InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
Info C E E P
1
Anno III n. 1 - Gennaio - Aprile 2006
Indice
Editoriale
3
Francesco Totaro
Un punto di vista etico-antropologico sull’eguaglianza 5
Luciano Venturini
Neo-liberismo ed economia sociale di mercato: quali
ruoli per il mercato, lo stato e la società civile
10
Carlo Stelluti
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel
lavoro
17
Mario Mozzanica
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel
welfare
22
Giorgio Benvenuto
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nel
fisco
28
Renata Livraghi
Un quadro di sintesi della flessibilità in Italia
33
Giuseppe Davicino
Eguaglianza, democrazia, economia viaggiano ancora
insieme?
37
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
2
Centro ecumenico europeo per la pace
Il Centro ecumenico europeo per la pace nasce dall’esigenza di offrire
alla società civile percorsi formativi e proposte culturali a fronte dei processi di
trasformazione e delle nuove sfide epocali.
Nell’Europa, chiamata ad integrare tra loro società di tipo multietnico,
multiculturale e multireligioso, la formazione al dialogo - per la soluzione dei
conflitti e per la ricerca di una dialettica di convivialità delle differenze - appare
sempre più come il nuovo nome della pace.
L’esigenza del dialogo interpella laicamente ogni coscienza e costituisce
un imperativo per i cristiani chiamati ad una testimonianza radicale e comune
dell’evangelo, al di là delle loro divisioni storiche.
Per questo Europa, pace, ecumenismo sono tre parole-chiave
dell’impegno che i soci fondatori e le presidenze milanese, lombarda e nazionale
delle Acli hanno inteso assumere e promuovere con la costituzione del Centro
ecumenico europeo per la pace.
InfoCEEP
Quaderni per la formazione
al dialogo e alla pace
Direttore
Paolo Colombo
[email protected]
Redazione
Mirto Boni, Giuseppe Davicino
Segreteria di Redazione
Marina Valdambrini
[email protected]
Supplemento a “Il giornale dei lavoratori” n. 1, 2006
Redazione e amministrazione: Via della Signora 3, 20122 Milano.
Registrazione n. 951 del 3/12/1948 presso il Tribunale di Milano.
Direttore responsabile: Monica Forni
Stampa
Tipografia Buzzetti & Naccari
Via Montecuccoli 14 - 20147 Milano
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
3
Editoriale
“Nulla è più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali”. Questa
frase celebre di Don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa” oggi
sembra ormai sepolta dalla polvere di un’epoca remota. Eppure, non più tardi
di quarant’anni fa, ha avuto un effetto straordinario sui giovani di allora. Ha
mobilitato ed entusiasmato un’intera generazione.
Recentemente è stata riportata all’attenzione del dibattito politico e
sociale dal compianto Ermanno Gorrieri con una pregevole e coraggiosa
opera sul tema dell’uguaglianza.* Un tema che nel corso degli anni è andato
via via scomparendo dal dibattito politico e sociale. Gorrieri lo ripropone
attraverso un appassionato studio sulla povertà, la disuguaglianza e le
politiche redistributive nell’Italia di oggi. Esso costituisce un importante
punto di riferimento per chi non si è lasciato travolgere dall’incipiente cultura
neoliberista.
Bene hanno fatto le ACLI di Milano, nella settimana alpina dell’Alpe
Motta 2005, a riproporre la riflessione sul tema dell’uguaglianza ed a cercare
di rinverdire una nuova tensione ideale che sappia leggere una realtà sociale
inedita, le cui moderne forme di disuguaglianza non sono meno crudeli di
quelle dell’inizio ‘900.
La lotta alle disuguaglianze è uno dei principali valori che hanno
irrorato per oltre mezzo secolo l’azione dell’Associazione dei lavoratori di
ispirazione cristiana. Essa sta alla base dell’insegnamento sociale della
Chiesa e costituisce parte fondante delle radici cristiane che, accanto
all’umanesimo laico, hanno prodotto la cultura europea dell’epoca moderna.
E’ proprio dall’incrocio di questi sistemi di valori, che hanno in comune
l’esigenza di porre al centro l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani e di legarli
tra loro da un vincolo di solidarietà, che è scaturito il sistema di protezione
sociale europeo.
La creazione del Welfare State, attraverso le politiche redistributive,
che come ci ricorda Gorrieri, toglie a chi ha di più, per dare sotto la forma di
servizi sociali, a chi ha di meno, non è stato un fatto indolore e non è stato
nemmeno un fatto politicamente neutrale. Oggi, più che nel passato, nella
società occidentale moderna, ove trionfa l’individualismo e il liberismo
esasperato, ove i valori che ispirano la vita di intere popolazioni sono la
competizione, la ricchezza raggiunta con ogni mezzo, il consumo fine a se
3
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
4
stesso, il successo personale come unico metro di giudizio, le disuguaglianze
sembrano trovare giustificazione nelle diversità.
Infatti se nascere in una regione non offre occasioni di lavoro,
nascere in una famiglia povera non consente di accedere ai più alti gradi
dell’istruzione, nascere in una famiglia numerosa non consente di avere un
reddito dignitoso, viene considerata semplicemente responsabilità delle
persone che vivono in queste condizioni di disagio quando non addirittura
una colpa, la disuguaglianza si spiega banalmente con le diversità esistenti tra
gli esseri umani. Si ricerca la giustificazione nella scarsa intelligenza, nella
mancata intraprendenza e via di questo passo; si può addirittura arrivare a
giustificare qualsiasi condizione di disagio, con l’appartenenza alla “razza” o
alla diversità sessuale. Se viceversa si considera che gran parte delle
disuguaglianze non sono attribuibili a scelte personali, ma a situazioni di
ingiustizia sociale, allora non resta che battersi per rimuovere le condizioni
di base che producono le disuguaglianze. Lo strumento principale è l’utilizzo
di politiche appropriate finalizzate non solo alla creazione di pari
opportunità, ma attraverso forme di monitoraggio e di accompagnamento a
creare le condizioni affinché, tutti coloro che lo vogliono, possano
raggiungere il traguardo prefissato.
Dovrebbero essere proprio questi approcci, fra loro culturalmente
molto distanti, a caratterizzare le scelte delle variegate formazioni politiche.
Così come dovrebbe essere scontato che associazioni che si occupano di
problemi sociali facciano scelte di campo inequivocabili.
Se si ritiene ancora oggi però di discutere di uguaglianza e
disuguaglianza, significa che forse così scontato proprio non è.
Carlo Stelluti
*Ermanno Gorrieri, Parti uguali fra disuguali, Il Mulino, Bologna 2002.
E DITORIALE
4
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
5
Francesco Totaro
UN PUNTO DI VISTA ETICO-ANTROPOLOGICO
SULL EGUAGLIANZA
La riflessione sull’eguaglianza presenta oggi diversi livelli. In via
preliminare ci si potrebbe chiedere se l’eguaglianza sia comunque un bene o
un valore. Non è impossibile infatti ignorare che c’è anche un’opinione
contraria all’eguaglianza, sia per motivi di rifiuto della stessa in base, per
esempio, a esigenze di premiazione del merito sia perché essa viene
considerata pericolosa per la tenuta di altri beni o valori, in particolare della
libertà. In proposito si deve ammettere che si danno modi di perseguire
l’eguaglianza che allontanano dal consenso a suo favore. E’ successo nel
passato come potrà succedere nel futuro che essa venga osteggiata o temuta.
L’eguaglianza è allora percepita come minaccia all’identità già acquisita o
come marchingegno per raggiungere senza sforzo benefici che sono costati
sacrifici e ‘duro lavoro’.
Del resto, non dovrebbe sorprendere che è stato proprio un sostenitore
dell’eguaglianza come Karl Marx a mettere a nudo il pericolo del “comunismo
rozzo” e dell’eguaglianza senza distinzioni, consistente nella pretesa da parte
di ciascuno di disporre di tutto in misura incondizionata. A ben vedere, un
certo immaginario pubblicitario dei nostri giorni non è affatto lontano
dall’idea pseudoegualitaria di suscitare fantasie di possesso onnivoro e
illimitato, associando peraltro a tali fantasie la lusinga dell’esercizio di una
libertà altrettanto illimitata. Un’eguaglianza così compromessa e viziata
finisce poi con il suscitare sentimenti di invidia sociale diffusa che si risolvono
nel suo esatto contrario: l’individualismo sfrenato e reciprocamente
distruttivo.
L’eguaglianza è positiva – è un bene o un valore – quando è la
condizione della realizzazione delle peculiarità o delle originalità personali e
quindi non si contrappone alla libertà ma la rende possibile, non solo per sé
ma anche per gli altri. L’assunto di fondo di un pensiero dell’eguaglianza bene
intesa è il riconoscimento di qualcosa che si può anzitutto condividere. Ma
cosa appartiene all’ambito del condivisibile? E’ nella risposta a questa
domanda che si possono dare interpretazioni diverse degli elementi essenziali
dell’eguaglianza. Amartya Sen, in uno studio di qualche anno fa, diventato
imprescindibile per il nostro tema, notava che «tutti gli approcci all’etica dei
fenomeni sociali che hanno resistito all’usura del tempo» hanno in comune il
5
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
6
fatto di «desiderare l’eguaglianza di qualcosa – un qualcosa che occupa un
posto di rilievo nella teoria di volta in volta presa in considerazione»1. Ma il
‘qualcosa’ è appunto diverso. Anche altri studi, tra cui quelli di Christian
Arnsperger e Philippe van Parjis2 o di Eugenio Somaini3, compiono una sorta
di carrellata delle varie posizioni in campo per offrire dati di documentazione
e di conseguente comparazione tra di esse. Analogamente procede Ian Carter
in una raccolta di analisi molto importanti sull’argomento4.
Nell’impostazione utilitarista, si tratta di favorire l’eguaglianza
dell’utilità delle diverse persone che compongono la collettività. In quella
libertaria, eguale deve essere la tutela dei diritti di libertà da intrusioni che ne
limitino l’esercizio legittimo. Il marxismo (apprezzato da Arnsperger e Van
Parjis nel suo aggiornamento di tipo ‘analitico’) privilegia l’eguaglianza
economica e la sua efficacia nel superamento delle discriminazioni sociali.
Con la sua “teoria della giustizia” John Rawls sostiene l’eguaglianza nella
dotazione dei beni primari, necessari a realizzare il piano di vita di ciascuno,
e quindi prevede una relativa diseguaglianza nella distribuzione delle risorse
a favore dei più svantaggiati. Dal suo canto Sen parla di capacità umane che
debbono essere convertite con libere scelte personali in funzionamenti o
realizzazioni effettive, grazie a risorse che correggano le disuguaglianze sia
materiali sia di cultura e, inoltre, di condizione naturale.
Bernard Williams – come rimarca Carter – sottolinea che,
nell’essenziale, si tratta di assumere le persone come «eguali dal punto di vista
umano» e cioè «considerarle come esseri capaci di darsi degli scopi, tenendo
conto dell’importanza delle loro vite secondo il loro punto di vista, in termini
delle loro opinioni riguardo a ciò che renderebbe tali vite di successo», senza
però far dipendere il rispetto dell’«essere umano» dai successi o dai fallimenti.
Questo modo di pensare l’eguaglianza rimanda certamente all’idea di «eguale
rispetto» formulata da Kant ma è presente oggi – occorre aggiungere – nella
teoria della «razionalità comunicativa» elaborata da Karl-Otto Apel e Jürgen
Habermas. Quest’ultimo, formulando un’etica del discorso5, la caratterizza
come l’interazione di interlocutori o di «parlanti» i quali si attribuiscono una
medesima dignità quanto alla capacità reciproca di offrire e ricevere un senso
in vista di un accordo.
Tale filone è stato sviluppato, con maggiore attenzione alle dinamiche
concrete del conflitto, dalla teoria del riconoscimento di Axel Honneth, il
quale riprende anche la dialettica hegeliana della intersoggettività6.
Se al fondo del pensiero dell’eguaglianza c’è – come si è visto –
l’apprezzamento dell’«essere umano» in tutti e in ciascuno, è possibile
prendere le mosse da questa affermazione per sostenere una prospettiva che
approfondisca tale apprezzamento?
F R A N C E S C O TO TA R O
6
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
7
Qui vorrei appunto argomentare a favore della pregnanza di un
pensiero etico-antropologico che faccia perno sulla dignità umana concepita
come dignità di essere. L’eguaglianza verrebbe quindi motivata come diritto
universale al conferimento della pienezza di essere, un essere comune e
insieme differentemente partecipato.
