InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina Info C E E P 1 Anno III n. 1 - Gennaio - Aprile 2006 Indice Editoriale 3 Francesco Totaro Un punto di vista etico-antropologico sull’eguaglianza 5 Luciano Venturini Neo-liberismo ed economia sociale di mercato: quali ruoli per il mercato, lo stato e la società civile 10 Carlo Stelluti Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel lavoro 17 Mario Mozzanica Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel welfare 22 Giorgio Benvenuto Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel fisco 28 Renata Livraghi Un quadro di sintesi della flessibilità in Italia 33 Giuseppe Davicino Eguaglianza, democrazia, economia viaggiano ancora insieme? 37 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 2 Centro ecumenico europeo per la pace Il Centro ecumenico europeo per la pace nasce dall’esigenza di offrire alla società civile percorsi formativi e proposte culturali a fronte dei processi di trasformazione e delle nuove sfide epocali. Nell’Europa, chiamata ad integrare tra loro società di tipo multietnico, multiculturale e multireligioso, la formazione al dialogo - per la soluzione dei conflitti e per la ricerca di una dialettica di convivialità delle differenze - appare sempre più come il nuovo nome della pace. L’esigenza del dialogo interpella laicamente ogni coscienza e costituisce un imperativo per i cristiani chiamati ad una testimonianza radicale e comune dell’evangelo, al di là delle loro divisioni storiche. Per questo Europa, pace, ecumenismo sono tre parole-chiave dell’impegno che i soci fondatori e le presidenze milanese, lombarda e nazionale delle Acli hanno inteso assumere e promuovere con la costituzione del Centro ecumenico europeo per la pace. InfoCEEP Quaderni per la formazione al dialogo e alla pace Direttore Paolo Colombo [email protected] Redazione Mirto Boni, Giuseppe Davicino Segreteria di Redazione Marina Valdambrini [email protected] Supplemento a “Il giornale dei lavoratori” n. 1, 2006 Redazione e amministrazione: Via della Signora 3, 20122 Milano. Registrazione n. 951 del 3/12/1948 presso il Tribunale di Milano. Direttore responsabile: Monica Forni Stampa Tipografia Buzzetti & Naccari Via Montecuccoli 14 - 20147 Milano InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 3 Editoriale “Nulla è più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali”. Questa frase celebre di Don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa” oggi sembra ormai sepolta dalla polvere di un’epoca remota. Eppure, non più tardi di quarant’anni fa, ha avuto un effetto straordinario sui giovani di allora. Ha mobilitato ed entusiasmato un’intera generazione. Recentemente è stata riportata all’attenzione del dibattito politico e sociale dal compianto Ermanno Gorrieri con una pregevole e coraggiosa opera sul tema dell’uguaglianza.* Un tema che nel corso degli anni è andato via via scomparendo dal dibattito politico e sociale. Gorrieri lo ripropone attraverso un appassionato studio sulla povertà, la disuguaglianza e le politiche redistributive nell’Italia di oggi. Esso costituisce un importante punto di riferimento per chi non si è lasciato travolgere dall’incipiente cultura neoliberista. Bene hanno fatto le ACLI di Milano, nella settimana alpina dell’Alpe Motta 2005, a riproporre la riflessione sul tema dell’uguaglianza ed a cercare di rinverdire una nuova tensione ideale che sappia leggere una realtà sociale inedita, le cui moderne forme di disuguaglianza non sono meno crudeli di quelle dell’inizio ‘900. La lotta alle disuguaglianze è uno dei principali valori che hanno irrorato per oltre mezzo secolo l’azione dell’Associazione dei lavoratori di ispirazione cristiana. Essa sta alla base dell’insegnamento sociale della Chiesa e costituisce parte fondante delle radici cristiane che, accanto all’umanesimo laico, hanno prodotto la cultura europea dell’epoca moderna. E’ proprio dall’incrocio di questi sistemi di valori, che hanno in comune l’esigenza di porre al centro l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani e di legarli tra loro da un vincolo di solidarietà, che è scaturito il sistema di protezione sociale europeo. La creazione del Welfare State, attraverso le politiche redistributive, che come ci ricorda Gorrieri, toglie a chi ha di più, per dare sotto la forma di servizi sociali, a chi ha di meno, non è stato un fatto indolore e non è stato nemmeno un fatto politicamente neutrale. Oggi, più che nel passato, nella società occidentale moderna, ove trionfa l’individualismo e il liberismo esasperato, ove i valori che ispirano la vita di intere popolazioni sono la competizione, la ricchezza raggiunta con ogni mezzo, il consumo fine a se 3 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 4 stesso, il successo personale come unico metro di giudizio, le disuguaglianze sembrano trovare giustificazione nelle diversità. Infatti se nascere in una regione non offre occasioni di lavoro, nascere in una famiglia povera non consente di accedere ai più alti gradi dell’istruzione, nascere in una famiglia numerosa non consente di avere un reddito dignitoso, viene considerata semplicemente responsabilità delle persone che vivono in queste condizioni di disagio quando non addirittura una colpa, la disuguaglianza si spiega banalmente con le diversità esistenti tra gli esseri umani. Si ricerca la giustificazione nella scarsa intelligenza, nella mancata intraprendenza e via di questo passo; si può addirittura arrivare a giustificare qualsiasi condizione di disagio, con l’appartenenza alla “razza” o alla diversità sessuale. Se viceversa si considera che gran parte delle disuguaglianze non sono attribuibili a scelte personali, ma a situazioni di ingiustizia sociale, allora non resta che battersi per rimuovere le condizioni di base che producono le disuguaglianze. Lo strumento principale è l’utilizzo di politiche appropriate finalizzate non solo alla creazione di pari opportunità, ma attraverso forme di monitoraggio e di accompagnamento a creare le condizioni affinché, tutti coloro che lo vogliono, possano raggiungere il traguardo prefissato. Dovrebbero essere proprio questi approcci, fra loro culturalmente molto distanti, a caratterizzare le scelte delle variegate formazioni politiche. Così come dovrebbe essere scontato che associazioni che si occupano di problemi sociali facciano scelte di campo inequivocabili. Se si ritiene ancora oggi però di discutere di uguaglianza e disuguaglianza, significa che forse così scontato proprio non è. Carlo Stelluti *Ermanno Gorrieri, Parti uguali fra disuguali, Il Mulino, Bologna 2002. E DITORIALE 4 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 5 Francesco Totaro UN PUNTO DI VISTA ETICO-ANTROPOLOGICO SULL EGUAGLIANZA La riflessione sull’eguaglianza presenta oggi diversi livelli. In via preliminare ci si potrebbe chiedere se l’eguaglianza sia comunque un bene o un valore. Non è impossibile infatti ignorare che c’è anche un’opinione contraria all’eguaglianza, sia per motivi di rifiuto della stessa in base, per esempio, a esigenze di premiazione del merito sia perché essa viene considerata pericolosa per la tenuta di altri beni o valori, in particolare della libertà. In proposito si deve ammettere che si danno modi di perseguire l’eguaglianza che allontanano dal consenso a suo favore. E’ successo nel passato come potrà succedere nel futuro che essa venga osteggiata o temuta. L’eguaglianza è allora percepita come minaccia all’identità già acquisita o come marchingegno per raggiungere senza sforzo benefici che sono costati sacrifici e ‘duro lavoro’. Del resto, non dovrebbe sorprendere che è stato proprio un sostenitore dell’eguaglianza come Karl Marx a mettere a nudo il pericolo del “comunismo rozzo” e dell’eguaglianza senza distinzioni, consistente nella pretesa da parte di ciascuno di disporre di tutto in misura incondizionata. A ben vedere, un certo immaginario pubblicitario dei nostri giorni non è affatto lontano dall’idea pseudoegualitaria di suscitare fantasie di possesso onnivoro e illimitato, associando peraltro a tali fantasie la lusinga dell’esercizio di una libertà altrettanto illimitata. Un’eguaglianza così compromessa e viziata finisce poi con il suscitare sentimenti di invidia sociale diffusa che si risolvono nel suo esatto contrario: l’individualismo sfrenato e reciprocamente distruttivo. L’eguaglianza è positiva – è un bene o un valore – quando è la condizione della realizzazione delle peculiarità o delle originalità personali e quindi non si contrappone alla libertà ma la rende possibile, non solo per sé ma anche per gli altri. L’assunto di fondo di un pensiero dell’eguaglianza bene intesa è il riconoscimento di qualcosa che si può anzitutto condividere. Ma cosa appartiene all’ambito del condivisibile? E’ nella risposta a questa domanda che si possono dare interpretazioni diverse degli elementi essenziali dell’eguaglianza. Amartya Sen, in uno studio di qualche anno fa, diventato imprescindibile per il nostro tema, notava che «tutti gli approcci all’etica dei fenomeni sociali che hanno resistito all’usura del tempo» hanno in comune il 5 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 6 fatto di «desiderare l’eguaglianza di qualcosa – un qualcosa che occupa un posto di rilievo nella teoria di volta in volta presa in considerazione»1. Ma il ‘qualcosa’ è appunto diverso. Anche altri studi, tra cui quelli di Christian Arnsperger e Philippe van Parjis2 o di Eugenio Somaini3, compiono una sorta di carrellata delle varie posizioni in campo per offrire dati di documentazione e di conseguente comparazione tra di esse. Analogamente procede Ian Carter in una raccolta di analisi molto importanti sull’argomento4. Nell’impostazione utilitarista, si tratta di favorire l’eguaglianza dell’utilità delle diverse persone che compongono la collettività. In quella libertaria, eguale deve essere la tutela dei diritti di libertà da intrusioni che ne limitino l’esercizio legittimo. Il marxismo (apprezzato da Arnsperger e Van Parjis nel suo aggiornamento di tipo ‘analitico’) privilegia l’eguaglianza economica e la sua efficacia nel superamento delle discriminazioni sociali. Con la sua “teoria della giustizia” John Rawls sostiene l’eguaglianza nella dotazione dei beni primari, necessari a realizzare il piano di vita di ciascuno, e quindi prevede una relativa diseguaglianza nella distribuzione delle risorse a favore dei più svantaggiati. Dal suo canto Sen parla di capacità umane che debbono essere convertite con libere scelte personali in funzionamenti o realizzazioni effettive, grazie a risorse che correggano le disuguaglianze sia materiali sia di cultura e, inoltre, di condizione naturale. Bernard Williams – come rimarca Carter – sottolinea che, nell’essenziale, si tratta di assumere le persone come «eguali dal punto di vista umano» e cioè «considerarle come esseri capaci di darsi degli scopi, tenendo conto dell’importanza delle loro vite secondo il loro punto di vista, in termini delle loro opinioni riguardo a ciò che renderebbe tali vite di successo», senza però far dipendere il rispetto dell’«essere umano» dai successi o dai fallimenti. Questo modo di pensare l’eguaglianza rimanda certamente all’idea di «eguale rispetto» formulata da Kant ma è presente oggi – occorre aggiungere – nella teoria della «razionalità comunicativa» elaborata da Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas. Quest’ultimo, formulando un’etica del discorso5, la caratterizza come l’interazione di interlocutori o di «parlanti» i quali si attribuiscono una medesima dignità quanto alla capacità reciproca di offrire e ricevere un senso in vista di un accordo. Tale filone è stato sviluppato, con maggiore attenzione alle dinamiche concrete del conflitto, dalla teoria del riconoscimento di Axel Honneth, il quale riprende anche la dialettica hegeliana della intersoggettività6. Se al fondo del pensiero dell’eguaglianza c’è – come si è visto – l’apprezzamento dell’«essere umano» in tutti e in ciascuno, è possibile prendere le mosse da questa affermazione per sostenere una prospettiva che approfondisca tale apprezzamento? F R A N C E S C O TO TA R O 6 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 7 Qui vorrei appunto argomentare a favore della pregnanza di un pensiero etico-antropologico che faccia perno sulla dignità umana concepita come dignità di essere. L’eguaglianza verrebbe quindi motivata come diritto universale al