della Polizia di Stato, ma così argomentando è evidente
che si scarica sull’utenza (non solo i lavoratori ma anche i datori di lavoro, vecchi e
nuovi) tutto il peso dell’inadeguatezza dell’apparato preposto al perfezionamento delle
regolarizzazioni.
Peraltro, se, così operando, si impedisse sostanzialmente l’esercizio del diritto del lavoratore di cambiare datore di lavoro, si potrebbe fondatamente configurare una discriminazione ed una violazione dell’art. 10 della Costituzione, che al 2°comma sancisce la
359
prevalenza sulla legge ordinaria delle norme e dei trattati internazionali sulla condizione
dello straniero. Infatti, è opportuno ricordare la Convenzione n. 143 del 1975
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ratificata dall’Italia nel 1981 e resa operativa con l’entrata in vigore della legge 943/86), che garantisce il diritto dei lavoratori regolarmente soggiornanti di godere di piena parità di trattamento e di opportunità rispetto ai lavoratori nazionali; la stessa Convenzione prevede la possibilità per i paesi
aderenti di stabilire limitazioni alla possibilità di cambiare tipo di lavoro solo entro un
tempo determinato, e prevede inoltre che la perdita del posto di lavoro non possa mai
comportare automaticamente la perdita del permesso di soggiorno. Per l’appunto, le 700
mila persone in fase di regolarizzazione sono comunque da considerare attualmente legalmente soggiornanti, anche se sottoposte a verifiche. Ora, poiché non sussiste alcuna
generale disposizione limitativa della possibilità di cambiare datore di lavoro o settore di
attività,44 queste persone potrebbero subire una effettiva e legittima limitazione alla
possibilità di cambiare lavoro solo entro i termini previsti nell’ambito delle norme sulla
regolarizzazione, ovvero i 30 o i 60 giorni previsti per perfezionare la relativa procedura,
perché è indiscutibile che, una volta perfezionata la procedura di regolarizzazione, il lavoratore immigrato può cambiare lavoro e beneficiare di un permesso di soggiorno di sei
mesi per trovare una nuova occupazione.
È facilmente intuibile che, se i tempi di perfezionamento della procedura non saranno
drasticamente accelerati, o se comunque non verranno adottate soluzioni che consentano ai perdenti il posto di lavoro di perfezionare subito il nuovo rapporto, gli interessati
saranno nel frattempo costretti a rivolgersi nuovamente al lavoro nero, con ovvio pregiudizio per l’intera comunità (si pensi soltanto al mancato introito di ritenute fiscali e
contributi). Peraltro, se si dovesse attendere ancora molto tempo, il numero degli interessati al rilascio del p.s. per ricerca di lavoro crescerebbe (per le ragioni già esposte) a
dismisura, rischiando di rasentare una quota prevalente delle richieste di regolarizzazione, con l’ulteriore effetto che le Questure si troverebbero a gestire, anziché un flusso
graduale di richieste di p.s., una mole di pratiche tale da provocare una vera e propria
paralisi anche a danno dei lavoratori già stabilmente soggiornanti, che si troverebbero
verosimilmente a subire tempi ancora più lunghi di quelli attuali per i normali rinnovi o
aggiornamenti dei permessi.
44. Si ricorda che la L. 943/86 prevedeva il divieto di cambiare settore di attività per un tempo massimo di
24 mesi, pur garantendo, comunque, la incondizionata possibilità di cambiare datore di lavoro mantenendo la stessa qualifica; tale limitazione è stata poi soppressa nell’ambito delle abrogazioni disposte
con l’entrata in vigore del D.Leg.vo 25 luglio 1998 n. 286.
360
Infine, va considerato che, con la ricevuta attestante l’inoltro della domanda di regolarizzazione non è ammessa alcuna mobilità, o meglio, dal territorio italiano si può uscire
ma senza possibilità di farvi rientro, sicché è facilmente intuibile, a meno di pretendere
da tutti gli immigrati una stoica resistenza, che perdurando tale interdizione per tutta la
durata della procedura, si indurrà buona parte degli interessati, prima o poi, a tentare
di eludere i controlli di frontiera così producendo ulteriore illegalità.