Di tale tentativo di radicamento ontologico dell’etica, e della
peculiare antropologia dell’eguaglianza ad essa corrispondente, mi limito qui
a mostrare i requisiti grazie ai quali essa può aspirare a esercitare un’efficacia
reale suggerendo criteri di azione da applicare in concreti contesti di vita
individuale e collettiva. Il primo requisito di tale impostazione etica è infatti
l’impegno a far accadere nell’esistenza la piena positività dell’essere. Ciò
significa, più precisamente, impegnarsi a conquistare ed estendere le
condizioni e le opportunità, storicamente già disponibili o da perseguire oltre
le restrizioni del presente, affinché ciascuno sia messo in grado di realizzare il
piano di vita del quale è portatore nella ricchezza delle proprie capacità e
secondo le scelte ritenute più adeguate alla ricerca di una vita buona.
Se perciò la meta sostanziale da condividere universalmente è il
conferimento di essere, tale meta si specifica nell’acquisizione e, prima ancora,
nel dotarsi della potenza di acquisire, da parte di ognuno, gli elementi che nel
loro insieme vengono a comporre un buon equipaggiamento per l’esistenza
presa nell’ampia gamma dei bisogni e delle aspirazioni legittime: la decenza
dell’abitare, del nutrirsi e del vestirsi, la cura della salute, l’adeguatezza
dell’istruzione, la libertà di movimento, l’accesso al lavoro, il coinvolgimento
nelle decisioni, la possibilità delle relazioni private e pubbliche ecc.
Si potrebbe rilevare che con questo spessore di concretezza e di
varietà è configurato il ben-essere (well-being) nelle elaborazioni teoriche del
già ricordato “approccio delle capacità” (al nome di Sen, è da aggiungere
quello di Martha Nussbaum)7. Da essi – in particolare dal primo – la ricchezza
economica, al di là dei parametri quantitativi rimproverati all’impostazione
utilitarista, viene correlata alle capacità di agire (agency), diversamente
modulate secondo le peculiarità individuali e i contesti storico-politici, ma in
ogni caso orientate ad acquisizioni di essere e di avere per il compimento
(flourishing) dell’intera persona. In tale visione la prospettiva
dell’eguaglianza si intreccia, in equilibrio dinamico, con le scelte appropriate
a ciascun individuo.
Se l’essere da realizzare si articola in contenuti in grado di
promuovere una vita buona, l’etica può aspirare ad essere discorso propulsivo
della dignità della persona nella identità propria e nella sua relazione ad altri.
Il fondamento di ciò risiede nel fatto che sia io sia l’altro assumiamo il
radicamento in un essere che ci costituisce insieme come noi.
7
L ETICA DELL EGUAGLIANZA
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
8
Queste puntualizzazioni ci consentono di ancorare a una condivisione
d’essere la norma kantiana dell’eguale rispetto della dignità umana («agisci in
modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni
altro, sempre insieme come scopo e mai semplicemente come mezzo»). Si può
proporre una triplice enunciazione normativa: a) sul fondamento dell’essere
comune a te e all’altro in quanto insieme appartenenti a un noi, considera
sempre l’essere altrui come vorresti fosse considerato il tuo proprio essere; b)
sul fondamento dell’essere comune per quanto temporalmente già manifesto,
non far mancare anche all’essere altrui le condizioni di cui non priveresti il tuo
proprio essere; c) sul fondamento dell’essere comune per quanto
temporalmente non ancora manifesto, procura anche all’essere altrui quelle
condizioni che ritieni opportune all’incremento del tuo proprio essere.
La norma dell’interazione interpersonale messa sui cardini
dell’ontologia avrebbe il vantaggio, rispetto al piano formale del rispetto
prescritto da Kant, di motivare moralmente alla condivisione di condizioni e,
quindi, di beni man mano precisabili nei termini concreti della fruizione delle
risorse che la convivenza ha già reso o può rendere disponibili.
L’etica di una comune pienezza di essere è allora in grado di suggerire
concetti idonei alla interpretazione ponderata dei bisogni e dei desideri in
rapporto alle situazioni di carenza e alle attese di compimento. Nella messa a
punto non solo di coordinate sintetiche ma anche di strumenti analitici in vista
di risultati verificabili nell’esperienza, un’etica siffatta si farebbe vettore efficace
della realizzazione di una convivenza assiologicamente arricchita, cioè della
costruzione di una situazione di valore tra persone che, alla luce della
condivisione di un essere che ci riguarda anzitutto o in profondità come noi, si
impegnano a far prevalere la logica del riconoscimento reciproco, quanto
all’attribuzione di diritti e di doveri, su quella del dominio e dell’antagonismo.
Questa riflessione può essere completata da una proiezione nella sfera
religiosa. Qui la pienezza dell’essere si rivela come Dio che è padre «ricco di
grazia e di fedeltà», alla quale egli resta fermo anche quando il suo popolo si
allontana da lui e manda il figlio per una conciliazione che rifonda la
condizione umana come condizione di eguale fratellanza. A partire
dall’abbondanza del dono divino, l’eguaglianza può essere persino superata in
una diseguaglianza virtuosa, dove ciascuno, replicando l’esempio che viene
da Dio con l’invio del figlio per amore dell’uomo, può scegliere di porsi a
servizio incondizionato dell’altro. L’etica del primato dell’altro al cui appello
si risponde fino a farsene ostaggio – etica con la quale Lèvinas ha forzato i
limiti della reciprocità perfettamente simmetrica – è a ben vedere tributaria
dell’ispirazione religiosa. Come pure l’etica del dono, che non esclude
F R A N C E S C O TO TA R O
8
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
9
l’obbligo della restituzione, ma non si fonda necessariamente su di esso.
Una proiezione ulteriore del discorso di un’antropologia basata sulle
ragioni dell’essere individuale e collettivo ci potrebbe portare a riesaminare
con occhio nuovo i problemi attuali della cittadinanza. Quest’ultima infatti è
caratterizzata in misura crescente non solo dalle questioni attinenti alla
distribuzione dell’avere, ma anche dalle richieste di riconoscimento di modi di
essere e di stili di vita inediti. Perciò le rivendicazioni dei diritti (con i doveri
corrispettivi) si sono in buona misura spostate dal livello materiale in senso
stretto al livello più propriamente culturale. E in una tale situazione, foriera di
conflitti insanabili se non si allargano gli orizzonti di ciò che siamo disposti a
considerare dignità umana, una visione più adeguata dell’unità e della
molteplicità dell’essere comune diventa decisiva ai fini di una convivenza
multiculturale pacifica.
Queste linee prospettiche sono allora propulsive della costruzione di
una cittadinanza cosmopolitica, la quale è la nuova frontiera rispetto alla quale
ogni discorso sull’eguaglianza deve mettersi alla prova in quanto proteso alla
realizzazione di un mondo di persone senza discriminazioni8.
Francesco Totaro
Ordinario di Filosofia Morale Università di Macerata
1 A. K. Sen, La diseguaglianza, trad. it. il Mulino, Bologna 1994, p. 7.
2 Ch. Arnsperger – Ph. Van Parjis, Quanta diseguaglianza possiamo accettare?,
trad. it. il Mulino, Bologna 2003.
3 E. Somaini, Uguaglianza, Donzelli, Roma 2002.
4 L’idea di eguaglianza, introduzione e cura di I. Carter, testi di R. J. Arneson,
R. Dworkin, Th. Nagel, A. Sen, B. Williams.
5 Vedi, tra i suoi numerosi scritti, Etica del discorso, trad. it., Laterza, Bari 2000.
6 Vedi Lotta per il riconoscimento, trad. it. il Saggiatore, Milano 2002.
7 Di Sen menzioniamo ancora gli scritti raccolti in Il tenore di vita. Tra
benessere e libertà, Marsilio, Venezia 1993 e La ricchezza della ragione.
Denaro, valori, identità, il Mulino, Bologna 2000; di M. Nussbaum, Women and
Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge University Press,
Cambridge-New York 2000, trad. it. di W. Maffezzoni, Diventare persone.
Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001, il Mulino, Bologna
2002.
8 Per un approfondimento mi permetto di rinviare a F. Totaro, Etica dell’essere
persona e nuova cittadinanza, in F. Botturi, Le ragioni dell’etica, Vita e
Pensiero, Milano 2004, pp. 41-64.
9
L ETICA DELL EGUAGLIANZA
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
10
Luciano Venturini
NEOLIBERISMO ED ECONOMIA SOCIALE DI
M E R C ATO:
QUALI RUOLI PER IL M E R C ATO, LO
STATO E LA SOCIETA’ CIVILE*
Come fa a funzionare un'economia di mercato? In un'economia di
mercato per definizione non esiste un'autorità centrale e le decisioni
economiche vengono prese in maniera decentrata da liberi cittadini, da
imprese, da privati, a seconda dei propri interessi. Un'economia di mercato
non è un caos di scelte incoerenti anzi, i drammi della storia hanno dimostrato
come le economie centralmente pianificate, essenzialmente di area
comunista, siano miseramente collassate. Il socialismo reale non è stato in
grado di funzionare.
La riscossa neoliberista, già cominciata negli anni '80, si è accentuata
dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino. La visione che il
capitalismo funzioni e che quanto più libero mercato c'è, tanto meglio vanno
le cose, ha vinto e si è rafforzata nelle università di élite là, dove si formano
gli imprenditori, là dove si plasma e si orienta il dibattito culturale a livello
internazionale. E’ la vecchia idea dell'economista Adam Smith della mano
invisibile, quella di lasciar fare al mercato, perché quanto più si lascia libertà
di movimento, tanto più si produce efficienza e questo comporta, a lungo
termine, meno burocrazia, più crescita, più gettito fiscale e con le risorse
disponibili si possono attuare anche politiche sociali e di redistribuzione della
ricchezza prodotta.
La sfida del pensiero neoliberista da questo punto di vista è una sfida
che ha argomenti, non è banale ed è il segno dei tempi in cui viviamo ormai
da 20/25 anni. Se un Paese vuole crescere e vuole avere giustizia sociale deve
affidarsi al mercato e quanto più fa questo, tanto meglio cresce. La battaglia
contro le forme tradizionali di welfare è una battaglia giusta, il welfare
tradizionale infatti è pesante, costa, è burocratico, comporta un'elevata
tassazione e quanto più alta è la tassazione tanto più si disincentivano gli
investimenti e quindi la crescita economica, un alto livello di pressione
fiscale porta inevitabilmente alla creazione di un'economia sommersa e
LUCIANO VENTURINI
10
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
11
all'introduzione di ulteriori distorsioni anche per la competizione tra le
imprese.
Le implicazioni che derivano da questa dottrina economica sono:
meno imposte, più risorse lasciate ai cittadini, più risorse lasciate alle
imprese, più incentivi per la crescita e più risorse da destinare alla
redistribuzione e quindi, in definitiva, più giustizia sociale. Gli Stati Uniti
sono il Paese che ha più libertà in campo economico e per questo crescono
più dell'Europa, la quale è ancora fortemente appesantita dai lacci e lacciuoli
di un welfare tradizionale. Gli Stati Uniti hanno un basso tasso di
disoccupazione, mentre in Europa si viaggia ancora con numeri molto alti; la
Gran Bretagna, nel suo piccolo, segue il modello statunitense, mentre i nuovi
Paesi dell'Est europeo, scottati dal socialismo reale, si sono buttati verso
l'approccio liberista con un'aliquota marginale di imposta abbastanza bassa e
una bassa pressione fiscale, raggiungendo tassi di crescita rilevanti. La Cina
che era un Paese burocratizzato e fermo da quando Deng ha deciso per la
svolta a favore del mercato, ha raggiunto tassi di crescita elevati. I Paesi che
privatizzano, applicano, dunque, la deregulation e crescono di più. Ma allora
dobbiamo diventare tutti neoliberisti e vivere solo di mercato? Dove sta il
punto debole di questa visione?
Nel 1967, in Università Cattolica, partì la contestazione studentesca.
Io ero una matricola e, per cercare di capire, mi ricordo che lessi qualcosa
sull'insegnamento sociale della Chiesa: si trattava di un libretto del vecchio
Istituto Sociale Ambrosiano (ISA), credo scritto da Monsignor Guzzetti,
quindi quanto di più ortodosso nella presentazione dell'insegnamento sociale
della Chiesa ci fosse. In questo libretto ho letto chiaramente che il libero
mercato è un idolo come lo è il comunismo e l'abolizione della proprietà
privata; ho letto anche che l'insegnamento sociale della Chiesa era
sostanzialmente a favore di un'economia mista, quella che fu poi definitiva
“economia sociale di mercato”.