conferimento della pienezza di essere, un essere comune e insieme differentemente partecipato. Di tale tentativo di radicamento ontologico dell’etica, e della peculiare antropologia dell’eguaglianza ad essa corrispondente, mi limito qui a mostrare i requisiti grazie ai quali essa può aspirare a esercitare un’efficacia reale suggerendo criteri di azione da applicare in concreti contesti di vita individuale e collettiva. Il primo requisito di tale impostazione etica è infatti l’impegno a far accadere nell’esistenza la piena positività dell’essere. Ciò significa, più precisamente, impegnarsi a conquistare ed estendere le condizioni e le opportunità, storicamente già disponibili o da perseguire oltre le restrizioni del presente, affinché ciascuno sia messo in grado di realizzare il piano di vita del quale è portatore nella ricchezza delle proprie capacità e secondo le scelte ritenute più adeguate alla ricerca di una vita buona. Se perciò la meta sostanziale da condividere universalmente è il conferimento di essere, tale meta si specifica nell’acquisizione e, prima ancora, nel dotarsi della potenza di acquisire, da parte di ognuno, gli elementi che nel loro insieme vengono a comporre un buon equipaggiamento per l’esistenza presa nell’ampia gamma dei bisogni e delle aspirazioni legittime: la decenza dell’abitare, del nutrirsi e del vestirsi, la cura della salute, l’adeguatezza dell’istruzione, la libertà di movimento, l’accesso al lavoro, il coinvolgimento nelle decisioni, la possibilità delle relazioni private e pubbliche ecc. Si potrebbe rilevare che con questo spessore di concretezza e di varietà è configurato il ben-essere (well-being) nelle elaborazioni teoriche del già ricordato “approccio delle capacità” (al nome di Sen, è da aggiungere quello di Martha Nussbaum)7. Da essi – in particolare dal primo – la ricchezza economica, al di là dei parametri quantitativi rimproverati all’impostazione utilitarista, viene correlata alle capacità di agire (agency), diversamente modulate secondo le peculiarità individuali e i contesti storico-politici, ma in ogni caso orientate ad acquisizioni di essere e di avere per il compimento (flourishing) dell’intera persona. In tale visione la prospettiva dell’eguaglianza si intreccia, in equilibrio dinamico, con le scelte appropriate a ciascun individuo. Se l’essere da realizzare si articola in contenuti in grado di promuovere una vita buona, l’etica può aspirare ad essere discorso propulsivo della dignità della persona nella identità propria e nella sua relazione ad altri. Il fondamento di ciò risiede nel fatto che sia io sia l’altro assumiamo il radicamento in un essere che ci costituisce insieme come noi. 7 L ETICA DELL EGUAGLIANZA InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 8 Queste puntualizzazioni ci consentono di ancorare a una condivisione d’essere la norma kantiana dell’eguale rispetto della dignità umana («agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre insieme come scopo e mai semplicemente come mezzo»). Si può proporre una triplice enunciazione normativa: a) sul fondamento dell’essere comune a te e all’altro in quanto insieme appartenenti a un noi, considera sempre l’essere altrui come vorresti fosse considerato il tuo proprio essere; b) sul fondamento dell’essere comune per quanto temporalmente già manifesto, non far mancare anche all’essere altrui le condizioni di cui non priveresti il tuo proprio essere; c) sul fondamento dell’essere comune per quanto temporalmente non ancora manifesto, procura anche all’essere altrui quelle condizioni che ritieni opportune all’incremento del tuo proprio essere. La norma dell’interazione interpersonale messa sui cardini dell’ontologia avrebbe il vantaggio, rispetto al piano formale del rispetto prescritto da Kant, di motivare moralmente alla condivisione di condizioni e, quindi, di beni man mano precisabili nei termini concreti della fruizione delle risorse che la convivenza ha già reso o può rendere disponibili. L’etica di una comune pienezza di essere è allora in grado di suggerire concetti idonei alla interpretazione ponderata dei bisogni e dei desideri in rapporto alle situazioni di carenza e alle attese di compimento. Nella messa a punto non solo di coordinate sintetiche ma anche di strumenti analitici in vista di risultati verificabili nell’esperienza, un’etica siffatta si farebbe vettore efficace della realizzazione di una convivenza assiologicamente arricchita, cioè della costruzione di una situazione di valore tra persone che, alla luce della condivisione di un essere che ci riguarda anzitutto o in profondità come noi, si impegnano a far prevalere la logica del riconoscimento reciproco, quanto all’attribuzione di diritti e di doveri, su quella del dominio e dell’antagonismo. Questa riflessione può essere completata da una proiezione nella sfera religiosa. Qui la pienezza dell’essere si rivela come Dio che è padre «ricco di grazia e di fedeltà», alla quale egli resta fermo anche quando il suo popolo si allontana da lui e manda il figlio per una conciliazione che rifonda la condizione umana come condizione di eguale fratellanza. A partire dall’abbondanza del dono divino, l’eguaglianza può essere persino superata in una diseguaglianza virtuosa, dove ciascuno, replicando l’esempio che viene da Dio con l’invio del figlio per amore dell’uomo, può scegliere di porsi a servizio incondizionato dell’altro. L’etica del primato dell’altro al cui appello si risponde fino a farsene ostaggio – etica con la quale Lèvinas ha forzato i limiti della reciprocità perfettamente simmetrica – è a ben vedere tributaria dell’ispirazione religiosa. Come pure l’etica del dono, che non esclude F R A N C E S C O TO TA R O 8 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 9 l’obbligo della restituzione, ma non si fonda necessariamente su di esso. Una proiezione ulteriore del discorso di un’antropologia basata sulle ragioni dell’essere individuale e collettivo ci potrebbe portare a riesaminare con occhio nuovo i problemi attuali della cittadinanza. Quest’ultima infatti è caratterizzata in misura crescente non solo dalle questioni attinenti alla distribuzione dell’avere, ma anche dalle richieste di riconoscimento di modi di essere e di stili di vita inediti. Perciò le rivendicazioni dei diritti (con i doveri corrispettivi) si sono in buona misura spostate dal livello materiale in senso stretto al livello più propriamente culturale. E in una tale situazione, foriera di conflitti insanabili se non si allargano gli orizzonti di ciò che siamo disposti a considerare dignità umana, una visione più adeguata dell’unità e della molteplicità dell’essere comune diventa decisiva ai fini di una convivenza multiculturale pacifica. Queste linee prospettiche sono allora propulsive della costruzione di una cittadinanza cosmopolitica, la quale è la nuova frontiera rispetto alla quale ogni discorso sull’eguaglianza deve mettersi alla prova in quanto proteso alla realizzazione di un mondo di persone senza discriminazioni8. Francesco Totaro Ordinario di Filosofia Morale Università di Macerata 1 A. K. Sen, La diseguaglianza, trad. it. il Mulino, Bologna 1994, p. 7. 2 Ch. Arnsperger – Ph. Van Parjis, Quanta diseguaglianza possiamo accettare?, trad. it. il Mulino, Bologna 2003. 3 E. Somaini, Uguaglianza, Donzelli, Roma 2002. 4 L’idea di eguaglianza, introduzione e cura di I. Carter, testi di R. J. Arneson, R. Dworkin, Th. Nagel, A. Sen, B. Williams. 5 Vedi, tra i suoi numerosi scritti, Etica del discorso, trad. it., Laterza, Bari 2000. 6 Vedi Lotta per il riconoscimento, trad. it. il Saggiatore, Milano 2002. 7 Di Sen menzioniamo ancora gli scritti raccolti in Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, Marsilio, Venezia 1993 e La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità, il Mulino, Bologna 2000; di M. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2000, trad. it. di W. Maffezzoni, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001, il Mulino, Bologna 2002. 8 Per un approfondimento mi permetto di rinviare a F. Totaro, Etica dell’essere persona e nuova cittadinanza, in F. Botturi, Le ragioni dell’etica, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 41-64. 9 L ETICA DELL EGUAGLIANZA InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 10 Luciano Venturini NEOLIBERISMO ED ECONOMIA SOCIALE DI M E R C ATO: QUALI RUOLI PER IL M E R C ATO, LO STATO E LA SOCIETA’ CIVILE* Come fa a funzionare un'economia di mercato? In un'economia di mercato per definizione non esiste un'autorità centrale e le decisioni economiche vengono prese in maniera decentrata da liberi cittadini, da imprese, da privati, a seconda dei propri interessi. Un'economia di mercato non è un caos di scelte incoerenti anzi, i drammi della storia hanno dimostrato come le economie centralmente pianificate, essenzialmente di area comunista, siano miseramente collassate. Il socialismo reale non è stato in grado di funzionare. La riscossa neoliberista, già cominciata negli anni '80, si è accentuata dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino. La visione che il capitalismo funzioni e che quanto più libero mercato c'è, tanto meglio vanno le cose, ha vinto e si è rafforzata nelle università di élite là, dove si formano gli imprenditori, là dove si plasma e si orienta il dibattito culturale a livello internazionale. E’ la vecchia idea dell'economista Adam Smith della mano invisibile, quella di lasciar fare al mercato, perché quanto più si lascia libertà di movimento, tanto più si produce efficienza e questo comporta, a lungo termine, meno burocrazia, più crescita, più gettito fiscale e con le risorse disponibili si possono attuare anche politiche sociali e di redistribuzione della ricchezza prodotta. La sfida del pensiero neoliberista da questo punto di vista è una sfida che ha argomenti, non è banale ed è il segno dei tempi in cui viviamo ormai da 20/25 anni. Se un Paese vuole crescere e vuole avere giustizia sociale deve affidarsi al mercato e quanto più fa questo, tanto meglio cresce. La battaglia contro le forme tradizionali di welfare è una battaglia giusta, il welfare tradizionale infatti è pesante, costa, è burocratico, comporta un'elevata tassazione e quanto più alta è la tassazione tanto più si disincentivano gli investimenti e quindi la crescita economica, un alto livello di pressione fiscale porta inevitabilmente alla creazione di un'economia sommersa e LUCIANO VENTURINI 10 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 11 all'introduzione di ulteriori distorsioni anche per la competizione tra le imprese. Le implicazioni che derivano da questa dottrina economica sono: meno imposte, più risorse lasciate ai cittadini, più risorse lasciate alle imprese, più incentivi per la crescita e più risorse da destinare alla redistribuzione e quindi, in definitiva, più giustizia sociale. Gli Stati Uniti sono il Paese che ha più libertà in campo economico e per questo crescono più dell'Europa, la quale è ancora fortemente appesantita dai lacci e lacciuoli di un welfare tradizionale. Gli Stati Uniti hanno un basso tasso di disoccupazione, mentre in Europa si viaggia ancora con numeri molto alti; la Gran Bretagna, nel suo piccolo, segue il modello statunitense, mentre i nuovi Paesi dell'Est europeo, scottati dal socialismo reale, si sono buttati verso l'approccio liberista con un'aliquota marginale di imposta abbastanza bassa e una bassa pressione fiscale, raggiungendo tassi di crescita rilevanti. La Cina che era un Paese burocratizzato e fermo da quando Deng ha deciso per la svolta a favore del mercato, ha raggiunto tassi di crescita elevati. I Paesi che privatizzano, applicano, dunque, la deregulation e crescono di più. Ma allora dobbiamo diventare tutti neoliberisti e vivere solo di mercato? Dove sta il punto debole di questa visione? Nel 1967, in Università Cattolica, partì la contestazione studentesca. Io ero una matricola e, per cercare di capire, mi ricordo che lessi qualcosa sull'insegnamento sociale della Chiesa: si trattava di un libretto del vecchio Istituto Sociale Ambrosiano (ISA), credo scritto da Monsignor Guzzetti, quindi quanto di più ortodosso nella presentazione dell'insegnamento sociale della Chiesa ci fosse. In questo libretto ho letto chiaramente che il libero mercato è un idolo come lo è il comunismo e l'abolizione della proprietà privata; ho letto anche che l'insegnamento sociale della Chiesa era sostanzialmente a favore di un'economia