9.5
La casistica
Senza alcuna pretesa di fornire uno spaccato completo e statisticamente significativo
delle situazioni che più tipicamente connotano il lavoro nero degli immigrati, si annotano qui di seguito alcune osservazioni principalmente rivolte a sottolineare gli aspetti
che, per così dire, presentano maggiore rilievo anche sotto il profilo dell’ordine pubblico,
nella più lata accezione del termine.
9.5.1
I settori di impiego
I dati della recente regolarizzazione dimostrano che nel settore del lavoro domestico vi è
stato sinora un massiccio ricorso all’impiego irregolare, dal momento che ad esso si riferisce circa il 40% delle dichiarazioni di emersione. Naturalmente, non si potrà fare a
meno di considerare che in tale ambito, come pure negli altri settori di occupazione, vi è
stata una certa incidenza di regolarizzazioni alle quali non corrisponde un effettivo rapporto di lavoro, sebbene non sembra vi siano ragioni per enfatizzare particolarmente
l’incidenza delle regolarizzazioni “di comodo”.45
Sarà interessante verificare fra qualche tempo la “mobilità” verso altri settori di impiego
dei lavoratori domestici, tenendo conto, da un lato, che anche in occasione delle prece-
45. Non bisogna confondere le problematiche interpretative ed applicative della regolarizzazione e il diffuso
fenomeno delle regolarizzazioni “pagate” dagli immigrati con la ben minore incidenza dei rapporti simulati, peraltro tipicamente ricorrente in ogni regolarizzazione: senza alcuna pretesa di rilevazione
scientifica, ma avendo avuto nel corso della regolarizzazione costanti contatti con numerosi “sportelli”
attivati dal privato sociale per l’assistenza nella regolarizzazione (laddove gli interessati dicono le cose
come stanno), lo scrivente fa presente di avere constatato un’incidenza delle regolarizzazioni “di comodo” senz’altro inferiore al 10%.
361
denti regolarizzazioni molti di essi hanno preferito orientarsi verso altre occupazioni non
appena ottenuto il p.s., mentre d’altro canto la prevedibile tendenza al progressivo calo
dell’occupazione ufficiale in tale settore - a meno di non ritenere che improvvisamente
venga meno il fabbisogno di tali prestazioni - potrebbe confermare il fondato timore di
un turn over tutt’altro che virtuoso, ovvero la sostituzione di lavoratori regolari con altri
“nuovi arrivati” in condizione irregolare.
Per quanto riguarda le imprese, è praticamente scontato che ad utilizzare la regolarizzazione vi siano praticamente tutte le categorie che sinora hanno utilizzato o tentato di
utilizzare il sistema dei “flussi migratori”, come si ritiene potrebbe essere confermato incrociando i dati delle aziende che attingono alle “quote” con le risultanze della regolarizzazione. Si tratta, per l’appunto, delle imprese che svolgono lavorazioni sempre più rifiutate dalla manodopera nazionale e che ricorrono all’impiego irregolare più per necessità che in base ad una vera e propria propensione per il lavoro sommerso, quelle che,
in altre parole, assumono i c.d. “clandestini” perché (o fintantoché) non trovano a portata di mano la concreta possibilità di assumere immigrati muniti del p.s..