Da questa lettura ho maturato un atteggiamento di cautela: ho capito
che il capitalismo liberista (nel 1967 il capitalismo italiano era ancora un
capitalismo dal volto abbastanza disumano) doveva essere criticato senza se
e senza ma, con la cautela necessaria da evitare i disastri prodotti da un
estremismo non sempre condivisibile. In qualche modo, noi delle Acli.
abbiamo sempre lavorato su questa linea usando quindi le dovute cautele. Ma
oggi come possiamo reagire a questa ventata di neoliberismo estremo?
Quello che noi oggi conosciamo riguardo al funzionamento del
capitalismo è qualcosa di molto più articolato e meno ideologico rispetto alla
11
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
12
ricetta standard neoliberista. Gli economisti non la pensano tutti allo stesso
modo, ci sono varie scuole di pensiero, non conosciamo soltanto Milton
Friedman, abbiamo Joseph Stiglitz, Amartya Sen e altri economisti ancora
più critici. Lo stesso “main stream” cioè la corrente principale di pensiero, è
oggi molto più ricca rispetto a quella che le scuole più liberiste vorrebbero
fare intendere. Si possono trovare nella teoria economica degli argomenti
tecnici per contrastare il neoliberismo. Sono argomenti seri e forti per
impostare una battaglia culturale.
Un primo filone molto importante sottolinea come il capitalismo sia
in grado di divorare la concorrenza: ci sono dei processi di concentrazione,
basati su forze economiche che portano allo sviluppo di imprese di
dimensioni sempre maggiori e strategie di impresa per ridurre la concorrenza,
e per creare barriere all'entrata di nuovi concorrenti. Un giovane economista
italiano che insegna negli USA, e si chiama Luigi Zingales, ha scritto un libro
molto interessante1, dove si sottolinea come i liberi mercati non siano una
situazione naturale, spontanea, ma esistano forze economiche potenti che
portano alla concentrazione, all'oligopolio e al monopolio. Costruire un
monopolio significa mettersi nelle condizioni di guadagnare di più e, se
l'obiettivo dell'impresa capitalistica è massimizzare il profitto, la corsa al
profitto implica, per forza di cose, la corsa a costruirsi delle situazioni di
protezione, di monopolio, escludendo gli altri.
Un importante filone culturale di teoria economica sottolinea la
necessità di preservare la concorrenza, per cui è estremamente importante
che in un Paese ci siano delle istituzioni antitrust volte a conservare questo
fenomeno. Mario Monti appartiene a questa visione. Molti colleghi della
Bocconi, come Giavazzi, seguono quest'ottica e non sono liberisti proprio
perché sanno che per tutelare la concorrenza occorre un intervento pubblico,
occorrono delle istituzioni pubbliche di tutela e di garanzia. Questo è un
filone molto importante e molto utile perché pone l'enfasi sul fatto che per
riscoprire le virtù del mercato, i mercati devono funzionare. Se invece i poteri
forti distruggono la capacità di fare concorrenza e quindi di lavorare
nell'interesse generale, si va verso un assetto che non è coerente con il bene
pubblico. Questa considerazione riduce il potere del mercato e le posizioni di
rendita dell'establishment. Dovremmo essere in grado di liberalizzare le
professioni per esempio quelle dei notai, degli avvocati etc... e aprire spazi
per i giovani che vogliono imparare.
Una seconda ragione, per cui questa scuola di pensiero deve essere
considerata valida, è che non ha implicazioni liberiste: non è lasciando fare
al mercato, come abbiamo visto, che si tutela la concorrenza; ci vuole
LUCIANO VENTURINI
12
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
13
un'importante capacità, da parte dei pubblici poteri, di controllare e ci
vogliono le authority che devono essere indipendenti, neutrali, rigorose e
capaci di far funzionare al meglio i mercati in nome dell'interesse generale.
E qui voglio fare un esempio. Veniamo da un mese di agosto che ha segnato
un picco negli incidenti aerei, fenomeno che si è accentuato probabilmente
anche a causa della liberalizzazione che ha immesso sul mercato le cosiddette
compagnie “low cost”. La concorrenza ha attaccato le posizioni di monopolio
delle tradizionali compagnie aeree e questo è da considerarsi una cosa sana
ma bisogna tuttavia stare attenti che, se abbiamo diverse compagnie “low
cost” in competizione, queste possono essere spinte a ridurre gli standard di
sicurezza e quindi è chiaro che nella misura in cui si liberalizza per far
funzionare i mercati e abbattere le tariffe, la responsabilità del pubblico deve
essere ancora più forte.
In un articolo apparso sul “Wall Street Journal” in cui veniva
intervistato Zingales, si sottolinea proprio come standard di sicurezza, nel
campo delle compagnie aeree, siano indispensabili per attirare nuovi entranti
e per garantire quote di mercato alle nuove compagnie e quindi è
nell'interesse di queste ultime che ci siano gli standard di sicurezza perché,
senza tali standard, i clienti preoccupati finirebbero per optare di volare solo
con compagnie già affermate sul mercato e quindi ciò comporterebbe, di
fatto, un rafforzamento del regime di monopolio per queste ultime.
Non sta scritto, quindi, da nessuna parte che un'economia di mercato
lasciata a se stessa crei uno dei migliori mondi possibili. Ci sono dei
problemi: innanzitutto abbiamo un problema di giustizia distributiva.
L'intensità della competizione non va d'accordo con la giustizia
distributiva, una competizione sempre più stretta e marcata significa che chi
è forte si afferma e chi è debole resta al palo e questo è vero sia a livello
individuale, sia per le imprese, sia per un intero Paese. Più competizione
significa poi anche affrontare il problema di una giustizia distributiva. Ma
attenzione, non c'è solo la giustizia distributiva in gioco, bensì anche ulteriori
aspetti quali: la qualità sociale e la sostenibilità, aspetti legati al senso dello
sviluppo economico, alle modalità di funzionamento dell'economia e della
società. Se accettiamo una società di mercato in cui il mercato abbraccia ogni
cosa, si può dimostrare rigorosamente che noi andiamo incontro a gravi
problemi nell'ambiente umano e in quello naturale (come ne parla la
Centesimus Annus). Un conto sono infatti le politiche di giustizia
redistributiva atte a contrastare la povertà, e un conto sono invece le politiche
fatte per affrontare i fallimenti del mercato sul fronte della qualità sociale e
della sostenibilità. Gli economisti sanno benissimo che i problemi
13
NEOLIBERISMO E ECONOMIA DI M E R C ATO
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
14
dell'inquinamento devono essere affrontati dalle politiche ambientali, perché
le imprese non tengono conto dei costi sociali. Quindi se vogliamo parlare di
sostenibilità ambientale servono interventi. La qualità sociale è, a suo modo,
una questione molto delicata e molto seria, il mercato funziona benissimo per
quanto riguarda i beni privati ma fallisce miseramente per i beni pubblici che
sono numerosi, complessi e vari (vedi infrastrutture, modalità sui trasporti).
Per i beni pubblici occorrono decisioni e risorse pubbliche e qui ci
scontriamo con una delle contraddizioni più forti delle economie di mercato:
ai beni pubblici manca visibilità e sostegno economico. Avete mai sentito,
infatti, uno spot pubblicitario sui beni pubblici (pubblicità progresso e
simili); i beni privati, invece, sono supportati da investimenti forti di
marketing e noi, cittadini, siamo sollecitati a destinare il nostro reddito
disponibile verso i beni privati e non verso i beni pubblici, perché i beni
pubblici sono in qualche modo finanziati attraverso l'imposizione fiscale e
siccome nella società in cui viviamo l'enfasi esasperata è sui beni privati,
ovviamente ognuno di noi vuole avere più reddito disponibile per acquistare
beni privati e non è disposto a vedere il proprio reddito ridotto dalle imposte.
Le società di mercato lasciate al mercato corrono il rischio di avere
una composizione sbilanciata tra beni privati e beni pubblici, un equilibrio
che invece dovrebbe essere sempre assolutamente preservato.
Il capitalismo è un sistema economico che funziona senza richiedere
a nessuno virtù etiche superiori quali l'altruismo, la compassione, il farsi
carico degli altri perché il mercato funziona senza richiedere di farsi
prossimo. L'altruismo, la compassione, la conversione del cuore, quello che
fa di un uomo l'uomo nuovo, sono virtù etiche superiori.
Il comunismo è fallito perché non è stato in grado di creare l’uomo
nuovo. Il mercato funziona sempre perché le imprese puntano al profitto e il
meccanismo della concorrenza premia i migliori, ma c'è il risvolto della
medaglia che sta nel fatto che le virtù etiche superiori, se non vengono
adeguatamente coltivate, rinsecchiscono. Quali sono le conseguenze
antropologiche di tutto questo? Il fatto che il capitalismo così come è non può
reggere sotto le contraddizioni etiche.
Non possiamo accontentarci di una società di mercato allo stato puro:
il mondo, a lungo andare, va alla deriva con questo liberismo sfrenato.
Abbiamo bisogno di vedere bene quelli che sono i limiti, i problemi e i
fallimenti e dobbiamo affrontare con lucidità questo problema se vogliamo
un'economia sociale di mercato. Un modello che abbiamo sempre avuto in
testa ma dobbiamo sforzarci di continuare a pensarlo perché è il modello
corretto per vincere la battaglia delle idee e la battaglia politica. Le
LUCIANO VENTURINI
14
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
15
conseguenze devastanti del fondamentalismo di mercato le possiamo vedere
chiaramente nella governance della globalizzazione e nella grave crisi che sta
attraversando l'Europa. Nella lettura che io propongo ritengo che i limiti
evidenti di non funzionamento nel nome dell'interesse globale e la stessa crisi
dell'Europa dipendano proprio da un'influenza nefasta che il fondamentalismo
di mercato ha esercitato sia a livello globale che in Europa.
Partiamo dall'Europa. In Europa abbiamo l'integrazione dei mercati
e la moneta unica, abbiamo decisioni pubbliche prese a livello federale e la
libera circolazione delle merci: tutte cose positive dal punto di vista di un
approccio neoliberista; ma non abbiamo, a livello europeo, altre istituzioni
pubbliche che siano di governo e di legittimazione. La retorica neoliberista
dice che gli USA crescono perché c'è flessibilità nel mercato del lavoro e c'è
libertà nei mercati, mentre l'Europa non cresce in quanto è frenata da un
mercato troppo rigido e soggetto a troppa burocrazia. E' chiaro che ogni cosa,
come anche il Welfare State, va rivista, ma il problema sta in come la si
rivede. Gli Stati Uniti crescono perché hanno una politica industriale a livello
dei singoli Stati e le decisioni pubbliche di orientamento strategico vengono
prese a livello federale: comincia forse a profilarsi qualcosa anche a livello
federale europeo ma non basta. La moneta unica è una grande innovazione
ma da sola non è sufficiente, bisogna saperla gestire.
La globalizzazione significa integrazione dei mercati, è un processo
che va benissimo per nuovi mercati emergenti come Cina e India e alcune
nuove realtà del panorama dell'ex blocco sovietico (Ungheria, Repubblica
Ceca etc...) ma la globalizzazione va governata perché può andar bene per chi
ha la forza, la fortuna, il talento, la salute ed un certo assetto istituzionale; per
i disperati dell'Africa, poveri, con conflitti etnici e con una qualità
istituzionale devastante, certo no. Purtroppo la globalizzazione sta
aumentando drammaticamente le disuguaglianze fra Paesi avanzati e Paesi
arretrati. Nei cosiddetti Paesi avanzati non c'è nessuno che non abbia accesso
ai farmaci salvavita mentre in Africa gli stessi farmaci, come quelli contro
l'AIDS, non sono disponibili. Il nostro sistema sanitario nazionale, che è fra
i migliori al mondo, garantisce per tutti la possibilità di assumere quei
farmaci che permettono di salvarsi la vita. La globalizzazione sta
camminando sulla integrazione dei mercati e sulla liberalizzazione dei
movimenti di capitali, cioè sostanzialmente sta ripercorrendo in qualche
modo quella che è stata l'esperienza dell'Unione Europea.