mista, quella che fu poi definitiva “economia sociale di mercato”. Da questa lettura ho maturato un atteggiamento di cautela: ho capito che il capitalismo liberista (nel 1967 il capitalismo italiano era ancora un capitalismo dal volto abbastanza disumano) doveva essere criticato senza se e senza ma, con la cautela necessaria da evitare i disastri prodotti da un estremismo non sempre condivisibile. In qualche modo, noi delle Acli. abbiamo sempre lavorato su questa linea usando quindi le dovute cautele. Ma oggi come possiamo reagire a questa ventata di neoliberismo estremo? Quello che noi oggi conosciamo riguardo al funzionamento del capitalismo è qualcosa di molto più articolato e meno ideologico rispetto alla 11 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 12 ricetta standard neoliberista. Gli economisti non la pensano tutti allo stesso modo, ci sono varie scuole di pensiero, non conosciamo soltanto Milton Friedman, abbiamo Joseph Stiglitz, Amartya Sen e altri economisti ancora più critici. Lo stesso “main stream” cioè la corrente principale di pensiero, è oggi molto più ricca rispetto a quella che le scuole più liberiste vorrebbero fare intendere. Si possono trovare nella teoria economica degli argomenti tecnici per contrastare il neoliberismo. Sono argomenti seri e forti per impostare una battaglia culturale. Un primo filone molto importante sottolinea come il capitalismo sia in grado di divorare la concorrenza: ci sono dei processi di concentrazione, basati su forze economiche che portano allo sviluppo di imprese di dimensioni sempre maggiori e strategie di impresa per ridurre la concorrenza, e per creare barriere all'entrata di nuovi concorrenti. Un giovane economista italiano che insegna negli USA, e si chiama Luigi Zingales, ha scritto un libro molto interessante1, dove si sottolinea come i liberi mercati non siano una situazione naturale, spontanea, ma esistano forze economiche potenti che portano alla concentrazione, all'oligopolio e al monopolio. Costruire un monopolio significa mettersi nelle condizioni di guadagnare di più e, se l'obiettivo dell'impresa capitalistica è massimizzare il profitto, la corsa al profitto implica, per forza di cose, la corsa a costruirsi delle situazioni di protezione, di monopolio, escludendo gli altri. Un importante filone culturale di teoria economica sottolinea la necessità di preservare la concorrenza, per cui è estremamente importante che in un Paese ci siano delle istituzioni antitrust volte a conservare questo fenomeno. Mario Monti appartiene a questa visione. Molti colleghi della Bocconi, come Giavazzi, seguono quest'ottica e non sono liberisti proprio perché sanno che per tutelare la concorrenza occorre un intervento pubblico, occorrono delle istituzioni pubbliche di tutela e di garanzia. Questo è un filone molto importante e molto utile perché pone l'enfasi sul fatto che per riscoprire le virtù del mercato, i mercati devono funzionare. Se invece i poteri forti distruggono la capacità di fare concorrenza e quindi di lavorare nell'interesse generale, si va verso un assetto che non è coerente con il bene pubblico. Questa considerazione riduce il potere del mercato e le posizioni di rendita dell'establishment. Dovremmo essere in grado di liberalizzare le professioni per esempio quelle dei notai, degli avvocati etc... e aprire spazi per i giovani che vogliono imparare. Una seconda ragione, per cui questa scuola di pensiero deve essere considerata valida, è che non ha implicazioni liberiste: non è lasciando fare al mercato, come abbiamo visto, che si tutela la concorrenza; ci vuole LUCIANO VENTURINI 12 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 13 un'importante capacità, da parte dei pubblici poteri, di controllare e ci vogliono le authority che devono essere indipendenti, neutrali, rigorose e capaci di far funzionare al meglio i mercati in nome dell'interesse generale. E qui voglio fare un esempio. Veniamo da un mese di agosto che ha segnato un picco negli incidenti aerei, fenomeno che si è accentuato probabilmente anche a causa della liberalizzazione che ha immesso sul mercato le cosiddette compagnie “low cost”. La concorrenza ha attaccato le posizioni di monopolio delle tradizionali compagnie aeree e questo è da considerarsi una cosa sana ma bisogna tuttavia stare attenti che, se abbiamo diverse compagnie “low cost” in competizione, queste possono essere spinte a ridurre gli standard di sicurezza e quindi è chiaro che nella misura in cui si liberalizza per far funzionare i mercati e abbattere le tariffe, la responsabilità del pubblico deve essere ancora più forte. In un articolo apparso sul “Wall Street Journal” in cui veniva intervistato Zingales, si sottolinea proprio come standard di sicurezza, nel campo delle compagnie aeree, siano indispensabili per attirare nuovi entranti e per garantire quote di mercato alle nuove compagnie e quindi è nell'interesse di queste ultime che ci siano gli standard di sicurezza perché, senza tali standard, i clienti preoccupati finirebbero per optare di volare solo con compagnie già affermate sul mercato e quindi ciò comporterebbe, di fatto, un rafforzamento del regime di monopolio per queste ultime. Non sta scritto, quindi, da nessuna parte che un'economia di mercato lasciata a se stessa crei uno dei migliori mondi possibili. Ci sono dei problemi: innanzitutto abbiamo un problema di giustizia distributiva. L'intensità della competizione non va d'accordo con la giustizia distributiva, una competizione sempre più stretta e marcata significa che chi è forte si afferma e chi è debole resta al palo e questo è vero sia a livello individuale, sia per le imprese, sia per un intero Paese. Più competizione significa poi anche affrontare il problema di una giustizia distributiva. Ma attenzione, non c'è solo la giustizia distributiva in gioco, bensì anche ulteriori aspetti quali: la qualità sociale e la sostenibilità, aspetti legati al senso dello sviluppo economico, alle modalità di funzionamento dell'economia e della società. Se accettiamo una società di mercato in cui il mercato abbraccia ogni cosa, si può dimostrare rigorosamente che noi andiamo incontro a gravi problemi nell'ambiente umano e in quello naturale (come ne parla la Centesimus Annus). Un conto sono infatti le politiche di giustizia redistributiva atte a contrastare la povertà, e un conto sono invece le politiche fatte per affrontare i fallimenti del mercato sul fronte della qualità sociale e della sostenibilità. Gli economisti sanno benissimo che i problemi 13 NEOLIBERISMO E ECONOMIA DI M E R C ATO InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 14 dell'inquinamento devono essere affrontati dalle politiche ambientali, perché le imprese non tengono conto dei costi sociali. Quindi se vogliamo parlare di sostenibilità ambientale servono interventi. La qualità sociale è, a suo modo, una questione molto delicata e molto seria, il mercato funziona benissimo per quanto riguarda i beni privati ma fallisce miseramente per i beni pubblici che sono numerosi, complessi e vari (vedi infrastrutture, modalità sui trasporti). Per i beni pubblici occorrono decisioni e risorse pubbliche e qui ci scontriamo con una delle contraddizioni più forti delle economie di mercato: ai beni pubblici manca visibilità e sostegno economico. Avete mai sentito, infatti, uno spot pubblicitario sui beni pubblici (pubblicità progresso e simili); i beni privati, invece, sono supportati da investimenti forti di marketing e noi, cittadini, siamo sollecitati a destinare il nostro reddito disponibile verso i beni privati e non verso i beni pubblici, perché i beni pubblici sono in qualche modo finanziati attraverso l'imposizione fiscale e siccome nella società in cui viviamo l'enfasi esasperata è sui beni privati, ovviamente ognuno di noi vuole avere più reddito disponibile per acquistare beni privati e non è disposto a vedere il proprio reddito ridotto dalle imposte. Le società di mercato lasciate al mercato corrono il rischio di avere una composizione sbilanciata tra beni privati e beni pubblici, un equilibrio che invece dovrebbe essere sempre assolutamente preservato. Il capitalismo è un sistema economico che funziona senza richiedere a nessuno virtù etiche superiori quali l'altruismo, la compassione, il farsi carico degli altri perché il mercato funziona senza richiedere di farsi prossimo. L'altruismo, la compassione, la conversione del cuore, quello che fa di un uomo l'uomo nuovo, sono virtù etiche superiori. Il comunismo è fallito perché non è stato in grado di creare l’uomo nuovo. Il mercato funziona sempre perché le imprese puntano al profitto e il meccanismo della concorrenza premia i migliori, ma c'è il risvolto della medaglia che sta nel fatto che le virtù etiche superiori, se non vengono adeguatamente coltivate, rinsecchiscono. Quali sono le conseguenze antropologiche di tutto questo? Il fatto che il capitalismo così come è non può reggere sotto le contraddizioni etiche. Non possiamo accontentarci di una società di mercato allo stato puro: il mondo, a lungo andare, va alla deriva con questo liberismo sfrenato. Abbiamo bisogno di vedere bene quelli che sono i limiti, i problemi e i fallimenti e dobbiamo affrontare con lucidità questo problema se vogliamo un'economia sociale di mercato. Un modello che abbiamo sempre avuto in testa ma dobbiamo sforzarci di continuare a pensarlo perché è il modello corretto per vincere la battaglia delle idee e la battaglia politica. Le LUCIANO VENTURINI 14 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 15 conseguenze devastanti del fondamentalismo di mercato le possiamo vedere chiaramente nella governance della globalizzazione e nella grave crisi che sta attraversando l'Europa. Nella lettura che io propongo ritengo che i limiti evidenti di non funzionamento nel nome dell'interesse globale e la stessa crisi dell'Europa dipendano proprio da un'influenza nefasta che il fondamentalismo di mercato ha esercitato sia a livello globale che in Europa. Partiamo dall'Europa. In Europa abbiamo l'integrazione dei mercati e la moneta unica, abbiamo decisioni pubbliche prese a livello federale e la libera circolazione delle merci: tutte cose positive dal punto di vista di un approccio neoliberista; ma non abbiamo, a livello europeo, altre istituzioni pubbliche che siano di governo e di legittimazione. La retorica neoliberista dice che gli USA crescono perché c'è flessibilità nel mercato del lavoro e c'è libertà nei mercati, mentre l'Europa non cresce in quanto è frenata da un mercato troppo rigido e soggetto a troppa burocrazia. E' chiaro che ogni cosa, come anche il Welfare State, va rivista, ma il problema sta in come la si rivede. Gli Stati Uniti crescono perché hanno una politica industriale a livello dei singoli Stati e le decisioni pubbliche di orientamento strategico vengono prese a livello federale: comincia forse a profilarsi qualcosa anche a livello federale europeo ma non basta. La moneta unica è una grande innovazione ma da sola non è sufficiente, bisogna saperla gestire. La globalizzazione significa integrazione dei mercati, è un processo che va benissimo per nuovi mercati emergenti come Cina e India e alcune nuove realtà del panorama dell'ex blocco sovietico (Ungheria, Repubblica Ceca etc...) ma la globalizzazione va governata perché può andar bene per chi ha la forza, la fortuna, il talento, la salute ed un certo assetto istituzionale; per i disperati dell'Africa, poveri, con conflitti etnici e con una qualità istituzionale devastante, certo no. Purtroppo la globalizzazione sta aumentando drammaticamente le disuguaglianze fra Paesi avanzati e Paesi arretrati. Nei cosiddetti Paesi avanzati non c'è nessuno che non abbia accesso ai farmaci salvavita mentre in Africa gli stessi farmaci, come quelli contro l'AIDS, non sono disponibili. Il nostro sistema sanitario nazionale, che è fra i migliori al mondo, garantisce per tutti la possibilità di assumere quei farmaci che permettono di salvarsi la vita. La globalizzazione sta camminando sulla integrazione dei mercati e sulla liberalizzazione dei movimenti di capitali, cioè sostanzialmente sta ripercorrendo in qualche modo quella che è stata l'esperienza dell'Unione Europea. 