Va tuttavia evidenziato che vi sono invece delle tipologie di impresa che preferiscono attingere (in tutto o, più spesso, in larga parte) dal bacino della manodopera irregolare,
perché ciò si confà alla loro peculiare collocazione nel mercato, talvolta esse utilizzano
anche le procedure di assunzione dall’estero e/o le eventuali possibilità di regolarizzazione, ma ciò non tanto per stabilizzare un rapporto in modo regolare quanto perché la
loro applicazione può costituire l’occasione per indurre nel frattempo il lavoratore ad accettare qualsiasi condizione, se non anche per realizzare un lucro illecito.46
Non vi è in realtà uno specifico settore produttivo particolarmente interessato, piuttosto
vi sono in diversi settori delle fasce marginali di imprese che hanno scelto di operare sul
mercato proprio sfruttando l’alta concorrenzialità assicurata dalle caratteristiche intrinsecamente illecite dei rapporti di lavoro (e non solo). Un elemento comune a tali imprese
è che, di fatto, possono praticare prezzi altamente concorrenziali non solo perché pagano poco ma anche e soprattutto grazie al fatto che sono organizzate o comunque si
trovano nella condizione di avere praticamente poco o nulla da perdere, ovvero di poter
accettare il rischio di chiudere “serenamente” i battenti allorché una serie di nodi vengono al pettine: esse hanno infatti un patrimonio esiguo, se si eccettuano strutture ed
attrezzature di proprietà di terzi, e la loro essenziale risorsa produttiva è costituita dalla
46. Non sono certo nuovi né isolati i casi di imprese e/o di aziende specializzate in servizi amministrativi
(sia costituite da italiani che da stranieri) che si fanno pagare per formalizzare, utilizzando il sistema
delle “quote”, l’assunzione dall’estero per lavoro subordinato o autonomo.
362
manodopera a basso costo, utilizzata con la massima flessibilità (per usare un delicato
eufemismo).
Al riguardo, la casistica verificata nell’esperienza pratica ci offre degli esempi tipici (ma
beninteso, da non intendersi affatto come rappresentativi dell’intero settore produttivo
di appartenenza, nel quale operano in prevalenza imprese serie). Anzitutto, imprese operanti nel settore dell’edilizia, per lo più di tipo artigianale o comunque di modeste dimensioni, che costituiscono spesso l’ultimo anello della catena dei subappalti ed altrettanto spesso operano oltre il limite del divieto di intermediazione di manodopera di cui
alla legge 1369/60. Ad esempio, non accade di rado di verificare che, in pratica, la differenza tra l’essere dipendenti dell’impresa committente o risultare formalmente titolari di
un’impresa subappaltatrice della medesima committente, è rappresentata dal “salto di
qualità” di un muratore (magari, e sempre più spesso, un immigrato), che costituisce
una propria impresa; mentre questi, prima, fungeva da capo squadra, poi diventa formale datore di lavoro, restando sostanzialmente inalterata la sua funzione sostanziale di
preposto alla direzione degli operai cui viene affidata la realizzazione delle opere, o parte
di esse, in un dato cantiere. Analoghe caratteristiche si possono pure rinvenire
nell’ambito di piccole imprese del settore metalmeccanico, che per lo più svolgono attività di montaggio o lavorazioni per conto terzi, magari presso i cantieri o gli stabilimenti
degli stessi committenti e utilizzando gli impianti ed i macchinari di loro proprietà e pattuendo altresì un corrispettivo basato su una paga oraria per ciascun addetto. Questo
può persino accadere anche all’interno di realtà rappresentative della grande cantieristica, in cui può verificarsi una palpabile differenziazione rispetto ai lavoratori “garantiti”, direttamente dipendenti dal primo appaltante, sicché le lavorazioni comportanti
un’alta incidenza di impiego di manodopera (non solo comune ma anche specializzata)
vengono “lottizzate” con un sistema così articolato di subappalti che è persino difficile da
ricostruire.
Vi sono poi lavorazioni facilmente “esportabili”, ovvero trasferibili al di fuori dell’azienda
committente, in quanto richiedenti un ridotto investimento in macchine ed attrezzature
e basso costo per il trasporto dei semilavorati: ne è un tipico esempio il settore
dell’abbigliamento, che di fatto sta recuperando apprezzabili quote di produzione (perdute già diversi anni fa a causa del minor costo del lavoro incidente sulla concorrenza
estera) potendo ringraziare almeno in parte il lavoro sommerso.47
47. I laboratori organizzati da imprenditori cinesi sono senz’altro l’esempio più noto, ma non l’unico.
363
Non mancano, ed anzi sono sempre più frequenti, nonostante la crescente attenzione
degli organi ispettivi, i casi di cooperative operanti nel settore del facchinaggio (molto di
meno nel settore delle pulizie), che possono proporre tariffe imbattibili rispetto a quelle
praticate dalle cooperative che si sono già adeguate o si stanno adeguando ai precetti
della legge 3 aprile 2001 n. 142;48 senza contare che proprio l’impiego di immigrati
irregolari viene talvolta utilizzato per eseguire appalti illeciti di mere prestazioni di lavoro
inerenti il ciclo produttivo dei committenti, il cui accertamento è reso ancor più difficile
dalla condizione di “clandestinità” (non è nemmeno necessario istruire un “clandestino”
su come comportarsi in caso di accertamento ispettivo, poiché la fuga è comunque la
sua più spontanea reazione).