15
NEOLIBERISMO E ECONOMIA DI M E R C ATO
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
16
Bisogna riconoscere che il fondamentalismo di mercato ha realizzato
alcune forme di integrazione commerciale e di libera circolazione delle merci
e dei capitali ma non si è preoccupato minimamente, nella sua visione
neoliberista, che per il mercato sono necessarie delle istituzioni di
legittimazione e politiche redistributive. Certo non abbiamo un'autorità di
governo mondiale, ma bisognerà trovare il modo per riuscire a completare
questa grave lacuna, altrimenti il processo di globalizzazione creerà non il
migliore dei mondi possibili ma il peggiore dei mondi possibili.
Luciano Venturini
Prof.essore di Economia Politica all’Università Cattolica di Milano
*Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di
Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della
società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo
modello sociale”.
1 Luigi
Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004.
LUCIANO VENTURINI
16
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
17
Carlo Stelluti
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella
societ attuale
IL LAVORO*
I tre valori laici fondamentali dell'Europa moderna sono: la liberté, la
fraternité e l'égalité. La libertà con tutta probabilità si è affermata con parecchi
milioni di morti, dopo 215 anni di lotte e conflitti all'interno di una fase di
grande trasformazione economica e sociale del mondo e in particolare
dell'Europa. La fraternità è un valore ormai acquisito. Per quanto riguarda
l'eguaglianza questo valore contiene ancora una carica eversiva che desta non
poche preoccupazioni; personalmente, da sindacalista, ricordo molto bene
come durante la grande stagione di lotte sindacali si teorizzasse
l'egualitarismo, un concetto che faceva paura a molti in quanto si traduceva,
in concreto, nella rivendicazione di aumenti salariali uguali per tutti. Quindi,
se vogliamo, il discorso di égalité, è ancora tutto da conquistare.
Il titolo delle giornate di studio di quest'anno* non mi convince del
tutto, sembrerebbe oramai che la società dei due terzi sia definitivamente
tramontata. Ma si tratta di una suggestione sociologica perché i dati statistici,
che ci ha portato David Benassi, ci suggeriscono che non ci sono due terzi di
eguali e un terzo di diseguali ma la scala delle diseguaglianze è molto più
ampia e soprattutto più stabile nel tempo. Non credo che si possa dunque
immaginare oggi un nuovo modello sociale magari un po' regressivo che
produca metà e metà, qui l'impressione è che la situazione delle
diseguaglianze sia molto più profonda e inamovibile.
Ma allora cosa significano parole come 'uguaglianza' e
'diseguaglianza'? Il concetto di uguaglianza si estrinseca soprattutto in ambito
giuridico: tutti siamo uguali davanti alla legge dove l'uguaglianza giuridica
assume il significato di giustizia sociale, giustizia nell'applicazione della
norma in quanto tale a fronte di casi simili si applicano conseguenze simili.
Ma dal punto di vista delle regole che producono eguaglianza viviamo
in una fase, non solo in Italia dove, a seguito di un'esigenza di maggiore
competitività del sistema economico-produttivo, si tende ad attribuire alle
regole degli elementi che riducono la possibilità di competitività del sistema.
E quindi la parola d'ordine è ridurre questo sistema di regole, anche il Libro
Bianco sulla contrattazione e legislazione del lavoro si muoveva in questa
17
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
18
direzione. Ne consegue la tendenza a fare in modo che i contratti nazionali
siano contratti leggeri e di principio e a trasferire il livello della definizione
delle regole sempre più in basso e sempre più all'interno delle singole realtà
aziendali. Una tendenza che sembrerebbe liberatoria da un punto di vista
economico ma che ha delle conseguenze inevitabili sulle condizioni di vita dei
lavoratori e può portare a diseguaglianze anche in ambito giuridico normativo.
Le diseguaglianze sociali in Italia sono elevatissime, ad esempio a
parità di lavoro e di salario c'è disparità tra lavoratori che possiedono o non
possiedono una casa in proprietà. Chi ha il potere non dovrebbe tollerare che
esistano situazioni di profonda diseguaglianza, di povertà e di indigenza.
In politica c'è la visione negativa di una destra un po' liberista che
rifiuta interventi a favore del superamento delle diseguaglianze perché ritiene
siano limitanti della libertà dei cittadini e pensa che l'eguaglianza sia un
elemento negativo perché una società che si regge sulla competizione e sulla
selezione se tende all'eguaglianza mortifica questi due elementi.
C'è poi chi considera il concetto di diseguaglianza un fatto naturale:
se il più ricco d'Italia associa il concetto che è più ricco perché è più bravo, è
chiaro che il più povero è il più stupido e perché dovremmo premiare gli
stupidi? E perché dovremmo fornire un sostegno agli indigenti che sono quelli
che non hanno voglia di lavorare? In questo modo nessuno andrebbe più a
lavorare. Allora è chiaro che la diseguaglianza non viene considerata allo
stesso modo.
Ci sono poi altri concetti di eguaglianza dove si parte da un presupposto
di carattere morale ed etico: tutti gli esseri umani sono uguali davanti a Dio e
davanti agli uomini, ma se tutti siamo uguali tutti abbiamo il diritto di vivere
decentemente la nostra vita. Questo filone tende a superare le diseguaglianze
dovute alle distorsioni sociali, alla sorte e a tutti gli interventi volti a superare gli
squilibri e i contesti sfavorevoli nei quali la popolazione vive.
Nella storia recente gli interventi sulle diseguaglianze non sono stati
concepiti tutti allo stesso modo. Ci sono state correnti di pensiero che
vedevano le diseguaglianze come il risultato di logiche di mercato e della
proprietà privata e quindi si è intervenuto su questo, si trattava dei sistemi
autoritari di ispirazione comunista che tendevano in questa direzione, tragici
sono stati i costi in termini di libertà.
Nella società moderna si tende sostanzialmente al superamento delle
diseguaglianze intervenendo sugli effetti attraverso scelte collettive e selettive
(pari opportunità, reti di protezione, forme di inclusione sociale, forme di
redistribuzione delle risorse, miglioramento dell'accesso ai beni
fondamentali). E' chiaro che combattere le diseguaglianze rimane, per molte
C A R L O STELLUTI
18
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
19
formazioni politiche, la ragione fondamentale della propria azione politica.
Non è un caso che la cultura liberista veda la politica come un ostacolo
all'esplicarsi del libero mercato e quindi tenda sostanzialmente a teorizzare
l'antipolitica.
Il bene lavoro è uno dei beni fondamentali. Così recita anche la nostra
costituzione con la frase: “L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro...”
perché produce reddito e attraverso il reddito si realizza la possibilità di
sopravvivenza delle persone. Ma il lavoro è anche realizzazione personale, è
uno strumento che conferisce cittadinanza e chi non l'ha è considerato una
persona subalterna che non ha diritti all'interno della società, il lavoro è quindi
un formidabile strumento di coesione sociale. Dall'insieme di questi concetti
ne deriva l'interesse collettivo affinché tutti i cittadini possano avere diritto di
accesso al bene lavoro.
Il lavoro è poi centrale anche dal punto di vista del concetto di
eguaglianza, perché dietro al lavoro c'è l'istruzione e la formazione. I laureati
hanno più probabilità di trovare un lavoro rispetto a chi non ha titoli di studio,
ma non solo il laureato ha più probabilità di avere un buon lavoro che gli dia
soddisfazione e che possa completare la sua personalità; infine il laureato ha
più probabilità di avere una buona retribuzione. L'accesso al bene lavoro
dipende dunque dalla preparazione. Ma attenzione: il lavoro tende a produrre
quella ricchezza che consente, ripartendola, di superare le diseguaglianze;
quindi dal lavoro discende il sistema di protezione sociale, le pensioni e quindi
la salvaguardia del soggetto debole in quanto anziano che non ha più
la possibilità di lavorare.
Il lavoro produce poi profonde diseguaglianze fra chi lavora
continuativamente e chi, non per sua scelta, deve farlo saltuariamente e poi fra
lavoratori dipendenti e professionisti. Il lavoro, che è un bene che sta sul
mercato, dovrebbe essere regolato dalle leggi del mercato: del prezzo e della
qualità, cioè quanto mi faccio pagare e la prestazione professionale che offro.
Ma non sempre le cose si svolgono in questo modo. L'accesso al mercato del
lavoro dipendente sta subendo delle profonde trasformazioni. In passato si
guardavano i bisogni del lavoratore, oggi criteri di questo tipo non ci sono più,
oggi l'azienda che necessita di un lavoratore mette in moto meccanismi di
selezione interni che sono del tutto personali e discrezionali. Purtroppo viene
data scarsissima enfasi alla preparazione e l'azienda non ha alcuna intenzione
di investire nella formazione del lavoratore. E' chiaro che questa logica
comporta delle profonde diseguaglianze nell'accesso al lavoro. Un mercato
corretto dovrebbe valutare le capacità e le professionalità, ma nella logica
della selezione si introducono moltissime variabili, alcune odiose come la
19
LE DISEGUAGLIANZE NEL LAV O R O
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
20
nazionalità, la religione, l'età, il sesso, la bella presenza, l'handicap e la
disabilità (dove sussiste ancor oggi un profondo pregiudizio), il territorio, la
politica. Si sta affermando un principio, soprattutto nella realtà milanese, dove
nelle municipalizzate non viene assunto più nessuno per bando di concorso, le
scelte vengono fatte discrezionalmente da parte di chi gestisce queste aziende.
Ma è questo il mercato? Questa è un'alterazione colpevole del mercato.
Pensiamo al settore ospedaliero nell'area milanese e lombarda dove
l'appartenenza a qualche forza politica è l'elemento fondamentale per fare
carriera e in taluni casi per essere assunti. Altro che modernità, sembra di
essere tornati al Medioevo!
Vi sono poi diseguaglianze di accesso al lavoro, per esempio delle
professioni che spesso sono corporazioni chiuse dove conta il censo, la
famiglia, la casta, fra grandi e piccole aziende, nella possibilità di carriera e fra
pubblico impiego ed impresa privata. Differenze poi le abbiamo nel tipo di
contratto con l'introduzione del pacchetto Treu prima e della Legge 30 poi: il
risultato è che abbiamo almeno una quarantina di forme di inserimento
nell'attività lavorativa diverse l'una dall'altra e che contengono profonde
diseguaglianze. Tempo determinato e tempo indeterminato. Il tempo
indeterminato è sostanzialmente protetto, regolato dalla contrattazione mentre
il lavoro atipico, con particolare attenzione al tempo determinato, è un lavoro
generalmente meno professionale e regolato da norme individuali.
Ma è tollerabile questa diseguaglianza? Perché viene accettata?
Perché sostanzialmente non è conosciuta e non c'è consapevolezza. C'è
qualche sindacalista che ha teorizzato una quota di diseguaglianza come
fisiologica. Vorrei che si operasse nella direzione tesa non dico a cancellare il
lavoro atipico in quanto tale, che alcune risposte può anche darle, ma almeno
che vengano create reti di protezione affinché non venga sopportato solo dal
lavoratore dipendente l'onere di una competizione internazionale all'interno di
un sistema economico assolutamente pigro e che non guarda al domani.
Dentro l'atipico vi sono poi grandi diversità e le conseguenze sociali
sono rilevanti, si pensi ad esempio che cosa significa un lavoro atipico a tempo
determinato per un giovane e per un anziano. Il giovane si adatta più
facilmente ad un ricambio di lavoro e se si trova temporaneamente senza
lavoro ha la famiglia che lo protegge; per l'anziano invece, magari con figli a
carico, il lavoro determinato diventa un elemento di precarietà, c'è poi
differenza fra chi possiede un'elevata professionalità e chi invece non l'ha. Chi
ha un'elevata professionalità nel lavoro atipico contratta e ogni cambio può
essere una nuova opportunità, chi ha una bassa professionalità è preso, invece,
per fame. C'è chi dunque lo sceglie e chi lo deve subire. E' chiaro che a fronte
C A R L O STELLUTI
20
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
21
di una norma uguale le condizioni sociali del lavoratore possono essere
profondamente diseguali.
