Lares Anno LXXIV n. 2 – Maggio-Agosto 2008
FABIO DEI
UN MUSEO DI FRAMMENTI.
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA
NEGLI STUDI FOLKLORICI
1. Gramsci e il folklore, ancora
Il libro di Giovanni M. Boninelli, Frammenti indigesti 1 ha l’indubbio merito di riaprire la discussione sul concetto gramsciano di folklore – una discussione da tempo sopita, ma che era stata a suo tempo centrale nella costituzione dei moderni studi antropologici italiani. Prima di discutere il volume,
vorrei sinteticamente richiamare questa cornice di storia culturale ed enucleare alcuni dei problemi che essa ha lasciato aperti, dai quali la riflessione odierna non può fare a meno di ripartire.
Tra anni ’50 e ’70, la lettura delle pagine dei Quaderni del carcere note come «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’» aveva portato a rifondare gli studi sulla cultura popolare e a configurarli come autonoma disciplina scientifica sotto il nome di Demologia. Nome che resta presente nella etichetta del settore scientifico-disciplinare che designa oggi in Italia gli studi antropologici: ‘DEA’, cioè
discipline demoetnoantropologiche. Rileggiamola per un attimo, quella tanto
discussa e influente definizione di Gramsci, che oggi non tutti conoscono a memoria come accadeva quando io ero studente. Il folklore, egli suggerisce, può
esser considerato come la «‘‘concezione del mondo e della vita’’, implicita in
grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della
società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ‘‘ufficiali’’ [...] che si sono succedute nello
sviluppo storico».2 «Concezione del mondo e della vita» è espressione che potrebbe essere accostata al concetto antropologico di cultura; tanto più in quanto si tratta di una cultura implicita, cioè non elaborata in modo consapevole dai
gruppi che ne sono portatori. Occorre però notare subito che in Gramsci il
Roma, Carocci, 2007.
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 2311;
d’ora in poi Q seguito dal numero di pagina.
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termine ‘cultura’ non compare mai nell’accezione antropologica e relativistica –
quella cioè di un sistema di significati che struttura sfere non del tutto commensurabili di percezione del mondo e di pratiche quotidiane. Cultura è per
lui invece qualcosa di simile a una morale, a una filosofia in grado di produrre
effetti politici (di consenso o di opposizione) e di muovere l’azione storica –
anche quando questa filosofia non sia articolata sistematicamente, come nel caso dei ceti subalterni. Questi ultimi, e in particolare i contadini, non possiedono infatti intellettuali in grado di produrre costruzioni culturali complesse e
formalizzate (Q, 1514).
Per inciso, questo aspetto del pensiero di Gramsci sta alla base della sua
riscoperta da parte della ‘antropologia critica’ contemporanea, quella che si
fonda sulla critica del concetto classico di cultura a favore della centralità dell’economia politica. Come ha sottolineato Gianni Pizza,3 tentandone una lettura in chiave di antropologia medica, l’atteggiamento gramsciano è in perfetta sintonia con l’antinaturalismo e l’antiessenzialismo degli indirizzi ‘critici’;
esso supporta la rilevanza della agency rispetto a quella dei modelli culturali
o delle strutture generative, e anticipa concetti come quello di ‘incorporazione’, volti a mostrare come l’egemonia penetri nel più profondo della costituzione psichica e corporea degli individui. Pizza ricorda come il termine ‘antropologia’ ricorra una volta nei Quaderni a definire la filosofia della prassi, che
mira a comprendere un «profondo processo storico» di cui l’economia è soltanto un fattore fra altri (Q. 1917). Antropologia è usata qui in senso filosofico, come studio delle modalità storiche di costituzione dell’umano; ma siamo
molto lontani dall’idea di una scienza sociale positiva – una possibilità cui
Gramsci non crede più di quanto vi credesse Croce (si vedano le ricorrenze
negative del termine ‘sociologico’, nel senso di un approccio da evitare;
p. es. sulla storia degli intellettuali: Q, 1515).
Torniamo alla definizione del folklore. Il popolo (cioè «l’insieme delle
classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita») non
può avere – per definizione – concezioni del mondo elaborate, sistematiche
e organizzate. Le risorse per produrre questa elaborazione sono infatti nelle
mani dei ceti dominanti. Per questo il folklore si configura – e giungiamo
qui all’altra celebre frase – come «agglomerato indigesto di frammenti di tutte
le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della
maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati» (Q, 2312). In altre parole, il folklore si costituisce
per ‘caduta’ di elementi residuali e talvolta fossilizzati della cultura alta; un
punto di vista, anche questo, non lontano da quello di Croce, e che sembra
concedere qualcosa alla nozione di sopravvivenza. Tuttavia, nella visione
gramsciana il folklore non è soltanto un deposito inerte di disorganiche so3 G. PIZZA, Antonio Gramsci e l’antropologia medica ora. Egemonia, agentività e trasformazioni
della persona, in «A.M. Rivista della Società italiana in antropologia medica», 15-16, pp. 33-51.
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pravvivenze: esso è anche in grado di esprimere «una serie di innovazioni,
spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» (Q, 2313). In quanto «riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo», il folklore manifesta
dunque una differenza irriducibile rispetto al progetto culturale egemonico:
ne rappresenta il limite, il segnale che esso non riesce mai completamente
ad esaurire la pensabilità della vita.
2. La rivoluzione demologica
Che cosa colpiva tanto in questa definizione gli studiosi del dopoguerra?
Evidentemente, la definizione del popolo in termini di classe. Il punto di maggior debolezza degli studi di storia delle tradizioni popolari in Italia consisteva
proprio in una definizione di popolo vaga e mai del tutto liberatasi dalle eredità romantiche (popolo come entità collettiva che incarna lo spirito della nazione) ed evoluzioniste (ceti inferiori come i ‘primitivi di oggi’). Attorno a questi presupposti si era costituita una disciplina prevalentemente filologica e
classificatoria, della quale in poche righe lo stesso Gramsci traccia un profilo
tagliente (Q, 2311); una pratica erudita di raccolta del pittoresco, priva di rapporti con i problemi della comprensione storica. Si potrebbe anche aggiungere che mentre Gramsci scriveva in prigione le sue note, molti folkloristi italiani
superavano il livello della pura erudizione per compromettersi a fondo con le
politiche culturali del fascismo: un punto col quale la nostra storia degli studi
non ha mai fatto del tutto i conti e sul quale tornerò in conclusione.
Nel dopoguerra, mentre alcuni folkloristi andavano avanti come se nulla
fosse con i loro progetti di raccolta e classificazione, altri si lanciavano in quella che Alberto M. Cirese ha definito «la nuova tematica socio-culturale»: vale
a dire il tentativo di collegare lo studio della cultura popolare a una più vasta
comprensione storica e socio-politica delle condizioni di vita dei ceti subalterni. È un filone che sarà stimolato dalla tematica meridionalista (in particolare
da Carlo Levi), dallo storicismo eroico di Ernesto de Martino, ma soprattutto,
appunto, dalle «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’» di Gramsci. In molti vedono in
queste paginette la base di una rifondazione della disciplina folklorica, in grado di salvarne l’autonomia e di collocarla in un quadro teorico-metodologico
assai più solido e profondo. Cirese è senza dubbio lo studioso che con maggior sistematicità ha tentato questa operazione, attraverso una serie di saggi 4 e
soprattutto attraverso il suo manuale del 1971, gramsciano fin dal titolo (Cul4 In particolare A.M. CIRESE , Concezione del mondo, filosofia spontanea, in Gramsci e la cultura
contemporanea, Roma, Editori Riuniti (poi in ID., Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, 1976, pp. 65-104).