Pure risulta percepibile la presenza di manodopera clandestina nei settori della ristorazione e alberghiero e nell’agricoltura, laddove il comune denominatore sembra costituito
dal carattere prettamente familiare dell’azienda.
Ovviamente, si fa per dire, nell’ambito della riduzione al minimo dei costi e dell’inesistenza di un’organizzazione del lavoro realmente imprenditoriale, la sicurezza sul lavoro
risulta pressoché inesistente, mentre la condizione irregolare di soggiorno facilita ulteriori comportamenti illeciti in caso di infortunio: non sono infrequenti i casi di lavoratori
che si presentano al pronto soccorso con traumi evidentemente prodotti da infortunio
sul lavoro, che dichiarano incredibili incidenti domestici o stradali; accade pure che venga omessa dal datore di lavoro, per non compromettersi, anche la prestazione del primo
soccorso e succede persino che vengano messi in scena finti incidenti stradali nel breve
tempo necessario per l’arrivo dei soccorsi, istruendo all’uopo i colleghi di lavoro mentre
la vittima è priva di sensi.
48. Sono evidenti le inevitabili ricadute sul mercato del settore dei maggiori costi derivanti dalla necessità,
prevista dalla norma citata, di prevalente inquadramento dei soci nell’ambito del lavoro subordinato,
con applicazione dei normali istituti retributivi previsti dai contratti collettivi di riferimento, ma va tuttavia sottolineato che la citata riforma legislativa non mancherà di produrre anche altri effetti, meno
evidenti ma non meno importanti. Infatti, al di là delle valutazioni di merito, essa amplificherà notevolmente le differenze già esistenti nell’ambito delle cooperative del settore, inducendo di fatto scelte strategiche degli operatori che non lasceranno spazio a soluzioni di compromesso, dal momento che la
maggiore rigidità e regolamentazione dei rapporti di lavoro andrà a creare una sorta di “polarizzazione”:
da un lato si andranno a collocare le cooperative che tenteranno di mantenere costi “concorrenziali”
eludendo le disposizioni vigenti, e ciò non potrà che essere fatto ricorrendo all’impiego di lavoratori irregolari o cronicamente precari ed a forme fittizie di “co.co.co.”, con ovvie conseguenze sia sotto il profilo
della qualità, produttività e sicurezza del lavoro, sia in relazione all’alta vertenzialità ed alle sanzioni civili, penali e amministrative che ne potranno derivare nei confronti degli stessi committenti; dall’altro,
potranno attestarsi quelle cooperative che sapranno dimostrare un’effettiva qualità imprenditoriale e
fornire servizi connotati da una maggiore produttività e sicurezza per il cliente, e ciò proprio valorizzando i fattori leciti dei rapporti di lavoro, organizzando servizi integrati di alta qualità, basati su rapporti lavorativi stabili e maggiormente professionali, ed amministrando correttamente gli strumenti di
contrattazione della flessibilità.
364
L’estrema difficoltà nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, che in buona parte
dei casi, specie in quelli meno invalidanti, restano sconosciuti, trova evidente spiegazione nella condizione degli immigrati irregolari, non solo delle vittime ma degli stessi
colleghi, che sono oggettivamente coartati all’omertà: tutti, infatti, hanno in caso di
qualsivoglia indagine o verifica la certezza di perdere il posto di lavoro, il pagamento di
quanto già gli spetta (o sperano di incassare). Se non bastasse, la prassi amministrativa
di cui si è accennato sopra comporta la segnalazione per l’espulsione, che in base alle
norme del Testo Unico e con maggior rigore dopo la sua riforma, si traduce sempre di
più nell’effettivo accompagnamento alla frontiera, senza contare la necessità di rendersi
irreperibili dovendo pure preoccuparsi di cambiare alloggio.