15 NEOLIBERISMO E ECONOMIA DI M E R C ATO InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 16 Bisogna riconoscere che il fondamentalismo di mercato ha realizzato alcune forme di integrazione commerciale e di libera circolazione delle merci e dei capitali ma non si è preoccupato minimamente, nella sua visione neoliberista, che per il mercato sono necessarie delle istituzioni di legittimazione e politiche redistributive. Certo non abbiamo un'autorità di governo mondiale, ma bisognerà trovare il modo per riuscire a completare questa grave lacuna, altrimenti il processo di globalizzazione creerà non il migliore dei mondi possibili ma il peggiore dei mondi possibili. Luciano Venturini Prof.essore di Economia Politica all’Università Cattolica di Milano *Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo modello sociale”. 1 Luigi Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004. LUCIANO VENTURINI 16 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 17 Carlo Stelluti Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella societ attuale IL LAVORO* I tre valori laici fondamentali dell'Europa moderna sono: la liberté, la fraternité e l'égalité. La libertà con tutta probabilità si è affermata con parecchi milioni di morti, dopo 215 anni di lotte e conflitti all'interno di una fase di grande trasformazione economica e sociale del mondo e in particolare dell'Europa. La fraternità è un valore ormai acquisito. Per quanto riguarda l'eguaglianza questo valore contiene ancora una carica eversiva che desta non poche preoccupazioni; personalmente, da sindacalista, ricordo molto bene come durante la grande stagione di lotte sindacali si teorizzasse l'egualitarismo, un concetto che faceva paura a molti in quanto si traduceva, in concreto, nella rivendicazione di aumenti salariali uguali per tutti. Quindi, se vogliamo, il discorso di égalité, è ancora tutto da conquistare. Il titolo delle giornate di studio di quest'anno* non mi convince del tutto, sembrerebbe oramai che la società dei due terzi sia definitivamente tramontata. Ma si tratta di una suggestione sociologica perché i dati statistici, che ci ha portato David Benassi, ci suggeriscono che non ci sono due terzi di eguali e un terzo di diseguali ma la scala delle diseguaglianze è molto più ampia e soprattutto più stabile nel tempo. Non credo che si possa dunque immaginare oggi un nuovo modello sociale magari un po' regressivo che produca metà e metà, qui l'impressione è che la situazione delle diseguaglianze sia molto più profonda e inamovibile. Ma allora cosa significano parole come 'uguaglianza' e 'diseguaglianza'? Il concetto di uguaglianza si estrinseca soprattutto in ambito giuridico: tutti siamo uguali davanti alla legge dove l'uguaglianza giuridica assume il significato di giustizia sociale, giustizia nell'applicazione della norma in quanto tale a fronte di casi simili si applicano conseguenze simili. Ma dal punto di vista delle regole che producono eguaglianza viviamo in una fase, non solo in Italia dove, a seguito di un'esigenza di maggiore competitività del sistema economico-produttivo, si tende ad attribuire alle regole degli elementi che riducono la possibilità di competitività del sistema. E quindi la parola d'ordine è ridurre questo sistema di regole, anche il Libro Bianco sulla contrattazione e legislazione del lavoro si muoveva in questa 17 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 18 direzione. Ne consegue la tendenza a fare in modo che i contratti nazionali siano contratti leggeri e di principio e a trasferire il livello della definizione delle regole sempre più in basso e sempre più all'interno delle singole realtà aziendali. Una tendenza che sembrerebbe liberatoria da un punto di vista economico ma che ha delle conseguenze inevitabili sulle condizioni di vita dei lavoratori e può portare a diseguaglianze anche in ambito giuridico normativo. Le diseguaglianze sociali in Italia sono elevatissime, ad esempio a parità di lavoro e di salario c'è disparità tra lavoratori che possiedono o non possiedono una casa in proprietà. Chi ha il potere non dovrebbe tollerare che esistano situazioni di profonda diseguaglianza, di povertà e di indigenza. In politica c'è la visione negativa di una destra un po' liberista che rifiuta interventi a favore del superamento delle diseguaglianze perché ritiene siano limitanti della libertà dei cittadini e pensa che l'eguaglianza sia un elemento negativo perché una società che si regge sulla competizione e sulla selezione se tende all'eguaglianza mortifica questi due elementi. C'è poi chi considera il concetto di diseguaglianza un fatto naturale: se il più ricco d'Italia associa il concetto che è più ricco perché è più bravo, è chiaro che il più povero è il più stupido e perché dovremmo premiare gli stupidi? E perché dovremmo fornire un sostegno agli indigenti che sono quelli che non hanno voglia di lavorare? In questo modo nessuno andrebbe più a lavorare. Allora è chiaro che la diseguaglianza non viene considerata allo stesso modo. Ci sono poi altri concetti di eguaglianza dove si parte da un presupposto di carattere morale ed etico: tutti gli esseri umani sono uguali davanti a Dio e davanti agli uomini, ma se tutti siamo uguali tutti abbiamo il diritto di vivere decentemente la nostra vita. Questo filone tende a superare le diseguaglianze dovute alle distorsioni sociali, alla sorte e a tutti gli interventi volti a superare gli squilibri e i contesti sfavorevoli nei quali la popolazione vive. Nella storia recente gli interventi sulle diseguaglianze non sono stati concepiti tutti allo stesso modo. Ci sono state correnti di pensiero che vedevano le diseguaglianze come il risultato di logiche di mercato e della proprietà privata e quindi si è intervenuto su questo, si trattava dei sistemi autoritari di ispirazione comunista che tendevano in questa direzione, tragici sono stati i costi in termini di libertà. Nella società moderna si tende sostanzialmente al superamento delle diseguaglianze intervenendo sugli effetti attraverso scelte collettive e selettive (pari opportunità, reti di protezione, forme di inclusione sociale, forme di redistribuzione delle risorse, miglioramento dell'accesso ai beni fondamentali). E' chiaro che combattere le diseguaglianze rimane, per molte C A R L O STELLUTI 18 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 19 formazioni politiche, la ragione fondamentale della propria azione politica. Non è un caso che la cultura liberista veda la politica come un ostacolo all'esplicarsi del libero mercato e quindi tenda sostanzialmente a teorizzare l'antipolitica. Il bene lavoro è uno dei beni fondamentali. Così recita anche la nostra costituzione con la frase: “L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro...” perché produce reddito e attraverso il reddito si realizza la possibilità di sopravvivenza delle persone. Ma il lavoro è anche realizzazione personale, è uno strumento che conferisce cittadinanza e chi non l'ha è considerato una persona subalterna che non ha diritti all'interno della società, il lavoro è quindi un formidabile strumento di coesione sociale. Dall'insieme di questi concetti ne deriva l'interesse collettivo affinché tutti i cittadini possano avere diritto di accesso al bene lavoro. Il lavoro è poi centrale anche dal punto di vista del concetto di eguaglianza, perché dietro al lavoro c'è l'istruzione e la formazione. I laureati hanno più probabilità di trovare un lavoro rispetto a chi non ha titoli di studio, ma non solo il laureato ha più probabilità di avere un buon lavoro che gli dia soddisfazione e che possa completare la sua personalità; infine il laureato ha più probabilità di avere una buona retribuzione. L'accesso al bene lavoro dipende dunque dalla preparazione. Ma attenzione: il lavoro tende a produrre quella ricchezza che consente, ripartendola, di superare le diseguaglianze; quindi dal lavoro discende il sistema di protezione sociale, le pensioni e quindi la salvaguardia del soggetto debole in quanto anziano che non ha più la possibilità di lavorare. Il lavoro produce poi profonde diseguaglianze fra chi lavora continuativamente e chi, non per sua scelta, deve farlo saltuariamente e poi fra lavoratori dipendenti e professionisti. Il lavoro, che è un bene che sta sul mercato, dovrebbe essere regolato dalle leggi del mercato: del prezzo e della qualità, cioè quanto mi faccio pagare e la prestazione professionale che offro. Ma non sempre le cose si svolgono in questo modo. L'accesso al mercato del lavoro dipendente sta subendo delle profonde trasformazioni. In passato si guardavano i bisogni del lavoratore, oggi criteri di questo tipo non ci sono più, oggi l'azienda che necessita di un lavoratore mette in moto meccanismi di selezione interni che sono del tutto personali e discrezionali. Purtroppo viene data scarsissima enfasi alla preparazione e l'azienda non ha alcuna intenzione di investire nella formazione del lavoratore. E' chiaro che questa logica comporta delle profonde diseguaglianze nell'accesso al lavoro. Un mercato corretto dovrebbe valutare le capacità e le professionalità, ma nella logica della selezione si introducono moltissime variabili, alcune odiose come la 19 LE DISEGUAGLIANZE NEL LAV O R O InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 20 nazionalità, la religione, l'età, il sesso, la bella presenza, l'handicap e la disabilità (dove sussiste ancor oggi un profondo pregiudizio), il territorio, la politica. Si sta affermando un principio, soprattutto nella realtà milanese, dove nelle municipalizzate non viene assunto più nessuno per bando di concorso, le scelte vengono fatte discrezionalmente da parte di chi gestisce queste aziende. Ma è questo il mercato? Questa è un'alterazione colpevole del mercato. Pensiamo al settore ospedaliero nell'area milanese e lombarda dove l'appartenenza a qualche forza politica è l'elemento fondamentale per fare carriera e in taluni casi per essere assunti. Altro che modernità, sembra di essere tornati al Medioevo! Vi sono poi diseguaglianze di accesso al lavoro, per esempio delle professioni che spesso sono corporazioni chiuse dove conta il censo, la famiglia, la casta, fra grandi e piccole aziende, nella possibilità di carriera e fra pubblico impiego ed impresa privata. Differenze poi le abbiamo nel tipo di contratto con l'introduzione del pacchetto Treu prima e della Legge 30 poi: il risultato è che abbiamo almeno una quarantina di forme di inserimento nell'attività lavorativa diverse l'una dall'altra e che contengono profonde diseguaglianze. Tempo determinato e tempo indeterminato. Il tempo indeterminato è sostanzialmente protetto, regolato dalla contrattazione mentre il lavoro atipico, con particolare attenzione al tempo determinato, è un lavoro generalmente meno professionale e regolato da norme individuali. Ma è tollerabile questa diseguaglianza? Perché viene accettata? Perché sostanzialmente non è conosciuta e non c'è consapevolezza. C'è qualche sindacalista che ha teorizzato una quota di diseguaglianza come fisiologica. Vorrei che si operasse nella direzione tesa non dico a cancellare il lavoro atipico in quanto tale, che alcune risposte può anche darle, ma almeno che vengano create reti di protezione affinché non venga sopportato solo dal lavoratore dipendente l'onere di una competizione internazionale all'interno di un sistema economico assolutamente pigro e che non guarda al domani. Dentro l'atipico vi sono poi grandi diversità e le conseguenze sociali sono rilevanti, si pensi ad esempio che cosa significa un lavoro atipico a tempo determinato per un giovane e per un anziano. Il giovane si adatta più facilmente ad un ricambio di lavoro e se si trova temporaneamente senza lavoro ha la famiglia che lo protegge; per l'anziano invece, magari con figli a carico, il lavoro determinato diventa un elemento di precarietà, c'è poi differenza fra chi possiede un'elevata professionalità e chi invece non l'ha. Chi ha un'elevata professionalità nel lavoro atipico contratta e ogni cambio può essere una nuova opportunità, chi ha una bassa professionalità è preso, invece, per fame. C'è chi dunque lo sceglie e chi lo deve subire. E' chiaro che a fronte C A R L O STELLUTI 20 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 21 di una norma uguale le condizioni sociali del lavoratore possono essere profondamente diseguali. Queste differenze dentro il mondo del lavoro vengono oggi giustificate con l'esigenza di ridurre i costi per garantire la competitività sui mercati internazionali, molte di queste normative hanno come effetto una compressione del salario; ora è chiaro che non si può accettare che l'unica soluzione sia la