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tura egemonica e culture subalterne,5 su cui si formeranno intere generazioni di
studenti e ricercatori. In quest’ultimo, la pubblicazione delle «Osservazioni
sul ‘‘Folclore’’» (nel 1950) viene definita come il «momento teorico determinante» per il rinnovamento degli studi demologici italiani.
L’impostazione marxista di Gramsci opponeva allo storicismo idealistico il ristabilimento del legame tra fatti culturali e fatti sociali che viceversa Croce aveva cosı̀
recisamente negato; liquidava in modo definitivo le ibride eredità della nozione romantica del ‘‘popolo-anima’’ o ‘‘popolo-nazione’’ [,...] ed introduceva una determinazione storico-sociale precisa: quella del ‘‘popolo-classi subalterne’’, inteso ovviamente
come ‘‘variabile storica’’.6
Cirese era convinto che la definizione gramsciana potesse offrire una rigorosa delimitazione dell’oggetto di studio della nuova demologia. Ed era anche
convinto che, come accade nelle rivoluzioni scientifiche, il nuovo paradigma
potesse riassorbire il vecchio: cioè, che il corpus di studi folklorici dell’Ottocento e della prima metà del Novecento potesse essere utilmente integrato all’interno della più complessa e raffinata visione aperta da Gramsci. Com’è noto, Cirese riformula i principi gramsciani nella teoria dei dislivelli interni di
cultura: riferendosi «ai comportamenti e alle concezioni degli strati subalterni
e periferici della nostra stessa società» ci troviamo di fronte a dislivelli culturali interni, mentre con dislivelli esterni intendiamo il rapporto con le «società
etnologiche o «primitive».7 Una definizione da cui scaturisce una chiara delimitazione delle discipline: l’etnologia studia i dislivelli esterni, la demologia
quelli interni. Più precisamente, quest’ultima studia la diversità culturale
che si accompagna alla diversità della condizione sociale: diversità nella quale
«si manifesta la disuguale partecipazione dei diversi strati sociali alla produzione
ed alla fruizione dei beni culturali».8
Cirese pone qui grande attenzione nel formulare il rapporto tra condizione
sociale o di classe e peculiarità culturali, non concedendo nulla ai troppo facili
entusiasmi che lo stesso de Martino aveva aperto con la nozione di folklore progressivo. Non dice mai che il folklore è semplicemente la cultura delle classi
subalterne. Parla invece di fatti culturali «popolarmente connotati», dove ‘connotazione’ indica un ‘rapporto di solidarietà’ tra fatti culturali e gruppi sociali o
classi.9 In queste pagine del manuale, tuttavia, resta un’ambiguità fra due letture possibili. La prima è che la demologia si occupa della «disuguale partecipazione dei diversi strati sociali alla produzione ed alla fruizione dei beni cul5
6
7
8
9
Palermo, Palumbo 1971.
Ibid., p. 218.
Ibid., p. 10.
Ibid., p. 12, corsivo nell’originale.
Ibid., pp. 13-14.
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turali», in particolari e mutevoli contesti storici; cioè, pone al centro del suo
interesse i processi di differenziazione e le relazioni fra classi nella produzione
culturale. La seconda lettura possibile è che la demologia si occupa degli ‘oggetti’ o dei ‘fatti’ culturali che possono essere classificati come subalterni, cioè
popolarmente connotati. Cirese afferma con chiarezza la prima lettura, che
sembra più autenticamente gramsciana; tuttavia lascia anche aperta in più punti
la strada alla seconda. La stessa analogia tra dislivelli esterni e interni suggerisce
un’idea di folklore come ‘cultura’ compatta e autonoma, al pari di quelle etnologiche. Porta a pensare all’esistenza oggettiva, ad esempio, di una cultura contadina (cosı̀ come esiste una cultura trobriandese o una nuer), da descrivere e
comprendere olisticamente. Dunque, esisterebbe una ‘cultura’ popolare che
può esser studiata in modo autonomo e separato rispetto a quella egemonica.
Cirese rafforza questo punto quando afferma degli studi demologici che «tra
tutti i comportamenti e le concezioni culturali essi isolano e studiano quelli
che hanno uno specifico legame di ‘‘solidarietà’’ con il ‘‘popolo’’ (in quanto distinto dalle ‘‘élites’’)».10
3. La demarcazione dell’oggetto
‘Isolare’ un oggetto è evidentemente per Cirese operazione distintiva di
una scienza. Ma in questo caso il verbo è particolarmente inappropriato,
perché nello spirito dell’approccio gramsciano l’egemonico e il subalterno
non possono essere mai isolati: i due momenti si producono insieme, all’interno di uno stesso processo storico. E non si tratta solo di un infortunio verbale: l’isolamento dell’oggetto rischia di riportare a uno studio meramente
filologico di repertori ‘tradizionali’ e ingessati, incapace di comprendere il
mutamento storico. Il manuale di Cirese si conclude, assai opportunamente,
con l’esortazione – per gli studi demologici – a «fare in conti – e non genericamente – con la realtà socio-culturale contemporanea, con le forze e le
ideologie che la animano [...], trasformandosi in conseguenza, o altrimenti
la partita è definitivamente e sacrosantamente perduta».11
È stata capace la nuova demologia di seguire questa esortazione? La mia
impressione è che si sia arenata proprio di fronte ai mutamenti storici che investivano l’Italia e l’Europa negli stessi anni di quel dibattito: vale a dire la
scomparsa del mondo contadino, i cambiamenti nella struttura delle classi sociali, l’affermazione della cultura di massa sul piano sia materiale che espressivo. Salvo eccezioni piuttosto rare, la demologia ha preferito continuare a
concentrarsi sulla cultura contadina tradizionale (ormai una cultura del passato), e non ha saputo affrontare il problema della cultura di altri ceti subalterni,
10
11
Ibid., p. 13, corsivo mio.
Ibid., p. 310, corsivo nell’originale.
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come quello operaio. Si è intestardita nel demarcare il proprio oggetto rispetto
alla cultura di massa, considerandola come antropologicamente inautentica e
– nonostante la sua diffusione popolare – come puramente egemonica. Ha
dunque accuratamente evitato di confrontarsi con quella «realtà socio-culturale contemporanea» cui Cirese richiamava, e che era ovviamente il fulcro degli stessi interessi gramsciani.