Queste differenze dentro il mondo del lavoro vengono oggi
giustificate con l'esigenza di ridurre i costi per garantire la competitività sui
mercati internazionali, molte di queste normative hanno come effetto una
compressione del salario; ora è chiaro che non si può accettare che l'unica
soluzione sia la riduzione dei costi per mantenersi sul mercato internazionale,
perché i costi di paesi in via di emersione sono talmente bassi che se noi
volessimo essere competitivi con quei costi dovremmo dare 50 euro al mese
ad ogni cittadino italiano compresi i manager che hanno retribuzioni su scala
di diseguaglianza scandalose. Allo stato attuale delle cose, tenuto conto del
conflitto esistente oggi in Italia, sembrerebbe di sì, ma perché non ci sono
proteste per lavori e condizioni di lavoro anche dure e comunque non
paritarie? Come mai non succede nulla? Il diritto di sciopero è un diritto
sancito costituzionalmente, tutti se ne possono avvalere ma non tutti lo
possono esercitare, concretamente oggi lo sciopero lo fa solo chi ha la stabilità
del posto di lavoro perché il lavoratore a progetto se sciopera viene lasciato a
casa il giorno successivo. Le diseguaglianze si superano sia attraverso scelte
politiche che attraverso scelte sindacali. Notiamo come vi sia una profonda
carenza di assunzione di responsabilità su questo punto, viviamo un dibattito
strabico all'interno del nostro paese dove si discutono questioni che non
attengono alla vita reale delle persone.
Chiudo con una frase di Gorrieri che faccio mia: “le considerazioni
sopra espresse possono apparire ingenerose nei confronti del centro sinistra e
nei confronti del programma elettorale della destra che si affacciava al
governo nel 2001; fanno pensare ad un completo abbandono dell'intento di
andare incontro alle esigenze dei ceti meno abbienti, di riequilibrare le
profonde diseguaglianze esistenti nella società italiana”. Un'amara
constatazione che vale ancora oggi, a cinque anni di distanza da quando
veniva espressa, e forse è ancora più accentuata da una sostanziale assenza di
dibattito politico e sociale attorno al problema della diseguaglianza.
Carlo Stelluti
Sindaco di Bollate
*Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di
Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della
società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo modello
sociale”.
21
LE DISEGUAGLIANZE NEL LAV O R O
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
22
Mario Mozzanica
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella
societ attuale
IL W E L FARE*
Il welfare nasce nella storia e nel tempo come luogo espressivo delle
democrazie, per garantire questa dimensione dell'uguaglianza. Le
democrazie si sono costruite dentro due percorsi: i diritti civili e politici e i
diritti sociali. I diritti civili riguardano l'orizzonte delle uguaglianze che
chiamiamo formali (la libertà di parola, di espressione, di movimento, di
religione) mentre i diritti politici riguardano le differenziate forme di
rappresentanza di vita, di governo etc... .
Dalla fine dell'800 ci si rende conto tuttavia che questi due tipi di
diritti non bastano e che è necessario, sempre di più, tutelare un altro settore
emergente: quello del sociale. Si sta parlando troppo poco del rischio dei
cambiamenti che si vogliono apportare alla nostra carta costituzionale, la
riforma va a toccare l'art.3, comma 1 dove si fa riferimento ai diritti civili e
politici e il comma 2 che concerne i diritti sociali: libertà, uguaglianza e
fraternità. La fraternità è quella dimensione che ti fa riconoscere l'umano che
è comune a tutti; al di fuori di questa dimensione si corrompe il concetto di
libertà e di uguaglianza.
Perché oggi non si parla della diseguaglianza nel mondo del lavoro?
Sono d'accordo sul discorso delle pari opportunità che, tuttavia, deve
coniugarsi con quello delle pari responsabilità. Oggi c'è una enfasi esagerata
sul tema della libertà, ma la libertà non può essere soltanto negativa, nel
senso di poter fare tutto ciò che si vuole avendo soltanto il limite del confine
giuridico: questa non può essere definita libertà. Io penso che oggi non si
debba tanto educare alla libertà bensì sia necessario educare il concetto di
libertà.
Nello scenario moderno del welfare sono avvenuti grandi
cambiamenti: per la prima volta nel nostro Paese non abbiamo più un sapere,
un ethos condiviso (un valore comune), non esiste più la metanarrazione, cioè
quel racconto del nascere, del vivere, dell'amare, del soffrire, del gioire e del
morire che connota un popolo. Noi oggi siamo una moltitudine non più un
MARIO MOZZANICA
22
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
23
popolo, ma senza popolo non può esistere la democrazia. Nella complessità
della frammentazione le molteplici appartenenze rendono ardua la
costruzione di un'identità condivisa. Il giovane oggi vive ogni appartenenza
con riserva non riuscendo a riconoscersi veramente in qualche cosa. Oggi è
più difficile vivere la vita, il tempo, i luoghi, perché siamo vissuti dalla vita,
dal tempo, dai luoghi e tutto passa sopra le nostre teste senza che riusciamo
a coglierne il significato.
Nel nostro tempo calchiamo la mano molto sul come affrontare la
vita ma siamo diventati un po' disfasici sul dove; nelle nostre città ci
blindiamo nelle case lasciando fuori il marasma, la moltitudine e non
percepiamo che la solitudine, in cui ci rifugiamo, rappresenta una trappola
che può far scattare anche grandi violenze intrafamigliari. Meno ancora ci
chiediamo poi il perché viviamo, rimuoviamo così radicalmente il tema della
morte o meglio ne abbiamo una visione mediatica financo esagerata, ma il
messaggio che passa è quello “di stare tranquillo tanto quella cosa non è
successa e non succederà a te”.
Tutto questo tocca la sfera dei diritti sociali con una forte
personalizzazione della vita da parte di ognuno di noi e comporta un discorso
estremamente interessante perché l'orizzonte del senso della vita oggi è
consegnato alla libertà ed intenzionalità del cucciolo d'uomo. Il precetto
educativo che andrebbe trasmesso da parte di un padre o di una madre, per
rendere ragione ai propri figli sul fatto di averli messi al mondo, è quello di
dire loro che il mondo è bello, perché se ad un adolescente non si spiega che
lo si è messo al mondo per lui, in quanto è lui che vale e non perché son bravo
io come genitore, questo figlio si sente di seconda categoria. E' chiaro che
oggi il tema della libertà, non nel senso liberistico del termine, è un discorso
molto importante ma il concetto della personalizzazione della propria vita,
del proprio tempo, delle proprie scelte porta verso un orizzonte diverso anche
riguardo al welfare.
Il nostro welfare riferito alla previdenza è sempre stato visto in
termini di monetizzazione mentre sanità e assistenza sono sempre state
vissute come un orizzonte di offerta di servizi, ma se io faccio crescere il
discorso della personalizzazione è chiaro che tendo a monetizzare anche
questi due settori. I voucher socio-sanitari introdotti dalla Regione
Lombardia dove, in base ad una quota erogata, il cittadino può comprare la
prestazione domiciliare da chiunque, hanno cambiato radicalmente le
aspettative, è difficile allora pensare ad un welfare di uguaglianza. Se
parliamo di welfare dobbiamo ridiscutere un approccio antropologico al
soggetto e alla persona.
23
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
24
E' finito il tempo in cui si poteva parlare soltanto di bisogni, in
quanto il modo postmoderno, con cui il bisogno si presenta, è l'orizzonte del
desiderio e quel bisogno è carico di quella intenzionalità che io col tempo gli
do. Il bisogno dice prestazione, il desiderio dice relazione, il bisogno dice
appagamento, il desiderio dice riconoscimento. Nel nostro Paese il terzo
Settore non è nato come una serie di soggetti che si organizzano per dare
delle risposte. Io ricordo i primi seminari fatti con la fondazione Zancan negli
anni '65 '70, dove i sociologi dicevano che il volontariato non si sarebbe mai
sviluppato nel nostro Paese perché era il tempo in cui si stava consolidando
un discorso di un Welfare State strutturato. Invece il volontariato è andato
avanti, si è strutturato come impresa sociale ed è entrato a pieno titolo
nell'orizzonte del welfare soprattutto sui temi dell'assistenza e della sanità
dove occorrono sempre più un mix di garanzie ma anche di modalità
relazionali e di competenze.
Rileggiamo dunque il tema del welfare e dell'uguaglianza alla luce
del cambiamento culturale che è avvenuto in un discorso di nuove
aspettative. Nella forbice 80/20 (il 20% della popolazione dei Paesi avanzati
che utilizza l'80% delle ricchezze del pianeta) anche all'interno di questo 20%
ci sono delle differenze e non si venga a dire che sono diminuite le povertà
assolute in Italia, sotto un certo punto di vista può essere anche vero, ma
andiamo a vedere come sono cresciute le povertà relative. Non per nulla si è
parlato di Welfare Community cioè di tutela del soggetto che tenga conto di
una personalizzazione e di una territorializzazione.
Dobbiamo tenere insieme due fattori: da una parte i livelli essenziali
e dall'altra l'autosufficienza. I primi tutelati dall'art.119 III e V comma della
Costituzione, devono essere garantiti anche economicamente dallo Stato. In
Italia lo Stato spende due punti mediamente in meno della media europea nel
comparto della sanità. Non parliamo poi del reddito minimo di inserimento o
reddito garantito, che è nato in Italia da una finanziaria, e che è stato
consacrato poi con una legge-quadro dei servizi alla persona, che implicava
un patto con il soggetto di impegno professionale di lavoro.
Altro grande tema ignorato: l'autosufficienza: siccome non
dobbiamo mettere le mani nelle tasche dei cittadini viene decisa, in maniera
bipartisan, una tassa di scorporo sull'Irpef. Io credo che questo nasca anche
da un difetto di riflessione culturale sui problemi e penso che un'associazione
come le Acli debba pensare anche su tematiche di questo tipo, in quanto una
riflessione sullo scenario socioculturale riguarda molto anche il tema
dell'evangelizzazione e noi potremmo riuscire a vivere in un Paese sempre
MARIO MOZZANICA
24
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
25
più diverso e diversificato se saremo capaci di riconoscere e di condividere
l'umano che è comune, se non c'è questo intendimento non vi potranno essere
regole eticamente condivisibili.
Quali sono allora i cardini del welfare? Il volontariato sociale non
può essere un'alternativa al discorso pubblico, semmai piuttosto una sinergia
con quest'ultimo. Un discorso di sussidiarietà non può prescindere da un
coinvolgimento dello Stato, certo bisogna evitare che lo Stato assuma un
atteggiamento prevaricante, ma esso deve comunque sempre esserci per
garantire e tutelare la libertà e lo sviluppo della persona. Non può esserci un
mercato senza regole, noi abbiamo vissuto una stagione di privatizzazioni ma
senza che fossero seguite da liberalizzazioni, secondo una logica lobbistica.
Si crea quindi una differenza fra i bisogni di sussistenza, ad esempio fra
anziani autosufficienti e anziani non autosufficienti: perché se io sono un
anziano e ho una pensione media e sto bene vivo, ma se mi capita una
invalidità dal punto di vista fisico o una forma di demenza senile o di
Alzheimer ecco che allora non ce la faccio più.
C'è poi un welfare che tocca anche il discorso dell'esistenza: questa è
la sfida nuova del welfare e del postmoderno. In quel 20% di popolazione del
primo mondo abbiamo creato delle povertà immateriali, pensiamo ad
esempio al tema della sofferenza psichica e alle svariate forme di disagio che
vanno dai disturbi alimentari, all'uso di sostanze stupefacenti, all'alcolismo
etc. Il welfare ha davanti a sé compiti nuovi, sia nella classificazione che
nella gerarchizzazione dei bisogni; è chiaro che un difetto di cultura ci
potrebbe portare a rivedere i livelli essenziali di assistenza e di istruzione, per
esempio la chirurgia estetica potrebbe diventare un livello centrale di
assistenza e magari evitare di curare, come avviene già in certi Paesi europei,
il malato di Alzheimer dopo una certa età.
E poi abbiamo una disuguaglianza che tocca l'arco esistenziale della
vita, una famiglia oggi fa fatica, va aiutata e non solo con un sussidio di tipo
economico, ma soprattutto con sostegni di tipo civile. Dobbiamo
accompagnare il discorso della famiglia, che non deve essere solo compito
della Chiesa; dobbiamo far capire cosa vuol dire fare un figlio, probabilmente
dobbiamo pensare ad un discorso di garanzie ed insieme anche di
differenziazioni temporali.
Si è legiferato molto in tema di sanità ed in questo marasma di leggi
è possibile che si perdano di vista i livelli essenziali di assistenza. Ogni
Regione, in pratica, può fare quello che vuole in tema di sanità ma è
necessario che siano date garanzie sociali essenziali.
25
LE DISEGUAGLIANZE NEL W E L FA R E
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
26
E' importante poi che venga affrontato un discorso di ripartizione
delle risorse col federalismo fiscale: lo Stato, art 19 comma 5, deve prevedere
delle risorse aggiuntive nel caso che le regioni non fossero in grado di
garantire i diritti sociali essenziali, e all'art 120, II comma si dice che se una
regione che ha avuto il federalismo fiscale e i diritti aggiuntivi e se ne
infischia di adoperare le risorse per migliorare la condizione dei propri
abitanti, c'è il potere, da parte dell'autorità centrale, di sostituirsi mandando a
casa l'assessore e il direttore dell'azienda sanitaria. Ma questo discorso è
rimasto silente ed inattuato.