riduzione dei costi per mantenersi sul mercato internazionale, perché i costi di paesi in via di emersione sono talmente bassi che se noi volessimo essere competitivi con quei costi dovremmo dare 50 euro al mese ad ogni cittadino italiano compresi i manager che hanno retribuzioni su scala di diseguaglianza scandalose. Allo stato attuale delle cose, tenuto conto del conflitto esistente oggi in Italia, sembrerebbe di sì, ma perché non ci sono proteste per lavori e condizioni di lavoro anche dure e comunque non paritarie? Come mai non succede nulla? Il diritto di sciopero è un diritto sancito costituzionalmente, tutti se ne possono avvalere ma non tutti lo possono esercitare, concretamente oggi lo sciopero lo fa solo chi ha la stabilità del posto di lavoro perché il lavoratore a progetto se sciopera viene lasciato a casa il giorno successivo. Le diseguaglianze si superano sia attraverso scelte politiche che attraverso scelte sindacali. Notiamo come vi sia una profonda carenza di assunzione di responsabilità su questo punto, viviamo un dibattito strabico all'interno del nostro paese dove si discutono questioni che non attengono alla vita reale delle persone. Chiudo con una frase di Gorrieri che faccio mia: “le considerazioni sopra espresse possono apparire ingenerose nei confronti del centro sinistra e nei confronti del programma elettorale della destra che si affacciava al governo nel 2001; fanno pensare ad un completo abbandono dell'intento di andare incontro alle esigenze dei ceti meno abbienti, di riequilibrare le profonde diseguaglianze esistenti nella società italiana”. Un'amara constatazione che vale ancora oggi, a cinque anni di distanza da quando veniva espressa, e forse è ancora più accentuata da una sostanziale assenza di dibattito politico e sociale attorno al problema della diseguaglianza. Carlo Stelluti Sindaco di Bollate *Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo modello sociale”. 21 LE DISEGUAGLIANZE NEL LAV O R O InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 22 Mario Mozzanica Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella societ attuale IL W E L FARE* Il welfare nasce nella storia e nel tempo come luogo espressivo delle democrazie, per garantire questa dimensione dell'uguaglianza. Le democrazie si sono costruite dentro due percorsi: i diritti civili e politici e i diritti sociali. I diritti civili riguardano l'orizzonte delle uguaglianze che chiamiamo formali (la libertà di parola, di espressione, di movimento, di religione) mentre i diritti politici riguardano le differenziate forme di rappresentanza di vita, di governo etc... . Dalla fine dell'800 ci si rende conto tuttavia che questi due tipi di diritti non bastano e che è necessario, sempre di più, tutelare un altro settore emergente: quello del sociale. Si sta parlando troppo poco del rischio dei cambiamenti che si vogliono apportare alla nostra carta costituzionale, la riforma va a toccare l'art.3, comma 1 dove si fa riferimento ai diritti civili e politici e il comma 2 che concerne i diritti sociali: libertà, uguaglianza e fraternità. La fraternità è quella dimensione che ti fa riconoscere l'umano che è comune a tutti; al di fuori di questa dimensione si corrompe il concetto di libertà e di uguaglianza. Perché oggi non si parla della diseguaglianza nel mondo del lavoro? Sono d'accordo sul discorso delle pari opportunità che, tuttavia, deve coniugarsi con quello delle pari responsabilità. Oggi c'è una enfasi esagerata sul tema della libertà, ma la libertà non può essere soltanto negativa, nel senso di poter fare tutto ciò che si vuole avendo soltanto il limite del confine giuridico: questa non può essere definita libertà. Io penso che oggi non si debba tanto educare alla libertà bensì sia necessario educare il concetto di libertà. Nello scenario moderno del welfare sono avvenuti grandi cambiamenti: per la prima volta nel nostro Paese non abbiamo più un sapere, un ethos condiviso (un valore comune), non esiste più la metanarrazione, cioè quel racconto del nascere, del vivere, dell'amare, del soffrire, del gioire e del morire che connota un popolo. Noi oggi siamo una moltitudine non più un MARIO MOZZANICA 22 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 23 popolo, ma senza popolo non può esistere la democrazia. Nella complessità della frammentazione le molteplici appartenenze rendono ardua la costruzione di un'identità condivisa. Il giovane oggi vive ogni appartenenza con riserva non riuscendo a riconoscersi veramente in qualche cosa. Oggi è più difficile vivere la vita, il tempo, i luoghi, perché siamo vissuti dalla vita, dal tempo, dai luoghi e tutto passa sopra le nostre teste senza che riusciamo a coglierne il significato. Nel nostro tempo calchiamo la mano molto sul come affrontare la vita ma siamo diventati un po' disfasici sul dove; nelle nostre città ci blindiamo nelle case lasciando fuori il marasma, la moltitudine e non percepiamo che la solitudine, in cui ci rifugiamo, rappresenta una trappola che può far scattare anche grandi violenze intrafamigliari. Meno ancora ci chiediamo poi il perché viviamo, rimuoviamo così radicalmente il tema della morte o meglio ne abbiamo una visione mediatica financo esagerata, ma il messaggio che passa è quello “di stare tranquillo tanto quella cosa non è successa e non succederà a te”. Tutto questo tocca la sfera dei diritti sociali con una forte personalizzazione della vita da parte di ognuno di noi e comporta un discorso estremamente interessante perché l'orizzonte del senso della vita oggi è consegnato alla libertà ed intenzionalità del cucciolo d'uomo. Il precetto educativo che andrebbe trasmesso da parte di un padre o di una madre, per rendere ragione ai propri figli sul fatto di averli messi al mondo, è quello di dire loro che il mondo è bello, perché se ad un adolescente non si spiega che lo si è messo al mondo per lui, in quanto è lui che vale e non perché son bravo io come genitore, questo figlio si sente di seconda categoria. E' chiaro che oggi il tema della libertà, non nel senso liberistico del termine, è un discorso molto importante ma il concetto della personalizzazione della propria vita, del proprio tempo, delle proprie scelte porta verso un orizzonte diverso anche riguardo al welfare. Il nostro welfare riferito alla previdenza è sempre stato visto in termini di monetizzazione mentre sanità e assistenza sono sempre state vissute come un orizzonte di offerta di servizi, ma se io faccio crescere il discorso della personalizzazione è chiaro che tendo a monetizzare anche questi due settori. I voucher socio-sanitari introdotti dalla Regione Lombardia dove, in base ad una quota erogata, il cittadino può comprare la prestazione domiciliare da chiunque, hanno cambiato radicalmente le aspettative, è difficile allora pensare ad un welfare di uguaglianza. Se parliamo di welfare dobbiamo ridiscutere un approccio antropologico al soggetto e alla persona. 23 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 24 E' finito il tempo in cui si poteva parlare soltanto di bisogni, in quanto il modo postmoderno, con cui il bisogno si presenta, è l'orizzonte del desiderio e quel bisogno è carico di quella intenzionalità che io col tempo gli do. Il bisogno dice prestazione, il desiderio dice relazione, il bisogno dice appagamento, il desiderio dice riconoscimento. Nel nostro Paese il terzo Settore non è nato come una serie di soggetti che si organizzano per dare delle risposte. Io ricordo i primi seminari fatti con la fondazione Zancan negli anni '65 '70, dove i sociologi dicevano che il volontariato non si sarebbe mai sviluppato nel nostro Paese perché era il tempo in cui si stava consolidando un discorso di un Welfare State strutturato. Invece il volontariato è andato avanti, si è strutturato come impresa sociale ed è entrato a pieno titolo nell'orizzonte del welfare soprattutto sui temi dell'assistenza e della sanità dove occorrono sempre più un mix di garanzie ma anche di modalità relazionali e di competenze. Rileggiamo dunque il tema del welfare e dell'uguaglianza alla luce del cambiamento culturale che è avvenuto in un discorso di nuove aspettative. Nella forbice 80/20 (il 20% della popolazione dei Paesi avanzati che utilizza l'80% delle ricchezze del pianeta) anche all'interno di questo 20% ci sono delle differenze e non si venga a dire che sono diminuite le povertà assolute in Italia, sotto un certo punto di vista può essere anche vero, ma andiamo a vedere come sono cresciute le povertà relative. Non per nulla si è parlato di Welfare Community cioè di tutela del soggetto che tenga conto di una personalizzazione e di una territorializzazione. Dobbiamo tenere insieme due fattori: da una parte i livelli essenziali e dall'altra l'autosufficienza. I primi tutelati dall'art.119 III e V comma della Costituzione, devono essere garantiti anche economicamente dallo Stato. In Italia lo Stato spende due punti mediamente in meno della media europea nel comparto della sanità. Non parliamo poi del reddito minimo di inserimento o reddito garantito, che è nato in Italia da una finanziaria, e che è stato consacrato poi con una legge-quadro dei servizi alla persona, che implicava un patto con il soggetto di impegno professionale di lavoro. Altro grande tema ignorato: l'autosufficienza: siccome non dobbiamo mettere le mani nelle tasche dei cittadini viene decisa, in maniera bipartisan, una tassa di scorporo sull'Irpef. Io credo che questo nasca anche da un difetto di riflessione culturale sui problemi e penso che un'associazione come le Acli debba pensare anche su tematiche di questo tipo, in quanto una riflessione sullo scenario socioculturale riguarda molto anche il tema dell'evangelizzazione e noi potremmo riuscire a vivere in un Paese sempre MARIO MOZZANICA 24 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 25 più diverso e diversificato se saremo capaci di riconoscere e di condividere l'umano che è comune, se non c'è questo intendimento non vi potranno essere regole eticamente condivisibili. Quali sono allora i cardini del welfare? Il volontariato sociale non può essere un'alternativa al discorso pubblico, semmai piuttosto una sinergia con quest'ultimo. Un discorso di sussidiarietà non può prescindere da un coinvolgimento dello Stato, certo bisogna evitare che lo Stato assuma un atteggiamento prevaricante, ma esso deve comunque sempre esserci per garantire e tutelare la libertà e lo sviluppo della persona. Non può esserci un mercato senza regole, noi abbiamo vissuto una stagione di privatizzazioni ma senza che fossero seguite da liberalizzazioni, secondo una logica lobbistica. Si crea quindi una differenza fra i bisogni di sussistenza, ad esempio fra anziani autosufficienti e anziani non autosufficienti: perché se io sono un anziano e ho una pensione media e sto bene vivo, ma se mi capita una invalidità dal punto di vista fisico o una forma di demenza senile o di Alzheimer ecco che allora non ce la faccio più. C'è poi un welfare che tocca anche il discorso dell'esistenza: questa è la sfida nuova del welfare e del postmoderno. In quel 20% di popolazione del primo mondo abbiamo creato delle povertà immateriali, pensiamo ad esempio al tema della sofferenza psichica e alle svariate forme di disagio che vanno dai disturbi alimentari, all'uso di sostanze stupefacenti, all'alcolismo etc. Il welfare ha davanti a sé compiti nuovi, sia nella classificazione che nella gerarchizzazione dei bisogni; è chiaro che un difetto di cultura ci potrebbe portare a rivedere i livelli essenziali di assistenza e di istruzione, per esempio la chirurgia estetica potrebbe diventare un livello centrale di assistenza e magari evitare di curare, come avviene già in certi Paesi europei, il malato di Alzheimer dopo una certa età. E poi abbiamo una disuguaglianza che tocca l'arco esistenziale della vita, una famiglia oggi fa fatica, va aiutata e non solo con un sussidio di tipo economico, ma soprattutto con sostegni di tipo civile. Dobbiamo accompagnare il discorso della famiglia, che non deve essere solo compito della Chiesa; dobbiamo far capire cosa vuol dire fare un figlio, probabilmente dobbiamo pensare ad un discorso di garanzie ed insieme anche di differenziazioni temporali. Si è legiferato molto in tema di sanità ed in questo marasma di leggi è possibile che si perdano di vista i livelli essenziali di assistenza. Ogni Regione, in pratica, può fare quello che vuole in tema di sanità ma è necessario che siano date garanzie sociali essenziali. 