Ho discusso altrove 12 i motivi di questo arroccamento della demologia italiana (ma non solo italiana) nel recinto protetto di un folklore puro, premoderno e non compromesso con l’industria culturale. Mi sembra chiaro che
il rifiuto di affrontare i mutamenti contemporanei e lo sviluppo della cultura
di massa sia in profonda contraddizione sia con lo spirito gramsciano sia con
la definizione di cultura popolare canonizzata da Cirese. In alcuni dibattiti di
fine anni ’70-primi anni ’80 il problema viene percepito con chiarezza. Sono in
molti ad esempio a porre il problema della classe operaia. Se il folklore è cultura ‘solidale’ con le classi subalterne, e se la classe subalterna per eccellenza è
quella operaia, perché la demologia non studia anche, anzi soprattutto, la cultura operaia? Domanda banale: l’impossibilità di rispondervi segnala l’errore
nelle categorie di fondo. Non c’è una cultura operaia nello stesso senso in cui
si poteva parlare di cultura contadina. Se le condizioni di isolamento, perifericità e compattezza esistenziale del mondo contadino potevano renderne
plausibile una lettura nei termini di un concetto olistico e relativistico di cultura, ciò vale solo in minima parte per i ceti operai. Le loro peculiarità culturali non possono essere espresse attraverso la descrizione di complessi sistematici di credenze, di riti, di feste, di canti etc., cioè attraverso le classiche
categorie classificatorie del folklore: piuttosto, si esprimono attraverso modalità di fruire della cultura egemonica e di quella di massa che non necessariamente danno luogo a repertori, a ‘oggetti’ o ‘fatti’ di studio che una scienza
possa ‘isolare’.
Il 1980 può essere assunto come anno di riferimento. È l’anno in cui viene
pubblicato il primo numero della rivista «La ricerca folklorica», nel quale un
buon numero di importanti studiosi italiani viene chiamato a rispondere a un
questionario sulla cultura popolare formulato da Glauco Sanga. In sostanza,
Sanga si chiede come sia compatibile la definizione gramsciana di folklore
con la tendenza di molti antropologi a considerare come proprio legittimo oggetto di studio solo forme culturali precapitalistiche e rurali, caratterizzate da
basso contenuto tecnologico, trasmissione orale, contenuto ‘tradizionale’ e cosı̀ via. E articola con molta chiarezza il punto fondamentale:
12 F. DEI , Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi, 2002; ID ., Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico italiano, in BulgariaItalia. Dibattiti, culture locali, tradizioni, a cura di M. Santova, M. Pavanello, Sofia, Casa Editrice dell’Accademia delle Scienze «Prof. Marin Drinov», 2006, pp. 145-152; ID., Antropologia e culture operaie: un incontro mancato, in Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano, a cura di P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini, Firenze, Ediesse, 2008, pp. 133-145.
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Accogliere l’impostazione gramsciana, che vede come essenziale il momento dell’‘‘assunzione’’ di un elemento culturale e come non rilevante il momento della ‘‘produzione’’ non significa forse mettere in discussione l’‘‘autonomia’’ della cultura popolare e ridimensionarne in qualche misura l’alterità, per concentrare l’attenzione sui
meccanismi della dinamica culturale all’interno di una società complessa, considerata
come un tutto interagente, con una sola storia, e non come una somma di parti (la
cultura egemone e la sua storia più la cultura popolare e la sua storia)? 13
Gli interventi che compongono il volume tentano in qualche caso di rispondere al problema, in qualche altro di aggirarlo. Non ne emerge comunque un orientamento chiaro della comunità scientifica. Si apre piuttosto
una fase di stallo teorico all’interno della disciplina, nella quale ancora oggi
siamo immersi. Infatti si smette di discutere di Gramsci e delle «Osservazioni
sul ‘‘Folklore’’». Per venticinque anni non si era parlato d’altro. Per i successivi venticinque le riflessioni gramsciane sulla cultura popolare saranno pressoché ignorate dalla produzione antropologica italiana; cosı̀ come episodico,
se non inesistente, sarà il dialogo con gli specialisti degli studi gramsciani.
4. Gramsci etnografo
Questo il contesto da cui si può riprendere oggi a pensare la nozione
gramsciana di folklore o cultura popolare. Arriviamo dunque al libro di Boninelli che, come detto, ha il grande coraggio di tornare a porre in primo piano la questione. La tesi dell’autore è che le «Osservazioni sul ‘‘Folklore’’» non
sono affatto isolate all’interno del corpus gramsciano: esse andrebbero anzi lette sullo sfondo di una serie di altri luoghi, sia dei Quaderni che degli scritti
precarcerari, in cui Gramsci affronta in modo più o meno diretto non tanto
il concetto di folklore, quanto temi o aspetti del folklore e della cultura popolare. Il libro consiste appunto in una selezione e in una discussione critica di
questi luoghi, che l’autore suddivide in sei grandi gruppi, riguardanti: a) la
Sardegna e la cultura popolare sarda; b) la religione popolare, la magia, le credenze e le superstizioni; c) i proverbi e i modi di dire; d) le narrazioni e le storie; e) i canti popolari e di protesta; f) il teatro popolare e dialettale. La partizione lascia qualche perplessità, basandosi su categorie descrittive tipiche di
quella erudizione classificatoria che Gramsci tanto criticava. L’idea che la cultura popolare esista e si debba pensare in generi o forme quali i modi di dire,
le credenze, i canti e il teatro etc. ne presuppone già un’interpretazione, molto
lontana da quella gramsciana – che ne sottolinea invece la fluidità e gli usi in
contesti pratici. In altre parole, la struttura compositiva del libro non segue le
13 G. SANGA , Introduzione, in «La ricerca folklorica» (monografico su La cultura popolare.
Questioni teoriche), 1, 1980, pp. 3-5.
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sollecitazioni interpretative che vengono dal materiale presentato. Del resto,
l’autore adotta volutamente una strategia di grande cautela interpretativa. È
estremamente preciso e rigoroso nel collocare i singoli brani prescelti nel contesto della vita e dell’opera gramsciana, ma è molto prudente nell’individuare
il filo rosso che li collega. Il compito è lasciato al lettore – il che, per altri versi,
rende l’opera strumento ancora più prezioso.
Almeno un punto è comunque chiaro nelle intenzioni di Boninelli. Nei
passi che ci presenta, gli aspetti della cultura popolare sono oggetto di una
valutazione quasi sempre positiva da parte di Gramsci. I dialetti, le storie e
le leggende, i saperi locali appaiono come forme creative di una cultura viva
e per certi aspetti peculiare e distintiva. Sono diversi i contesti discorsivi in cui
Gramsci colloca queste sue riflessioni: potremmo distinguerli in discorsi di tipo autobiografico, pedagogico, estetico e politico (con l’ovvia considerazione
che questi livelli sono sempre strettamente collegati tra di loro). Colpiscono in
modo particolare i passi delle Lettere in cui Gramsci si riferisce ai ricordi d’infanzia e al piccolo mondo locale di Ghilarza. Rievoca situazioni, racconti,
espressioni dialettali; chiede ai familiari notizie e ragguagli su particolari della
vita di paese con un’attenzione che non è esagerato definire qualche volta etnografica. Si pensi alla lettera in cui chiede informazioni sulle abitudini alimentari di diversi ceti sociali:
Vorrei che Grazietta mi informasse di ciò che mangia in una settimana: una famiglia di zorranaderis [giornalieri], di massaios a meitade [mezzadri], di piccoli proprietari che lavorano essi stessi la loro terra, di pastori con pecore che gli occupano
tutto il tempo e di artigiani (un calzolaio o un fabbro) [...] (domande: in una settimana quante volte mangiano carne e quanto? Oppure non ne mangiano? Con che fanno
la minestra, quanto olio o grasso ci mettono, quanti legumi o pasta ecc.14
Questa attenzione tutta antropologica alla cultura materiale fa il paio con
le numerose rievocazioni di storie, aneddoti, esperienze infantili fortemente
intrise di elementi folklorici (si pensi all’episodio dell’incontro con lo ‘scurzone’, in una lettera a Tatiana del 1930: un serpente leggendario che Gramsci
afferma di aver visto più volte da bambino in Sardegna).