Le Ussl, che erano espressioni dei comuni in genere associati e che
garantivano una piena integrazione con il decreto 502, sono state abolite
creando le Asl (Aziende Sanitarie Locali), con Amato nel 1992. Avere portato
le aziende ospedaliere separate dalle Unità Socio-Sanitarie Locali vuol dire
avere introdotto una linea di mercato nella sanità che ci ha portato ai
problemi che abbiamo anche oggi in Regione Lombardia, le liste di attesa
nascono da un'eccedenza di offerta nelle cose remunerative e un'assenza di
offerta, soprattutto pubblica, per le prestazioni importanti.
Dobbiamo lavorare e pensare quindi su alcuni temi. La
globalizzazione ha portato, sottilmente non solo nel nostro Paese, a forme di
deistituzionalizzazione crescente con lo svuotamento delle competenze dello
Stato, con un passaggio dalla decisionalità al decisionismo e con una forma
di verticalizzazione del potere e di personalizzazione del discorso politico. I
problemi non si risolvono con leader carismatici ma con programmi politici.
C'è poi una crisi di fiducia nelle istituzioni: la società molecolare di cui ha
parlato De Rita, sta diventando la società della moltitudine (una somma di
persone senza fine). E stiamo attenti all'istinto che queste moltitudini possono
avere.
Dobbiamo essere in grado di chiedere regole istituzionali: se
privatizziamo e liberalizziamo abbiamo bisogno di autorità terze che
controllino. Il pubblico deve essere referente e garante per il cittadino anche
se di fatto magari gestisce sempre di meno. Attenzione anche al criterio
dell'esternalizzazione che non deve essere solo un criterio di tipo economico:
se io esternalizzo una funzione radicalmente pubblica, per cui il controllo mi
appartiene come pubblico e mi costa tanto quanto gestirla, non vale proprio
la pena di fare questa operazione.
La partita sulla sussidiarietà va ripresa: c'è un tipo di sussidiarietà
verticale o istituzionale che non è solo passiva ma è essenzialmente attiva: lo
Stato deve creare le condizioni perché le Regioni possano fare il loro
mestiere e le Regioni a loro volta, perché Province e Comuni possano
MARIO MOZZANICA
26
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
27
lavorare. In Lombardia le Aziende Sanitarie Locali sono di fatto espressione
della Regione e allora è chiaro che la Regione utilizza le Asl per controllare
anche i Comuni, magari con il beneplacido dell'Anci. C'è poi una
sussidiarietà di tipo orizzontale o circolare (art. 118 ultimo comma: lo Stato,
le Regioni etc favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e
associati per lo svolgimento di attività di interesse generale di bene comune
sulla base del principio di sussidiarietà), che non è soltanto gestionale ma è
essenzialmente espressivo-partecipativa (art.1 comma IV della L.338). E'
importante, quando si fanno le regole sul welfare locale dei piani di zona, che
ci sia una partecipazione costruttiva di tutti i soggetti del sociale.
Occorre infine tornare ad un discorso di riflessione culturale nelle
parrocchie, nei luoghi che ci sono rimasti di aggregazione sociale, ecclesiale
e di cittadinanza: se non si passa da questa strada il welfare rimane un tema
debole. Non c'è una libertà totale e assoluta, la libertà positiva è quella che io
possa, con le condizioni di bene comune, scegliere ciò che è bene per me,
riconoscendomi in quello zoccolo che si chiama l'umano che è comune e che
sarà la nuova base di ogni discorso costituzionale.
Il problema, andando avanti, sarà proprio quello di creare una nuova
base costituzionale sulla quale costruire un consenso civile, perché il welfare
non è solo un problema di diritti sociali ma anche un problema di democrazia.
Mario Mozzanica
Docente di Organizzazione dei Servizi alla Persona, Università Cattolica di Milano
*Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di
Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della
società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo
modello sociale”.
27
LE DISEGUAGLIANZE NEL W E L FA R E
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
28
Giorgio Benvenuto
Analisi dei processi portatori di diseguaglianza nella
societ attuale
IL FISCO*
La politica fiscale è fondamentale e determinante se si vuole ripartire
equamente la ricchezza all'interno di un Paese. In Italia abbiamo un sistema
fiscale nel quale gli elementi di eguaglianza, in questi ultimi anni, si sono
notevolmente alterati, ciò a seguito di mutamenti profondi avvenuti in campo
economico.
La globalizzazione è sicuramente fra gli elementi che hanno portato,
anche in ambito fiscale, a diseguaglianze e contraddizioni: era compito dei
politici prevedere gli effetti che la concorrenza avrebbe portato soprattutto
sulle scelte finanziarie e sulle possibilità che oggi hanno i capitali di ignorare
le frontiere e di poter essere trasferiti da una realtà poco profittevole ad una
ben più redditizia. Bisogna quindi avere presente lo scenario che è mutato a
livello mondiale e al contempo resistere agli slogan che, di questi tempi,
tendono ad influenzare moltissimo il dibattito politico fino a diventare quasi
dei luoghi comuni.
La necessità di ridurre le tasse è diventata ormai una bandiera che
suggestiona sempre più larghi strati economici e sociali e viene assunta come
baluardo ignorando il problema vero che non sta nella riduzione del peso
fiscale bensì nella redistribuzione della ricchezza all'interno del Paese.
Un'operazione di riduzione delle tasse può portare soltanto ad un
impoverimento delle entrate nelle casse dello Stato e degli enti pubblici che
si trovano a non riuscire più a far fronte ai problemi sociali (istruzione, sanità
etc...). Ciò che andrebbe fatto, invece, è una seria politica contro gli sprechi,
il parassitismo clientelare e la burocrazia.
I governi liberisti di destra (soprattutto quello tatcheriano e quello
reaganiano) hanno sempre portato avanti, con molta forza, la politica di
riduzione delle tasse che ha tuttavia provocato sperequazioni enormi nella
redistribuzione della ricchezza nonché il crollo dello stato sociale. E'
necessario che si paghino tasse giuste che riescano a sostenere un welfare
dignitoso per tutti e al contempo eliminare gli sprechi, ridisegnando e
rimodulando quello che è il carico fiscale.
GIORGIO BENVENUTO
28
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
29
Un'altra cosa importate da dire è che il nostro sistema fiscale è
vecchio rispetto ad una società che è profondamente cambiata. La maggior
parte delle entrate erariali proviene ancora dall'imposta sul reddito delle
persone fisiche (IRPEF), come succedeva negli anni '70 e '80 dove, tuttavia,
il numero dei lavoratori dipendenti che avevano un lavoro stabile era molto
più alto rispetto ad oggi e quindi anche l'introito per lo Stato era più ingente;
allo stesso tempo si sono ridotte o comunque diversificate negli anni le norme
sulla tassazione delle rendite finanziarie.
Una situazione alquanto stravagante, in quanto se per un reddito da
lavoro dipendente il prelievo è del 23%, per le rendite finanziarie si applica
un'aliquota pari al 12,5%. Ma non è tutto. Se io ho dei soldi in banca su un
conto corrente mi si applica un'aliquota del 27% mentre se ho una rendita
finanziaria (modifica introdotta da Tremonti in questa legislatura) e questa mia
rendita io la intesto ad una società (sempre mia) che sta all'estero e decido di
tenerla in questo Stato estero per più di un anno, non pago nemmeno una lira
di tasse ma ho un guadagno certo. Quindi un sistema profondamente ingiusto
ed iniquo. Tremonti si giustifica dicendo che bisogna comportarsi così se si
vuole che i soldi delle rendite ritornino in Italia ed invece ciò crea una
profonda distorsione della politica fiscale.
Nella precedente legislatura avevamo portato avanti, come
opposizione, una politica che in Europa avvicinasse le differenze e
combattesse gli elementi di nocività fiscale, perché questa politica è nociva
non solo in quanto permette ad alcuni di avere dei grandi guadagni, ma
soprattutto perché scoraggia chi vuole investire a favore di chi preferisce fare
speculazioni di tipo finanziario che, come abbiamo visto, hanno un
trattamento fiscale profondamente diverso.
Quello che non si è riusciti a risolvere è fare una legge sul conflitto
di interessi. Se parliamo ad esempio delle OPA le persone che concorrono a
quelle che sono chiamate “scalate” molte volte hanno chiesto un prestito alla
banca di cui sono anche amministratori. Il prestito, che hanno utilizzato per
l'acquisto delle azioni, lo collocano all'estero e poi quando scatta l'OPA quelle
azioni che costavano ad esempio 7 euro vanno a 15 ed io mi trovo nella
condizione non solo di avere fatto un grande guadagno ma di avere utilizzato
una banca per comprare la banca. Dunque un sistema fiscale e della gestione
del risparmio arretrato dove viene ipertutelato il grande debitore e lasciato a
se stesso il piccolo risparmiatore.
E' importante quindi in primo luogo non cadere nella trappola della
riduzione ad ogni costo delle tasse perché è un affare che avvantaggia
soltanto chi sta bene. In secondo luogo dobbiamo avere delle politiche
concordate a livello europeo, cioè dobbiamo evitare che vi sia concorrenza
29
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
30
nociva, perché se ammettiamo che ci siano dei paradisi fiscali trasformiamo
il nostro Paese in un inferno fiscale per chi non può avvantaggiarsi di quei
paradisi. Infine dobbiamo rimodulare e quindi ripensare ad un nuovo sistema
fiscale che tenga conto delle esigenze di un Paese moderno.
Un altro slogan molto di moda in questi ultimi tempi è quello del
federalismo fiscale. Bisogna che anche in questo caso si faccia chiarezza e
che vi sia una corretta interpretazione: perché se il federalismo fiscale si
costruisce sulle addizionali fiscali, esso non porta ad un miglioramento del
sistema bensì crea una duplicazione delle tasse. Le addizionali sono, di per
sé, negative in quanto incidono di più sui redditi mediobassi rispetto a quelli
medioalti. La politica del federalismo fiscale deve essere una politica che non
preveda addizionali, dove devono esserci quote di compartecipazione e un
meccanismo di riequilibrio e di solidarietà. Inoltre il federalismo fiscale deve
poter garantire un meccanismo per il quale comuni, province e regioni
possano avere proprie ed autonome forme di tassazione.
E' quindi necessario riequilibrare quelle che sono le imposizioni
dirette e le imposizioni indirette. Nella politica di questa legislatura sono
state apportate delle modifiche di facciata (cambio del nome dell'Iperf che
diventa Ire, creazione di nuove aliquote, deduzioni al posto di detrazioni,
ampliamento della no tax area) e sono state introdotte, in maniera astuta,
delle tasse occulte.
In primo luogo la tassa sul trattamento di fine rapporto (TFR), per chi
cambia lavoro e per chi termina il proprio rapporto di lavoro è stata portata
dal 18% al 23%, quasi il 30% in più. In soldoni sono un miliardo e mezzo di
euro che hanno riguardato un milione e duecento mila lavoratori.
In secondo luogo non viene più restituito il drenaggio fiscale (fiscal
drag), quel meccanismo che permette di rivalutare lo stipendio o la pensione
rispetto al costo della vita. Se lo stipendio o la pensione vengono erogati al
lordo, non adeguando le detrazioni e le aliquote, è chiaro che l'incremento
che viene assegnato si decurta a causa del drenaggio fiscale.
I pensionati sono stati oggetto di una delle più grandi operazioni di
raggiro mai viste in quanto esisteva, per loro, la stessa detrazione che
beneficia un lavoratore dipendente. Questa detrazione è stata alterata
trasformandosi in deduzione e quindi, agendo sull'imponibile, i pensionati si
ritrovano ad essere più tassabili dei lavoratori dipendenti. Ma se le entrate da
Irpef aumentano e non aumenta il Pil, perché non aumentano gli occupati
(l'aumento è solo per la categoria dei lavori flessibili), i contratti faticano ad
essere attuati e se aumentano le entrate e non possono essere diminuite le tasse
per i lavoratori dipendenti e i pensionati mentre, di contro, diminuisce l'Ires (la
GIORGIO BENVENUTO
30
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
31
vecchia Irpeg), ciò significa che in questi ultimi anni il sistema fiscale ha visto
solo una parte dei soggetti, sempre gli stessi, pagare le tasse.