25 LE DISEGUAGLIANZE NEL W E L FA R E InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 26 E' importante poi che venga affrontato un discorso di ripartizione delle risorse col federalismo fiscale: lo Stato, art 19 comma 5, deve prevedere delle risorse aggiuntive nel caso che le regioni non fossero in grado di garantire i diritti sociali essenziali, e all'art 120, II comma si dice che se una regione che ha avuto il federalismo fiscale e i diritti aggiuntivi e se ne infischia di adoperare le risorse per migliorare la condizione dei propri abitanti, c'è il potere, da parte dell'autorità centrale, di sostituirsi mandando a casa l'assessore e il direttore dell'azienda sanitaria. Ma questo discorso è rimasto silente ed inattuato. Le Ussl, che erano espressioni dei comuni in genere associati e che garantivano una piena integrazione con il decreto 502, sono state abolite creando le Asl (Aziende Sanitarie Locali), con Amato nel 1992. Avere portato le aziende ospedaliere separate dalle Unità Socio-Sanitarie Locali vuol dire avere introdotto una linea di mercato nella sanità che ci ha portato ai problemi che abbiamo anche oggi in Regione Lombardia, le liste di attesa nascono da un'eccedenza di offerta nelle cose remunerative e un'assenza di offerta, soprattutto pubblica, per le prestazioni importanti. Dobbiamo lavorare e pensare quindi su alcuni temi. La globalizzazione ha portato, sottilmente non solo nel nostro Paese, a forme di deistituzionalizzazione crescente con lo svuotamento delle competenze dello Stato, con un passaggio dalla decisionalità al decisionismo e con una forma di verticalizzazione del potere e di personalizzazione del discorso politico. I problemi non si risolvono con leader carismatici ma con programmi politici. C'è poi una crisi di fiducia nelle istituzioni: la società molecolare di cui ha parlato De Rita, sta diventando la società della moltitudine (una somma di persone senza fine). E stiamo attenti all'istinto che queste moltitudini possono avere. Dobbiamo essere in grado di chiedere regole istituzionali: se privatizziamo e liberalizziamo abbiamo bisogno di autorità terze che controllino. Il pubblico deve essere referente e garante per il cittadino anche se di fatto magari gestisce sempre di meno. Attenzione anche al criterio dell'esternalizzazione che non deve essere solo un criterio di tipo economico: se io esternalizzo una funzione radicalmente pubblica, per cui il controllo mi appartiene come pubblico e mi costa tanto quanto gestirla, non vale proprio la pena di fare questa operazione. La partita sulla sussidiarietà va ripresa: c'è un tipo di sussidiarietà verticale o istituzionale che non è solo passiva ma è essenzialmente attiva: lo Stato deve creare le condizioni perché le Regioni possano fare il loro mestiere e le Regioni a loro volta, perché Province e Comuni possano MARIO MOZZANICA 26 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 27 lavorare. In Lombardia le Aziende Sanitarie Locali sono di fatto espressione della Regione e allora è chiaro che la Regione utilizza le Asl per controllare anche i Comuni, magari con il beneplacido dell'Anci. C'è poi una sussidiarietà di tipo orizzontale o circolare (art. 118 ultimo comma: lo Stato, le Regioni etc favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale di bene comune sulla base del principio di sussidiarietà), che non è soltanto gestionale ma è essenzialmente espressivo-partecipativa (art.1 comma IV della L.338). E' importante, quando si fanno le regole sul welfare locale dei piani di zona, che ci sia una partecipazione costruttiva di tutti i soggetti del sociale. Occorre infine tornare ad un discorso di riflessione culturale nelle parrocchie, nei luoghi che ci sono rimasti di aggregazione sociale, ecclesiale e di cittadinanza: se non si passa da questa strada il welfare rimane un tema debole. Non c'è una libertà totale e assoluta, la libertà positiva è quella che io possa, con le condizioni di bene comune, scegliere ciò che è bene per me, riconoscendomi in quello zoccolo che si chiama l'umano che è comune e che sarà la nuova base di ogni discorso costituzionale. Il problema, andando avanti, sarà proprio quello di creare una nuova base costituzionale sulla quale costruire un consenso civile, perché il welfare non è solo un problema di diritti sociali ma anche un problema di democrazia. Mario Mozzanica Docente di Organizzazione dei Servizi alla Persona, Università Cattolica di Milano *Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo modello sociale”. 27 LE DISEGUAGLIANZE NEL W E L FA R E InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 28 Giorgio Benvenuto Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella societ attuale IL FISCO* La politica fiscale è fondamentale e determinante se si vuole ripartire equamente la ricchezza all'interno di un Paese. In Italia abbiamo un sistema fiscale nel quale gli elementi di eguaglianza, in questi ultimi anni, si sono notevolmente alterati, ciò a seguito di mutamenti profondi avvenuti in campo economico. La globalizzazione è sicuramente fra gli elementi che hanno portato, anche in ambito fiscale, a diseguaglianze e contraddizioni: era compito dei politici prevedere gli effetti che la concorrenza avrebbe portato soprattutto sulle scelte finanziarie e sulle possibilità che oggi hanno i capitali di ignorare le frontiere e di poter essere trasferiti da una realtà poco profittevole ad una ben più redditizia. Bisogna quindi avere presente lo scenario che è mutato a livello mondiale e al contempo resistere agli slogan che, di questi tempi, tendono ad influenzare moltissimo il dibattito politico fino a diventare quasi dei luoghi comuni. La necessità di ridurre le tasse è diventata ormai una bandiera che suggestiona sempre più larghi strati economici e sociali e viene assunta come baluardo ignorando il problema vero che non sta nella riduzione del peso fiscale bensì nella redistribuzione della ricchezza all'interno del Paese. Un'operazione di riduzione delle tasse può portare soltanto ad un impoverimento delle entrate nelle casse dello Stato e degli enti pubblici che si trovano a non riuscire più a far fronte ai problemi sociali (istruzione, sanità etc...). Ciò che andrebbe fatto, invece, è una seria politica contro gli sprechi, il parassitismo clientelare e la burocrazia. I governi liberisti di destra (soprattutto quello tatcheriano e quello reaganiano) hanno sempre portato avanti, con molta forza, la politica di riduzione delle tasse che ha tuttavia provocato sperequazioni enormi nella redistribuzione della ricchezza nonché il crollo dello stato sociale. E' necessario che si paghino tasse giuste che riescano a sostenere un welfare dignitoso per tutti e al contempo eliminare gli sprechi, ridisegnando e rimodulando quello che è il carico fiscale. GIORGIO BENVENUTO 28 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 29 Un'altra cosa importate da dire è che il nostro sistema fiscale è vecchio rispetto ad una società che è profondamente cambiata. La maggior parte delle entrate erariali proviene ancora dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), come succedeva negli anni '70 e '80 dove, tuttavia, il numero dei lavoratori dipendenti che avevano un lavoro stabile era molto più alto rispetto ad oggi e quindi anche l'introito per lo Stato era più ingente; allo stesso tempo si sono ridotte o comunque diversificate negli anni le norme sulla tassazione delle rendite finanziarie. Una situazione alquanto stravagante, in quanto se per un reddito da lavoro dipendente il prelievo è del 23%, per le rendite finanziarie si applica un'aliquota pari al 12,5%. Ma non è tutto. Se io ho dei soldi in banca su un conto corrente mi si applica un'aliquota del 27% mentre se ho una rendita finanziaria (modifica introdotta da Tremonti in questa legislatura) e questa mia rendita io la intesto ad una società (sempre mia) che sta all'estero e decido di tenerla in questo Stato estero per più di un anno, non pago nemmeno una lira di tasse ma ho un guadagno certo. Quindi un sistema profondamente ingiusto ed iniquo. Tremonti si giustifica dicendo che bisogna comportarsi così se si vuole che i soldi delle rendite ritornino in Italia ed invece ciò crea una profonda distorsione della politica fiscale. Nella precedente legislatura avevamo portato avanti, come opposizione, una politica che in Europa avvicinasse le differenze e combattesse gli elementi di nocività fiscale, perché questa politica è nociva non solo in quanto permette ad alcuni di avere dei grandi guadagni, ma soprattutto perché scoraggia chi vuole investire a favore di chi preferisce fare speculazioni di tipo finanziario che, come abbiamo visto, hanno un trattamento fiscale profondamente diverso. Quello che non si è riusciti a risolvere è fare una legge sul conflitto di interessi. Se parliamo ad esempio delle OPA le persone che concorrono a quelle che sono chiamate “scalate” molte volte hanno chiesto un prestito alla banca di cui sono anche amministratori. Il prestito, che hanno utilizzato per l'acquisto delle azioni, lo collocano all'estero e poi quando scatta l'OPA quelle azioni che costavano ad esempio 7 euro vanno a 15 ed io mi trovo nella condizione non solo di avere fatto un grande guadagno ma di avere utilizzato una banca per comprare la banca. Dunque un sistema fiscale e della gestione del risparmio arretrato dove viene ipertutelato il grande debitore e lasciato a se stesso il piccolo risparmiatore. E' importante quindi in primo luogo non cadere nella trappola della riduzione ad ogni costo delle tasse perché è un affare che avvantaggia soltanto chi sta bene. In secondo luogo dobbiamo avere delle politiche concordate a livello europeo, cioè dobbiamo evitare che vi sia concorrenza 29 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 30 nociva, perché se ammettiamo che ci siano dei paradisi fiscali trasformiamo il nostro Paese in un inferno fiscale per chi non può avvantaggiarsi di quei paradisi. Infine dobbiamo rimodulare e quindi ripensare ad un nuovo sistema fiscale che tenga conto delle esigenze di un Paese moderno. Un altro slogan molto di moda in questi ultimi tempi è quello del federalismo fiscale. Bisogna che anche in questo caso si faccia chiarezza e che vi sia una corretta interpretazione: perché se il federalismo fiscale si costruisce sulle addizionali fiscali, esso non porta ad un miglioramento del sistema bensì crea una duplicazione delle tasse. Le addizionali sono, di per sé, negative in quanto incidono di più sui redditi mediobassi rispetto a quelli medioalti. La politica del federalismo fiscale deve essere una politica che non preveda addizionali, dove devono esserci quote di compartecipazione e un meccanismo di riequilibrio e di solidarietà. Inoltre il federalismo fiscale deve poter garantire un meccanismo per il quale comuni, province e regioni possano avere proprie ed autonome forme di tassazione. E' quindi necessario riequilibrare quelle che sono le imposizioni dirette e le imposizioni indirette. Nella politica di questa legislatura sono state apportate delle modifiche di facciata (cambio del nome dell'Iperf che diventa Ire, creazione di nuove aliquote, deduzioni al posto di detrazioni, ampliamento della no tax area) e sono state introdotte, in maniera astuta, delle tasse occulte. In primo luogo la tassa sul trattamento di fine rapporto (TFR), per chi cambia lavoro e per chi termina il proprio rapporto di lavoro è stata portata dal 18% al 23%, quasi il 30% in più. In soldoni sono un miliardo e mezzo di euro che hanno riguardato un milione e duecento mila lavoratori. In secondo luogo non viene più restituito il drenaggio fiscale (fiscal drag), quel meccanismo che permette di rivalutare lo stipendio o la pensione rispetto al costo della vita. Se lo stipendio o la pensione vengono erogati al lordo, non adeguando le detrazioni e le aliquote, è chiaro che l'incremento che viene assegnato si decurta a causa del drenaggio fiscale. I pensionati sono stati oggetto di una delle più grandi operazioni di raggiro mai viste in quanto esisteva, per loro, la stessa detrazione che beneficia un lavoratore dipendente. Questa detrazione è stata alterata trasformandosi in deduzione e quindi, agendo sull'imponibile, i pensionati si ritrovano ad essere più tassabili dei lavoratori dipendenti. Ma se le entrate da Irpef aumentano e non aumenta il Pil, perché non aumentano gli occupati (l'aumento è solo