Gramsci non parla mai di ‘folklore’ quando si inoltra nei dettagli etnografici della vita popolare o nelle forme espressive radicate nel mondo locale della
Sardegna. Ma è chiaro che si sta riferendo a qualcosa di molto simile a un concetto di cultura che noi chiamiamo antropologico, inteso come radicamento in
un mondo locale di significati. Questa sembra anzi per Gramsci la base di
ogni autentica cultura, inclusa quella ‘alta’. Da qui il ruolo pedagogico che
gli assegna, molto evidente ad esempio in un celebre brano di una lettera alla
sorella Teresina sul ruolo del dialetto (o meglio, della lingua sarda) nell’educazione dei nipoti:
14
G.M. BONINELLI, op. cit., p. 40.
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Franco [...] in che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli
darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato
che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua
formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia [...]. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi
bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire,
tutt’altro.15
Come commenta Giorgio Baratta, per il Gramsci carcerato la «coscienza
fortissima delle proprie radici» è un elemento vivificante e costantemente presente.
È difficile trovare un esempio a tutto tondo, come il suo, di immersione profonda, creativa, non nostalgica bensı̀ critica, mai regressiva, in un passato folclorico-paesano, in tradizioni locali. Non si tratta solo del calore di una memoria viva, ma della
consapevolezza di come debba essere intesa una modernità che non sia un tritatutto,
o uno strumento di arroganza tecnologica, insensibile a espressività e sfumature.16
Grande interesse Gramsci dimostra anche per quei generi espressivi della
cultura popolare, come la narrativa, il canto e il teatro, che possono divenire
veicolo di un discorso più esplicitamente politico. A questo tema è dedicata la
seconda parte del libro di Boninelli, con la scelta di una serie di passi che della
cultura popolare sottolineano la vivacità, la duttilità creativa, le capacità di
espressione della coscienza di classe. Negli scritti politici e giornalistici precarcerari Gramsci appare molto interessato alle forme di espressione in qualche
modo spontanea di istanze sindacali e politiche dei lavoratori attraverso forme
di quello che nel dopoguerra sarà chiamato folklore progressivo. Scrive ad
esempio a proposito dei canti popolari: «Rafforziamo la nostra coscienza
coi ricordi, con l’immergere il nostro spirito nel fiume della nostra tradizione,
della nostra storia».17 È poi colpito a più riprese da casi di riadattamento di
canzonette in voga a contenuti satirici o di protesta. In questa parte si manifesta in modo più chiaro la tendenza gramsciana a definire il popolare in termini di contrapposizione tra piano ‘ufficiale’ e ‘non ufficiale’ (un aspetto della
contrapposizione egemonico-subalterno). La cultura popolare lavora sottobanco, in modo interstiziale, riplasmando in relazione alle sue esigenze (cioè
l’espressione dei modi di concepire il mondo e la vita delle classi subalterne)
la materia prima ufficiale o istituzionale.
Nei Quaderni, commentando una tipologia dei canti popolari proposta da
Rubieri, Gramsci ha modo di tornare a una definizione molto chiara di folklore:
15
16
17
Ibid., p. 33.
G. BARATTA, Gramsci ci ha insegnato a ragionare sul mondo, in «Liberazione», 27 aprile 2007.
G.M. BONINELLI, op. cit., p. 147.
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ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo
e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la ‘‘collettività’’ del canto popolare, e del popolo stesso.18
Nel momento in cui queste espressioni della cultura popolare diventano a
loro volta ufficiali, tuttavia, la loro vena creativa va estinguendosi. È quanto
accade con la crisi della canzone dialettale napoletana, commentata in un altro
passo dei Quaderni («La fonte di Piedigrotta [...] è stata essicata perché era
diventata ‘‘ufficiale’’ e i canzonieri erano diventati funzionari»); nello stesso
modo in cui «la teorizzazione [cioè la istituzionalizzazione] di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino di strapaese assai ammuffito e scimunito)».19 Si configura qui una contrapposizione tra due aspetti della cultura popolare: una fase che potremmo chiamare spontanea, non
ufficiale, o persino ‘naturale’, caratterizzata da vitalità creativa, e una fase in
cui essa viene rappresentata in modo oleografico, ufficializzato e ingessato,
verso la quale Gramsci è molto critico sul piano delle valutazioni estetiche come di quelle politiche. Tornerò fra un istante su questo punto.
5. Folklore, senso comune, educazione del popolo
Dunque, il libro di Boninelli mostra al di là di ogni dubbio come le notazioni teoriche dei Quaderni affondino radici profonde in un diffuso interesse
gramsciano per la cultura popolare nei suoi aspetti antropologici, educativi,
estetici e socio-politici. Nei testi che il libro presenta e commenta la cultura popolare appare tutt’altro che un retaggio arcaico e ideologico, di cui il popolo
dovrebbe disfarsi nella prospettiva dell’emancipazione: al contrario, Gramsci
sembra considerarla come un elemento culturale vitale e creativo, proprio
per la sua capacità di esprimere le differenze sociali e la dialettica egomonico-subalterno. Boninelli non lo dice apertamente, ma tutto ciò si contrappone
a una interpretazione del tema della cultura popolare nei Quaderni molto diversa, che fin dagli anni del dibattito sul folklore 20 è stata sostenuta autorevolmente soprattutto dalla linea che potremmo chiamare togliattiana. Ne prendo una
formulazione particolarmente chiara ed incisiva, da un articolo di Giuseppe Petronio uscito in un volume celebrativo per i 50 anni dalla morte di Gramsci:
Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con burbanzosa fatuità, non era
‘‘populista’’, e ‘‘folklore’’ è per lui un concetto negativo [...]. E compito della filosofia
Ibid., p. 150.
Ibid., p. 149.
20 P. CLEMENTE – M.L. MEONI – M. SQUILLACCIOTTI , Il dibattito sul folklore in Italia, Milano,
Edizioni di Cultura Popolare, 1976.
18
19
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA NEGLI STUDI FOLKLORICI
455
della prassi, in quanto ‘‘espressione’’ delle ‘‘classi subalterne’’, è precisamente ‘‘educare le masse’’, liberandole dalla loro cultura arretrata e portandole a una visione del
mondo moderna e universale.21
Cosı̀ diversa da quella che abbiamo finora tratteggiato, questa visione è
tuttavia supportata (almeno apparentemente) da alcuni passi dei Quaderni,
che sarà utile considerare brevemente. Gramsci accosta spesso il concetto
di folclore a quello di senso comune. «Il senso comune è il folclore della filosofia» è affermazione che ritorna spesso nei Quaderni. I due concetti sono accomunati dalla natura frammentaria, disorganica, contraddittoria: vale a dire
dal non risultare composti in un sistema di sapere ufficiale, elaborato da professionisti (cioè da intellettuali); entrambi risultano da una sorta di sedimento
che le concezioni sistematiche e ufficiali lasciano dietro di sé nel loro trascorrere storico. Abbiamo già visto, nelle «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’», l’idea dei
«frammenti indigesti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono
succedute nella storia». Qualcosa di simile vale per il senso comune:
Ogni strato sociale ha il suo ‘‘senso comune’’ e il suo ‘‘buon senso’’, che sono in
fondo la concezione della vita e dell’uomo più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia
una sedimentazione di ‘‘senso comune’’: è questo il documento della sua effettualità
storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma
continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate
nel costume. Il ‘‘senso comune’’ è il folclore della filosofia (Q, 2271).