Quando poi, laddove vengono eseguiti gli accertamenti ispettivi, vengono contestati pesantissimi addebiti economici per evasioni contributive e le relative sanzioni in sede
amministrativa (oltre alle violazioni in materia penale e fiscale), si verifica “normalmente” l’insolvenza dell’impresa, che magari si scopre essere rappresentata da un nullatenente (che spesso ha alle spalle precedenti situazioni analoghe) ed avere sede legale
presso un alloggio popolare. Nel caso delle cooperative, il patrimonio è praticamente inesistente e la costituzione di una nuova cooperativa (una sorta di “araba fenice”) è fin
troppo agevole, quasi una ricetta di uso comune. Quand’anche si tratti di una ditta proprietaria di immobili, non di rado si verifica che il loro valore è già abbondantemente coperto da ipoteche a favore delle banche e che i macchinari non valgono pressoché nulla
o sono di terzi. Non solo, ma in questi casi, generalmente, l’impresa ha anche accumulato o continua ad accumulare, nel tempo residuo49 di sopravvivenza ingenti obbligazioni verso l’erario, per mancato versamento di Iva e ritenute fiscali. È evidente che, date
le condizioni, il recupero delle somme dovute risulta impossibile, come pure che il
danno prodotto dai fenomeni accennati non ricade soltanto sui lavoratori e sul sistema
previdenziale bensì sull’intera comunità.
49. La nota lunghezza dei procedimenti amministrativi di accertamento e riscossione, come pure delle connesse procedure giudiziarie, di fatto lascia molto tempo a disposizione, senza che possano essere adottati effettivi interventi idonei a bloccare l’attività illecita.
365
9.5.2
Le dinamiche intraetniche
Le relazioni tra gli immigrati, di per sé producono forme di aggregazione che esprimono
anche alti livelli di solidarietà ed evidenziano un forte attaccamento ai valori familiari,
ricchezza per le famiglie e l’economia del paese d’origine (anche in termini di scambi
economici e trasferimento di know how), anche e sempre più spesso forme di imprenditoria vera e preziosa (sia per il paese d’origine che in termini di stimolo per il mercato
nazionale, non solo di nicchia). Ma pur dovendo evitare qualsiasi forma di generalizzazione e di ingiustificata enfatizzazione dell’allarme sociale, poiché non è affatto vero che
“clandestino” è sinonimo di criminale, non si può trascurare almeno qualche breve
cenno sugli aspetti che, anche per esperienza storica, definiscono la tipica devianza collegata al fenomeno migratorio, con particolare riguardo a quelli che interagiscono col
mercato del lavoro sommerso.
Va premesso che tali dinamiche devianti non vedono protagonisti gli immigrati perché la
loro “diversità” è cattiva ma più semplicemente perché nel contesto dei tipici meccanismi devianti associati a tutte le migrazioni, quantomeno dell’era moderna, gli immigrati
sono i protagonisti necessari. In altre parole, per sfruttare in modo mafioso un immigrato ci vuole un immigrato sia nel ruolo passivo che in quello attivo e ciò non accade
perché “gli immigrati sono cattivi e selvaggi” ma perché i bisogni minimi degli immigrati
collegati al loro inserimento lavorativo - e si badi bene che ciò non avviene solo per
quanto riguarda i c.d. “clandestini” ma anche per quelli in condizione di legalità precaria
- possono essere soddisfatti in modo pressoché esclusivo nell’ambito delle relazioni intraetniche, ed ovviamente secondo le forme di relazione proprie dei paesi d’origine.
Per l’appunto: la gestione dell’immigrazione lecita ma a caro prezzo50 e di quella illecita, la
vendita dei p.s. falsi, la gestione degli alloggi “in nero”, le sempre più diffuse forme di caporalato e lo sfruttamento da parte di imprese del genere al paragrafo precedente, oppure
del tutto informali (dall’attività di volantinaggio pubblicitario alla vendita - o dazione in
conto vendita - di prodotti per ambulanti, fino alla preparazione e vendita di cibi cotti),
fino al taglieggiamento vero e proprio degli stipendi; sono tutte attività delittuose che
sfruttano il bisogno di una crescente moltitudine di realizzare un pur precario quanto irregolare insediamento lavorativo,51 che però in sé non costituisce una condotta criminale.