per la categoria dei lavori flessibili), i contratti faticano ad essere attuati e se aumentano le entrate e non possono essere diminuite le tasse per i lavoratori dipendenti e i pensionati mentre, di contro, diminuisce l'Ires (la GIORGIO BENVENUTO 30 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 31 vecchia Irpeg), ciò significa che in questi ultimi anni il sistema fiscale ha visto solo una parte dei soggetti, sempre gli stessi, pagare le tasse. Infine l'ultima tassa occulta la si trova nel sistema di doppia tassazione che noi in Italia abbiamo con l'Iva su quello che è l'aumento dei prodotti petroliferi. Sulle famiglie non è mai stata fatta una politica fiscale equa, noi abbiamo una tassazione sulla famiglia che è profondamente sbagliata in quanto gli assegni famigliari si sono sempre più svuotati. Tremonti ha costruito un sistema fiscale punitivo: in quanto se in una famiglia ci sono due redditi perché due persone lavorano, ci sono due quote che possono essere utilizzate; se nella famiglia c'è solo uno che lavora c'è solo una quota esente. Bisogna ridurre il peso del sistema fiscale sul lavoro; bisogna fare degli interventi veri sui redditi mediobassi e bisogna impegnarsi per fare interventi seri sulla famiglia. Mi ricordo quando lavoravo al Ministero delle Finanze avevamo varato una legge delega per la riforma della tassazione sulla famiglia che era basata sul quoziente familiare. E' vero che questo metodo può portare a favorire i redditi molto alti, ma è altrettanto vero che questa politica, per esempio in Francia, è stata determinante non solo per salvaguardare la famiglia ma anche per ricreare delle condizioni favorevoli per un aumento della natalità. Il nostro è, al contrario, un sistema fiscale che ci obbliga a non fare figli. Dobbiamo altresì guardare ad un sistema che aiuti il mondo delle imprese ed incentivi chi porta delle innovazioni, chi fa ricerca e chi promuove il lavoro e la formazione. Non le grandi imprese, le banche, le assicurazioni e chi fa speculazioni finanziarie. Bisogna favorire un tipo di capitalismo paziente, quello capace di investire anche sulla persona rispetto ad uno impaziente, quello di rapina, che vuole spremere subito e avere risultati immediati e che sul lavoro usa i mezzi dello sfruttamento e della precarietà. Non è un caso che nel nostro Paese le famiglie e le piccole realtà imprenditoriali siano sempre più povere e in difficoltà mentre invece le assicurazioni e le banche abbiano guadagni incredibili, quintuplicando e a volta addirittura decuplicando i loro profitti persino con la RCAuto. E' necessaria una politica che combatta seriamente l'evasione e che impedisca l'elusione e l'erosione fiscale. Oggi la guardia di finanza e le agenzie per le entrate possiedono i mezzi per combattere efficacemente ogni forma, anche la più subdola, di evasione contributiva. Il 730 che è scelto da 12 milioni di contribuenti ha semplificato enormemente i problemi del sistema fiscale, tuttavia va fatto funzionare. E poi c'è l'atavico problema, tutto italiano, dei condoni, un fatto di per sé già gravissimo perché dà la possibilità al grande evasore di pagare 31 LE DISUGUAGLIANZE NEL FISCO InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 32 soltanto una parte dei tributi che deve allo Stato, il quale gli condona il rimanente della spesa estinguendo in toto il suo debito. Questa inveterata abitudine, che in passato, ai tempi della deprecata prima repubblica, veniva attuata attraverso una denuncia diretta dell'interessato alla guardia di finanza, oggi, fatto ancora più terribile, può essere addirittura anonima e così sia la guardia di finanza che l'agenzia delle entrate si muovono alla cieca (vedi casi Ricucci e Gnutti). Questo anonimato è poi doppiamente grave quando si tratta di rientro dei capitali dall'estero, perché in questo caso viene applicata un'aliquota del 2,5%. E' stata fatta anche un'altra operazione, che siamo riusciti a furore di popolo a correggere in extremis, la quale permetteva di sanare chi, in veste di sostituto d'imposta, non avesse versato al fisco le tasse che aveva trattenuto ai propri dipendenti (vedi la società calcistica Lazio). La Lazio che doveva restituire 160 milioni di euro al fisco, ha detto: io non pago, anzi se mi fate pagare io fallisco e mobilitando i tifosi ottiene dall'agenzia delle entrate che queste tasse dovute vengano “spalmate” su un periodo di 23 anni al tasso di interesse del 2% annuo. Un vero scandalo! La norma siamo riusciti a cancellarla, pur tuttavia ha creato un precedente. Esiste infine il problema della riscossione di quanto viene accertato. Lo Stato non effettua la riscossione direttamente come dovrebbe, ma affida il compito a società esterne che, evidentemente, non hanno convenienza a chiedere i soldi. Bisogna sapere che su 100 che viene accertato e comunicato in televisione soltanto il 7% viene riscosso con una spesa totale pari all'8%, quindi si spende di più per accertare di quanto effettivamente si riscuote: questo ci fa capire come sia inutile, anzi addirittura controproducente, avviare qualsiasi processo di accertamento fiscale. Giorgio Benvenuto Senatore della Repubblica *Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo modello sociale”. GIORGIO BENVENUTO 32 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 33 Renata Livraghi UN QUADRO DI SINTESI DELLA FLESSIBILITA IN ITALIA 1. Introduzione La flessibilità dei mercati del lavoro ha suscitato un intenso dibattito nel corso dell'ultimo decennio. Molti autori hanno sostenuto che il lavoro in Italia è stato ed è tuttora molto rigido nei suoi tre aspetti: quello salariale, quello del tempo di lavoro e quello della mobilità del lavoro, con cui è analizzata la flessibilità del lavoro da parte degli scienziati sociali europei. Alcune ricerche recenti hanno invece messo in evidenza che in Italia non mancano margini rilevanti di flessibilità del lavoro, soprattutto nel secondo aspetto (tempo di lavoro) e nel terzo (mobilità del lavoro). Un confronto accurato con altre esperienze europee mostrerebbe che la flessibilità del lavoro in Italia non è inferiore a quella riscontrabile in altre esperienze. La rilevante flessibilità del lavoro sarebbe tuttavia accompagnata da conseguenze analoghe a quelle riscontrabili in altri Paesi. In particolare, accanto agli effetti positivi sulla capacità di adattamento del lavoro ai cambiamenti tecnologici e organizzativi che caratterizzano le società attuale che si basano sempre più sulla conoscenza (knowledge economy), si riscontrerebbero effetti negativi a danno di alcuni lavoratori coinvolti in termini di precarietà del lavoro. 2. Un quadro di sintesi della flessibilità in Italia Il grado di flessibilità del mercato del lavoro italiano, misurato con i parametri tradizionali suggeriti dalla letteratura economica, mostra le seguenti caratteristiche. Un'alta percentuale di lavoratori autonomi, rispetto a quanto mediamente rilevato in ambito europeo, circoscrive già in partenza il problema della "rigidità" a un potenziale più limitato di lavoratori (i lavoratori alle dipendenze sono il 73% degli occupati). L'espansione del lavoro autonomo sembrerebbe dipendere da fattori di natura strutturale, quali 33 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 34 il peso del settore agricolo nel sistema economico italiano e le dimensioni delle imprese italiane dove l'attività produttiva è spesso a conduzione familiare. Il peso rilevante degli oneri sociali sul costo del lavoro, peso riscontrabile in ugual misura anche in altri Paesi industrializzati dell'Unione Europea. In Francia e in Germania abbiamo quote più o meno simili di contribuzione sociale pur avendo tassi di occupazione più elevati. Il fatto che, nel tessuto produttivo italiano prevalga la medio-piccola dimensione aziendale fa sì che i tassi di turnover della manodopera siano, nella media nazionale, piuttosto elevati, palesando così un grado di flessibilità di fatto per nulla trascurabile; la dimensione media delle imprese attive è pari a 3,6 addetti che è la più bassa tra i Paesi europei. Le microimprese (quelle con meno di 10 addetti) assorbono il 48,6% dell'occupazione complessiva, mentre le grandi imprese (con almeno 250 addetti) assorbono il 18% degli occupati; il restante 33,4% è quindi costituito dall'occupazione relativa alle medie-piccole imprese (dai 10 ai 249 addetti). Un calcolo approssimativo potrebbe dunque far giungere a una stima numerica dei lavoratori "non particolarmente protetti dai vincoli normativi" (indipendenti + dipendenti al di sotto dei 15 addetti) pari a circa 9 milioni di lavoratori, corrispondenti al 42% dell'occupazione totale. La maggiore diffusione del lavoro atipico all'interno della categoria dei lavoratori dipendenti, pur non avendo ancora raggiunto la quota riscontrabile nella media dei Paesi dell'Unione Europea, ha contribuito ad aumentare ulteriormente il grado di flessibilità del mercato del lavoro in Italia: se si considera che i lavoratori con un contratto "a termine" sono circa il 10% degli occupati alle dipendenze e che circa un terzo dei lavoratori con tale contratto è passato nell'anno successivo a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si può avere un'idea, sia pure approssimativa, di quanto vadano allentandosi nel tempo i vincoli sostanziali alla stabilità occupazionale nel medesimo posto di lavoro. Anche sotto il profilo della tutela contro il rischio della disoccupazione, il grado di rigidità del sistema occupazionale italiano appare piuttosto ridotto perché l'estensione degli istituti previsti ai potenziali beneficiari risulta essere relativamente limitata. Dal punto di vista dell'adattabilità dello stock di occupati e dei salari reali alle variazioni del ciclo economico è stato accertato un maggiore grado di reattività dell'input di lavoro a livello microeconomico ma non una sostanziale crescita, a livello macroeconomico, del volume complessivo di ore lavorate e della capacità reddituale degli occupati. Questa sintesi, confermata dai dati Istat, mostra evidenze empiriche sufficienti a confermare il discreto grado di flessibilità del mercato del lavoro R E N ATA LIVRAGHI 34 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 35 italiano, anche se viene contestualmente ribadito l'aspetto di particolare segmentazione che caratterizza il nostro sistema occupazionale. In tema di mobilità del lavoro, intesa come flussi da e verso la posizione di occupati, l'Istat sottolinea che "l'immagine di rigidità che tradizionalmente viene associata al mercato del lavoro italiano non trova completa rispondenza nella realtà, fornendo stime della mobilità che raggiungono livelli pari quando non superiori, a quelli di Paesi con mercati del lavoro tradizionalmente ritenuti più flessibili. La peculiarità italiana… "sembra piuttosto consistere in una netta segmentazione tra individui estremamente mobili e altri che invece tendono a restare a lungo nella medesima situazione occupazionale. ….Una delle principali determinanti di tali differenze è la diffusione del lavoro precario, a cui si deve buona parte della mobilità della componente giovanile, di quella femminile, del mezzogiorno e degli individui con bassi livelli di istruzione". 