Folklore e senso comune sono entrambi socialmente caratterizzati: ogni
strato sociale ha il proprio. In un’altra pagina importante il senso comune è
definito come
la filosofia dei non filosofi, cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai
vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individialità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: è
il ‘‘folclore’’ della filosofia e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo
tratto più caratteristico è di essere una concezione (anche nei singoli cervelli) disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale delle moltitudini di
cui esso è la filosofia (Q, 1396).
E ancora: verso entrambi, senso comune e folklore, Gramsci si esprime
più volte nel senso di un loro necessario superamento. L’educazione popolare
nella prospettiva della filosofia della praxis deve partire dall’analisi critica del
senso comune (ibid.); e anche il folklore va «preso sul serio» per poterlo meglio superare. Sta qui l’utilità di uno studio serio del folklore in pedagogia:
«conoscere il ‘‘folclore’’ significa pertanto per l’insegnante conoscere quali al21 G. PETRONIO , Cultura ‘‘popolare’’, in Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Roma,
Editrice «L’Unità», 1987, pp. 86-87.
456
FABIO DEI
tre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni più giovani per estirparle e sostituirle con
concezioni ritenute superiori»: solo cosı̀ la scuola potrà determinare realmente
«la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari», colmando «il
distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore». Una mossa che
corrisponderebbe, sul piano storico, a quanto realizzato dalla Riforma nei paesi protestanti (Q, 2314).
Non c’è dubbio che, nell’impostazione generale dei Quaderni, senso comune e folklore rappresentino una forza d’inerzia rispetto agli obiettivi educativi
della filosofia della praxis, un retaggio del passato che occorre studiare seriamente per potervisi meglio contrapporre. Nei testi presentati da Boninelli,
al contrario, il radicamento locale delle culture sembrava la base e la linfa vitale
di ogni genuino processo educativo. Siamo di fronte a una tensione interna al
pensiero gramsciano, oppure a una difficoltà interpretativa? Dobbiamo capire
ancora meglio che cosa intende Gramsci con ‘folclore’, e se nel suo uso del
termine non vi siano oscillazioni. Come già osservato, nei casi di positiva valutazione degli elementi culturali locali o popolari discussi nel libro di Boninelli il
termine folclore non viene mai usato. Gramsci parla di una cultura viva e naturale alla quale non attribuisce l’etichetta di folclore. Il termine si lega inevitabilmente, nel contesto degli anni ’20 e ’30, a quella tradizione di studi italiana che per Gramsci pecca, come si è visto, di ingenuità teorica: studi che
riducono il folclore al pittoresco e al primitivo, astraendolo proprio dai contesti di vita reale e dalla concreta determinazione sociale che lo caratterizza. Studi, oltretutto, che nel ventennio aderiscono con solerzia alle politiche ‘popolari’ del fascismo, sia nelle rappresentazioni idilliache e antistoriche del mondo
tradizionale sia negli esiti razzisti delle politiche dell’identità: un collaborazionismo su cui nei Quaderni non vi sono ovviamente notazioni esplicite, ma che
difficilmente poteva esser sfuggito a Gramsci. Si potrebbe allora suggerire che
quando parla di folclore Gramsci si riferisce all’oggetto creato da questa
‘scienza’, fossilizzato e destoricizzato, che egli si sforza di distinguere e districare da un concetto più vivo e storico di cultura popolare, quello capace di
esprimere «innovazioni creative e progressive, determinate spontaneamente
da condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione,
o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» (Q, 2312).
In un lavoro non pubblicato, Costanza Orlandi 22 ha suggerito la possibilità di intendere il concetto gramsciano di folclore come «l’aspetto sedimentato di una cultura popolare, che invece in quanto cultura è in continuo sviluppo e movimento». Il folclore è sottratto alla storia, racchiuso in una sfera
protetta dal confronto con la modernità. L’espressione usata nella prima stesura delle «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’» conferma questa lettura: l’‘agglome22 ‘‘Cultura alta’’ e ‘‘cultura popolare’’ nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, Tesi di laurea, Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2003-2004.
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA NEGLI STUDI FOLKLORICI
457
rato indigesto’ è definito qui «un museo di frammenti di tutte le concezioni
del mondo e della vita che si sono succedute nella storia» (Q, 89). ‘Museo’
richiama ancora una volta le pratiche dei folkloristi e rende bene l’idea dell’isolamento dal vivo flusso culturale e l’ingessatura in una dimensione statica. Si
potrebbe ipotizzare che nella seconda stesura il termine ‘museo’ venga lasciato
cadere perché incompatibile con il nuovo tema che viene introdotto, quello
delle potenziali capacità innovative, creative e progressive del folclore (tutto
il passo in questione, che come abbiamo visto è stato decisivo per la nascita
della nuova demologia italiana, era infatti assente nella prima stesura).
Sono consapevole che non si possono leggere i Quaderni accumulando
passi decontestualizzati a supporto di una certa interpretazione. Voglio però
almeno ricordare un’espressione molto efficace che Gramsci utilizza a proposito del folclorismo mentre sta in apparenza parlando di tutt’altro. Siamo
nel quaderno 11, e Gramsci sta criticando l’opera di Henri De Man, Il superamento del marxismo, nel quadro di una riflessione epistemologica sui
rapporti tra ‘sentire’, ‘comprendere’ e ‘sapere’. Com’è noto, per Gramsci
l’intellettuale organico non può sapere senza comprendere e non può comprendere senza sentire le «passioni elementari del popolo-nazione». Ebbene, «il De Man ‘‘studia’’ i sentimenti popolari, non con-sente con essi per
guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna – scrive Gramsci, e aggiunge che –: la sua posizione è quella dello studioso di folclore che ha continuamente paura che la modernità gli distrugga l’oggetto della sua scienza»
(Q, 1506). Sarebbe molto interessante qui riflettere sul ‘con-sentire’ le passioni popolari in chiave di metodologia di comprensione storico-antropologica; ma accontentiamoci per ora di registrare una ancor più netta polemica
contro un folklorismo che isola il suo oggetto dalla modernità e dai vivi processi culturali.
6. Nazionale, provinciale, folcloristico
Siamo cosı̀ tornati al famoso passo delle «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’»:
dove Gramsci fa rimarcare non tanto l’esistenza del folclore come cultura antropologica separata o parallela rispetto a quella delle classi dominanti; bensı̀
l’esistenza di uno scarto all’interno della storia della cultura italiana o europea,
per cui, in connessione con l’appartenenza di classe, si presentano ‘concezioni’
(imperativi morali, in questo caso) che non corrispondono a quelli ufficiali,
egemonici, formalizzati e sistematizzati dalle istituzioni e dagli apparati intellettuali dello Stato (o della Chiesa). A questo scarto produttore di differenza si
contrappone l’operazione dei folkloristi, che invece neutralizzano questa materia attraverso rappresentazioni oleografiche e fossilizzanti, che tendono a riportarla completamente all’interno dell’ufficialità egemonica.