50. Vedi nota 46.
51. Anche le ricongiunzioni familiari si verificano spesso in condizioni irregolari, pur essendo riconosciuto
un preciso diritto soggettivo al riguardo dall’art. 30 T.U.. Il mancato rispetto della relativa procedura da
parte di molti non dipende soltanto dalla mancanza o dalla difficoltà di possesso di tutti i requisiti ri-
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Queste dinamiche necessitano di essere indagate non soltanto sotto i profili strettamente connessi all’attività giudiziaria, perché fanno parte del mercato sommerso degli
immigrati, che è un fenomeno ben più ampio rispetto alla casistica dei fatti illeciti: è evidente, infatti, che il lavoro sommerso degli immigrati ben raramente può essere praticato senza utilizzare una o più delle anzidette “risorse”. Meriterebbe dunque di essere
considerata, senza essere esclusa a priori, la possibilità di prevenire almeno in parte tali
fenomeni, togliendo spazio al sottobosco dello sfruttamento intraetnico, offrendo ove
possibile dei percorsi leciti di integrazione, sia con procedure amministrative più praticabili e sia con metodi idonei a consentire l’espressione in forma legale di bisogni intrinsecamente sani. Un esempio al riguardo era costituito dal sistema della c.d. “sponsorizzazione” (autorizzazione all’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro con garanzia, di cui all’art. 23 dell’originaria versione del T.U.), che aveva consentito con gli opportuni controlli l’attuazione della naturale catena migratoria, valorizzando i vincoli di
solidarietà familiare a discapito delle dinamiche devianti52.
Pur senza fare sconti sui principi di legalità che devono essere salvaguardati senza distinzioni, le stesse differenze culturali e socio-comportamentali delle diverse etnie meriterebbero di essere studiate e maggiormente comprese, non tanto per capire chi è meglio
o peggio, quanto per interagire con strumenti più adeguati. Del resto, la mediazione
culturale come, più in generale, il rapporto con la multiculturalità, non è una pratica
meno indispensabile da assimilare per gli immigrati di quanto non lo sia per noi.
9.6
Conclusioni
Il nuovo istituto del “contratto di soggiorno”, introdotto dalla modifica legislativa del
T.U., non ha sostanzialmente modificato la procedura per l’autorizzazione all’ingresso.
Le sue linee essenziali risalgono addirittura alla prassi amministrativa applicata in assenza di norme specifiche fino al 1986, per essere poi riprese dalla legge 943/86 e riconfermate nella sostanza dal D.Lgs n. 286/1998. Di fatto, la procedura continua a pre-
chiesti dalla norma citata, ma anche dai tempi estenuanti di attesa di rilascio del visto, dopo che il
nulla-osta è già stato rilasciato dalla competente Questura, presso le rappresentanze consolari italiane.
Per fare un esempio, il Consolato d’Italia di Casablanca è chiuso da mesi e l’esame delle relative domande è fermo all’inizio del 2001.
52. In senso nettamente opposto all’abrogazione della c.d. “sponsorizzazione” si veda la risoluzione legislativa A5-00100/2003 del 12.03.03 del Parlamento europeo, sulla proposta di direttiva del Consiglio relativa alle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi che intendono svolgere attività
di lavoro subordinato o autonomo, che affida alla legislazione dei singoli Stati membri la facoltà di ammettere –in termini sostanzialmente simili alla “sponsorizzazione”-- l’ingresso di persone finalizzato alla
ricerca di opportunità ed alla successiva stabilizzazione per lavoro subordinato od autonomo.
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supporre un incontro a distanza tra la domanda e l’offerta, vale a dire fra due soggetti che
si trovano ancora nei rispettivi Paesi e che, ovviamente, non si sono mai incontrati prima.