Infine l'ultima tassa occulta la si trova nel sistema di doppia
tassazione che noi in Italia abbiamo con l'Iva su quello che è l'aumento dei
prodotti petroliferi.
Sulle famiglie non è mai stata fatta una politica fiscale equa, noi
abbiamo una tassazione sulla famiglia che è profondamente sbagliata in
quanto gli assegni famigliari si sono sempre più svuotati. Tremonti ha
costruito un sistema fiscale punitivo: in quanto se in una famiglia ci sono due
redditi perché due persone lavorano, ci sono due quote che possono essere
utilizzate; se nella famiglia c'è solo uno che lavora c'è solo una quota esente.
Bisogna ridurre il peso del sistema fiscale sul lavoro; bisogna fare
degli interventi veri sui redditi mediobassi e bisogna impegnarsi per fare
interventi seri sulla famiglia. Mi ricordo quando lavoravo al Ministero delle
Finanze avevamo varato una legge delega per la riforma della tassazione
sulla famiglia che era basata sul quoziente familiare. E' vero che questo
metodo può portare a favorire i redditi molto alti, ma è altrettanto vero che
questa politica, per esempio in Francia, è stata determinante non solo per
salvaguardare la famiglia ma anche per ricreare delle condizioni favorevoli
per un aumento della natalità. Il nostro è, al contrario, un sistema fiscale che
ci obbliga a non fare figli.
Dobbiamo altresì guardare ad un sistema che aiuti il mondo delle
imprese ed incentivi chi porta delle innovazioni, chi fa ricerca e chi promuove
il lavoro e la formazione. Non le grandi imprese, le banche, le assicurazioni e
chi fa speculazioni finanziarie. Bisogna favorire un tipo di capitalismo
paziente, quello capace di investire anche sulla persona rispetto ad uno
impaziente, quello di rapina, che vuole spremere subito e avere risultati
immediati e che sul lavoro usa i mezzi dello sfruttamento e della precarietà.
Non è un caso che nel nostro Paese le famiglie e le piccole realtà
imprenditoriali siano sempre più povere e in difficoltà mentre invece le
assicurazioni e le banche abbiano guadagni incredibili, quintuplicando e a
volta addirittura decuplicando i loro profitti persino con la RCAuto.
E' necessaria una politica che combatta seriamente l'evasione e che
impedisca l'elusione e l'erosione fiscale. Oggi la guardia di finanza e le
agenzie per le entrate possiedono i mezzi per combattere efficacemente ogni
forma, anche la più subdola, di evasione contributiva. Il 730 che è scelto da
12 milioni di contribuenti ha semplificato enormemente i problemi del
sistema fiscale, tuttavia va fatto funzionare.
E poi c'è l'atavico problema, tutto italiano, dei condoni, un fatto di
per sé già gravissimo perché dà la possibilità al grande evasore di pagare
31
LE DISUGUAGLIANZE NEL FISCO
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
32
soltanto una parte dei tributi che deve allo Stato, il quale gli condona il
rimanente della spesa estinguendo in toto il suo debito. Questa inveterata
abitudine, che in passato, ai tempi della deprecata prima repubblica, veniva
attuata attraverso una denuncia diretta dell'interessato alla guardia di finanza,
oggi, fatto ancora più terribile, può essere addirittura anonima e così sia la
guardia di finanza che l'agenzia delle entrate si muovono alla cieca (vedi casi
Ricucci e Gnutti). Questo anonimato è poi doppiamente grave quando si
tratta di rientro dei capitali dall'estero, perché in questo caso viene applicata
un'aliquota del 2,5%.
E' stata fatta anche un'altra operazione, che siamo riusciti a furore di
popolo a correggere in extremis, la quale permetteva di sanare chi, in veste di
sostituto d'imposta, non avesse versato al fisco le tasse che aveva trattenuto
ai propri dipendenti (vedi la società calcistica Lazio). La Lazio che doveva
restituire 160 milioni di euro al fisco, ha detto: io non pago, anzi se mi fate
pagare io fallisco e mobilitando i tifosi ottiene dall'agenzia delle entrate che
queste tasse dovute vengano “spalmate” su un periodo di 23 anni al tasso di
interesse del 2% annuo. Un vero scandalo! La norma siamo riusciti a
cancellarla, pur tuttavia ha creato un precedente.
Esiste infine il problema della riscossione di quanto viene accertato.
Lo Stato non effettua la riscossione direttamente come dovrebbe, ma affida il
compito a società esterne che, evidentemente, non hanno convenienza a
chiedere i soldi. Bisogna sapere che su 100 che viene accertato e comunicato
in televisione soltanto il 7% viene riscosso con una spesa totale pari all'8%,
quindi si spende di più per accertare di quanto effettivamente si riscuote:
questo ci fa capire come sia inutile, anzi addirittura controproducente,
avviare qualsiasi processo di accertamento fiscale.
Giorgio Benvenuto
Senatore della Repubblica
*Intervento non rivisto dall’autore e ripreso dalla Settimana formativa di
Motta di Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005 su: “Il Tramonto della
società dei due terzi e l’uguaglianza: opportunità e rischi di un nuovo
modello sociale”.
GIORGIO BENVENUTO
32
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
33
Renata Livraghi
UN QUADRO DI SINTESI DELLA FLESSIBILITA
IN ITALIA
1. Introduzione
La flessibilità dei mercati del lavoro ha suscitato un intenso dibattito nel
corso dell'ultimo decennio. Molti autori hanno sostenuto che il lavoro in
Italia è stato ed è tuttora molto rigido nei suoi tre aspetti: quello salariale,
quello del tempo di lavoro e quello della mobilità del lavoro, con cui è
analizzata la flessibilità del lavoro da parte degli scienziati sociali europei.
Alcune ricerche recenti hanno invece messo in evidenza che in Italia
non mancano margini rilevanti di flessibilità del lavoro, soprattutto nel
secondo aspetto (tempo di lavoro) e nel terzo (mobilità del lavoro). Un
confronto accurato con altre esperienze europee mostrerebbe che la
flessibilità del lavoro in Italia non è inferiore a quella riscontrabile in altre
esperienze.
La rilevante flessibilità del lavoro sarebbe tuttavia accompagnata da
conseguenze analoghe a quelle riscontrabili in altri Paesi. In particolare,
accanto agli effetti positivi sulla capacità di adattamento del lavoro ai
cambiamenti tecnologici e organizzativi che caratterizzano le società attuale
che si basano sempre più sulla conoscenza (knowledge economy), si
riscontrerebbero effetti negativi a danno di alcuni lavoratori coinvolti in
termini di precarietà del lavoro.
2. Un quadro di sintesi della flessibilità in Italia
Il grado di flessibilità del mercato del lavoro italiano, misurato con i
parametri tradizionali suggeriti dalla letteratura economica, mostra le
seguenti caratteristiche.
Un'alta percentuale di lavoratori autonomi, rispetto a quanto
mediamente rilevato in ambito europeo, circoscrive già in partenza il
problema della "rigidità" a un potenziale più limitato di lavoratori (i
lavoratori alle dipendenze sono il 73% degli occupati). L'espansione del
lavoro autonomo sembrerebbe dipendere da fattori di natura strutturale, quali
33
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
34
il peso del settore agricolo nel sistema economico italiano e le dimensioni
delle imprese italiane dove l'attività produttiva è spesso a conduzione
familiare. Il peso rilevante degli oneri sociali sul costo del lavoro, peso
riscontrabile in ugual misura anche in altri Paesi industrializzati dell'Unione
Europea. In Francia e in Germania abbiamo quote più o meno simili di
contribuzione sociale pur avendo tassi di occupazione più elevati.
Il fatto che, nel tessuto produttivo italiano prevalga la medio-piccola
dimensione aziendale fa sì che i tassi di turnover della manodopera siano,
nella media nazionale, piuttosto elevati, palesando così un grado di
flessibilità di fatto per nulla trascurabile; la dimensione media delle imprese
attive è pari a 3,6 addetti che è la più bassa tra i Paesi europei. Le
microimprese (quelle con meno di 10 addetti) assorbono il 48,6%
dell'occupazione complessiva, mentre le grandi imprese (con almeno 250
addetti) assorbono il 18% degli occupati; il restante 33,4% è quindi costituito
dall'occupazione relativa alle medie-piccole imprese (dai 10 ai 249 addetti).
Un calcolo approssimativo potrebbe dunque far giungere a una stima
numerica dei lavoratori "non particolarmente protetti dai vincoli normativi"
(indipendenti + dipendenti al di sotto dei 15 addetti) pari a circa 9 milioni di
lavoratori, corrispondenti al 42% dell'occupazione totale.
La maggiore diffusione del lavoro atipico all'interno della categoria
dei lavoratori dipendenti, pur non avendo ancora raggiunto la quota
riscontrabile nella media dei Paesi dell'Unione Europea, ha contribuito ad
aumentare ulteriormente il grado di flessibilità del mercato del lavoro in
Italia: se si considera che i lavoratori con un contratto "a termine" sono circa
il 10% degli occupati alle dipendenze e che circa un terzo dei lavoratori con
tale contratto è passato nell'anno successivo a un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, si può avere un'idea, sia pure approssimativa, di quanto
vadano allentandosi nel tempo i vincoli sostanziali alla stabilità
occupazionale nel medesimo posto di lavoro.
Anche sotto il profilo della tutela contro il rischio della
disoccupazione, il grado di rigidità del sistema occupazionale italiano appare
piuttosto ridotto perché l'estensione degli istituti previsti ai potenziali
beneficiari risulta essere relativamente limitata.
Dal punto di vista dell'adattabilità dello stock di occupati e dei salari
reali alle variazioni del ciclo economico è stato accertato un maggiore grado
di reattività dell'input di lavoro a livello microeconomico ma non una
sostanziale crescita, a livello macroeconomico, del volume complessivo di
ore lavorate e della capacità reddituale degli occupati.
Questa sintesi, confermata dai dati Istat, mostra evidenze empiriche
sufficienti a confermare il discreto grado di flessibilità del mercato del lavoro
R E N ATA LIVRAGHI
34
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
35
italiano, anche se viene contestualmente ribadito l'aspetto di particolare
segmentazione che caratterizza il nostro sistema occupazionale.
In tema di mobilità del lavoro, intesa come flussi da e verso la
posizione di occupati, l'Istat sottolinea che "l'immagine di rigidità che
tradizionalmente viene associata al mercato del lavoro italiano non trova
completa rispondenza nella realtà, fornendo stime della mobilità che
raggiungono livelli pari quando non superiori, a quelli di Paesi con mercati
del lavoro tradizionalmente ritenuti più flessibili.
La peculiarità italiana… "sembra piuttosto consistere in una netta
segmentazione tra individui estremamente mobili e altri che invece tendono
a restare a lungo nella medesima situazione occupazionale. ….Una delle
principali determinanti di tali differenze è la diffusione del lavoro precario, a
cui si deve buona parte della mobilità della componente giovanile, di quella
femminile, del mezzogiorno e degli individui con bassi livelli di istruzione".
3. Alcune riflessioni
La flessibilità agevola talune componenti della forza lavoro a transitare dallo
stato di inoccupazione e di disoccupazione verso l'occupazione per meglio
rispondere alle esigenze della domanda di lavoro e a uscirne nelle fasi
avverse del ciclo produttivo, creando stati di instabilità occupazionale. La
regolamentazione attuale del mercato del lavoro, creata per favorire il
lavoratore dalla precarietà occupazionale, in taluni casi genera anch'essa
ulteriore instabilità occupazionale.
Se la flessibilità potesse rappresentare, dal lato dell'offerta di lavoro,
una modalità di entrata o di uscita più graduale e articolata dal sistema
occupazionale per tutte le componenti della forza lavoro, nonché, dal lato
della domanda di lavoro, una modalità di adeguamento dello stock
occupazionale e dei costi salariali alle variazioni del ciclo economico da parte
di tutte le imprese, allora si potrebbe affermare che l'intero sistema
economico se ne avvantaggerebbe, sia sotto il profilo dell'efficienza
produttiva e allocativa (utilizzazione ottimale di tutte le risorse disponibili,
verso forme di mercato di tipo più concorrenziale), sia sotto il profilo
dell'equità (uguali vantaggi dovrebbero ricadere su tutti).
Nel caso in cui non vengano preliminarmente rimosse le cause che
danno origine alla segmentazione originaria delle diverse componenti
svantaggiate sul mercato del lavoro, la flessibilità potrebbe rivelarsi un modo
per accentuare ancor più la segmentazione del mercato del lavoro italiano.