Questa interpretazione sembra supportata da un’altra sorprendente pagina dei Quaderni, in cui ‘folclore’ viene utilizzato in modo del tutto incompa-
458
FABIO DEI
tibile con la tesi dei dislivelli. Si tratta di una nota del quaderno 14, dedicata al
rapporto tra ‘nazionale’ e ‘folcloristico’. Scrive Gramsci:
il folcloristico si avvicina al ‘‘provinciale’’ in tutti i sensi, cioè sia nel senso di ‘‘particolaristico’’, sia nel senso di anacronistico, sia nel senso di proprio a una classe priva
di caratteri universali (almeno europei). C’è un folcloristico nella cultura, a cui non si
suole badare: per esempio è folcloristico il linguaggio meledrammatico, cosı̀ come è
tale il complesso di sentimenti e di ‘‘pose’’ snobistiche ispirate dai romanzi d’appendice (Q, 1660).
A questo punto, Gramsci si diverte a enunciare una serie di esempi di che
cosa è folcloristico e di cosa è nazionale, e in quale grado. Vediamoli:
a) «Carolina Invernizio, che ha creato di Firenze un ambiente romanzesco copiato meccanicamente dai romanzi d’appendice francesi che hanno per ambiente Parigi, ha creato determinate tendenze di folclore»;
b) «Ciò che è stato detto del rapporto Dumas-Nietszche a proposito delle origini popolaresche del ‘‘superuomo’’ dà appunto luogo a motivi di folclore»
(qui Gramsci si riferisce al fatto che la nozione di superuomo, nella sua diffusione più o meno popolare, si è mischiata con un modello trasmesso da
romanzi d’appendice; per cui «pare si possa dire che molta sedicente superumanità nicciana ha solo come modello e origine ‘‘dottrinale’’ il... Conte di
Montecristo di A. Dumas» (Q, 1657); D’Annunzio ha in questo senso «caratteri folcloristici spiccati», anche se «meno di altri, per la sua cultura superiore e non legata immediatamente alla mentalità del romanzo di appendice»;
c) «Se Garibaldi rivivesse oggi, con le sue stravaganze esteriori etc., sarebbe
più folcloristico che nazionale»;
d) «Era nazionale [...] Cavour nella politica liberale, De Sanctis nella critica
letteraria (e anche Carducci, ma meno del De Sanctis), Mazzini nella politica democratica: avevano caratteri di folclore spiccato Garibaldi, Vittorio
Emanuele II, i Borboni di Napoli, la massa dei rivoluzionari popolari etc.»,
oltre a «molti individualisti-anarchici popolareschi [che] sembrano proprio
balzati fuori da romanzi di appendice»;
e) Infine, a questo «provincialismo-folcloristico italiano [...] è legato ciò che
agli stranieri appare essere un istrionismo italiano, una teatralità italiana,
qualcosa di filodrammatico, quell’enfasi nel dire anche le cose più comuni, quella forma di chauvinismo culturale che Pascarella ritrae nella Scoperta dell’America, l’ammirazione per il linguaggio da libretto d’opera ecc.
ecc.» (Q, 1660-61).
Gramsci riprende qui molte delle predilezioni e delle antipatie culturali
che pervadono largamente i Quaderni; ma è inusuale la loro associazione
con il folclore o meglio ancora con quello che potremmo chiamare il processo
di folclorizzazione, la «tendenza a creare motivi di folclore». Quale logica tie-
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA NEGLI STUDI FOLKLORICI
459
ne insieme questi disparati esempi, e che rapporto c’è tra questa pagina e
quelle delle «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’»? Intanto, lo stesso autore propone
una definizione di nazionale: «si può dunque dire che un carattere è ‘‘nazionale’’ quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato
di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello» (ibid.). Cavour, Mazzini e
De Sanctis rispondono a questi requisiti; Garibaldi, i Savoia e i Borbone, cosı̀
come le masse rivoluzionarie del Risorgimento, si collocano a un livello diverso, inferiore: sono legati a un contesto locale «anacronistico e provinciale».
Ma perché anche folcloristico? Questo aspetto sembra legato all’adozione
di un atteggiamento melodrammatico: una immagine esteriore ‘stravagante’,
bizzarra, teatrale, un linguaggio enfatico e retorico, un compiacimento istrionico nel mettere in scena il proprio più o meno consapevole provincialismo.
Tutte caratteristiche del fascismo, si noterà: si può pensare che Gramsci abbia
in mente proprio lo stile fascista come bersaglio dell’etichetta ‘provincialismo
folcloristico’. E occorre anche notare che questa contrapposizione tra nazionale e folcloristico avviene tutta all’interno della cultura egemonica, per meglio dire di una storia degli intellettuali. Da Carolina Invernizio a D’Annunzio,
sono gli intellettuali a creare gli spazi per gli atteggiamenti folcloristici. Esattamente come sono gli intellettuali a produrre quell’immagine ‘pittoresca’ della cultura popolare, che ostacola la possibilità di studiarlo come concezione
del mondo e della vita delle classi subalterne. Evidentemente Gramsci considera questi due fenomeni – l’ingessatura della cultura popolare come elemento pittoresco da classificare ed esibire, e la messa in scena melodrammatica di
caratteri da romanzo d’appendice – come aspetti di uno stesso processo politico-culturale; processo che rende provinciale la cultura italiana e le impedisce di accedere a una autentica dimensione nazionale.
7. Conclusioni: la misura dell’impatto di Gramsci negli studi italiani sulla cultura popolare
Proviamo a tirare le fila del ragionamento finora faticosamente dipanato.
Intanto, il libro di Boninelli dimostra in modo convincente come Gramsci
attribuisca grande importanza al radicamento locale e tradizionale della cultura; il che lo porta ad assegnare un positivo valore educativo ed espressivo alle
forme del popolare, dal dialetto alle etnoscienze ai generi estetici ed espressivi.
Queste forme appaiono tutt’altro che sopravvivenze arcaiche da estirpare per
far posto a una cultura più moderna e ‘superiore’: sembrano anzi le basi necessarie per il salto culturale che Gramsci auspica, per il conseguimento dell’educazione promossa dalla filosofia della praxis.
Tuttavia, nel riferirsi a queste forme vive di cultura radicata in tradizioni e
in mondi locali, Gramsci non usa il termine ‘folclore’. Quest’ultimo, nei Quaderni, ha spesso una connotazione più negativa: lo troviamo associato al concetto di senso comune e, come abbiamo appena visto, al ‘provincialismo’ –
460
FABIO DEI
cioè a livelli culturali anacronistici che la costruzione di una cultura ‘nazionale’
deve superare criticamente. Come abbiamo appena visto, questa accezione
corrisponde al ‘folclore-come-pittoresco’ ricostruito e rappresentato dagli studi sia romantici che positivistici, che fa il paio con l’ambiente culturale ‘melodrammatico’ costruito dalle tendenze più provinciali degli intellettuali italiani.
Si tratta in entrambi i casi di ambiti culturali ritagliati dal divenire storico, racchiusi su se stessi e sottratti al confronto con la modernità e con il futuro (è
importante ricordare che lo spirito con cui Gramsci analizza i fenomeni politico-culturali è sempre volto al futuro, alla ricerca dei percorsi possibili di trasformazione).