In alternativa viene prevista l’ancor più improbabile richiesta di assunzione dalle apposite
liste di cui all’art. 21, comma 5, che si è dimostrata molto scarsamente utilizzata.53
In realtà, e si tratta di un dato che potrebbe essere confermato da tutti gli addetti ai lavori, la quasi totalità dei soggetti che hanno ottenuto il visto di ingresso per lavoro sulla
base di tale procedura (sempre che non sia intervenuta, nel frattempo un’opportunità di
regolarizzazione) ha rispettato le norme sull’ingresso e il soggiorno solo apparentemente,
essendo noto a tutti che si è trattato di lavoratori entrati irregolarmente in Italia ben
prima dell’attivazione della procedura. Cittadini stranieri extracomunitari che avevano
cercato e trovato direttamente il loro impiego lavorativo, in nero, nel nostro Paese. I loro
datori hanno successivamente utilizzato la procedura di autorizzazione per l’assunzione
dall’estero. A questo punto il lavoratore straniero è dovuto uscire dall’Italia altrettanto irregolarmente (sottraendosi al controllo dei passaporti), poiché la verifica della sua presenza in Italia anteriormente al rilascio del visto di ingresso avrebbe comportato l’annullamento dell’autorizzazione.
A fronte di queste note circostanze oggettive, e di quanto sin qui osservato, è evidente
che il lavoro nero degli immigrati, in larga parte irregolari, è attualmente un elemento
strutturale del mercato del lavoro locale, che non ha riflessi meramente marginali sul
mercato del lavoro lecito, in quanto ne costituisce un insostituibile complemento. Non si
può infatti trascurare che un’ampia quota del lavoro nero degli immigrati si traduce in
occupazione presso imprese che a loro volta forniscono beni e servizi ad imprese che
beneficiano, più o meno direttamente (anche a non voler considerare le forme di intermediazione illecita nei rapporti di lavoro), del minor costo del lavoro degli immigrati, con
un effetto “calmiere” sull’intero mercato del lavoro ed un’indiretta spinta all’emulazione
di comportamenti illeciti nei confronti dei settori produttivi che più direttamente soffrono la concorrenza alimentata dal basso costo del lavoro.
Vi è poi da chiedersi se l’intensificazione dell’attività repressiva, anche in base alle recenti modifiche legislative, potrà da sola produrre un’efficace riduzione del fenomeno, o
se invece non induca anche condizioni ancor più pesanti di sfruttamento degli irregolari,
se non addirittura di maggiore segregazione. La prassi di nascondere quanto più possibile la prestazione lavorativa, al punto da limitare sensibilmente la stessa libertà di mo-
53. Ciò pure a fronte degli appetibili incentivi offerti dal progetto Anagrafe Informatizzata Lavoratori
Extracomunitari, realizzato dalla Direzione generale per l’impiego in collaborazione con l’O.I.M.
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vimento degli individui (ad es. facendoli dormire presso il capannone e consentendo durante la settimana la “libera uscita” a turno per gli acquisti alimentari) non è più, infatti,
una ricetta esclusiva dei tipici laboratori cinesi semiclandestini. E non è da escludere
che le maggiori sanzioni incombenti sui datori di lavoro possano giustificare un maggiore sfruttamento proprio per ripagare (o ammortizzare) il maggior rischio.
Di certo, anche a prescindere da qualsiasi valutazione sulle scelte operate dal legislatore, una sensibile riduzione del fenomeno potrebbe (e dovrebbe) essere comunque favorita dalla riduzione dei tempi di perfezionamento delle procedure amministrative, sia per
quanto attiene le procedure di ingresso che in relazione alla procedure di rilascio e rinnovo del p.s., quantomeno per sottrarre i lavoratori e le imprese al compimento di illeciti
laddove potrebbero essere evitati.
Infine, la complessità del fenomeno dimostra che esso non può essere affrontato unicamente come un problema di polizia, dal momento che il senso ed il valore della legalità
devono essere non solo imposti ma realmente assimilati dall’intera società civile, anche
con più penetranti politiche di sostegno all’integrazione rivolte tanto ai lavoratori quanto
alla parte datoriale.
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Assetti normativi e forme di lavoro degli immigrati