In sintesi le cause che danno origine alle posizioni svantaggiate nei mercati
del lavoro sono: un’inadeguata formazione per i giovani e per alcune altre
35
LA FLESSIBILITA DEL LAV O R O IN ITALIA
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
36
fasce d'età; la carenza di strutture sociali che meglio siano in grado di
conciliare il lavoro di mercato con le altre attività non di mercato (lavoro di
educazione e di cura dei bambini e degli anziani); i nodi strutturali dello
sviluppo nelle aree territoriali del mezzogiorno e nei paesi di montagna.
I policy makers dovrebbero anche intervenire in modo che il "lavoro
precario" possa divenire una modalità flessibile che riesca a soddisfare
entrambi le parti in gioco (imprese da un lato e lavoratori dall'altro lato).
Una delle caratteristiche principali dei contratti atipici concerne, per
esempio, la durata. La discontinuità nel tempo è forse uno degli elementi che
più spaventa i lavoratori coinvolti perché li colloca in una posizione di
incertezza e di insicurezza del posto di lavoro. Una risposta positiva a questo
bisogno potrebbe venire dalle opportunità di apprendimento fornite dal posto
di lavoro.
Un lavoro atipico che consente di acquisire competenze, ovvero
conoscenze trasferibili dà maggiori opportunità per attenuare il disagio che
proviene dall'insicurezza del posto del lavoro perché aumenta la probabilità
di trovare posti di lavoro successivi che valorizzeranno al massimo
l'accumulazione del capitale umano attuata. È ovvio che alcune categorie di
lavoratori più svantaggiati, come i cinquantenni che perdono
improvvisamente il posto di lavoro, hanno maggiori difficoltà ad adattarsi a
un sistema economico caratterizzato da una maggiore flessibilità. Si tratta di
adattarsi a un nuovo tipo di lavoro e ricominciare ad apprendere; due cose
che in genere sono lontane dalle prospettive di una persona che è già
proiettata verso il pensionamento in un futuro non troppo lontano. Strategie
di lifelong learning, condivise dalle parti interessate (stakeholders) e
politiche volte a diminuire la segmentazione dei mercati del lavoro in Italia
sono quindi necessarie per incrementare l'occupabilità, in un sistema
economico che sarà sempre più caratterizzato da una maggiore flessibilità,
come quello italiano che è simile a quello degli altri paesi industrializzati.
Renata Livraghi
Professore Ordinario di Politica Economica all’Università di Parma
R E N ATA LIVRAGHI
36
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
37
Giuseppe Davicino
EGUAGLIANZA, DEMOCRAZIA, ECONOMIA
VIAGGIANO A N C O R A INSIEME?
La democrazia è il peggiore dei regimi, ad eccezione di tutti gli
altri. Questa celebre e disincantata definizione di Winston Churchill
evidenzia bene i limiti storici che incontrano le istituzioni democratiche,
anche quelle che sono espressione di un'idea di democrazia più avanzata.
Si dice che la democrazia va costruita giorno dopo giorno, va difesa, estesa
proprio perché la sua declinazione storica non solo è sempre perfettibile ma
è suscettibile di deformazioni e di alterazioni sul piano pratico. E la classica
mutazione di natura della democrazia avviene quando le circostanze la
riducono “come se” fosse un'oligarchia, quando il punto di vista di pochi
prevale, nelle decisioni, su quello di tutti.
I partiti di massa hanno costituito per molto tempo un antidoto ai
rischi di deriva oligarchica della democrazia. In effetti, l'avvento dei partiti
di massa sulla scena politica (avvenuto in Italia all'inizio del secolo scorso)
ha rappresentato il tentativo di organizzare, di dare dignità politica e
capacità di rappresentanza degli interessi delle classi popolari che, anche
grazie a ciò, sono divenute protagoniste nella vita politica delle democrazie
occidentali. Nel secondo dopoguerra, con il ricorso a politiche keynesiane
emergeva il volto temperato del capitalismo, riconvertito, almeno in parte,
dalla produzione bellica a quella civile, e questo compromesso tra
capitalismo e democrazia permetteva il sorgere di una classe media,
destinata ad inglobare quasi tutte le categorie sociali. Si può affermare che
in tale periodo si sia verificato un circolo virtuoso tra democrazia, sviluppo
economico e miglioramento dei livelli di eguaglianza, o perlomeno
riduzione delle più macroscopiche disuguaglianze.
Oggi questo quadro, che peraltro riguardava solo l'Occidente, sta
velocemente tramontando. Stanno cambiando le dinamiche economiche e
sociali, ma anche i riferimenti culturali. Si tratta di capire le opportunità e i
pericoli dischiusi dal nuovo scenario.
L'accelerazione che si è avuta negli ultimi decenni verso un mercato
mondiale dell'economia ha ridato al capitalismo prospettive insieme nuove,
nel senso di inedite, e vecchie, nel senso che ciò che era ritenuto ormai
GIUSEPPE D AVICINO
37
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
38
impraticabile in Occidente si poteva di nuovo attuare da qualche altra parte.
La possibilità di effettuare transazioni economiche in tempo reale e la
possibilità di poter scegliere praticamente in tutto il mondo il luogo più
conveniente in cui situare le produzioni hanno rimesso in discussione uno
dei postulati su cui si è fondato lo sviluppo recente dell'Occidente, il fatto
che liberalismo e democrazia rappresentassero un binomio inscindibile.
Oggi vediamo molto più chiaramente la problematicità di questo rapporto,
già indicata da Norberto Bobbio negli anni Ottanta. In diverse parti del
mondo la democrazia non è (non è mai stata o non è ancora) una condizione
fondamentale per l'iniziativa privata e laddove vi è un sistema di governo
democratico la gerarchia del potere economico tende a riprodursi su quella
del potere politico, sempre più relegato ad assumere un ruolo marginale e
formale nei processi decisionali.
Il prevalere dell'economia sulla politica, o, detto in un altro modo, il
deficit di democrazia rispetto alla dimensione ormai mondiale raggiunta
dall'economia, costituisce la principale caratteristica del nuovo ordine di
cose. E le conseguenze sulla struttura sociale delle democrazie avanzate e
sulla loro capacità di rappresentanza, e dunque, sulla loro attitudine a
generare eguaglianza, sono enormi.
Credo sia interessante domandarci cosa oggi tende a sostituire la
dinamica che abbiamo conosciuto negli scorsi decenni, del rapporto
direttamente proporzionale tra compromesso tra capitalismo e democrazia e
sviluppo della classe media. La classe media si sta frantumando di fronte ad
una polarizzazione sociale sempre più marcata. Non manca chi celebra
positivamente questo processo come gli autori di un recente saggio Gaggi e
Narduzzi1 che tuttavia non sembrano coglierne adeguatamente anche le
insidie. Infatti, un sistema economico non più capace di riversare la
ricchezza prodotta sui cittadini, finisce per concentrare nelle mani di
ristrettissime élite mondiali guadagni inauditi e così scatena una guerra tra
poveri, tra i cittadini-consumatori occidentali ed i cittadini-lavoratori
asiatici, terzomondiali.
Un'altra conseguenza non secondaria è che, come pure riconosce
l'economista Alain Minc, se scompare la classe media con essa si esaurisce
anche la classe dirigente che la rappresentava. Tale processo, come vede
acutamente Minc, lascia spazio ad un duplice fenomeno: il dilagare del
populismo e l'emergere di una classe dirigente non più portatrice di un
progetto di società perché non più rappresentativa ma selezionata solo
dall'intreccio tra ricchezza e visibilità sui mass media.
38
IN F OC E E P,A N N O III N .1
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
39
A questo punto, mi sembra abbastanza evidente che in una tale
evoluzione delle cose il rapporto tra democrazia ed eguaglianza non sia così
scontato. Perché la democrazia possa generare eguaglianza c'è bisogno di
rappresentatività estesa (oltre che naturalmente della volontà politica, di
politiche riformatrici). Ma se la società smette di crescere e al posto della
classe media si sostituisce una fascia di precarietà di massa che non ha più
coscienza del suo ruolo centrale, essa diviene facile preda del populismo,
che cinicamente ne sfrutta le paure e le illusioni, senza badare troppo alla
serietà delle risposte. Oggi il populismo risulta straordinariamente
persuasivo perché attuato da gruppi di interesse che possono disporre di
ingenti mezzi per il controllo dei mass media e che puntano alla
semplificazione della vita politica attraverso il rapporto diretto tra il capo e
le masse.
Il ricorso massiccio a referendum e sondaggi è la via che conduce a
quella che Leopoldo Elia chiamerebbe “democrazia di investitura” con cui
si instaura un modello plebiscitario di governo.
Al lettore informato è superfluo ricordare quanti rischi, anche assai
recenti, abbia corso il nostro Paese, che rappresenta un laboratorio in
Europa, sotto il profilo dell'evoluzione della democrazia.
Non ci resta che chiederci se siamo di fronte ad un processo
inarrestabile tale da rendere quantomeno ingenua la nostra ricerca di un
rapporto concreto per il futuro fra democrazia ed eguaglianza, oppure se si
possono intravvedere differenti linee di evoluzione, in particolare su due
punti cruciali: nel rapporto tra economia e politica e sul modello di
democrazia.
Credo che le sorti del rapporto tra economia e politica si
giocheranno sulla capacità di dare regole al mercato per la sua stessa
sopravvivenza. Come sostiene Luciano Venturini2 “se i soggetti più forti
arrivano a distruggere la capacità di fare concorrenza e quindi di lavorare
nell'interesse generale, occorre un intervento pubblico per tutelare la
concorrenza”. Questo è il punto: “bisogna liberare il mercato da questa sua
tendenza a sopprimere le proprie condizioni di buon funzionamento”
(Massimo Cacciari, Europa 25/1/2006). Dunque, si tratta di una partita
aperta: è realistico pensare che le società, se e quando lo vogliono, possono
cercare di riprendere il controllo dei meccanismi dell'economia, in
particolare di quelli che fioriscono nel far-west della carenza di regole del
mercato globale.
GIUSEPPE D AVICINO
39
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
40
L'altra questione che credo sia non irrilevante per una democrazia
non solo fondata sull'eguaglianza formale ma capace di produrre
eguaglianza in senso sostanziale, è quella dell'evoluzione del dibattito sui
limiti della democrazia maggioritaria. Non è sufficiente che le istituzioni
non siano “scalabili” dai poteri dell'economia, occorre anche che la parte
politica prevalente non eserciti la sua supremazia nei termini di una
“dittatura della maggioranza”. C'è una forza dei numeri, ma c'è anche, come
sottolineano i filosofi “deliberativisti” che traggono ispirazione dal pensiero
di Habermas, una forza degli argomenti sui quali tutti possono fornire
argomenti utili. Un dibattito politico più incentrato sulla forza degli
argomenti, pur nella necessaria distinzione di ruoli tra maggioranza e
opposizione, può rappresentare un serio antidoto alle semplificazioni
populiste e rendere un miglior servizio alla causa dell'eguaglianza.
Giuseppe Davicino
Redazione InfoCEEP
1 Massimo Gaggi, Edoardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la società low
cost, Einaudi, Torino 2006.
2 Vedi Luciano Venturini, Neoliberismo ed economia sociale di mercato:
quali ruoli per il mercato, lo Stato e la società civile. Atti di Motta, Motta di
Campodolcino (SO) 25-28 agosto 2005.
40
EGUAGLIANZA,DEMOCRAZIA E ECONOMIA
InfoCEEP aprile 2006.qxd
28/04/2006
14.33
Pagina
41
I numeri pubblicati
Anno 1 (2004) - fascicolo 1
Gesù e l’orecchio di Malco
Anno 1 (2004) - fascicolo 2
Europa, un cammino di integrazione e di pace
Anno 1 (2004) - fascicolo 3
Laicità e libertà religiosa: una sfida per l’Europa
Anno 1 (2004) - dossier 1
Il conflitto israeliano-palestinese
Anno 2 (2005) - fascicolo 1
Gerusalemme
Anno 2 (2005) - fascicolo 2
I cristiani, l’Europa, la politica
Anno 2 (2005) - fascicolo 3
Sibiu 2007 - Verso la III Assemblea ecumenica
I numeri arretrati possono essere richiesti presso la Segreteria delle Acli
provinciali milanesi e sono inoltre disponibili (in formato PDF) sul sito
internet www.aclimilano.com.
41
Scarica

InfoCEEP_03