Le «Osservazioni sul ‘‘Folclore’’» rappresentano un momento di ricomposizione di questa tensione tra la valorizzazione della cultura popolare e la critica al concetto di folclore. In quelle paginette si mantiene l’idea del folclore
come insieme disorganico di fossili destorificati, totalmente dipendente dalla
cultura egemonica, e che rappresenta una forza d’inerzia da superare nel processo di educazione delle masse; ma, soprattutto nella seconda stesura, si fa
strada l’idea di una sua autonoma capacità creativa, innovativa e progressista,
dovuta proprio al legame storico con le classi subalterne. È qui che la riflessione sul folclore può ricongiungersi alle valutazioni sulla forza espressiva e
sulle capacità generative della cultura popolare che sono messe in evidenza
nello studio di Boninelli; cosı̀ come su questo punto potrebbe innestarsi quell’auspicato rapporto tra intellettuali e popolo basato sul ‘con-sentire’ le passioni e le forme di consapevolezza storica di quest’ultimo.
Quello che in definitiva Gramsci individua è uno scarto che potremmo
chiamare ‘strutturale’ fra il livello ufficiale e quello delle pratiche e dei saperi
diffusi. Il progetto egemonico, volto a un’amministrazione che controlla interamente la vita e a una elaborazione culturale assolutamente coerente e sistematica, non si realizza mai fino in fondo; non aderisce mai completamente alla
superficie dell’esistenza quotidiana dei ceti popolari. È in questa imperfetta
aderenza, nei buchi lasciati dalla rete egemonica, che si colloca una teoria della cultura popolare. Naturalmente, ciò in cui ci riesce oggi più difficile seguire
Gramsci è la grande prospettiva di filosofia della storia in cui colloca le sue
riflessioni, e la convinzione nella necessità di una ‘catarsi della modernità’
che finirà per eliminare quello scarto, costruendo una cultura egemonica in
grado di aderire interamente al sentire del popolo. Ma il disagio che questo
può provocare in noi, che stiamo dall’altra parte di un grande spartiacque storico, non rende meno feconde le analisi storico-culturali del pensatore sardo
– che in effetti hanno influenzato molte importanti teorizzazioni sulla cultura
popolare nella seconda metà del Novecento, da Raymond Williams a Stuart
Hall, da Pierre Bourdieu a Michel de Certeau, dai Postcolonial ai Subaltern
Studies.
Ma è adesso il momento di tornare alla domanda formulata inizialmente:
la discussione gramsciana del concetto di folclore legittima la costituzione di
una scienza demologica basata su una rigida demarcazione del proprio ogget-
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA NEGLI STUDI FOLKLORICI
461
to, distinta dall’antropologia per il fatto di studiare i ‘dislivelli interni’, dalla
sociologia e dall’analisi delle comunicazioni di massa per il fatto di studiare
solo la cultura subalterna (in buona parte tradizionale) e non quella egemonica (in buona parte moderna)? Abbiamo visto come l’uso di ‘folclore’ subisca
in Gramsci molte oscillazioni e connotazioni, a seconda dei contesti discorsivi
in cui si colloca. Ma tutto, proprio tutto, va in direzione contraria all’idea che
le concezioni del mondo e della vita delle classi subalterne debbano diventare
oggetto di una scienza positiva che le ‘isola’ dalle concezioni egemoniche e
dalla cultura moderna. Questo è semmai quanto facevano gli studi positivistici
con i quali Gramsci se la prende, tutti volti a costruire una rappresentazione
erudita e pittoresca di una cultura popolare estirpata dalla storia. Quando
Gramsci dice che il folclore andrebbe studiato piuttosto come concezione
del mondo e della vita eccetera eccetera, non sta semplicemente proponendo
una differente definizione di un ‘oggetto’. Sta invece mettendo in discussione
proprio quel processo di oggettivazione e fossilizzazione; sta sostenendo che
quelle concezioni e quei frammenti indigesti non possono essere compresi separatamente dalla cultura egemonica, dalla storia degli intellettuali, dai processi di modernizzazione che ne rappresentano la base e il contesto.
Tutto questo mi sembra talmente evidente che il problema interpretativo
più enigmatico finisce per essere un altro: com’è che dalla riflessione su Gramsci è potuta uscire una disciplina con forti tratti di continuità con il passato,
orientata allo studio di una ‘tradizione’ contadina dai tratti fortemente arcaici,
ossessionata – come abbiamo visto nei paragrafi iniziali – dal problema della
demarcazione del proprio oggetto rispetto alla cultura di massa e da quello
della difesa del ‘vero’ folklore rispetto al ‘falso’ folklorismo? Com’è possibile
che una disciplina che si voleva gramsciana non abbia neppure provato ad attrezzarsi per studiare gli aspetti culturali della condizione operaia? E ancora:
com’è possibile che non sia stato colto il fondamentale impulso riflessivo che
Gramsci proponeva agli studiosi della cultura popolare? Un impulso che non
riguardava tanto (o non soltanto), come sembrava negli anni ’60 e ’70, l’impegno politico degli studiosi, bensı̀ la necessità di porre se stessi all’interno del
proprio sapere, di comprendere che i rapporti tra cultura egemonica e cultura
subalterna sono in larga parte funzione della storia degli intellettuali e del loro
posizionamento sociale; e che lo stesso ‘folklore’ è più una creazione che una
‘scoperta’ dei folkloristi.