3. Alcune riflessioni La flessibilità agevola talune componenti della forza lavoro a transitare dallo stato di inoccupazione e di disoccupazione verso l'occupazione per meglio rispondere alle esigenze della domanda di lavoro e a uscirne nelle fasi avverse del ciclo produttivo, creando stati di instabilità occupazionale. La regolamentazione attuale del mercato del lavoro, creata per favorire il lavoratore dalla precarietà occupazionale, in taluni casi genera anch'essa ulteriore instabilità occupazionale. Se la flessibilità potesse rappresentare, dal lato dell'offerta di lavoro, una modalità di entrata o di uscita più graduale e articolata dal sistema occupazionale per tutte le componenti della forza lavoro, nonché, dal lato della domanda di lavoro, una modalità di adeguamento dello stock occupazionale e dei costi salariali alle variazioni del ciclo economico da parte di tutte le imprese, allora si potrebbe affermare che l'intero sistema economico se ne avvantaggerebbe, sia sotto il profilo dell'efficienza produttiva e allocativa (utilizzazione ottimale di tutte le risorse disponibili, verso forme di mercato di tipo più concorrenziale), sia sotto il profilo dell'equità (uguali vantaggi dovrebbero ricadere su tutti). Nel caso in cui non vengano preliminarmente rimosse le cause che danno origine alla segmentazione originaria delle diverse componenti svantaggiate sul mercato del lavoro, la flessibilità potrebbe rivelarsi un modo per accentuare ancor più la segmentazione del mercato del lavoro italiano. In sintesi le cause che danno origine alle posizioni svantaggiate nei mercati del lavoro sono: un’inadeguata formazione per i giovani e per alcune altre 35 LA FLESSIBILITA DEL LAV O R O IN ITALIA InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 36 fasce d'età; la carenza di strutture sociali che meglio siano in grado di conciliare il lavoro di mercato con le altre attività non di mercato (lavoro di educazione e di cura dei bambini e degli anziani); i nodi strutturali dello sviluppo nelle aree territoriali del mezzogiorno e nei paesi di montagna. I policy makers dovrebbero anche intervenire in modo che il "lavoro precario" possa divenire una modalità flessibile che riesca a soddisfare entrambi le parti in gioco (imprese da un lato e lavoratori dall'altro lato). Una delle caratteristiche principali dei contratti atipici concerne, per esempio, la durata. La discontinuità nel tempo è forse uno degli elementi che più spaventa i lavoratori coinvolti perché li colloca in una posizione di incertezza e di insicurezza del posto di lavoro. Una risposta positiva a questo bisogno potrebbe venire dalle opportunità di apprendimento fornite dal posto di lavoro. Un lavoro atipico che consente di acquisire competenze, ovvero conoscenze trasferibili dà maggiori opportunità per attenuare il disagio che proviene dall'insicurezza del posto del lavoro perché aumenta la probabilità di trovare posti di lavoro successivi che valorizzeranno al massimo l'accumulazione del capitale umano attuata. È ovvio che alcune categorie di lavoratori più svantaggiati, come i cinquantenni che perdono improvvisamente il posto di lavoro, hanno maggiori difficoltà ad adattarsi a un sistema economico caratterizzato da una maggiore flessibilità. Si tratta di adattarsi a un nuovo tipo di lavoro e ricominciare ad apprendere; due cose che in genere sono lontane dalle prospettive di una persona che è già proiettata verso il pensionamento in un futuro non troppo lontano. Strategie di lifelong learning, condivise dalle parti interessate (stakeholders) e politiche volte a diminuire la segmentazione dei mercati del lavoro in Italia sono quindi necessarie per incrementare l'occupabilità, in un sistema economico che sarà sempre più caratterizzato da una maggiore flessibilità, come quello italiano che è simile a quello degli altri paesi industrializzati. Renata Livraghi Professore Ordinario di Politica Economica all’Università di Parma R E N ATA LIVRAGHI 36 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 37 Giuseppe Davicino EGUAGLIANZA, DEMOCRAZIA, ECONOMIA VIAGGIANO A N C O R A INSIEME? La democrazia è il peggiore dei regimi, ad eccezione di tutti gli altri. Questa celebre e disincantata definizione di Winston Churchill evidenzia bene i limiti storici che incontrano le istituzioni democratiche, anche quelle che sono espressione di un'idea di democrazia più avanzata. Si dice che la democrazia va costruita giorno dopo giorno, va difesa, estesa proprio perché la sua declinazione storica non solo è sempre perfettibile ma è suscettibile di deformazioni e di alterazioni sul piano pratico. E la classica mutazione di natura della democrazia avviene quando le circostanze la riducono “come se” fosse un'oligarchia, quando il punto di vista di pochi prevale, nelle decisioni, su quello di tutti. I partiti di massa hanno costituito per molto tempo un antidoto ai rischi di deriva oligarchica della democrazia. In effetti, l'avvento dei partiti di massa sulla scena politica (avvenuto in Italia all'inizio del secolo scorso) ha rappresentato il tentativo di organizzare, di dare dignità politica e capacità di rappresentanza degli interessi delle classi popolari che, anche grazie a ciò, sono divenute protagoniste nella vita politica delle democrazie occidentali. Nel secondo dopoguerra, con il ricorso a politiche keynesiane emergeva il volto temperato del capitalismo, riconvertito, almeno in parte, dalla produzione bellica a quella civile, e questo compromesso tra capitalismo e democrazia permetteva il sorgere di una classe media, destinata ad inglobare quasi tutte le categorie sociali. Si può affermare che in tale periodo si sia verificato un circolo virtuoso tra democrazia, sviluppo economico e miglioramento dei livelli di eguaglianza, o perlomeno riduzione delle più macroscopiche disuguaglianze. Oggi questo quadro, che peraltro riguardava solo l'Occidente, sta velocemente tramontando. Stanno cambiando le dinamiche economiche e sociali, ma anche i riferimenti culturali. Si tratta di capire le opportunità e i pericoli dischiusi dal nuovo scenario. L'accelerazione che si è avuta negli ultimi decenni verso un mercato mondiale dell'economia ha ridato al capitalismo prospettive insieme nuove, nel senso di inedite, e vecchie, nel senso che ciò che era ritenuto ormai GIUSEPPE D AVICINO 37 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 38 impraticabile in Occidente si poteva di nuovo attuare da qualche altra parte. La possibilità di effettuare transazioni economiche in tempo reale e la possibilità di poter scegliere praticamente in tutto il mondo il luogo più conveniente in cui situare le produzioni hanno rimesso in discussione uno dei postulati su cui si è fondato lo sviluppo recente dell'Occidente, il fatto che liberalismo e democrazia rappresentassero un binomio inscindibile. Oggi vediamo molto più chiaramente la problematicità di questo rapporto, già indicata da Norberto Bobbio negli anni Ottanta. In diverse parti del mondo la democrazia non è (non è mai stata o non è ancora) una condizione fondamentale per l'iniziativa privata e laddove vi è un sistema di governo democratico la gerarchia del potere economico tende a riprodursi su quella del potere politico, sempre più relegato ad assumere un ruolo marginale e formale nei processi decisionali. Il prevalere dell'economia sulla politica, o, detto in un altro modo, il deficit di democrazia rispetto alla dimensione ormai mondiale raggiunta dall'economia, costituisce la principale caratteristica del nuovo ordine di cose. E le conseguenze sulla struttura sociale delle democrazie avanzate e sulla loro capacità di rappresentanza, e dunque, sulla loro attitudine a generare eguaglianza, sono enormi. Credo sia interessante domandarci cosa oggi tende a sostituire la dinamica che abbiamo conosciuto negli scorsi decenni, del rapporto direttamente proporzionale tra compromesso tra capitalismo e democrazia e sviluppo della classe media. La classe media si sta frantumando di fronte ad una polarizzazione sociale sempre più marcata. Non manca chi celebra positivamente questo processo come gli autori di un recente saggio Gaggi e Narduzzi1 che tuttavia non sembrano coglierne adeguatamente anche le insidie. Infatti, un sistema economico non più capace di riversare la ricchezza prodotta sui cittadini, finisce per concentrare nelle mani di ristrettissime élite mondiali guadagni inauditi e così scatena una guerra tra poveri, tra i cittadini-consumatori occidentali ed i cittadini-lavoratori asiatici, terzomondiali. Un'altra conseguenza non secondaria è che, come pure riconosce l'economista Alain Minc, se scompare la classe media con essa si esaurisce anche la classe dirigente che la rappresentava. Tale processo, come vede acutamente Minc, lascia spazio ad un duplice fenomeno: il dilagare del populismo e l'emergere di una classe dirigente non più portatrice di un progetto di società perché non più rappresentativa ma selezionata solo dall'intreccio tra ricchezza e visibilità sui mass media. 38 IN F OC E E P,A N N O III N .1 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 39 A questo punto, mi sembra abbastanza evidente che in una tale evoluzione delle cose il rapporto tra democrazia ed eguaglianza non sia così scontato. Perché la democrazia possa generare eguaglianza c'è bisogno di rappresentatività estesa (oltre che naturalmente della volontà politica, di politiche riformatrici). Ma se la società smette di crescere e al posto della classe media si sostituisce una fascia di precarietà di massa che non ha più coscienza del suo ruolo centrale, essa diviene facile preda del populismo, che cinicamente ne sfrutta le paure e le illusioni, senza badare troppo alla serietà delle risposte. Oggi il populismo risulta straordinariamente persuasivo perché attuato da gruppi di interesse che possono disporre di ingenti mezzi per il controllo dei mass media e che puntano alla semplificazione della vita politica attraverso il rapporto diretto tra il capo e le masse. Il ricorso massiccio a referendum e sondaggi è la via che conduce a quella che Leopoldo Elia chiamerebbe “democrazia di investitura” con cui si instaura un modello plebiscitario di governo. Al lettore informato è superfluo ricordare quanti rischi, anche assai recenti, abbia corso il nostro Paese, che rappresenta un laboratorio in Europa, sotto il profilo dell'evoluzione della democrazia. Non ci resta che chiederci se siamo di fronte ad un processo inarrestabile tale da rendere quantomeno ingenua la nostra ricerca di un rapporto concreto per il futuro fra democrazia ed eguaglianza, oppure se si possono intravvedere differenti linee di evoluzione, in particolare su due punti cruciali: nel rapporto tra economia e politica e sul modello di democrazia. Credo che le sorti del rapporto tra economia e politica si giocheranno sulla capacità di dare regole al mercato per la sua stessa sopravvivenza. Come sostiene Luciano Venturini2 “se i soggetti più forti arrivano a distruggere la capacità di fare concorrenza e quindi di lavorare nell'interesse generale, occorre un intervento pubblico per tutelare la concorrenza”. Questo è il punto: “bisogna liberare il mercato da questa sua tendenza a sopprimere le proprie condizioni di buon funzionamento” (Massimo Cacciari, Europa 25/1/2006). Dunque, si tratta di una partita aperta: è realistico pensare che le società, se e quando lo vogliono, possono cercare di riprendere il controllo dei meccanismi dell'economia, in particolare di quelli che fioriscono nel far-west della carenza di regole del mercato globale. GIUSEPPE D AVICINO 39 InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 40 L'altra questione che credo sia non irrilevante per una democrazia non solo fondata sull'eguaglianza formale ma capace di produrre eguaglianza in senso sostanziale, è quella dell'evoluzione del dibattito sui limiti della democrazia maggioritaria. Non è sufficiente che le istituzioni non siano “scalabili” dai poteri dell'economia, occorre anche che la parte politica prevalente non eserciti la sua supremazia nei termini di una “dittatura della maggioranza”. C'è una forza dei numeri, ma c'è anche, come sottolineano i filosofi “deliberativisti” che traggono ispirazione dal pensiero di Habermas, una forza degli argomenti sui quali tutti possono fornire argomenti utili. Un dibattito politico più incentrato sulla forza degli argomenti, pur nella necessaria distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione, può rappresentare un serio antidoto alle semplificazioni populiste e rendere un miglior servizio alla causa dell'eguaglianza. Giuseppe Davicino Redazione InfoCEEP 1 Massimo Gaggi, Edoardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la società low cost, Einaudi, Torino 2006. 2 Vedi Luciano Venturini, Neoliberismo ed economia sociale di mercato: quali ruoli per il mercato, lo Stato e la società civile. Atti di Motta, Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005. 40 EGUAGLIANZA,DEMOCRAZIA E ECONOMIA InfoCEEP aprile 2006.qxd 28/04/2006 14.33 Pagina 41 I numeri pubblicati Anno 1 (2004) - fascicolo 1 Gesù e l’orecchio di Malco Anno 1 (2004) - fascicolo 2 Europa, un cammino di integrazione e di pace Anno 1 (2004) - fascicolo 3 Laicità e libertà religiosa: una sfida per l’Europa Anno 1 (2004) - dossier 1 Il conflitto israeliano-palestinese Anno 2 (2005) - fascicolo 1 Gerusalemme Anno 2 (2005) - fascicolo 2 I cristiani, l’Europa, la politica Anno 2 (2005) - fascicolo 3 Sibiu 2007 - Verso la III Assemblea ecumenica I numeri arretrati possono essere richiesti presso la Segreteria delle Acli provinciali milanesi e sono inoltre disponibili (in formato PDF) sul sito internet www.aclimilano.com. 41