Si pone qui un problema di storia degli studi italiani che prima o poi andrà affrontato in modo sistematico – una storia sociale e non solo interna al
dibattito teorico e metodologico. Sicuramente ha influito un clima culturale
dominato nell’immediato dopoguerra dalla questione meridionale, che ha
portato a leggere Gramsci sullo sfondo di Cristo si è fermato a Eboli e ad accentuare la dicotomia fra una cultura subalterna, rurale, magica e primitiva e
una egemonica, urbana, scientifica e moderna. Occorrerebbe poi esaminare in
che misura le ragioni accademiche, più di quelle epistemologiche, possano
aver determinato la spinta verso un’autonomia della disciplina folklorica: e
462
FABIO DEI
in che misura il bisogno di demarcare il vero folklore dalla inautenticità della
cultura di massa, ignorando i legami che Gramsci costantemente traccia tra i
due ambiti, sia dipeso da motivazioni ideologiche o da questioni di posizionamento distintivo degli studiosi nelle dinamiche sociali dei primi decenni del
dopoguerra.23
Resta il fatto che l’impatto di Gramsci sulla nuova demologia del dopoguerra è stato meno forte di quanto siamo soliti rappresentarci. La disciplina
non ha raccolto fino in fondo gli spunti critici e le sollecitazioni teoriche ed
empiriche proposte nei Quaderni. Pur considerandosi ispirata da Gramsci e
adottandone in parte il linguaggio, si è attardata in una delimitazione rigida
e, come si dice oggi, essenzialista del proprio oggetto, identificato nei generi
della tradizione rurale; parallelamente, si è chiusa allo studio delle manifestazioni ‘moderne’ della cultura popolare e all’analisi riflessiva del ruolo degli intellettuali nella produzione dei dislivelli interni di cultura. La rottura con il
passato è stata cosı̀ solo parziale. È emblematico di ciò il fatto che uno dei
primi commentatori delle «Osservazioni sul ‘‘Folklore’’» fu proprio Paolo Toschi, massimo rappresentante del folklorismo prebellico e studioso largamente
compromesso con il regime. Toschi fu uno dei tre relatori a un dibattito organizzato nel 1951 dalla Fondazione Gramsci al Teatro delle Arti di Roma,
dedicato appunto a Gramsci e il folklore: gli altri due erano Ernesto de Martino e Vittorio Santoli. Tutti e tre gli studiosi si trovarono in qualche imbarazzo, tentando in qualche modo una ricomposizione tra le critiche gramsciane e
la tradizione disciplinare: de Martino era nella posizione migliore per cogliere
la portata antipositivistica di quelle critiche, e lo fece in effetti lucidamente; 24
seguı̀ Gramsci fino alle soglie della dissoluzione dell’‘oggetto’, salvandosi poi
in extremis attraverso il concetto di ‘folklore progressivo’. Toschi, da parte
sua, si difese dicendo che l’isolamento aveva impedito a Gramsci di «formarsi
un’idea esatta di alcuni problemi specifici», e che le sue tesi sul folklore prendono «le mosse da scritti di autori che ne han trattato solo incidentalmente o
che non possedevano le doti filosofiche necessarie per affrontare un problema
cosı̀ complesso».25
Chi parla è in realtà l’esponente principale del tipo di folklorismo che
Gramsci (pur con molto rispetto) ritiene superato, che coniuga l’approccio
classificatorio e l’erudizione filologica con uno strumentario teorico risalente
all’evoluzionismo. Toschi pubblicò il suo intervento romano su «Lares», la rivista che era stata durante gli anni ’30 il principale strumento di avvicinamento dei folkloristi al regime, di supporto del mondo degli studi alle ideologie
Ho suggerito qualcosa di più specifico in questo senso in F. DEI, Beethoven e le mondine, cit.
E. DE MARTINO, Due inediti su Gramsci: ‘Postille a Gramsci’ e ‘Gramsci e il Folklore, a cura di
S. Cannarsa, «La ricerca folklorica», 25, 1992, pp. 73-79.
25 P. TOSCHI , Dibattito su Gramsci e il folklore, in«Lares», XVII (n.s.), 1951, pp. 153-154; cfr. C.
ORLANDI, ‘‘Cultura alta’’ e ‘‘cultura popolare’’ nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, cit., p. 11.
23
24
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE GRAMSCIANA NEGLI STUDI FOLKLORICI
463
razziste, populiste e antimoderniste del fascismo e ai suoi usi della tradizione
in chiave di consenso.26 Nel clima intellettuale del dopoguerra, Toschi cerca
legittimazione culturale citando Gramsci. Pochi anni prima, mentre Gramsci
moriva nelle carceri fasciste, cercava legittimazione inviando costantemente
lettere e dedicando libri al Duce, e scrivendo ad esempio che «si vedono rispecchiati nella millenaria tradizione del nostro popolo i caratteri genuini inconfondibili della razza italiana. Lo studio delle tradizioni popolari si potenzia
quindi in un rinnovato interesse e palesa, oltre tutto, il suo vero valore sotto
l’aspetto politico e sociale».27
È difficile, naturalmente, formulare giudizi sui comportamenti tenuti sotto
il regime senza contestualizzare. Toschi si proclamerà antifascista a partire dal
’43; e in molti hanno sostenuto l’importanza del suo ruolo di mediazione nei
confronti dei tentativi fascisti di ideologizzare completamente l’ambito delle
tradizioni popolari (analogamente a quanto era avvenuto in Germania tra il
nazismo e la tradizione della Volkskunde). L’autorevolezza accademica avrebbe permesso a Toschi di sfruttare gli spazi concessi dal regime mantenendo al
tempo stesso un certo livello di rigore metodologico e di autonomia scientifica. Può darsi. Ma qui il punto è un altro, e cioè con quanta facilità Gramsci
– una volta divenuto di moda tra gli intellettuali – potesse essere citato e usato
in modo superficiale, senza andare ad intaccare veramente l’inerzia di tradizioni disciplinari profondamente incistate nelle istituzioni e nel senso comune.
Toschi e il suo stile folklorico nazionalista ed estetizzante possono rappresentare un caso limite. Ma è comunque legittimo chiedersi se la tanto sbandierata
rivoluzione gramsciana negli studi antropologici italiani ci sia stata veramente.
RIASSUNTO – SUMMARY
Prendendo spunto dall’analisi che Boninelli conduce in Frammenti indigesti, Dei
propone una lettura critica dello sviluppo dell’antropologia italiana dal secondo dopoguerra, enuclea alcuni problemi lasciati aperti, dai quali la riflessione contemporanea non può fare a meno di ripartire. Le «Osservazioni sul ‘Folclore’» presenti nei
gramsciani Quaderni del carcere e la lettura critica fattane da A.M. Cirese sono state
la base sia di quel dibattito avviato in Italia negli anni 1970-’80 sia della ‘rivoluzione
demologica’ che da lı̀ prende avvio. Per l’autore, la demologia italiana si è arenata di
fronte ai mutamenti storici che investivano il Paese proprio negli stessi anni in cui
quel dibattito si sviluppava: l’essersi concentrata sullo studio del mondo contadino
e non avere aperto ad altre istanze, è un po’ l’avere travisato le indicazioni gramsciane.
‘Demarcare l’oggetto’, isolandolo dal contesto culturale più ampio, è stato ritornare
26 S. CAVAZZA , La filkloristica italiana e il fascismo. Il Comitato Nazionale per le Arti Popolari, in
«La ricerca folklorica», 15, 1987, pp. 116-117.
27 In «Lares», 6, 1938, p. 467; cit. in R. CIPRIANI , Cultura popolare e orientamenti ideologici, in
Sociologia della cultura popolare in Italia, a cura di R. Cipriani, Napoli, Liguori, 1979, pp. 21-22.
15
464
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alle indicazioni della vecchia tradizione di studi verso la quale Gramsci era decisamente contrario. Più opportuno sarebbe stato indagare i nuovi sviluppi della società
italiana che da contadina si trasformava in industriale. La società multiculturale apre
ora ulteriori terreni d’indagine.
Referring to the analysis that Boninelli conducts in Frammenti indigesti, DEI proposed a critical reading of the development of Italian anthropology since the second
postwar period. He referred to some issues that are still unresolved, and from which
contemporary anthropology needs to pick up. The «Observations on ‘Folklore’» published in Gramsci’s Quaderni dal carcere [Prison Notebooks], and the critical reading
A.M. Cirese made of them, have been the basis for both the Italian debate originated
in 1970-80, and for the ‘folkloric revolution’ that then aroused. For Dei, Italian folk
studies have stranded in the face of historical changes that were investing the Country
in those same years when the debate developed: having concentrated on the study of
peasant world, and not having opened to other instances, partly signified a distortion
of Gramsci’s indications. To ‘demarcate the object’, isolating it for its larger cultural
context, meant going back to the indications of the old tradition of studies that
Gramsci firmly opposed. It would have been more appropriate to investigate the
new developments of the Italian society that, from peasant, was turning industrial.
Multicultural society now opens new research fields.
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Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli